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Il libro
L’autore
Frontespizio
Nota dell’Autore
Parte prima. PROLOGO
Il cono d’ombra
Oltremare
Dioniso
I sophói e Mosè
Teoria
L’ebraico geroglifico
Tavola dell’alfabeto ebraico geroglifico
Parte seconda. LA CREAZIONE
MOSÈ
La biografia della B
Addio all’Egitto
Il sacerdote Re‘Wu’eL
Arriva ’Elohiym
PERCHÉ PROPRIO DIO
I Nomi degli Dei
I PRIMI SETTE GIORNI
Primo Giorno
Secondo Giorno
Terzo Giorno
Quarto Giorno
Quinto Giorno
Sesto Giorno
Comincia il Settimo Giorno
‘EDEN
YHWH si mette al lavoro
Come l’’adam diventò due
Il frutto proibito
LE DUE STIRPI
I qayniti
L’altra stirpe
Quadro astrologico
2
IL DILUVIO
Dies irae
Altro che arca
L’INIZIAZIONE
Cronaca del Diluvio
Il grande mare nero
Il grande mare verde
Il Cerchio dell’Orizzonte Maggiore
L’unione delle due terre
KANA‘AN
Aritmetica della psiche
Lo scandalo nella famiglia
L’ultimo atto di Noaḥ
Note
Copyright
3
Il libro
4
L’autore
5
Igor Sibaldi
6
LIBRO DELLA CREAZIONE
7
Nota dell’Autore
8
Parte prima
9
PROLOGO
10
Il cono d’ombra
11
Fede
Per chi vuole capire il libro della Genesi, non vi è ostacolo
maggiore della fede religiosa così come la si intende in
Occidente.
Nelle grandi religioni occidentali è un po’ diverso che
nel resto del mondo: altrove, credere significa ritenere vere
cose che appaiono meravigliose; nell’ebraismo e nel
cristianesimo, si crede che molte cose scritte nella Genesi
siano incomprensibili e che vada bene così. Ma si crede
che vada bene così solo perché in questo libro sacro
appare incomprensibile ciò che contrasta con le grandi
religioni occidentali; e se lo si capisse, porrebbe troppi
problemi ai fedeli.
Nelle nostre grandi religioni, per esempio, i fedeli
imparano a sentirsi protetti e guidati da un Dio unico,
benevolo, onnipotente e onnisciente. Nella Genesi invece
hanno la meglio il Serpente, Caino, il Diluvio; inoltre Dio
è spesso nervoso, aggressivo, e a un certo punto fa questo
allarmante discorso:
Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi per la conoscenza del bene
e del male. Ora bisogna che non stenda più la mano e non prenda
anche dell’albero della vita, e ne mangi: altrimenti vivrà per
sempre! 1
12
qui. Nessuno sa dare una spiegazione coerente di quel
furto di frutta: i più sostengono che si tratti di
un’allusione a un atto sessuale – che cioè Adamo ed Eva,
rimasti soli in giardino, avrebbero assaggiato qualcosa
non di un frutto, ma di se stessi. Ma allora non si capisce
come mai Dio si infuriò, dato che poco prima li aveva
esortati a prolificare.
Crescete e moltiplicatevi, 2
13
fede intesa come non-voler sapere è rimasta intatta fino a
oggi.
Questa fede dà emozioni belle e facili – così come ne
darebbe a me un amico che, il prossimo inverno, passasse
a dirmi che nevica a venti metri da casa mia, ma non
davanti alle mie finestre. L’idea di una simile nevicata mi
sorprenderebbe, e il senso di sorpresa mi piacerebbe
talmente, che preferirei domandarmi se credergli o no,
invece di andare subito a vedere. Allo stesso modo, in
Occidente, si preferisce credere o non credere che Dio ha
creato il mondo in alcuni giorni, piuttosto che andare a
vedere nella Genesi che cosa significhino le parole «Dio»,
«creare», «mondo» e «giorni».
Così, invece di Anselmo – che era il tipo d’uomo a cui
importa se nevica o no – in Occidente ha prevalso la
categoria di fedeli e di teologi che preferiscono restare a
casa. Come scrisse Blaise Pascal:
14
Scienza
La fede, intesa come non-voler sapere, produce letteratura
teologica e mistica da tremila anni e più. Ha prodotto
purtroppo anche insanabili conflitti religiosi, poiché su ciò
che si sa o che si vuole capire è facile andare d’accordo,
oppure discutere in modo utile, mentre su ciò che si crede
è facilissimo litigare invano.
La fede, che nelle grandi religioni si oppone alla Genesi,
ha prodotto inoltre una specie di contagio nell’ambito che
solitamente si ritiene più lontano dalla religiosità: nella
scienza. Anche gli scienziati e gli appassionati di scienza
si accontentano infatti di non sapere che cosa sia scritto
nella Genesi, e credono a ciò che ne sentono dire. Così, per
esempio, a tutti gli appassionati di scienza è caro quel
luogo comune secondo cui la Genesi escluderebbe la teoria
dell’evoluzione. In realtà la Genesi non parla d’altro per
diversi capitoli – i primi nove. Sono bensì le nostre grandi
religioni a escludere quella teoria, e possono addurre la
Genesi a loro sostegno soltanto perché nessuno si prende
la briga di verificare.
Al tempo stesso, varie scienze attuali si lasciano
influenzare – senza accorgersene – da ciò che le grandi
religioni dicono della Genesi, ma che nella Genesi non c’è.
Per esempio, in biologia e in etologia si dà per scontato
che la specie umana sia la più evoluta del pianeta. 5 Non è
un’ipotesi scientifica né un dato di fatto: è solo un
preconcetto che la scienza prende dalle nostre grandi
religioni, e che le fa costruire l’idea di evoluzione in modo
da confermarlo (in realtà la specie umana è attualmente
molto dannosa per l’ambiente, e dunque ben poco
evoluta). Le nostre grandi religioni, a loro volta, danno
15
per scontato che l’idea di una superiorità umana su tutti
gli altri viventi si troverebbe nella Genesi. Ma, come
vedremo, la Genesi la intende in tutt’altro modo.
Oppure, un caposaldo dell’astrofisica è che l’universo
materiale debba per forza aver avuto un inizio. È una
pura ipotesi teorica, indimostrabile, eppure ipnotizza a tal
punto da far escludere altre possibilità – per esempio, che
il nostro modo di percepire il tempo e lo spazio abbia
avuto un inizio, ma l’universo materiale no. Anche questa
idea deriva direttamente dalle nostre grandi religioni, che
affermano di averla tratta dalla Genesi. Tuttavia, come
avremo modo di spiegare, la Genesi non dice nulla del
genere.
Abbiamo dunque la seguente situazione.
La Genesi non viene letta, non ci si riesce, e si crede che
dica alcune cose che non dice; queste cose sono
considerate fondamentali dalle nostre religioni e
influenzano le scienze.
Al contempo, si crede che la Genesi non dica alcune cose
che invece dice (per esempio, che la specie umana ha
un’evoluzione ben precisa): ma queste cose non
corrispondono a ciò che sostengono le nostre religioni, e
quando le scienze dicono quelle stesse cose, ritengono di
sostenere posizioni incompatibili con la Genesi.
Ne consegue che sia alle religioni, sia alle scienze
preme di far stare zitta la Genesi. Le une e le altre
esprimono una medesima mentalità, a cui quell’antico
libro è antipatico, e gli oppongono ognuna a suo modo –
ma come di comune accordo – una barriera di fede, cioè
una determinazione a non saperne nulla di preciso.
16
Filosofia
Qualche indicazione per comprendere la mentalità che ha
escluso la Genesi ci viene – sia pure indirettamente – dalla
storia della cosiddetta filosofia occidentale, e in particolar
modo dalla ragione per cui tale filosofia si chiama così.
È un interrogativo che sfiora la mente di molti, nelle
scuole superiori: a ovest di quale punto preciso si trova
questa filosofia? Ma è un interrogativo che non riceve
risposta chiara né alle superiori, né in seguito. Le storie
della filosofia sembrano dare per scontato che quel punto
da cui si estese il nostro ovest filosofico fosse, nel mondo
antico, da qualche parte in Grecia, o al massimo nelle
colonie greche dell’Asia Minore, ma non spiegano perché.
Lo si direbbe anche questo un non-voler sapere, una
fede. Si deve cioè credere nell’esistenza della filosofia
occidentale senza capirne il motivo, e benché sia una
contraddizione: i pensieri non sono piantagioni, le idee
hanno sempre viaggiato. Ma se si tratta di un non-voler
sapere, l’espressione «filosofia occidentale» diventa
innanzitutto una negazione: la costruzione di una barriera
misteriosa – da qualche parte in Grecia – oltre la quale
non si vuole guardare.
Come mai? Che cosa c’era là?
Non coste selvagge, o lande desolate, bensì la
transitatissima area orientale del Mediterraneo, che non
separava ma univa l’attuale Europa a ciò che si trovava a
est e soprattutto a sud-est. E ciò che l’Occidente ha deciso
di escludere dalla propria storia della filosofia è appunto
in quella direzione: in Egitto, in Palestina e oltre. Perché,
per quale necessità il Pensiero di quel che poi divenne
Europa volle tagliare fuori quell’interessantissima parte
17
del mondo, in cui tra le altre cose venne scritta anche la
Genesi?
18
Civiltà
La si direbbe una questione di civiltà.
Le civiltà – cioè quei grandi organismi etnico-politico-
socio-religiosi che si dividono la superficie del pianeta –
sono notoriamente aggressive e gelose. Ciascuna detesta
la sua vicina, non perde occasione di attaccare briga, e
appena può le strappa qualche popolo e lo asservisce: lo
«civilizza», cancellando tutto ciò che l’aveva legato alla
civiltà precedente. Tale civilizzazione può essere descritta
come una conversione a una fede, intesa come non-dover
sapere: una civiltà appare infatti, alle genti che le
appartengono, tanto più salda e degna di rispetto quanto
meno queste genti sanno delle civiltà vicine.
Tipico di ogni civiltà è sostenere che la sua religione, la
sua sapienza e le sue istituzioni siano non soltanto
migliori di quelle di altri popoli (sempre presentati come
più o meno «incivili») ma anche talmente giuste e potenti,
da aver plasmato la civiltà stessa – ragione per cui capita
di sentir parlare di civiltà cristiana, civiltà islamica eccetera.
Ma non è mai così: al contrario, ciascuna civiltà plasma
sempre la propria religione e la propria sapienza, tanto
quanto plasma le proprie istituzioni, come più le fa
comodo. E nel plasmarle esclude ciò che appartiene ad
altre civiltà. Il che farebbe apparire normale l’esclusione
della sapienza egiziana e orientale dalla sapienza
occidentale – tanto quanto lo è l’esclusione
dell’Illuminismo dal pensiero arabo o indiano.
Ciò che non è affatto normale è che la nostra civiltà non
sia riuscita a escludere del tutto un’opera straniera come
la Genesi. Ne ha certamente voluto ignorare il contenuto,
eppure l’ha posta a fondamento della propria religiosità:
19
cioè ha continuato per millenni a pensarci con timore (ma
perché temere un libro?) e a non poter fare a meno di
temerlo.
Se una cosa del genere capitasse a un singolo
individuo, il termine appropriato sarebbe: nevrosi. È un
tipico conflitto nevrotico non-voler sapere qualcosa e
intanto esserne profondamente influenzati.
Si tratterebbe allora di determinare tra quali impulsi e
quali resistenze, tra chi e cosa e tra chi e chi, precisamente,
si sia prodotta la nostra nevrosi biblica, e che cosa abbia
impedito che si risolvesse, nel corso dei millenni – così che
oggi, in un modo o nell’altro, la subiamo tutti. E anche che
cosa avverrebbe, se si potesse guarirne.
20
Oltremare
21
Rimozione
Certo, parlare di «nevrosi di una civiltà» non è per niente
corretto da un punto di vista scientifico, oggi. Una civiltà
non ha i genitori, non ha un’identità sessuale – e di
conseguenza uno psicologo non vedrebbe come possa
avere nevrosi. Ma per fortuna la psicologia è una scienza
giovane e tante svolte sono ancora possibili.
Intanto, non-scientificamente questa metafora della
nevrosi biblica funziona abbastanza bene. La Genesi è di
fatto un libro rimosso. Rimozione è quella pessima idea che
hanno sempre i nevrotici, di spostare altrove desideri,
pensieri o ricordi di cui la loro mente ha in qualche modo
paura.
È una pessima idea perché un «altrove» in cui spostarli
non c’è, nella mente. In qualunque angoletto della mente
si spingessero quei contenuti preoccupanti, sarebbero pur
sempre contenuti della mente, e sarebbero dunque dentro
di essa.
Il nevrotico risolve il problema della rimozione
fabbricando nella mente un altrove, a sue spese: riduce
l’ampiezza della sua mente cosciente, l’orizzonte della sua
attenzione, ritagliandone certe aree e stabilendo che sono
proibite. Lì ammucchia i contenuti da rimuovere, come
Barbablù ammucchiava cose terribili nella sua famosa
stanza. La differenza tra queste aree e la stanza di
Barbablù, è che costui abitava in un castello e la sua
stanza segreta era in fondo a qualche lungo corridoio;
nella mente dei nevrotici, invece, le aree vietate finiscono
sempre per diventare ingombranti: come un baule in un
monolocale; per non notarle bisogna muovere il collo in
maniere bizzarre.
Di bizzarrie bibliche, ne vedremo di continuo quando
esamineremo il testo della Genesi così come lo si traduce
22
di solito. Un anticipo? Genesi 6,1, versione consueta (e
sbagliata):
23
nevrotico chiama «io», e che non è affatto il suo «io». È
solo un piccolo, fastidioso groviglio di movimenti del
collo, di riflessi condizionati, di atteggiamenti artificiosi,
vecchi presupposti mai criticati e sentimenti confusi.
E scoprirlo dà certamente gioia, ma suscita sgomento,
perché chi scopre che quel suo «io» è falso, non è più
quell’«io»: è diventato un altro, un «io» nuovo e ignoto, il
che cambierà tutto nella sua vita; e non c’è nulla che l’essere
umano tema più del cambiamento. Perciò, anche chi tenta di
guarire da una nevrosi, spesso non ritiene affatto
necessario riuscirci.
Nel nostro caso, la guarigione dalla «nevrosi biblica»
cambierebbe tutto ciò che sappiamo della Genesi.
Scopriremmo un libro antichissimo, finora rimosso, pieno
di verità che per millenni i nostri avi non hanno
conosciuto, pur avendole sotto gli occhi.
Ma ciò ci aprirebbe una prospettiva spirituale e
psicologica del tutto diversa dalle nostre religioni – perché
quelle verità le contraddicono. Le nostre grandi religioni
ci apparirebbero insomma come l’«io» vecchio appare al
nevrotico che sta guarendone.
Forse ne verrebbe un’altra religione, nella quale credere
a qualcosa di diverso da ciò a cui si crede nelle altre. O
forse una qualche forma diversa di sapienza spirituale,
che con il nostro concetto occidentale di «religione» non
avrebbe nulla a che fare.
In entrambi i casi, il cambiamento sarebbe enorme:
riguarderebbe sia i territori che di solito si considerano
religiosi, sia quelle aree delle scienze e della filosofia che
le nostre grandi religioni influenzano, oggi, direttamente
o indirettamente.
Qualche secolo fa, prospettare un simile cambiamento
sarebbe stato pericoloso e illegale. Oggi no, per nostra
fortuna; ma può inquietare. I dettagli di tale inquietudine
24
sono a loro volta molto interessanti, e li segnaleremo via
via – in corsivo – mentre costruiamo un accesso a queste
aree proibite della nostra mente.
25
Traumi biblici
Proviamo a risalire innanzitutto lungo la serie dei traumi
della nostra «nevrosi biblica», in cerca della sua origine.
Eresie
Scismi
26
immediatamente precedute da una traduzione della
Bibbia in una lingua parlata dalla gente comune – in
slavo, nel IX secolo, e in tedesco, nel XVI, a opera di
Lutero. Entrambe le volte, insomma, un improvviso
aumento del numero dei lettori si accompagnò a una
sconvolgente spaccatura nel mondo cristiano – come se
non fosse possibile concepire la scoperta del libro senza
che ne seguisse un’esplosione di odio. E ciò è molto
nevrotico: il contatto con le aree proibite, rimosse,
produce spesso fasi di caos e di aggressività.
Antisemitismo
27
perseguitata di rado e sempre per breve tempo.
I pogrom, i ghetti, i lager, le ossessioni e le
superstizioni antiebraiche appaiono piuttosto come
espressioni di un panico aggressivo, di un caos mentale,
provocato proprio dal legame tra gli ebrei e il libro
rimosso. Quel libro era vietato, pericoloso (dato che a
parlarne troppo si avevano guai), traumatico e straniero,
perciò anche gli ebrei lo erano, perché quel libro veniva
da loro, parlava di loro. Ma sia le eresie, sia gli scismi, sia
l’antisemitismo appaiono come prodotti, e non come
l’origine della nevrosi biblica. Risaliamo perciò più oltre.
28
Traumi più antichi e più vasti
La controversia tra Agostino e Gerolamo
29
Certo, Agostino non era così pazzo come quel suo
argomento potrebbe far supporre. Calcolava anche
ragioni di opportunità politica: il magistero della Chiesa
avrebbe subìto un duro colpo se la traduzione della Genesi
dall’ebraico avesse dimostrato che la teologia cristiana era
partita male. «Ma come mai non ve ne eravate accorti
prima?» avrebbero obiettato da ogni parte, e ci sarebbero
stati troppi eretici da distruggere.
Nondimeno, quel suo argomento contro il testo
originale della Bibbia poteva essere pensato e risultare
convincente soltanto in una dimensione culturale già molto
nevrotica, nella quale un libro ebraico non era già più un
libro, quanto piuttosto un pericolo straniero. Tipico dei
nevrotici è vedere in una cosa non la cosa stessa, ma solo
le conseguenze che la cosa può avere per il loro fragile
equilibrio psichico. E Agostino prevalse perché i più la
pensavano come lui.
Dunque bisogna risalire ancora indietro nel tempo, per
scoprire perché i più – nel IV secolo – la pensassero così.
Gesù
30
ma non come i loro scribi». 2 E questo era veramente grave
per loro, e particolarmente prezioso per noi: in Israele,
scriba era il titolo di chi aveva studiato in qualche scuola
rabbinica, l’equivalente del nostro teologo, o biblista.
Dunque ciò che Gesù sapeva e divulgava «con autorità»
era qualcosa che la cultura religiosa ufficiale non
divulgava – o che forse gli scribi ignoravano del tutto.
Dunque gli scribi ci ingannano? Si fingono esperti?
avrebbe potuto pensare la gente. Ma così non fu.
L’autorità religiosa ebbe la nevrosi biblica dalla sua parte,
già allora: la gente ascoltò Gesù per un po’ e poi lo lasciò
perdere; l’ultima sera, gli erano rimasti soltanto undici
seguaci. Quando lo processarono, la gente tumultuò
perché fosse condannato; si preferì dare ascolto agli scribi,
invece che a lui. Con il suo divulgare la Bibbia, Gesù
aveva toccato l’area rimossa, aveva suscitato il caos, e quel
caos gli si rivolse contro, sotto forma di ferocia popolare.
«Non ci indurre in tentazione»: è il verso più problematico del Padre Nostro, e qui in
quella ferocia trova la sua spiegazione. Fa’ che ciò che riguarda Dio non susciti forze
aggressive nella folla.
31
Egitto
Altri egittofili
32
sposando Cleopatra; ed era stato ucciso. Marco Antonio
aveva rinnovato il tentativo poco dopo. Tragicamente.
Alessandro Magno, più di due secoli prima di Cesare,
era riuscito per breve tempo a congiungere in un unico
impero la Grecia e l’Egitto. Era stato consacrato faraone,
con il titolo di
Atlantide
Quel difficile confine con l’Egitto era ben noto già prima
di Alessandro.
L’istitutore di Alessandro era Aristotele, e il grande
maestro di Aristotele era stato Platone, che dell’Egitto
parlava con una reverenza piena di allusioni. Un paio di
secoli prima di Platone, in Egitto avevano soggiornato a
lungo i primi pensatori greci, i cosiddetti «pre-socratici»,
che Platone amava a tal punto da ritenere che soltanto
33
loro, in Grecia, avessero posseduto la Sapienza – Σοφία,
Sophia, in greco – e che li si potesse perciò chiamare sophói,
cioè «sapienti», mentre dopo di loro non fosse rimasta che
la philo-sophia, cioè il bisogno, la nostalgia della vera
Sapienza, di cui si era perduto l’accesso. Su come la via
della Sapienza si fosse chiusa, Platone costruì il mito di
Atlantide, nei dialoghi Timeo e Crizia, mettendolo sulle
labbra di un sacerdote egiziano:
Una conseguenza di quel cataclisma è anche la banale fede che un continente chiamato
Atlantide sia esistito da qualche parte in un’era preistorica. Questa fede sembrerebbe
34
un eccesso di immaginazione ed è invece il contrario: una carenza di intuizione. È
come se chi dicesse «tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino», si sentisse
domandare di che razza è la gatta. Colgo l’occasione per segnalare che questo tipo di
«concretismo» è molto diffuso anche tra i biblisti: proprio come si crede nella reale
esistenza di un continente atlantideo, si crede che Adamo fosse un uomo ed Eva una
donna, che durante il Diluvio piovve molto, e via dicendo. Sono soltanto dei
«nient’altro che».
35
Danao
Ma ora che abbiamo stabilito un nesso tra l’esclusione
della Genesi e l’esclusione di quella Sapienza d’Oltremare,
possiamo risalire nel tempo ancora più in là, nel
rintracciare il conflitto originario. E si scorgono altri
traumi antichissimi su quel confine.
Tra i più eloquenti vi è il mito di Danao e delle sue
figlie, che è bene qui raccontare.
36
cinquantesima figlia di Danao se ne innamorò e lo aiutò a
fuggire. Si chiama Ipermnestra – che in greco
significherebbe: «dall’eccezionale memoria».
Lirceo tornò, detronizzò Danao e sterminò le
quarantanove cognate assassine; e nell’Aldilà costoro
vennero condannate a riempire eternamente d’acqua
brocche dal fondo rotto. Il vecchio Egitto non ebbe la
consolazione di vedere quel suo figlio sul trono di Argo,
poiché era morto di crepacuore dopo l’eccidio degli altri.
37
una nostra civiltà più grande, nella quale il Mediterraneo
sud-orientale non sarebbe apparso come un off limits.
«Egitto» e «Danao» erano fratelli.
«Egitto» erano naturalmente gli egiziani, mentre danai
era una denominazione degli achei, cioè di uno dei tre
grandi ceppi etnici greci. Ciò non significa che le due
stirpi potessero derivare da un’antica popolazione: nei
miti, i tempi verbali non vanno mai presi alla lettera; è un
po’ come nel linguaggio infantile, quando dicevamo:
«Facciamo che io ero il ladro e tu eri il poliziotto».
Quest’uso del passato sostituisce antiche forme verbali
che nelle nostre lingue sono scomparse, e che
esprimevano l’immaginabilità di una condizione o di
un’azione. Ci avvicineremmo al vero se traducessimo
quell’«erano» con «sarebbero potuti essere» e «potrebbero
essere tuttora», oppure col dire che Egitto e Danao «sono»
fratelli – dando a quel «sono» un’intonazione particolare,
intima e fatale.
«Sono» fratelli, dunque. Ma diventano nemici. I loro
destini non si congiungono come Egitto avrebbe sperato;
Danao non vuole. E quarantanove volte riesce a
impedirlo.
Anche i numeri, nei miti, vanno presi con intelligenza.
In genere non indicano quantità, ma rapporti. In un
linguaggio a noi più familiare potremmo dunque dire: il
novantotto per cento di quel che dall’Egitto giunse in
Grecia, non vi mise radici; venne «decapitato», gli fu tolta
la testa: non poté, cioè, influire sul modo di pensare dei
greci. Solo un cinquantesimo, un due per cento, scampò,
grazie a Ipermnestra – colei che ha superiore memoria – e
divenne «re».
Quel novantotto per cento soppresso è ciò di cui anche
Platone lamenta la scomparsa nella mente greca. Quei
quarantanove matrimoni finiti nel sangue hanno lo stesso
38
significato del fallimento dell’idea di un impero
mediterraneo, voluto invano da Cesare e Alessandro.
L’ombra lunga di quel novantotto per cento diventa,
qualche secolo dopo, il cono d’ombra in cui tanta parte
della Genesi rimane «decapitata». E sorte non migliore
toccò anche all’originario insegnamento di Gesù, di cui
possiamo ben dire che il novantotto per cento di quel che
ne riportano i Vangeli sia rimasto inefficace, «decapitato»
in Occidente.
Quanto alle brocche rotte, a me ricordano molto il ragionare dei biblisti, dei teologi,
sulla Genesi: le giravolte della loro fede, le loro incoerenze, le loro inconcludenze, il
loro modo di far passare il tempo, di perderlo.
39
Ipermnestra e la grande vita
Che due civiltà si escludano l’un l’altra è, come abbiamo
visto, nell’ordine delle cose. Ma un mito non nasce là dove
tutto va secondo il normale ordine delle cose. Un mito
tratta sempre di ciò che è diverso, preoccupante e
mirabile. E nel nostro mito l’egizio Lirceo diventa un «re»
in Grecia. Questo è strano. Un germe d’Oltremare –
d’Oltreatlantide, avrebbe detto Platone – penetra in
Occidente e viene respinto, ma non del tutto. Rimane e
regna, e vive più a lungo della civiltà da cui è provenuto
(il padre «Egitto»; e così fu anche per la Genesi, che
sopravvisse alla civiltà egiziana; e per il Vangelo, che
sopravvisse alla distruzione della Palestina). E il mito di
Danao narra che tale eccezione avviene per l’amore e il
coraggio di una donna, capace di disobbedire al padre.
A quale epoca risalga il mito non si sa: potrebbe datarsi
al XVI come al VI secolo a.C. Si può invece datare con
precisione un suo improvviso rialzo di popolarità: nel V
secolo a.C., Eschilo imperniò sul mito di Danao e di Egitto
una serie di tragedie in rapida successione: Gli egizi, Le
supplici e Le Danaidi.
L’argomento doveva essere di attualità: doveva cioè
apparire importante allo Stato ateniese, che finanziava la
rappresentazione di tragedie. Ed era infatti l’epoca in cui i
pensatori greci andavano a studiare in Egitto. Nelle
Danaidi era rappresentato il processo a Ipermnestra, rea di
aver disobbedito al padre: colpa comunque
ingiustificabile per la morale greca, e qui aggravata dal
fatto che il padre rappresentasse la patria, la civiltà, in
conflitto con lo straniero, con l’egiziano. Alto tradimento,
dunque. Ma in difesa della fanciulla interveniva la Dea
40
Afrodite; della sua arringa è sopravvissuto un frammento:
41
La rimozione di sé
In quell’energia vitale le civiltà – pur essendo gli
organismi più grandi e potenti che esistano sul pianeta –
possono avere un avversario temibile. In greco era
chiamata: zōḗ.
ζωή
Siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i
malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 9
42
l’arringa di Afrodite, poiché significa non lasciarsi
condizionare da padri terreni, 10 cioè ragionare e
comportarsi secondo una prospettiva universale, invece
che in obbedienza a vincoli famigliari, culturali e sociali.
Significa essere innanzitutto individui, liberi, autonomi. E
infatti:
43
da tutte le civiltà, come istruttivo esempio di ribelle finito
male.
È ben comprensibile che quanto più si appartenga a
una civiltà – quanto più si sia membri di una famiglia,
allievi o insegnanti di una scuola, membri o sostenitori di
un partito, dipendenti di un’azienda o di
un’amministrazione, fedeli di una religione, esemplari di
una razza, sudditi di uno Stato – tanto meno si riesca a
capire la Genesi, e a volerla capire. La si esclude, la si
rimuove, perché narra proprio di ciò che in tutte quelle
appartenenze viene rimosso. Un Dio che dice «io» e che
insegna a dirlo –
44
La Terra Promessa
La Genesi è un libro contro le civiltà; non voleva
appartenere a nessuna di esse; o chissà, forse apparteneva
a una civiltà molto sui generis, che non considerava un
individuo libero come un nemico, e della quale oggi non
resta traccia in nessun continente. Quella civiltà non fu
l’Egitto, certamente. L’Impero egiziano, rigidamente
gerarchico, fu solo il luogo dove nacque la Genesi, e con
essa quell’idea dell’«io» a cui le civiltà sono allergiche: e in
tal senso i greci parlavano dell’«Egitto» come di una terra
da cui si poteva trarre sapienza – un po’ come nella
seconda metà del Settecento si parlava in tutto l’Occidente
della Francia come di un paese evoluto e pericoloso, non
certo per le sue istituzioni, ma perché da lì veniva
Voltaire.
Mosè nacque in Egitto, vi imparò molte cose; imparò
anche l’importanza dell’«io sono», che nelle preghiere
quotidiane degli egiziani era una sorta di mantra per
identificarsi con il Dio. Il devoto ripeteva per esempio:
45
Promessa, in una civiltà di «io» e non di «noi», nella quale
Mosè, Ipermnestra, Gesù potessero sentirsi «profeti in
patria». Oppure la Terra Promessa era quello stesso andar
via: un perenne guarire dalla nevrosi-civiltà, finché le civiltà
esisteranno.
46
Dioniso
47
Il Dio di
Afrodite dà quella bella descrizione della zōḗ, ma in
Grecia il Dio della zōḗ era Dioniso. Ne seguiremo ora le
vicende, per un buon tratto, e scopriremo poi quanti punti
di contatto ha con la Genesi e l’Esodo, proprio attraverso
l’Oltremare. Dioniso era infatti anche il Dio di quel
passaggio a sud-est; e il Dio di tutto ciò che scombina
regole e limiti – e perciò anche dell’ebbrezza. Ed era il Dio
dell’esclusione; e dei viaggi; e della libertà individuale; e...
Ma prima di approfondire la conoscenza di questo Dio,
e di constatare in quale misura influenzò Mosè e Gesù,
occorre soffermarsi su quel che gli antichi intendevano
con il termine «Dio», e soprattutto con l’idea che un Dio
fosse il Dio di qualcosa, e non di qualcos’altro. È un tratto
della mente antica che non sopravvive nell’Occidente
attuale: la nostra nevrosi biblica l’ha eclissato,
«decapitato». A maggior ragione conviene indagare in che
cosa consisteva, dato che il nostro intento è sapere cosa ci
siamo persi, per colpa di questa nevrosi, e cosa potremo
dunque ritrovare uscendone.
Per la moderna sensibilità occidentale, il fatto che un
Dio antico fosse il «Dio di qualcosa» depone a suo sfavore,
perché quel «di» viene avvertito come una limitazione
della sua portata divina.
Nelle nostre grandi religioni, non è legittimo neppure
affermare che Dio sia il Dio di tutto: per certo, tutto ciò
che gli uomini possono conoscere o immaginare è
proprietà divina (diavoli compresi) ma Dio, per essere
veramente Iddio, deve venire pensato come al di là di
tutto, superiore a tutto, il che nel linguaggio specialistico
si chiama: trascendente.
Questa sua assoluta trascendenza concorda con la fede
così com’è intesa in Occidente: poiché esclude che di Dio
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si possa sapere più di tanto. Noi siamo qua e Lui è «in
cielo, in terra e in ogni luogo» ma soprattutto altrove,
rispetto a qualunque cosa si trovi in cielo, in terra e in
ogni luogo. È un Dio trascendente a tal punto che nei
nostri paesi non si trova alcuna chiesa, cattedrale o
cappella dedicata a Dio: i templi cristiani sono dedicati
alla Vergine, alla Maddalena, ai santi, a questo o quel
momento della vita di Gesù, ma mai a Dio – perché, se
così non fosse, Dio sarebbe il Dio di quella determinata
chiesa e non di quella poco più in là. Il che a un cristiano è
inconcepibile.
Tutto ciò viene avvertito come un grande passo avanti
rispetto agli Dei antichi, che si dicono invece immanenti,
ovvero immersi in ciò che esiste.
Gli antichi non avrebbero approvato. Avrebbero
obiettato che anche per loro il divino si trova al di là di ciò
che l’uomo conosce, ed è sempre più grande di qualsiasi
cosa visibile: tuttavia lo si trova anche in ciò che esiste, e
attraverso le cose visibili gli uomini possono imparare a
conoscerlo sempre più. Perciò Platone poté scrivere che
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Dio e l’amore
«Beh, ma anche il nostro Dio è nel mondo», replicherebbe
un teologo moderno. «Dio agisce incessantemente nel
mondo, perché ama il mondo. Dio è amore.»
Un antico avrebbe preferito dire che l’amore è Dio. E
quella frase «Dio è amore» gli sarebbe sembrata insensata
e sospetta, sapendo che per i moderni Dio è trascendente.
Nell’idea che un Dio trascendente sia amore, un antico
avrebbe visto svanire la concretezza dell’amore stesso:
perché se un Dio inconoscibile è amore, anche l’amore
evapora in un qualcosa di inconoscibile – e non è più quel
sentimento e quella passione che abbiamo cominciato a
conoscere fin da bambini.
Viceversa: se l’amore è Dio, quanto più si conosce
l’amore tanto più si sperimenta Dio. Mentre chi pensa che
Dio sia amore, dovrebbe conseguentemente credere che
solo se si sa chi sia Dio si possa capire l’amore.
«Ma è certamente così», spiegherebbe un teologo
moderno, «solo se sai cos’è Dio, capisci che cosa sia
l’amore con il quale Egli ha creato il mondo e lo tiene in
vita.»
«Ma voi dite che non si può sapere cos’è Dio»,
obietterebbe un antico.
«Appunto», direbbe il moderno, imperturbabile.
E qui probabilmente litigherebbero.
Il teologo moderno sosterrebbe che le cose reali non
servono a conoscere Dio, perché sono limitate, mentre Dio
è infinito; e che perciò scienza e religione sono due ambiti
del tutto diversi.
L’antico non capirebbe, perché per lui scienza e
conoscenza sono la stessa cosa, e si rifiuterebbe di
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ammettere una conoscenza che escluda a priori ciò che lui
chiama Dio, e un’idea del divino separato dalla materia.
Troverebbe sommamente strano anche il fatto che gli
scienziati moderni escludano Dio dai loro studi. Il nostro
mondo gli apparirebbe più vuoto del suo.
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Il Dio che viene da fuori
La zōḗ è Dioniso, e in tal senso egli ne è il Dio. Da ciò che
si narra di lui possiamo dunque sapere che cosa la zōḗ
rappresentasse per la sapienza antica, e in quali rapporti
si trovasse con altri Dei – cioè con altre grandi forze che
operano nell’esistente: nell’universo, nella psiche, nelle
opere umane e nelle società.
Tratto fondamentale di questo Dio è il suo essere
straniero, esotico. Alcuni studiosi interpretano tale
esotismo in base alla noiosa categoria del «nient’altro
che». Sostengono cioè che Dioniso avesse fama di
straniero, soltanto perché lo era in senso geografico: che si
trattasse di una divinità barbarica, originaria della Tracia
(l’attuale Bulgaria orientale) e solo in seguito
naturalizzatasi in Grecia. Ma ciò non risulta da alcuna
fonte. 2
Più saggio è riconoscere, in quel suo essere straniero,
innanzitutto una qualità profonda, simbolica. Dioniso era
estraneo non soltanto alla Grecia, ma a tutto. Fin dalla
nascita.
Il padre era Zeus, il Dio supremo; la madre era
Persefone, Dea dell’Oltretomba. Fu generato nelle
profondità dell’Hades, dove non nacque mai nessun altro
Dio: Zeus assunse l’aspetto di un serpente per fecondare
Persefone, e il parto avvenne in una grotta profonda. Da
qui uno degli appellativi di Dioniso: Khthónios, il
«Sotterraneo».
Ma un altro suo appellativo era Dimḗtōr, «Colui che ha
due madri». C’è infatti un’altra versione secondo la quale
la madre di Dioniso fu una donna terrena, Semele (nome
d’origine frigia, il cui significato pare fosse, di nuovo,
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«Sotterranea»). E non lo partorì: le fu tolto dal grembo al
sesto mese, quando Semele morì orribilmente, per aver
voluto conoscere troppo. Avvenne così: Zeus le si era
sempre mostrato sotto l’aspetto di un bellissimo giovane,
e Semele desiderò vederlo almeno una volta qual era
davvero, in tutto il suo fulgore: insistette, pregò, benché
sapesse che la luce irradiata da Zeus era troppo intensa
per i mortali. Zeus acconsentì, le si mostrò, e in un attimo
lei ne fu incenerita. Solo l’addome di Semele rimase
intero, grazie a una pianta d’edera che in quell’attimo era
tra lei e il Dio. Zeus vide il feto che si agitava nei resti
dell’amante, e decise di portare a termine lui la
gravidanza. Si incise una coscia, sistemò il feto nella ferita,
la cucì. Riuscì a tener nascosta la cosa alla sua gelosissima
consorte, Hera, che di certo avrebbe ucciso il bambino, se
l’avesse saputo.
Quale di queste due versioni della nascita di Dioniso
sia la più vera, non è domanda da porsi. Scopo dei miti
che, nel corso dei secoli, si accumularono intorno a
qualunque Dio greco non era costituire una biografia
verosimile, tale cioè da soddisfare ai criteri logici che
valgono per le biografie umane; scopo dei miti era
esprimere con precisione tutto ciò che si era intuito e
scoperto di un Dio e di ciò in cui il Dio si manifestava.
Qui l’argomento è la zōḗ, che è Dioniso; e i miti della
nascita di Dioniso narrano il nascere della zōḗ. La zōḗ ha
una gestazione sotterranea: come le energie vegetali che
durante l’inverno si preparano, sottoterra, alla nascita
primaverile. Ma la sua gestazione può essere anche nei
muscoli d’un maschio: perché anche il vigore è zōḗ.
E il maschio qui è Zeus, ed è importante che vi sia in lui
una ferita perché Dioniso nasca. Zeus è il Dio del potere,
della capacità di dominare, ed è anche il più greco degli
Dei. La Grecia era allora l’Occidente. E Dioniso è la sua
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ferita segreta, nascosta, amata.
Ciò valga anche per noi. Di certo, ognuno ama ciò che rimuove. È difficile ammetterlo,
ma non basta il timore del cambiamento a spiegare la capacità dei nevrotici di
sopportare i danni, il dolore che la rimozione produce. Li sopportano come circostanze
di un amore difficile, al quale non vogliono rinunciare ma che non osano confessare.
Così anche l’Occidente, in fondo, ha sempre amato in segreto ciò che ha nascosto a se
stesso.
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Il Dio sconfitto
Appena il bimbo nacque, Hera lo venne a sapere e
incaricò i Titani di ucciderlo.
I Titani compaiono spesso nei miti greci, in funzione di
killer: sono personaggi cupi, ottusi, feroci, più antichi di
Zeus e degli altri Dei dell’Olimpo. Rappresentano il
passato, o meglio, tutto ciò che nel passato è torpido e
distruttivo è i Titani.
Perciò non fu affatto una buona idea dare quel nome al transatlantico, all’inizio del
secolo. In nomine omen. Le parole hanno un loro speciale potere, che si radica nella
loro storia millenaria, e che connette a quella storia la psiche di chi le adopera. Come
spiriti in bottiglia, lampade di Aladino.
Bruciare il passato. Così, nella prospettiva espressa per la prima volta in Dioniso,
accadrebbe ogni volta che riuscissimo a far fare al nostro passato la fine dei Titani.
Cogliendolo sul fatto, mentre divora ciò che in noi è vivo, e brucerebbe come bruciano i
vampiri alla luce del sole.
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fuliggine presero poi forma gli esseri umani.
Olimpiodoro, filosofo e alchimista del V secolo d.C., la
commentava così:
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Lo smembramento
Ma il corpo del piccolo Dioniso non venne divorato per
intero. Si narra che un’altra figlia di Zeus, Atena, si
avvicinò di soppiatto ai Titani intenti a sbranarlo, e riuscì
a portarne via qualcosa – i più dicono il cuore – nascosto
in un cesto per il frumento. Quel qualcosa, secondo
alcuni, fu sepolto da Rea, madre di Zeus, e ne nacque la
vite.
Altri vollero congiungere le varie versioni della nascita
di Dioniso: narravano perciò che il bambino ucciso fosse il
figlio di Persefone e che, per farlo rinascere, Zeus prese
ciò che non ne era stato divorato e lo bollì fino a
dissolverlo, poi diede da bere quel liquido a Semele, la
quale ne rimase incinta. Secondo questi altri racconti,
Semele non morì nel modo che ho già riferito: partorì
regolarmente, dopodiché suo padre, re Cadmo – sempre
su istigazione di Hera – fece chiudere Semele e il neonato
in una cassa e li buttò in mare. La cassa venne portata
dalle correnti su una qualche riva lontana, e lì Semele
morì per gli stenti, mentre Dioniso sopravvisse.
Quest’ultima versione del mito di Semele è debole e
macchinosa, e non sarebbe valsa la pena di riferirla se non
ne emergesse la connessione, nettissima, di Dioniso con
un altro grande sconfitto, Osiride, il Dio egiziano della
fertilità – che naturalmente è anch’essa un aspetto della
zōḗ. Osiride venne infatti ucciso dal perfido Dio degli
ostacoli, Seth, a due riprese: Seth dapprima lo chiuse in
una cassa, che gettò nel Nilo; poi andò a cercarla, l’aprì e
terminò l’opera smembrando Osiride in tanti pezzi, che
gettò in luoghi diversi.
Nel mito egiziano è Iside, la sorella e sposa di Osiride, a
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fare la parte di Atena, ma con una differenza: Iside ritrovò
uno dopo l’altro tutti i brani dello sposo, e li ricompose, a
eccezione del fallo, che era stato divorato da un pesce.
Nondimeno Iside seppe riportare in vita Osiride e concepì
con lui, in modo misterioso, il bellissimo Horo, che in
seguito avrebbe vendicato il padre. E da questa
connessione con Osiride gli intrecci che fanno capo a
Dioniso continuano a moltiplicarsi.
La cassa affidata alle acque da Cadmo e da Seth si
riallaccia alla «cassetta» nella quale Mosè venne affidato
al Nilo.
E anche alla mangiatoia in cui Gesù venne deposto
appena nato. E sia Mosè sia Gesù nacquero tra pericoli, in
mezzo a stragi di neonati.
E Mosè narrò dell’arca portata dalle correnti del
Diluvio.
Dio delle nascite difficili, Dio dei pericoli acquatici,
Dioniso sta dietro, sta all’origine di tutte queste vicende.
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Il cuore e il fallo
Ma stavamo dicendo del cuore del piccolo Dioniso.
Tra quel cuore e il fallo perduto di Osiride il legame è
più stretto di quel che sembra. Il «cuore» di Dioniso era
soltanto una metafora pudica: una delle cerimonie
principali sia del culto di Dioniso sia del culto di Osiride
era la falloforia, cioè la processione durante la quale
veniva mostrato il fallo del Dio, scolpito in legno; nelle
processioni greche lo si portava in un cesto per il
frumento.
Anche il significato del fallo perduto di Osiride è lo
stesso di quello del «cuore» ritrovato dopo lo scempio del
piccolo Dioniso. Nel mito dionisiaco gli uomini nascono
dalla «fuliggine» di Titani che si sono cibati del corpo del
Dio, ma non del suo cuore-fallo: e ciò significa che nelle fibre
dell’umanità vi è qualcosa di Dioniso, ma non la sua
potenza generativa, il «cuore» stesso della zōḗ. Quel
«cuore» è tornato nella terra, e ha prodotto la vite: nel
succo della vite, nel vino, lo si può ritrovare e reintegrare.
Nel mito egiziano, Iside riesce a ricostituire il corpo di
Osiride: ma il suo fallo è nel Nilo, le cui piene costituivano
una manifestazione colossale della zōḗ; e la potenza di
quel fallo assimilato al Nilo è ciò che feconda Iside, così
come le piene del fiume fecondavano ogni anno l’Egitto.
Sia in un caso sia nell’altro, perché il ritrovamento del
Dio sia completo occorre che qualcuno – gli uomini o
Iside – si aprano alla zōḗ, siano in grado di accoglierla.
Così ritrovano ciò che in loro manca di Dioniso o di
Osiride, e in tal modo annientano del tutto l’azione
distruttrice di Hera e di Seth.
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Come non riconoscere l’attendibilità psicologica, la precisione di questi miti? Il fallo
eretto è ancor oggi il tabù principale nelle arti figurative dell’Occidente. Nessun altro
aspetto del corpo umano è tanto nascosto; e non compare se non in pornografia, cioè in
contesti marchiati da ossessione, perversione, e dunque per principio sconfitti.
Che cosa è temuto a tal punto nel fallo eretto? Forse il fatto che l’erezione non possa
fingersi in alcun caso. E che sia semplice; ed esultante; e individuale. E perciò temibile
più di ogni altra cosa, nella civiltà occidentale. Nelle falloforie veniva mostrato, come a
dire: «Perché lo temete in voi stessi? Quanto state nascondendo di voi come nascondete
questo?» E oggi avrebbe il medesimo senso: come immagine della potenza festosa
dell’individuo, che i «noi» trovano inguardabile, proprio perché per loro anche
l’individuo lo è. Così le due sorellastre volevano che fosse inguardabile Cenerentola,
perché troppo bella, e la trovavano oscena.
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Il Dio della vite
La vite, poi, congiunge strettamente Dioniso a Mosè e a
Gesù.
Vedremo come Mosè narri, nella Genesi, che Noè si
diede alla coltivazione della vite, subito dopo il Diluvio,
distillò il vino e «ne bevve fino a ubriacarsi». 5 Mentre
Gesù diceva di sé:
Ritroveremo tutto ciò, ripeto, nei versetti della Genesi. Punto per punto. E sarà come
ritrovare una strada.
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simbolo di sapienza. Dioniso, nelle sue immagini più
celebri, ha la fronte adorna di tralci, oltre che dell’altra sua
pianta prediletta, l’edera. Anche le sapienze, le dottrine –
espressioni di una zōḗ dello Spirito – crescono aderendo
alla realtà e ramificandosi di luogo in luogo. La zōḗ si
esprime, anche nella vitalità dei movimenti spirituali. Così
fu per i culti dionisiaci, che si diffusero lungo le coste del
Mediterraneo, rampicando nelle menti e nelle anime.
62
Il Dio dei serpenti
Strettamente associata alla vite, nel culto di Dioniso, è
l’immagine del serpente. Secondo alcuni miti, fu da un
serpente che Dioniso apprese la bontà dell’uva: e, con
tutto ciò che stiamo scoprendo, se ne potrebbe dedurre
che, più della mela, il grappolo d’uva avrebbe avuto
diritto di apparire nell’immagine popolare come il frutto
proibito dell’Eden, che un serpente insegnò a cogliere. E
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Il Dio dei viaggi
Benché ucciso e divorato da bambino, Dioniso riappare
adulto in miti densissimi.
Ciò non è meno paradossale del fatto che Gesù, dopo
essere morto sulla croce, insegnasse ancora ai discepoli: i
teologi cristiani provarono a giustificare il paradosso
costruendo l’idea, abbastanza complicata, di una
resurrezione di Gesù a breve distanza dalla morte, invece
che nell’Ultimo Giorno del mondo.
Nei miti greci non sembrò indispensabile giustificare la
ricomparsa di Dioniso. Il senso ne era già abbastanza
chiaro di per sé: ciò che di Dioniso è bambino, viene
ucciso dai Titani del passato; poi Dioniso compie molte
imprese memorabili, perché vi è in lui qualcosa che i
Titani del passato non possono uccidere.
Non è poi così paradossale; è una cosa che avviene, in realtà, a chiunque compia
imprese memorabili. Proprio perché da bambini si è stati uccisi, divorati dal passato, e
si ha nell’anima tale dolore, e lo si è superato, si può trovare in se stessi la forza di
compiere imprese memorabili, nelle quali in realtà (come non accorgersene?) è sempre
quel nostro bambino interiore ad agire di nuovo.
Chi invece ha dimenticato, chi non sa più di essere stato divorato da bambino, è
divenuto soltanto un titano qualunque, divoratore di altri bambini.
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costituito lo colpì con la follia – cioè con una ferita alla
mente, dopo aver spinto i Titani a colpirlo nel corpo. Ed
era la follia, a spingerlo a vagare.
Mainoménos Diōnýsos, « Dioniso il folle », lo chiama
Omero, 8 ed è un altro suo famoso appellativo. Il senso di
tale manía («follia», in greco) è ben chiaro: per Hera, per
tutto ciò che nel mondo è herodiano, Dioniso è follia e la
follia è Dioniso, il quale viene perciò emarginato, respinto
lontano. È, tra gli Dei greci, l’outsider per eccellenza: il
Dio degli outsider.
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E nei suoi viaggi giunge innanzitutto (guarda caso) in
Egitto. E qui combatte di nuovo contro i suoi nemici
giurati, i Titani, «risorti» anch’essi. E stavolta li sbaraglia.
Alcuni miti narrano che questi Titani riparati in Egitto
avevano tolto il trono ad «Ammon», Dio supremo degli
egiziani, del quale Dioniso prese le difese: ed è un
singolare caso di memoria invertita del conflitto che, nel
XIV secolo a.C., si consumò tra il faraone eretico
Akhenaton – per molti versi dionisiaco, come vedremo – e
i sacerdoti di Amon-Râ, custodi della tradizione antica e
dunque ben più vicini a Hera; ma agli storici risulta che
alla fine furono questi ultimi a vincere.
Forse ai greci premeva che Dioniso accumulasse da
subito vittorie, e perciò confusero un po’ le parti. O forse,
con «Ammon» vollero indicare qualcosa di ancora più
antico dei Titani: un Dio talmente anteriore da
identificarsi con il Creatore del mondo. E in questo caso,
Dioniso in Egitto apparirebbe come un alleato di Mosè,
che in nome del Dio creatore si oppose alla casa reale
egizia in una lunga guerra terroristica.
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Il Dio dagli strani compagni
Ciò sembrerebbe confermato dal successivo viaggio di
Dioniso, verso est: lì conquistò «Damasco» e ne uccise il re
– ed è lo stesso percorso che Mosè compì, nell’Esodo, a
oriente del Nilo, alla testa del suo popolo eletto. Invece di
un popolo, in tutti i suoi viaggi Dioniso ha con sé il più
strano seguito che si sia mai visto accanto a una divinità
greca: sileni, cureti, satiri – figure ibride, in parte umane e
in parte animalesche – e pantere, leoni e altre belve che
obbediscono solo a lui.
Un devoto di Hera avrebbe visto in quel corteo di
difformità le concrezioni della follia di Dioniso: forme di
angoscia – e in parte avrebbe avuto ragione, perché
l’ibridismo ha in sé un elemento sofferente, disarmonico.
Ma si narra che quel corteo era gioioso. E vinceva le
battaglie. In realtà, più che della follia, è l’immagine del
guarirne.
I viaggi di Dioniso sono una terapia: simboleggiano un
processo di individuazione, della scoperta di un se stesso
vastissimo; equivalgono al peregrinare di Iside alla ricerca
delle membra dilaniate di Osiride. Solo che Dioniso cerca
più lontano, a sud-est. In Egitto, in Siria e poi più lontano
ancora. E quegli ibridi che lo accompagnano sono
direttamente connessi a tale cercare.
Fino a che ci manteniamo nella giurisdizione di Hera – fino a che viviamo secondo
regole di una società – in noi vi sono aree rimosse, temute; allontanandoci da Hera,
entriamo in queste aree, le illuminiamo: il nuovo orizzonte che così ci si apre, fa
apparire malato quello a cui ci limitavamo prima. E i mostri e le belve che Dioniso ha
intorno, corrisponderebbero ai guardiani della soglia di quelle nostre aree rimosse: a
67
tutte le nostre paure e resistenze a guardare in quella direzione.
Ciò è certamente da imitare. Chi trasforma così le proprie paure in alleati comincia
d’un tratto a procedere di vittoria in vittoria. Può ottenerne opere d’arte, soluzioni
inattese, argomenti di ironia, impulsi al gioco, chiavi inaudite per comprendere meglio
il suo prossimo. Vale anche qui l’esortazione «ama il tuo nemico», dato che i guardiani
delle soglie sono nemici interiori; diventa «ama ciò che ti appare disdicevole,
ripugnante»: e diventerà festoso.
68
Anche Gesù
Anche Gesù camminava, dicevamo. E anche lui si portava
appresso discepoli imbarazzanti, taluni impresentabili:
Levi pubblicano, cioè losco appaltatore di tasse per conto
dell’autorità d’occupazione romana; Simone zelota, cioè
membro di un gruppo terrorista ebraico per la liberazione
della Palestina dai romani; Giacomo e Giovanni, tanto
violenti da essere soprannominati «figli del tuono»:
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viaggiatore – teneva moltissimo alla manίa, la equiparava
alla sapienza:
70
Śiva
Di vittoria in vittoria, e proseguendo verso sud-est,
Dioniso giunse fino a un Oltremare lontanissimo, l’India.
Tra i «nient’altro che» in cui incorrono gli studiosi del
dionisismo, uno particolarmente sciocco è che il viaggio in
India sia nient’altro che un riflesso della campagna indiana
di Alessandro Magno, svoltasi tra il 326 e il 325 a.C. In
realtà Dioniso doveva esservi già arrivato un millennio
prima, a giudicare da tutto ciò che lo lega a Śiva.
Śiva, sempre in cammino, con al collo un serpente, con
il fallo eretto bene in vista, e con un pittoresco seguito di
ribaldi danzanti, dispettosi, sboccati, molti dei quali ibridi
e mostruosi, era ed è ancora, in India, il Dio dell’energia
vitale dell’universo.
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Insieme con quei suoi compagni, Śiva esorta a deridere
le leggi umane, per aprire la mente a quelle divine.
Detesta i sacerdoti, ama invece gli outsider e tutto ciò che
è inatteso, sorprendente, caotico: perciò è chiamato
Unmatta, «il Folle». Il suo tempio è la natura, uno dei suoi
appellativi è Paśupati, il «Signore degli animali». 15
Tanto Śiva che i suoi compagni amano il vino – di cui
in India si faceva largo uso: il diplomatico ellenico
Megastene, tra il IV e il III secolo a.C. descrisse
l’abbondanza di vigneti dell’Impero Maurya. 16
Śiva incontrò Dioniso? Vari miti greci narrano che il
72
Dio greco rimase in India due anni e mezzo, e ne tornò
perfettamente ristabilito. Megastene non ha dubbi:
Dioniso non solo incontrò Śiva, ma era Śiva egli stesso, e lì
scoprì di esserlo.
Si raggiunsero, si incontrarono, perché erano tutt’uno.
Possiamo immaginarlo così: quando Dioniso vide Śiva, si
accorse di esserlo sempre stato. E Śiva, vedendo Dioniso,
si accorse di aver abitato lontano per molto tempo.
In qualche modo ciò si era già preannunciato nella
vicenda del Dio greco: appena nato si stava guardando
allo specchio, prima che i Titani lo facessero a pezzi. Ora
Śiva era il suo specchio ritrovato all’altro capo del mondo.
Oppure era lui stesso lo specchio del Dio indiano?
73
Reincarnazioni di uomini e di Dei
Quando capitano a esseri umani, queste scoperte
d’identità si chiamano reincarnazioni; e in Occidente si è
consolidata a tale riguardo una fede, secondo la quale un
«io», quando muore, attende per qualche tempo
nell’Aldilà, per poi rinascere in un’altra persona. Ma è
anche questo un non-voler sapere, un non-voler vedere le
contraddizioni.
Per esempio, il fatto che il tempo come noi lo
intendiamo – il tempo lineare durante il quale è possibile
attendere – sia una categoria della nostra coscienza, e non
esista di per sé, né nell’Aldiquà né a maggior ragione
nell’Aldilà. In altre parole, quando si muore non ci si
porta dietro il calendario. Quanto all’idea di un «io» che
perdurerebbe al di là della morte, lo sforzo di non-voler
sapere, di non volersi accorgere, diventa addirittura uno
spasimo. Quale «io» perdura più di tanto, durante una
vita? Gli «io» di ognuno sono molti in ogni istante, in
equilibrio più o meno precario tra loro, e di decennio in
decennio scompaiono e sono sostituiti da altri nuovi, in
un continuo morire e rinascere: quale di questi dovrebbe
reincarnarsi? Tutti? Uno solo?
Quando invece capitano agli Dei – e non è frequente –
queste scoperte d’identità transcontinentali producono
l’esatto contrario di qualsiasi fede. E rivelano il senso
autentico della reincarnazione, che è essa stessa
rivelazione, sempre: una maschera che si scosta da un
volto.
Lo vediamo nel mito, o piuttosto nella sorprendente
realtà storica dell’incontro tra Dioniso e Śiva – e chi legge
ne tragga quello che può. Almeno due millenni avanti
74
Cristo, si formò e crebbe un Dio che nell’India pre-vedica
era Śiva e in Grecia Dioniso. Ciò significa che in quelle
due aree dell’Eurasia tanto lontane l’una dall’altra si stava
compiendo una medesima scoperta: si intuiva e si
individuava una medesima struttura della realtà e della
psiche. Perciò le influenze reciproche furono
vertiginosamente possibili, a novemila chilometri di
distanza. In quei novemila chilometri vi erano molti altri
popoli e innumerevoli altre divinità; altrettanti ve n’erano
in tutte le altre direzioni in cui si potesse viaggiare dal
Mediterraneo orientale. Ma quei due, Dioniso e Śiva, si
incontrarono, come se tra l’Attica e il Punjab vi fosse stato
un volo senza scali.
Quale dei due era sorto prima? Non abbiamo
documenti che ci permettano di datare la nascita di Śiva e
Dioniso: i miti non si possono analizzare con il carbonio
14. Śiva – con il nome di Rudra – era già attestato in India
nel XX secolo a.C., ma più in là di questo limite temporale
tutto è vago, così come nel Mediterraneo orientale più in
là del XVI secolo a.C.; e nel XVI secolo, a Creta, Dioniso
era già antico.
Ma è utile volerlo sapere in termini di secoli? Ciò che
invece possiamo sapere con precisione è che cosa significò
per Dioniso il mito di quel suo viaggio in India, dove lo
attendeva il Dio della zōḗ, che era lui.
Durante quell’incontro con il suo se stesso indiano,
Dioniso guarì per sempre dalla manίa: perché divenne
diverso da ciò che in lui poteva essere malato – cioè dal
proprio «io».
Nessuno è più libero e sano di chi è più di se stesso e
riesce a vedere il proprio «io» come se fosse un altro.
Anche Mosè e Gesù allusero a questa salute quando
esortarono ad amare gli altri come se stessi. 17 In Śiva e
Dioniso, Dei della zōḗ, vediamo la chiave di quell’essere
75
più di sé.
L’«io» che uno sa di essere (anche l’«io» che un Dio sa
di essere) è una limitazione dell’immensa energia vitale: è
il trovarsi immobilizzati in un bíos, in una durata
comunque limitata, mentre la zōḗ è eterna e ovunque. Si
può essere in questa «vita eterna». Si può esserla. Allora si
è immensi, e antichissimi e infinitamente stranieri, perché
il tempo e lo spazio sono tutt’altro, nell’eternità. E un «io»
diventa troppo poco.
È ciò che i miti di Dioniso narrano come il suo incontro
con se stesso in India. Un trovarsi che è un perdersi. Gesù
lo colse. Nei Vangeli, il concetto dell’«io»-che-uno-sa-di-
essere è espresso con il termine psykhḗ (che in greco aveva
un senso molto ampio: «anima», «attività della mente
cosciente», «indole», «personalità»). E della psykhḗ, Gesù
spiega:
«Chi avrà trovato la sua psykhḗ, la perderà; chi l’avrà perduta, per
me la troverà». 18
Resti pure in sospeso la questione di chi trovi chi, in questo perdersi: l’«io» già noto,
perdendosi, trova un proprio «io» ignoto fino ad allora, oppure è quest’ultimo a trovare
quello, quando quello è riuscito una buona volta a perdersi davvero? È molto meglio
chiarirselo di persona, provando. Una conseguenza imbarazzante è, poi, la difficoltà
76
che si incontra nel raccontare la propria storia: ogni volta che si dirà «io» verrà da
chiedersi «io chi?». In compenso, al duplicarsi dell’«io» corrisponde un
ridimensionamento, molto piacevole, dei problemi personali dell’«io» di prima, che
pensava di essere soltanto e interamente se stesso.
77
Il Dio che giunge
Il mutamento che l’incontro con Śiva produce in Dioniso è
radicale. Prima Dioniso rappresentava ciò che è diverso
dal mondo di Hera, la sua follia era un opporsi a esso e un
fuggirne: in tal modo, tutto il significato di Dioniso
dipendeva ancora da quel mondo.
Ora Dioniso inverte la direzione dei suoi viaggi, torna
verso il Mediterraneo: è forte, sicuro di sé, sorride, è
esperto di musica e danza, e cavalca un elefante – come a
dire: un animale che è di per sé una falloforia, a significare
il ricongiungimento di Dioniso al membro che mancava. E
Dioniso torna per diventare il principio di un mondo
nuovo.
Invece di fuggire, si espande. Intorno al 1500 a.C. ebbe
inizio la cosiddetta epidemia dionisiaca: dapprima a Creta,
poi nei porti greci si diffondeva la notizia del nuovo Dio.
Spesso Dioniso venne raffigurato assiso su una nave,
gigantesco e sorridente; si moltiplicarono i miti dei suoi
sbarchi sul suolo greco – a Nasso, al porto ateniese del
Pireo, a Thorikos, a Ikarion – e le sue feste annuali in
questi luoghi.
78
giovinetto; ma è una nave pirata e, appena salito a bordo,
Dioniso viene fatto prigioniero per essere venduto come
schiavo. D’un tratto il Dio si libera e si rivela:
79
Acqua e vino
Un altro miracolo di Dioniso, celebrato una volta l’anno
nel suo tempio di Pergamo, e ripreso nei Vangeli, era
quello della trasformazione dell’acqua in vino. Per gli
antichi ciò aveva un significato più preciso che per noi.
Acqua e vino erano i simboli di due delle quattro fasi
evolutive della mente.
La prima fase era la Pietra: è la dimensione psichica di
chi è inerte, di chi vive interiormente immobile.
La seconda era l’Acqua: rappresenta lo smuoversi, il
cominciare a fluire.
La terza il Vino: è la fermentazione, la capacità di
elaborare le proprie scoperte, di cambiare profondamente.
La quarta era il Sangue: ed è chi incarna, diventa le
proprie scoperte. 20
80
prodigio: che cioè fosse qualcosa di diverso da quello che
avviene di solito – poiché gli uomini-Acqua non
diventano uomini-Vino, se un Dio non interviene. Il Dio
che può farlo è Dioniso, poiché non teme il cambiamento.
È il Dio del cambiamento: dall’Oltremare portava un
mondo diverso, irriducibile a ciò che lo aveva preceduto.
Cominciò ad arrivare allora e non finì mai.
Ancora oggi Dioniso è l’unico tra i grandi Dei greci che non abbia trovato ospitalità in
quella specie di casa di riposo per divinità che è il nostro oroscopo. È ancora in viaggio.
E questa è un’ottima notizia per noi, poiché ne deriva che il nostro Occidente – la
nostra esclusione – sia non tanto un luogo, quanto piuttosto un periodo, che allora
incominciò. E se si tratta di un periodo, non è che finirà prima o poi, come tutti i
periodi finiscono: piuttosto, finisce non appena ci si accorge che è tale – e nel senso più
letterale del termine: perí-hodós, ovvero «un girare attorno», un modo faticoso di star
fermi; e se ne può uscire.
Come da un labirinto.
81
Il Dio del labirinto
Oltre alla vite, al serpente, al fallo, al serto di edera, al
vino, un altro simbolo di Dioniso – come anche di Śiva – è
il toro: e ovunque un toro compaia in contesti rituali o in
emblemi (dall’Egitto a Torino, alla Spagna) è indizio
sicuro che in quel luogo vi fu un «approdo» del
dionisismo. Il mito cretese del Minotauro ci mostra in che
cosa dovette consistere, e cosa significò quel diffondersi, e
quali conseguenze ne derivano fino a oggi.
Occorre narrarlo? È celeberrimo, ma forse qualche
dettaglio sfugge in ciò che se ne ricorda di solito.
Anche qui – come nella reggia di Danao ad Argo –
tutto si dovette a una donna che infranse le regole: Pasifae
(in greco: «Lei illumina tutto»). Era la consorte del re di
Creta, Minosse. Si invaghì di un magnifico toro bianco.
Chiese aiuto all’architetto di corte, l’ateniese Dedalo, e
questi le costruì una robusta impalcatura di legno, in
forma di vacca, tanto simile a una vacca vera, da suscitare
nel toro il desiderio di montarla. Pasifae si accovacciò lì
dentro durante la monta, e concepì dal toro. Nacque così,
a Creta, un bimbo taurino, che fu chiamato Asterios,
ovvero «Quello delle Stelle»; ma lo soprannominarono
beffardamente Minotauro, cioè il torello di Minosse.
Del toro da cui era nato, Asterios aveva le corna, la
voce e il candore. Minosse ne era disgustato e lo fece
rinchiudere nel labirinto che gli costruì Dedalo: un’opera
tutta meandri, fatta in modo che chi vi entrava non fosse
più capace, dopo pochi passi, di trovare la via d’uscita. Lì,
secondo alcuni, venne rinchiusa anche Pasifae, e vi morì.
Periodicamente, nel labirinto venivano condotti e
sacrificati sette fanciulli e sette fanciulle: si diceva che
82
fosse il Minotauro a divorarli. Ma un toro non è un
animale carnivoro, e del Minotauro nessuno sa se fosse
feroce o d’animo buono: nessuno, a Creta, sapeva di lui
qualcosa di preciso, perché chiunque avesse voluto
saperne di più, entrando a vedere, si sarebbe perduto nel
labirinto.
83
solo per quell’antichissima nevrosi di cui stiamo
precisando l’origine: fuori da essa, il congiungimento tra
Pasifae e il toro appare subito come un’identificazione
della regina con la Dea egizia Hathor, raffigurata in forma
di vacca. E Hathor (in egiziano «la dimora di Horo»)
rappresentava in Egitto la dimensione in cui può
manifestarsi Horo, il figlio di Iside, Dio della luce
interiore, della trascendenza, del grado supremo
dell’iniziazione.
84
Minosse e Dedalo sono i pietrificatori di quelle spire,
da essi trasformate in una prigione, in cui è rinchiuso il
bambino nato dal Dio taurino. E un altro re, Teseo,
ateniese, uccise poi il Minotauro. Nondimeno anche il
mito di Asterios continuò a giungere, a evolversi.
85
Il Dio del presepe
Oggi, giunge nelle case cattoliche ogni Natale, in quella
sua evoluzione che è la ricostruzione rituale della
Natività, il presepe, nella forma in cui la fissò Francesco
d’Assisi.
Sia nel mito del Minotauro sia nella Natività cristiana
abbiamo tre protagonisti, e sono proprio gli stessi: un
padre che non è un padre (Minosse a Creta, Giuseppe a
Betlemme), una madre che ha concepito in modo
innaturale e scandaloso agli occhi dei più (Pasifae a Creta,
Maria a Betlemme) e un bambino di origine celeste. E nel
culto popolare del presepe, in uno dei più fortunati canti
natalizi dell’Italia meridionale, sei secoli dopo Francesco
emerse nettissima la connessione tra Gesù appena nato e
Asterios e Horo e Dioniso che nacque in una grotta:
«Perché il bue e l’asino?» hanno domandato tutti i bambini dei paesi cattolici agli
adulti.
«Per fare caldo al bambino», rispondono in genere gli adulti, adottando anch’essi,
senza saperlo, il vile criterio accademico del «nient’altro che».
«Sì, ma perché proprio il bue e l’asinello?» È questa la domanda che ogni adulto
cattolico teme, riguardo al presepe.
«Perché quelli c’erano», risponde di solito l’adulto, dopo aver cercato invano
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un’altra ragione più sensata: e avrà, così, toccato con mano la nevrosi biblica. Si sarà
accorto cioè di stare facendo qualcosa in cui crede ma che non sa, né ha mai voluto
sapere e capire. Nondimeno quell’ultima risposta è giusta: quelli c’erano, sì. Ma
occorre sapere dove.
87
bambino gli pareva brutto: il piccolo Minotauro – al pari
di Gesù, e dell’amore di Ipermnestra, e di Dioniso tornato
dall’India – era il manifestarsi di qualcosa di più grande,
che agli occhi del vecchio ordine appariva un pericolo.
A Gerusalemme i sommi sacerdoti e gli scribi, ovvero
tutte le autorità religiose e culturali, ne furono allarmati,
come possiamo ben supporre che lo fossero anche ad
Argo e a Creta. Re Erode, re Minosse, re Danao, re Teseo
non fanno che interpretare questo turbamento.
Quei re vincono, spesso. D’altronde hanno gioco facile:
dalla loro parte hanno un’intera civiltà; mentre il loro
rivale non è certo un «re di questo mondo», come diceva
Gesù, che tenti un colpo di Stato. 25 Il cambiamento che
porta può avvenire – come abbiamo visto – soltanto
nell’«io». Il rapporto di forze è sempre di uno contro tutti.
Eppure tutto ciò non cessa di giungere, e di produrre
prodigi. Vediamone altri, nella sapienza antica.
88
I sophói e Mosè
MENTE : dal sanscrito matis, la cui radice è MÂ che nelle lingue indoeuropee
compare in vari termini: «misurare», «metro», «materia», «maniera», «medio»
e «madre». Dal sanscrito matis deriva anche Metis, il nome della prima moglie
di Zeus. La loro storia d’amore fu burrascosa: Metis non gli si concesse se non
dopo aver lottato a lungo, e per sfuggirgli assumeva innumerevoli forme. Poco
dopo essersi unito a lei, Zeus la ingoiò, per evitare che Metis divenisse più
grande, più potente di lui. In un certo senso agì saggiamente, come qui di
seguito dimostriamo; e anche i sophói fecero qualcosa di simile.
89
Prima dei filosofi
Da un altro punto antico conviene passare, per accostarsi
a Mosè e coglierne tutta l’importanza per la nostra nevrosi
occidentale: i sophói, i «pre-socratici», che, proprio come
Dioniso e Ipermnestra e l’«Egitto» – a cui anch’essi sono
legati – si trovarono fuori, sulla soglia della matis
dell’Occidente. Ed è la soglia di un labirinto, senza
dubbio; a labirinti somigliano le nostre storie della
filosofia, costruite per giustapposizione di filosofi:
Cartesio, poi Leibniz, poi Kant, poi Schelling, e poi e poi e
poi... – così come nei labirinti i corridoi si succedono l’uno
all’altro. A ogni incrocio cresce il sospetto che il vero
scopo delle nostre storie della filosofia sia mostrare come
sia inevitabile perdervisi.
In realtà, ciò è bene: la sensazione di perdersi e di
doversi perdere è un elemento iniziatico che la nostra
filosofia è riuscita a integrare, nel suo evolversi. Ma c’è
motivo di pensare che gli storici della filosofia non ne
siano al corrente. A considerarla dal punto di vista della
nostra nevrosi occidentale, quella situazione labirintica
del Pensiero si direbbe piuttosto rassicurante. Scopo della
filosofia è infatti la conoscenza della verità e
possibilmente dell’Assoluto; ma verità e Assoluto
sommati insieme danno come risultato Dio. E riguardo a
Dio vale in Occidente la fede, ovvero il non-voler sapere.
Dunque è coerente con la nostra grande nevrosi che le
storie della filosofia occidentale illustrino una serie di
tentativi di sapere, ciascuno dei quali dimostri
l’insufficienza di quello che l’ha preceduto.
Pilato se ne sarebbe sentito tranquillizzato. Narra il Vangelo che Pilato, mentre stava
tentando di salvare Gesù dai sacerdoti, gli domandò: «Che cos’è la verità?» e non
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rimase ad aspettare la risposta. 1
«Vedi, lo dicevo. La verità non c’è», commenterebbe oggi, leggendo una qualsiasi
storia della filosofia occidentale. Pilato era funzionario statale; il Vangelo narra che
lasciò crocifiggere Gesù quando capì che continuando a difenderlo ci avrebbe rimesso la
carriera. Pilato scelse di essere uno strumento del «noi», invece che un «io». Questo
tipo di individui ha bisogno di sentirsi dire che la verità è chimerica; e ben sapendo che
in Occidente costoro sono la stragrande maggioranza, la storia della filosofia insegnata
nelle scuole prepara i giovani ad assecondarli, perché non si sentano fuori luogo nella
società.
91
Prima di noi
Il mio pre-socratico prediletto, Anassagora (496-428 a.C.),
fu processato per blasfemia, poiché aveva dichiarato che il
sole è un agglomerato gassoso e che la luna è una sfera di
pietra.
Tale sua affermazione suscita meraviglia soprattutto
perché Anassagora non poteva oggettivamente sapere che
fosse plausibile: per saperlo avrebbe dovuto aspettare che
venissero inventati il telescopio (cioè circa millenovecento
anni) e lo spettroscopio (ovvero altri tre secoli). Le
informazioni di cui Anassagora disponeva riguardo al
sole e alla luna erano le stesse di cui possiamo disporre
noi oggi guardando il cielo dalla finestra.
Ma Anassagora aveva un suo magnifico metodo:
riteneva che la vera causa di ogni cosa fosse nel suo scopo.
Nessun filosofo europeo lo sosterrebbe oggi, perché
contrasta con la legge di causalità, secondo la quale la
causa delle cose è nel loro passato – e il Pensiero
occidentale non riesce a fare a meno di questa legge.
Anassagora la conosceva e la riteneva una superstizione.
Gli pareva molto più fruttuosa l’idea che per capire una
qualsiasi cosa si debba guardare non al passato di essa,
ma al suo scopo, e allo scopo di chi la vuole capire –
92
Anassagora sorpassò d’un paio di millenni la scienza
occidentale anche con altre sue intuizioni: sostenne che «il
sole pone sulla luna la luminosità», 3 cioè che la luna ha
luce riflessa; che l’orbita della luna è più vicina di quella
del sole, e il sovrapporsi della luna al sole determina le
eclissi; che le comete sono corpi celesti in combustione, e
le loro scie sono scintille; e che i tuoni e fulmini derivano
dal cozzo tra le nubi temporalesche.
93
Il più mistico dei sophói, Empedocle (490-430 a.C.),
ipotizza che molte specie dovessero essersi estinte nel
corso delle ere, perché inadatte alla sopravvivenza. Ciò
non contrasta affatto con quello che dimostrò Darwin:
solo che Darwin rivoluzionò la biologia – come se tutti i
biologi che lo avevano preceduto non avessero mai capito
ciò che ne aveva detto Empedocle.
Gli appassionati di scienza – a differenza degli scienziati autentici e dei filosofi della
scienza – fanno spesso di queste obiezioni pavide: come se per essi la scienza non fosse
scoperta in corso, ma solo archivio di scoperte già avvenute, e già approvate dai più.
Una specie di araldica del pensiero.
94
Ma per noi l’importante è comprendere come fecero i
sophói a descrivere direzioni e limiti che nella scienza
occidentale si sarebbero constatati millenni dopo – e forse
anche qualche altra direzione o limite che la scienza
occidentale non ha toccato ancora.
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I primi teorici dell’incompletezza
Viaggiando in ciò che Platone chiamava «Egitto», e che
noi cominciamo a chiamare Oltremare, i sophói avevano
imparato a considerare da un altro punto di vista la matis
dei greci. E disponevano non di una mente soltanto, ma di
due: una greca, che permetteva loro di comunicare con i
connazionali, e una «egizia», che di quella greca poteva
scorgere le direzioni e i limiti – e poteva vedere oltre.
Questa seconda mente studiò la prima, e ne trasse
conclusioni efficaci.
I sophói descrissero, insomma, non tanto ciò che essi
stessi ipotizzavano circa gli astri, l’evoluzione, le strutture
della materia e via dicendo, bensì che cosa quel
particolare tipo di mente – che allora era greca – avrebbe
potuto capire degli astri, dell’evoluzione, del moto, del
mutamento, e delle strutture della materia, fintanto che
quella mente avesse continuato a limitarsi a quel suo modo di
ragionare.
Così, Anassagora avrebbe detto, in realtà: «Mi sa che la
mente della nostra civiltà potrà al massimo arrivare a
scoprire, o a convincersi, che il sole è una sfera gassosa, la
luna una sfera di pietra, e che i fulmini derivano dal cozzo
tra le nubi». Zenone avrebbe aggiunto: «E prima o poi
scoprirà anche che i suoi concetti di spazio e tempo sono
relativi. Con una mente così, cos’altro vuoi che
scoprano?»
Democrito intuì che quella stessa mente si sarebbe
vincolata all’idea degli atomoi, nell’indagare la struttura
della realtà; ed Empedocle, che quella mente avrebbe
escogitato la selezione naturale, e così via. Ed ebbero
splendidamente ragione, perché dopo di loro la mente
96
greca divenne la mente occidentale e continuò a
mantenere le direzioni e i limiti che i sophói avevano
individuato.
In tale prospettiva, i sophói risultano, tutti nel loro
insieme, anticipatori anche della teoria dell’incompletezza,
con la quale, una settantina d’anni fa, Kurt Gödel scosse la
logica e la matematica occidentale. Un sistema, secondo
Gödel, non può essere usato per dimostrare la sua
coerenza: occorre un punto di vista esterno a esso, e più
ampio, per poter capire come, quanto e quando quel
sistema funzioni o no. 5 A rigore, tale teoria dovrebbe
applicarsi soltanto alla matematica; ma l’esperienza
mostra che è utilissima anche in altri ambiti.
97
E noi
E qui è particolarmente utile domandarsi: «E noi? Come sarebbe per noi, se volessimo
adottare il metodo dei sophói rispetto alla matis occidentale?»
Per noi la situazione è al contempo molto più difficile, e molto più semplice.
Oggi l’estensione della civiltà occidentale è andata oltre qualsiasi concetto
geografico di Occidente. La sua matis è all’opera e predomina ovunque arrivino
internet e i telefoni cellulari. Certo, possiamo supporre che nella selva sudamericana o
nel cuore di qualche mistico śivaita il tempo, lo spazio, la materia, l’amore siano
percepiti ancora secondo sistemi diversi dai nostri. Ma, a differenza dell’Oltremare
verso il quale partivano con batticuore i sophói, questi sistemi diversi sono senza
dubbio meno espressivi del nostro, come si dice in linguaggio specialistico: possono
cioè contenere e spiegare meno cose. Il sistema occidentale è perciò in grado di valutare
i limiti di quelli, e di prevederne il comportamento, e di vedere oltre; ma non viceversa.
È la prima volta che ciò avviene nella storia dell’umanità. Né il cristianesimo, né
l’Illuminismo, né il progresso ottocentesco erano riusciti a surclassare a tal punto i
sistemi non occidentali. Un grande Oltremare, noi non l’abbiamo più né sulla carta del
mondo, e nemmeno al di fuori dell’orbita terrestre – dato che per uscirne avremmo
bisogno della tecnologia occidentale, per comprendere e usare la quale è indispensabile
anche la matis occidentale: dunque chi cercasse un punto di vista esterno al nostro su
altri pianeti, non farebbe che esportarvi il nostro sistema.
Da questo punto di vista geografico, la nostra situazione è più difficile di quella dei
sophói, ai quali bastava fare rotta a sud-est, per scoprire sistemi più grandi di quello
della matis greca.
La nostra situazione è tuttavia più facile, se invece di intendere l’Occidente come
l’estensione geografica di una matis sul pianeta, lo intendiamo come un avvenimento,
un periodo, che stia avendo una sua durata in noi. E sappiamo come accorgersi che un
periodo è un periodo, sia già un esserne fuori.
Dunque, per uscirne non abbiamo neppure bisogno di fare i bagagli e trovare una
nave fidata. È sufficiente quello spostamento interiore che si verifica quando, leggendo
dell’Oltremare di altre epoche, e di coloro che vi andarono e ne tornarono, ci
98
accorgiamo di comprenderli.
Se ci accorgiamo di comprenderli, siamo altrove anche noi: fuori dalla mente
occidentale, la quale, a distanza, ci apparirà come ciò che finora ci aveva impedito di
comprendere molto di più.
E quando quello spostamento comincia ad avvenire, la civiltà occidentale può fare
ben poco per intralciarlo. Anche ciò che oggi è più occidentale di qualsiasi altra cosa,
ovvero la tecnologia, facilita questa emigrazione interiore. Internet, per esempio, con la
mole di dati che in pochi istanti può mettere a disposizione di chiunque voglia sapere
qualcosa.
Poiché il sistema chiamato Occidente è innanzitutto un periodo, non è la tecnologia
a chiudere in esso gli individui, ma soltanto il modo in cui in Occidente la si intende. E
anche nell’intenderla in altro modo può ricominciare oggi ciò che per i sophói, per
Dioniso e per Mosè, era Oltremare.
E là, da qualche parte ognuno ha il suo Śiva.
99
Prima dei sophói
Quanto a Mosè, possiamo ora intendere in un senso un
po’ diverso dal consueto ciò che ne dicono le Scritture:
100
L’arkhḗ
Sia per Mosè, sia per i sophói, lo scopo della conoscenza è
cogliere il senso ultimo di ciò che nel discorso di Afrodite
era descritto come «la terra e il cielo».
101
chiaramente la dinamica.
Crederlo bastava, nella civiltà greca e nella civiltà egizia,
tanto quanto basta a una parte dell’attuale Occidente credere che Dio ha creato il
mondo, e all’altra parte sapere che tutto ha avuto inizio con il Big Bang.
102
Simboli
Di quell’arkhḗ e di ciò che se ne poteva trarre, i sophói
davano audaci definizioni simboliche – bruscamente
vivide, sorprendenti, troppo semplici per non lasciare
disorientati.
Una delle immagini che Eraclito dà dell’arkhḗ è, per
esempio, il fuoco: il fuoco a suo dire è il fondamento di
tutto, perché distrugge e unisce, sale in alto, ed è puro e
luminoso. Ma è soltanto una delle immagini che ne dà, e
solo un’immagine. Da nessun frammento superstite degli
scritti di Eraclito risulta che quel suo fuoco dovesse
intendersi realisticamente, come se a fondamento di tutto
vi fosse davvero qualcosa che brucia.
I connazionali non gradivano questo stile. Eraclito fu
chiamato ho skoteinós, «l’Oscuro», il che non suona come
un complimento; e anche i poemi dei suoi colleghi
risultavano ostici, con quelle loro simbologie che non si
capiva bene se fossero ieratiche o ironiche, o tutt’e due le
cose, o soltanto pazze. Ma ai sophói apparivano
necessarie sul piano metodologico.
Con quelle simbologie, prendevano
programmaticamente le distanze dal linguaggio razionale,
parte integrante del sistema che essi, dal di fuori,
consideravano insufficiente. Dunque tutto ciò che,
espresso in tale linguaggio, sarebbe risultato facilmente
comprensibile, non poteva servire ai loro scopi.
È lo stesso motivo per cui anche Mosè descrive la
creazione dell’universo in forma di racconto simbolico,
invece che in un trattato. La lettura di un trattato richiede
soltanto attenzione e memoria. La lettura della Genesi
esige dal lettore il coraggio di dimenticarsi dei significati
103
che le parole assumono di solito, e inoltrarsi in un
orizzonte mentale nuovo.
104
Paradossi
Altre volte, nei frammenti dei pre-socratici, l’arkhḗ appare
come un concetto razionale: ma ciò non la fa risultare più
ragionevole, poiché i sophói ne danno puntualmente
formulazioni paradossali, che né i loro contemporanei né i
lettori moderni si aspetterebbero da una persona con la
testa sulle spalle.
L’arkhḗ è per Anassimandro il neologismo:
«l’illimitabile» (Apeiron).
Per Parmenide è «l’essere», con, a mo’ di spiegazione,
l’enunciato: «l’essere è, il non essere non è».
Per Pitagora sono «i numeri».
In Eraclito e in Anassagora, l’arkhḗ è il «Divenire», cioè
il perenne mutare e superarsi di ogni cosa – e perciò
«causa di ogni cosa è il suo scopo».
Nessuna di queste definizioni permette al lettore di
sentirsi seduto comodo. E hanno connessioni talmente
strette con Mosè, da far supporre che i sophói sapessero
della Genesi. Come vedremo, il nome che Mosè per primo
diede al Dio creatore, ’Elohiym, vuol dire innanzitutto
«l’oltre» e «la potenzialità», cioè il Divenire. Anassagora e
Democrito lo capirono benissimo. L’’Elohiym-Divenire di
Mosè non è meno illimitabile dell’Apeiron di
Anassimandro; ed è creatore di un universo scandito dal
«numero» sette; e Mosè gli affianca un altro Nome divino,
YHWH, la cui traduzione più semplice è proprio «Colui
che è»: vicinissima all’essere di Parmenide.
In più, tra i paradossi di Eraclito ve n’è uno che
sembrerebbe incentrato proprio su Mosè – come un segno
di gratitudine, e d’amore, davvero – a meno di non
ipotizzare una qualche inverosimile coincidenza:
105
Il tempo supremo è un bambino che gioca, che muove le pedine: il
regno di un bambino. 8
106
L’esilio
Oltre che nel loro pensiero, l’affinità tra Mosè e i sophói è
ben visibile anche nel loro temperamento.
Il temperamento di Mosè è narrato dettagliatamente
nell’Esodo – ed è inoltre rispecchiato nei protagonisti della
Genesi, i quali somigliano tutti al Mosè dell’Esodo come
altrettanti parenti stretti. Disponiamo di numerose
informazioni anche sul temperamento dei sophói: le loro
personalità lasciarono tracce profonde, soprattutto perché
tutti (proprio come Mosè) vissero intensamente quella
ricerca di assoluto che perseguivano nel pensiero, e di
conseguenza le loro biografie furono abbastanza originali
da imprimersi nella memoria dei secoli.
Tipico dei sophói è in primo luogo l’insanabile conflitto
tra il loro io e la collettività. I greci erano gente politica:
cioè legati alle loro póleis, alle loro città – e ogni loro atto
era coordinato alle esigenze e alle opinioni di tutti i
concittadini. Il sophós, al contrario, si sentiva e appariva
separato da tutti. Secondo Eraclito:
107
Io sono straniero in una terra straniera. 10
108
L’intento politico
Poi, dal suo «monte di Dio», Mosè ridiscende a spiegare ai
molti, incontrando spesso incomprensioni. Anche molti
sophói ridiscesero così: a un certo punto della loro
esistenza, si sentirono chiamati a ritornare nella polis, a
smuovere le menti e le anime. Eraclito scriveva, a questo
proposito:
109
Mosè era correlata alla volontà del suo Dio.
Alcuni di loro diedero «comandamenti» veri e propri:
Empedocle, Pitagora, Parmenide, Zenone furono
legislatori.
110
La sconfitta
E per lo più non finirono bene. Parmenide riuscì a far
accettare il suo codice di leggi dalla polis di Elea, ma per
gli altri la vocazione politica fu un disastro: Zenone
capeggiò una rivolta (come Mosè) e fu catturato, torturato
e ucciso; Pitagora fuggì per sottrarsi a una sommossa;
Anassagora venne incarcerato, e secondo alcuni si suicidò,
secondo altri morì in esilio. Di Empedocle, si narra che
benché i suoi concittadini lo ritenessero poco meno d’un
dio, concluse la propria esistenza gettandosi in un cratere
dell’Etna.
Anche per Mosè, il passaggio dall’arkhḗ all’attività di
legislatore fu continua fonte di delusione: il popolo
recalcitrava, più volte si dovette ricorrere alla violenza per
sedarlo; le prime tavole della Legge vennero distrutte da
Mosè stesso, perché il popolo non se ne era mostrato
degno.
Alla fine, Mosè si allontanò da solo, come Empedocle;
rimase indietro, quando gli ebrei entrarono nella Terra
Promessa:
111
stesso il compimento delle premesse degli uni e dell’altro.
Molti sono i chiamati, e pochi gli eletti. Voi non siete del mondo, l’io
vi ha tratti fuori dal mondo, e perciò il mondo vi odia. 14
112
Teoria
TEORIA : dal greco theáomai, «guardo», «considero». Risale alla radice sanscrita
DIV , «apparire», da cui anche dîdhîte, «considerare», e divyati, «splendere» e
anche devas, «divinità». Da devas derivano il termine greco diós, che significa
anch’esso «divino», e il latino Divus, Deus, «Dio».
113
Antichità
Forze storiche e psicologiche enormi hanno prodotto, in
Occidente, la fede nella Bibbia, ovvero il non-voler-sapere
che cosa vi sia scritto; ed enormi sono le tendenze che
questa fede ha assunto nella maggioranza della gente: il
sentimentalismo biblico, del tipo «Dio ti ama»; l’idolatria
biblica, di chi venera il Libro Sacro senza averlo letto; il
nazionalismo biblico di chi pensa che sia un libro per
ebrei; la repulsione alla Bibbia come a un testo ormai
superato, barbaro – eccetera.
Inutile volersi opporre a tali tendenze: sono sorde,
aggressive e spesso morbose. Assai meglio è giungere più
in là, seguendo le direzioni che si aprono oltre il limite a
cui quella fede si è fermata. Ciò che si troverà più in là è,
come abbiamo visto, qualcosa di più antico
dell’Occidente: e appunto perciò utilissimo.
Conviene infatti intendersi su questa parola: antico.
La si usa, di solito, per indicare qualcosa che da molto
tempo è scomparso – come l’antico Egitto. Oppure
qualcosa che c’è da molto tempo – per esempio, un’antica
tradizione. Nel caso della Genesi valgono entrambe queste
accezioni: dato che la Genesi c’è ancora, ma ciò che essa
veramente contiene è scomparso dall’Occidente, perché
una grave nevrosi l’ha rimosso da molto tempo.
Ma anche un altro aspetto va considerato, nella parola
antico: una qualsiasi cosa può dirsi antica soltanto rispetto
a un tempo presente. E siamo sicuri che il tempo in cui
viviamo sia un presente: che, cioè, per molte ragioni si
distingua nettamente dal suo passato? La Genesi fa sorgere
dubbi in proposito, e così pure il pensiero dei sophói, o il
dionisismo, o il Vangelo.
Non mi riferisco qui a quel gran numero di persone
(più di quante si possa supporre) che oggi non vivono nel
114
loro tempo, ma quindici, venti, trent’anni fa, senza
accorgersene mai. Parlo proprio del nostro presente più
evoluto e consapevole di sé, più all’avanguardia in tutti i
campi: se la si paragona a certe velocità di elaborazione e
profondità d’analisi di quegli antichi, la nostra matis
attuale sembra appartenere a un’epoca precedente a loro,
più torpida, arida, timorosa, e conservatasi proprio in
reazione a ciò che in quegli antichi era nuovo. Dunque
sbaglia chi crede che antico e sorpassato siano sinonimi. Nel
nostro caso, l’antico appare ancora come futuro.
Purtroppo, finché rimane così escluso dal presente,
quell’antico-futuro è anche molto ingombrante. Ciò che
non capiamo della Genesi (ovvero di Dio e di tutto ciò che
Dio è e fa) occupa troppo posto, sotto forma di cono
d’ombra, nel nostro orizzonte quotidiano. Condiziona il
nostro modo di pensare, di desiderare e agire – dato che la
Genesi parla di creazione e di bene e di male, cioè di quello
che più conta nel pensiero, nel desiderio e nell’azione.
Condiziona soprattutto il nostro modo di non pensare,
di non desiderare, di non agire abbastanza. In realtà, il
mondo in cui viviamo, e la mente con cui lo capiamo (il
che è la stessa cosa) sono tanto piccoli quanto il contenuto
di verità che l’Occidente è riuscito a trarre da quel suo
antichissimo libro sacro.
Ma secondo gli esperti, tale contenuto di verità non
può aumentare.
115
La teoria dell’incomprensibilità
I presupposti dei biblisti attuali sono purtroppo i
seguenti: non si può affermare nulla di preciso su chi
scrisse la Genesi; non si può sapere quando precisamente
fu scritta; e non è neppure certo che nella Genesi ci sia
qualcosa di preciso da capire.
Quest’ultimo punto è da circa un secolo il principale
dei tre. Ha una vastissima bibliografia, nella quale si
sostiene innanzitutto che se gli specialisti della Genesi non
sono riusciti e non riescono a spiegarla in modo coerente,
ciò si deve al fatto che la Genesi è di per sé incoerente. La
Genesi, secondo tale presupposto, non sarebbe che una
serie di frammenti di altri testi (di cui tuttavia nessuno sa
nulla) che molto tempo fa qualcuno (ma non si sa chi né
quando) avrebbe cucito insieme alla bell’e meglio. A
parere degli specialisti non è possibile pensare altrimenti,
perché se nella Genesi ci fosse una coerenza, la si sarebbe
trovata di sicuro.
È una ben strana maniera di ragionare. Ma costituisce il
fondamento anche degli altri due presupposti: secondo i
nostri biblisti non si può sapere quando fu scritta la
Genesi, semplicemente perché non lo si sa; e non si può
dire nulla di preciso su chi la scrisse, semplicemente
perché nessuno specialista ci prova.
Lo so che è difficile da credere, per chi non sia del mestiere. Ma valga lo stesso metodo
di verifica che suggerivo per la nevicata strana: chi legge sfogli un qualsiasi testo di
esegesi, di critica veterotestamentaria, religioso o no (poco importa), e constati.
116
Se vi applicassimo il criterio di Anassagora, questa
teoria dell’incomprensibilità della Genesi si dissolverebbe
in un attimo: poiché la causa di ogni cosa è nel suo scopo,
risulterebbe evidente che il non capire che cosa dica la
Genesi è non la causa, ma lo scopo delle insormontabili
difficoltà incontrate dagli specialisti.
Noi traiamo da ciò indicazioni molto utili.
Evidentemente, ciò che preme ai biblisti è tutelare una
rimozione; sanno o indovinano che l’Occidente vuole ciò
da sempre, e obbediscono, facendo sì che i loro studi
biblici non chiariscano nulla e non abbiano perciò alcuna
conseguenza. Ma i loro impedimenti cessano, se ci poniamo
lo scopo opposto: cambiare il più possibile il nostro modo
di pensare, di desiderare, di agire, attraverso ciò che la
Genesi narra del punto di vista dell’Oltremare, diverso
dalla nostra civiltà, antico e perciò nuovissimo, nella
prospettiva di Dioniso e Śiva invece che in quella di Hera
e di Erode. Ne prendono forma presupposti migliori di
quelli a cui si attengono i biblisti; e stabilire se un
presupposto sia migliore di un altro non è affatto difficile:
è sufficiente che permetta di capire di più.
Eccone alcuni.
117
Chi la scrisse
Riguardo a chi scrisse la Genesi, l’ipotesi più densa di
conseguenze che si possa formulare è quella più antica,
secondo cui l’autore fu uno solo, e fu quel Mosè di cui
narra il libro dell’Esodo. La si può intendere in due modi,
entrambi compromettenti.
Il primo modo, ingenuo, consiste nel supporre che un
nobile egiziano esule e ribelle avesse trovato il tempo,
durante la sua avventurosa vita, di scrivere in un libro
tutto ciò che sapeva del suo Dio, dell’universo, dei
rapporti tra quel Dio e l’umanità. E possiamo benissimo
immaginare l’ex cortigiano intento alla stesura, con
pennellini, fiale d’inchiostro, foglietti di papiro, e una
cassetta di rotoli-libri da consultare, a portata di mano.
Nella sua tenda. Con intorno le tende del suo popolo
eletto e perplesso, in uno qualsiasi dei quarant’anni che
trascorse nel Sinai.
L’altro modo, più accorto, consiste nel supporre che,
durante la sua avventurosa vita, quell’esule fosse riuscito
a diventare, nella mente e nell’animo dei suoi seguaci,
qualcosa di molto simile a ciò che Gesù fu per i suoi
discepoli: una realtà della psiche, cioè un individuo tutto
quanto ideale, simbolico, e nondimeno vivissimo in loro, e
anche nei loro discepoli, per diverse generazioni.
Nel caso di Gesù, grazie a questa sua realtà psichica
poté avvenire che, circa un secolo dopo la sua morte,
numerosi autori ne scrissero la storia e i discorsi come se
l’avessero conosciuto e ascoltato di persona, e quei loro
scritti (una trentina almeno di ottimi Vangeli) risultarono
per la maggior parte concordi tra loro, narrarono un
medesimo Gesù, benché provenissero da luoghi anche
118
molto lontani l’uno dall’altro. In seguito, dopo il IV secolo
d.C., quella realtà psichica di Gesù cominciò a scemare,
«salì al cielo», e nessuno scrisse più Vangeli degni di nota.
E «di là ritorna a giudicare i vivi e i morti», attesta la dottrina cristiana. Si augura che
ciò avvenga nel futuro. Avviene in realtà negli animi, ogni volta che leggendo quei
Vangeli lo si avverte, lo si ritrova, e risorge.
119
chi scrisse la Genesi non poté non mostrarsi tutta nel testo,
poiché così avviene sempre in un capolavoro: diede cioè a
chi legge tutte le indicazioni necessarie a comprenderla, a
seguirla mentre penetrava nelle dinamiche della creazione
dell’universo, nei pensieri di Dio e nelle fasi
dell’evoluzione dell’umanità. Di conseguenza, leggere la
Genesi è giungere dove quella mente giunge.
Cioè Oltremare. Per guardare da lì il nostro tempo, la
nostra civiltà, le nostre religioni, come qualcosa di ormai
superato. E cominciare a vivere altrimenti.
120
Quando
Sulla datazione della Genesi, gli specialisti hanno ragione:
è impossibile stabilirla. Può risalire a tredici, quattordici,
addirittura a sedici secoli prima di Cristo.
E nemmeno di Mosè si può dire con certezza quando
visse. L’Esodo del popolo ebraico poté avvenire nel XVI
secolo a.C., come pensavano Erodoto e Giuseppe Flavio.
Oppure nel XII a.C., all’epoca di Ramses II, come pensano
soprattutto gli egittologi francesi e gli sceneggiatori di
Hollywood. O anche nel XIV secolo a.C., poco dopo la
morte del faraone eretico Akhenaton, come supponeva
Freud e come anche a me piacerebbe molto.
Ma ciò che sembra destinato a sfuggire all’attenzione
occidentale è l’evidente ragione di tanta incertezza. Paolo
di Tarso la indicò per primo:
Mosè poneva un velo sul suo volto, e fino a oggi quel velo rimane,
senza che sia stato levato, sul testo del Vecchio Testamento. 1
121
dell’Impero egiziano, li leggessimo come un romanzo di
fantascienza ambientato nel trentesimo millennio dopo
Cristo – se, cioè, stabilissimo che con «deserto» si debba
intendere lo spazio interstellare, che i nomi geografici si
riferiscano a pianeti abitati, e che Babele è una stazione
orbitale, i «carri egizi» sono incrociatori di Trantor e la
«carovana» degli ebrei un convoglio di astronavi.
Per Trantor, si veda Il ciclo della Fondazione di Isaac Asimov: una serie di romanzi
in cui, in tutt’altra forma, si delinea una vicenda molto simile a quella che qui vado
documentando nella Genesi.
122
Allora Mosè si allontanò dal faraone, e giunse nel paese di Madian.
E si fermò accanto a un pozzo. 3
123
Per chi
Questa universalità è percepibile soltanto a chi non la
teme. Nella Genesi, Abramo si sente dire da Dio:
Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò. 4
124
sacerdoti riuscirono a capire che cosa vi si leggesse. 5
Cent’anni prima, Isaia scriveva:
125
La lingua pesante
È Mosè stesso a segnalarlo, in un passo molto frainteso
dell’Esodo: nel racconto del suo primo diverbio con il Dio
che gli stava affidando la missione di predicatore e di
capo rivoluzionario.
126
interpretazioni nei prossimi capitoli. Se ne poteva fare a meno, e l’esposizione del
contenuto del libro sacro ci avrebbe guadagnato in agilità. Ma noi, nel XXI secolo,
viviamo su un confine, non ancora oltre; e prima di proseguire siamo tenuti, se non
altro per buone maniere, a un addio a ciò che finora ci ha trattenuto. Così ho pensato
bene di segnalare, a ogni passo, che cosa restava alle spalle; porti pazienza il lettore che
ha fretta. Tra un secolo, se tutto va bene, i libri su Mosè si scriveranno senza bisogno
di questo districarsi dai vecchi errori.
127
lingua kabed, che è quella in cui i libri di Mosè sono scritti.
E l’istruzione è Haron, «la bocca», cioè la possibilità di
leggerli.
Si delinea qui l’elemento fondamentale della lingua di
Mosè, e la ragione per cui gli ebrei non la parlavano: era
una lingua scritta, un geroglifico, ovvero un sistema
linguistico in cui la forma grafica delle parole esprime
significati diversi da quelli che le parole comunicano
quando vengono pronunciate. Dio dice a Mosè che non è
poi un gran problema, e che sicuramente ve la caverete, tu
e Haron. Ma Mosè aveva tutte le ragioni di preoccuparsi.
E ora vedremo perché.
128
L’ebraico geroglifico
Questo capitoletto ricostruisce la storia e la struttura di una lingua segreta che gli
specialisti ignorano e che scopriranno prima o poi: faticheranno un po’ (per almeno
una generazione, presumo) a capire come mai non se ne fossero mai accorti, ma
gioiranno, in compenso, dell’enorme quantità di informazioni che si ottengono dal
testo della Bibbia, attraverso questa lingua; e i loro saggi diventeranno molto
interessanti. Sia la storia, sia la struttura dell’ebraico geroglifico colpiranno, inoltre,
gli ebrei, che oggi (da poco più d’un secolo) parlano questa lingua senza saperlo.
Ma non nascondo al lettore non specialista, non linguista, non filosofo della lingua,
o non ebreo, che le prossime dieci pagine potranno risultargli un po’ troppo inconsuete.
Poco male se deciderà di saltarle. Nella Tavola a pagina 94 troverà comunque un
prontuario comodo, per orientarsi in ciò che dell’ebraico geroglifico si dirà nel seguito
del testo.
129
Eliezer
Certo, il fatto che l’ebraico sia stato in origine una lingua
riservata ai sapienti, e destinata soltanto alla scrittura, è
oggi difficile da mandar giù, specialmente in Israele, dove
dal 1946 lo ‘ivriyt è la lingua ufficiale.
Siamo abituati a pensare che fosse la lingua di Abramo
e Sara, di Mosè e Haron; e che gli ebrei avessero
cominciato a dimenticarla attorno al VI secolo a.C.,
preferendo l’aramaico come lingua corrente; e che sia
«rinata» ventiquattro secoli dopo, grazie al sionismo,
quando grandi intellettuali (come l’appassionatissimo
filologo lituano Eliezer Ben Yehuda, durante il suo esilio a
Parigi) ne difesero la bellezza, il significato ideale e le
potenzialità espressive, di contro all’yiddish e alle altre
forme di «giudaico» parlate dagli israeliti in Europa e in
Asia – un po’ come se nel nostro Risorgimento si fossero
difesi i diritti del latino contro i dialetti in uso nella
penisola, o se in Iraq qualche supernazionalista avesse
proclamato la superiorità del sumero sull’arabo.
Ma non fu esattamente così.
L’ebraico antico era una lingua che gli ebrei non
avevano mai persa, perché non l’avevano mai veramente
avuta.
130
Come in chimica
Era una lingua artificiale, costruita con straordinaria
maestria nei templi egizi da studiosi che oggi
lavorerebbero in qualche centro di linguistica
computazionale, e che se la tenevano per sé – per uso
interno, diremmo noi.
Anticamente aveva – come ha oggi – un alfabeto di
ventidue lettere, tutte consonanti; le vocali non venivano
segnate in alcun modo. Queste consonanti formavano un
centinaio di nessi, chiamati radici, e le radici a loro volta
formavano parole, con l’aggiunta di una o più lettere. Fin
qui nulla di speciale: nella grande maggioranza delle
lingue del mondo avviene che le parole si formino da
radici (per esempio, «radice» da rad-; e «formare» da for-).
La particolarità dell’ebraico geroglifico era che ciascuna
delle ventidue lettere indicava una precisa serie di concetti, e
che queste ventidue serie di concetti esprimevano altrettante
strutture fondamentali del pensiero umano, individuate da
quei sapienti nel corso di chissà quanti secoli di ricerca in
un ambito che oggi si chiamerebbe psicologia del
profondo, Gestalt, semiotica, psicologia cognitiva,
gnoseologia, linguistica, logica, metafisica, filologia,
teologia, fenomenologia e un’altra mezza dozzina di -
logìe.
Ciò fa assomigliare l’ebraico geroglifico alla lingua
artificiale delle nostre formule chimiche: anche in chimica,
una serie di lettere indicano gli elementi (H per
l’idrogeno, O per l’ossigeno, C per il carbonio eccetera), e
se ne traggono le formule dei composti semplici (H 2O,
CO 2 eccetera) e di composti tanto più complicati quanto
più numerose sono le lettere che vi si aggiungono.
131
Allo stesso modo, grazie a quei significati delle lettere,
ogni parola dell’ebraico geroglifico costituiva, nella sua
forma grafica, la formula mentale di ciò che indicava:
mostrava quali strutture della mente occorressero, e in
quali proporzioni, per capire l’oggetto indicato
(qualunque esso fosse, visibile o invisibile), così come la
formula H 2O mostra che occorrono due atomi di idrogeno
e uno di ossigeno per definire chimicamente ciò che
chiamiamo acqua.
Curioso che il termine «chimica» venga da Kemi, che è il nome antico dell’Egitto –
letteralmente «la Terra Nera». Davvero le parole sanno moltissimo, e influiscono.
132
Risposta a Pilato
Vediamo qualche esempio di questa lingua artificiale. La
prima lettera dell’alfabeto geroglifico ebraico è àlef,
133
– cioè ’M (pronuncia ’em). La M ebraica rappresenta i
concetti di «orizzonte», di «contenere», «proteggere».
«Madre», ’M, in ebraico geroglifico, è dunque: «chi ha la
capacità di portare dentro di sé». Ed è anche una radice.
Se vi aggiungiamo una lettera diventa un’altra parola:
134
compare mai, riferita alla lingua in cui la Bibbia è scritta.
Questo lavoro di adattamento richiese certamente
secoli. Ma il risultato meritava tanta fatica.
Così, nella conversazione di Pilato con Gesù, la domanda «Che cos’è la verità?» e il
fatto che non vi ricevette risposta hanno senso se i due stavano parlando in greco, in
latino o magari in aramaico. Mentre se Pilato avesse conosciuto la lingua di Mosè, non
gli sarebbe nemmeno passato per la mente di domandarlo: la risposta si sarebbe
trovata nella parola stessa, nelle sue tre lettere, àlef-M-T, cioè: la capacità di
esprimere ciò che qualcuno porta dentro di sé, come una madre porta in sé il figlio che
deve nascere.
135
I mattoni della realtà
Consideriamo qualche altro vantaggio di questa lingua di
sapienti.
Nelle lingue non geroglifiche, l’unità minima di
significato è la parola. Comprendere una lingua non
geroglifica significa perciò conoscere un certo numero di
parole: almeno un migliaio; e per ragionare sul serio
bisogna conoscerne un po’ di più, perlomeno il triplo. Ma
nelle lingue non geroglifiche ciò che connette una parola
al concetto che essa indica è soltanto una convenzione,
un’abitudine condivisa da tutti coloro che appartengono
alla nazione in cui si parla quella lingua; dunque
conoscere una lingua non geroglifica significa aver
appreso molte abitudini, parlarla è conformarsi e limitarsi
a esse – lasciando perdere tutto ciò che quelle abitudini
non sono in grado di esprimere.
Capire quelle abitudini non occorre, nelle nostre lingue.
Per usare le parole «alba» e «albergo» in italiano, oppure
hot e hotel in inglese, o papier e papa in francese, non
occorre sapere perché queste coppie di parole comincino
con le stesse lettere, e se ciò significhi qualcosa o – in caso
contrario – come mai ciò non significhi nulla. È sufficiente
ricordare in che modo quelle parole vengono usate,
appunto perché l’unità minima di significato in una
lingua non geroglifica è la parola, e non la sillaba o la
singola lettera.
Nella lingua di Mosè, l’unità minima di significato è
invece la lettera, e ce ne sono soltanto ventidue. Anche
queste, naturalmente, sono limiti; ed è dunque un’ottima
cosa che siano così pochi – dato che in qualsiasi
situazione, quanto meno limiti si hanno, tanto più si può
136
fare. Ne deriva un evidente vantaggio: nel comunicare
pensieri, sentimenti, sensazioni, non occorre che ogni
parola usata e il suo concetto esistano già nella memoria
dell’interlocutore. È sufficiente che costui conosca quei
ventidue elementi, e qualsiasi parola gli risulterà chiara,
anche se chi la usa l’avesse inventata solo un quarto d’ora
prima.
137
L’ebraico e la fede
Altro vantaggio notevole di questa lingua, è che in essa
non rimanga alcuno spazio per la cosiddetta fede. Con le
nostre lingue non geroglifiche, possiamo credere in molte
cose, cioè usare molte parole senza voler sapere che cosa
indichino precisamente: per esempio, «Dio», «anima»,
«spirito», «bene», «male», «creare», «vita» o anche la
parola «io» (di cui anche gli psicologi ignorano il
significato). Possiamo farlo, appunto perché la parola è
per noi l’unità minima di significato.
Poiché nella lingua di Mosè quei mattoni sono le
lettere, di ogni parola si vede con quali mattoni si sia
costruito il suo significato. È perciò impossibile, in questa
lingua, convincersi che le parole «Dio», «anima», «spirito»
eccetera significhino qualcosa anche se non si sa bene
cosa. Lo si sa appena le si vede scritte. E non è neppure
possibile che si formi in questa lingua una parola che non
abbia un significato preciso: sarebbe come voler costruire
con un po’ di mattoni qualcosa che non sta in piedi.
Fede è anche immaginare che un certo avvenimento sia
accaduto in passato o avverrà in futuro, senza sapere bene
in che cosa quell’avvenimento consista.
Così, per esempio, nelle nostre lingue non geroglifiche è possibile credere che «in
principio» «Dio» abbia «creato» il «mondo» dal «nulla» (metto tra virgolette le parole
di cui solitamente si ignora cosa vogliano dire). In pratica, ciò significa: «Noi crediamo
che a un certo momento (ma non chiedeteci quando) sia successo qualcosa (ma non
staremo a precisare cosa)».
Oppure si crede che il nostro «io» continui a «vivere» dopo la «morte», ovvero che
qualcosa-che-non-sappiamo-bene-cosa-sia continui a fare qualcosa-che-non-capiamo, in
138
una dimensione di cui non sappiamo nulla.
È comprensibile che le persone di fede siano spesso intolleranti, aggressive: chi non
lo sarebbe, con pensieri tanto incerti che gli ronzano per la mente?
139
Parole e fatti
Ciò è magnifico quando si usa questa lingua per pensare
con chiarezza. Un po’ meno quando – come spesso
avviene – si parla per nascondere qualcosa agli altri o a se
stessi, come l’inconsistenza di un pensiero. Prendiamo per
esempio la frase:
«Sì», potremmo obiettare nelle nostre lingue non geroglifiche, «ma in quella frase
s’intende la vera origine dell’universo, e non il concetto che abbiamo dell’origine
dell’universo.»
Ma questa obiezione, che sembrerebbe molto concreta, è in realtà fondata su
un’illusione. La «vera origine dell’universo» non c’è affatto, perché «origine
dell’universo» è solo un concetto che la nostra mente ha fabbricato. È vero soltanto nel
nostro desiderio che lo sia. E tale desiderio sarebbe doveroso oggetto di scienza, più che
non ciò che con esso si immagina.
140
Certo, usare la lingua di Mosè, pensare con la lingua di
Mosè, significa muoversi in direzioni molto diverse da
quelle che nelle altre lingue appaiono fondamentali.
Sarebbe impossibile giustificare un conflitto religioso, in
questa lingua: tutti i conflitti religiosi si basano su
divergenze di fede, cioè su divergenze riguardo a ciò che
non si sa e non si vuol sapere di parole come «Dio»,
«anima», «spirito» eccetera.
Anche lasciarsi ingannare da moralisti e politici
sarebbe difficile, in questa lingua: la maggior parte degli
inganni morali e politici si fondano su quel margine
(spesso amplissimo) di indeterminatezza che permane in
parole come «amore», «bene», «male», «civiltà»,
«progresso», «nazione» eccetera. E ciascuna di queste
parole causerebbe problemi molto minori, se fosse chiaro
che cosa indica.
Può darsi che anche da ciò dipenda l’ignoranza di
questa lingua geroglifica da parte dei teologi e dei filosofi,
e tale ignoranza rientrerebbe dunque tra le tante
conseguenze del non-voler sapere e della nostra nevrosi
occidentale. Ma senza dubbio agì qui anche la riluttanza
ad ammettere che qualche millennio fa fossero vissute
persone tanto intelligenti da creare una lingua artificiale
più efficace delle lingue naturali, mentre dopo d’allora
non avvenne mai più nulla di simile. Tuttavia, se appena
si scavalca questa riluttanza, diventa facile collegare i
puntini.
141
I due geroglifici
Mosè fu il primo a usare questa lingua in un testo
letterario (dato che non si hanno documenti in ebraico
precedenti alla Genesi). E in Egitto potevano benissimo
esserci persone in grado di creare una lingua del genere,
dato che lo si era già fatto con l’egiziano geroglifico, che
cominciò a comparire nei documenti ufficiali e nei testi
solenni attorno al 3100 a.C., accanto a un’altra grafia non
geroglifica in uso da oltre un millennio.
Quando comparve, il geroglifico egiziano era già un
sistema linguistico complesso, e perfettamente elaborato –
tanto che non subì mutamenti di rilievo per tutto il
periodo in cui venne usato, ovvero per trentacinque
secoli. Ciò fa escludere che si trattasse di una lingua
naturale, dato che le lingue naturali si evolvono, in ogni
loro aspetto: lessicale, sintattico, grafico. Era il prodotto di
un deliberato lavoro di ricerca e creazione, di certo
incominciato molto tempo prima del 3100, e se ne può
intuire lo scopo: ai sapienti, ai sacerdoti egiziani occorreva
una lingua che esprimesse concetti, processi e sistemi
senza gli intralci che inevitabilmente si hanno nelle lingue
naturali.
Dicevo poco fa che imparare una lingua naturale
significa assimilare centinaia di abitudini e adeguare a
esse il nostro pensare. In quelle abitudini sono stratificati
ed espressi i tabù, le ossessioni, le superstizioni, la fede, le
rassegnazioni a grandi ingiustizie e a grandi infelicità che
– come sempre accade – hanno fatto la storia della
nazione in cui quella lingua viene parlata.
142
È chiaro, per esempio, che il termine italiano matrimonio (letteralmente «il far sì che
una donna possa diventare madre») riesce a esprimere un’idea dell’unione coniugale
molto diversa da quella del francese mariage (letteralmente «il far sì che una donna
abbia un marito», dal latino mas, maschio); o che l’italiano amore e l’inglese love non
esprimono lo stesso concetto, dato che amore indica un modo di desiderare (deriva dal
sanscrito kama, «desiderio» attraverso il greco mao, «desidero») mentre love indica
un modo di agire (deriva dal latino lubere, «far piacere»).
Non per nulla i cristiani prima, e gli islamici poi, abolirono il geroglifico, durante il
loro dominio in Egitto; e non per nulla l’Occidente riuscì a decifrarlo soltanto dopo la
Rivoluzione francese.
143
La somiglianza del geroglifico egiziano con il
geroglifico ebraico fa pensare che ebbero la medesima
origine: dopo aver creato il primo, quei sapienti
continuarono l’opera, per ottenere un risultato ancora
migliore.
Ci riuscirono. Rispetto all’egiziano, l’ebraico geroglifico
era più agile, più semplice e al tempo stesso più rigoroso.
A ciascuna delle ventidue lettere ebraiche corrispondono
uno, due, al massimo tre suoni; invece nel geroglifico
egiziano vi erano trenta segni che indicavano ciascuno un
suono, ottanta segni che indicavano l’unione di due suoni,
una cinquantina che indicavano l’unione di tre suoni – e
in più i «determinativi», ovvero i segni muti che
comparivano alla fine della maggior parte delle parole
egiziane, e che dovevano puntualizzare la categoria
semantica delle parole stesse. 1 La morfologia ebraica era
più facile di quella egiziana, e così pure la scrittura – come
si può verificare confrontando le lettere ebraiche con le
corrispondenti lettere egiziane, da cui chiaramente
derivano:
144
Come non preferire il nuovo?
Penso che quei sapienti si fossero serviti a lungo del
geroglifico egiziano, nei loro scritti, come strumento di
analisi e d’elaborazione di una conoscenza riservata
soltanto agli iniziati. E quando il geroglifico nuovo fu
sufficientemente perfezionato, il vecchio cessò di essere
segreto e divenne la calligrafia dei documenti ufficiali, dei
testi destinati al culto pubblico e delle iscrizioni
monumentali, quasi che i sapienti ne avessero fatto dono
alla corte faraonica, come si dona a un museo militare un
cannone ormai antiquato; e in tale aspetto lo videro i
viaggiatori greci: segni elegantissimi incisi su steli e pareti
di templi; chiesero in giro, e seppero che era stata una
grafia sacra, cioè segreta; e videro che non lo era più;
donde il termine greco: hieroglyphia, «sacra scrittura, ora
incisa».
Il geroglifico nuovo rimase invece proprietà esclusiva
dei templi. Finché Mosè vi mise mano.
145
Il furto
L’intenzione di Mosè fu sacrilega.
146
viene tradotto «arca» è in ebraico tebah, che vuol dire
«parola», «linguaggio», e Dio non solo insegna a Noè a
costruirla in modo che arrivi a contenere tutto ciò che è
vivo e fertile, ma nel frattempo prepara il Diluvio – cioè la
fine del mondo come lo si era imparato a conoscere fino
ad allora.
Anche Mosè, con il suo sacrilegio, voleva che un’intera
cultura venisse superata, e sprofondasse nel passato, e che
tutto ciò che è fertile e vivo cominciasse a esistere, nella
nuova lingua, in un altro modo.
147
Mosè e Akhenaton
E Mosè fece tutto da solo? Anche questo è possibile.
Dante fece qualcosa del genere con l’italiano, nella Divina Commedia – da solo. La
differenza rispetto a Mosè, fu che invece di usare una lingua coltissima per divulgare
misteri e narrare vicende quotidiane, Dante usò (adattò, e inventò in parte) il volgare
per divulgare misteri e narrare filosofia.
148
titolo regale (e significava: «Meravigliose-sono-le-
manifestazioni-di-Ra»). Vi è tuttavia ragione di pensare
che qui, riferendosi a se stesso, Akhenaton non intendesse
soltanto se stesso, ma un modo di essere se stessi – quello
che Dioniso aveva sperimentato nei suoi viaggi e che
molti secoli dopo i sophói definiranno come l’essersi
«separati da tutto».
Quanto al sentirsi «figlio di Dio», all’epoca di
Akhenaton era già stata abbandonata, da secoli, l’usanza
di onorare il faraone come un essere divino. «Figlio di
Dio», nell’Inno ad Aton, è quell’essere-se-stessi; e in ciò vi è
un legame stretto con il Vangelo di Giovanni:
149
Tu sei davanti a tutti ma essi non vedono la tua via.
150
E oggi
Dunque Dio ebbe torto, quando esortò Mosè a confidare
in Haron, cioè nella possibilità che la sua «lingua pesante»
venisse compresa?
Possiamo intenderla soltanto come una promessa
ancora da mantenere. Allora non avvenne, e da allora il
senso della lingua di Mosè rimane kabed sia per l’ebraismo
sia, a maggior ragione, per le religioni che dall’ebraismo
sono derivate. Ma può avvenire. Abbiamo visto che Mosè
libera i propri racconti da ogni vincolo geografico o
storico. Ne deriva che anche Haron può arrivare sempre,
ovvero può arrivare adesso. E quell’antico sacrilegio può
riattualizzarsi: svelare una lingua segreta e attraverso di
essa un universo nuovo. Intanto, eccone qui di seguito
l’alfabeto.
151
Tavola dell’alfabeto ebraico geroglifico
152
scrittura: è come domandarsi se la C di CO 2 debba
leggersi «č»,«k» o «ts».
Contano poco anche le vocali, e perciò è uso segnarle in
minuscolo nella traslitterazione scientifica; a quest’uso mi
uniformo volentieri: dà alle traslitterazioni un piacevole
andamento da montagne russe, che non disturba. Come
vedremo, spesso i significati geroglifici riservano sorprese
vertiginose, mozzano un po’ il respiro.
In trascrizione è B
153
D
154
È un’aspirata dura, come la jota spagnola. Era il segno
dell’esistenza, del lavoro, dello sforzo, dell’equilibrio tra forze
diverse, e dell’impegno che occorre per raggiungerlo; e
altresì della legge: della lunga fatica con la quale i sapienti
l’hanno elaborata, e della necessità che nella legge si
esprime.
Come in ḤaY: «vivere».
155
L
156
Era una fricativa, una vibrazione ottenuta poggiando la
lingua alla faringe. Oggi è un colpo di glottide (come il
suono «h» di «Manhattan»). Era il segno dell’apparenza
esteriore e ingannevole, dell’indefinito, del sentito dire, del
vuoto.
Come in ‘aNaN: «nuvole».
157
Come in QaNaH: «acquistare».
158
Parte seconda
159
LA CREAZIONE
160
Mosè
Quanto alle «versioni consuete», a cui da qui in avanti faccio spesso accenni, si
intende con questo termine – salvo indicazioni più puntuali in alcuni casi –
qualsiasi edizione della Bibbia attualmente in commercio, in lingue occidentali.
Io ho sul tavolo La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana (UELCI,
Roma 2005, 2008), la Bibbia ebraica a cura di Rav D. Disegni (Giuntina, Firenze
1995); The Bible. Authorized King James Version (Oxford, New York 1997) e
alcune altre; ma per la Genesi e l’Esodo gli errori di traduzione sono, in tutte,
pressoché identici – fin dal III secolo a.C. Per la prima versione greca si può
vedere la bella edizione La Bible d’Alexandrie. LXX (Parigi 1994); per la Vulgata
latina, Biblia sacra vulgatae editionis (Milano 2003). Per il testo ebraico: Biblia
Hebraica Stuttgartensia (Stoccarda 1984).
161
La biografia della B
162
L’inizio
Genesi 1,1
163
Be-Re’ŠiYT
’Elohiym creò.
164
cercarlo?»
(Ma il «chissà» è poco meno del Male assoluto, in filologia. È accidia, avarizia e
banalità fuse in un unico mezzo sospiro.)
165
MaŠaL
Quel che vi era prima dell’inizio della Genesi si troverebbe
perciò molto dopo. Chi legge non se ne meravigli: agli
antichi piacevano queste cose. Amavano i percorsi
sinuosi: «L’intima natura delle cose ama nascondersi»,
diceva Eraclito. 1 Amavano soprattutto gli enigmi; anche
Gesù ne poneva di continuo: i Vangeli li chiamano
parabole, e servivano a frenare «quelli di fuori», cioè
coloro che non avevano sufficiente desiderio di conoscere
cose segrete. 2
In ebraico, «enigma» si dice MaŠaL, che in geroglifico è:
166
Il faraone sciocco e crudele
Esodo 1,7-22
167
FWu‘aH; e il re disse loro: «Quando assisterete le donne ebree nel
parto, osservate il neonato non appena esce dalla vagina, e se è
maschio uccidetelo, se è femmina lasciatela in vita». Ma le levatrici
temettero ’Elohiym. Non fecero quel che aveva ordinato loro il re
dell’Egitto e lasciarono vivere tutti i neonati. Allora il re dell’Egitto
convocò di nuovo le levatrici e disse loro: «Perché avete lasciato
vivere i maschi?» Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree
non sono come le egiziane, sono vigorose, e prima che arrivi la
levatrice hanno già partorito!» ’Elohiym ricompensò le levatrici, e
così il popolo si accresceva e diventava molto potente. E poiché le
levatrici avevano temuto ’Elohiym, Egli le ricompensò facendo case
per loro. Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il popolo: «Ogni
neonato ebreo maschio sia gettato nel Nilo, e ogni femmina sia
lasciata in vita».
168
Sul fiume
Esodo 2,1-9
169
sposa, e Nefti, la «Signora del Tempio», sposa
dell’assassino di Osiride, Seth. Nel racconto dell’Esodo, il
ruolo di Nefti sembra toccare alla «figlia del faraone»: il
faraone è qui il Seth della situazione. E Iside, che nel mito
egizio riporta Osiride alla vita, diventa qui la sorella di
Mosè.
170
E Sargon a sua volta aveva attinto ancora più in là, in
India. Skanda – che secondo alcuni fu il figlio di Śiva,
secondo altri un suo volto infantile – era detto «il bimbo
tra i giunchi della riva», poiché lui pure era stato
abbandonato lungo un fiume, e anche le sue nutrici
vennero trasformate, secondo il mito indiano, nelle sei
stelle delle Pleiadi.
171
Le profonde correnti del Fiume
«È nient’altro che l’archetipo dell’eroe: capita spesso nei
miti che l’eroe nasca in pericolo, venga esposto, raccolto,
allevato da estranei. Trattandosi di un archetipo, è
normale che riemerga qua e là»: un mitologo o
narratologo attuale potrebbe sbrigare così la questione.
Può darsi. Ma nel racconto del bimbo abbandonato in
riva al Nilo non si tratta affatto della biografia di un eroe.
In Mosè vi è la B, cioè la dimensione in cui poté prendere
forma tutto ciò che è scritto nella Genesi, e di questa B si
stanno narrando qui la nascita pericolosa e la salvazione.
Il fatto che fin dalla nascita la B sia congiunta a Osiride,
a Dioniso e a Śiva, significa soprattutto che la dimensione
da cui nacque la Genesi non fu né soltanto ebraica, né
soltanto egizia, né greca, né indiana, ma nacque come
punto d’unione di quelle quattro dimensioni.
172
Ciò ci permette di risolvere anche l’enigma del faraone
crudele.
173
La persecuzione dei bambini
Mosè, e con lui la B, nascono in pericolo.
Il pericolo è dato da un re, custode dell’ordine
costituito.
Quanti bambini, in ogni epoca, vengono uccisi perché
l’ordine costituito li teme? Certamente moltissimi, se con
«bambino» intendiamo la genialità, la creatività, l’intenso
desiderio di verità e di futuro che sono propri
dell’infanzia, e che in genere scompaiono durante la
giovinezza e l’età adulta.
Ma c’è anche un altro tipo di «bambini»: e sono quei
rinnovamenti interiori che a volte cominciano a nascere e
a diffondersi in una nazione. Può essere un ideale, o una
nuova corrente religiosa, da cui deriva un nuovo modo di
vivere, che venga avvertito come più autentico di ciò a cui
prima si era abituati. Anche in questi casi l’ordine
costituito tende tanto più a bloccare tali novità, quanto
più si esprime, in esse, un desiderio di verità e di futuro
simile a quello che ognuno di noi ha provato da bambino.
Ai tempi del faraone di cui narra qui l’Esodo dovette
avvenire qualcosa del genere: nacque in Egitto un nuovo
modo di vivere e di pensare che diveniva «potente», e
quel faraone voleva arginarlo.
L’Esodo chiama quella novità «i figli di Israele». Che si
trattasse di una corrente religiosa, lo vediamo proprio dal
fatto che il faraone avesse ordinato di uccidere i neonati
maschi e di lasciare in vita le femmine. È il riflesso di un
atteggiamento che i custodi dell’ordine costituito
assunsero spesso, nei tempi antichi (e qua e là ancor oggi),
al diffondersi di nuovi movimenti religiosi: li si tollerava a
condizione che fossero solo femminili – ovvero che non si
174
introducessero nelle gerarchie dello Stato, nell’esercito,
nella gestione degli apparati produttivi, dei commerci e in
tutti quegli altri ambiti vitali per lo Stato stesso,
solitamente riservati ai maschi. Così avvenne in Grecia al
diffondersi del dionisismo, dal XV secolo in poi, e poi a
Roma, con la diffusione del cristianesimo. Non per nulla a
Roma, nel 313, la madre e la moglie dell’imperatore
Costantino erano cristiane, mentre lui no.
175
Le due levatrici
Ciò che il faraone voleva fermare era dunque l’adesione
dei suoi sudditi maschi a quella novità spirituale. Cercò
dapprima l’appoggio delle autorità religiose. Tra queste,
alcune non acconsentirono. L’Esodo le descrive come «le
due levatrici», e ciò non lascia dubbi: le «due Dee
levatrici» per eccellenza, in Egitto, erano Iside e Nefti, le
resuscitatrici di Osiride. Anche i nomi delle due levatrici
sono un’allusione alle due Dee: ŠiFRaH significa, in
ebraico, «la Bella», il che si adatta a Iside, il cui epiteto era:
176
I lavori forzati
Un’altra parte delle autorità religiose sostenne il re:
l’Esodo la descrive come i «sovrintendenti agli obblighi»
che imponevano «lavori di malta e mattoni» e «lavori in
campagna». Di nuovo, un egiziano non avrebbe avuto
dubbi nell’identificarli: il mattone era in Egitto il simbolo
di Seth, il Dio color ocra, l’assassino di Osiride e nemico di
ogni crescita. Il clero di Seth divenne così l’alleato del
faraone contro il nuovo movimento religioso: e obbligava
i «figli di Israele» ai culti tradizionali (i «lavori forzati»)
oppure li faceva apparire come un fenomeno marginale,
diffuso nelle «campagne», nelle periferie.
Mosè non amava l’edilizia, così come neppure Gesù l’amò: «Qui non resterà pietra su
pietra che non sia diroccata» (Matteo 24,2). Mosè e Gesù non avrebbero apprezzato,
dunque, né il culto ebraico del Muro del Pianto, né le basiliche cristiane – che
cominciarono a moltiplicarsi quando si smise di scrivere Vangeli. Fatiche di operai e
ricerca della verità non vanno insieme: l’Esodo non lascia dubbi in proposito.
Offendendo, naturalmente, una volta di più, la nostra civiltà.
177
In quale secolo
Quando avvenne questa persecuzione, nella storia
dell’Impero egiziano?
Nel racconto si parla di due «città a uso di magazzini,
PiToM e Ra‘aMṢeṢ»: gli esperti ritengono che si trattasse
di un qualche centro granario, e cercano – invano – di
identificarlo in qualche città realmente esistita. Qualcuno
suppone, dal nome della seconda città, che la si fosse
costruita per volere di un Ramses – forse Ramses II, Il
grande, che regnò nel XIII secolo, o uno degli altri nove
Ramses della XX Dinastia, che regnarono uno dopo l’altro
tra il 1190 e il 1070 a.C.
Ma in realtà la parola che qui viene di solito tradotta
come «magazzino» (MiṢKeNWuT) significa, in ebraico,
«condizione miserabile», «oppressione». Più che di un
magazzino di derrate, doveva trattarsi di un magazzino di
esseri umani: di quello che oggi si chiamerebbe un ghetto.
E i nomi delle due città lo confermano, se li si legge come
geroglifici.
Il nome PiToM è costruito sulla radice PT,
«un’estensione», «uno spazio», e vi è aggiunta la M, che è
il segno geroglifico del «confine»: dunque «uno spazio che
non può estendersi più di tanto».
Il nome Ra‘aMṢeṢ è formato dalla radice R‘, che
significa «il male», dalla M, che è «l’involucro», e dalla
lettera Ṣ, che è il segno dell’«involucro», della «prigionia».
Ma se si trattava di ghetti, non vi è ragione di
individuare un preciso periodo storico, in cui ciò sarebbe
potuto avvenire in Egitto: sarebbe più istruttivo cercare
un periodo storico in cui non avvenne qualcosa del
genere, nella storia di un qualsiasi Stato.
178
E noi
Oltre a questo programma di emarginazione e di adesione
forzata alla religione tradizionale, il faraone ricorse a
quella che oggi chiameremmo una campagna di stampa
volta a incoraggiare l’intolleranza religiosa: «diede ordine
a tutto il suo popolo» di avversare quel movimento
spirituale, e di cooperare al massacro dei «neonati
maschi» – che in sostanza non è diverso dall’assassinio di
Dioniso a opera dei Titani del passato. E a quel punto il
malvagio faraone (o, in condizioni analoghe, qualsiasi
tutore dell’ordine) poteva cominciare a sentirsi più
tranquillo.
179
donne della nobiltà egizia e da donne ebree. Narra l’Esodo
che quel giorno sul fiume
180
Addio all’Egitto
181
Nessun padre e due madri
Esodo 2,10
Prosegue il racconto:
182
in avanti lui è il mio ms, perché sono stata io raccoglierlo
quando era abbandonato». Più che «salvato» converrebbe
qui dire «adottato»; la madre vera – che nel testo è
indicata solo come «lei» – non obiettò nulla: non poteva
che rallegrarsene, dato che ora il fanciullo aveva
un’ottima sistemazione.
Ma in egiziano ms aveva anche un altro significato: era
la desinenza dei patronimici – come -ides in greco (per
esempio, Peleides, «figlio di Peleo») o come -vič in russo
(Ivànovič, «figlio di Ivàn»). A volte, invece del nome
paterno, gli egiziani inserivano nei patronimici il nome di
un Dio: Thutmose (Dhwt ms) significava «generato da
Thot»; Ramses (R’ms), «generato da Râ». Ma, tra gli
egiziani, Mosè non aveva né padre, né evidentemente
alcun Dio protettore: quel suo titolo, ms, suonava come un
patronimico spezzato: «figlio di», non si sapeva di chi.
Possiamo supporre che agli occhi dei più tale
condizione fosse peggiore di quella di un orfano, e solo
molto tempo dopo Mosè imparò ad andare fiero di quella
sua irregolarità: da adulto e fino ai suoi ultimi giorni volle
rimanere Mosè e basta, anche tra gli ebrei – per i quali il
patronimico era pressoché obbligatorio (si costruiva con
ben: per esempio, Haron ben Amram, cioè «figlio di
Amram»).
Intanto, aggiungiamo subito quest’altro elemento alla
nostra biografia della B: nessun padre – e dunque nessun
vincolo intimo, profondo, a qualche autorità, ebraica o
egiziana. La B da cui venne la Genesi era e doveva essere
una dimensione soltanto individuale.
183
Śiva non ha antenati né famiglia, la sua sola famiglia è la parola
divina, il Suono originario. 1
Non chiamate nessuno «padre», sulla terra, perché uno solo è vostro
Padre ed è nei cieli. 2
«Perché mi cercavate? Non sapete che devo occuparmi delle cose del
Padre mio?» Ma essi non compresero le sue parole. 3
184
Il romanzo
Esodo 2,11-15
E un giorno Mosè, già grande, uscì [per andare] dai suoi fratelli. E
vide i loro lavori pesanti, e vide un egiziano che batteva un ebreo tra
i suoi fratelli. Si guardò attorno e, visto che non c’era nessuno, colpì
l’egiziano finché lo uccise; e lo nascose nella sabbia. Il giorno
seguente uscì di nuovo; vide due ebrei che litigavano, e disse a
quello che aveva torto: «Perché maltratti un tuo compagno?» E
quello gli rispose: «Chi ti ha fatto capo o giudice su di noi? O pensi
forse di ammazzare anche me, come hai ammazzato quell’egiziano?»
Allora Mosè ebbe paura, perché pensò: «Certo la cosa si è risaputa».
E la notizia giunse al faraone, che cercò di mandare a morte Mosè.
Allora Mosè fuggì dal cospetto del faraone, e giunse nella terra di
MiD iY aN e si fermò accanto a un pozzo.
185
un testo sacro. In realtà è il contrario. La straordinaria
potenza dell’Esodo e anche della Genesi, come vedremo,
sta proprio nel realismo psicologico con cui vengono narrate
le vicende di Mosè e degli altri protagonisti, e in special
modo la loro Bildung, la loro trasformazione da uomini
smarriti in scopritori di Dio.
Perciò è bene, è utile, ed è anche «sacro» seguire con
precisione le loro vicissitudini interiori, adoperando la
psicologia come strumento di scoperta teologica. Ai
biblisti ciò non piace perché fa dell’accesso al divino
qualcosa di troppo comprensibile, di troppo vicino a
ciascuno di noi: ma tale avvicinamento non è la cosa più
meravigliosa che possa avvenire a chi si domandi cosa sia
Dio?
186
L’errore
Romanzesco, dicevo, è l’errore del giovane Mosè. E
consisté nel ritenere gli ebrei «suoi fratelli». Che il testo
dica «uscì per andare dai suoi fratelli», non significa
infatti che costoro fossero veramente tali: possiamo
avvertire un senso di fratellanza verso persone che non lo
avvertano affatto verso di noi; e così fu qui.
Mosè cercava fratelli, e li desiderava a tal punto da
credere di averli trovati. Doveva avvertire in sé
un’impazienza affettiva, un eccesso di confidenza,
un’ansia di piacere a molti, che aumentavano assai il
rischio di riuscire antipatico a tutti. Lo deduciamo
innanzitutto da quel verbo intensissimo:
Mosè uscì
187
personaggio che Mosè amerà più di ogni altro) verrà
detestato dai fratelli, che gli diranno:
188
alla violenza, se l’indomani cercò di impedire a un ebreo
di malmenare un compagno.
La precisione psicologica di questi dettagli è degna di
un narratore dell’Ottocento. L’io cosciente di Mosè appare
qui dostoevskianamente piccolo dinanzi a gigantesche
potenze che si agitano dentro di lui: l’odio, la furia
omicida, e al contempo il bisogno di apparire normale, il
bisogno che tutto continui ad andare come sempre. Mosè
era diventato «già grande», leggiamo nel testo; già grande
di statura, s’intende. In realtà è ancora sempre il bambino
che era stato affidato al Nilo, e di cui non lui stesso, ma
qualcos’altro decideva la sorte: tutto, sia fuori sia dentro di
lui, era più grande di lui.
Un bambino.
Così, evidentemente, richiede la B.
E non per nulla vediamo che torna a configurarsi qui
(più psicologico di così!) la stessa situazione della sua
primissima infanzia: il faraone vuole la sua morte, come
quando era appena nato; Mosè deve nascondersi, fuggire;
e c’è anche l’acqua: a Midiyan si ferma accanto a un
pozzo, e attende, proprio come a tre mesi d’età, che
qualcuno lo venga a salvare.
189
MiDiYaN
Altra domanda indispensabile: perché far fare al
protagonista una così magra figura? Un ribelle inutile. Un
terrorista improvvisato e obiettivamente stupido.
L’unica risposta possibile, è che l’autore dell’Esodo
volesse fare tabula rasa nella mente e nell’animo di chi
legge. Come a dire: «Ti sto portando in un posto lontano
da tutto ciò in cui crede la gente perbene, questa non è
una storia di gente perbene, perché la B ha bisogno di
tutt’altro: il nostro eroe è un ragazzino disperato, e potrai
starmi a sentire solo se anche tu, sotto sotto, lo sei un po’;
altrimenti è meglio che lasci stare».
Notiamo di passaggio che non avviene nulla del genere in nessun altro testo religioso –
se non nei Vangeli. Ma il cristianesimo non pose certo un ragazzino disperato come un
modello di comportamento. Le religioni occidentali si adeguano alle civiltà, e
condannerebbero senz’altro chi pensasse – come pensa qui l’autore dell’Esodo – che in
una civiltà essere buoni d’animo vuol dire lasciarsi opprimere da forze che non si
arriva a capire. E che di conseguenza, per chi è d’animo buono, la miglior cosa da fare
sia andarsene via.
Andare a Midiyan.
Dov’era Midiyan?
Gli studiosi di archeologia biblica suppongono che si
trovasse a sud-est del Mar Morto, a circa cinquecento
chilometri dal Nilo; e che quindi a Mosè, se andava di
gran carriera – a cavallo o a dorso di cammello – occorsero
un paio di mesi per giungere là.
Ma nel nostro racconto MiDiYan è prima di tutto una
190
parola, e un nome-formula. È l’unione di due radici: MD,
che significa «misurare», e DN, «il venire in giudizio», «il
giungere a una sentenza». In arabo, midyan acquistò il
senso di «dibattimento», «conflitto». A intenderlo in
questo modo, il «paese di Midiyan» appare come un
luogo dell’animo, della mente di Mosè e di ogni
individuo.
È dove ci si viene a trovare quando capiamo che il
corso della nostra esistenza è bloccato da realtà interiori
che non riusciamo a riconoscere: desideri diversi e in
contrasto tra loro; talenti che esigono di essere usati e
timore dei cambiamenti che essi ci imporrebbero;
sconfitte, tradimenti, traumi che non sappiamo superare.
E siamo a Midiyan quando, dinanzi a tutto ciò, ci
sentiamo ragazzini disperati, come si sentiva Mosè.
È insomma un posto per nevrotici; possiamo tradurlo
«il Periodo del Conflitto», invece che come un nome
geografico. In sanscrito, «Periodo del Conflitto» si dice
Kali Yuga.
Kali Yuga, per gli hindu, è la peggiore delle epoche: si sa che dura
quattrocentoventimila anni – troppo, perché non la si debba intendere come una cifra
simbolica. Possiamo interpretarla così: si è nel Kali Yuga quando ci si sente in
un’epoca brutta, con intorno soltanto caos, ingiustizia, errori, e con il deserto nel cuore
– e senza alcuna speranza che finisca. Ma i Purana avvertono: «I meriti che nelle
epoche migliori si conquistano in un anno o in un mese, nel Kali Yuga si conquistano
in un giorno». Nel Kali Yuga l’individuo impara e scopre magnificamente, per la
stessa ragione per cui ciascuno dà il meglio di sé quando è con le spalle al muro: perché
è solo; perché non può perder tempo a spiegare qualcosa a qualcuno; perché nulla
intorno vale la pena.
191
Il Racconto di Sinuhe
È utile sapere che i territori a sud-est del Mar Morto
avevano già avuto, in Egitto, una loro celebrazione
letteraria: nel Racconto di Sinuhe, un classico della
letteratura egiziana. Fu un bestseller per più di un
millennio. Ne sono state ritrovate numerose copie non
soltanto in papiro, ma anche su cocci di terracotta –
poiché veniva adottato come libro di testo dagli
insegnanti di scrittura, e i cocci a quel tempo servivano da
quaderni d’appunti. Anche Mosè dovette usarlo da
bambino, nei suoi esercizi di calligrafia; di certo, l’autore
dell’Esodo ne è molto influenzato.
È il racconto di una fuga, e più o meno nei luoghi dove
è tradizione collocare Midiyan. La trama: il cortigiano
Sinuhe, mentre si trova al seguito di un principe durante
una spedizione militare contro i libici, apprende la notizia
della morte del faraone – di cui nel racconto compare il
nome: Amenemhat I (regnò tra il 1991 e il 1962 circa).
Sinuhe è sconvolto:
192
capo bedu, ne diviene amico, ne sposa la figlia, e dopo
aver compiuto atti eroici in battaglia, diviene a sua volta
capo di una tribù.
Era una bella terra. Vi erano alberi di fico e viti, aveva abbondanza
di vino più ancora che d’acqua, e miele a non finire, e innumerevoli
ulivi.
«Cosa avevi fatto di male, o cosa era stato fatto a te? Non vi era
niente contro di te, nel mio cuore».
che mi lasci trascorrere la fine dei miei giorni carnali nella Reggia.
193
l’importante è perché lo fece.
194
Due modi di tornare da Midiyan
Replicando il Racconto di Sinuhe, l’autore dell’Esodo volle
evidentemente riconoscergli il merito di aver descritto
un’esperienza fondamentale: la fuga da tutto. Ma il più
delle volte, coloro a cui capita quell’esperienza aspettano
soltanto che si concluda e, come Sinuhe, tornano poi là da
dove erano fuggiti.
Così, per esempio, dopo qualche anno di terapia psicanalitica il nevrotico – l’ex
nevrotico – ristabilisce buoni rapporti con quella stessa famiglia, con quello stesso
impiego, con quegli stessi amici e conoscenti che avevano contribuito al prodursi della
sua nevrosi, e si sente molto meglio di prima, senza accorgersi di quanto ciò sia
deprimente. La terapia lo ha soltanto aiutato a sopportare ciò che prima aveva ogni
ragione di non sopportare affatto. Sinuhe fece proprio così.
Mosè no.
195
questo senso, il giorno che Mosè fuggì al galoppo con una
taglia sulla testa, non ne esistevano ancora: c’erano
soltanto alcune popolazioni semitiche del Delta del Nilo,
che per un po’ quel giovanotto aveva provato a chiamare
«fratelli».
Da allora in avanti, ebrei si diventa: a «Midiyan». E
Mosè fu il primo, perché la B richiedeva anche questo.
196
Il sacerdote Re‘Wu’eL
197
Destino
Esodo 2,16-21
198
racconto, finora, è talmente pervaso dalla loro presenza.
Manca invece, sorprendentemente, qualsiasi accenno al
Dio ebraico. Il giovane Mosè non sembra averne mai
sentito parlare, né avvertirne il bisogno. E il sacerdote che
lo accoglie a Midiyan non è un sacerdote del Dio di
Israele: il racconto, altrimenti, l’avrebbe subito segnalato.
Forse l’autore dell’Esodo voleva mostrare qui come si
preparò, in Mosè, la dimensione necessaria ad accogliere
un Dio che in realtà era sempre stato presente nella sua
vita, ma di cui il giovanotto era ancora troppo ignorante
per accorgersi? O forse voleva significare che Mosè non
aveva ancora intuito la possibilità di un Dio diverso da
quelli già esistenti, e che perciò quel Dio non esisteva
ancora?
199
Alla scuola di Re‘Wu’eL
Lasciamo in sospeso la questione, per il momento.
Notiamo intanto che il Nome del Dio creatore, ’El, sta
comparendo qui nel nome-formula del sacerdote
Re‘Wu’eL – che in geroglifico è:
il muoversi (R)
lungo i bivii (‘)
tra gli ostacoli (W)
verso ’El.
200
guide, altre scuole, da cui non si lasciò imbrigliare, a
Midiyan, sia altri allievi di Re‘Wu’eL, che Mosè riuscì a
superare.
Infine il nome-formula ZiFoRaH (che nell’ebraico
corrente finì per significare «uccellino») è costruito sulla
radice ZF, «emergere dall’acqua», «galleggiare»,
«navigare». Alla scuola di Re‘Wu’eL, in ZiFoRaH – una di
quelle sette vie – Mosè trovò l’equivalente di ciò che da
bambino gli aveva salvato la vita.
Invece d’una TeBaT di papiro, stavolta la sua salvezza
prese forma di una sapienza. Ma una sapienza di qualche
altro popolo. E tra i tratti biografici della nostra B, questo è
il più scandaloso. Ne consegue che Mosè giunse alla sua
idea di Dio imparando molto e a lungo da un’altra
religione a oriente del Nilo.
201
GeRŠoM
Esodo 2,22
partorì un figlio, al quale Mosè pose nome GeRŠoM [«la gloria dello
straniero»] poiché diceva: «Sono uno straniero in un mondo che
limita».
202
sinonimi), cioè un ragionare vizioso, che – se così fosse
stato nell’originale – non sarebbe valso il pollice di papiro
su cui lo si poteva scrivere. Incontreremo varie altre
tautologie, non meno rozze, nelle versioni consuete delle
Scritture; e si tratterà sempre di traduzioni errate, o
meglio, di decifrazioni interrotte – come se i biblisti
avessero deciso che in quei punti non occorresse o non
bisognasse cercare più di tanto. Il che è sicuro indizio che
lì vi sia qualcosa d’importante da scoprire.
il poter (’)
assumere direzioni (RZ).
203
Mentre la parola tradotta con «forestiero» è GeR; in
geroglifico:
un corpo (G)
in movimento (R).
204
YiTRWo
Esodo 3,1
205
Arriva ’Elohiym
206
Dov’era Dio?
Esodo 2,23-25
Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo
e Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne
prese pensiero.
207
qui sorgono inevitabilmente: «Perché Dio non ascoltava,
prima? Perché si era dimenticato delle sue promesse?
Perché aspetta tanto a intervenire contro un’ingiustizia?»
E a nessuna di queste domande la teologia è mai riuscita a
dare risposte sensate.
Ma il testo ebraico è lontano da ciò. Narra che,
nonostante la morte del faraone, non era cambiato
granché in Egitto: l’oppressione continuava e – soprattutto
– gli israeliti non chiedevano affatto l’aiuto di quel Dio
creatore; si lamentavano e basta.
Non avrebbero potuto rivolgersi a quel Dio, perché non
lo conoscevano ancora. Lo avrebbero scoperto molto
tempo dopo, grazie a Mosè rientrato in Egitto. E neppure
Mosè conosceva quel Dio: all’epoca della morte del faraone
non aveva ancora incontrato ’Elohiym.
Tale circostanza non poteva non diventare invisibile
nelle versioni consuete, perché contrasta troppo con l’idea
che le nostre grandi religioni hanno di Dio e di Mosè. Dio,
per queste religioni, è una Persona divina che risiede in
cielo da sempre, e che ha creato l’universo, e ha sempre
comunicato con gli uomini. Ogni tanto in questa
comunicazione qualcosa non ha funzionato: Dio ha
cessato le trasmissioni, oppure gli uomini non le
ricevevano bene, e allora sono arrivati uomini come Mosè,
che hanno ristabilito il contatto.
Quest’idea non è meno grossolana del pensare che la
bomba atomica o l’Aspirina siano sempre esistite, e che, se
in qualche periodo storico non vennero usate, fu solo
perché i laboratori nucleari e farmaceutici ne avevano
temporaneamente sospeso la produzione. Eppure le
nostre grandi religioni non possono fare a meno di
pensarla così, per timore che il loro Dio non sia
abbastanza Dio, se non è eterno. Ma questo è un loro
problema, e noi possiamo tranquillamente farne a meno
208
nel comprendere un testo che con quelle religioni non ha,
di per sé, a che fare.
209
Il Dio che si estende
L’Esodo narra che le grida di afflizione degli ebrei non
erano rivolte a nessuno di preciso, o non importa a chi. E
che ’Elohiym le «ascoltò». Ma «ascoltare», ŠM‘, in
geroglifico è:
estendersi (Š)
fino a comprendere (M)
ciò che ancora non ha preso forma (‘).
210
La B di BeRiYT
’Elohiym non «si ricordò» affatto: il testo dell’Esodo non
descrive, qui, qualcosa che avvenga dentro la memoria di
’Elohiym. Il verbo ebraico che le versioni consuete
traducono con «ricordarsi» è SKR; in ebraico corrente,
significa «far venire in mente», in geroglifico è:
211
«Quella forza creativa che si riscosse in Mosè, in quella
sua nuova idea di Dio, è ciò che gli permise di narrare le
storie di Abramo, di Isacco, di Giacobbe nel libro della
Genesi». Le storie di tre uomini che non si sottomisero a
nessun re.
212
Della morte dei faraoni
A questo punto, diviene chiaro anche il senso della notizia
della morte del faraone. Non si trattò della morte di un
determinato faraone, quanto piuttosto della fine di tutto
ciò che il faraone aveva rappresentato per Mosè. Dunque,
fino a quel momento il potere, l’ordine costituito, erano
ancora per Mosè ciò che sono per la stragrande
maggioranza delle persone: la più forte tra le entità
visibili, dalla quale dipende inevitabilmente il concetto di
che cosa è giusto e che cosa no, di che cosa è possibile o
impossibile a un individuo, in un consorzio umano.
Quando questa entità muore in Mosè, può cominciare per lui
la scoperta di ’Elohiym. Ciò è molto lontano delle nostre
grandi religioni. Il cristianesimo, in particolare, preferisce
seguire san Paolo:
213
Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino,
ragionavo da bambino. Ma sono diventato uomo, e ciò che in me era
da bambino, l’ho abbandonato. 4
Ed ’Elohiym conobbe
214
leggiamo qui nel testo. Evidentemente è in Mosè, che Dio
comincia qui a conoscere – dato che di per sé Dio conosce
sempre, e non gli si può applicare questo verbo al passato.
In Mosè, Dio comincia a conoscere Abramo, e Isacco, e
Giacobbe e... E quando un Dio comincia a conoscere in un
uomo, chi può fermarlo? La sua conoscenza non potrà che
estendersi a tutto l’universo, e ancora oltre: la BeRiYT è
innanzitutto l’intuizione di questo estendersi, che di lì a
poco incomincia.
215
Sul «monte»
Esodo 3,1-6
lo sforzo (Ḥ)
oltre il quale prende a fluire (R)
216
l’interiorità-che-crea (B).
217
L’angelo e il «rovo»
Il «messaggero» – MaLa’aK in ebraico, àggelos in greco,
«angelo» da noi – qui è un fatto. Non certo una figura
alata.
Nel deserto capita che durante le ore più torride i rovi
secchi prendano fuoco; la loro combustione dura pochi
secondi. Anche quella volta fu certamente così: ma in quei
pochi secondi Mosè ebbe modo di osservare il cespuglio in
fiamme; di esserne incuriosito e di avvicinarsi cauto, tra le
rocce; e di conversare a lungo con Dio, dopo essersi tolto i
sandali. Mentre faceva tutte queste cose il cespuglio non
cessò di bruciare: cioè i secondi non trascorsero come
avviene di solito. E il testo qui non dice neppure che il
cespuglio si spense; per quanto ne sappiamo, quel rovo
sta ancora bruciando. Tanto più che «rovo» in ebraico è
ṢeNaH, e in geroglifico è:
218
L’ansia del Dio
E mentre Mosè si avvicina, Dio lo chiama per nome, due
volte.
«Mosè! Mosè!»
D’altronde, nulla per un Dio è più terribile dell’essere nel «deserto», solo, ignorato. Un
Dio esiste grazie agli uomini, e non viceversa. Gli uomini determinano la nascita, la
durata degli Dei, così come la loro agonia e scomparsa quando li abbandonano per
qualche altro Dio. Qui, c’è un Dio che ha assoluto bisogno di almeno un uomo che
possa scoprirlo, capirlo.
219
ordina a Mosè. Ovvero: «Non occorre che tu cerchi
ancora, che tu cresca ancora: hai già trovato!»
220
I sandali
Le nostre grandi religioni interpretano queste parole del
Dio in tutt’altro modo. Abituati fin dall’adolescenza a
rispettare, e poi a custodire divieti di vario genere, i
teologi vogliono vedere in quell’esortazione di YHWH un
tenere a distanza: una divina conferma del fatto che
all’uomo non spetti conoscere più di tanto. Perciò nelle
versioni consuete troviamo:
Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale stai è una terra
santa!
221
’aDaMaT-QoDeŠ
Nemmeno di una «terra santa» si fa menzione qui, nel
testo ebraico. Mosè giunge in una dimensione spirituale,
non in un luogo. E le indicazioni che il testo dà, servono a
riconoscere questa dimensione in se stessi.
«Terra» in ebraico sarebbe ’aReZ. Il termine usato qui è
invece ’aDaMaT, ed è costruito su una delle principali
parole-formula della lingua di Mosè: ’aDaM,
l’energia (’)
che si dirama (D)
entro un determinato orizzonte (M).
222
sophói; in Empedocle, soprattutto:
223
della conoscenza (Š),
224
L’annunciazione
Esodo 3,6
YHWH comincia:
225
bisogno di spiegargli il proprio rapporto con quei tre
patriarchi. Qui, invece, Dio sta cominciando a narrare se
stesso a Mosè. In Mosè.
Così, in quel tempo sospeso dell’’aDaMaT, passato e
futuro cominciano a cambiare di posto.
Sta prendendo forma, per Mosè, un passato nuovo: e in
questo passato avrà un nuovo padre, che lo genererà. È
come se un genetista trovasse il modo di costruire ex novo
i cromosomi dei suoi bisnonni, dei nonni e dei suoi
genitori, e giungesse così a cambiare anche i propri
cromosomi. I suoi bisnonni, nonni e genitori, così mutati,
si potrebbero ancora definire il suo passato?
Mosè dapprima ne ha paura, e «si nascose la faccia per
non guardare verso l’’Elohiym», cioè verso il Dio del
futuro. Poi imparerà, pian piano, a guardare.
226
Perché proprio Dio
Gli etiopi dicono che gli Dei sono camusi, e neri di pelle;
secondo i traci, hanno occhi azzurri e capelli rossi.
SENOFANE
Quanto è unico e solo sapiente non vuole e vuole essere chiamato con il nome
di Zeus.
ERACLITO
227
I Nomi degli Dei
228
Tabù e confusioni
Sui due Nomi divini grava un tabù molto forte. Tale tabù
è consapevole nell’ebraismo: è proibito agli israeliti
pronunciare e scrivere quei Nomi se non a scopo liturgico;
al di fuori del culto, si ricorre ad appellativi come ’Adoni,
«il mio Signore», o ‘Eliyon, «l’Altissimo», o semplicemente
ha-Šem, «il Nome» e altri ancora.
Nel cristianesimo, invece, il tabù agisce senza che nulla
lo segnali: se ne vedono soltanto gli effetti, ma non si sa
che sono effetti di qualcosa.
Un effetto di questo tabù inconsapevole è il modo in
cui i due Nomi vengono tradotti nelle versioni consuete.
In realtà, non vengono tradotti affatto: in alcune di queste
versioni, sia «’Elohiym», sia «YHWH» diventano ora
«Dio», ora «il Signore», secondo il capriccio dei traduttori;
in altre «’Elohiym» viene tradotto sempre con «Dio» e
«YHWH» con «il Signore».
Ma tradurre «’Elohiym» con «Dio» è come tradurre
«pianta» una parola che significhi «quercia». Di certo
’Elohiym è un Dio, così come la quercia è una pianta, ma
il termine «’Elohiym» dice qualcosa di preciso su di lui,
che la parola «Dio» non dice.
Tradurre «YHWH» con «Signore» è invece un atto di
fantasia, dato che nelle quattro lettere del Nome YHWH o
nelle sue radici non vi è alcun elemento del nostro
concetto di «Signore».
È un effetto del tabù anche l’indifferenza dei cristiani
per quei due Nomi, quando li leggono nei libri sacri o li
usano nelle preghiere: quanti si accorgono che Dio è
indicato ora come «Dio» ora come «Signore», e se ne
domandano il perché?
E il tabù sui Nomi agisce – sempre inconsapevolmente
– anche nei teologi, producendo confusione. Da secoli,
229
l’uso di tradurre YHWH con «Signore» ha spinto tutti i
teologi a ritenere che YHWH sia il Nome supremo, e
indichi il Dio creatore e sovrano di ogni cosa presente,
passata e futura. Il termine ’Elohiym viene considerato
più generico: si crede che indichi l’agire divino, la
dimensione angelica; secondo alcuni, ’Elohiym sarebbe un
residuo di culti arcaici, politeistici, del popolo ebraico, che
in seguito vennero messi in ombra e assimilati dal culto
del «Signore» YHWH.
Ma in tutte le Scritture si constata l’esatto contrario:
’Elohiym appare sempre come il Dio creatore, e YHWH
come l’elemento operativo, il «braccio» di ’Elohiym nel
mondo creato.
Cosa avverrebbe se all’improvviso questo tabù venisse
abolito? I teologi dovrebbero rivedere le loro convinzioni,
le versioni consuete si dovrebbero correggere, e
bisognerebbe spiegare la cosa a qualche miliardo di
persone.
Inevitabilmente se ne vorrebbe sapere di più: perché
due Nomi e non uno? E ci si accorgerebbe che nella Genesi
quei due Nomi indicano due aspetti di Dio molto diversi
tra loro, tanto da apparire come due Dei diversi. Ne
conseguirebbero problemi enormi per la fede.
Se poi si scoprisse anche ciò che quei due Nomi
veramente sono, ovvero le formule geroglifiche – chiare,
coerenti, semplici – dell’intima natura dei due Dei biblici,
apparirebbe evidente che qualche individuo dovette
inventarle: definizioni tanto precise del divino non
sorgono di per sé, ma richiedono una mente che le metta a
punto. E ciò risulterebbe inammissibile. Alle nostre grandi
religioni ripugna l’idea che un individuo inventi un Nome
di Dio, e dunque, in qualche misura, anche il Dio che lo
porta; figurarsi l’idea che ne inventi due.
Ma risulta che così fu. Quando Mosè narrò di quei due
230
Dei nella Genesi, e li descrisse nei dettagli, nessuno ne
aveva mai sentito parlare. E fu un’innovazione tanto
grande e profonda, che venne ben presto tabuizzata, e
dimenticata – proprio come la chiave della sua lingua
geroglifica, che permette di decifrare i due Nomi.
231
Il Dio del divenire
Il primo Dio, il Creatore «del cielo e della terra», nella
lingua di Mosè è ’eLoHiYM:
In geroglifico ’eLoHiYM è:
l’energia (’)
che si trova al di là (L)
dell’invisibile (H)
e del visibile (Y)
di ogni orizzonte (M).
232
’Elohiym e la causalità
Porre ’Elohiym come Creatore «del cielo e della terra»
significa certamente contraddire la legge di causa-effetto,
tanto significativa per l’Occidente, secondo la quale tutto
ciò che esiste sarebbe determinato dal passato.
Le versioni consuete rispettano tale legge, traducendo
il primo versetto della Genesi: «Dio creò il cielo e la terra».
Vogliono cioè pensare che un Qualcuno fece qualcosa in
un lontanissimo passato, e che l’universo è l’effetto di quel
qualcosa. Invece, se alla vaga parola «Dio» sostituiamo il
senso autentico del Nome di ’Elohiym, quel primo
versetto diventa una notizia sensazionale: il cielo e la terra
sono opera del Divenire; i fondamenti della nostra realtà
sono creati da ciò che non sappiamo ancora.
Ciò fa apparire Mosè come l’ispiratore di Anassagora e
di Eraclito, come già sappiamo (vedi p. 65). Ma
Anassagora ed Eraclito sono più generici e soprattutto più
ottimisti di Mosè, con la loro convinzione che ogni cosa sia
creata dal Divenire. Mosè precisa che soltanto «il cielo e la
terra» sono opera di ’Elohiym, e lascia intendere con ciò
che altre cose non lo siano affatto. Non dice: «’Elohiym
crea tutto». E come dargli torto?
Una volta che si sia intuito che cosa sia il Divenire, e
che il Divenire possa creare, basta un’occhiata a un
giornale per accorgersi di quanti elementi, condizioni,
fattori, valori che riempiono e determinano la mente e la
vita di tutti siano prodotti davvero e soltanto dal passato.
Le istituzioni, le colpe, le religioni. E non è che tutto ciò
non esista: esiste enormemente, ma non ha a che fare con
’Elohiym.
Ed esiste in noi: nella nostra memoria, nelle nostre
233
convinzioni e nel nostro modo di vivere – nell’importanza
che attribuiamo al passato, e che è di gran lunga maggiore
di quella che attribuiamo al divenire. Dunque vi è in noi
qualcosa (moltissimo) che contrasta con la creazione di cui
narra Mosè. Ciò spiega come mai per incontrare questo
Dio del Divenire, Mosè dovette giungere in mezzo al
deserto e salire su un «monte». E pone a ciascuno di noi
una scelta, in ogni istante della nostra vita: tra il volgersi
al passato o al futuro, per trovare l’origine e valutare il
senso di ciò che riteniamo reale. E il solo pensare a tale
scelta può cambiare tutta un’esistenza.
234
L’ulteriorità di ’Elohiym
Di certo, ciò estende da un lato il nostro orizzonte, e fa
apparire insufficiente ciò che prima chiamavamo «tutto».
Si apre, in ’Elohiym, una dimensione diversa da quel che
la nostra mente ha imparato a capire, e anche da tutti i
modi in cui abbiamo imparato a capire le cose.
La scienza del XXI secolo non avrebbe obiezioni: ritiene
infatti che, della materia esistente, noi possiamo conoscere
soltanto un cinque per cento; il novantacinque per cento è
dark matter, «materia oscura», non percepibile né dai
nostri sensi né dai nostri strumenti, ma la cui esistenza
risulta dagli effetti gravitazionali che esercita sui corpi
celesti. E inevitabilmente, il giorno in cui la si scoprirà,
l’universo così come lo conosciamo oggi – e dunque così
com’è oggi per noi – ci sembrerà una descrizione
inadeguata. Ma ne consegue che quello che oggi
sappiamo dell’universo può anche rivelarsi il principale
ostacolo alla scoperta della dark matter, proprio perché è al
di qua di essa. Un’analoga proporzione – e con analoghe
conseguenze – vi è tra la quantità di sinapsi che noi
riusciamo a utilizzare attualmente, e quelle di cui il nostro
cervello sembrerebbe disporre (sempre che le nostre
capacità di calcolare le sinapsi ulteriori, dal punto di vista
del nostro misero quantitativo cerebrale utilizzato, siano
attendibili).
’Elohiym, da trentatré secoli, è il Dio di quel
novantacinque per cento. A questa sua ulteriorità vanno
ricondotte anche le numerose irregolarità che tutti gli
studiosi notano (ma che nessuno spiega mai) sia nel suo
Nome sia nella sintassi delle frasi bibliche in cui ’Elohiym
compare.
235
’Elohiym è un plurale irregolare: potrebbe essere il
plurale di ’eLoaH, che in ebraico significa «divinità», ma
’eLoaH è un femminile, e -iYM è la desinenza del plurale
maschile. In ebraico suona tanto strano quanto lo sarebbe
in italiano:
«i Divinità».
236
in tutte le Scritture, questa esortazione a guardare oltre si
estende a ogni elemento di ciò che vi è intorno e di ciò che
vi è nell’uomo.
Nettissima è la fiducia di Mosè che i suoi lettori sapessero risolvere l’enigma di questo
Nome divino e delle sue irregolarità linguistiche. Certo, confidava che chiunque avesse
aperto il libro della Genesi sarebbe già stato informato sul significato di «’Elohiym» (e
in ciò sbagliava); ma al tempo stesso doveva ritenere che nella mente di ciascuno
esistesse già l’idea di questo Dio, non ancora formulata eppure forte, e pronta a
riconoscere se stessa in quello che il libro narra di ’Elohiym. Perciò Mosè non si
sofferma mai a spiegarlo – come un greco avrebbe spiegato i suoi Dei, o come Gesù
spiegava la sua idea di «Dio Padre». Su questo punto penso che Mosè avesse ragione.
’Elohiym è facilmente intuibile ancora oggi. A chi ne senta parlare per la prima volta,
sembra una novità soltanto per qualche istante. Poi semplicemente c’è, come se ci fosse
sempre stato.
237
Il Dio dell’Essere
L’altro Nome è YHWH: YeHWaH, YeHwiH, YeHoWaH,
YaHWoH, a seconda delle varie vocalizzazioni che
compaiono nel testo delle Scritture. In lettere ebraiche:
238
Così avviene ovunque YHWH agisca: il suo compito è
consolidare ciò che il Divenire crea. E il consolidamento
operato da YHWH consiste nel ridurre sempre più le
possibilità di ogni cosa o essere creato, fino a che ciascuna
cosa e ciascun essere siano soltanto se stessi, pienamente
attuati e in perfetta armonia con tutto il resto del creato.
YHWH vuole che ciascuno trovi il suo posto, e lì stia.
In più, vuole che questa armonia perduri: che ciò-che-
c’è-già continui non soltanto a esserci, ma a essere com’è
già. Perciò nella Bibbia il Dio dell’Essere si presenta
sempre come il Dio dei limiti e dei divieti.
Il genere maschile gli si confà; è maschio come lo erano
i patriarchi e i re. Sarà lui a proibire all’’adam di nutrirsi
della «crescita della conoscenza del bene e del male», cioè
di scoprire, sul bene e sul male, qualcosa di più di quello
che l’’adam sa già; ’Elohiym, al contrario, esorterà l’’adam
a crescere e moltiplicarsi, cioè a diventare continuamente
più di quel che già è.
Sarà YHWH a fermare la costruzione della Torre di
Babele, perché le opere dell’umanità non crescessero oltre
un certo limite.
E tra i protagonisti della Genesi troveremo i prediletti di
’Elohiym, come Giacobbe e Giuseppe; e i prediletti di
YHWH, e tra questi ultimi anche chi, come il mite, timido
Isacco, avrà «terrore di ’Elohiym», 1 cioè terrore di tutto
ciò che è nuovo.
239
L’esistenza degli Dei
Il Dio del Divenire e il Dio dell’Essere: dunque ’Elohiym e
YHWH sono due Dei di qualcosa. E a una mente plasmata
dalle religioni occidentali non possono non apparire come
arcaici ed estranei: limitati da quel loro «di», inferiori al
Dio trascendente.
Sia pure. In compenso, ’Elohiym e YHWH non
richiedono alcuna fede per poter sussistere. Sono entrambi
realtà che possiamo verificare in ogni istante. Proprio
perché agiscono in tutto, non hanno bisogno di quella
ricerca delle «prove dell’esistenza di Dio» che incombe da
milleseicento anni sui teologi occidentali; il mondo è
pieno di loro due, esistono tanto quanto il mondo esiste.
D’altra parte la trascendenza divina non ha mai dato
buona prova di sé. Quanto più grande è la distanza che la
teologia pone tra Dio e la realtà, tanto più inesorabile è
sempre stato l’impulso ad attribuire a Dio tratti umani.
Nel VI secolo a.C., Senofane – un altro sophós – ne rideva
già, notando che gli etiopi hanno Dei di pelle nera e gli
Dei dei traci sono fulvi. 2 Oggi, non vi è occidentale che nel
pensare a «Dio» non vi abbia associato spesso l’immagine
di un anziano robusto, barbuto e in genere di razza
caucasica (mai africano o con gli occhi a mandorla); e sa
bene che nessuno potrebbe legittimamente smentire
questa sua proiezione, perché dopotutto «Dio non l’ha
mai visto nessuno». 3
In ’Elohiym e in YHWH queste raffigurazioni
proiettive non trovano appiglio. Non vi è ambito in cui
non riconosciamo questi Dei all’opera, non soltanto nel
mondo umano ma in qualsiasi regno della natura o dello
spirito: ovunque vi è il Divenire che crea, e YHWH,
240
l’Essere, che non crea nulla, e la cui azione consiste nel
consolidare e nel custodire il più a lungo possibile ciò che
da ’Elohiym è provenuto. Precisare ulteriormente il loro
aspetto è impossibile e insensato, perché tutto il visibile e
l’invisibile nel nostro universo e fuori dal nostro universo li sta
già precisando di continuo, e così pure tutta l’attività della
nostra psiche – dato che anche nel nostro pensare, intuire,
percepire, celare, scoprire e in ogni nostro sentimento
’Elohiym e YHWH sono sempre all’opera.
241
un’esortazione al monoteismo, questo passo costituisce
una contraddizione buffa: il fatto stesso di proibire
d’avere altri Dei significa che sia possibile averli – e
dunque che vi sono altri Dei, e il nostro Dio ne è geloso.
Ma il senso autentico è:
242
L’io dei due Dei
Quanto all’«io» dei suoi due Dei, e all’«io» in generale,
Mosè ha un’idea un po’ più semplice e chiara di quella
che se ne ha in Occidente. Nella lingua di Mosè, «io» si
dice in due modi: ’aNiY e ’aNoKiY, e sia ’Elohiym sia
YHWH li usano entrambi.
Il primo termine, ’aNiY, in geroglifico è:
la capacità (’)
di esercitare un controllo (NK)
sulle proprie rappresentazioni (Y).
243
essere vivente ha un ’aNiY, e percepisce e intende il
mondo a modo suo, e non pochi hanno anche un ’aNoKiY,
cioè si accorgono di percepire e intendere ciò che altri non
percepiscono o non intendono.
Così è anche per ’Elohiym e YHWH. Dunque né l’uno
né l’altro percepiscono e intendono tutto. ’Elohiym è il
punto di vista del Divenire; e YHWH è il punto di vista
dell’Essere. Soltanto congiungendo le loro due prospettive
si può avere la piena conoscenza, l’’adamat di ciò che
tutto è e di ciò che tutto sta divenendo; e per questa
ragione sia ’Elohiym sia YHWH erano dinanzi a Mosè,
poco fa, su quel «monte» della pienezza.
244
Perché Dio
Tutto questo ci fa comprendere perché Mosè incontri proprio una dimensione divina:
perché, cioè, non si accontentò di imbattersi in un’idea, in un ideale, o in una serie di
concetti organizzabili in un sistema filosofico. È, evidentemente, una domanda che
Mosè stesso si pose, e che pochi dopo di lui arrivarono a concepire. Per chi ci crede
come per chi non ci crede, Dio è infatti ovvio: è un dato storico, psicologico, linguistico
immediatamente perspicuo – e che appunto come tale si può accettare o rifiutare, senza
che si avverta il bisogno di chiedersi «Perché c’è? Perché Dio?»
Il fatto che tutti ne parlino intorno a noi fin dal giorno in cui siamo nati fa pensare
non che una ragione ci sia, per tanta fama, ma che addirittura non occorra ragione. A
Mosè invece interessa. La sua lingua vuole che il termine «Dio» abbia un significato. E
in quel significato consiste il perché. Dio, per lui, è l’Essere e il Divenire. È ciò che
permette a un «io» di considerare, come da un monte, tutto ciò che nel mondo è e
diviene. E di condividere la prospettiva – l’’ANiY e l’’ANoKiY – dell’essere e del
divenire, invece di guardare dal punto di vista di una qualsiasi cosa o di un qualsiasi
essere che sia e divenga.
Davvero non c’è traccia di fede, in ciò. È bensì la massima espressione del voler
conoscere. Dio, per Mosè, è l’arkhḗ del conoscere. E su quel «monte», Mosè gli sta
davanti e lo ascolta da solo.
Occorre segnalare che l’autore dell’Esodo sottintende qui: «Perché non fai anche tu
lo stesso? Si sta così bene nel tuo mondo, i faraoni lì sono tanto cari e buoni, da non
suscitare in te il desiderio di un monte interiore? Oppure non osi andare contro ciò che
ti hanno insegnato, e che tutti dicono fin da quando sei nato?»
245
Intendersi con i due Dei
Quel «monte» è raggiungibile nell’uomo, a condizione che
si abbia abbastanza coraggio da cogliere entrambe quelle
prospettive, cioè da intrattenere rapporti sufficientemente
buoni sia con il Divenire sia con l’Essere. E nella Genesi e
nell’Esodo troveremo anche a questo riguardo indicazioni
precise. Ma fin dal significato dei due Nomi divini
possiamo accorgerci che andare d’accordo con ’Elohiym e
YHWH è più semplice di quanto lo sia con un Dio
trascendente. Un Dio trascendente, proprio perché non si
sa in che cosa consista, chi sia, dove sia di preciso,
richiederà intermediari specializzati: sacerdoti, pontifices –
ovvero, in latino, «costruttori di un ponte» tra la
dimensione umana e quella divina. I due Dei di Mosè no.
Andare d’accordo con YHWH, con l’Essere, significa
accorgersi di ciò che realmente c’è, e di ciò che realmente
si è.
È non volersi ingannare, non lasciarsi ingannare da
altri, e non ingannare; insomma, non porre schermi tra sé
e tutto: «togliersi i sandali», come dice YHWH a Mosè, su
quel «monte». È semplice e non è facile, soprattutto per noi
occidentali, a tal punto abituati alle cose complicate, da
trovare difficilissimo ciò che è più semplice.
Andare d’accordo con il Dio del Divenire, è un po’ più
vertiginoso. Significa infatti osare accorgersi di tutto ciò
che può avvenire, di tutto ciò che possiamo fare, e delle
direzioni in cui va (e in cui continuamente si supera) tutto
ciò che già sappiamo, vediamo, facciamo. Non per nulla
Mosè ne ha timore, e «nasconde il viso per non guardare
verso l’’Elohiym»: chi non farebbe altrettanto?
È la paura di veder svanire l’importanza che davamo a
246
troppe cose, poiché guardandole dal punto di vista di
’Elohiym ci accorgeremmo che hanno soltanto passato, e
che ci trattengono al di qua del nostro futuro.
È il terrore di ciò che nelle nostre possibilità risulta
troppo grande rispetto a quello che sapevamo di essere:
poiché quel troppo grande determinerebbe
l’annientamento di ciò che siamo stati finora, e che certo
non vuole annientarsi. Ma dinanzi a ’Elohiym, non potrà
fare altrimenti.
Solo a queste condizioni è possibile parlare con i due
Dei, sentirli dire «io» in un qualche «monte» dentro di noi.
Ho già accennato al fatto che non avviene spesso, perché
all’Essere e al Divenire si è abituati a preferire soltanto il
potere del passato, di ciò che tanti hanno fatto prima di
noi. Ma rispetto a questi due Dei, il passato appare
inevitabilmente una «casa di schiavi» da cui si può uscire.
247
L’intervento divino
Tutto ciò ci fa intendere anche per quale ragione i due Dei
avessero bisogno di parlare con Mosè e di cooperare con
lui, per poter agire.
Un Dio trascendente non ne avrebbe avuto alcuna
necessità. Per liberare le popolazioni semitiche del Basso
Egitto dal giogo del faraone, un Dio come quello
immaginato oggi dall’Occidente avrebbe potuto far tutto
da sé: colpendo con una pestilenza il faraone e tutti i suoi
ministri, scatenando la rivoluzione, favorendone la
vittoria, e muovendo poi la mente e gli atti di qualche
leader come si muove un burattino.
L’Esodo narra invece che YHWH ed ’Elohiym dovettero
convincere Mosè ad accettare l’impresa, e dovettero
aspettare che l’accettasse. Occorreva insomma che l’«io»
dell’Essere, l’«io» del Divenire e l’«io» di un uomo
cooperassero. Nessuno dei tre «io» sarebbe stato sufficiente
di per sé, a cambiare la storia di un popolo. E in genere,
nessuno di questi tre «io» è sufficiente a far accadere
nulla, né nel mondo né nella mente degli uomini: l’Essere
è soltanto ciò che c’è già, il Divenire è soltanto ciò che non
c’è ancora, l’uomo è soltanto un «io» che sa troppo poco di
sé. Se nulla li connette, tutto va avanti come prima, come
in passato.
Quando invece la connessione avviene, si producono
forze imprevedibili e immense. Nelle religioni occidentali
rimane fortunatamente una traccia di questa idea
mosaica, nella preghiera. L’esortazione «chiedete e vi sarà
dato», nei Vangeli 5 (ma vale anche nell’ebraismo), implica
che a chi non chiede non venga dato alcunché: e chiedere
è stabilire, nel proprio «io», una connessione tra quel che è
248
e si è (cioè un buon rapporto con YHWH) e quel che
diviene (cioè un buon rapporto con ’Elohiym). Allora il
mondo cambia.
Purtroppo la fede nel Dio trascendente e ciò che su di
esso si proietta impediscono di accorgersene: e la
preghiera, nella mente della stragrande maggioranza
degli occidentali, è ridotta a un modo per scaricare
responsabilità, a una sorta di supplica servile e
superstiziosa, rivolta a un monarca invisibile, che in cielo
decide se acconsentire o no.
249
Distanze
Come era giunto Mosè, a questa sua idea dei due Dei?
Certamente attraverso l’intuizione e il ragionamento: non
vi è altro modo di scoprire qualcosa di importante. E
l’impulso a scoprirli non poteva che essergli derivato da
ciò che la sapienza religiosa dei suoi tempi non riusciva a
spiegare.
Nella religione egizia, tutto era complesso e fiero della
sua complessità: molti Dei, e per ciascun Dio molti nomi e
molti volti, che servivano sia a mostrare i vari aspetti e
poteri di ciascun Dio, sia a rendere omaggio alle tappe
della sua secolare evoluzione dai culti dei numerosi
distretti dell’impero – ciascun distretto con le sue
tradizioni, il suo clero, i suoi templi e le sue specifiche
necessità religiose, di cui la teologia egiziana amava
rendere conto.
Così, Mut, la Dea della morte-e-rinascita spirituale,
aveva come suo emblema l’avvoltoio, sia perché
l’avvoltoio si nutre di cadaveri, sia perché l’avvoltoio
bianco era l’animale totemico dei distretti dell’Alto Egitto.
Era inoltre la sposa di Amon, il Dio senza volto,
Signore di ciò che di invisibile e inconoscibile vi è in tutte
le cose, il quale aveva come suo animale sacro l’ariete,
totem del distretto di Eliopoli, nel Basso Egitto.
Mut era la sposa di Amon per due ragioni: perché per
la morte-e-rinascita occorre l’iniziazione, e l’iniziazione
implica un passaggio nell’inconoscibile (la cosiddetta
morte rituale); e perché in quelle nozze era celebrata
l’unificazione dell’Alto e del Basso Egitto in un unico
impero. E via dicendo.
Non meno elaborata era la teologia greca, con le sue
250
genealogie da ricostruirsi ciascuna in decine, in centinaia
di miti, ciascuno dei quali era come la descrizione del
percorso di un nervo attraverso l’organismo. In più,
rispetto agli egizi, i greci avevano nei loro miti vicende
intensissime, ciascuna delle quali introduceva qualche
variabile in più nella funzione «Dio», così che venirne a
capo diventava impossibile per la ragione di chiunque.
La teologia di Mosè, in confronto, appariva addirittura
brutale. Soltanto due Dei! Nessuna traccia di un lavoro
millenario: chiunque, a sentirne parlare, l’avrebbe intesa
come il prodotto di un’unica mente, per di più brusca,
spazientita dalle sottigliezze e dai divieti sacerdotali – e
perciò superflua alle grandi religioni, che infatti non la
considerarono. Nessuna accolse la sua essenzialità
teologica, nemmeno l’ebraismo, fino a oggi; e il
cristianesimo non ha accolto ciò che Gesù trasse
dall’essenzialità di Mosè.
Per noi, ciò è un immenso vantaggio. Significa – una
volta di più – che non abbiamo alcun motivo di passare
attraverso quelle grandi religioni, per scoprire Mosè e la
sua Genesi.
D’altronde, pressoché nulla di ciò che abbiamo visto fin
qui corrisponde a quel che di Mosè si sa e si pensa di
solito: l’ebraico geroglifico, il legame con Dioniso, Osiride
e Śiva, l’influsso della Genesi sui sophói, l’apprendistato di
Mosè da Re‘Wu’eL, il significato di GeRŠoM, e soprattutto
il significato dei due Nomi divini. Lo stesso vale per la
traduzione della Genesi, che presento e illustro nei
prossimi capitoli: anche ciò che ci attende qui di seguito,
sta alle grandi religioni come «Midiyan» stava all’Egitto, o
come i viaggi di Dioniso stavano a Hera.
251
da prima. E se ne torna determinati a vivere diversamente da prima – sempre che si
abbia voglia di tornarne, come ne tornò Dioniso. Mosè ne tornò soltanto per ripartire
al più presto, per scoprire e far scoprire altri itinerari più in là. È quel che auguro di
tutto cuore a chi legge.
252
I primi Sette Giorni
253
Primo Giorno
254
Verso l’adesso
Genesi 1,1-5
A fondamento
vi è la forma che ’Elohiym dà ai cieli,
acque dei nomi,
e alla terra,
con le sue molte vie.
E la terra è ToHWu e BoHWu,
e il buio è sopra il suo abisso.
E il soffio di ’Elohiym increspa quelle acque,
ed ’Elohiym dice: «Vi è luce»
e vi è luce.
Ed ’Elohiym vede che la luce è perfetta
e scioglie l’una dall’altra la luce e il buio.
Ed ’Elohiym chiama la luce: il giorno;
e chiama il buio: la notte.
Ed è sera. Ed è mattino: il primo giorno.
il formarsi (B)
del procedere (R)
dell’energia (’)
della conoscenza (Š)
di quel che si può percepire (Y)
e del modo in cui è giunto a compimento (T).
255
non di un «inizio» ma dell’incominciare di tutto ciò che
percepiamo, conosciamo, pensiamo, immaginiamo,
sperimentiamo, oppure che possiamo o potremo
percepire, conoscere, pensare, immaginare, nell’universo
o dentro di noi, sempre.
Anche in questo istante.
256
La Creazione perenne
Genesi 1,1
’Elohiym dà forma.
257
Del creare dal nulla
Invece di «dare forma», tutte le versioni consuete usano
qui il verbo «creare». Può andare, se si vuole intenderlo in
senso lato, ma presenta l’inconveniente che nessuno sa
cosa significhi creare un universo. E non è d’aiuto ciò che
precisano al riguardo le grandi religioni, e cioè che Dio in
quel momento aveva cominciato a «creare l’universo dal
nulla»: suona grandioso, ma è un’espressione che non
aggiunge alcunché a ciò che chiunque sapesse prima di
udirla. L’espressione teologica «creare dal nulla» è solo
una specie di gioco di prestigio: poiché non si sa nulla del
creare divino, ecco che quel nulla vien fatto diventare ciò
da cui Dio crea tutto. Se nella Genesi fosse veramente
scritto qualcosa del genere, potremmo dedurne che
neppure Mosè sapesse di cosa stava parlando, oppure che
ne sapesse qualcosa ma non avesse voglia di informarne i
lettori.
e anche:
258
«considerare».
Dunque, narra Mosè, è ’Elohiym a determinare
l’aspetto che le cose assumono. È il Divenire, ovvero ciò
che ancora non c’è: la realtà è una perenne rivelazione. E
subito dopo, Mosè comincia a spiegare perché.
259
I «cieli» e la «terra»
Con «cieli» e «terra» si è sempre pensato, nelle nostre
grandi religioni, che Mosè volesse intendere i cieli sopra
di noi e il pianeta Terra. Si tratta bensì dei nomi-formula
delle due componenti essenziali del dare forma.
il conoscere (Š)
l’orizzonte (M) di qualcosa.
260
il poter (’)
assumere direzioni (RZ).
261
Tutto appare diverso dal consueto, in questa
prospettiva, e ci si sente come se ci si fosse appena
svegliati; e quanto più vi si riflette, tanto più si intuisce
che questa diversità dal consueto sia ciò che più conti
nella vita e in ogni aspetto del reale. A questa intuizione si
riferisce Gesù quando insegna a dire:
262
E il resto?
Dunque ciò a cui ’Elohiym dà forma è una rivelazione, un
modo di conoscere.
«Ma l’universo, i cieli veri, la terra vera!» potrebbe
protestare a questo punto un occidentale molto
influenzato dall’immagine che del mondo dà la scienza.
«La terra esiste, la si vede benissimo, sia come pianeta sia
come suolo: da dove viene? Come sono cominciati a
esistere gli atomi che la costituiscono? La Genesi dunque
non lo dice. Mosè descrive soltanto una creazione della
psiche, non della realtà.»
Indubbiamente Mosè descrive soltanto il formarsi di
una psiche, ovvero una psicogonia. Ma nessuno che
indaghi l’origine dell’universo ha descritto o potrà mai
descrivere qualcos’altro, usando un qualsiasi mezzo di
comunicazione comprensibile agli uomini.
La differenza tra il racconto di Mosè e la teoria del Big
Bang, è che i sostenitori di quest’ultima non ritengono
necessario accorgersi di ciò che Mosè chiama «dare
forma». Credono cioè che le cose esistano senza i nomi che
le indicano. Che il poter dire «universo» o «Big Bang» non
aggiunga nulla all’universo o a quell’esplosione. Mosè al
contrario ritiene che ciò che nell’universo viene capito e il
modo in cui lo si capisce siano tutt’uno, una medesima
espressione del Divenire.
«Ma almeno loro ci provano, a scoprire l’inizio di ciò
che si vede!» continuerebbe a protestare quell’occidentale.
Certo! Credono a quello che vedono, e perciò vedono e
studiano ciò che credono. A Mosè importava il resto: ciò
che vi è al di là del credere.
263
Come comincia un universo
Possiamo anche metterla così, perché risulti più chiara: chi
crede che l’universo sia stato creato dal nulla, o che sia
iniziato con un Big Bang, costruisce un problema che non
può risolvere, e precisamente: «Cosa c’era prima, in quel
nulla?»
(Anassagora avrebbe sospettato che lo scopo di questa
idea «concretista» della creazione, o del Big Bang, fosse
erigere un problema irrisolvibile, una specie di totem al
Limite della Mente Umana; e avrebbe scansato tale idea,
come una perdita di tempo.)
Se invece si intende la Creazione come un dare forma
al conosciuto, la domanda diventa: come si percepirebbe il
nostro universo, prima che ’Elohiym gli dia forma?
L’unica risposta sensata è: Non lo si percepirebbe. Se ne
percepirebbe un altro.
Il nostro universo è costituito dalle forme che
assumono una serie di idee – per esempio, spazio e tempo
– e dai modi in cui queste idee si sviluppano – per
esempio, l’estensione spaziale e la durata temporale.
Attraverso queste idee e questi loro modi, noi capiamo, e
percepiamo poi ciò che abbiamo capito. Dunque il nostro
universo è il risultato di un nostro modo di capire-e-
percepire (che secondo Mosè ha la sua origine e il suo
fondamento nel Divenire). E se questo modo di capire-e-
percepire cambiasse, ci troveremmo in un universo
diverso.
Potrebbe succedere facilmente. Calendari, orologi,
cronometri non sono affatto la prova che il tempo come lo
intendiamo di solito sia l’unico tempo possibile, così come
il gran numero di aquile bicipiti che si vedono su
264
bandiere, stemmi ed emblemi non sono la prova che in
natura esistano aquile bicipiti. I calendari, gli orologi, i
cronometri sono costruiti su una determinata idea
occidentale del tempo, e comprovano soltanto che in
Occidente è stato formulato questo modo di capire e
percepire il tempo.
Ciò non ci impedisce di far esistere altri tipi di tempo.
Tra questi, il mio preferito è un tempo molto discontinuo, che varia da persona a
persona, e anche a seconda delle situazioni in cui una determinata persona si viene a
trovare – diventando più o meno lento o rapido, a seconda che le situazioni siano
noiose o interessanti. Quando la lentezza o la rapidità superano un certo limite (che
varia anch’esso da persona a persona) questo mio tipo di tempo prediletto si dirama in
una o più correnti temporali che hanno ciascuna una sua differente velocità; un
medesimo «io» può, in tal modo, avere una fitta serie di percezioni e di esperienze in
una di queste correnti temporali, mentre ne ha pochissime in un’altra.
265
Forma e materia
Agli antichi ciò era più evidente che non ai moderni.
Platone tracciò il bilancio di ciò che se ne sapeva ai suoi
tempi, stabilendo che un eventuale Creatore dell’universo
avrebbe dovuto utilizzare, per la sua opera, una
determinata quantità di strutture – da Platone chiamate
idee, ovvero «modi di vedere» (da ideĩn, «vedere»,
«conoscere»). Queste idee, spiegava Platone, non possono
essere che «eterne», e ciò per gli antichi non significava
«preesistenti», ma «atemporali», cioè estranee a qualsiasi
universo possibile, dato che qualsiasi universo è costituito
di spazio e tempo.
In altre parole, secondo Platone (e come non dargli
ragione?) per porre utilmente la questione dell’origine di
un qualsiasi universo, occorre innanzitutto indagare quali
«idee» agiscano in esso. Il vantaggio che ben presto si trae
da tale indagine è che in essa ci si può ritrovare fuori dal
nostro universo e da qualsiasi altro, in un non-tempo, dal
quale il nostro universo appare come uno dei tanti
universi possibili, che esiste soltanto dal momento in cui gli
uomini hanno incominciato a percepirlo a quel modo.
Mosè, circa un millennio prima di Platone, la pensava
allo stesso modo – con lo ŠaMaYM e l’’aReZ al posto del
«mondo delle idee».
Ne deriva che sia per Mosè, sia per Platone, da una
medesima quantità di materia non si forma
necessariamente un universo solo, ma possono
formarsene tanti quanti si è in grado di percepirne (uno
dei quali è l’universo di ’Elohiym). Se, tuttavia, Platone
seppe della Genesi, non ne seppe più di tanto, poiché
quattro cose non riuscì mai a chiarirsi del tutto: chi o che
266
cosa fosse precisamente il Creatore del nostro universo;
quale aspetto avesse, vista dal «mondo delle idee», la
materia di cui un universo è costituito; in che modo le
idee divennero realtà sostanziali; e quando precisamente
ciò avvenne.
Mosè ha invece, su questi quattro punti, la robusta
teoria che stiamo qui esaminando.
267
«E la terra era ToHWu BoHWu»
Genesi 1,2
Altre invece:
268
BoHWu si può ricostruire soltanto attraverso il geroglifico:
sono soltanto due formule, inutile cercarne equivalenti in
altre lingue. ToHWu è:
il traboccare (T)
di ciò che è invisibile (H)
e bloccato (W).
BoHWu è:
269
formazione del nostro universo, dovrebbe ignorare il fatto
che i termini che useremmo per descriverla cominciano a
valere soltanto dopo la formazione dell’universo così
come noi lo intendiamo ora. È ciò che avviene quando si
cerca di scandire il Big Bang in frazioni di secondo – cioè
in unità di misura inventate circa quattordici milioni di
anni dopo quel Bang. Mosè non cade in questo equivoco.
270
Il «buio» e l’«abisso»
Genesi 1,2
(poiché qualcosa lo frena di certo, dato che riflettiamo di rado su quelle enormi vie in
attesa più-in-là di qualsiasi nostra scelta)
271
terra di «penetrare il puro cielo». E «buio» in ebraico è
ḤoŠeK; in geroglifico:
272
Il cosiddetto «Spirito»
Genesi 1,2
273
Principio immateriale e immortale, contrapposto al corpo e alla
materia, il quale anima la vita intellettiva e psicologica a livello
individuale e anche, secondo alcune filosofie, universale. Dal latino
spiritum, derivato da spirare, «spirare», «soffiare», detto di venti
leggeri.
274
significato dell’espressione «spirito di Dio» si smarrisce
senza rimedio. Serve a poco anche il ruolo che lo Spirito
ha rivestito nel cristianesimo, di Terza Persona della
Trinità, dato che il settore della teologia che si occupa di
questa Terza Persona è, tra tutti, il più disperatamente
vago. Tanto più preoccupante appare il celebre
ammonimento di Gesù riguardo allo Spirito:
275
RWuaḤ
Pensando allo «Spirito», è meglio tenere a mente questa
parola ebraica: RWuaḤ; significa «spirito» e «soffio», è
femminile, si pronuncia ruàkh (con una «r» gutturale); e in
geroglifico è:
NeFeŠ, con cui si indica l’azione che l’energia vitale svolge nelle
funzioni dell’organismo (sia umano sia animale o vegetale); e
276
mente cosciente che limiti il suo orizzonte interiore.
La RWuaḤ di ’Elohiym è perciò soltanto il suo soffio: il
movimento che l’alito del Divenire imprime a potenzialità
fino a quel momento inerti, «liquide», e bloccate dal
«buio».
Forse il mondo non è pieno di Dei, ma di certo è pieno di azioni divine. Non occorre
sforzo per accorgersi di come il nostro respiro increspi la superficie di invisibili
ŠaMaYM, ogni volta che parliamo – proprio come fa ’Elohiym fin dal primo giorno. E,
con un po’ più di coraggio, possiamo accorgerci anche di come il parlare, in ciascuna
civiltà, e per lunghi periodi dell’esistenza degli individui (a volte per tutta la loro vita)
increspi soltanto alcuni tratti di quella superficie, sempre gli stessi; mentre intorno c’è
un oceano da dire.
277
«Dice»
Genesi 1,3
Tutto ciò che è ha avuto inizio grazie al suo comando, e c’è ben poco
che sia venuto all’essere senza le sue parole. 5
278
a chi (agli angeli, chissà) di fare la luce e tutto il resto. Era
inevitabile, perché nelle nostre lingue «dire» è soltanto
«dire»; ne vennero da un lato la fede in un Dire magico,
misteriosissimo, e dall’altro il comprensibile rifiuto: «Chi
può ammettere un racconto tanto ingenuo? Un Dio dice:
‘Luce!’ e oplà, ecco la luce? E poi quale luce?»
Mosè poteva contare su un verbo assai più ampio:
«dire», nella sua lingua, è ’MR, ovvero:
poter (’)
comprendere (M)
processi (R).
279
intendere. Lì il creare attraverso le parole è tutto nostro.
Poi, deve adeguarsi alla lingua che gli altri parlano
intorno a noi.
Non siamo lontani dal vero, se immaginiamo che la
dimensione in cui ’Elohiym «dice» i nomi di ciò che dovrà
esistere sia molto simile a quella nostra fase iniziale.
280
L’Intelletto divino e il cosiddetto inconscio
Noi possiamo certamente credere che ciò che più conti
nelle nostre parole sia l’adeguamento alla lingua degli
altri. Moltissimi lo credono (è un altro modo di pensare
che il Passato dia forma a tutto) e non hanno mai avuto
dubbi in proposito. Queste persone si definiscono
«razionali», dato che per razionalità si intende il bisogno
di pensare secondo criteri e valori che molti altri
condividono, e che perciò sono ritenuti oggettivi.
Alle persone razionali, quindi, non interessa granché di
ciò che avviene in quella che abbiamo chiamato «la fase
iniziale del formarsi delle parole» – la quale, essendo
personalissima, è ovviamente soggettiva. Tipica delle
persone razionali è, inoltre, la tendenza a credere che in
quella fase iniziale abbia ampio margine d’azione
l’inconscio, ovverosia ciò che di più soggettivo (e, dunque,
di più irrazionale) può esservi negli individui. Le persone
razionali si rappresentano l’inconscio come un’area
confusa, bislacca, torbida, nonché pericolosamente
profonda e percorsa da impetuose correnti, come un mare
con chissà quali Oltremare terribili; e sono certi che la
razionalità abbia, per fortuna, eretto barriere sufficienti a
proteggersene.
Quando queste persone razionali sono anche religiose,
scatta in loro la convinzione che il principale ingegnere di
tali barriere sia stato e sia il Dio creatore: e che dunque
l’Intelletto divino sia oggettivo, razionale o – come anche
si usa dire – logico. Su questa certezza dell’oggettività,
razionalità, logicità dell’Intelletto divino è saldamente
fondata, da nove secoli almeno, la teologia delle grandi
religioni bibliche, in particolar modo quella cristiana.
281
Ma è, questa, un’opinione fragilissima che Mosè non
sembra aver condiviso in alcun modo. Nel racconto della
Creazione, ’Elohiym sta al mondo a noi noto come il
cosiddetto inconscio sta alla nostra razionalità: è altrove, è
prima, ed è quanto di più soggettivo si possa concepire.
Ma, invece di essere l’inconscio cupo e strambo descritto
dagli psicanalisti, è un limpido Intelletto. Ed eternamente
crea, capendo.
282
L’Intelletto divino e il nostro intelletto
La nostra razionalità potrebbe tollerare quest’idea,
soltanto se alla domanda: «Dove e quando è avvenuto
ciò?» si rispondesse: «In un remoto inizio e in una
dimensione puramente divina». Ma abbiamo visto che
secondo la Genesi ciò avviene sempre e ovunque, al
principio e a fondamento di ogni cosa: avviene perciò
anche in noi.
Anche in noi, stando a Mosè, agirebbe perciò un
intelletto soggettivo, in quella fase iniziale del formarsi
delle parole. Ed è in quella fase iniziale che la realtà di
ciascuno di noi prenderebbe forma; questa nostra realtà
viene poi appannata, svisata, confusa dal nostro adeguarci
alla lingua degli altri e a ciò che di solito si chiama
razionalità, e che in realtà è consenso con i «noi», ed è
soprattutto passato.
283
che è quello che nell’universo abbiamo di più nostro, ed è lontano dal nostro parlare
quotidiano, su cui è costruita la parte preponderante della nostra personalità. Si
riferisce a ciò il verso del Padre nostro che solitamente viene tradotto: «Dacci oggi il
nostro pane quotidiano»; ma in latino era
284
La «luce» secondo ’Elohiym
La scienza attuale, dicevo, è più vicina a Râ, che non alla
Genesi, ai sophói, o a Giovanni. Che l’universo sia stato
prodotto da un qualche fenomeno orgasmico-esplosivo,
risulta infatti verosimile alla mente dei nostri astrofisici
285
È l’immagine del manifestarsi di un’energia di per sé
invisibile, che illumina intorno.
E «luce», ’aWoR, in geroglifico è:
un’energia (’)
che pur ostacolata (W)
va, si muove, si trasmette (R).
286
(vedi pp. 60-61): cioè che Mosè intenda con «luce» ciò che il
concetto di «luce» significa per l’intelletto umano, e che da tale
concetto dipenda il modo in cui gli uomini percepiscono e
immaginano la luce – modo che la scienza occidentale
arriva a definire tremila anni dopo la descrizione che ne
dà Mosè, e non la contraddice.
287
Il limite del Divenire
Da un lato, tutto ciò è certamente magnifico. Dall’altro, ci
permette di scorgere il limite di quel Divenire che Mosè
chiama ’Elohiym.
Abbiamo detto che in ’Elohiym vi è tutto ciò che potrà
avvenire: ma ciò vale anche nel senso restrittivo di quel
potrà. Vi sono, in ’Elohiym, le potenzialità di tutto, e nulla
più di esse; nella sua «luce» vi è soltanto tutto ciò che la
luce potrà essere.
Dunque, decifrare le sue parole è conoscere tutto ciò
che, di ogni cosa che esse indicano, potrà scoprirsi nel
corso dei millenni; ma ’Elohiym non può far sì che una
qualsiasi cosa sia o significhi ciò che essa non è o non
significa, nel Suo universo: che, per esempio, la luce
disperda tutto ciò che la ostacola, oppure che della luce si
scopra una qualsiasi altra qualità che la luce non ha – per
esempio, l’essere vista dove non c’è.
Dunque ’Elohiym non è onnipotente. Molto, nel
seguito della Genesi, dipenderà da ciò.
288
La perfezione
Genesi 1,4
(Naturalmente non è che i biblisti e i teologi immaginino Dio in un aspetto così rozzo;
ma, abituati alle versioni consuete, credono evidentemente che ai tempi di Mosè lo si
potesse immaginare così.)
289
letteralmente: «ciò che è ben contenuto» nella mente. Con
la differenza, tuttavia, che nella storia della nostra
filosofia, la parola «concetto» è lontana dalla perfezione.
Da quando esiste la filosofia occidentale, non si è
riusciti a stabilire una volta per tutte che cosa contengano,
e dunque che cosa siano, i concetti che la nostra mente
adopera. Secondo alcuni – come Platone e Hegel – i
concetti contengono l’essenza delle cose che indicano,
poiché la mente umana è in grado di conoscere,
possedere, esprimere la verità di qualsiasi cosa. Secondo
altri – come Kant, Schopenhauer, Husserl, Quine – i
concetti possono essere soltanto rappresentazioni più o
meno esaurienti di quel poco che la mente umana può
conoscere delle cose reali.
Mosè non concorda con nessuno dei due punti di vista.
Nella Genesi, la parola ṬWoB indica l’azione creatrice che un
concetto porta a termine. E ciò connette di nuovo Mosè alla
fisica attuale.
290
L’orizzonte degli eventi secondo Mosè
Certo, la fisica non parla di un «intelletto del Divenire»,
ma dopo Einstein ha elaborato una soluzione al problema
dei concetti che concorda con il Dare Forma di ’Elohiym.
In linguaggio specialistico si chiama: orizzonte degli
eventi
– ed è una di quelle espressioni la cui utilità si misura nel più empirico dei modi: il
giorno dopo averla appresa, ci si accorge di usarla volentieri, sia nel discorrere sia nel
pensare, e ci si rallegra di quante cose permetta di capire, che prima non si notavano
neppure.
291
Ciò che ’Elohiym sta costruendo nei primi versi della
Genesi, si direbbe davvero uno spazio-tempo – benché il
concetto di orizzonte degli eventi sia stato elaborato in
Occidente soltanto dopo Einstein. Una parte del confine di
questo «spazio-tempo di Mosè» è ’Elohiym stesso, nella
sua qualità di Divenire che ancora non si conosce; la parte
restante dell’orizzonte degli eventi corre lungo le «acque-
dei-nomi» e «la terra-dalle-molte-direzioni»: e non è
ancora netta. Lo preciseremo nelle prossime pagine.
La luce è il primo elemento che in questo spazio-tempo
diventi «concetto», ovvero «ben contenuto» nello spazio-
tempo stesso. In tal senso è ṬWoB.
292
Il «giorno» e la «notte»
Genesi 1,4-5
293
«Giorno» e «notte» sono due armonici contrari. Anche
il verbo «chiamare» lo testimonia, in ebraico: QR’; in
geroglifico è:
dispiegare (QR)
energie (’).
294
L’ottimismo di ’Elohiym
Occorre ricordare al lettore che quella luce e quel buio
non sono da intendersi come un’area illuminata e un’area
scura nello spazio-tempo di ’Elohiym, simili a quelle che
si vedono nelle fotografie del pianeta Terra? E che, a
questo punto della Creazione, non c’è alcun motivo di
figurarsi una distesa vuota, con sopra i cieli, e con il
giorno e la notte che si alternano chissà come, dato che il
sole non c’è?
La tentazione è forte, un po’ perché a questo panorama
primordiale siamo stati abituati da millenni, e un po’ – e
soprattutto – perché sarebbe un sollievo poter dire qui:
«Non è nient’altro che il succedersi del giorno e della
notte, ingenuamente proiettato agli inizi del mondo».
Ma questo sollievo moderno non è possibile.
Mosè non è Esiodo, che nell’VIII secolo a.C. raffigurava
l’inizio del tempo dell’universo come nient’altro che un
album di famiglia:
295
inferi, e l’etere un tipo particolare di aria che si diceva
respirassero gli Dei.
In Mosè invece la parola «giorno», YiWoM, è:
il vedere (Y)
fino al limite (W)
di un orizzonte (M).
E «notte», LaYLaH, è:
296
«Ed è sera. Ed è mattino: il Primo Giorno»
Genesi 1,5
Ed ‘eReB è:
297
verso quella B.
E BoQeR è:
quella B
chiamerà per nome, definirà (QR).
‘eRe B oQeR
298
Secondo Giorno
299
Il momento difficile
Genesi 1,6-8
300
spiegare come faccia l’oceano «di sopra» a rimanere così
sospeso.
Proviamo piuttosto a capire che cosa volessero
realizzare, Mosè e il suo Dio creatore, e che cosa
realizzarono, che non li soddisfece.
301
Il fare
Della parola MaYM, «acque», sappiamo che indica un
orizzonte tutt’attorno (MM) a chi guarda (Y); e sappiamo
anche che quell’orizzonte è un confine dello spazio-tempo
che ’Elohiym sta creando.
Ora, ’Elohiym vuole che quel confine diventi due
confini. Come se dopo aver individuato la luce e il buio, il
«giorno» e la «notte», la «sera» e il «mattino», si fosse
accorto che questa forma binaria può estendersi.
Ma può soltanto. Non si estende da sé. Occorre che
’Elohiym intervenga sulle «acque», vi operi un
cambiamento: non basta che ’Elohiym comprenda,
definisca, dica, distingua; deve «fare» qualcosa. Per la
prima volta viene usato nella Genesi questo verbo che in
geroglifico ha un senso bellissimo. «Fare» è ‘ŠH:
302
L’inizio del tempo
Le «acque» che quel vuoto ha sciolto le une dalle altre
sono non soltanto nomi-formula, ma mašal, enigmi. Mosè
le descrive in modo che chi legge si fermi e si accorga che
ciò che già sa fin qui non basta a proseguire: è una soglia,
occorre un salto intellettivo. Come se il testo suggerisse:
«Su, lanciati avanti, attraverso questo vuoto che ’Elohiym
fa per te, in te!»
Qui, oltre la soglia troviamo un diverso modo di
intendere tre strutture essenziali al pensiero. Il mašal è: «le
acque di sotto, e le acque di sopra, e il vuoto in mezzo, che
cosa sono nel mondo, nel tuo mondo?» Il geroglifico serve
da guida alla soluzione.
«Sotto», in ebraico, è TaḤaT; in geroglifico:
È il Passato.
«Sopra», ‘aL, in geroglifico è:
È il Futuro.
E il vuoto che sta in mezzo è il Presente, e diventa qui
«il cielo», cioè ancor sempre ŠaMaYM, «le acque-dei-
nomi», perché tutti i nomi che l’Intelletto – quello di
’Elohiym come anche il nostro – dà a ciò che vi è o può
esservi nell’universo, sono i nomi che in un determinato
303
Presente si possono dare. Quelli del Futuro, non li
conosciamo ancora. Quelli del Passato, rimangono
indietro, «in basso», non valgono più – come se il Dio li
avesse scostati, come briciole di pane su una tovaglia.
Dall’intendere bene quest’atto di ’Elohiym, in tutta la
sua novità, dipende moltissimo nella nostra vita.
304
In mezzo al tempo
Da un lato, questa prima «divisione delle acque» (un’altra
avverrà poi, famosa, al passaggio del Mar Rosso) è
certamente necessaria. È giusto imparare a distinguere le
«acque di sotto» dalle «acque di sopra», per scongiurare i
dannosi equivoci in cui la conoscenza può incorrere: lo
scambiare qualcosa di Passato per un Futuro, o il Futuro
per il Passato.
Scambiamo il Passato per il Futuro – e continuiamo a
vivere l’uno invece di scoprire l’altro – ogni volta che
proiettiamo nel Futuro ciò che del Passato non siamo
riusciti a superare: decisioni, valori, sconfitte, legami,
convinzioni, comportamenti che valevano soltanto in
periodi trascorsi, TaḤaT, della nostra vita.
Scambiamo il Futuro per il Passato ogni volta che
idealizziamo quest’ultimo, vedendo magari nel passato
nostro o in quello di un popolo una grandezza che invece
è in noi, e che attende di essere realizzata, oppure una
miseria che è solo una nostra miseria interiore, e che in noi
va eliminata.
E in ciò che Mosè descrive di questa «divisione delle
acque» vi è anche la ragione per cui confondere Passato e
Futuro è tanto facile. La sostanza di entrambi è la medesima: è
una stessa «acqua» – evidentemente profonda, piena di
correnti, di gorghi. Di per sé, Passato e Futuro sono
tutt’uno: un unico fluire in tante direzioni, a diverse
velocità.
Di per sé, qualunque cosa sia ciò che chiamiamo
«tempo», non è come noi lo percepiamo, attraverso i
nostri «prima» e i nostri «poi». Ma la nostra mente ha
bisogno di questi avverbi. Se il «prima» non fosse più, per
305
la nostra mente, un punto ormai irraggiungibile, e il «poi»
un punto non ancora raggiunto, essa non potrebbe
spiegare fatti che le appaiono evidentissimi (per esempio,
che il fiammifero acceso un minuto fa non possa venir
acceso tra un attimo) e si sentirebbe dissolvere. Invece è lei
a dissolvere, a sciogliere le «acque» intorno, riproducendo
sempre l’atto con cui ’Elohiym fa esistere il Presente.
Che è solamente un vuoto.
E che ognuno di noi riempie più o meno.
E qui, decisamente, qualcosa non è ṬWoB: quel vuoto
da riempire, quel vuoto artificiale – che Mosè descrive
come un canyon in mezzo a un mare – è troppo diverso
dagli altri elementi della Creazione di ’Elohiym, che sono
invece tutti quanti pieni. Si direbbe un errore messo lì
apposta perché lo si corregga. Occorreva davvero? O
meglio: occorre? (dato che ogni atto di questa Creazione è
perenne).
306
E se non ci fosse
Proviamo a immaginare: se ’Elohiym – in noi – smettesse
di far esistere il Vuoto-Presente e con esso anche il Passato
e il Futuro, le «acque» di cui parla Mosè tornerebbero a
essere un unico intero, e quell’intero sarebbe l’eternità.
L’eternità è il tempo senza né il prima, né il poi, né
l’adesso. E l’eternità è certamente più piena, più bella, e
anche più reale del nostro tempo che ha richiesto un
«vuoto» artificiale, in origine e sempre.
Se un vantaggio può esservi, in quest’opera del
Secondo Giorno, è che dal «vuoto» del nostro Presente
possiamo desiderare l’eternità, immaginarla, tentare di
comprenderla, e tentare di comprendere noi dal punto di
vista di essa. Possiamo dunque risolvere in modo nuovo
tutta una serie di problemi, che comunque non avremmo
avuto se in questo giorno difficile ’Elohiym avesse fatto
qualcos’altro.
307
Malumori
Perciò ’Elohiym non disse: «ṬWoB», quella volta, mentre
l’aveva detto il giorno prima e lo dirà poi in tutti i giorni
seguenti.
Nemmeno i sophói approvarono quella divisione. Sia
Parmenide sia Eraclito continueranno a insistere, ciascuno
a suo modo, che è molto meglio tenersi ben ancorati
all’idea che tutto è uno. Parmenide sosterrà che vi è
soltanto un continuum immobile, «l’essere che è»;
Democrito sosterrà che vi è un continuum tutto quanto in
divenire; ma entrambi si ribelleranno all’idea che
l’eternità non sia anche per l’uomo e nell’uomo.
Neanche a Mosè andò mai giù, questa faccenda. Non
per nulla, sia nella Genesi sia nell’Esodo, qualcosa di
minaccioso sarà sempre associato all’elemento acqueo – a
cominciare dal Diluvio.
Uno psicologo aggressivo avrebbe buon gioco qui:
opinerebbe che Mosè aveva avuto un forte trauma
infantile, quando era stato abbandonato in riva al Nilo, e
che perciò è del tutto comprensibile che da allora odiasse
l’acqua, tanto da chiamarla in causa il Secondo Giorno,
per raffigurare un punto particolarmente problematico
della Creazione.
Può darsi. Di certo, il Secondo Giorno ci pone tutti
quanti in una situazione molto simile a quella del piccolo
Mosè. Anche noi siamo in un vuoto in mezzo alle acque.
In ogni attimo.
Ma allora perché ’Elohiym fece questo? Fu un errore? O
una necessità che non seppe risolvere? Mosè non lo
esclude, come vediamo da quell’assenza del ṬWoB.
Possiamo perciò immaginare che quella seconda «sera»
308
non sia, per Dio, una bella serata. La prima lettera di ‘ereb
– ovvero ‘, il geroglifico della problematicità – è più densa
della sera prima.
E il mattino seguente ’Elohiym si rimette all’opera dal
punto esatto in cui qui si è fermato.
309
Terzo Giorno
310
I mari e la terra della psiche
Genesi 1,9-13
Ed ’Elohiym dice:
«Le acque dal di sotto del cielo si scostano da parte
e si vede l’asciutto». E così è.
E all’asciutto, ’Elohiym dà il nome di terra,
alla parte delle acque dà il nome di mari.
Ed ’Elohiym vede che ciò è perfetto.
Ed ’Elohiym dice:
«La terra germoglierà germogli,
erbe che disseminino il loro seme;
e alberi che fanno frutti;
ciascuno secondo la sua specie:
che abbia ognuno il suo seme in se stesso, sulla terra».
E così è. E la terra fa nascere piante
che germogliano e disseminano il loro seme,
ciascuna secondo la sua specie,
e la crescita dei frutti
che hanno ciascuno il suo seme in se stesso,
ciascuno secondo la sua specie.
Ed ’Elohiym vede che ciò è perfetto.
Ed è sera. Ed è mattino: il terzo giorno.
311
umidità, di cui la maggior parte venne disseccata dal fuoco, e la
parte restante mutò aspetto a motivo della combustione. 1
il vedere (Y)
come si forma (B)
la conoscenza (Š)
di ciò che è vivo-e-ancora-invisibile (H).
312
L’’aReZ sono le dinamiche, le direzioni, i processi di
tutto ciò che vive. Ed è vero: bisogna emergere dalle
«acque» del Passato per poter vivere nell’’aReZ.
Anche «mari» è una parola utilissima, in ebraico.
YaMiYM è addirittura la formula dell’emergere: è
313
La vegetazione secondo ’Elohiym
Poi, vediamo che dalla «terra»-’aReZ, ovvero dalla
dimensione in cui tutto si dispiega e si evolve, nascono
«germogli, erbe» – che non sono soltanto verdura.
In geroglifico, queste due parole sono altre formule del
crescere della conoscenza. «Germogli» è DeŠe’:
«Erbe» è ‘eŠeB:
314
I semi che c’erano già
’Elohiym dal canto suo si limita a guardare questo
emergere dell’«asciutto», e il crescere di «germogli» ed
«erbe». Non li fa: dice soltanto che avvengono, capisce il
loro accadere – che avviene di per sé.
Dunque le «acque» erano già pronte a ritirarsi e,
soprattutto, tutti quei semi si trovavano già nella «terra»?
Perché? Provenivano da mondi precedenti, annientati da
qualche Diluvio?
Mosè non avrebbe capito queste domande, come non
capiremmo noi se ci chiedessero da cosa ha avuto origine
il fatto che dopo aver dormito ci svegliamo. Nella sua
mente, il concetto di «terra»-’aReZ era connesso a quello
di «crescita vegetale» tanto quanto per noi lo sono i
concetti di sonno e risveglio. Si sarebbe invece
meravigliato al sapere che secondo la nostra scienza la
terra è un insieme di minerali inerti: «Inerte la terra?!» E
nemmeno i greci avrebbero avuto dubbi al riguardo: la zōḗ
è eterna ed è ovunque, e la Terra non può che esserne
piena, se «desidera penetrare il cielo con il suo puro
amore».
Per noi, il problema è che a tutt’oggi la scienza
occidentale si attiene fermamente all’idea che la vita
vegetale abbia avuto inizio su una terra di per sé non viva,
ma non dispone di ipotesi sufficienti a dimostrare che vi
sia una qualche ragione di pensarla così. Nella biologia
moderna, Darwin fu il primo a non formulare una teoria
valida su questo inizio, e da allora si è continuato a non
formularne. Probabilmente perché è impossibile.
315
Vi è nel pensiero – e solo nel pensiero – questa categoria meravigliosa: l’impossibile. È
facile sottovalutarla e fraintenderla. La sottovaluta chi se ne sente offeso, sfidato:
«Impossibile? Nient’affatto, e ora lo dimostrerò!» La si fraintende quando si crede che
ciò che il nostro pensiero ritiene impossibile lo sia davvero. Viceversa, ovunque il
nostro pensiero trova qualcosa di oggettivamente impossibile vi è un limite del pensiero
stesso: un’occasione, cioè, per voltarsi e cercare che cosa, nel pensiero, abbia
determinato la carenza che l’ha fatto fermare lì, e che quel limite rispecchia. In biologia,
l’impossibilità (finora documentatissima) di spiegare l’origine della vita nella materia
non viva, illumina una carenza nel concetto che la biologia ha della «vita». Che proprio
in questo concetto ci sia qualcosa che non va, è confermato d’altronde dal nome stesso
di tale scienza: biologia, da bíos, che, come il lettore ricorderà, vuol dire soltanto
«durata d’una vita» (vedi p. 27). Nel nome e nel destino della nostra biologia non c’è
la zōḗ. Dunque il campo visivo di questa scienza è troppo angusto.
316
Quarto Giorno
317
Lo scopo di alcune cose
Genesi 1,14-19
Ed ’Elohiym dice:
«Vi sono eventi nel vuoto del cielo
per distinguere il giorno dalla notte,
e servono da segni per le misurazioni
e per i giorni e per gli anni.
E sono come involucri di luce nel vuoto del cielo
per illuminare la terra».
E così è.
Ed ’Elohiym fa due grandi eventi:
un grande involucro di luce, a raffigurare il giorno,
e un piccolo involucro di luce, a raffigurare la notte.
E le stelle.
Ed ’Elohiym li pone nel vuoto del cielo
per illuminare la terra
e perché raffigurino il giorno e la notte
e per distinguere la luce e il buio.
Ed ’Elohiym vede che ciò è perfetto.
Ed è sera; ed è mattino: il quarto giorno.
318
il «vuoto»-presente, a dividere le «acque»; e i corpi celesti,
a misurare il tempo. Perché?
Si direbbe un altro mašal. Cioè un’altra soglia da
varcare.
319
Gli «involucri»
È anche la più dettagliata di tutte le azioni divine narrate
finora. Il Dio del Divenire dice e produce dapprima alcuni
«eventi» (in ebraico Me’oRaH), poi li elabora in «involucri
di luce» (Me’WoR).
In geroglifico Me’oRaH è:
il comprendere (M)
energie (’)
che fluiscono (R)
e sono ancora invisibili (H).
il comprendere (M)
la luce (’aWoR).
320
Me’WoR.
E il turbamento di quel fisico dei giorni nostri sarebbe
precisamente la risposta al mašal dello scopo degli astri,
proposto qui da Mosè.
321
L’inizio del kósmos
Gli astri-involucri costruiti da ’Elohiym stanno agli
«eventi di luce» nello stesso rapporto in cui gli
esperimenti-involucri stanno al comportamento delle
particelle elementari. Scopo di entrambi i tipi di involucri
è vedere di un fenomeno soltanto ciò che non contrasta
con qualcosa che si sapeva prima di osservarlo.
Così, le particelle si comportano in un modo che
contraddice ai nostri consueti concetti di identità, di
spazio e tempo: per salvare questi ultimi, occorre
l’esperimento-involucro che non permetta di capire più di
tanto.
Evidentemente, anche gli «eventi di luce»
contraddicono a ciò che si sta formando nello spazio-
tempo di ’Elohiym; dunque richiedono involucri per poter
«illuminare la terra» e «raffigurare il giorno e la notte» –
cioè perché il loro aspetto diventi compatibile con lo
spazio-tempo della «terra» e con quel ritmo di giorno e
notte che ’Elohiym ha stabilito lì.
Sia in quegli esperimenti-involucri, sia in questi astri-
involucri agisce ciò che in greco si chiamava kósmos (da
kosmeĩn, «disporre») e in latino universus (da vertere in
unum, «ricondurre a un’unità»), ovvero una
sistematizzazione nella quale i fenomeni percepibili siano
ben coordinati tra loro, in base non a loro stessi ma a chi li
percepisce: il che comporta molte trasformazioni in
involucri. Così avviene nel kósmos della scienza, e così nel
kósmos della «terra» che ’Elohiym sta formando.
Ne viene un’astronomia altrettanto distante sia da
Tolomeo sia da Copernico: non è né geocentrica né
eliocentrica; semplicemente, a Mosè non interessa affatto
322
l’astronomia così come la si è sempre intesa in Occidente,
in quanto ricerca del nómos, cioè di leggi che governano
l’universo e che lo governerebbero comunque anche se
non esistesse nessuno in grado di osservarlo. Mosè sa che
quelle leggi dovranno basarsi comunque su qualche W, su
qualche limite percettuale posto intenzionalmente agli
«eventi di luce». E sembra sapere che prima o poi, nel
corso dei millenni che sarebbero seguiti, tale sua
posizione sarebbe risultata più profonda di qualsiasi
nómos.
323
Il nostro black hole
I sophói lo intesero alla perfezione. Dell’illusione degli
astronomi di poter dedurre leggi oggettive
dall’osservazione del cielo, Eraclito si faceva
elegantemente beffa:
Principio delle cose che sono è una certa natura dell’infinito, dalla
quale proverrebbero i cieli, e il mondo che è in essi. E sarebbe eterna,
e immutabile, e conterrebbe altresì tutti i mondi. E vi sarebbe un
movimento eterno, in cui avviene che si producano i cieli. La terra
starebbe sospesa, non trattenuta da nulla, e si reggerebbe in tal
modo per via della pari distanza a cui sono tutte le altre cose. La sua
forma sarebbe altresì tonda, ricurva, come una colonna di pietra. Gli
astri proverrebbero da un cerchio di fuoco, separato dal fuoco del
mondo e cinto dall’aria. Bagliori ne giungerebbero attraverso certi
condotti tubiformi, ed è in corrispondenza di questi che appaiono gli
astri. 2
324
equilibrio ed equidistanza, Anassimandro anticipa
Copernico e la concezione newtoniana delle forze
gravitazionali immateriali e invisibili (duemiladuecento
anni d’anticipo).
Dall’altro, fornisce una descrizione efficace di ciò che
Mosè chiama «’Elohiym»: «Una certa natura dell’infinito
che contiene tutti i mondi». E, come Mosè, anche
Anassimandro parla del prodursi dei cieli, e di un «vuoto»
tra essi; e descrive gli astri non come corpi celesti ma
come ciò che di quei corpi si vede.
In Anassimandro queste due prospettive sono
compatibili l’una con l’altra – il che è già un suo
considerevole merito. In più, Anassimandro sviluppa
l’idea mosaica degli «involucri di luce», ottenendone quei
«condotti tubiformi» che sono un’anticipazione sia del
nostro attuale concetto di black hole, sia di qualcosa che
l’astrofisica non ha ancora dedotto da tale concetto: e cioè
che per la mente umana il black hole più importante di
tutti sarebbe proprio l’«orizzonte degli eventi» del nostro
universo – che Anassimandro chiama «la terra» e che
immagina simile a una «colonna», ovvero cilindrico,
tubolare anch’esso. Un hole, appunto.
Il nostro universo è un cannocchiale che coglie poco e
deforma quello che coglie. La nostra scienza ci arriverà,
prima o poi. A guardare le rappresentazioni grafiche che
in astrofisica si danno dei black hole, si direbbe che quel
giorno sia vicino. Somigliano infatti a pupille, con l’iride
intorno. Come specchi in fondo al nostro cannocchiale,
quando crediamo di puntarlo lontano.
325
Quinto Giorno
326
La vita dalle due acque
Genesi 1,20-23
Ed ’Elohiym dice:
«Le acque emetteranno un respiro di vita
brulicante, vermiforme,
e i volatili che voleranno veloci sopra la terra,
lungo il vuoto del cielo».
Ed ’Elohiym dà forma agli immensi cetacei
e a ogni respiro-di-vita che si muove contraendosi
e di cui pullulano le acque
– e ognuno è secondo la sua specie –
e ai volatili dall’ala forte
– ognuno secondo la sua specie.
Ed ’Elohiym vede che ciò è perfetto.
Ed ’Elohiym li benedice dicendo:
«Generate e moltiplicatevi
e riempite le acque nelle acque
e i volatili si moltiplichino sulla terra».
Ed è sera; ed è mattino: il quinto giorno.
327
di Mosè:
328
forme viventi agli occhi del Presente.
Il che significa che il nostro intelletto vede vivere in
quegli esseri altrettanti aspetti del Passato e del Futuro. Ciò
spiega perché dai tempi di Anassimandro e fino a oggi vi
sia in noi l’irresistibile impulso a vedere l’origine (cioè il
più remoto Passato) degli esseri viventi nelle acque –
«nelle acque-di-sotto» preciserebbe Mosè. Perché per noi lì
è il Passato.
E un impulso altrettanto irresistibile ha obbligato gli
uomini a identificare il culmine del progresso (cioè il
Futuro) nella possibilità di volare, e tutte le religioni a
collocare in cielo il Paradiso in cui si risiederà, se tutto va
bene, dopo la morte (cioè nell’estremo Futuro): perché lì,
in quelle che Mosè chiama «le acque-di-sopra» è il Futuro,
per noi. Così lo immaginiamo da sempre.
È un’altra legge del nostro intelletto: da un lato, non
possiamo conoscere oggettivamente nulla della natura dei
pesci e degli uccelli, ma solo costruire teorie in cui – senza
accorgercene – si esprima il nesso che vi è per noi tra
Passato e acque, e tra Futuro e cielo. Dall’altro, pesci e
uccelli sono nostri maestri di psicobiologia: in loro
possiamo scoprire in modo sempre più dettagliato che
cosa siano per noi Passato e Futuro – se ci accorgiamo che
guardandoli guardiamo il nostro guardarli.
E ciò, evidentemente, appare «perfetto», ṬWoB, a
’Elohiym: e il Dio annuncia che quei maestri si
moltiplicheranno sempre più.
329
La vita da fuori
Oltre al Passato e al Futuro, in questi esseri d’oltre-
orizzonte si manifesta – per la prima volta nella Genesi –
anche ciò che Mosè chiama «vita», e che non corrisponde
a ciò che la nostra biologia intende con questo termine.
Per le nostre scienze, la vita è il funzionamento di una
qualsiasi sostanza sufficientemente organizzata da essere
in grado di conservarsi per un certo periodo, e di
svilupparsi e riprodursi, adattandosi all’ambiente – il che
ci fa senz’altro includere tra i viventi anche le piante.
Nella lingua di Mosè, «vita», ḤaYaH, è:
un organizzarsi (Ḥ)
in cui si vede (Y)
ciò che è invisibile (H).
330
Passato e nei volatili dal Futuro.
331
La benedizione di ’Elohiym
Ne deriverebbe che secondo Mosè un tonno non è tutti i
tonni, e un fringuello non è tutti i fringuelli. Ciascun
tonno e ciascun fringuello sono tentativi più o meno
riusciti di esprimere la ḤaYaH del Grande-Tonno-H-
Invisibile e la ḤaYaH del Grande Fringuello-H-Invisibile –
così come nessun sogno è il Sogno, nessuna melodia è la
Melodia, nessuna natività è la Natività. Deve essere per
questo che ’Elohiym dà a pesci e uccelli la sua
«benedizione», e non l’aveva data alle piante. In ebraico
«benedire» non è, infatti, pronunciare un buon augurio: è
un termine intensissimo, BRK, costruito sulla radice BR,
«dar forma», e significa comunicare a qualcuno o a
qualcosa una forza creatrice. «Voi date forma e darete
forma all’ḤaYaH», dice dunque il Dio ai pesci e agli
uccelli, «per sempre, così come anche Noi diamo forma
all’universo». Come un artista che parli con dei
giovanissimi colleghi. Giunti da fuori, come lui.
332
Sesto Giorno
333
L’evoluzione delle specie terrestri
Genesi 1,24-25
Ed ’Elohiym dice:
«La terra farà nascere un respiro della vita.
Ciascuna secondo la sua specie:
bestie che camminano con rumore
e quelle che strisciano,
ciò che è animale della terra,
ciascuno secondo la sua specie». E così è.
Ed ’Elohiym fa questi viventi della terra,
ciascuno secondo la sua specie:
bestie che camminano con rumore
– ciascuna secondo la sua specie –
e quelle che strisciano dalla ’aDaMaH
– ciascuna secondo la sua specie.
Ed ’Elohiym vede che ciò è perfetto.
334
dell’evoluzione delle specie si è saldamente insediata nel
nostro modo di pensare, ci accorgiamo che ’Elohiym, nella
Genesi, si dedica proprio a evolvere i «viventi della terra».
Li fa, perennemente (poiché tutto è perenne in ’Elohiym)
come chi stesse costruendo progetti, e ne modificasse
l’aspetto e le strutture, di continuo, per tentativi.
Ciò lascia sguarniti i cosiddetti «creazionisti», ovvero
quelle persone molto religiose, secondo le quali Dio creò il
mondo già bell’e fatto. Tale loro convinzione può essere
psicologicamente significativa, filosoficamente audace a
suo modo, ma non può fondarsi in alcun modo sulla
Genesi
335
I regni naturali secondo ’Elohiym
Proviamo ora a fare un po’ di ordine nell’universo, così
come l’abbiamo visto formarsi fino a quest’inizio del Sesto
Giorno. Vi troviamo tre categorie di fenomeni:
Notiamo che la vita, sia nel senso nostro, sia nel senso
ebraico di ḤaYaH, è presente soltanto nella prima e nella
terza categoria, cioè nei fenomeni che non servono a
qualcos’altro, ma trovano la loro giustificazione in se
stessi. Ciò che invece esiste soltanto perché qualcos’altro
possa esistere, come il presente e gli astri, è vuoto, è un
«involucro» – un «condotto», avrebbe detto
Anassimandro.
Se l’universo a cui sta lavorando ’Elohiym fosse solo
l’universo materiale, questa ripartizione non ci farebbe
particolare impressione. Ma sappiamo che ’Elohiym è il
Divenire, e il materiale con cui lavora sono dunque le
potenzialità di tutto ciò che esiste e di tutti coloro che
336
esistono. Dunque tutti i fenomeni che gli abbiamo visto
formare fin qui sono non tanto cose o organismi, quanto
piuttosto modi di esistere – il che fa apparire questa
ripartizione un po’ più impegnativa per ciascuno di noi.
Possiamo infatti domandarci: «Quali aspetti del mio io
o delle mie attività hanno uno scopo – e dunque sono una
specie di condotto tubolare di qualcos’altro – e quali ci
sono e basta? E quali sono in intensa evoluzione, e
appartengono dunque alla terza categoria? Quali mi
connettono ad altre dimensioni, come nel racconto di
Mosè fanno i pesci e gli uccelli?» e così via. È un buon test.
Nel mio caso, per esempio, appartiene alla seconda categoria il modo in cui intendo il
mio lavorare a questo libro; mi auguro di tutto cuore che, in tale lavoro, ciò che scopro
appartenga alla prima categoria, e che la mia personalità possa appartenere alla terza
almeno finché non avrò finito. Ciò da cui tenersi alla larga, penso sia la sorte di chi
ritiene di appartenere alla prima categoria, e colloca i suoi progetti nella terza, e la
professione nella seconda.
337
Le due classi di viventi
Oltre a questa ripartizione generale, nello spazio-tempo di
’Elohiym è possibile tracciare anche una vera e propria
classificazione naturale degli animali della «terra». Nelle
versioni consuete ciò non si nota, poiché traducono
l’elenco degli animali terrestri in questo modo:
338
significati: uno più evidente è dato dall’unione della
radice B’, «giungere», «camminare» e di HoWMaH,
«rumore», e indica gli animali che appunto producono
rumore muovendosi; l’altro, geroglifico, è:
il muoversi (R)
sull’orizzonte-involucro (M)
della conoscenza (Š).
339
I serpenti dell’’aDaMaH
Il termine ’aDaMaH – che tra poco diverrà
importantissimo nel racconto – è costruito, come
’aDaMaT, su ’aDaM, che significa «la mente cosciente»
(vedi p. 139). Ma mentre ’aDaMaT indica la totalità, il
plḗrōma della conoscenza che la mente potrà raggiungere,
’aDaMaH indica tutte le conoscenze e le forme di
coscienza che le sono ancora precluse: è ciò che all’’adam
è invisibile (H).
I rettili che «strisciano da essa» divengono dunque, al
tempo stesso, i messaggeri e i limiti di ciò che per la mente
cosciente è ancora ignoto. Nell’Eden ne incontreremo uno
molto famoso. Ma fin d’ora, si sappia che questi serpenti
di Mosè differiscono molto dall’immagine che dei rettili si
ha in Occidente, come simboli o metafore di tutto ciò che è
infimo, meschino, perfido, insidioso.
Mosè ha in mente, piuttosto, il simbolo egizio dell’ureo,
che avvolgeva il disco solare sopra la testa del Dio Râ. Il
serpente egizio rappresentava al contempo ciò che l’uomo
può vedere del sole, e ciò che nel sole lo abbaglia
impedendogli di vederne di più, perché gli occhi umani
non reggono a tanto splendore. È immagine dei limiti
della conoscenza nel loro aspetto più radioso: un confine
di luce – che fa presentire come tutta quanta luminosa
anche l’’adamah, dalla quale i serpenti strisciano.
Proprio in quanto limite, d’altro canto, il serpente
acquistava nella mitologia egizia anche il valore del
nemico da sconfiggere: era anche il serpente-drago che
l’iniziato doveva imparare a tagliare a pezzi o, diremmo
oggi, ad affrontare e ad analizzare, così come è necessario
fare con i traumi, i blocchi, le paure che limitano
340
l’orizzonte di ognuno di noi.
341
Il serpente-confine per eccellenza divenne, in Grecia,
Pýthōn, Pitone (da una radice semitica: PT, «porta») che
custodiva l’Oracolo di Delfi. Quando Pitone venne ucciso
da Apollo, «il cui sguardo coglie ogni cosa», le virtù del
serpente-confine-porta si trasferirono nella sacerdotessa di
Delfi, che divenne la Pythía, ovvero la «Pitonessa»; per
intendere il senso dei suoi oracoli, sempre enigmatici,
occorreva infatti ripetere sempre di nuovo l’atto di
Apollo, affrontare le spire, i grovigli di significati che
costituivano la soglia del loro autentico contenuto.
L’immagine del serpente amico, del serpente guida, si
ha invece nei miti di Asclepio, il Dio della medicina, di cui
il serpente è perenne consigliere. Così come nei due
serpenti che ornavano il caduceo di Hermes, Dio esperto
di soglie. E soprattutto in Dioniso.
E attraverso Dioniso si giunge a Śiva, con il suo
serpente sempre al collo, e il serpente-Kuṇḍalinῑ, e
l’origine del labirinto.
342
L’’adam che, nelle versioni consuete, non si riesce a
vedere
Genesi 1,26-28
343
Una crisi nevrotica sembra accecare questi traduttori:
non vedono la parola «ombra» (la trasformano tre volte in
«immagine»); non vedono il verbo «discendere» (che
trasformano in «dominare»), non vedono le parole «e in
tutta la terra» (che spariscono nelle versioni consuete),
non vedono il verbo «contenere» (che diventa
«soggiogare»).
Quanto al termine ’adam, nelle versioni consuete
diventa sempre «uomo» o peggio ancora «Adamo»: la
credenza che Dio abbia creato un individuo maschio è
troppo diffusa perché osino scalfirla. Ne viene una
balorda ambiguità: Dio crea dapprima «l’uomo», al
singolare maschile, poi li crea al plurale; e al plurale sono
chissà perché «maschio e femmina»: come se fossero due
soltanto; dunque due uomini maschi di cui uno è
femmina?
Ma non è così né in ebraico corrente, in cui ’adam
significa «tutta l’umanità», né tantomeno in ebraico
geroglifico.
344
Ciò che, nel testo, si comincia a vedere dell’’adam
Genesi 1,26
Facciamo un ’adam
nella nostra ombra,
secondo il nostro modo di comprendere.
ombra (ZeL)
che racchiude, porta dentro di sé, segna un orizzonte (M).
345
di ’Elohiym si percepisce sulla «terra»: è dunque
innanzitutto un effetto che il Dio produce nella
dimensione della «terra»-’aReZ. E l’’adam è in
quest’«ombra», che lo racchiude: dunque l’’adam
percepisce la realtà entro l’«ombra» divina.
Ma, al contempo, un’ombra è accanto a chi la proietta.
E può trovarglisi dietro, a lato, o anche davanti.
Dunque l’’adam può stare anche davanti al Dio che l’ha
creato.
346
«Facciamo un ’adam»
347
La nascita di «io»
Ognuno di noi sa – e certo anche Mosè sapeva – che poter
dire «io» parlando di sé è una grande conquista: è il
coronamento di quel processo di crescita interiore che in
psicologia si chiama individuazione e che consiste nel
diventare unico, indiviso, intero.
Chi ha un «noi» dentro di sé, non è ancora se stesso.
Non è se stesso chi invece di far parlare il proprio «io» fa
parlare la propria famiglia, la propria classe sociale, il
proprio popolo o magari (come fa un papa dicendo «noi»)
un gruppo di persone che domina molti.
E nemmeno ’Elohiym è veramente se stesso, se dice
«noi». È ancora multiplo, e nel suo perenne superarsi non
può non desiderare di giungere oltre la propria pluralità:
l’’adam è l’espressione, il frutto di tale suo desiderio.
È il prototipo di ciò che ’Elohiym stesso diventerà: in
seguito, ’Elohiym comincerà infatti a dire «io» (vedi p. 320).
Per ora, il Sesto Giorno, sembra pensare: «Ecco,
nell’’adam vedremo cosa significa, per la nostra DeMWuT,
sentirsi un io».
A conferma di ciò, vi è anche il modo in cui ’Elohiym fa
esistere l’’adam.
Finora abbiamo visto che, nel far esistere gli esseri
viventi, il Dio ricorre al dare forma (a cetacei e volatili, che
«provengono» da fuori) oppure al fare (gli animali
terrestri). Con l’’adam sono necessarie entrambe le azioni.
’Elohiym deve fare l’’adam, il che significa farlo evolvere,
come gli esseri originatisi nella «terra».
Ma deve anche dargli forma: dunque, l’’adam proviene
anche da fuori.
E nell’universo descritto dalla Genesi, l’unico che sia al
348
contempo al di fuori e all’interno dello spazio-tempo della
«terra» era finora ’Elohiym. Dunque l’’adam è
profondamente simile al Dio.
Gesù non ebbe esitazioni al riguardo: stabilì che per
Dio l’«io» è un figlio. Mosè non arriva a dirlo (anche
perché non amava la parola «padre») ma fa di tutto
perché chi legge debba pensare così la comparsa
dell’’adam sulla «terra».
L’ebraismo arrivò a comprendere questo, in epoca
antica. Nei Salmi (X secolo a.C.) compariva, ben netta, la
nozione di questa paternità divina:
349
«Maschio» e «femmina»
Sempre più fastidioso risultò anche, per l’Occidente, il
fatto che Mosè non facesse alcuna differenza tra l’’adam
maschile e l’’adam femminile.
Se ’Elohiym aveva dato all’’adam forma «di maschio e
di femmina», ne conseguiva che la mente umana si
esprime in eguale misura nei due sessi, e che dunque
l’«io» dei maschi e l’«io» delle femmine conoscono,
pensano, sentono e creano, uno non meno divinamente
dell’altro, e si completano a vicenda, «generando e
moltiplicandosi». Ma in Occidente, perfino il leggere e lo
scrivere furono a lungo ritenute attività disdicevoli per le
donne: se già l’idea che il singolo individuo potesse essere
il «figlio di Dio» dava ai nervi, figurarsi quella che Dio
avesse una sua «figlia» in ogni donna.
Nella loro massima espressione, i tentativi dei teologi
di spiegare questa compresenza del maschile e del
femminile nell’’adam giunsero all’idea – ancor oggi
ritenuta valida da molti – che il primo uomo descritto
dalla Genesi fosse stato un corpo androgino, ma che
prevalessero in lui i tratti virili, e perciò bisognasse
riferirvisi sempre al maschile. E si pensò che in seguito
Dio avesse corretto questa androginia creando la donna
da una costola dell’uomo, dopodiché i maschi furono
finalmente maschi, e le donne solamente donne. Ma ciò
non ha nulla a che vedere con il testo ebraico. È solo
teologia, persa nei suoi grovigli.
Nella lingua di Mosè questo problema, in realtà, non si
pone affatto. Il Sesto Giorno, ’Elohiym non sta creando i
corpi ma l’’adam, la mente dell’umanità. E nella mente
dell’umanità, come nella mente di ogni individuo, il
350
principio maschile e il principio femminile sono due
dinamiche della conoscenza, e non due sistemi genitali.
La parola che nelle versioni consuete viene tradotta
«maschio» è SaKaR: è identica al verbo «destare», che
abbiamo già incontrato (vedi p. 133), e abbiamo visto che
in geroglifico è:
351
Lo scopo dell’’adam
Genesi 1,28
un vedere (Y)
che procede (R)
e trova direzione (D).
352
accontentandosi anche qui delle feroci versioni consuete,
in cui i compiti dell’«uomo» diventano: dominare,
prolificare, occupare territori, soggiogare!
E che immagine disgustosa dell’umanità vi ha trovato
giustificazione. Vi era evidentemente, in Occidente, un
profondo senso di colpa per la durezza del dominio
imposto ad altri popoli e alla natura, e bisognava placarlo
mostrando che Dio aveva dato il permesso.
Inoltre, vi era anche qui qualcosa da nascondere: quel
«discendere» in tutti gli esseri viventi somiglia troppo al
concetto che gli egizi avevano della reincarnazione.
Erodoto, nel V secolo a.C., lo esponeva così:
Questo ragionamento sono stati gli egizi a farlo per primi. A loro
dire, l’anima dell’uomo sarebbe immortale, e con il venir meno del
corpo essa penetra in un altro essere vivente, e così via in diverse
nascite, e dopo che li abbia girati tutti, terrestri, marini e volatili, di
nuovo penetrerebbe nel corpo d’un uomo, al momento della sua
nascita, e tale giro avverrebbe in un arco di tremila anni. A questo
ragionamento vari elleni hanno ricorso, chi prima e chi dopo,
presentandolo come se fosse stato loro proprio; e io pur sapendone i
nomi non starò a scriverli. 3
353
che trova nell’«io» un seccante intralcio.
354
I nutrimenti dell’’adam
Genesi 1,29-31
Ed ’Elohiym dice:
«Ecco, vi do ogni erba che dissemina semi sulla terra
e ogni ramificarsi che porta in sé il proprio frutto.
Ogni ramificarsi che dissemina semi sarà cibo per voi.
E a tutte le vite della terra
e a tutti i volatili del cielo
e a ogni rettile sopra la terra
che abbia in sé il respiro della vita
servirà da cibo tutto ciò che è verde».
E così è.
Ed ’Elohiym vede ciò che ha fatto
ed ecco! È una cosa assai perfetta.
Ed è sera; ed è mattino: il sesto giorno.
355
L’‘io’ si nutre di questo e, se non scopri cos’è, il tuo ‘io’
rischierà la denutrizione».
Non è difficile. L’‘eZ è tutto ciò che l’«io» non ha ancora
capito: tutto ciò che non riesce ancora a definire, a
spiegare. Quello è il suo cibo, ed è colmo di frutti e di
semi. Una dieta simile è l’esatto contrario di ciò a cui
ognuno di noi è stato abituato: in Occidente la mente si
nutre di certezze, di concetti, di risultati del pensiero e di
dogmi – invece che di ciò che sta ancora «cercando
direzioni».
356
I nutrimenti degli altri
Un nutrimento diverso è riservato alle altre forme di vita
della «terra». Erbe verdi. Sappiamo già che «erbe», ‘eŠeB,
significa:
un procedere (YR)
ben dominato (Q).
357
Comincia il Settimo Giorno
Genesi 2,1-3
358
dunque sta soltanto incominciando.
«Settimo» in ebraico è ŠeBiY‘iY. È un termine costruito
sulla radice ŠB, «ritornare» (che echeggia in tutto il brano:
ŠB, ŠB, ŠB, ogni volta che compaiono le parole «settimo» e
«ritorna»). Ed è, come spiega Mosè, il «giorno» in cui tutto
sta ritornando «com’era prima», ovvero come quando
l’universo non era ancora stato creato.
Si sta tornando a quel primo «giorno» che non aveva il
mattino, mentre di questo «giorno» ora in corso non è
nominata la sera. Il Settimo Giorno e il Primo si stanno
rivelando tutt’uno.
È un ciclo che si sta compiendo (sette, nella tradizione
ebraica, è il numero ciclico per eccellenza), ma è ancora
lontano dall’essersi compiuto: in questo Settimo-Giorno-
che-diventerà-il-Primo, dovranno svolgersi le vicende
dell’’adam e di colei che di solito è chiamata «Eva»; e
quelle di «Caino» e «Abele»; e dovrà crescere la lunga
stirpe di «Caino»; e la lunga stirpe di suo fratello Šet; e vi
sarà Noè, e il Diluvio – e solo dopo il Diluvio tutto tornerà
veramente come era prima: una distesa di acque sotto i cieli,
con il vuoto in mezzo. E lì verrà la sera del Settimo
Giorno.
Dopodiché tutto ricomincerà, in modo nuovo, e non a
opera di ’Elohiym soltanto.
dominare (Q)
la direzione (D)
della conoscenza (Š).
359
’Elohiym, cioè, dirigerà ogni cosa, in questo Giorno
ultimo e primo. Sarà lui il «sovrano» che darà forma a tutto
e farà tutto. Mosè tiene a precisarlo, qui, perché sta per
entrare in scena l’altro Dio, YHWH, che non sa, non
capisce e non capirà il senso degli avvenimenti di questo
Giorno, e che vorrà credere di essere lui solo a dominare
nel mondo. Molti, nei secoli successivi, gli daranno
ragione.
360
‘Eden
361
YHWH si mette al lavoro
362
Il Dio del non
Genesi 2,4-6
Ecco YHWH.
Ha nome e cognome, il che capita di rado tra gli Dei.
YHWH degli ’Elohiym: esattamente così lo intende Mosè –
come una componente di quel Plurale divino. Quante
siano le altre componenti degli ’Elohiym non si sa. Due?
Infinite? Oppure forse un’altra sola? La Genesi non lo dice.
Hegel, verso la fine della sua vita, giunse alla convinzione che le componenti del
Divenire (in senso filosofico, non biblico) fossero in tutto due: l’Essere e il Nulla. 1 Dal
punto di vista dell’Essere è certamente così: dato che l’Essere è tutto ciò che c’è già,
rispetto a esso ciò che ancora non c’è dovrà per forza apparire come Nulla. La libertà, la
possibilità, il cambiamento, i successivi stadi d’evoluzione, l’immensa creatività che
attende di essere realizzata sono ancora Nulla, rispetto a ciò che c’è già. E nella
Genesi, YHWH la penserà così per molto tempo.
363
Ma, quale che sia il totale degli ’Elohiym, la questione
principale è perché YHWH, e con lui la dimensione
dell’Essere, nel racconto entrino in scena soltanto il Settimo
Giorno, dopo la creazione dell’’adam. Prima, Mosè non aveva
accennato alla presenza di quest’altro Dio in qualche parte
dell’universo.
Evidentemente l’agire di YHWH ha inizio proprio con
la creazione dell’’adam e con il Settimo Giorno.
Della comparsa di un ’adam che è «più avanti» di
’Elohiym, infatti, la dimensione divina non può non
risentire: la funzione di YHWH in quanto Dio dei limiti
diventa più difficile, più inquieta. Al contempo, il ciclo
che si va compiendo nel Settimo Giorno non può non
porre in luce YHWH: in questo giorno ’Elohiym si
appresta a «ritornare com’era prima», ovvero a superare
tutto ciò che ha creato; dunque YHWH diverrà d’intralcio:
è il Dio dell’Essere, il Dio di ciò-che-c’è-già: come potrà
acconsentire a un tale superamento?
Tutto ciò porta d’un tratto YHWH in primo piano; e
insieme a lui compare per la prima volta nella Genesi la
parola «non»:
364
Il Dio in difficoltà
Genesi 2,4
365
storia dell’umanità, le vicende, il senso e i tormenti di
questo Dio e della sua lotta per riuscire a fare ciò che da
solo non sa fare.
Ed è anche questa storia di tutti, di sempre. Essere e Divenire sono in noi. Anche
nell’Essere di ognuno di noi vi è questa inettitudine al Fare, all’accogliere il nuovo.
Non è difficile ed è bene riconoscere in noi stessi – anche nella nostra esperienza
quotidiana – esempi di tutta la lotta divina che qui seguirà.
366
Non certo un Dio della pioggia
Le versioni consuete non possono ammettere questa
difficoltà di YHWH. Presentano perciò così il seguito del
brano:
un’energia (’)
che cerca direzione (D).
367
dell’Occidente.
Eppure in ebraico il senso è chiaro.
A quel tempo – all’inizio di quel Settimo Giorno – non
vi era ancora realmente nulla di ciò che ’Elohiym aveva
creato. Tutto era solo Divenire, pura potenzialità; ma tale
potenzialità urgeva, la sua ’aD premeva sul confine
dell’’adamah, dell’invisibile.
E YHWH ne era come spaventato. Non riusciva ad
accogliere quella ’aD, a «imprimerle un movimento» al di
qua del Divenire.
Gli occorreva qualcuno che lo aiutasse, che sapesse
come agire con ciò che è nell’’adamah. E questo qualcuno
è l’’adam, la cui mente è affine a quella del Dio creatore.
L’’adam dunque può creare. E YHWH cominciò a servirsi
di lui, per poter fare.
368
L’alchimista
Genesi 2,7
369
Le versioni consuete mostrano qui una specie di Dio
vasaio, che plasmò l’uomo con la polvere del suolo. Ma
ancora una volta Mosè narra tutt’altro. Nel testo ebraico la
preposizione «con» non c’è, qui, e non si parla di
«polvere». Ciò che le versioni consuete traducono
«polvere» è in ebraico ‘aFaR, termine alchemico, analogo
(anche nella forma linguistica) al greco aithḗr, «etere»,
«quintessenza».
L’’adam rappresenta per YHWH la quintessenza, la
pietra filosofale dell’’adamah: e la pietra filosofale è in
alchimia lo strumento principe per la trasformazione delle
sostanze. L’’adam sa operare trasformazioni dell’’adamah
perché è per sua natura uno scopritore, può penetrare
nella «terra» e comprenderla. E YHWH si affretta a
«plasmare» questo trasmutatore, immettendo in lui una
«qualità dell’anima» che gli permetta di «respirare» nella
sfera dell’Essere – un po’ come si equipaggia un
astronauta prima che metta piede su un altro pianeta.
370
Il GaN ‘eDeN
Genesi 2,8-9.15
371
«recinto». E non è nello spazio, ma nel tempo: in un ‘eDeN
– termine che in ebraico corrente significa «epoca»,
«periodo», e in geroglifico è:
la durata (‘D)
delle cose (N).
il vertice (Q)
di ogni orizzonte della mente (DM).
372
tutto dura come durano le cose. E l’’adam deve
integrarvisi. In termini filosofici, si chiamerebbe
reificazione.
Ed è ciò che tutti sperimentiamo (e che purtroppo a tutti sembra normale) quando
pensiamo che gli avvenimenti siano cose che avvengono, e che queste cose contino più
di tutto – in particolar modo più di chi le ha fatte avvenire e del perché. O quando
misuriamo il valore di qualcuno in base a quel che ha fatto o alle cose che possiede. O
quando pensiamo al tempo come a una serie numerabile di minuti, giorni, anni (che
sono altrettante reificazioni del tempo); o quando crediamo di essere qualcosa; o che
gli individui possano essere strumenti di lavoro o di piacere; o che siano cose la terra,
l’aria, l’energia in tutte le sue forme. L’‘eDeN è questa signoria delle cose sull’’adam,
che apparteneva invece all’eternità.
si impadronì (YQ)
della sua energia vitale (H).
373
A pieno regime
Ma è una trappola che a quanto pare funziona. L’’adam si
mette al lavoro per YHWH e, grazie a lui, nella
dimensione dell’Essere comincia pian piano a diventare
visibile ciò che ’Elohiym aveva creato nei Sei Giorni.
Assume forma visibile ogni ‘eZ, ogni «diramarsi» del
creato: conosciamo già questa parola, ‘eZ (vedi p. 217), e
sappiamo che nelle versioni consuete viene tradotta
«albero». Qui tale traduzione produce due degli equivoci
più clamorosi della storia delle religioni. Nelle versioni
consuete leggiamo che vi erano là:
374
L’«albero della vita»
Lungi dall’essere un albero, ciò che Mosè chiama
«Diramarsi delle Vite» (‘eZ Ha-ḤaYiYM) è tutta l’opera che,
grazie all’’adam, si sta ora svolgendo nella dimensione di
YHWH. È il prendere forma di tutto ciò che è vivo.
La descrizione che Mosè ne dà come di un «diramarsi»
è un’altra delle sue vertiginose anticipazioni scientifiche:
corrisponde agli «alberi delle specie» che Darwin
cominciò a tracciare, e che fino a oggi i teorici
dell’evoluzione continuano a precisare fin nei minimi
dettagli.
Dagli «alberi» darwiniani deriva ciò che i biologi
chiamano cladogenesi, letteralmente «formarsi dei rami»:
ovvero quei processi evolutivi frazionanti che portano al
formarsi di numerose varietà da pochi organismi.
Avviene, per esempio, quando qualche esemplare d’una
specie giunge in aree molto distanti da quelle d’origine: lì
la specie si adatta, e si dirama. Ed è quel che sta
avvenendo anche qui nel mondo di YHWH, ora che
l’’adam sta importandovi le creazioni di ’Elohiym.
375
Riproduzione del primo schema che Darwin tracciò del processo
evolutivo, in un taccuino del 1837.
376
L’altro «albero»
Il secondo ‘eZ di cui narra qui Mosè è, nel testo ebraico,
un altro tipo di schema evolutivo. Ciò che si dirama, qui, è
la conoscenza di due qualità opposte: la qualità di ciò che
è «perfetto», ovvero ṬWoB, in ebraico; e di ciò che è
«perverso», «malriuscito», che in ebraico è Ra‘, e in
geroglifico:
377
Per esempio, è di certo un male che alcuni animali ne predino altri, ma ciò si rivela un
bene sia per i predatori sia per l’impulso che dà alle specie predate.
È male ciò che blocca l’individuo e determina le sue sconfitte e umiliazioni; ma è un
gran bene che, in quelle sconfitte e umiliazioni l’individuo si fortifichi.
È un male che un cataclisma si abbatta su una popolazione, ma è un bene lo slancio
demografico ed economico che ai cataclismi regolarmente segue.
E, nel GaN ‘eDeN, è un male, una cosa perversa che l’’adam sia recluso, ma la
bellezza di ciò che lì egli sta realizzando è ṬWoB.
378
Intermezzo
Genesi 2,10-15
379
durante l’esilio babilonese, epoca d’oro dei dottori della
legge ebraica, qualche gruppo di copisti della Genesi
decise che qui fosse opportuno uno stacco paesaggistico,
pieno di significati astrusi.
Forse avevano udito narrare del leggendario Monte
Meru, che in India era immaginato come il centro
dell’universo: una vetta altissima (ottantamila leghe, come
dire cinquecentomila chilometri) eppure nascosta in
qualche luogo del Tibet. Dal Meru, narrano le leggende,
sgorgavano i Quattro Fiumi: Sītā, Alakanandā, Vannu e
Bhadrā, che irrigavano d’energia i quattro punti cardinali
del pianeta. E quegli scribi ebreo-babilonesi vollero che
una simile meraviglia comparisse anche nel libro di Mosè.
O forse quegli scribi erano talmente preoccupati da ciò
che Mosè narra di YHWH nelle pagine seguenti, che
vollero inserire qui una sorta di talismano verbale, di
incantesimo, per proteggersi da un qualche influsso
negativo che l’audacia del racconto potesse scatenare? I
quattro fiumi di cui si parla in questo intermezzo
potrebbero in tal caso rappresentare correnti energetiche
dell’uomo, arterie e grandi vene dei suoi corpi sottili;
nominarle, qui, poteva essere un modo di corroborarle,
magicamente, perché l’energia fluisse più intensa, e
intensificasse il campo aurico del lettore prima di fargli
assistere a uno dei momenti peggiori della storia di
YHWH.
Se così è, ringraziamo quegli scribi per l’aggiunta-
portafortuna, e proseguiamo.
380
Come l’’adam diventò due
381
Il divieto
Genesi 2,16-17
un orizzonte (M)
che è giunto al suo limite (W)
e che lo supera (T).
382
Dunque, anche la parola con cui YHWH vuol
terrorizzare gli si rivolta contro. Quel limite è superabile.
E la superabilità di un limite è la negazione del potere di
YHWH. È MWoT per lui, più che per l’’adam. E più che
un ordine, le parole del Dio sembrano una preghiera
all’’adam, perché gli risparmi questa esperienza.
383
YHWH sempre più inquieto
Genesi 2,18-20
YHWH è comprensibilmente agitato, dopo quel suo
ordine troppo incerto. Non si fida dell’’adam.
produrre (B)
direzioni (D).
384
tutta l’aria di desiderare un alleato per se stesso, contro di
lui: qualcuno che impedisca a quell’alchimista di andare
troppo in giro. Il termine che traduco con «che gli sia
pari» è, in ebraico, NeGeD, che significa «stare davanti» e
«opporsi»; in geroglifico è:
385
Il duello
Genesi 2,19
386
YHWH sta dunque sfidando l’’adam a una dura
partita. Vuole che fallisca: che di qualche animale non
sappia trovare il nome – cioè il senso – e che soffra per
questo; che si senta incerto; allora il Dio avrà meno da
preoccuparsi. Ma l’’adam conosce e capisce tutti i viventi:
e YHWH rimane a guardarlo, mentre lui, felice, dà i nomi.
Nome dopo nome, cresce la frustrazione del Dio. Che
nessun vivente possa opporsi all’’adam diventa ora il
meno: YHWH comincia ad accorgersi di non poterglisi
opporre neppure lui.
387
Divide et impera
Genesi 2,21-24
388
illustrano sia tecniche operatorie sia metodi di narcosi
(con oppio, elleboro, cannabis). La differenza è che
YHWH interviene qui sulla psiche dell’’adam, invece che
sul corpo; nondimeno l’operazione è descritta in dettaglio.
Seguiamola fase per fase.
389
La narcosi
Genesi 2,21
un cambiamento (TR)
nell’attività della mente (DM).
il vedere (Y)
che conosce (Š)
le cose concrete (N).
390
colgono. Dall’altro, cogliamo nelle cose molto di più di
quel che ne vediamo, poiché la nostra percezione è
interferita da più parti: da una grande varietà di emozioni
– paure, aspettative, rimozioni –; dall’intuizione; dalla
creatività; dai nostri scopi (veri o falsi, consapevoli o
inconsapevoli); da innumerevoli opinioni altrui, da noi
assimilate, riguardo a quali cose si debbano percepire e
quali no; e via dicendo.
Se nel sonno potessimo aprire gli occhi e osservare il
mondo esterno, ci apparirebbe molto diverso da come lo
conosciamo: ma poiché li teniamo chiusi, e lo sguardo
della nostra mente spazia soltanto all’interno di essa, ciò
che vediamo dormendo sono le immagini più oggettive
che possiamo avere della nostra interiorità, o dei ricordi di
quello che abbiamo percepito durante la veglia (il che fa
ritenere agli psicanalisti che l’analisi dei sogni sia tanto
importante, per lo studio delle effettive condizioni d’una
psiche, quanto l’analisi del sangue lo è per lo studio delle
condizioni di un organismo).
La pensavano così anche gli evangelisti. Nel racconto
della trasfigurazione di Gesù, i discepoli si
«addormentano» prima di vedere, e il passo suona
paradossale se tradotto alla lettera:
391
coscienza dell’’adam per tutt’altro scopo. L’’adam ha
ricevuto da ’Elohiym la capacità di vedere e capire oltre
ciò-che-c’è-già: la sua intenzionalità è creatrice. YHWH
riesce a sopprimergliela per un po’. «Sta’ fermo, con la tua
strana mente elohista», avrebbe potuto sussurrargli
mentre lo narcotizzava, «così non intuirai, non capirai il
senso di ciò che sto per combinarti, vedrai solo ciò-che-
c’è-già, senza poterci fare nulla!»
Poi mise mano ai ferri.
392
La cosiddetta costola
Genesi 2,21
393
È l’aspetto che qualcosa di mobile, di vivo assume allo
sguardo.
YHWH fa, insomma, con quella facoltà spezzata, ciò
che sa fare meglio: la plasma, ma il suo scopo questa volta
non è tanto di farla esistere sulla «terra» – com’era stato
con l’’adam e poi con tutte le altre creature di ’Elohiym –
bensì di «dissimularla», perché l’’adam fatichi a
riconoscerla.
E così «dissimulata» la mostra all’’adam, come per dire:
«E questo, che nome ha? E che effetto ti farà scoprirlo?»
394
’iYŠ e ’iŠaH
Genesi 2,23
capace (’)
di usare soltanto la percezione sensoriale (Y)
per conoscere (Š).
E capisce che ciò che gli è stato tolto è la sua ’iŠaH, che
in geroglifico è:
395
la capacità (’)
di conoscere (Š)
ciò che è invisibile (H).
396
Le due menti
Tali sono rimaste, da allora, come ciascuno può verificare
semplicemente in se stesso.
397
cose, la sostanza di cui sono costituite, le appaiono
soltanto come diverse intensità o frequenze di un unico
flusso di energie, che è tutto.
L’’išah non conosce neppure limiti temporali. Il prima e
il dopo le appaiono come possono apparire a noi il prima
e il dopo di ciò che è narrato in un romanzo (ogni opera
d’arte è immagine della realtà come l’intende la nostra
’išah), cioè fasi di un tempo reversibile: tanto quanto per
noi è sufficiente ricominciare a leggere il primo capitolo di
quel romanzo perché tutto ciò che vi si narra ricominci,
allo stesso modo l’’išah può muoversi nel tempo e
trovarsi, d’un tratto, in un giorno di trent’anni fa, e
l’attimo dopo in un giorno che verrà tra trent’anni. L’’iyš
chiamerebbe tutto questo suggestione o fantasia, mentre
per l’’išah è fantasia o suggestione ciò che all’’iyš appare il
massimo della constatabilità.
Quanto all’«io» dell’’išah, a ciò che l’’išah si accorge di
essere, è anch’esso ovunque: tutto ciò di cui si accorge è
sempre il suo «io». Quando la nostra ’išah vede o
immagina la luna, o Sirio, o la curvatura dell’universo,
l’’išah è la luna, Sirio o la curvatura dell’universo.
E non appena sa di esserlo, sa di essere anche oltre: e
che soltanto una certa frequenza di ciò che può chiamare
«io» è stata o può essere la luna, Sirio, oppure quella
curvatura.
398
L’’išah e gli yahwisti
La nostra scienza, d’altronde, ci sarebbe potuta arrivare
molto prima.
Quella scissione determina infatti tutta la filosofia
occidentale, e proprio come YHWH sperava: cioè in forma
di contrapposizione tra le nostre due menti. Nella filosofia,
predomina di gran lunga l’’iyš, mentre all’’išah ci si
avvicina soltanto tra mille cautele e sospetti – quasi si
temesse di dispiacere a YHWH. E sono numerosi i
sostenitori intransigenti dell’utilità di quella amputazione
– dagli epicurei a Berkeley, per il quale «Esse est percipi»
ovvero «Vi sono soltanto le cose percepibili dai sensi», e
fino a L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre, che comincia
così:
399
l’’išah, nel corso dei secoli, è progredita ben poco e, le rare
volte che compare in qualche pensatore, usa per lo più gli
stessi concetti che venivano utilizzati duemila-tremila
anni fa, e, quando va bene, più o meno nello stesso modo
in cui venivano adoperati allora (il presente libro ne è una
dimostrazione).
Ancora più evidente è lo yahwismo delle istituzioni e
del comune sentire dell’Occidente, nei quali la scissione
tra l’’iyš e l’’išah diventa la contrapposizione di un
principio maschile e di un principio femminile.
Nel principio maschile, i limiti dell’’iyš, cioè la sua
incapacità di vedere oltre le apparenze, il suo vincolo alle
categorie di spazio e tempo, assumono l’aspetto di abilità
pratica, organizzativa.
Nel principio femminile, le doti dell’’išah, cioè la sua
rapidità d’intuizione, l’immaginazione, assumono
l’aspetto di sensibilità eccessiva e di irrazionalità – il che
ha determinato le sue innumerevoli esclusioni da
responsabilità pubbliche. Furono altrettante repliche di
quell’operazione del Dio. Come una violenza che, subita
da bambini, si tende irresistibilmente, da adulti e da
anziani, a subire di nuovo, oppure a far subire ad altri.
400
I due in uno
Genesi 2,24-25
401
propria pienezza.
Anche in seguito, in varie occasioni e in vari modi,
Mosè tornerà a insistere su questo punto essenziale dello
sviluppo individuale. Ma qui le versioni consuete lo
ignorano: trasformano questo verso della Genesi in una
fondazione del matrimonio patriarcale:
lo slanciarsi (‘R)
402
oltre ogni ostacolo (W)
oltre ogni involucro (M).
403
Il frutto proibito
Per il Dio tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece hanno
preso le une per ingiuste, le altre per giuste.
404
La saggezza del serpente
Genesi 3,1-5
Il racconto prosegue:
405
Le versioni consuete – molto yahwistiche – tentano di
screditare questo messaggero, e inventano perciò questa
traduzione:
406
Nel mito di Eracle, quando venne affidata all’eroe
l’impresa di rubare le mele d’oro dal giardino delle ninfe
Esperidi, chi gli indicò la via da percorrere fu Nereo, il
«vecchio del mare» che continuamente si trasformava, e
che spesso compariva in aspetto di serpe o tritone; e nel
giardino delle Esperidi quelle mele erano custodite da un
altro rettile, il labirintico Ladone, dalle molte teste e dalle
molte voci. Anche lì si trattava di frutti proibiti – da Hera.
E né dalla seduzione di Persefone, né dal furto delle
mele sacre a Hera venne alcunché di male – se non per il
prestigio di Hera medesima.
407
E YHWH intanto?
Dov’era in quel momento il Dio dei divieti?
Che YHWH non fosse nei dintorni è una circostanza
misteriosa, che merita attenzione.
Ne farebbe le spese l’onnipresenza divina, se YHWH
fosse il Dio supremo, come ritengono le nostre grandi
religioni: poiché un Dio onnipresente non può certo
allontanarsi. Ma YHWH è soltanto il Dio dell’Essere, cioè
di una delle dimensioni del nostro universo: e se qui non
c’è, significa che la conversazione tra il serpente e l’’išah si
sta svolgendo fuori dall’Essere, nella dimensione del
Divenire.
Ma perché YHWH non sospetta? È così facile gabbarlo?
In certi momenti, sì. È necessario, e ciò risponde a un
disegno più grande.
Il ruolo di YHWH, sia nella Genesi sia nell’Esodo,
diventa varie volte quello di un maestro iniziatico, che
pone i divieti soltanto perché li si superi; e terrorizza e
minaccia di «morte», perché nelle iniziazioni occorre
l’esperienza del terrore e del coraggio. Così, YHWH
doveva proibire quei frutti nel ‘Eden, perché l’’išah e
l’’adam dovevano conquistarseli, e dare così inizio a una
nuova fase della loro evoluzione. E per la stessa ragione,
dopo averli proibiti e dopo aver minacciato di morte
l’’adam in caso di trasgressione, doveva farsi da parte per
un po’ – perché la trasgressione avvenisse.
Ma YHWH non sapeva di doverlo fare.
Non possiamo pensare che recitasse una parte, che
fingesse: non perché un Dio non finga (’Elohiym fingerà,
più avanti nella Genesi, quando per mettere alla prova
Abramo gli chiederà di commettere un infanticidio), ma
408
semplicemente perché YHWH non è creativo, e non
saprebbe dunque mentire.
È solo strumento degli intenti di ’Elohiym, per ora. Poi,
molte generazioni dopo, YHWH comincerà a capire –
grazie ai rapporti che avrà con Abramo, con Giacobbe e
soprattutto con Mosè.
409
Il cibo dell’intelligenza
Genesi 3,6-7
410
È una nudità non tanto dei corpi (quali corpi possono
esservi, in due facoltà della nostra mente?) ma
dell’intelligenza stessa: è il non avere più schermi, veli,
ostacoli tra la mente e il mondo intorno. E l’’išah e l’’iyš ne
gioiscono.
411
Invece delle cinture
Un’altra voragine si apre qui tra il testo ebraico e ciò che
le nostre grandi religioni hanno voluto leggervi. Nelle
versioni consuete, la «donna» e l’«uomo» appaiono
spaventati qui da quello che hanno fatto e dalla loro
nudità, e
412
«canto lieve», mentre T è il segno geroglifico del
traboccare.
I seguaci di Dioniso avrebbero capito bene questa
festosità: una trasgressione commessa contro un Dio dei
limiti andava celebrata con canti e ghirlande.
Poi, di colpo, YHWH ricompare, come attirato da quei
canti.
413
Il Dio che non vede
Genesi 3,8-10
Udirono la voce del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla
brezza del giorno.
414
tanto temuto. Adesso, la voce di YHWH è soltanto un
suono in un vento più grande di lui. Non è quella del
dominatore di un mondo. YHWH non sembra dominare
più nemmeno il Gan ‘eden che egli stesso ha costruito:
cerca l’’adam e non riesce a vederlo, benché l’’adam sia lì al
centro del recinto. O forse non lo vede proprio perché
l’’adam ora è lì, al centro del «diramarsi» di tutto ciò che
nel recinto esiste.
È l’’adam il centro, adesso.
E YHWH non è che non lo veda: non può ammetterlo;
non lo riconosce, non riesce a comprendere che l’’adam sia
tanto diverso da prima.
415
La balbuzie divina
Genesi 3,9
«’aYeKaH»
416
Il Dio che non sa
Genesi 3,11-13
417
questa faccenda in una colpa umana, e in particolar modo
nell’errore di una donna; e traducono perciò:
l’invisibile (H)
viene conosciuto (Š)
in modo da diventare visibile (Y).
418
La sorte del serpente
Genesi 3,14-15
419
come se la Forza di Gravità, improvvisamente
personificata, confessasse di odiare gli angeli, e di aver
fatto e voler fare di tutto perché volino il meno possibile.
«E mangerai quintessenze!» aggiunge YHWH, ed è
un’ingiuria disperata. Il termine è ‘aFaR, lo conosciamo
già (vedi p. 227) e abbiamo visto che è ciò di cui YHWH
aveva bisogno per plasmare gli esseri viventi nella sua
dimensione. «Vivi pure di quella roba!» dice il Dio al
serpente, intermediario tra visibile e invisibile. «Dedicati
pure tutto quanto a queste trasformazioni: io ne ho
abbastanza!»
YHWH prosegue poi, con foga, giurando che
ostacolerà ogni futuro rapporto tra il serpente e l’’išah,
dopo il guaio che il primo incontro tra i due gli ha
causato. La maledizione, qui, è particolarmente rabbiosa:
un fuoco (’Š)
che si manifesta (Y)
e si propaga (T).
420
più conoscere senza che quell’’aŠiYT le ponga ostacoli. E
sarà così – proclama YHWH – per sempre, in tutto ciò che
è «seme» dell’’išah e del serpente (da qui vediamo, tra
l’altro, quanto sia fuori luogo vedere nell’’išah una donna:
dato che una donna non ha seme).
Insomma, non avverrà mai più che la nostra facoltà
intuitiva poggi tranquillamente il piede là dov’è la «testa»
del serpente, cioè sul punto estremo a cui può giungere il
confine tra visibile e invisibile. Ogni volta che ci proverà,
sarà come dover posare il piede sul fuoco – e si tratterà
dunque, ogni volta, di un passo iniziatico.
421
La sorte dell’’išah
Genesi 3,16
E all’’išah disse:
«Moltiplicherò le tue fatiche e il tuo concepire,
con fatica partorirai figli,
e avrai desiderio del tuo ’iyš
e lui si raffigurerà in te».
lui si raffigurerà in te
422
significa anche: «Lui troverà in te il suo enigma». In
ebraico corrente MŠL acquistò il significato di
«dominare»; perciò nelle versioni consuete troviamo qui:
ed egli ti dominerà.
423
La sorte dell’’adam
Genesi 3,17-19
E all’’adam disse:
«Poiché hai dato ascolto alla voce della tua ’išah,
e ti sei nutrito di quel diramarsi
di cui ti avevo ordinato di non nutrirti,
l’’adamah è maledetta, a causa della tua trasgressione!
Di quella ti nutrirai, e con fatica,
in tutti i giorni della tua vita!
Rovi e sterpi cresceranno per te,
e dovrai nutrirti delle erbe della natura.
In un continuo agitarti del tuo viso mangerai questo cibo,
ora che ritorni all’’adamah:
perché da lì sei stato tratto,
perché tu ne sei la quintessenza,
e tale quintessenza sarai!»
Col sudore del volto mangerai il pane finché tornerai alla terra...
polvere tu sei e in polvere tornerai!
424
YHWH non ha accesso: se ha potuto trarne esseri da
plasmare, è stato soltanto grazie all’’adam. Ora che
YHWH si appresta a scacciare l’’adam, l’’adamah diverrà
’aRWuR, inattingibile per YHWH stesso, non per l’’adam.
«Guarda cos’hai combinato!» gli sta dicendo il Dio del
limite. «Hai rovinato tutto, disobbedendomi: ora tra me e
te nulla sarà più come prima, perché io diffido di te, ti
detesto, e non ti voglio qui attorno. Non potrò più
plasmare nulla dall’’adamah!
«Tu, sì, la elaborerai ancora», continua YHWH, «ma
senza il mio aiuto. Anzi, io ti ostacolerò, come ho già
giurato di fare anche al serpente e all’’išah. Io, il Dio di
ciò-che-c’è-già, farò in modo che tu incontri resistenze in
tutto ciò che potrai fare con l’’adamah. Di quella volevi
nutrirti, di ciò che ancora non sapevi? D’ora in avanti
sarai condannato a farlo, perché è lì che ti manderò:
nell’ignoto! Sarà tremendo: là tutto è disordine, tutto è
ostico, tutto è informe...»
Così YHWH se lo immagina.
E «sterpi» in ebraico, è DaReDaR, che in geroglifico è:
E «rovi» è QoZ:
compressioni (Q)
che si diramano (Z).
425
sta cercando di persuadere l’’adam che così è davvero.
«Lì non farai che agitarti», continua il Dio, sempre più
costernato, «lì il tuo viso non farà che volgersi di qua e di
là: non c’è altro modo di cibarsi, da quelle parti! Ma tu
appartieni a quell’elemento. Io avevo cercato di trartene
fuori, e non hai voluto. Tu vuoi solo scoprire l’essenza
delle cose, il loro senso, invece di accontentarti di
percepire ciò che di esse è già plasmato. Dunque va’, fa’
pure! E vedremo!»
426
«Eva»
Genesi 3,20
nell’esistenza (Ḥ)
è il limite (W)
dell’invisibile energia vitale (H).
427
suo ’iyš pensa, capisce e si rappresenta ogni cosa. Ma
l’’išah-ḤaWaH trasforma quelle strutture in altrettante
gravidanze: sa schiuderle, rivelare in esse «tutto ciò che
vive» – e avevamo visto che in ebraico «madre», ’eM, e
«verità», ’eMeT, sono termini strettamente affini (vedi p.
83).
YHWH, invece, non ha nulla di «materno» in tal senso:
custodisce soltanto i limiti, i confini di quelle strutture.
L’’adam non vede l’ora di lasciarselo alle spalle.
428
Le cosiddette «tuniche»
Genesi 3,21
E YHWH ’Elohiym
fece all’’adam e alla sua ’išah
schermi che li avvolgessero
e in quelli li rivestì.
429
L’altro frutto vietato
Genesi 3,22-24
«Uno di noi»!
Gli ’Elohiym è un plurale e YHWH ne è un elemento. E
ora YHWH si rivolge alla sua famiglia divina, per cercare
conforto e sollecitare un’azione comune contro l’’adam.
«Non avete visto che cosa fa quella vostra creatura?»
domanda YHWH. «Ha scoperto che il Bene e il Male si
diramano l’uno dall’altro, e che sono solo momenti, sempre
relativi: dunque vedrà sempre più in là d’ogni bene e di
ogni male, proprio come noi. L’autorità divina è scossa
per sempre!»
Ma non riceve né risposta né aiuto. Come se ciò che
descrive fosse gravissimo soltanto per lui, e solo la sua
430
autorità fosse scossa.
«Ancor più grave sarebbe», prosegue YHWH, «se
l’’adam comprendesse che anche le vite si diramano, come
il Bene e il Male, e che la vita individuale è soltanto un
momento dell’eterna energia vitale. Se ciò avvenisse,
parteciperebbe a quell’eternità, non temerebbe più la
morte, si accorgerebbe di essere unito a tutto ciò che è
vivo. E allora sarebbe come noi, sarebbe un Dio: non ci
sarebbe più religione!»
E di nuovo il Dio dei limiti non riceve risposta.
Evidentemente il suo sapere non è quello di ’Elohiym.
YHWH si volge via, e prende i suoi provvedimenti, per
tutelare se stesso. Preclude all’’adam il «Diramarsi delle
Vite». Non con un divieto: sa che l’’adam non lo
rispetterebbe. Vi mette di guardia una congerie di poteri
angelici: un Ke-RuBiYM (che in ebraico significa «come
una moltitudine») e soprattutto l’enigma di quella spada
abbagliante che gira su se stessa.
431
La paura di se stessi
Di per sé non è un enigma complicato: una spada è uno
specchio, la larga lama delle spade antiche riflette il volto
di chi la guarda – ed è l’immagine riflessa a «girare su se
stessa», per inversione speculare. Ma come strumento di
dissuasione, la spada-specchio si rivelerà efficacissima.
Quel riflettersi tagliente è un’esperienza che devono
compiere tutti coloro che salgono oltre un certo grado di
conoscenza: scoprono se stessi con insopportabile
chiarezza; vedono innanzitutto i propri lati oscuri,
meschini. Eraclito lo notò bene:
E anche Gesù:
432
Intendeva dire che così è per ogni «io», per ogni «figlio
di Dio». Ma proprio per effetto della spada-specchio, nel
cristianesimo si credette che qui Gesù si riferisse soltanto
a se stesso, e che perciò lo si dovesse venerare come una
Persona divina. Così, per tanta parte dell’umanità il
«Diramarsi delle Vite» è rimasto inaccessibile, come il
giorno in cui l’’adam venne cacciato via.
433
Le due stirpi
434
I qayniti
435
Come la conobbe
Genesi 4,1
436
La differenziazione
La ḤeWaH che l’’adam impara a conoscere attraverso l’’išah
è, come abbiamo visto, una legge di natura. È la legge per
cui l’immensa, invisibile energia vitale (H) non può non
trovare limiti (W) nelle esistenze concrete (Ḥ). Da un lato,
ciò significa che in ogni istante i viventi, e ogni loro atto, o
funzione vitale, sono i confini di quell’energia – come rive
di un fiume. Dall’altro, ogni vivente, e ogni suo atto o
funzione vitale, stanno a quell’energia come le opere
d’arte stanno all’arte: la rendono visibile.
Conoscere questa legge di natura vuol dire constatarla,
e l’’adam comincia a constatarla in se stesso, attraverso un
processo psichico che in Occidente è stato individuato
soltanto un’ottantina d’anni fa, e che si chiama
differenziazione.
437
oppure resistenza, fragilità – e ne comprendiamo
l’importanza che aveva avuto fino a quel momento per la
nostra vita, senza che ne fossimo coscienti, e l’importanza
ben maggiore può avere ora che ce ne siamo accorti.
È un processo che avviene sia nel singolo individuo sia
nelle collettività, piccole e grandi (famiglie, popoli,
civiltà), sia nelle scienze e nelle tecniche – e ha sempre
conseguenze importanti. Mosè, a questo punto della
Genesi, comincia a narrare le differenziazioni
fondamentali che si compiono nell’’adam, cioè nella
mente umana. E le descrive come altrettanti
«concepimenti» e «parti». È così, infatti: occorre tempo –
come per una gravidanza – perché una prima intuizione
di un qualche elemento di noi stessi, afferrata attraverso la
nostra ’išah, diventi veramente consapevole e possa
«indirizzare» verso obiettivi che prima non
immaginavamo, non vedevamo. O meglio: che non
sapevamo di immaginare e vedere. Solo la nostra ’išah lo
sapeva.
438
Un nuovo avversario di YHWH
Genesi 4,1
439
Letteralmente: «possiedo l’’iyš a YHWH».
Il verbo non c’è tra ’iyš e YHWH, ma nella lingua di
Mosè il termine ’iYŠ indica un modo di capire: la capacità
di riflettere sull’aspetto di qualcosa, di comprenderlo
razionalmente. Ed equivale a un verbo. L’’išah sta dunque
dicendo che ora, con QaYN, potrà comprendere il Dio dei
limiti. QaYN è infatti affine a YHWH: è «l’impadronirsi».
E YHWH costruiva recinti e voleva dominare l’’adam;
QaYN è la voglia e la forza di giungere al «vertice delle
cose visibili», a dominarle – e le cose visibili sono quelle
su cui YHWH domina.
440
Il principio del possesso
Forse l’’adam aveva pensato a lungo, dopo la cacciata dal
Gan ‘eden, cercando di capire perché e come YHWH si
fosse comportato con tanta ansia, e crudeltà, e ira? E con
quel suo pensarci differenziò in sé QaYN? È possibile; a
tutti noi è avvenuto che un sopruso subìto generasse, oltre
al dolore, anche l’intuizione di ciò che nell’animo umano
spinge a commettere soprusi – e in tal modo ampliasse la
conoscenza di noi stessi.
Ma possiamo vedere la nascita di QaYN anche in una
prospettiva più filosofica. Hegel osserva, nell’Enciclopedia,
che non appena ci si accorge di essere liberi si è
inevitabilmente spinti al possesso. L’esperienza della
libertà, nel singolo individuo, si presenta infatti all’inizio
come
441
con YHWH: ma l’’adam non l’aveva capito, perché non era
ancora libero.
Adesso che si è tolto dal dominio di YHWH, può
avvertire in sé – e differenziare – il principio del possesso,
e lasciare che cresca, e che diventi una direzione.
442
Abele
Genesi 4,2-5
la riconduzione (Z’)
443
alle cose che son state fatte (N).
Non ho dubbi che chi legge si senta personalmente toccato da questa interpretazione.
Ho notato che ci sono due modi opposti di sentirsene toccati. Uno, ovvio, è un crescere
dell’antipatia per gli HaBeL che si sono incontrati o che si vedono in giro. L’altro è una
specie di impaziente fastidio, anch’esso crescente, al sentir parlare male di HaBeL; si
basa su un ragionamento del tipo: «Ma allora io che ho sempre creduto che... E quelli
che mi hanno sempre detto che...» E la stizza per essere stati ingannati si dirige verso
chi ha indicato l’inganno. Poi passa, col tempo.
444
Compare qui per la prima volta, nella Genesi,
quell’Oltremare di cui avevamo tanto parlato in merito
alla nevrosi occidentale. E significativamente i traduttori
non lo vedono affatto. Nelle versioni consuete Caino è
presentato come un «lavoratore del suolo», un contadino,
e il verso in cui nel testo ebraico compare la parola
«mari», diventa assurdamente:
445
L’antipatico
A YHWH piace Habel, naturalmente. Il Dio dei limiti è
contento che il minore non somigli ai suoi genitori ribelli,
e che si interessi solo di ciò-che-c’è-già.
Nel descrivere questa benevolenza del Dio, Mosè usa il
verbo YŠ‘, che in ebraico corrente significa «soccorrere,
salvare», e in geroglifico è:
446
sua passione per l’’adamah senza curarsi del parere di
YHWH e dei successi del fratello. Esplorare l’’adamah,
elaborarla, significa trarre dall’ignoto conoscenze nuove:
le conoscenze nuove ampliano l’orizzonte di ciò-che-c’è-
già, e occorre dunque che ciò-che-c’è-già le recepisca.
Qayn (intendo dire, ogni Qayn) non può fare a meno di
questa ricezione perché il suo agire abbia senso. Perciò non
si capacita delle resistenze che incontra, non può
rassegnarvisi. E Mosè descrive la sua sofferenza come un
senso di sgomento che comincia a prevalere in tutti «i
volti», in tutte la manifestazioni di ciò che egli fa.
447
Ancora la balbuzie
Genesi 4,6-8
448
Š... ’eT...
Ma è saggio figurarsi l’«errore» in questo modo? No, in questi primi capitoli della
Genesi, YHWH non porta saggezza: ha troppo timore dell’ignoto.
449
proibirgli qualcosa.
450
Un’altra ribellione
Qayn, in ogni caso, non dà ascolto a un discorso tanto
esitante e, soprattutto, tanto contrario a tutta la sua
vocazione di scopritore. Lascia perdere YHWH, cerca
Habel, gli si pone dinanzi, lo sopraffà e lo uccide.
Alcune versioni consuete riferiscono che Qayn
451
degli europei verso le Americhe. Habel è di conseguenza molto più evidente, ma anche
molto più forte di quanto non fosse una trentina d’anni fa. La maggior parte degli
occidentali non lo uccideranno, naturalmente. E invecchieranno dove sono e come sono
oggi.
452
YHWH ancora sconfitto
Genesi 4,9-15
453
E Qayn disse a YHWH:
«Troppo grande è la mia ira, perché si possa distruggere!
Ecco: tu mi scacci in questo giorno dal volto dell’’adamah:
ebbene, io mi nasconderò dal tuo volto,
e sarò uno che arranca e va sempre lontano sulla terra.
E chi mi troverà, mi uccida pure!»
E YHWH gli disse:
«Chiunque lo dovesse uccidere,
Qayn sorgerà sette volte più grande!»
E YHWH pose un segno su Qayn
perché chiunque lo trovi non lo possa colpire.
454
Habel. Nel testo, «mente» è DaM e «menti» è il suo
plurale, DeMeY: suona un po’ strano, e perciò le versioni
consuete preferiscono tradurre entrambe queste parole
con «sangue», in base al significato che DaM assunse
nell’ebraico corrente (vedi p. 139); ma così offuscano il
senso del discorso di YHWH. Il Dio è in realtà inorridito
dalla debolezza della mentalità habeliana, che si è rivelata
incapace di fermare quella qaynita.
«Hai fatto in modo che l’invisibile sconfiggesse,
annientasse la mente di tuo fratello!» dice qui YHWH a
Qayn. «E ora le menti di tutti gli Habel del futuro
chiedono aiuto a me, perché certamente anche in futuro
avverrà ciò che tu hai fatto ora! E credi che non saprò
intervenire? Ti ostacolerò, ti saboterò in tutte le epoche! E
poi che scopo avevi tu? Andare sempre più lontano,
scoprire? E impadronirsi di cose sempre nuove? Andrai
lontano, sì, ma non ne trarrai beneficio: io impedirò che
qualsiasi forza dell’’adamah si unisca a te!»
«Forza», qui, è KoḤaH, e in geroglifico è:
455
termine molto vicino al greco aiṓn, e al latino aevum.
«E questa nuova era», dice Qayn, «è troppo grande,
perché tu, YHWH, possa fermarla o tantomeno
annientarla. Tu hai posto una barriera tra me e l’’adamah:
sia pure! Ciononostante mi allontanerò sempre più da te,
YHWH, e prima o poi qualcuno o qualcosa mi ucciderà:
ma sulla via che io ho aperto si compiranno, dopo di me,
scoperte enormi. O forse maledirai e bloccherai tutti come
stai maledicendo e bloccando me?»
456
Il segno di Qayn
E YHWH qui rabbrividisce. Capisce che è vero, e che per
lui è cosa pericolosissima: chiunque «uccidesse», cioè
superasse Qayn, andrebbe oltre ciò che Qayn rappresenta
nella mente umana – e scoprirebbe certamente qualche
impulso alla scoperta ancora più vasto di quello di Qayn!
Allora il Dio dei limiti fa in modo che Qayn non venga
«ucciso» mai più da nessuno e da nulla. Vi riesce
ponendogli addosso uno specialissimo «segno», in ebraico
’oT, che in geroglifico è:
un’energia (’)
che fa giungere a compimento (T).
457
Qayn nella terra di NoD
Genesi 4,16-17
458
nostra psiche, e di conseguenza della nostra esistenza.
Le versioni consuete traducono invece:
459
Le Città
Genesi 4,17
460
Metropoli e rovine
Genesi 4,18
461
Il Progresso
Genesi 4,18
462
il loro conquistare è una compulsione rabbiosa, in
MeḤWuYa’eL, e ansiosa, in MeTWuŠa’eL, che si allontana
da qualcosa, ma non va verso nulla. Proprio come risulta
dal termine che la indica in Occidente: Progresso vuol dire
soltanto «andare avanti». Avanti, avanti, avanti. Dove?
463
Il più potente di tutti
Genesi 4,18-22
LaMeK è:
il crescere (L)
per racchiudere in sé (M)
e per esercitare un controllo (K)
464
Le versioni consuete traducono:
465
‘aDaH e i suoi figli
Il nome-formula della prima è ‘aDaH, costruito sulla
radice ‘D, la stessa di ‘eDeN (vedi p. 228), che significa
«durata».
Il suo primogenito si chiama YaBaL, che in ebraico vuol
dire «il Torrente». È – spiega Mosè – il principio di
proprietà, l’accumulazione di capitali, ciò che oggi
definiremmo finanza, e che davvero è raffigurabile come
un fluire, un torrente di ricchezza. Il suo status symbol
sono «le alte dimore»: a quel tempo, le piramidi, i templi
maestosi, i palazzi del faraone; oggi, i grattacieli.
Suo fratello è YWuBaL, che in ebraico significa
«l’Affluente». Mosè lo descrive come l’attività di scienziati
e artisti, che allora come oggi è inevitabilmente attratta –
affluisce – verso i centri di ricchezza, e allora come oggi
finisce per cooperare con essi.
466
ZiLaH e i suoi figli
Il nome-formula dell’altra è ZiLaH, ed è costruito sulla
radice ZL, la stessa di «ombra» (ZeL) e di «lato» (ZeLa‘;
vedi p. 240). ZiLaH è dunque: «Quella che estende i
confini, come ombre». E i suoi «figli» sono specializzati in
tutto ciò che è confine da ampliare o da stabilire.
Il nome-formula del primo «figlio» della ZiLaH è
TWuBaL-QaYN: TWuBaL in ebraico sono i «trasporti», gli
«scambi», e QaYN è, come ben sappiamo, il «dominare».
TWuBaL-QaYN è tutto ciò che serve a creare una vasta
rete commerciale, e Mosè fa notare che da ciò dipendono
tutte le guerre: l’affilare i metalli delle armi.
Il nome-formula della secondogenita della ZiLaH è
Na‘aMaH, che in geroglifico è:
467
Il manifesto di Lamek
Genesi 4, 23-24
468
millennio a.C., avesse già delineato un’efficace teoria
materialistica del potere statale. O forse perché tale potere
appariva loro troppo temibile, e non osavano contrariarlo
con la traduzione precisa di questo passo.
Nel testo ebraico, ciò che Lamek espone in estrema
sintesi è il suo programma di governo, perché sia ben
chiaro a tutti coloro che entreranno al suo servizio, in
qualità di coordinatori del settore ‘aDaH o del settore
ZiLaH.
469
mondo, una ferita che si allarga, che si dilata deformando
la psiche di tutti.
Inoltre, prosegue Lamek,
lo stabilizzarsi (Ḥ)
di una forma (B)
a cui ogni movimento conduca (RT).
470
capostipite: la sua capacità di rinascita ciclica è settanta
volte più grande di quella di Qayn:
471
L’altra stirpe
472
La Fondazione
Genesi 4,25-26
473
Invece del baluardo
Anche il nome del figlio di Šet è carico di futuro, e ha un
suono dolce: ’eNWoŠ. Si contrappone a quello del suo
cugino primo, il figlio di Qayn, ḤaNWoK: e i due nomi
stanno l’uno all’altro come lo scorrere dell’acqua sta allo
scricchiolare del ghiaccio.
L’iniziale di ’eNWoŠ è una placida àlef; l’iniziale di
ḤaNWoK è la ruvida Ḥ, che suona come un ringhio
soffocato.
La finale di ’eNWoŠ è il segno dell’estendersi e del
conoscere: Š; la finale di ḤaNWoK è la K, segno
dell’imposizione, del controllo.
Entrambi hanno una W, il segno dell’impedimento,
della barriera: ma in ḤaNWoK, quella W era il Baluardo
d’una città fortificata; in ’eNWoŠ, la W diventa un
impedimento da superare, per potersi estendere (Š) –
ovvero un nuovo modo di intendere ogni impedimento,
ogni barriera: ’eNWoŠ è dunque la voglia e la capacità di
togliere intralci, invece di porne o di rassegnarsi a quelli
che già sono stati posti, come era per ḤaNWoK.
Con ’eNWoŠ, annuncia Mosè, si dissolverà anche
l’ostacolo principale: il conflitto con il Dio dei limiti. In
YHWH si imparerà a vedere non un nemico divino, ma
una potenza alla quale rivolgersi, per riceverne aiuto.
Occorrerà molta fatica per arrivarci, ma il «figlio» di Šet
contiene in sé questa potenzialità. E i suoi discendenti ne
conterranno altre non meno grandiose.
474
I figli di ’Elohiym
Genesi 5,1-5
475
con il suo modo di comprendere
e nella sua ombra.
476
’išah, ed è ancora uno, integro. Perciò Šet può evolversi-
emanare dall’’adam soltanto.
477
Il nostro Aldilà
Per definire questa dimensione, la mente occidentale non
dispone di concetti adeguati. È una di quelle intuizioni di
Mosè, che la nostra civiltà non è ancora riuscita a
raggiungere: un’area della psiche in cui si trovano
elementi che possono essere ma non sono ancora, e che
tuttavia si evolvono, generano e «muoiono» – come
vedremo – cioè si superano, pur essendo soltanto nomi-
formule e non processi vitali.
La teologia vi si avvicina un poco, quando immagina
che vi sia una differenza tra l’«io» dell’uomo terreno e la
sua anima immortale: quest’ultima potrebbe in qualche
modo corrispondere alla dimensione in cui nascono Šet e i
suoi discendenti; ma nella teologia occidentale le anime
non generano, sono sterili. Secondo Mosè, invece, l’’adam
si evolve, là. O meglio, là può soltanto evolversi: poiché
quella dimensione è in ’Elohiym, ed è dunque perenne
creazione e superamento.
Forzando e spingendo molto avanti gli orizzonti della
psicologia occidentale, possiamo vedere in quegli
elementi un livello psichico più alto e più profondo di
quello in cui Jung individuò gli archetipi dell’io – e dunque
aree della psiche che nessuno ha ancora ipotizzato.
Forzando e spingendo molto avanti gli orizzonti della
teoria evoluzionistica, possiamo intendere quegli elementi
come un articolato progetto di cladogenesi futura, che
attende di essere scoperto, compreso e attuato.
Forzando e spingendo molto avanti gli orizzonti della
neurologia, possiamo intendere quegli elementi come una
serie di fondamentali attività che vengano svolte da quelle
aree del nostro cervello che non siamo ancora in grado di
478
utilizzare, e che probabilmente si evolvono anche senza
che noi ne sappiamo alcunché.
479
Astrologie
I patriarchi šetiani corrispondono ai «nomi dei cieli» di cui
parla Gesù nel Vangelo di Luca:
480
osservato allo stesso modo e con il medesimo scopo anche
il comportamento delle particelle.
Così, in questa astrologia, i cerchi e i punti dello
Zodiaco sono schemi simbolici di una psiche-cielo; pianeti
e astri sono simboli di energie e forze psichiche: i
movimenti e le reciproche interazioni degli uni, calcolati
in un oroscopo, descrivono movimenti e reciproche
interazioni delle altre – che nell’esistenza dell’individuo a
cui appartiene l’oroscopo possono passare totalmente
inosservate. Scopo di questa astrologia è appunto ciò che
Gesù definisce: accorgersi di quanto il proprio «nome» sia
in cielo – cioè di quanta parte della realtà di un individuo
si rivela quando egli pensa a se stesso secondo tale
descrizione celeste. Nei cieli di questa astrologia non sono
scritti colpi di fortuna o contrattempi, ma solamente
potenzialità dell’«io». Conoscerle e interpretarle è
indispensabile per poterle attuare.
A questa astrologia vanno riferite le indicazioni delle
strane età dei šetiani elencati da Mosè. Solo se le si colloca
sullo Zodiaco acquistano un senso: sono anch’esse schemi.
Al solo scopo di dimostrarlo (non ho purtroppo
conoscenze sufficienti in questa materia per costruire un
trattato teorico-pratico sul ṢeFeR dei šetiani), provo qui di
seguito ad applicare quelle età: le riporto sul cerchio delle
cosiddette Case, cioè su quei dodici settori dell’oroscopo
personale che esprimono il rapporto dell’individuo e del
suo «cielo» con altrettanti aspetti dell’esistenza.
481
nascita dell’’adam (il quale è indubbiamente la «Prima
Casa», la prima tappa della nostra evoluzione).
482
dei suoi rapporti con gli altri – e ciò coincide con il
significato geroglifico del nome Šet.
La Settima Casa è inoltre quella del cosiddetto
Discendente, al punto che Dante la chiama «il mezzo del
cammin di nostra vita», poiché si trova proprio a metà del
cerchio delle Case. Nell’interpretazione diacronica delle
Case, corrisponde al compimento dei quarant’anni: e
quarant’anni, nella tradizione ebraica, è la soglia a partire
dalla quale ci si può dedicare con profitto allo studio delle
profondità della dottrina e della psiche. Anche questo
corrisponde al significato del nome-formula Šet.
Proseguiamo:
483
I «punti» di nascita e di morte dell’’adam.
484
opposizioni, congiunzioni, trigoni e quadrature li
favoriscano o li danneggino.
Dico «può cominciare a» – e non «comincia a» –
proprio perché tutto, in questa astrologia, è potenzialità.
Vedremo più avanti come tali potenzialità riescono ogni
tanto ad attuarsi, e cosa ne consegue. Intanto procediamo,
con la discendenza di Šet.
485
Da Šet a ’eNWoŠ
Genesi 5,6-8
486
I «punti» di nascita e di morte di Šet.
487
QaYNaN invece di QaYN
Genesi 9-11
Al figlio hai dato potere sopra ogni realtà vivente. Tutte le cose mie
sono tue e tutte le cose tue sono mie. 4
488
Casa, che è quella del dare e del lasciare in eredità; al
tempo stesso è la casa della morte, intesa come un
inoltrarsi nell’ignoto. È giusto che ’eNWoŠ, con il suo
impulso a estendere l’orizzonte della propria crescita,
conduca, si risolva al di là di un orizzonte tanto estremo.
489
MaHaLaLe’eL invece di MeḤWuYa’eL
Genesi 5,12-14
comprendere (M)
l’invisibile energia vitale (H)
sempre di più (LL’L).
490
dopo quello di QaYNaN, viene a trovarsi nella Nona
Casa, che rappresenta appunto i grandi viaggi, il rapporto
con tutto ciò che è lontano.
Il «punto di morte» di QaYNaN giunge dopo 840
gradi-«anni» (cioè dopo dieci giri completi) e coincide
dunque con il «punto di nascita» di MaHaLaLe’eL: il
«padre» si risolve qui nel «figlio», lasciando a lui il
compito di proseguire l’opera.
491
YeReD invece di ‘iYRaD
Genesi 5,15-17
Se uno ti obbliga a fare un miglio con lui, tu fanne due. Da’ a chi ti
chiede. 6
492
Il «punto di morte» di MaHaLaLe’eL, 830 anni-«gradi»
dopo la nascita di YeReD, è nella Quinta Casa, la stessa in
cui era il «punto di morte» di Šet: anche MaHaLaLe’eL,
dunque, conduce e si risolve nella gioia.
493
ḤaNWoK va altrove
Genesi 5,18-24
494
’Elohiym, da YeReD – dopo essere nato da Qayn nella
dimensione di YHWH.
Il significato del suo nome è ancor sempre «il
Baluardo», ma ḤaNWoK qui sembra produrvi un varco: si
apre, impara a «seguire ’Elohiym», il Divenire, invece che
l’Essere. Ciò avviene ogni volta che in noi si ridimensiona
e si risolve una compulsione, un’ossessione. Qui
ḤaNWoK sembra essersi liberato dalla maledizione di
YHWH: e cessa perciò di essere «figlio» di Qayn (cioè del
principio del possesso) per diventare figlio di YeReD (cioè
della capacità di aprirsi).
Il «punto di nascita» o meglio di «rinascita» di
ḤaNWoK, 162 gradi-«anni» dopo la nascita di YeReD,
viene a trovarsi nella Terza Casa, che gli astrologi
associano al segno dei Gemelli: e ḤaNWoK davvero si
«gemina» qui, diventando un nuovo se stesso; la Terza
Casa è inoltre quella dell’aprirsi agli altri: perfetta sede,
per il Non-Più-Baluardo.
495
I «punti» di nascita e di morte di ḤaNWoK.
496
modo di affrontare le difficoltà, l’immergersi nella più
profonda interiorità, l’estremo discendere, la fine.
497
«Matusalemme»
In quella stessa Dodicesima Casa, 65 gradi-«anni» dopo la
«rinascita» di ḤaNWoK, nasce MeTWuŠaLaḤ – che nelle
versioni consuete venne chiamato «Matusalemme».
Nella lingua di Mosè, il nome-formula MeTWuŠaLaḤ
si contrappone a quello del qaynita MeTWuŠa’eL: in
entrambi vediamo il voler ampliare un orizzonte (MT),
superando ostacoli (W) e compiendo scoperte (Š); la
differenza è che nel qaynita MeTWuŠa’eL quell’ampliarsi
non aveva fine, era un sempre più oltre (’L): in
MeTWuŠaLaḤ procede verso l’individuazione di un
ordinamento, di una legge (Ḥ).
MeTWuŠa’eL è il principio di un Progresso illimitato;
MeTWuŠaLaḤ è l’impulso che, nell’Esodo, condurrà Mosè
alla stesura delle Tavole, nel Sinai.
498
I «punti» di nascita e di morte di MeTWuŠaLaḤ.
499
Di nuovo Lamek, e da lui Noè
Genesi 5, 25-27
500
precedente forma qaynita, è che anche qui Lamek
annuncia la fine: avverte la stanchezza, il desiderio di
riposo, e lo esprime nel nome che dà a suo «figlio»: NoaḤ
significa in ebraico corrente «conforto», «calma», «guida»;
e in geroglifico:
ciò (N)
che è saldo, stabile (Ḥ).
501
I «punti» di rinascita e di morte di Lamek.
502
I «punti» di nascita e di morte di Noaḥ.
503
Noaḥ e i suoi figli
Genesi 5, 30-32
504
consueta per dire l’età di chiunque: così, per esempio, io
che ne ho appena compiuti cinquantaquattro, in ebraico
direi che sono il figlio di cinquantaquattro anni. Ma in questo
passo della Genesi, l’esser figlio dei propri anni si carica di
un’intensità speciale: di ogni altro šetiano, Mosè aveva
scritto che «vi era stato» per un certo numero di anni; qui,
Noaḥ sta invece ai suoi cinquecento anni, come l’inizio di
qualcosa di nuovo sta a ciò che l’ha preceduto.
Quanto ai suoi tre figli, la loro nascita – a 500
gradi-«anni» da quella di Noaḥ – viene a trovarsi nella
Quarta Casa, che come già sappiamo rappresenta gli
affetti famigliari, l’infanzia. È ragionevole: questi tre sono
la famiglia di Noaḥ, e riuscirà a salvarli dalla catastrofe.
505
Il «punto» di nascita di Šem, Ḥam eYafet.
la conoscenza (Š)
di tutto l’orizzonte (M).
506
lo sforzo, o la legge (Ḥ)
che avvolge, abbraccia, contiene (M).
507
Quadro astrologico
508
O1 e O2 sono il punto di nascita e il punto di morte
dell’’adam.
A1 e A2, il punto di nascita e il punto di morte di ŠeT.
B1 e B2, il punto di nascita e il punto di morte di
’eNWoŠ.
C1 e C2, il punto di nascita e il punto di morte di
QaYNaN.
D1 e D2, il punto di nascita e il punto di morte di
MaHaLaLe’eL.
E1 ed E2, il punto di nascita e il punto di morte di
YeReD.
F1 e F2, il punto di rinascita e il punto d’ascensione di
ḤaNWoK.
G1 e G2, il punto di nascita e il punto di morte di
MeTWuŠaLaḤ.
H1 e H2, il punto di rinascita e il punto di morte di
LaMek.
I1 e I2, il punto di nascita e – come vedremo – il punto
di morte di Noaḥ.
L1, il punto di nascita di ŠeM, ḤaM e YaFeT.
509
Il Diluvio
510
Dies irae
511
Il fiato corto di YHWH
Genesi 6,1-4
Avvenne
perché l’’adam si apriva,
nel suo moltiplicarsi sulla superficie dall’’adamah.
E a loro nascevano figlie
e i figli di ’Elohiym videro queste figlie dell’’adam,
e poiché erano perfette
presero per sé, come vie di crescita, le più elette.
E YHWH disse:
«Il mio fiato non arriverà per sempre all’’adam
in questo eccedere della sua forma!
I suoi giorni saranno centoventi anni».
E gli uomini prodigiosi furono sulla terra, in quei giorni,
dopo che i figli di ’Elohiym si unirono alle figlie dell’’adam
e generarono in esse quei creatori
che furono da sempre le incarnazioni di Šem.
512
e incontra ostacoli (W)
e li supera (T).
È difficile accorgersi di come ciò possa avvenire nella nostra vita? No, certo: in noi le
BaNWoT-Ha-’aDaM sono le nostre aspirazioni più alte, e BeNeY-Ha-’eLoHiYM
sono l’ispirazione, lo slancio, e tutto ciò che di inspiegabilmente favorevole comincia ad
avvenire, sempre, quando le nostre aspirazioni crescono oltre un certo grado. Avvenne
anche a Nazareth, quando Maria fu visitata dall’arcangelo e concepì: l’episodio
513
evangelico è infatti una citazione dalla Genesi. Fu anche lì un aprirsi dell’umanità al
Divenire. E Gesù «nacque dall’alto», «dallo Spirito» e insegnò che tutti potevano fare
altrettanto. 1 Purtroppo il cristianesimo lo corresse, imponendo di credere che quella
«nascita dall’alto» fosse avvenuta quell’unica volta, soltanto a quella donna
inspiegabile. Come se i teologi cristiani avessero temuto che di nuovo il proliferare di
«figli di ’Elohiym» nel nostro mondo conducesse a un altro Diluvio.
514
I cosiddetti «Giganti» e gli altri ibridi
Le nostre grandi religioni hanno sempre cercato di
giustificare la collera di YHWH dinanzi a
quell’evoluzione dell’umanità: e hanno immaginato che le
unioni tra terrestri e celesti fossero una «caduta degli
angeli» irretiti dalle fanciulle, cioè un disordine cosmico,
che Dio volle far cessare per sempre. Nel tentativo di
concordare con tale idea, le versioni consuete si sono
sempre smarrite in immagini incoerenti:
515
prodigiosi», in ebraico NeFiLiYM; i «creatori», in ebraico
GiBoRiYM; le «incarnazioni di ŠeM», in ebraico ’aNoŠiY
Ha-ŠeM.
NeFiL in ebraico corrente assunse il significato (troppo
yahwistico) di «aborti», «mostruosità»; ma in geroglifico
voleva dire il contrario: NeFiL è:
la riuscita (N)
di un prodigio (FL).
un organismo (G)
dotato di energia creatrice (BR).
516
questi «’aNoŠiY di Šem» sono coloro che nel corso del
tempo avrebbero costituito gli «io di Šem», nei quali, cioè,
si sarebbe incarnato il primogenito di Noaḥ, colui che ha
«la conoscenza di tutto l’orizzonte». E siamo noi, ogni
volta che ci accorgiamo di poter conoscere così.
517
Il Dio che soffre e odia
Genesi 6,5-7
518
non lo possono ammettere, e traducono:
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e
che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il
Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in
cuor suo.
519
Il deflusso dell’essere
Perché ciò avvenga, è già sufficiente quel suo giudicare
male.
Chiunque giudichi male una qualsiasi cosa, ne sta
diminuendo l’essere. Giudicare male qualcosa significa
stabilire che quel qualcosa non è ciò che sarebbe dovuto o
potuto essere: ovverosia, che quel qualcosa non è
abbastanza. Ciò che viene così giudicato scende a un
grado di realtà inferiore a quello a cui si trovava prima del
giudizio – e inferiore naturalmente anche al grado di
realtà di colui che giudica. Costui, viceversa, avverte in sé
un aumento di realtà, tanto maggiore quanto più severo è
il giudizio che sta dando, e quanto più numerose sono le
cose, le circostanze, le persone che sta giudicando.
Quando è un uomo ad avere il vizio di giudicare così, il
calo dell’essere del mondo esterno e l’aumento dell’essere
individuale avvengono soltanto nella sua mente; e il
danno che gliene deriva è palese: ciò che egli giudica
perde di realtà e, giudizio dopo giudizio, quest’uomo si
troverà a vivere in un mondo sempre più inconsistente.
Ben presto, non gli servirà a nulla quel suo personale
eccesso di essere, in un mondo tanto vuoto. Potrà soltanto
chiudersi sempre più in se stesso.
Lo stesso sta accadendo qui anche a YHWH, con la
differenza che quel calo avviene non nella sua mente
soltanto, ma in tutto ciò di cui YHWH è il Dio: in tutto ciò-
che-c’è-già. Secondo le nostre grandi religioni avverrà
anche nell’Ultimo Giorno: la loro certezza che Dio sia
assolutamente buono in un mondo pieno di male, va di
pari passo con la certezza che il giorno in cui giudicherà il
mondo (male, ovviamente) il mondo dovrà finire. Per
520
certo sono religioni di YHWH.
521
Chi si salva
Genesi 6,8
522
Altro che arca
523
ZaDiYQ
Genesi 6,9-12
524
Noaḥ camminava davanti a ’Elohiym.
525
L’abbassarsi di tutto
Genesi 6,12
526
potrebbe vedere in alcun modo: il delinearsi del nuovo
fondamento (ŠT) di qualcosa che ancora non esiste.
Ed ’Elohiym sembra avere fretta di veder sparire ciò-
che-c’è-già. Mosè narra infatti che quanto più la «terra» si
abbassa e si involve, tanto più la attornia una «vampa da
ogni parte»: ḤaMaṢ, in ebraico – che è la radice ḤM,
«desiderare», con l’aggiunta della lettera Ṣ, che indica il
perimetro, il circondare.
E YHWH pensa di star soltanto punendo l’universo!
527
Le istruzioni di ’Elohiym
Genesi 6,13-15
528
ogni «noi» rimane fuori: vi si entra da soli, come sempre
conviene fare, nei misteri.
529
La TeBaT
Il maggior ostacolo alla soluzione degli enigmi della storia
di Noaḥ – e lo toglieremo subito – è dato dalla potente
suggestione che le versioni consuete di questo brano
hanno esercitato sulla mentalità occidentale:
Tu farai.
530
soltanto alla sfera divina: detto da ’Elohiym, «tu farai»
significa «tu comincerai a far evolvere».
E ciò che deve evolversi ha, in ebraico, lo stesso nome
del recipiente di papiro in cui il piccolo Mosè venne
affidato alle acque del Nilo: TeBaT – cioè «contenitore» e
«linguaggio» (vedi p. 111). Nel racconto del bimbo
abbandonato sul fiume, questi due significati del termine
suggerivano l’idea che quel bimbo fosse una realtà
spirituale nata da poco, e la TeBaT la lingua, il libro in cui
tale realtà era espressa. Ma abbiamo anche visto che
’Elohiym ha fatto esistere tutto l’universo mediante le
parole, e che un linguaggio può contenere in sé un
universo intero, e dargli forma.
Ora, ’Elohiym vuole che Noaḥ faccia questo
linguaggio-contenitore di un universo nuovo, e si salvi in
esso. E ne illustra il progetto.
531
Il materiale da costruzione
Genesi 6,14
532
accorse che stava commentando la Genesi. Gesù intendeva
precisare che il materiale per costruire la TeBaT va tratto
dall’io stesso: l’io, con essa, deve cioè accorgersi della
propria capacità di aderire alla realtà, di non temerla. Nel
racconto di Mosè ciò era già implicito nel «tu farai»; ma
Gesù tenne a chiarirlo bene.
533
Le «branche»
Genesi 6,14
Noi esultiamo un po’ meno, con le nostre lingue non geroglifiche. Per chi di noi volesse
costruire una TeBaT, questa istruzione riguardo alle «branche» può valere soltanto in
rapporto ai concetti. Sarà come dire: ciascuno dei concetti che usi nella tua TeBaT
avvinghi qualcosa di reale. Non usare parole che bastino a se stesse, che salgano come
pioppi, o pini, alte sopra la terra. Non ti salveresti se no, nel Diluvio che viene.
Ci si sarebbe aspettati il contrario: che le parole più alte, più astratte, più
«spirituali» potessero servire da salvagente in una catastrofe. Ma pensandoci meglio ci
si accorge: per salvarsi in un mondo che sta svanendo, occorre che la mente sia diversa
da quel mondo. Quel mondo è sempre meno reale, gli uomini possono vivervi soltanto
illudendosi di avere intorno tante cose che invece non ci sono più, o che magari non ci
sono mai veramente state: e il linguaggio tanto più li aiuta in ciò, quanto più è alto,
«spirituale» e vago. Un linguaggio che invece si avvinghia alla realtà, ha nelle sue
«branche» altrettanti sensori precisi: dove c’è illusione, percepisce illusione; dove c’è
534
assenza, percepisce assenza.
535
La sintassi della TeBaT
Poi, continua ’Elohiym, occorre «connettere» (KFRT in
ebraico) tutte le branche di questa lingua:
Certo, coordinare i concetti di una nostra lingua interiore in un sistema può apparire
come un’impresa molto ambiziosa. Ma appare tanto più ambiziosa quanto più si esita a
cominciarla. In pratica, si tratta di constatare in quale misura una qualsiasi frase sia
aderente alla realtà, e la avvinghi, e ne esprima coerentemente qualcosa «da dentro» e
«da fuori».
536
Per esempio, la frase: «Io ti amo» non risponde a nessuna di queste tre esigenze,
perché nelle nostre lingue attuali sia la parola «io» sia la parola «amore» non
corrispondono a ciò che intendiamo esprimere con esse; accontentarcene significa
staccarci da ciò che avvertiamo dentro di noi, lasciare che le branche dei nostri concetti
mollino la presa; accorgersene è, invece, l’inizio della costruzione del sistema della
nostra TeBaT; e se con quella frase intendiamo dire realmente qualcosa, non è più
questione di ambizione: trovare concetti-qiniym per poterlo dire diventa una necessità.
537
Le dimensioni
Genesi 6,15
538
«La conoscenza delle cose concrete conduce oltre».
Così, nel caso della nostra frase «io ti amo», la questione diventa: come esprimere ciò
che provo per te in un modo che sia il più possibile concreto, e che mi permetta di
conoscere più di ciò che so ora? Dinanzi a questo interrogativo, le parole «io ti amo»
appaiono banali e finte: nulla più che un’imitazione di frasi udite da altri. E se si
potesse misurare il nostro orizzonte interiore prima e dopo essersi accorti di quella
banalità dell’«io ti amo», la differenza risulterebbe assai emozionante.
539
La TeBaH
Genesi 6,16
540
si tratta ora di «far giungere la luce».
Quanto alla nuova «lingua» del pensiero che ognuno di noi potrebbe cominciare a
costruire, questo principio generativo introdotto da Mosè significa: «Ti accorgerai che
questa tua lingua è viva. Non sarà soltanto un codice. Avrà una sua energia, un suo
carattere, una sua personalità che ti guiderà, mentre le darai forma», e subito dopo
’Elohiym spiega come e da dove giunga tale energia.
541
La luce dal futuro
Genesi 6,16
542
’Elohiym. Attraverso la Tebah, insomma, gli individui
potranno non soltanto parlare con il Dio creatore, ma farlo
parlare nei loro discorsi e nei loro pensieri.
Per noi ciò viene a significare, in pratica, che i concetti passati non dovranno
determinare i concetti della nostra nuova «lingua» del pensiero. Ovvero: non è utile
che, per trasformare in branca e connettere il concetto di «amore», noi lo coordiniamo a
ciò che se ne può trovare nella filosofia e nella letteratura di tutti i tempi. Per chiarirlo,
occorre piuttosto domandarsi: «Che cos’è amore, per me?» E cercare o aspettare la
risposta in noi. All’inizio si può avere l’impressione che tale risposta, in noi, non ci sia.
Molto bene, se è così. Vuol dire che la ricerca può davvero cominciare, e tutto ciò che in
essa si troverà di utile proverrà dal ’aL, da ciò che è oltre. E così per ogni altro nostro
concetto.
Altre:
543
In queste traduzioni non è più questione di fede: vi è
solo illusione e confusione. 4
544
L’ultimo tocco
Genesi 6,16
Altre:
545
dove conduca».
Ma vi è anche un altro significato, qui, più profondo:
Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro. 5
Ovvero, per noi: nella nostra Tebah del pensiero, nessun concetto può indicare una
cosa sola, e nessuna cosa può essere indicata da un solo concetto; e ogni concetto che ci
sembri abbia colto qualcosa di vero è solo un momento della verità, che domani potrà
già essersi evoluto, e mutato. È ciò che intende anche Gesù quando afferma che l’«io» è
al tempo stesso la verità e la via e la vita. Una via si percorre. Non la si ha mai in
tasca. E una via che è la vita può avere, domani, svolte che non avremmo mai previsto.
Anche la verità è così. Anche la verità di una lingua come quella di cui parla ’Elohiym.
546
Il Diluvio perenne
Genesi 6,17-22
«E io,
ecco, faccio venire la grande piena delle acque sulla terra
perché sommerga ogni forma corporea
che ha in sé lo spirito delle vite:
da sotto ai cieli tutto ciò che è nella terra morirà.
E con te porrò il fondamento della mia forza creatrice.
Tu verrai a stare nella Tebah, tu!
E i tuoi figli, e la tua ’išah,
e il crescere dei tuoi figli insieme con te.
E da ogni vita, da ogni forma corporea,
due, da tutti, farai venire a stare nella Tebah,
perché esistano insieme con te:
saranno un maschio e una femmina.
Dei volatili, secondo la loro specie,
e degli animali che camminano, secondo la loro specie,
di tutti i rettili dell’’adamah secondo la loro specie,
due, di tutti, verranno da te, per esistere.
E tu prendi con te tutto il cibo che può nutrire
e ammassalo, e servirà a te e a loro come nutrimento.»
E Noaḥ cominciò a fare
tutto ciò che gli aveva comandato ’Elohiym:
così faceva.
547
Mosè non poteva non conoscere qualche mito del
Diluvio universale, qualche memoria cioè del cataclisma
prodottosi sul pianeta circa dodicimila anni fa – quando
un grosso asteroide si abbatté su qualche zona del nostro
pianeta, spostando l’asse terrestre e causando disgeli ad
alcune latitudini e glaciazioni ad altre. Ma ciò conta poco,
nella Genesi, in cui la «grande piena delle acque» è opera
di ’Elohiym: dunque è perenne, come tutto ciò che ’Elohiym
fa. Non è avvenimento da attendere, o da cercare negli
annali, bensì qualcosa di cui accorgersi.
Qui Noaḥ e il lettore con lui, stanno semplicemente
imparando ad aprire gli occhi su ciò che avviene di
continuo «sotto i cieli».
È semplice. Ogni «forma corporea» (BaŠaR) morirà –
dice ’Elohiym – e verrà sommersa dal MaYM, che come
sappiamo è «l’orizzonte tutt’intorno (MM) a ciò che si
vede (Y)». È sempre così: nel Divenire quell’orizzonte non
fa che estendersi e mutare, e ciò che vive può mutare
soltanto fino a un certo limite, e non oltre. Poi si ferma, e
sparisce, morendo. Ma muta di continuo anche prima di
morire. ’Elohiym annuncia qui il principio operativo di
tale superamento perenne: ed è il suo «io» – il suo ’aNiY,
che in geroglifico è:
la capacità (’)
di produrre (N)
immagini, rappresentazioni (Y).
548
E quanti non se ne sono accorti; non hanno voluto, non
hanno osato accorgersene. E sono rimasti sommersi dai
mutamenti avvenuti. Hanno perciò perduto il contatto
con la realtà. E vivono oggi sott’acqua. E non lo sanno.
Intere nazioni. Intere civiltà. E così è sempre stato.
Noaḥ ascolta, e noi ascoltiamo. Versetto dopo versetto,
questa spiegazione del Diluvio apre un’enorme facoltà di
intervento della potenza del Divenire. Questa BeRiYT
«rimane con te» e condurrà attraverso il mutamento, al di
sopra di esso.
E la BeRiYT richiede il Diluvio. Non può agire finché
ciò-che-c’è-già non viene superato e non lascia posto al
nuovo. Ma accorgersi del Diluvio perenne è già
cominciare a lasciar posto al nuovo, perché chi si accorge
che ciò-che-c’è-già sta passando non fa più parte di ciò-
che-c’è-già. La Tebah è tutta in questo accorgersi, dal
momento che è una lingua nuova, in formazione – e tutto
il nostro universo è fatto in primo luogo di parole, come già
sappiamo.
«Vieni ad abitare in questa Tebah», esorta ’Elohiym.
Ovverosia: comincia ad adoperare questa lingua nuova
che riceve «luce dal futuro», e che è la lingua del tuo io.
Comprendi la realtà attraverso di essa e vivi in ciò che
così ne comprendi. Fa’ che sia la tua lingua e la lingua dei
tuoi «figli», e la lingua della tua ’išah – della tua superiore
intuizione spirituale – e la lingua delle «crescite» (NeŠeY)
dei tuoi figli, e di tutto ciò che vive dinanzi a te, insieme
con te.
549
Due di tutti
Genesi 6,19-20
550
e che comincia a muoversi (R),
e NeQeBaH,
E discenderanno
nei pesci dei mari e negli uccelli del cielo
e nelle bestie che camminano e in tutta la terra
e in tutti i rettili che strisciano sulla terra.
Dei volatili,
e degli animali che camminano,
di tutti i rettili,
due di tutti verranno da te.
551
Dei «pesci» non parla ’Elohiym, nelle sue istruzioni a
Noaḥ. Ma ciò che vive nelle «acque di sotto» è TaHaT, è la
dimensione del Passato. Per quella, vanno bene le lingue
già esistenti.
552
E il cibo
Genesi 6,21
un comprendere (K)
che va sempre oltre (L).
Tutto? Una lingua piena di branche-sensori per tutti i viventi, e che si alimenti di
tutto? Le nostre lingue attuali ne sono ben lontane. Molti sentimenti, aspirazioni,
intuizioni, percezioni del visibile e dell’invisibile, organi del corpo, azioni,
comportamenti, pur vivissimi, non trovano adeguati QiNiYM nelle lingue che
553
ciascuno di noi ha imparato a usare. Ma tanto meglio. Questo apre alla nostra Tebat
un immenso campo di scoperta: nel suo dire in maniera ŠNL ciò che di solito si fatica a
dire.
554
Interviene YHWH
Genesi 7,1-5
555
«puri». Al contrario di ’Elohiym, YHWH chiede che la
nuova lingua abbia categorie morali – che distingua cioè
parole «pulite» e parole «sporche», e ponga in risalto le
prime e limiti le seconde. È quello che avviene purtroppo
nelle nostre lingue.
Ma non è cosa che meriti attenzione. Anche questo
brano è infatti, indubbiamente, un’interpolazione tarda,
proprio come il brano sui fiumi del ‘Eden: anche qui, cioè,
i sacerdoti vollero intervenire, perché appariva loro
imbarazzante l’esclusione di YHWH dai preparativi per il
Diluvio. Si riconosce una mano sacerdotale, umidiccia, in
quei due termini: «puri» e «impuri»; solo a un sacerdote
queste due parole potevano apparire di per sé tanto
potenti, da fargli ignorare il fatto che nulla, in ciò che
Mosè ha narrato finora, documentasse in qualche modo il
concetto di «purità».
Inoltre, YHWH usa qui in modo strano i termini ’iYŠ e
’iŠaH: li riferisce agli animali. In ebraico corrente, ciò è
altrettanto assurdo quanto in italiano il dire «gli uomini e
le donne dei bovini», intendendo i tori e le vacche; e nella
Genesi, ’iYŠ e ’iŠaH, possono indicare soltanto due facoltà
dell’’adam: YHWH non ha scisso la mente di altri esseri
viventi.
Ne possiamo dedurre che questa aggiunta sacerdotale
venne inserita quando l’ebraico geroglifico di Mosè stava
già cominciando a diventare incomprensibile ai sacerdoti-
scribi, e anche l’ebraico corrente era in fase di decadenza.
556
L’iniziazione
557
Cronaca del Diluvio
558
Il giorno della Piena, per Noaḥ
Genesi 7,6-12
559
la Piena. Il secondo mese ebraico corrisponde inoltre, nel
nostro calendario, a maggio: per noi è il segno del Toro,
che – oltre alle sue connessioni con Dioniso, e Śiva, e
l’Oltremare – ha la caratteristica di accumulare, frenare in
se stesso energie pronte a scatenarsi. Cominciano, ora, a
scatenarsi.
Ed era il diciassettesimo giorno del mese: il numero 17
corrisponde, nell’alfabeto ebraico, alla lettera F, che è il
segno geroglifico dell’aprirsi.
La Piena durerà quaranta giorni e quaranta notti: il
numero 40, nell’alfabeto ebraico, corrisponde anch’esso
alla lettera M. Quaranta e quaranta, M e M: MaBWuL,
MaYM, di nuovo.
Ed è il Settimo YiWoM che ora sta finendo, e davvero
tutto si appresta a tornare «come era prima», quando vi
erano solo acque e abisso. Con la differenza che insieme
allo «spirito» di ’Elohiym, sulle acque, vi sarà anche Noaḥ,
con la sua Tebah.
560
Il giorno della Piena, per noi
Alla fine della Sesta Casa comincia «il mezzo del cammin
di nostra vita» (vedi p. 291): lì dunque può prodursi, può
aprirsi in ciascuno di noi questo processo di totale
rinnovamento, che Mosè chiama: il Diluvio; oppure può
avvenire, all’avvicinarsi di quell’età mediana, un
rinnovamento che l’individuo non coglie, e che perciò lo
sommergerà, lo lascerà indietro, senza che lui se ne
accorga mai.
Quell’occasione di svolta attorno ai quarant’anni è un
fenomeno noto a molte tradizioni: nell’ebraismo come
nell’antica Roma (dove a quarant’anni l’individuo cessava
di essere iuven e diventava vir, adulto) come anche nella
nostra cultura popolare – la vita comincia a quarant’anni,
e via dicendo. Mosè intensifica, amplia le dimensioni di
questa soglia dello sviluppo individuale, fino a una scala
cosmica: esorta a pensare che a quarant’anni, vi sia
l’occasione di dare inizio non soltanto a una nuova vita,
ma a un nuovo universo.
O che – per chi ha superato la quarantina – quel nuovo
universo è incominciato, e tutti gli anni che abbiamo
vissuto dopo d’allora come se non fosse cambiato nulla, sono
stati un periodo di illusione: come chi a cinquant’anni si
comportasse ancora come quando era adolescente. E ciò
richiederebbe agli ultraquarantenni una reazione analoga
a quella che avrebbero accorgendosi di un ritardo nel loro
sviluppo: cominciare a crescere da dove si sono fermati.
Tornare ai quaranta. E lì dare il via alla costruzione della
Tebat-Tebah, ed entrarvi, e vivere in essa.
561
La fine di ciò-che-c’è-già
Genesi 7,13-20
562
cronaca del Diluvio prosegue senza di lui:
È ciò che avverrebbe a chiunque cominciasse a usare una lingua come quella insegnata
da Mosè. Una lingua che contiene soltanto termini chiari nella forma e nel contenuto,
aderente alla realtà come la pianta di vite, e priva di qualsiasi tabù. Il mondo così come
le altre lingue lo descrivono – ovvero tutto ciò che le altre lingue fanno esistere del
mondo, tutti i significati che gli danno e tutto ciò che non possono o non osano
esprimerne – rimarrebbe davvero altrove. I sophói lo presero in parola, come sappiamo
(vedi p. 64). E così anche Gesù, quando diceva: «Lascia tutto e seguimi» e «Lascia che
i morti seppelliscano i loro morti». 1
563
e vennero ricoperte le montagne.
564
Il grande mare nero
Salmo 80
565
Il TeLeK
La lingua insegnata da ’Elohiym è un’iniziazione:
disgrega in Noaḥ – e in chi legge – un’immagine del
mondo praticata ormai da troppo tempo, e fa accedere a
un’immagine del mondo nuova. Il Diluvio che avviene
tutt’intorno alla Tebah è come la proiezione colossale di
ciò che in realtà avviene in colui che sta cominciando ad
«abitare» nella nuova lingua.
Oppure possiamo vederla viceversa: il Diluvio è
l’iniziazione di Noaḥ (e di chi legge) al nuovo ciclo che
segue al Settimo Giorno, e la Tebah è lo strumento di cui il
suo intelletto può servirsi per non rimanere indietro al
nuovo – mentre l’intelletto di quelli che rimangono fuori
dalla Tebah rimarrà sommerso dal mutamento universale.
Entrambe le interpretazioni sono al tempo stesso valide
e insufficienti: nella prima, trapela la speranza che
l’iniziazione sia soltanto un fenomeno interiore, che muta
l’immagine del mondo e non il mondo; nella seconda, si
esprime la fede che, quando un’iniziazione incomincia,
entrino in azione potenze esterne, e l’iniziato debba
soltanto obbedire a esse e non sia di per sé responsabile di
quanto avviene. Alla verità ci si avvicina, qui, solo
togliendo i due soltanto.
Ogni iniziazione autentica è un processo interiore e, al
tempo stesso, esteriore: avviene quando il mondo cambia,
quando un’epoca finisce (o, come dice Mosè, quando un
Dio dell’Essere vuole distruggere ciò-che-c’è-già) e può
compiersi in coloro che cooperano alla sua distruzione;
altrimenti quell’epoca ormai finita perdura in loro, e la
distruzione operata da YHWH è, per essi, un processo più
lungo delle loro esistenze individuali. Diventano, allora,
proprio quelli che Gesù definiva «i morti che
seppelliscono i loro morti».
566
L’iniziazione autentica è un fenomeno noto a ogni
latitudine, in ogni periodo storico. È rappresentato in
innumerevoli tipi di rituali iniziatici arcaici, e se ne
riconoscono le tracce nei «riti di pubertà» e nei «riti
d’accesso» di religioni, sette, confraternite attuali; ma
queste cerimonie non hanno a che fare con l’iniziazione
autentica, più di quanto le feste primaverili abbiano a che
fare con la primavera: costituiscono soltanto celebrazioni
del fenomeno, non sue attuazioni. Ben più interessanti
sono le molte teorie dell’iniziazione, che – per lo più in
forma dissimulata, segreta ai profani – descrivono come il
rinnovamento si compia di per sé, seguendo fasi precise,
sempre le stesse.
Sono teorie dell’iniziazione autentica la Passione di
Gesù, l’opus alchemicum della trasformazione del piombo
in oro, la Divina Commedia, Il conte di Montecristo, Le
avventure di Pinocchio, le fiabe di Biancaneve, Cappuccetto
Rosso, Aladino eccetera. 1
In area mediterranea, le più antiche di queste teorie si
trovano nei Testi delle Piramidi, alcuni dei quali datano al
XXV secolo. Non è necessario pensare che Mosè, nel
racconto del TeLeK della Tebah abbia «depredato» anche
quelli: in Egitto l’iniziazione autentica era tenuta in gran
conto; piuttosto, è verosimile che Mosè, in gioventù,
l’avesse sperimentata personalmente. E che nei suoi
racconti (qui, e poi ancora nell’Esodo) volesse comunicarla,
estenderla a chi li legge con la necessaria attenzione.
567
La Nigredo
La prima fase iniziatica veniva chiamata, nei Testi delle
Piramidi,
568
Nigredo diventa la forza di annientarsi davvero.
Nella Passione di Gesù incomincia la notte tra il
giovedì e il venerdì, dalla fuga dei discepoli, e dura fino al
Calvario; nella fiaba di Aladino è la caverna; nella fiaba di
Cappuccetto Rosso è il lupo; in quella di Biancaneve è sia
l’abbandono della fanciulla nel bosco sia la mela
avvelenata; nel Conte di Montecristo è il carcere d’If e
soprattutto il momento in cui Dantès viene avvolto nel
sacco funebre e gettato in mare; nelle Avventure di
Pinocchio le Nigredo sono numerose, prima di quella
definitiva, che è il venire inghiottito dal «Pesce-cane».
Nel racconto di Mosè, la Nigredo-Diluvio è, come
abbiamo visto, premeditata, accuratamente architettata da
’Elohiym per Noaḥ, e da Noaḥ pienamente accettata, e
assecondata.
569
Senza speranza
Osserviamo che è il contrario di quel che di solito si
ritiene: Noaḥ e i suoi figli non vengono tanto salvati
durante il cataclisma, quanto piuttosto abbandonati a esso.
Il Diluvio è l’ampliarsi del loro fallimento esistenziale,
della distruzione del loro mondo, che diventa tutto
quanto un passato da cui volgersi via. Possiamo
raffigurarci la realtà del Diluvio in questo modo:
l’individuo che, come qui Noaḥ, comincia a costruire una
propria lingua, cioè un nuovo modo di vedere e definire
ogni cosa – incluso naturalmente se stesso – si ritrova per
forza solo, troppo diverso da tutti, anche da ciò che egli
era stato fino ad allora. Le parole, e dunque anche i
pensieri, le convinzioni degli altri, alle quali si era sempre
adeguato consapevolmente o inconsapevolmente, non gli
corrispondono più, gli appaiono estranee; e lui appare
estraneo a tutti. Il suo mondo crolla, sia ai suoi occhi sia
agli occhi di chiunque lo osservi. Questo, innanzitutto, è il
Diluvio: ed è bene riconoscerlo come tale, quando capita
l’occasione di viverlo.
Di questo sfacelo, Noaḥ sa soltanto che è guidato dal
Divenire, dal futuro; ma il Divenire è ciò che la mente non
sa, e Noaḥ non ha alcuna idea di dove lo condurrà.
’Elohiym non gli ha fatto nessuna promessa. Gli ha solo
detto che qualcosa di tutto continuerà a «esistere con lui»,
e che la BeRiYT, la «forza creatrice» del Divenire rimarrà
in e con Noaḥ.
Ma questo, per Noaḥ, significa sapere soltanto che nella
sua sempre più grande solitudine vi sarà qualche
contenuto vivo, e non che poi le cose miglioreranno come
che sia. Ciò che ’Elohiym gli ha comunicato non esclude
570
che quella solitudine, quella totale distruzione del suo
mondo possano durare anche per sempre. E così deve
essere: ciò che deve mancare nella Nigredo, perché essa sia
veramente tale, è la speranza. Vi è piuttosto un paradossale
fidarsi della disperazione.
571
E infatti
Genesi 7,21-23
572
e divennero mare, dalla terra.
E rimase soltanto Noaḥ
e ciò che era con lui nella Tebah.
573
Il grande mare verde
574
Viriditas
Genesi 7,24; 8,1-4
575
a «tutta la vita che è con lui» è proprio il venire destati,
riscossi dalla seconda fase iniziatica, quella che nei Testi
delle Piramidi è descritta come
Centocinquanta giorni: cinque mesi! Chi, leggendo, abbia pensato di potersi avviare in
qualche modo nel TeLeK di Noaḥ dovrà sentirsi scoraggiato da questa durata della
Viriditas. Ma non c’è alternativa: l’iniziazione ha suoi ritmi indispensabili. Come il
decorso di una malattia e il prodursi di una guarigione. Più che di questa lunga
durata, converrà semmai rammaricarsi delle fasi di Viriditas ben più lunghe, nelle
quali rimane sospesa la mente di molti – senza saperlo, e senza che si accorgano di
essere via, portati dalle correnti chissà dove, invece che qui e ora. Come se fosse
avvenuta in loro una Nigredo, e nella fase seguente si fossero fermati, credendo che
non ci sia altro, dopo.
576
Il monte ’aRaRaṬ
Ma la Viriditas è anche la fase in cui Noaḥ deve cominciare
a scorgere ciò che è nuovo – proprio perché Noaḥ non ha
più nulla che limiti il suo vedere. Intorno a lui non c’è più
il mondo intero a cui adeguarsi; ed ’Elohiym non ha, qui,
uno YHWH che interferisca: può liberamente insegnare a
Noaḥ. È come se la distesa delle acque diventasse ora un
illimitato specchio del Dio: e la Tebah è l’occhio che lo
guarda.
La Tebah si riposò
scorrere (R)
577
in alvei (Ṭ).
578
Il Cerchio dell’Orizzonte Maggiore
579
Comincia l’Albedo
Genesi 8,5-9
580
Sono immagini della fase nuova, che nei Testi delle
Piramidi è definita:
581
Il due dell’Albedo
Nelle descrizioni dell’Albedo si evidenziano sempre due
figure, oppure una figura viene scambiata per un’altra,
perché in questa fase iniziatica si è due: le strutture del
nuovo «io» si stanno formando, sono ormai vicine a
diventare un individuo nel senso più letterale del termine
(un non-diviso-in-se-stesso) ma per ora, in tutti i loro
sforzi di connettere tra loro gli elementi e le potenzialità
di quel nuovo «io», arrivano a formare soltanto un due.
In chi è giunto all’Albedo il due si manifesta in vario
modo, in ogni direzione: ci si sente sul confine tra il
possibile e l’impossibile; tra il sonno e la veglia; tra la
notte e il giorno; il presente e il passato, o tra il presente e
il futuro; l’accorgersi e il dubbio; l’Aldiquà e l’Aldilà.
È anche il momento della vita in cui si desidera più
intensamente un’«anima gemella»: le grandi storie
d’amore sono Albedo – e anche nell’Albedo può accadere di
fermarsi per sempre, durante l’iniziazione, senza giungere
alla fase successiva, che è l’ultima. Si può così ritenere che
nella felicità di un’unione amorosa consista il senso della
crescita interiore di tutta un’esistenza. O che tale senso
risieda in uno qualunque di quegli altri aspetti del due. E
non sarebbe che un fermarsi, un non aver potuto di più.
Nel racconto del Diluvio il due è nel lungo periodo in
cui, intorno alla Tebah, non vi è più soltanto acqua, ma ne
sono emerse cime di montagne; anche qui vi è il due:
acqua e terra. E il due è anche nel Corvo e nella Colomba
– che non occorre affatto immaginare come uccelli. Che
cosa siano davvero, lo mostrano i loro nomi-formula.
582
Il volo del Corvo
«Corvo» in ebraico è ‘oReB: le lettere sono le stesse della
parola ‘eReB, «sera», che nel racconto della Creazione
segnava la fine di ciascun Giorno:
Ed è sera.
583
Il volo della Colomba
E «Colomba» in ebraico è YiWoNaH. È quasi la formula di
«giorno», YiWoM. Ma in YiWoM l’ultima lettera è la M,
l’orizzonte tutto quanto delineatosi. In YiWoNaH la
desinenza è invece NH:
le cose (N)
ancora invisibili (H).
584
Yoni
YiWoNaH (pronuncia: yona) è tutt’uno con ciò che in
sanscrito si chiama Yoni, ovvero la più intima essenza
della Shakti, l’energia vitale emanata da Śiva. Nel nuovo
Giorno che può nascere, vi è un amplissimo respiro
spirituale che si estende fino al più lontano Oltremare: i
Noaḥ devono poter giungere a una tale vastità interiore
perché la loro iniziazione proceda oltre. È la via che
percorse Dioniso – che in India trovò, lui pure, la sua
Albedo: quando incontrò Śiva e per qualche momento essi
furono due, prima di riconoscersi l’uno nell’altro.
585
Iṓ
La YiWoNaH-Yoni-Shakti si connette anche al mito greco di
Iṓ, la sacerdotessa di Hera che divenne amante di Zeus, e
che Hera perseguitò per questo.
Hera dapprima la trasformò in giovenca; e Iṓ fu per
qualche tempo una mansueta giovenca pezzata, di tre
colori, bianca, rossa e violetto – e «violetto» in greco si
diceva íon. Zeus continuava ad amarla, e si congiungeva
con lei assumendo sembianza di toro. Hera, allora, le
mandò un equivalente della follia di Dioniso: tafani che la
tormentassero; e la giovenca Iṓ tentava invano di
fuggirne. Inseguita da quegli insetti, traversò il mare – e
alcuni narrano che il luogo della traversata prese da allora
il nome di Bosforo, in greco: «il passaggio del bovino».
Dal Bosforo, Iṓ si diresse a sud, giunse in Egitto; lì le
avvenne qualcosa di molto simile all’incontro tra Dioniso
e Śiva: Iṓ incontrò, riconobbe, divenne e fu Iside –
trasformandosi da giovenca in Dea d’aspetto umano.
Per il volo della colomba di Noaḥ, ciò significa un
ulteriore ampliamento del respiro spirituale, necessario
all’inizio del nuovo Giorno.
586
Giona
Poi la YiWoNaH-Yoni-Shakti-Iṓ-Iside prese forma maschile,
nel profeta YiWoNaH, Giona, che quando ricevette da Dio
la vocazione fuggì, perché non voleva saperne di
profetare. E fuggì anche lui Oltremare:
587
Lo Spirito e la Sposa di Gesù
E nei Vangeli, la YiWoNaH-Yoni-Shakti-Iṓ-Iside-Giona
divenne l’immagine dello Spirito che Giovanni Battista
ebbe all’improvviso, al suo incontro con Gesù:
Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è dato dal cielo. Voi siete
testimoni che ho detto: «Non sono io il Cristo, ma sono stato
mandato innanzi a lui». Chi ha la sposa è lo sposo; e l’amico dello
sposo gioisce all’udire la voce dello sposo. Ora questa mia gioia è
compiuta. Lui deve crescere, io devo diminuire. 7
588
L’unione delle due terre
589
Deucalione
Genesi 8,10-12
590
figlio di un vecchio avversario di Zeus, il nobile titano
Prometeo – il cui nome significa in greco: «Colui che
scorge il futuro». E fu Prometeo ad avvisare il figlio che
Zeus era disgustato dell’umanità e che aveva deciso di
sterminarla. Prometeo insegnò per tempo a Deucalione a
costruire una robusta nave: e Deucalione vi entrò, con sua
moglie Pirra, mentre Zeus stava scatenando la pioggia
definitiva. Gli altri uomini cercarono rifugio sulle alture,
che una dopo l’altra vennero inghiottite dalle acque: le
ultime furono le cime della Tessaglia, e si sgretolarono;
tutta la Grecia divenne, così, solo mare.
Deucalione e Pirra rimasero sulla loro nave per nove
giorni: poi emerse la vetta del Parnaso, il cui epiteto
tradizionale era «il Monte lucente». E lì, sul Monte delle
Muse, approdarono, e diedero inizio a una nuova stirpe.
591
L’annuncio della Rubedo. La foglia di splendore
Simbolo di forza creatrice, nel racconto di Mosè, è la
famosa «foglia d’ulivo». Le nostre grandi religioni non
colsero nemmeno questo punto. La colomba, secondo le
versioni consuete, è un bravo uccellino di Noaḥ, che infine
lo splendore (SY)
che trabocca (T).
592
Questo raggio splendente, scrive Mosè, è tutto
«raccolto» (ṬaRaF) «nella bocca»: cioè è pronto a venir
pronunciato, a diventare parola e a far esistere ciò che
indica. L’attesa, l’esitazione, la paura del troppo grande e
del troppo nuovo sono finite. Ora si tratta soltanto – e d’ora
in avanti per sempre – di far traboccare quello splendore,
di farlo esistere davvero, esprimendolo.
593
L’oro chiarissimo della Creazione
Un raffinato alchimista inglese, John Pordage (1607-1681),
spiegò mirabilmente il senso della Rubedo. È il momento
in cui l’«io» diventa
594
dall’Abisso delle Acque. 2
Nella casa del Padre dell’io vi sono diverse fasi. O potrei dirlo anche
così: l’io va sempre avanti, a prepararvi le situazioni. E quando è
andato avanti, e vi ha preparato una situazione, poi torna e vi
prende con sé, perché dove è giunto lui giungiate anche voi. Così
sapete dove va l’io, e ne sapete la via. 3
595
in cerca, non la vede tornare più. La Colomba ha svolto il
suo compito: da alba che era, scompare nel Giorno pieno.
596
Capodanno
Genesi 8,13-19
597
dunque nella Sesta Casa, proprio là dove il Diluvio era
cominciato. Ed è l’inizio del primo mese lunare,
corrispondente al nostro marzo-aprile; un capodanno
davvero memorabile: le «acque» si ritirano sia dalle molte
direzioni dall’’aReZ sia dall’’adamah.
Era già avvenuto, nel racconto della Creazione, che le
acque si ritirassero e comparisse la terraferma (vedi p.
191). Qui avviene sotto gli occhi di Noaḥ, e naturalmente
in Noaḥ, per Noaḥ, e in e per ogni Noaḥ dell’avvenire.
Per poterlo contemplare – precisa Mosè – è ancora
necessario che Noaḥ scosti (YaŠaR) il «limite», il «confine»
(MiKeŠeH) della Tebah. Secondo le versioni consuete,
598
L’uscita nel mondo
Poi Noaḥ esce. Avviene nel secondo mese lunare,
corrispondente per noi ad aprile-maggio, nel segno del
Toro. E il giorno è il 27 – ovvero «venti e sette» in ebraico,
e il 20 è la K, mentre il 7 è la S. In geroglifico KS significa:
l’afferrare (K)
con lo sguardo (S).
599
Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di
avere la vita in se stesso. 4
600
Un altro inserto yahwista
Genesi 8,20-22
601
senza che nessuno ne avvertisse più la mancanza: ne
risulta che durante le iniziazioni si ha a che fare soltanto
con ’Elohiym. Se il testo fosse rimasto così, i sacerdoti di
YHWH ne sarebbero stati, ancora una volta, troppo
screditati. E ancora una volta decisero di intervenire;
scelsero proprio questo punto per una ragione evidente:
narrarono, qui, che YHWH si impegnò a non provocare
mai più un altro Diluvio; nel testo di Mosè, ’Elohiym fa un
analogo giuramento poco più avanti: dunque, se non fosse
stata incollata al testo questa pagina sacerdotale, la Genesi
avrebbe fatto dipendere tutta la solidità dell’universo dal
Dio del Divenire. Con la manipolazione si produce invece
l’impressione che sia stato ’Elohiym ad adeguarsi al
giuramento di YHWH.
I sacerdoti aggiunsero che Noaḥ, appena uscì dall’arca,
costruì un altare e fece dei sacrifici, uccidendo e bruciando
una gran quantità di quadrupedi e di uccelli «puri», cosa
di cui YHWH si rallegrò. Non ha senso, naturalmente, sia
che lo si voglia immaginare in termini ingenuamente
realistici, sia che lo si intenda in senso più letterale.
Nel primo caso, non sarebbe stato possibile che Noaḥ
prendesse da tutte le specie animali un capo da
sacrificare, poiché di ciascuna specie aveva con sé soltanto
due esemplari, e se ne avesse ucciso uno la specie sarebbe
finita.
Nel secondo caso, le coppie di «viventi» della lingua-
Tebah sono concetti e parole, e non si vedrebbe come
Noaḥ potesse ucciderli e bruciarli.
Vi è molta rozzezza sacerdotale anche nel rapporto che
viene istituito, qui, tra rituale e benessere economico
(YHWH che dopo l’offerta di carni arrostite sull’altare
promette il seme e il raccolto) e nell’affermazione secondo
cui l’inclinazione al male si manifesterebbe nell’uomo «fin
dall’adolescenza»: ai sacerdoti di tutte le religioni dà ai
602
nervi l’esuberanza degli adolescenti; Mosè non la pensò
mai così.
603
Il legame tra tutti i viventi
Genesi 9,1-2
604
’Elohiym infatti annuncia qui una legge di natura –
strana per noi – che comincia a valere dopo il Diluvio,
negli iniziati: tra questi ultimi e tutti gli esseri viventi vi
sarà, da qui in avanti, uno stretto legame psichico. Tra
l’«io» di Noaḥ (di tutti i Noaḥ) e l’energia vitale
dell’universo cessa cioè ogni separazione.
Per noi è strano, dicevo, perché in Occidente l’energia
vitale può essere pensata soltanto come un fatto – tanto
quanto è un fatto l’aria, che pure agisce nei corpi di ogni
vivente, o la luce, che giunge ovunque nell’universo.
Essendo un fatto esteriore, non è parte integrante della
nostra attività psichica; e in nessun modo un occidentale
potrebbe dire «io» parlando della zōḗ, poiché la zōḗ è
universale e infinita, e l’«io», secondo l’Occidente, non è
universale, né infinito.
Invece, nei Noaḥ, l’«io» si innerva nell’energia vitale
dell’universo, e può dunque influire su tutto ciò che vive.
Comincia a partecipare direttamente all’evoluzione:
quanto più gli iniziati riescono a cambiare, a evolversi,
tanto più cambiano e si evolvono anche tutti gli animali; e
quanto più quegli iniziati hanno timore della propria
evoluzione, ed esitano, tanto più cessano di evolversi
anche tutti gli animali. La responsabilità degli iniziati
diviene, in tal modo, enorme: davvero tutte le bestie, e i
volatili, i rettili e i pesci «sono in mano loro».
Ma ciò vale solo per i Noaḥ, non per gli altri esseri
umani.
Di questi, ’Elohiym non fa parola qui – e non certo
perché siano periti tutti quanti nel Diluvio, dato che il
Diluvio è, come abbiamo visto, soltanto un’iniziazione che
separa dal mondo precedente, ma non causa la morte di
nessuno. Gli altri, i non iniziati, sono semplicemente
rimasti indietro, in una fase precedente dell’universo,
ormai superata; e da ciò consegue un’idea di evoluzione
605
per noi occidentali inaudita.
Da un lato, abbiamo gli iniziati e gli animali, e il loro
comune evolversi, ora più ora meno, a seconda delle
paure che gli iniziati stessi potranno avere.
Dall’altro lato, abbiamo la restante umanità, la quale
potrà benissimo ritenersi la specie più progredita, ma in
realtà viene a trovarsi assai distante dagli stadi evolutivi
che gli animali stanno via via raggiungendo. Non soltanto
gli iniziati, ma anche gli animali potrebbero dunque
servire da guide, da maestri.
Vediamo le conseguenze di questa legge di ’Elohiym in
molte immagini che ci sono familiari: nel fatto che gli
angeli siano esseri ibridi, in parte d’aspetto umano e in
parte d’aspetto animale, con le loro grandi ali; nella
colomba che divenne il simbolo dello Spirito; nell’agnello
come simbolo del Cristo; nei tre animali ispiratori degli
evangelisti: il toro per Luca, il leone per Marco, l’aquila
per Giovanni, mentre Matteo ebbe come ispiratore un
angelo alato; e poi naturalmente nelle divinità zoomorfe
egiziane; nelle trasformazioni in animali degli Dei greci;
nel ruolo di guide e maestri che gli animali hanno nelle
fiabe di tutti i popoli; e infine in quella sensazione ben
precisa che le persone amanti degli animali hanno spesso:
che tutti gli animali con i quali l’uomo riesce a stabilire un
rapporto stiano tentando (il più delle volte invano) di
insegnargli qualcosa di molto importante.
Gli iniziati, dopo il loro Diluvio, conoscono la legge che
in tutte queste forme si esprime. La mente occidentale
arriverà, forse, a scoprirla un giorno – così come
l’Occidente è arrivato, pian piano, a tante scoperte già
compiute nel primo, secondo e terzo millennio a.C. – e
sarà di certo un giorno bellissimo.
606
Il divieto del «sangue»
Genesi 9,3-7
non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue.
607
del testo ebraico, risulta evidente dall’aberrazione che ne
risulta: nella frase così tradotta si parla di «carne» senza
precisare che si tratti di carne animale; ne deriva dunque
che non sia vietato cibarsi di carne umana (lo
confermerebbe anche ciò che ’Elohiym afferma poco
prima: «tutto ciò che si muove e che ha vita» viene
assegnato come «cibo»). Ma ciò è impossibile. Se nel testo
ebraico vi fosse stata questa implicazione, Mosè vi
avrebbe senz’altro fatto seguire qualche chiarimento sul
come e perché ’Elohiym approvasse l’antropofagia.
608
Ciò che non va mangiato del prossimo
Leggiamo il brano con attenzione. A Noaḥ e ai suoi figli –
e soltanto a loro – ’Elohiym spiega che «tutto ciò che si
muove e ha vita» è cibo. Non occorre forzare il senso di
questa frase, immaginando che significhi: «tutti gli animali
che si muovono e sono vivi, ma certamente non gli esseri
umani». È invece un concetto che va benissimo così com’è:
significa che, dopo l’iniziazione, si è in grado di
assimilare, di comprendere, di trarre crescita da ogni
aspetto del movimento (inclusi i movimenti degli astri, del
vento, delle maree, delle nuvole, la danza e il muoversi
degli sguardi) e da tutto ciò che è vivo (inclusi i pensieri, i
significati delle parole, i sentimenti, le emozioni), come se
fosse «erba verde» – che, come abbiamo visto, nella lingua
di Mosè significa «ciò che già si è arrivati a comprendere
della crescita d’ogni cosa» (vedi p. 218). Dunque: vi è negli
iniziati la capacità di comprendere tutto ciò che si muove e
che è vivo, e perciò di riceverne nutrimento.
Ma – prosegue ’Elohiym – quello di cui gli iniziati non
arriveranno mai a nutrirsi è il DaM, cioè la mente
cosciente di un altro essere (vedi p. 139). E non perché sia
loro vietato da ’Elohiym, ma perché è impossibile – e
dunque tentare di farlo è illusione, è denutrizione.
Ciò non ha nulla a che fare con la macellazione per
dissanguamento. Si riallaccia invece ad alcune delle leggi
che Mosè formulerà in seguito: «Non desidererai ciò che
desiderano gli altri», «non desidererai l’amore della
donna di un altro», «non ruberai» 5 – sono altrettante
esortazioni a non volersi cibare del DaM altrui. Gesù
aggiungerà anche:
609
Voi non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro
Maestro. 6
610
proprio DaM nessuno sappia più nulla di preciso.
Ma per i Noaḥ quel kósmos è sommerso, ora.
611
Mai più
Genesi 9,8-11
612
La radice, in entrambe le parole, è QM: Q è il segno del
vertice e del dominio; M è il segno dell’orizzonte, e di
ogni forma, e della gestazione. In Noaḥ, nei suoi figli, e
nella loro progenie, vi è ora questo QM, dal quale essi
possono dominare, comprendere e creare ogni loro
orizzonte.
È come dire che possono vedere il loro vedere, pensare
il loro pensare, creare il loro creare: che il loro «io» è, ora,
più grande di se stesso. I loro limiti non sono più i loro
limiti: la loro mente spazia sempre oltre. Qualunque cosa
possano fare, sanno perché la stiano facendo, e dove li
condurrà, e l’hanno dunque già superata. Il che è una
splendida definizione di ciò che nelle nostre lingue attuali
si chiama: arte.
Arte (dalla radice sanscrita AR , «muovere verso
qualcosa», «condurre alla meta») significa portare a
perfezione una qualsiasi opera, e implica dunque il sapere
già – in qualche area estrema della mente – quale dovrà
essere la perfezione a cui l’opera può tendere.
A differenza dello scienziato, che è convinto di star
scoprendo qualcosa come chi avanzi nel buio, l’artista è
chi si accorge di obbedire alla propria intuizione, la quale
ha già colto e predisposto ogni dettaglio del lavoro –
beninteso, nel Divenire, nell’’adamah. Ciò che vediamo in
un’opera d’arte ben riuscita è, prima di ogni altra cosa, il
dominio che quell’aver-saputo-già ha esercitato sulla
materia: le note di una fuga di Bach, le consonanti di un
verso della Commedia, i polsi del Mosè di Michelangelo
sono così come sono non perché non potessero essere più
belli, ma perché apparivano esattamente così all’intuizione
– all’’išah – di Bach, Dante e Michelangelo, prima che li
avessero portati a termine.
La BeRiYT è quel dominio. Era stato, per ’Elohiym, il
613
dire la parola «luce» prima che la luce esistesse; e ogni
altra «parola della natura» prima che avesse preso forma
ciò che la parola indicava. L’universo è in tal senso l’opera
d’arte del Dio del Divenire, e ora Noaḥ e tutta la sua
progenie ne condividono il segreto.
E in realtà, dopo questa conquista, a che servirebbe
un’ulteriore iniziazione?
Purtroppo, ciò non vale per tutta quanta l’umanità, ma
solo per i Noaḥ. Per gli altri, il Diluvio è sempre in corso,
in tutti i sistemi umani, che scompaiono sotto «le acque»,
più o meno lentamente, più o meno visibilmente.
614
Ciò che sembra un arcobaleno
Genesi 9,12-17
Ed ’Elohiym disse:
«Questo è il segno della forza creatrice
che io metto tra me e voi
e ogni respiro della vita che sarà con voi
nelle generazioni dell’eternità:
questo mio arco ho messo nelle nuvole,
e sarà il segno della forza creatrice tra me e la terra.
E ogni volta che rannuvolerò le nuvole sopra la terra,
si vedrà l’arco nelle nuvole.
E desterò la forza creatrice che è tra me e voi
e ogni respiro della vita
e ogni forma corporea,
e non vi saranno più le acque della grande piena
per la distruzione di ogni forma corporea.
E vi sarà l’arco nelle nuvole
e lo guarderò per destare la forza creatrice, in eterno,
tra ’Elohiym e ogni respiro della vita
in ogni forma corporea che vi è sulla terra».
Ed ’Elohiym disse a Noaḥ:
«Questo è il segno della forza creatrice
a cui ho posto fondamento
tra me e ogni forma corporea che vi è sulla terra».
615
impegno a non distruggere più il pianeta. Le versioni
consuete traducono:
l’acquisire (Q)
la conoscenza (Š)
piena (T).
l’informe (‘)
che agisce sulle cose (NN).
616
manifestazione del destarsi della «forza creatrice» divina,
e ora anche noaica. Ciò impedirà che l’ignoto cresca nelle
vite degli iniziati, e che finisca per diventare di nuovo
Nigredo. Non occorre più.
Più che agli arcobaleni, questo ulteriore aspetto della
BeRiYT si associa al geroglifico egiziano del Ka, cioè del
principio vitale di tutti gli esseri e di tutti i mondi
(vicinissimo dunque alla zōḗ dei greci):
Penso che Mosè avesse in mente questo segno, nel
finale del grande discorso che ’Elohiym rivolge a chi ha
attraversato il Diluvio.
617
KaNa‘aN
618
Aritmetica della psiche
619
Tre e quattro
Genesi 9,18-19
620
essere sciolto da nient’altro, se non da colui che così lo connesse. 2
621
Quattro
Quella quaternità dell’universo è al tempo stesso simbolo
astratto di completezza e necessità fondamentale della
mente – soprattutto della mente occidentale, che raffigura
la quaternità in forme concrete d’ogni genere, più spesso
di quanto qualsiasi Dio sia mai stato raffigurato. Porte,
tavoli, finestre, stanze, facciate di case, libri, quadri e
quante cose ancora appaiono inconsuete se non hanno
quattro lati. Quattro sono i quattro punti cardinali, e le
stagioni. E quattro è divisore dei dodici mesi, delle dodici
ore, dei dodici Segni e delle dodici Case astrologiche,
come anche dei trecentosessanta gradi della circonferenza.
Ma proprio perché il quattro è immagine di
completezza, il quarto elemento diventa arduo e
tormentoso, quando già se ne hanno tre.
622
Tre
Perciò capita, di ritrovarsi intrappolati nel tre. Qui Mosè
lo annuncia:
623
Il quarto come problema e come soluzione
KaNa‘aN, in geroglifico, è:
624
Sprofonda dunque! Ma potrei anche dirti: sali!
È la stessa cosa. Fuggi da ciò che già esiste
verso i regni delle forme, che nulla tiene legati.
Una folla serpeggia là, come un corteo di nuvole. 5
625
Lo scandalo nella famiglia
626
Il vino di Noaḥ
Genesi 9,20-25
627
non videro il padre scoperto. Quando Noè si fu risvegliato
dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora
disse: «Sia maledetto Canaan!»
628
Non un contadino
Genesi 9,20
629
Un vigneto?
Il termine ebraico per «vigna» è KeReM; in geroglifico è:
il vedere (Y)
ciò che si vede (Y)
delle cose (N).
630
Non certo una sbronza
Genesi 9,21
E bevve il vino,
e intuiva.
estendersi (Š)
fino al limite e oltre (T),
fino all’invisibile (H).
631
vedere (Y)
attraverso la meditazione (ŠK)
ciò che si muove (R).
632
Non in una tenda
Genesi 9,21
E compiva scoperte
nell’aldilà.
la capacità (’)
di giungere (HL)
all’invisibile (H)
633
Il sesso di Noaḥ
Genesi 9,22
634
sublimazione di un originario impulso sessuale, ma
perché il tendersi e abbandonarsi, il penetrare e l’essere
penetrati, il possedere e il sentirsi posseduti sono analoghi
nel sesso, nella conoscenza e nella creatività. Anche questi
significati della sessualità erano celebrati nelle falloforie di
Dioniso e di Osiride – che potrebbero veramente dirsi
feste in onore di quella volta che Ḥam guardò.
Nell’’aHoLoH in cui il padre era giunto, Ḥam vide e
osservò dunque tutto ciò, nella sapienza paterna. E fece
benissimo: dimostrò di essere semplicemente il discepolo di
Noaḥ – se gli era stato possibile vedere ciò che avveniva
nell’’aHoLoH, nell’«aldilà» in cui il padre stava compiendo
scoperte.
Ma Ḥam divulgò quello che aveva visto: anzi, Mosè
scrive che Ḥam lo «estese» (YaGeD) ai suoi due fratelli.
Volle dunque insegnare anche a loro ciò che aveva visto
là. E questo fu troppo.
635
Due persone perbene
Decisamente, a Mosè la parola «fratelli» non piace.
L’abbiamo visto all’inizio dell’Esodo con i «fratelli» ebrei; e
nel conflitto tra Qayn e Habel; e nella contrapposizione tra
Qayn e Šet; finora, gli unici fratelli che sembrano essersi
intesi bene tra loro sono i figli di Lamek: Yabal, Ywubal,
Twubal-Qayn e Na‘amah; ma in questi quattro erano
personificate forme di oppressione: una quaternità oscura,
malefica.
Il rapporto con i fratelli si direbbe, per Mosè,
un’immagine di ciò che più frena la crescita individuale. 3
I tre figli di Noaḥ non fanno eccezione; è evidente che fra
loro non vi è consonanza: Šem e Yafet agiscono insieme;
Ḥam è isolato, e viene messo da parte – e dati i precedenti,
non è difficile stabilire a chi dei tre andassero le simpatie
di Mosè.
Ḥam è affine all’’išah, a Qayn e a Mosè stesso: poiché fa
qualcosa che ad altri appare illecito, e guarda e scopre
cose che altri temono. In più è generoso: vuole
condividere con gli altri due ciò che ha scoperto, ma
invano.
Šem e Yafet sono custodi di regole, come Habel, e non
scopritori di cose nuove. Il loro sguardo è e rimane
«voltato indietro», mentre Ḥam guarda avanti e vorrebbe
far guardare avanti anche loro.
Indubbiamente, un’eco di questo episodio della vita di
Noaḥ rimbalzò nel tardo mito greco di Crono che, mentre
era ubriaco, venne castrato da suo figlio Zeus; 4 ma se
qualcosa della sapienza di Noaḥ venne castrato qui, fu a
opera di quei due bigotti, non di Ḥam, la cui unica colpa
fu un entusiasmo.
636
Il tragitto di sinistra
Genesi 9,23
637
In Malkut, di conseguenza, tutto è e sa comunque
troppo: dieci volte di più di quanto questa ultima Sefirah
possa contenere. E tutto, da Malkut, dovrebbe perciò
avvertire il bisogno di ri-estendersi verso l’alto, di
ritrovare la propria pienezza nelle Sefirot superiori.
Dovrebbe; ma così non avviene tra gli uomini.
In Malkut, la maggior parte degli individui
dimenticano moltissimo o addirittura tutto ciò che
avevano conosciuto prima di nascere; e dimenticano
anche di esserselo dimenticati. Solo alcuni imparano –
sempre con fatica – a ricordare. E per questi, il TeLeK
638
dell’«Albero delle Vite» è sempre aperto: possono
risalirlo.
Sulle tecniche di questa ri-ascensione, e della ri-
scoperta di ciascuna Sefirah, la mistica ebraica ha
indagato per millenni. Non sappiamo quanti millenni,
esattamente. Gli studiosi più audaci, come Gershom
Scholem, datano attorno al I secolo d.C. il primo trattato
sulle Sefirot, il Sefer Yezirah, o Libro della formazione. I più
ritengono invece che le speculazioni sull’«Albero delle
Vite» siano incominciate cinque o sei secoli più tardi.
Ma dalla Genesi risulta che la datazione di questo
schema si possa spostare molto più indietro. Tredici secoli
avanti Cristo o giù di lì, Mosè scriveva che Šem e Yafet
«presero ciò che è a sinistra». L’«Albero delle Vite» si
struttura in verticale su tre linee, o «Colonne», ciascuna
delle quali ha un suo valore ben preciso:
639
Agisce in loro anche quella paura della «spada-
specchio» che YHWH aveva posto sulla via del Diramarsi
delle Vite (vedi p. 262). Camminano a ritroso, perché
temono di rimanere abbagliati da quel che vi è più su, e
che Ḥam ha contemplato.
Nei Vangeli, un’eco precisa di questo procedere «a
sinistra» è nell’esortazione ai discepoli, in riva al lago di
Tiberiade:
Gesù disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e
troverete». La gettarono, e non potevano più trarla su, tanto si era
riempita di pesci. 5
640
I due fratelli tra noi
I due «fratelli» sono per Ḥam ciò che le religioni
istituzionali furono sempre per la mistica. Dalla mistica, le
religioni «si proteggono tenendo alti» i dogmi, i tabù, i
rituali e la fede intesa come non-voler sapere. Nel termine
che nella Genesi significa «proteggersi», ŠMW, vi è la
formula geroglifica di questo atteggiamento:
641
L’ultimo atto di Noaḥ
642
Ḥam e Kana‘an
Genesi 9,24-29
643
Come salvare il Piccolo
Genesi 9,24-25
644
Dio della fertilità, dell’agricoltura, ovvero un attivissimo
abolitore di tabù – ogni nuovo raccolto richiedeva, presso
i popoli arcaici, rituali e sacrifici prima della mietitura. E
si potrebbe continuare fino a epoca recente, con tutti i
rivoluzionari (anch’essi abolitori di tabù, in politica) che
dovettero morire di morte violenta: da Robespierre, a
Trotskij, a Gandhi, a Guevara.
645
È una soluzione da sciamano.
Ma questa spiegazione soddisfa soltanto le nostre
esigenze antropologiche. Dai dettagli della «maledizione»
e delle «benedizioni» di Noaḥ emerge anche una
soluzione da teurgo.
646
L’allievo del Dio
Fonte di benedizioni e fonte di maledizioni erano stati, fin
qui, soltanto ’Elohiym e YHWH: invocare energie
favorevoli o dannose su qualcuno era prerogativa divina.
Ma Noaḥ, a partire dalla costruzione della Tebat, ha
incominciato a imparare molte cose da ’Elohiym. E ora ne
sta mettendo in pratica alcune.
Con queste sue maledizioni e benedizioni ai figli e al
nipote, Noaḥ riproduce il momento in cui ’Elohiym
benedì gli esseri viventi, e i momenti in cui YHWH maledì
dapprima chi gli aveva disobbedito nel Gan ‘eden, e poi
Qayn. E – proprio come avevano fatto ’Elohiym e YHWH
– anche Noaḥ annuncia e determina in tal modo il destino
di intere stirpi.
Può farlo. Ha la BeRiYT, la divina «forza creativa»: ha,
dunque, anche qualche diritto divino. Ed è un buon
momento per determinare destini: siamo agli inizi di un
nuovo mondo, come durante la Prima Creazione, e come
quando l’’adam poté uscire dal Gan ‘eden e popolare la
terra.
Inoltre, nel riprodurre le benedizioni e le maledizioni
divine, Noaḥ mostra di averle accuratamente meditate:
riprende le parole usate da ’Elohiym e YHWH; coordina
la sorte dei suoi figli secondo i ruoli che erano stati
dell’’išah, dell’’iyš e del Serpente; e rielabora, trasforma,
riplasma tutto ciò in modo nuovo.
647
La sorte di Šem e Yafet
Genesi 9,26-27
648
all’appartenenza di Šem a YHWH, nello stesso senso in
cui ha parlato degli «aldilà» benedicendo Yafet; e
significa: «tutte le volte che Šem avrà una sua immagine
di Dio, quale che sia il nome che gli darà, si tratterà
sempre di una manifestazione di YHWH». Così, d’un
tratto, ecco che YHWH si trova ad avere di nuovo un
prediletto.
Ma soprattutto, in questa sua benedizione a YHWH
perché protegga Šem, Noaḥ cambia la sorte di un Dio:
inserisce la propria energia creativa nella corrente
energetica di YHWH, fin qui ostile all’uomo, e la riorienta,
in modo che diventi propizia. Il padre di Noaḥ, Lamek,
l’aveva preannunciato (vedi p. 301):
649
La sorte di Kana‘an
Quanto a Kana‘an, la sua sorte si direbbe la più
lamentevole.
Viene infatti «maledetta» (’aRWuR ) e coordinata a
quella del serpente: come il serpente fu condannato da
YHWH a muoversi sempre «sul suo ventre», e dunque
più in basso di ogni altro vivente, così Kana‘an viene
condannato qui a essere «servo» dei suoi parenti. Ma
«servo», ‘eBeD, in geroglifico è:
650
La sorte del quarto
Šem, Yafet, Kana‘an: ma
651
Epilogo
Ripercorriamone la vicenda.
L’’adam era stato dapprima creato, il Sesto Giorno, da
’Elohiym.
Poi plasmato, da YHWH.
Poi ne venne scissa l’’išah, sempre a opera di YHWH.
Lì, tutto si sarebbe potuto fermare – e per moltissimi si
fermò, nei millenni che sono seguiti alla Genesi: in una
paralisi determinata dalla scissione delle due facoltà
fondamentali della mente, e dallo squilibrio creato dal
prevalere dell’’iyš ai danni dell’’išah.
Ma già nel ‘Eden, l’’iyš e l’’išah riuscirono a
ricongiungersi almeno un poco, almeno di quando in
quando.
E in questi ricongiungimenti ebbe inizio, per l’’adam, la
conoscenza di sé: la «differenziazione» di Qayn, poi di
Habel, poi di Šet.
Habel non ebbe discendenti. Rimase cioè sempre
uguale a se stesso: e nei millenni molti si fermarono in lui,
nelle sue greggi. In Qayn si «differenziarono» le
componenti qaynite della personalità umana, e della
storia degli Stati e dei popoli. E da Šet derivarono, nel
«cielo» interiore di ciascuno, le luminose potenzialità che
in ogni epoca attendono di opporsi ai qayniti.
Anche questa tripartizione sarebbe potuta rimanere
tale per sempre, e tale rimase certamente in tanta parte
della storia umana: con i qayniti a dominare, i šetiani ad
alimentare ideali, e gli habeliani a lasciarsi sempre
pascolare, allevare, macellare.
Ma la stirpe qaynita e la stirpe šetiana si congiunsero,
grazie a Ḥanwok, a Lamek e alle «figlie» dell’’adam.
652
Ne nacque Noaḥ. Ne nascono di continuo i Noaḥ. E
Noaḥ imparò, e i Noaḥ possono imparare, mediante la
Tebah e il Diluvio, a superare tutto il passato.
E possono studiare da Dio.
653
grandi opere, e il coraggio di attuarle.
E può avvenire che questa grandezza faccia apparire
troppo angusto tutto ciò che l’«io» già conosce di sé e del
mondo. Allora si apre all’«io» il TeLeK di ciò che gli
antichi chiamavano iniziazione. Allora vi è il Diluvio. Il
superamento di tutto.
Non tutti giungono al Diluvio, e non tutti vi
sopravvivono.
Molti non arrivano a scoprire in se stessi le potenzialità
šetiane, dalle quali il Diluvio può cominciare.
Molti non arrivano neppure alla dimensione qaynita.
Molti sono fermi ad Habel, ancora vivo.
La maggioranza rimane chiusa nel Gan ‘eden per tutta
la durata della vita adulta. E per questi, le fasi
dell’evoluzione biblica dell’«io» sono altrettanto invisibili,
come le stelle per chi non abbia mai avuto un po’ di
tempo per guardarle.
L’«io» è tutto questo, e dopo il Diluvio continua a
evolversi. Ne seguiremo le vie, nei prossimi libri.
654
Note
655
Parte prima. Prologo
Il cono d’ombra
1. Genesi 3,22.
2. Genesi 1,28.
3. Anselmo di Bec, Cur Deus Homo, I, 1.
4. B. Pascal, Pensieri, 32.
5. «L’accumularsi della tradizione, che è alla base di ogni sviluppo culturale, si
fonda su capacità sostanzialmente nuove, di cui tutte le altre specie animali
sono prive, e soprattutto sul pensiero astratto e sul linguaggio discorsivo.
Queste ultime facoltà, ponendo l’uomo in grado di formare liberamente dei
simboli, gli hanno offerto la possibilità, mai esistita prima, di diffondere e
tramandare le conoscenze individualmente acquisite. Tale trasmissione di
qualità acquisite fa sì, a sua volta, che l’evoluzione storica di una civiltà sia
enormemente più rapida della filogenesi di una specie.» K. Lorenz, Gli otto
peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974, p. 89.
Oltremare
1. Giovanni 7,15.
2. Matteo 7,29.
3. Marco 6,4.
4. Matteo 2,13-15.
5. Giovanni 14,6.
6. Timeo 25 a-d.
7. Eschilo, frammento 44.
8. Giovanni 14,6: «La via, la verità, la vita» (in greco: «Hē hodòs kai hē alḗteheia
kai hē zōḗ»); «vita eterna» è sempre zōḗ aiṓnios in Giovanni 3,36, Luca 18,18
eccetera. Vedi K. Kerényi, Dioniso, Adelphi, Milano 1992, pp. 19-21.
9. Matteo 5,45.
10. Matteo 23,9.
11. Giovanni 14,6. Nei Vangeli, ogni volta che Gesù dice «io» è bene tradurre
«l’io», perché le sue frasi abbiano un senso non idolatrico. Ne ho trattato
ampiamente in Il codice segreto del Vangelo, Sperling & Kupfer, Milano 2005.
12. Esodo 20,2.
656
13. B. de Rachewiltz, Il libro dei morti degli antichi egizi. Il Papiro di Torino,
Edizioni Mediterranee, Roma 1992.
Dioniso
1. Leggi, 899 b.
2. «Mai fu portata una prova per documentare che la religione dionisiaca si
sarebbe propagata dal Nord verso il Sud». K. Kerényi, op. cit., p. 140.
3. Olimpiodoro, In Platonis Phaedonem commentarii, 61 C.
4. Atti degli Apostoli 2,2-3.
5. Genesi 9,20-21. Vedi p. 381.
6. Giovanni 15,1-5.
7. Matteo 10,16.
8. Iliade, VI, 132.
9. Luca 9,53-54.
10. Giovanni 12,6.
11. Luca 5,33.
12. Luca 7,34.
13. Giovanni 7,20; 8,48.
14. 1 Corinzi 1,19-25; 14,23.
15. A. Daniélou, Śiva e Dioniso, Astrolabio, Roma 1980, p. 36.
16. Die Fragmente der Griechischen Historiker, a cura di F. Jacoby, Berlin-Leiden,
1923-1998, 715, vol. III C, pp. 603-39.
17. Levitico 19,18; Matteo 22,39.
18. Luca 17,33.
19. Inno a Dioniso, 14-15.
20. R. Smoley, Inner Christianity, Boston 2002, pp. 221-222.
21. Giovanni 2,6.
22. A. Daniélou, op. cit., pp. 119 ss.
23. Il canto venne composto nel 1754 da Alfonso Maria De’ Liguori (1696-1787),
santo, dottore della Chiesa.
24. Matteo 2,1-4.
25. Giovanni 18,36.
I sophói e Mosè
657
1. Giovanni 18,38.
2. K.R. Popper, «Back to Presocratics», in Conjectures and Refutations (tr. it.
«Ritorno ai presocratici», in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna
2009, p. 256).
3. Anassagora, frammento 21. È uso citare i frammenti superstiti dei «pre-
socratici» in base alla V edizione di Die Fragmente der Vorsokratiker di H.
Diels, riveduta da W. Kranz, e abbreviata in DK, Weidmannsche, Berlino
1956. Cfr. Anassagora, Frammenti e testimonianze, a cura di G. Gilardoni e G.
Giugnoli, Bompiani, Milano 2002; I presocratici, a cura di A. Lami, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano 1991.
4. Eraclito, frammento 49,91.
5. Cfr. J.W. Dawson jr., Dilemmi logici. La vita e l’opera di Kurt Gödel, Bollati
Boringhieri, Torino 2001.
6. Atti degli Apostoli 7,22.
7. Eraclito, frammento 41.
8. Eraclito, frammento 52.
9. Eraclito, frammento 108.
10. Esodo 2,22.
11. Eraclito, frammento 45, 101.
12. Eraclito, frammento 116,113.
13. Deuteronomio 34,6.
14. Giovanni 15,19.
15. Empedocle, frammento 2.
Teoria
1. 2 Corinzi 3,13.
2. Per il Racconto di Sinuhe, vedi Die Erzählung von Sinuhe, Papiro di Berlino
3022, 11-20.
3. Esodo 2,15.
4. Genesi 12,1.
5. 2 Cronache 34,14; 2 Re 22,8.
6. Isaia 1,3.
7. Esodo 4,10-16.
658
L’ebraico geroglifico
1. Il determinativo mostrava, per esempio, che la parola precedente era il
nome di una pianta ad alto fusto; il determinativo segnalava che la parola
precedente era un Dio eccetera.
2. Esodo 12,36.
3. Inno ad Aton, in Testi religiosi egizi, a cura di S. Donadoni, UTET, Torino 1970,
p. 316.
4. Giovanni 1,10-13.
659
Parte seconda. La Creazione
Mosè
La biografia della B
1. Eraclito, frammento 123.
2. Marco 4,11.
3. Giovanni 1,39.
4. Iliade VI, 135-136.
5. L.W. King, Chronicles Concerning Early Babylonian Kings, Luzac, Londra 1907,
vol. II, pp. 87-91; cfr. J. Campbell, The Masks of God: Occidental Mythology,
1964 (tr. it. Mitologia occidentale: le maschere di Dio, Mondadori, Milano 1992,
pp. 88-89).
Addio all’Egitto
1. Nello Śiva Purãna, Rudra Samhitã, cap. 51; vedi A. Daniélou, op. cit., p. 84.
2. Matteo 23,9.
3. Luca 2,49.
4. Genesi 37,28.
5. Tutte le citazioni dal Racconto di Sinuhe sono tratte dall’edizione berlinese,
op. cit.
6. A. Fabre d’Olivet, «Dissertation introductive», in La langue hebraïque restituée,
Parigi 1815, p. XXVIII.
Il sacerdote Re‘Wu’eL
1. Cfr. La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana, UELCI, Roma 2008,
p. 48 n.; Bibbia ebraica, a cura di Rav D. Disegni, Giuntina, Firenze 1995, p. 94
n.
2. K. Kerényi, op. cit., pp. 161, 163.
Arriva ’Elohiym
1. Bibbia ebraica, cit., p. 94.
660
2. Ne La Sacra Bibbia della CEI, cit., in questo punto manca Isacco. Non si sa
perché.
3. Romani 10,1-2.
4. 1 Corinzi 13,11.
5. Genesi 32,29.
6. Empedocle, frammento 105.
7. Colossesi 2,9.
661
Perché proprio Dio
I Nomi degli Dei
1. Genesi 31,42.
2. Senofane, frammento 16.
3. Giovanni 1,18.
4. Esodo 20,1.
5. Matteo 7,7; Giovanni 14,13.
662
I primi sette giorni
Primo giorno
1. Per esempio: «io diedi», «io avrò dato», «io do ora questa cosa» sono azioni
portate a termine; «io stavo dando», «io starò dando», «io sto dando» sono
azioni non portate a termine. Nella lingua di Mosè, le prime tre sarebbero
indicate da un’unica forma del verbo «dare»; e un’unica forma del verbo
«dare» indicherebbe le altre tre.
2. Matteo 6,10.
3. Matteo 12,31-32.
4. Giovanni 16,8-13.
5. Edfu II, 16.
6. Giovanni 1,1-3.
7. Giovanni 1,9.
8. Esiodo, Teogonia 123-125.
9. Eraclito, frammento 57.
10. I. Sibaldi, La creazione dell’universo, Sperling & Kupfer, Milano 1999, p. 25-
30.
Terzo Giorno
1. I presocratici, cit., pp. 136-137.
Quarto Giorno
1. Eraclito, frammento 3.
2. I presocratici, cit., p. 133.
3. K.R. Popper, op. cit., p. 239.
Quinto giorno
1. Paradiso XXXIII, 126.
2. I presocratici, cit., p.137.
Sesto giorno
663
1. Genesi 6,9; vedi p. 318.
2. Salmi 81,6.
3. I presocratici, cit., p.149.
664
‘Eden
YHWH si mette al lavoro
1. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse,
1830, I, § 87-88 (tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche, a cura di V. Cicero,
Bompiani, Milano 2000, pp. 235-237).
Il frutto proibito
1. Eraclito, frammento 60.
2. Giovanni 3,13.
3. Giovanni 14,9.10.
665
Le due stirpi
I qayniti
1. C.G. Jung, Psychologische Typen, 1921 (tr. it. Tipi psicologici, Boringhieri,
Torino 1977, pp. 472-473).
2. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., pp. 796-798.
3. Probabilmente, la radice ebraica NŠ si connesse con l’idea di sposalizio
perché il matrimonio era inteso come un salire, come un aumento
dell’importanza sociale dei coniugati: così fu anche in tedesco con il termine
Hochzeit, che è «nozze», ma letteralmente significa «il momento alto»; o
nell’espressione italiana «convolare a nozze».
L’altra stirpe
1. Non ha nulla a che vedere con l’egizio Seth, Dio della distruzione e
dell’ostacolo, assassino di Osiride: la pronuncia di Seth era molto diversa,
Sth, con la «s» sibilante e un’aspra gutturale in finale.
2. La Sacra Bibbia, Edizioni CEI, cit., p. 5 n.
3. Luca 10,20.
4. Giovanni 17,2.10.
5. Matteo 17,20.
6. Matteo 5,45.48.
7. Giovanni 3,3.
8. Vedi p. 249.
666
Il diluvio
Dies irae
1. Giovanni 3,7; 1,12-15.
667
L’iniziazione
Cronaca del Diluvio
1. Matteo 8,22.
668
1961.
3. Giovanni 14,2-4. Nelle versioni consuete dei Vangeli il passo è ben diverso, e
appare come un impegno di Gesù a preparare un posto in Paradiso per i
suoi discepoli, e a tornare a prenderli perché, morendo, lo seguano là.
4. Giovanni 5,26.
5. Esodo 20,17.15.
6. Matteo 23,10.
669
Kana‘an
Aritmetica della psiche
1. Timeo 17a.
2. Timeo 32a.
3. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit.
4. C.G. Jung, Das Grundproblem der gegenwärtigen Psychologie, 1931 (tr. it. «Il
problema fondamentale della psicologia contemporanea», in La dinamica
dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1976, pp. 375-376).
5. J.W. Goethe, Faust, II, atto I, scena 5.
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