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Storia dell’America Latina
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Relazioni internazionali

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1.Tra violenza, staticità e dipendenza: il XIX
secolo.
La dissoluzione del dominio coloniale.
Tra 1808 e 1824 si disgregava l’impero coloniale spagnolo in America: le turbolenze del Vecchio Continente
innescarono presso le élite dei creoli la consapevolezza di dover recedere i legami con la madrepatria per
intraprendere un cammino nuovo.
Non avendo riequilibrato il rapporto con i propri possedimenti, ristrutturato anzi in chiave fortemente
centralista con le riforme introdotte da Carlo III, Madrid finì per perdere, con l’eccezione di Cuba e
Portorico (1889), i possedimenti latinoamericani.
Due ondate:
1. 1808-1814: caratterizzata da lealtà al monarca deposto, forti tensioni interne alle elite che
permisero alla madrepatria di contenere i rigurgiti antispagnoli facendo leva sulle divisioni e grazie
alle forze lealiste locali. E’ una fase di teorizzazioni circa la strategia più idonea per affrontare la crisi
in atto in Spagna da scaramucce si passa alle armi e alla guerra contro la Spagna.
2. 1815-1824: tornano i re di Spagna legittimi. C’è una maggiore coesione tra gli insorti ed emergono i
leader rivoluzionari, l’esercito spagnolo è stanco e progressivo spostamento dei creoli da una cieca
lealtà a posizioni monarchiche costituzionaliste.
Le cause:
 Eco della rivoluzione americana e francese e diffusione delle idee illuministiche.
 Desiderio di autonomia: i creoli possedevano vaste proprietà ma non potevano aspirare alle
cariche più importanti dell’amministrazione coloniale, dell’esercito e della Chiesa in quanto erano
riservate ai nati nella metropoli.
 Maggiore libertà economica: le riforme borboniche avevano reso il carico fiscale asfissiante in
particolare nel settore agricolo. Le merci provenienti da altri paesi venivano gravate da pesanti
tariffe doganali e vigeva il divieto di installazione di industrie concorrenti a quelle iberiche,
frenando in tal modo il potenziale sviluppo della classe dominante coloniale. Inoltre, l’introduzione
del libero commercio non aveva risolto il problema di fondo e cioè che, importano la madrepatria
dalle colonie esclusivamente materie prime, ed esportandovi anche prodotti agricoli della stessa
natura di quelle presenti in America, le due economie non erano complementari ma in
competizione.
 Vicende europee: l’occupazione napoleonica (1808). In opposizione alla dinastia illegittima in molte
città latinoamericane, i creoli crearono delle giunte locali per ribellarsi al nuovo re. Così le
sollevazioni coloniali inizialmente cominciarono come un atto di fedeltà alla corona e gli ispano-
americani esercitarono il potere in prima persona, deponendo il rappresentante dell’usurpatore.
Con la restaurazione in Europa, Madrid poté occuparsi a pieno dell’area e inviare migliaia di soldati
per ristabilire l’antico ordine, senza accogliere le richieste riformistiche provenienti dalle élite locali.
Ma tale implacabile emancipazione favori il passaggio dei settori creoli da posizioni autonomiste a
posizioni indipendentiste.
 I ribelli contano anche sull’aiuto di GB e USA. Entrambe le nazioni si schierarono solo quando era
chiara la sconfitta della Spagna.
La vittoria degli Stati Latinoamericani è condizionata dalle condizioni interne della Spagna che dovette
affrontare una crisi interna e interrompere l’invio di truppe, questo consentì ai ribelli di riprendere forza e
poi contrattaccare. Dal 1821 al 1824, tutte le aree spagnole dell’America Latina, ad eccezione di Cuba e
Portorico, dichiararono l’indipendenza.
C’è il problema del riconoscimento de nuovi stati: Washington fu la prima a farlo già nel 1822 per avere più
facile accesso ai loro mercati e alle loro risorse naturali. La GB si mosse per gradi, stipulando prima trattati
di amicizia, commercio e navigazione che le permettevano di trarre vantaggi economici senza dovere
accreditare ufficialmente le nuove repubbliche. Così fecero anche gli Stati del Vecchio continente.
Nasce in questo momento la “dottrina Monroe”: la linea in questione secondo la contrapposizione tra il
Vecchio e il Nuovo Mondo, negava alle potenze europee il diritto di fondare altre colonie nell’emisfero
occidentale e di intromettersi nelle questioni interne alle nazioni del continente. Gli stati Uniti si auto
attribuivano il ruolo di garanti dell’indipendenza di queste ultime e principale potenza con cui interloquire
negli affari regionali. Era una dichiarazione unilaterali di Washington più in funzione antieuropea che in
chiave di solidarietà continentale.

Il retaggio delle lotte di indipendenza


L’imperativo delle élite fu quello di ripristinare la struttura di potere escludente della società coloniale,
basata sulla sacralità della proprietà terriera, lo sfruttamento del lavoro, l’oppressione e il controllo sociale,
con un’ampia base formata da neri, mulatti, meticci, indios, e un vertice occupato da bianchi, sia creoli che
spagnoli.
Quindi bisognava adattare alla nuova congiuntura storica i meccanismi di dominazione sui ceti popolari,
vanificando persino le poche disposizioni introdotte dalla corona spagnola a tutela della componente india
o tese a favorire l’ascesa sociale e mulatti liberi  si è quindi registrata una continuità con il periodo
coloniale in merito al mercato del lavoro, all’accesso alla terra, al trattamento delle comunità indigene.
La corrente liberale riuscì a scalfire il rigido schema: lenta abolizione della schiavitù che non era più
vantaggiosa, si aggiunsero l’eliminazione delle discriminazioni che gravavano sul sistema delle caste e alcuni
mutamenti relativi alla posizione legale degli indios, che comunque procedettero con lentezza a causa
soprattutto delle necessità finanziarie di alcuni stati in cui dovettero comunque pagare un tributo. Le terre
comunitarie indigene vennero privatizzare.
La chiesa vide ridimensionato il proprio potere in particolare perché la maggior parte delle gerarchie
ecclesiastiche era spagnola e fedele alla madrepatria. Le nuove autorità reclamarono la sua subordinazione,
il drastico ridimensionamento delle sue ricchezze e la separazione rispetto allo Stato  fulcro della
discordia tra le forze politiche. Le nuove repubbliche continuarono a riconoscere il cattolicesimo come
religione di stato, pur garantendo la libertà di culto e cercando di attenuare il predominio del sistema
ecclesiastico sulla vita sociale riducendone le funzioni.
La militarizzazione del periodo bellico favorì la ruralizzazione del potere, dal momento che l’elemento
fondamentale divenne il numero di uomini mobilitabili in presenza di una popolazione concentrata nelle
campagne. La violenza sopravvisse alle lotte d’indipendenza e finì per permeare la vita quotidiana.
Il 1825 fu caratterizzato dalla presenza di gruppi organizzati che gestivano il proprio territorio, dalla
formazione di piccole o grandi armate guerrigliere, dalla perpetuazione delle confische e dei saccheggi e
anche dalla circolazione di bandolero che divenne endemica.
La militarizzazione, costrinse i giovani stati a destinare gran parte delle loro esigue risorse nelle spese
militari e ad accettare il predominio degli uomini in uniforme, gli unici in grado di garantire un minimo di
ordine in una fase estremamente caotica.
L’incessante ricorso alla forza fu la base del caudillismo. Si tratta di un fenomeno che in realtà aveva origine
coloniale ma che acquisì nuovi contenuti dopo l’indipendenza e caratterizzò la vita politica nell’ottocento.
Esso era frutto dell’arcaicità della vita politica, di un regime di potere personale, locale o regionale, in mano
ad un elemento dotato di popolarità che disponeva di uomini armati e di una propria corte, che faceva
affidamento sulle risorse private ed eventualmente pubbliche, e che assicurava ad amici e clienti
sussistenza, protezione e sicurezza in cambio di fedeltà. Tale vincolo poteva scaturire dal grande carisma,
dalla forte personalità, dal coraggio o l’audacia. Quindi tra il caudillo e seguaci si instaurò una tipica
relazione patrono-cliente basata sulla dipendenza e sulla reciprocità di prestazione e favori.
Per gran parte del XIX secolo non venne lasciato spazio ai partiti, soffocati da tanti signori della guerra con
una propria sfera territoriale di potere.
Oltre ai problemi legati al caudillismo vi fu il problema dell’economia: la generalizzata adesione alle teorie
del libero scambio si tradusse così in accettazione di un patto neocoloniale informale con i nuovi referenti
internazionali. Le repubbliche fecero fatica ad inserirsi immediatamente e con profitto nel nuovo sistema
internazionale, non c’è dubbio che l’apertura economica e l’instaurazione di una relazione con una nuova
metropoli garantirono un miglioramento rispetto al passato (la GB).

L’organizzazione dello Stato, i modelli costituzionali e l’esercizio


del potere.
La principale questione dell’élite fu l’organizzazione dello Stato: fu scelta la forma repubblicana. Nel
periodo immediatamente successivo all’indipendenza prevalse il federalismo, ma i contrasti che
prontamente sorsero fra i protagonisti del processo di emancipazione e l’instabilità politica connessa al
caudillismo imperante spinsero a rivedere tale scelta e a percorrere la via dell’assetto unitario e
centralizzato.
Per quanto riguarda i modelli costituzionali, nell’area dell’America latina fecero proprie l’idea di sovranità
popolare e di nazione scaturite dalla Rivoluzione francese e la conseguente enunciazione dei diritti e delle
libertà individuali, ma seguirono il modello statunitense relativamente all’organizzazione statale e al
presidenzialismo. Il carattere liberale del costituzionalismo ottocentesco si tradusse nella codificazione dei
diritti individuali e nella separazione tra stato e chiesa ma mentre i primi continuarono ad essere tutelati
anche in seguito, l0importanza della secolarizzazione subì un’attenuazione.
le nazioni latinoamericane si sono sempre date e continuano a darsi costituzioni con uno scarsissimo grado
di flessibilità, il che ha finito per diventare concausa della loro eccessiva proliferazione, fenomeno
aggravante dalla pedante minuziosità presente nei testi, a partire soprattutto dalla metà del Novecento,
questa caratteristica le porta ad essere in breve tempo inattuali e di dover essere sostituite.
Sul piano dell’organizzazione politica e istituzionale, l’imperfetto equilibro fra i poteri, che gioca più a
danno del legislativo che del giudiziario, la cui indipendenza risulta comunque scarsamente tutelata.
L’esecutivo ha continuato ad allargare i propri poteri, che si configurano più ampi rispetto a quelli dei
tradizionali regimi presidenziali.
Per quanto riguarda i diritti politici, e in particolare l’esercizio del voto, questo diritto fece in genere leva sul
censo e per cui la partecipazione elettorale era ridottissima.
Inoltre, brogli, intimidazioni e violenze caratterizzarono a lungo le elezioni specie nelle aree rurali. Una delle
poche libertà che conoscevano i contadini era quella di vendere il proprio voto. Si creò così un circolo
vizioso che consentì al potente di comprare il suffragio e quindi venire eletto o far eleggere i propri
canditati, diventando ancora più potente e schiacciando ogni possibilità di opposizione. E anche quando il
notabile non aveva il controllo assoluto del territorio, la norma del voto palese agevolava azioni coercitive.
Non esistevano fino agli anni 60 dei raggruppamenti che potessero essere definiti partiti, mentre prevalsero
correnti che avevano come punti di incontro circoli e club. I due schieramenti erano espressione della
stessa classe sociale, anche se i liberali più legati agli ambienti urbani.

 Conservatori: si mostravano favorevoli al potere centralizzato e a indirizzi e valori derivanti dal


passato coloniale, si battevano per mantenere restrizioni legali e una società fortemente
gerarchizzata, diretta eredità del dominio spagnolo e portoghese, difendevano un certo ruolo dello
Stato anche in campo economico e glielo negavano nella sfera assistenziale e dell’istruzione,
attività demandate alla Chiesa vista come baluardo contro caos sociale e civile.
 Liberali: auspicavano ampie autonomie regionali e locali e l’abolizione dei privilegi legali di
determinati gruppi o istituzioni, militari e clero, e difende vano la sovranità popolare, i diritti
individuali e l’uguaglianza di fronte alla legge. Sul piano economico ritenevano che le leggi di
mercato garantissero una migliore allocazione delle risorse e del benessere più diffuso.
MA
I comportamenti delle due fazioni apparivano molto simili.

L’affermazione dell’economia di esportazione


A partire da metà del XIX secolo l’America latina entrò in una fase di crescita economica centrata sulle
esportazioni di materie prime, grazie alla capacità dei centri internazionali di assorbirle in grandi quantità,
rifornendo in cambio alla regione di beni manifatturati e offrendo capitali. L’inserimento nell’economia
mondiale poneva la necessità di far cessare il clima di instabilità politica determinato dal caudillismo sia per
poter garantire un quadro favorevole alla crescita della produzione, sia per attrarre gli investimenti esteri.
Era quindi necessario rafforzare il potere centrale, estendendolo sul territorio nazionale, il che spesso
venne ottenuto grazie a implicite forme di pattuizione che prevedevano la concessione di ampie autonomie
locali e la cooptazione dei caudilli nell’oligarchia fondiaria, classe che vantò a lungo più che un’egemonia un
monopolio nella gestione della cosa pubblica.
Si entrò in una fase di innovazione a cui si accompagna un aumento della popolazione. Questa crescita
de3mografica riguardò soprattutto i centri legati all’esportazione e le capitali. L’urbanizzazione non portò
ad un miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, che spesso continuarono a vivere in uno
stato di estrema povertà.
Sul piano economico, l’aumento del commercio internazionale non fu uguale in tutti i paesi. Cile, Argentina,
Brasile, Uruguay e soprattutto Cuba sono le nazioni dove crebbe maggiormente il commercio. Questa
ascesa delle vendite di prodotti agricoli e di allevamento si avvalse di capitali locali, inizialmente
l’investimento diretto nella sfera produttiva era scarso, ingenti furono gli investimenti nelle infrastrutture,
gli investimenti furono principalmente inglesi.

L’aumento delle esportazioni e l’integrazione del mercato mondiale non potevano essere sostenuti dal
modo di produzione in vigore al tempo dell’indipendenza. L’economia si era basata sul lavoro servile ma
vista in malo modo.
Per sopperire alla penuria di braccia si fece ricorso alla manodopera asiatica, ma la convinzione della classe
egemone che esistesse una sorta di ineliminabile indolenza dei nativi portò a cercare soluzioni più affidabili.
Fu questa la ragione del grande flusso migratorio proveniente soprattutto dall’Europa dall’ultimo quarto
dell’ottocento agli anni venti del 900. Il fenomeno incise notevolmente sul mercato del lavoro di alcuni
paesi.
L’emigrazione cambiò fisionomia sociale e demografica delle aree di arrivo, contribuì al popolamento di
zone di frontiera sino ad allora disabitate, all’economia d’esportazione, alla crescita delle opere pubbliche,
dell’edilizia, del settore dei servizi, del commercio e dell’industria. L’arrivo di contingenti fu agevolato da
una legislazione che li promuoveva e da una filosofia riassumibile nella formula Alberdi, il quale diceva che
popolare significava governare. Alla base di questa politica esisteva la convinzione che gli immigrati,
rappresentassero la civiltà a fronte della barbarie dei nativi e quindi in grado, di migliorare il tessuto sociale
e produttivo, stimolando l’operosità della preesistente forza lavoro.

L’ultimo decennio dell’ottocento e il primo del 900 si completa l’integrazione subcontinentale


nell’economia mondiale e si consolida il modello primario esportatore per effetto dello sviluppo industriale
di molte nazioni esterne alla regione, che garantì all’America Latina ampi sbocchi ai loro prodotti. Il mercato
dei capitali uf quello che meglio rappresentò il forte legame che nel periodo s’instaurò tra economia locale
e internazionale. A farla da padrone furono quelli inglesi ma nel breve volgere di alcuni decenni e in
maniera dirompente, anche gli statunitensi. A differenza di questi ultimi, gli investimenti europei e in
particolare britannici non si orientarono quasi mai verso i settori produttivi, ma si concentrarono sui
trasporti.
Se aumentò la dipendenza dall’esterno, questa fase registrò comunque l’avvio di un’industrializzazione in
alcuni paesi, tra cui brasile, Argentina, Cile e Messico.
Tuttavia, fino all’inizio del XX secolo il panorama industriale fu complessivamente ancora frammentato e
caratterizzato da una miriade di aziende tradizionali.

2. I primi fermenti di contestazione: 1900-28


Un’economia indifesa
A partire dal XX secolo la Gran Bretagna che aveva dominato il panorama latino-americano, cominciò a
subire la decisa concorrenza degli USA.
A differenza dell’imperialismo inglese, nel caso nordamericano il capitale di diresse verso i settori produttivi
di esportazione, cioè nell’industria mineraria e nelle culture agricole, ma non fu assente nei servizi, nelle
banche e nei trasporti.
La presenza ingombrante e visibile si registrò nella produzione di generi tropicali nello spazio
centroamericano e caraibico, dove la penetrazione fu tale da consentire di agire al di fuori e al di sopra dei
governi, figurandosi come uno Stato nello Stato  repubblica delle banane, per indicare una tipologia
privilegiata di investimenti in paesi dove questo prodotto cominciò a rappresentare la prima voce di
esportazione.
Nasce la United Fruit Company (1899) e questa rappresenta l’epilogo di un lungo periodo di lotte tra ditte
rivali per accaparrarsi le posizioni migliori all’interno dei vari paesi, con ampio ricorso alla corruzione,
rivolte di palazzo e violenze varie. La UFCO possedeva un universo di immense piantagioni (Santo Domingo,
Honduras, Guatemala, Panama e Cuba), divenne il principale datore di lavoro, esercitò funzioni di polizia
nelle sue zone operative, controllò praticamente tutta la rete ferroviaria locale esistente.
Nel panorama dell’intero subcontinente si registrò un piccolo elemento di discontinuità a partire dall’inizio
del XX secolo, quando cominciarono ad affermarsi alcuni comparti di produzione industriale, soprattutto
tessile, alimentare e calzaturiero ma anche meccanico e chimico, volte al soddisfacimento di una parte del
fabbisogno locale, con unità moderne e su grande scala, sebbene la regola fosse ancora rappresentata dalla
presenza di stabilimenti di piccole dimensioni e a carattere familiare con un numero di lavoratori
solitamente inferiore alla decina.
La prima guerra mondiale rappresentò, in questo campo, un importante momento di svolta: il drastico calo
degli scambi interoceanici obbligò infatti i paesi che avevano già una capacità installata a stimolare ancora
di più tale indirizzo, sperimentando così una prima industrializzazione per sostituzione delle importazioni
(ISI) che si affermò però solo dopo il 1929, infatti le dimensioni della produzione manifatturiera tra il 1915
e il 1919 e per tutti gli anni 20 non raggiunsero in nessun paese un livello tale da modificare il modello di
sviluppo fino ad allora seguito, che continuò a dipendere dalle esportazioni.
Il periodo successivo alla prima guerra mondiale ebbe altri effetti per l’America Latina, dando avvio a un
generale calo dello schema basato sulla crescita verso l’esterno, ad eccezione dei paesi esportatori di
petrolio e di alcuni minerali, prefigurando alcuni dei problemi che caratterizzeranno la crisi degli anni
trenta.
l’accentuazione della penetrazione statunitense rappresentò un altro elemento importante.

Accenni di incrinature
Vi sono degli elementi di discontinuità in campo sociale e politico che riguardò però pochi paesi.
La maggior parte delle nazioni rimase ancora ancorata ad un’economia agricola, in un quadro di arcaicità,
con presenza di latifondi arretrati e scarsamente produttiva, con manodopera in gran parte stanziale e
diffusione di lavoro servile o semiservile. La popolazione continuò ad essere ovunque massicciamente
rurale.
Tuttavia, l’avio di una diversificazione produttiva e la vivacizzazione del settore terziario, oltre ad agevolare
l’espansione del mercato interno e dell’economia monetaria, determinò un aumento dei servizi cittadini,
gettando le premesse della modernizzazione di qualche repubblica  determinerà nuova definizione e
ruolo dello stato.
Un altro elemento fondamentale è la crescita urbana, soprattutto nei centri maggiori dove si assiste ad un
miglioramento delle condizioni di vita generali.
Esiste una corrente che influenza le sorti politiche latinoamericane: il positivismo. I positivisti appoggiarono
soluzioni autoritarie, le uniche in grado, a loro avviso, di garantire la modernizzazione e approcci
tecnocratici. (Porfiro Diaz).
Questo provoca, soprattutto nei paesi più forti, uno scossone del quadro politico grazie all’emergere di
nuovi attori sociali e al rafforzamento di alcuni già esistenti MA le classi interessate al cambiamento
rimasero a lungo confinate in ambito urbano.
In alcune aree sorse una ridotta borghesia imprenditoriale ma erano troppo deboli e dipendenti dalla classe
dominante per rappresentare una minaccia. Industriali e operai, non dimostravano grande interesse per la
partecipazione politica nelle nazioni.
Una nuova categoria emergente fu il mondo studentesco che diede i primi scossoni al dominio assoluto di
un’oligarchia immobile sul piano politico, anche se i rari successi apparvero effimeri.
Le prime formazioni che sembrarono rompere con lo schema precedente furono quelle radicali, in
particolare in Cile e in Argentina. I radicali riuscirono ben presto a ottenere l’appoggio di classi e strati
esclusi dalla rappresentanza, prevalentemente urbani: ceti medi, intellettuali e liberi professionisti. Il
problema fu che esisteva una eterogeneità di fondo che rappresentava anche il limite di tale forze
determinando, da una parte una certa ambiguità di programma e, dall’altra, un preoccupante grado di
immobilismo nell’azione di governo.
Per quanto riguarda il movimento operaio mosse i suoi primi passi nei primi 30 anni del XX secolo: le
mobilitazioni risultarono limitate ma non assenti. Lo stato rimase totalmente assente sul piano normativo,
tranne in Messico e in Uruguay per la tutela dei lavoratori, infatti la filosofia imperante fu quella di
considerare la questione sociale come un mero problema di ordine pubblico, da risolvere con l’intervento
dei corpi di polizia e dell’esercito.
Nell’ultimo decennio del secolo, cominciano a diffondersi delle leghe di resistenza, organizzazioni
anticipatrici dei sindacati.
Tra le correnti ideologiche di sinistra presenti nel panorama dell’ottocento, i socialisti ebbero un’influenza
minore di quanto ne potevano avere gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari.
Ai sindacati assegnarono un ruolo di scuola rivoluzionaria e strumento di agitazione: l’arma per scardinare
lo stato borghese era lo sciopero generale. Questo spiega l’ondata di scioperi tra il 1917 e il 1919 e
ottennero le più importanti conquiste sul piano della rivendicazione dei diritti, ma queste furono annullate
nei decenni successivi.
Vi è anche l’apparizione di correnti marxiste, soprattutto a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo,
diffusione delle idee comuniste soprattutto nel Messico.

Tra vecchio e nuovo: meccanismi elettorali e partiti storici


Nel primo trentennio del Novecento si aprirono formalmente alcuni spazi nel sistema rappresentativo che
avrebbero potuto agevolare la rottura dell'esclusivismo oligarchico grazie soprattutto alla nuova normativa
elettorale, con la caduta di alcune restrizioni in termini sia di eleggibilità che di categorie legittimate a
esercitare il diritto di voto:
 Vennero meno i requisiti di censo e di cultura.
 Il divieto di riconferma del presidente in carica al termine del suo mandato o dopo due mandati
successivi.
 Si riammettono alle urne categorie come quelle dei militari e del clero.
 L'allargamento più significativo si ebbe, comunque, con il suffragio universale maschile, che tuttavia,
non includeva gli analfabeti che tagliava fuori la stragrande maggioranza degli uomini.
La base elettorale veniva assottigliata ancor di più dall’esclusione del suffragio femminile e dalla non
obbligatorietà del voto.
Gravissimo risultava il problema dei brogli e delle pressioni illecite, né ciò doveva sorprendere dal momento
che la popolazione era prevalentemente rurale e il proprietario terriero controllava totalmente, a livello
locale, manodopera, istituzioni, magistratura e forze dell'ordine. È ovvio, quindi, che proprio quando altre
classi sociali cominciarono a metterne in discussione la gestione monopolistica del potere, l'oligarchia
sfruttasse questa posizione di dominio per manipolare le liste elettorali e per esercitare le stesse forme di
coercizione del passato.
Se tra i conservatori non si registrarono novità sul terreno dell'azione di governo, nel partito liberale
cominciarono ad aprirsi alcune crepe che inaugurarono un nuovo stile, con tentativi, spesso falliti, di
promuovere un sistema di democrazia rappresentativa, una laicizzazione effettiva dello Stato e una prassi
interclassista ma spesso paternalistica.
Normalmente si trattò non dell'intero schieramento liberale bensì di sue frazioni, frequentemente legate ai
proprietari terrieri vincolati alla produzione d'esportazione, come nel caso dell'Ecuador, nazione in cui il
generale Eloy Alfaro, per tre volte presidente, cercò di avviare alla fine del XIX secolo una "rivoluzione
borghese" con il sostegno dei ceti medi, che incontrò, alla lunga, la feroce opposizione non solo di
conservatori e Chiesa ma anche di un'ala del suo stesso partito, spaventati tutti dall'impronta
modernizzatrice.
In Perù vi fu un’altra figura di tendenze riformiste Augusto Leguia che, portato a capo dell'esecutivo nel
1919 da una coalizione di partiti minori, tra cui un gruppo liberale, mise in atto una politica di cambiamenti
e di allargamento delle basi di consenso rivolta soprattutto ai ceti medi ma anche alle classi subalterne, con
impronta laica e indigenista. Tuttavia, la sua Patria Nueva si trasformò in un classico regime clientelare,
autoritario e personalistico.

I nuovi partiti: la sponda interclassista


Le prime formazioni che sembrarono rompere lo schema degli schieramenti tradizionali furono i partiti
radicali, anche se ebbero importanza soltanto in Cile e in Argentina, riuscendo ad ottenere l'appoggio di
classi e strati esclusi dalla rappresentanza: ceti medi, intellettuali e liberi professionisti, piccola borghesia,
impiegati pubblici, ma anche settori popolari, mentre a livello rurale riuscirono a catturare un ridotto
numero di affittuari e mezzadri. Esisteva, quindi, una eterogeneità di fondo, la quale rappresentò il limite di
tali forze determinando:
 Da una parte, una certa ambiguità programmatica.
 Dall’altra, un immobilismo nell'azione di governo.
Il fatto che l'unico punto di contatto andasse individuato nella loro dipendenza dal modello di crescita verso
l'esterno impedì che tali partiti proponessero riforme in grado di intaccare il modello in questione e di
mettere quindi in crisi l'oligarchia.
I partiti radicali non avevano in mente cambiamenti strutturali, ignoravano o quasi le tematiche sociali ed
economiche e aspiravano solo alla democratizzazione politica, a una partecipazione più ampia e alla
legittimazione del sistema di rappresentanza attraverso la regolamentazione dei meccanismi elettorali.
Si battevano, inoltre, per le libertà civili, per l'allargamento dell’istruzione pubblica e denunciavano
corruzione e clientelismo.
Il Cile fu la prima nazione a veder nascere, già nel 1861, un partito del genere, frutto di una scissione
liberale, che però solo alla fine del XIX secolo riuscì ad avere un qualche peso.
In Argentina ben più precoce fu l'assunzione di responsabilità di governo da parte dell'omologa formazione,
l'UCR (Union Civica Radical). Sorta nel 1891, anch'essa da oligarchie dissidenti, fece presto breccia sui ceti e
i settori che sostenevano questo tipo di partito e, in più, in un paese a forte presenza immigrata, presso i
discendenti di stranieri.
In Perù tutt'altro peso ebbe l'APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) che, insieme al successivo
fenomeno del populismo, rappresentò l'unico esempio di movimento politico latinoamericano che
mostrasse caratteri di originalità e non si rifacesse a modelli europei più o meno riadattati. Si trattò, infatti,
di una formazione che aveva un'ideologia elaborata a partire da riflessioni sulla realtà locale.

I primi passi del movimento operaio


Inesistenti o quasi le lotte rurali, nei primi trent'anni del XX secolo, le mobilitazioni operaie risultarono
limitate ma non assenti, malgrado lo scarso peso del settore industriale togliesse al proletariato capacità di
contrattazione, lasciandolo in balia di un padronato avido, pago dei profitti garantiti dallo sfruttamento
brutale della propria manodopera (di cui una quota significativa era composta da donne e bambini),
sottoposta a condizioni di lavoro massacranti e a orari interminabili per salari di fame.
In perfetta sintonia, lo Stato rimase quasi totalmente assente sul piano normativo, salvo in Uruguay e nel
Messico postrivoluzionario, paesi nei quali vennero varate leggi sul salario minimo, la giornata lavorativa di
otto ore, le pensioni di vecchiaia e la regolamentazione del lavoro femminile e minorile. Altrove, la filosofia
imperante fu quella di considerare la questione sociale come un mero problema di ordine pubblico, da
risolvere con l'intervento dei corpi di polizia e dell'esercito. In questa situazione, le prime organizzazioni che
cercarono di dare un po' di respiro alle classi popolari urbane furono le associazioni di mutuo soccorso che
si moltiplicarono negli anni ottanta e novanta, garantendo agli iscritti assistenza in caso di malattie,
infortuni sul lavoro ed eventualmente disoccupazione. Pur essendo composte da operai, tali strutture non
avevano una precisa connotazione di classe, anche perché le cariche direttive risultavano normalmente di
elementi di ceto medio e medio alto, sebbene non mancassero personaggi legati al mondo operaio,
soprattutto socialisti.
Nell'ultimo decennio del secolo, accanto a questi sodalizi cominciarono a diffondersi le leghe di resistenza
che riunivano su base cittadina lavoratori esercitanti lo stesso mestiere e che lottavano per miglioramenti
normativi e salariali. Si trattava già di organizzazioni anticipatrici dei sindacati veri e propri che, sorti alle
soglie del Novecento, accoglievano un numero di iscritti limitato, con alcune imporranti eccezioni come
l'Argentina e il Cile.
Delle tre correnti ideologiche di sinistra presenti nel panorama politico dalla fine dell'Ottocento:
 Cattolici rimasero decisamente sullo sfondo sino alla fine degli anni trenta.
 Socialisti ebbero un'influenza minore rispetto gli anarchici.
 Sindacalisti rivoluzionari ebbero, invece, un'influenza maggiore.
Come gli anarchici, i sindacalisti rivoluzionari ritenevano che la strategia elettorale del partito socialista
imbrigliasse la lotta di classe e la snaturasse. L'arma per scardinare lo Stato borghese doveva, invece, essere
lo sciopero generale a carattere insurrezionale.
Forte in Argentina (la nazione con il movimento operaio più significativo fino al 1930), in Uruguay, in
Messico, in Brasile e in Cile, questo indirizzo ideologico si diffuse poi in altri paesi. Slanci di mobilitazione si
registrarono più precocemente nelle aree in cui maggiore fu la presenza di immigrati europei. Non
casualmente, fu proprio nelle due ultime nazioni che nel 1901 e nel 1907 vennero promulgate leggi di
espulsione degli agitatori stranieri.
Tuttavia, né queste misure né la detenzione frequente di dirigenti, quadri intermedi e militanti né il
sequestro di periodici o la chiusura di sedi impedirono l'ondata di scioperi che investì gran parte
dell'America Latina tra il 1917 e il 1919, innescata dalla forte caduca dei salari reali ma anche dagli echi
della Rivoluzione russa.
Sul piano politico, le prime correnti marxiste si strutturarono in partito nell'ultimo decennio del XIX secolo.
Pur applicando schemi collaudati in realtà quali quelle europee e portando avanti idee di progresso sul
piano generale (legislazione sociale, laicità, allargamento dell'istruzione pubblica, suffragio universale,
riforma fiscale, parità di diritti tra uomo e donna), gli schieramenti socialisti finirono spesso per esser
continuisti sul terreno del modello economico. Le formazioni di questo segno risultarono inesistenti o
comunque ininfluenti in gran parte del subcontinente e sottoposte a continue tensioni scissionistiche.
In Argentina, il partito sorto nel 1896 ebbe un discreto seguito. Di orientamento moderato, fautore di
conquiste progressive da ottenere esclusivamente per via parlamentare, sacrificò la lotta sindacale a quella
politica.
In Cile fu diverso sia per origine sia per sviluppi. Dopo alcuni effimeri tentativi di far nascere un
raggruppamento di tal segno portati avanti sin dal 1898, nel 1912 fondarono il Partido Obrero Socialista
(POS) che, al contrario della formazione argentina, riuscì ad affiancare alla lotta politica quella sindacale,
divenendo una formazione decisamente di classe.
Maggiore peso e diffusione ebbero, soprattutto negli anni trenta, i partiti comunisti, che cominciarono a
sorgere dal 1919 (in Messico) e si proposero come avanguardia rivoluzionaria, fortemente gerarchizzata e
disciplinata. Praticamente assenti nelle campagne, vennero penalizzati dalla condizione di illegalità in cui si
trovarono confinati, che giustificò parzialmente lo scarso numero di iscritti salvo tra il 1935 e il 1948 a causa
del generale clima di antifascismo e democratizzazione affermatosi in quegli anni. Ma fu soprattutto
l’incapacità di elaborazione autonoma a ostacolarli e a impedire loro di interpretare la realtà
latinoamericana. L'applicazione burocratica di linee mutuate dall'esterno comportò una subordinazione
totale a Mosca e alle indicazioni della Terza Internazionale, che non riconosceva al subcontinente specificità
nazionali, assimilandolo alle aree coloniali e semicoloniali e insistendo, pertanto, sulla parola d'ordine
dell'antimperialismo e del carattere "feudale" delle società locali.

La Rivoluzione messicana
La vera rottura degli equilibri si verificò con la Rivoluzione messicana. Alla fase di lotta armata (1910-1917)
ne seguì una prevalentemente politica, caratterizzata da un lungo processo di riassestamento (dal 1917 fino
agli anni 30), ma tutto parte dal governo del generale Porfiro Diaz, durata dal 1876 sino allo scoppio della
rivoluzione. Diaz era visto come garante dell’ordine e della stabilità e promotore di una modernizzazione:
aprì il paese ai capitali stranieri e riuscì a portare a compimento un imponente piano di opere pubbliche e
infrastrutturali.
Instaurò un regime autoritario e corrotto, estese la repressione a ogni individuo o gruppo sociale che
rappresentasse un ostacolo per l’esercizio di un potere accentratore.
Durante il regime di Diaz, Parlamento e organismi giudiziari si ridussero a mere appendici dell’autorità
presidenziale, mentre i partiti, quando non venivano posti nell’illegalità, conoscevano una ferrea tutela. La
stabilità fu ottenuta attraveros un’abile combinazione di ricompense materiale e prebende politiche a
notabili regionali e mediante il controllo delle competizioni elettorali e alla censura della stampa. Il regime,
si avvalse poi della collaborazione di un gruppo ristretto di tecnocratici e intellettuali strettamente legati
all’ideologia positivista.
La decisione di Diaz di ricandidarsi alle elezioni del 1910 scatenò la protesta degli oppositori, guidata da
Francisco Madero che prometteva democrazia, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, e una più
equa distribuzione delle terre. La vittoria fraudolenta di Diaz, spinse Madero a lanciare un piano con cui
chiamava il popolo alla rivolta per il ripristino della legalità.
Iniziava una lunga fase rivoluzionaria, che già alla fine del 1910 permise ad alcuni ribelli come Francisco Villa
(Pancho) e altri ribelli di controllare il territorio.
In uno dei territori, la sollevazione fu guidata da Emiliano Zapata che formò un esercito facendo leva sul
malcontento diffuso per il latifondismo e l’aspirazione di una riforma agraria.
Dopo la capitolazione di Diaz, le nuove elezioni si tennero nel 1911 e videro la vittoria di Madero che fu
aspramente contestato per la sua politica giudicata fin troppo rinunciataria nei confronti dell’establishment
porfirista. Fu allora che Zapata mise in atto il suo piano che prospettava l’esproprio e la distribuzione delle
terre accaparrate illegalmente dai grandi proprietari, l’aumento dei salari e l’allargamento dei diritti.
Vi fu un colpo di stato in cui Madero venne ucciso. Huerta.
La lotta si trasformò in guerra civile e non rimase confinata in alcune zone del paese ma coinvolse in tutti gli
strati sociali non legati al precedente regime autoritario ma anche indios, piccoli proprietari terrieri,
minatori, operai e ceti medi urbani.
Huerta fu costretto a fare i conti con l’ostilità di Wilson a causa dell’origine antidemocratica del suo
governo e la sua preferenza nei confronti degli inglesi.
Il paese era allo sbando, collassato dal punto di vista economico, afflitto da una crescente disoccupazione e
dalla caduta dei salari in preda ad una lotta violenta per il potere tra i vari leader rivoluzionari.
La Convenzione di ottobre nel 1914 promosse una debole intesa tra essi, cercando addirittura di rendersi
autonoma ed eleggere un presidente provvisorio ma il nuovo governo non funzionò.
Con il passare del tempo, Caranza riuscì a far convergere intorno a sé consistenti forze e interessi, a suo
favore giocò anche il mutato atteggiamento degli USA  cambio dovuto al tentativo dei tedeschi di
insinuarsi tra le tensioni dei due paesi in modo da acutizzarle e distrarre gli USA dall’intervento militare
nella IWW.
Il disegno di Berlino non ebbe modo di realizzarsi perché l’attenuazione della diffidenza nei confronti di
Carraza, provocò la ritorsione di Pancho Villa, il quale lo fece saltare.
Così dopo aver imposto prestiti forzosi alle compagnie minerarie statunitensi nelle aree da lui controllate e
fatto fucilare alcuni ingeneri nordamericani, nel 1916 invase il New Mexico. Questo provocò la reazione
USA che fece una spedizione punitiva.
L’elezione dell’assemblea che approva nel febbraio 1917 la Costituzione ed eleggono Caranza presidente
della Repubblica e Wilson riconobbe il nuovo governo.
La costituzione è innovativa perché manifesta la volontà di dare allo stato nuove funzioni economiche e
sociali.
Nonostante ciò sul piano interno continuarono le antiche e recenti tensioni e le lotte contadine
continuarono per oltre un decennio a causa della lentissima applicazione della riforma agraria e il
malcontento della popolazione.

Le occupazioni militari statunitensi e la guerriglia di Sandino


Dalla fine del primo decennio del Novecento, Washington affiancò alla prassi inaugurata da Roosevelt,
volta a fornire il più ampio appoggio agli investimenti e al commercio statunitensi, specie nell'America
centrale e caraibica, una strategia ricordata come "diplomazia del dollaro". Approfittando della supremazia
ormai raggiunta, si cominciò così a utilizzare il capitale per esercitare nuove pressioni sui governi. Le
difficoltà attraversate da molti Stati consentirono alla Casa Bianca di ottenere la gestione delle loro finanze
e dogane in cambio di prestiti condizionati con i quali saldare i propri debiti e risollevare le economie
nazionali.
Fu quanto avvenne in Honduras dove, nel 1911, un consorzio di banche concesse un prestito con cui pagare
i creditori inglesi, garantendosi in cambio l'amministrazione delle entrate doganali.
In Nicaragua, invece, il controllo delle dogane nel 1911 fu preceduto da invio di navi, sbarco di marines,
destituzione del presidente e successiva presenza nel paese di un piccolo contingente militare.
Sia che si ricorresse alla forza sia che si facesse affidamento solo sui meccanismi economici, l'operazione
veniva condotta mettendo in risalto l'aspetto civilizzatore dell'intervento. Tale atteggiamento trovò la sua
massima espressione nel presidente Wilson, assolutamente convinto di una vocazione pedagogica degli
Stati Uniti volta a preparare all'autogoverno popoli sui quali esercitavano la loro tutela. La diplomazia del
dollaro venne sostenuta dalla proclamata volontà di promuovere il benessere delle nazioni che la subivano.
Pur mostrando l'intenzione di trattare tutti i propri vicini su un piano di uguaglianza. Wilson nutriva, in
realtà, un'enorme diffidenza per la cultura politica dei latinoamericani. Paradossalmente la sua visione etica
lo spinse a un uso della forza ancora più frequente che in passato, il che finì per servire a difendere
investimenti e interessi del suo paese nel subcontinente.
Negli anni venti, gli Stati Uniti pur non facendosi più promotori di interventi armati continuarono a
mantenere truppe in America Latina. Più di ogni altra cosa le amministrazioni repubblicane allora al potere
a Washington cercarono di privilegiare l'arma dell'imperialismo economico, altrettanto invasiva ma più
discreta. L'invio di forze militari per obbligare i governi locali a determinate scelte fu tuttavia un'opzione
che non venne mai meno e sarà anzi proprio un'operazione del genere a provocare la più imponente serie
di reazioni antistatunitensi.
 La fine dell'occupazione del Nicaragua decisa dalla Casa Bianca nell'agosto del 1925 si rivelò, infatti,
illusoria e già l'anno successivo Washington intervenne per costringere alle dimissioni un generale
golpista che aveva rovesciato il governo d'intesa tra i due partiti tradizionali sorto dopo l'evacuazione
dei marines.
 I liberali però non riconobbero il presidente imposto dagli Stati Uniti, iniziando una lotta armata contro
l'esecutivo.
 Nonostante il sostegno di Washington, i ribelli non vennero sconfitti e conseguentemente, nel 1927, si
procedette ad un accordo con i vertici militari dei liberali che assicurava al loro comandante la vittoria
nelle elezioni dell'anno successivo se i rivoltosi avessero consentito al governo in carica di terminare il
mandato.
 L'intesa fu denunciata solo da Augusto César Sandino che, con un gruppo ristretto di uomini, tenne in
scacco i marines statunitensi ben equipaggiati ed armati, conquistando l'appoggio della popolazione
dando alla sua lotta una connotazione esclusivamente antimperialista.
Pur accennando vagamente alla necessità di conquiste sociali, Sandino non aveva una posizione politica
definita, l'"Esercito difensore della sovranità nazionale", formato prevalentemente da contadini e artigiani,
si occupò dell'organizzazione civile e della produzione agricola cooperativa.
 Le sconfitte subite all'inizio, indusse i rivoltosi a mutare tattica, adottando quella della guerriglia, con
imboscate e ritirate immediate, attacchi a colonne in movimento e a guarnigioni nei villaggi.
 Gli agguati nella boscaglia, la rapidità di spostamento, impedivano l'individuazione e lo sterminio ed i
marines si trovarono in difficoltà inducendo la Casa Bianca ad annunciare il ritiro delle truppe dopo le
elezioni del 1932, che diedero la vittoria a un esponente liberale.
 Venendo a mancare, con l'evacuazione dei nordamericani, i motivi della sua lotta, Sandino siglò un
accordo di pacificazione nazionale con il nuovo presidente, che prevedeva la consegna delle armi in
cambio dell'impegno governativo al rispetto della Costituzione e alla difesa della sovranità anche
economica del paese.
 In seguito, tuttavia, la Guardia Nazionale, perseguitò e represse duramente gli ex ribelli e, nel 1934 rapì
e assassinò lo stesso Sandino. La sua lotta, comunque, travalicò i confini nazionali e si trasformò in
elemento unificante per le popolazioni latinoamericane.

Cap. III, L'irruzione del nazionalismo: 1929-


45
Il 1929 e la crisi del modello liberista
Il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929 e la successiva depressione mondiale si tradussero per la
regione nella drastica contrazione del commercio internazionale e in un collasso dei prezzi delle materie
prime esportate.

Particolarmente penalizzati furono, soprattutto all'inizio, i paesi che vendevano all'estero beni minerari –
Cile, Bolivia e Messico – o prodotti agricoli tropicali – Brasile, Ecuador, Perù e tutta l'America centrale –
mentre più modesta fu la riduzione del volume e del valore delle esportazioni per Argentina e Uruguay, che
immettevano sul mercato europeo beni più essenziali quali cereali e carne. Vi furono, infine, paesi come il
Messico e il Venezuela, produttori di petrolio, per i quali la caduta risultò lieve. Grave si rivelò la crescita
del debito pubblico, accentuata dalla contrazione delle entrate fiscali così come il devastante aumento del
debito estero.

La depressione del 1929 mise così in crisi lo schema di crescita verso l'esterno, favorendo l'avvio di
un'apprezzabile industrializzazione sostitutiva delle importazioni, destinata a rafforzarsi tra il 1940 e la
metà degli anni cinquanta, anche se la ripresa delle economie latinoamericane non sarebbe stata possibile
se non si fosse registrato un recupero, sia pure parziale, del settore esportatore.

Nei fatti, a partire dal 1932, quasi tutte le nazioni del subcontinente conobbero un incremento degli
sbocchi esteri, grazie soprattutto alle misure adottate a difesa dei prodotti tradizionali e al miglioramento
delle ragioni di scambio. In tale ripresa ebbe un ruolo rilevante la Germania, che negli anni trenta aumentò
decisamente il suo peso come partner commerciale del subcontinente, aprendo la prassi degli scambi su
base di compensazione (sostanzialmente scambio di prodotti).

Anche in termini di prodotto interno, l'uscita dalla crisi cominciò quasi ovunque intorno al 1932 e, pur
espandendosi edilizia, trasporti e varie colture agricole non legate alle esportazioni, fu l'industria a
rappresentare la grande novità del periodo. Nei paesi dove ancor prima del 1929 esisteva un tessuto
manifatturiero di una qualche dimensione (Argentina, Brasile, Messico, Cile, Perù, Colombia e in misura
minore Uruguay), l'industrializzazione, seppur con intensità differente in ciascuno di essi, cominciò a
modificare anche la struttura delle importazioni, composte sempre meno da beni di consumo e sempre più
da quelli intermedi e di capitale.

Alla vigilia della guerra, comunque, il comparto secondario continuava a essere normalmente modesto e
incapace di superare le sue inefficienze, derivanti, ad esempio, da scarsità di energia elettrica, penuria di
lavoro qualificato, ristretto accesso al credito. Questa situazione spinse alcuni governi a intervenire in
favore dell'industria, anche con la creazione di organismi ad hoc. I benefici di tali politiche si evidenziarono,
però, solo negli anni quaranta, benché in alcune circostanze si assistette, all'intervento diretto del capitale
pubblico nella produzione, come in Messico e Bolivia con la nazionalizzazione dell'industria petrolifera, e
in Uruguay con la proprietà statale estesa al settore cementifero.

Non in tutte le nazioni si registrò l'abbandono del liberismo e la conseguente ricerca di modelli di sviluppo
alternativi, ma laddove ciò avvenne, la scelta ricadde sull'intervento diretto dello Stato sulle variabili
economiche e sulle relazioni sociali, al fine di garantire, oltre al risanamento delle economie nazionali, un
certo grado di stabilità.

La maggior parte dei paesi della regione diversificò i partner commerciali, con in primis, la Germania, ma
con preferenza per gli Stati Uniti, la cui presenza, crebbe anche nelle altre repubbliche. Altra conseguenza
della grande crisi fu la tendenza di passare da una forte dipendenza internazionale a un isolamento
economico, il che permise ai governi di favorire la ripresa, mettendo al riparo la produzione e i consumi
interni.

Superata a fatica la crisi del 1929 e avviato un nuovo modello di sviluppo, nel giro di un solo decennio la
regione dovette affrontare altre difficoltà; lo scoppio della Seconda guerra mondiale recise, infatti, gran
parte dei profondi legami economici che ancora esistevano con l'Europa. La diminuzione degli scambi con i
paesi europei fu però compensata, a partire dal 1941, da una crescita significativa di quelli con gli Stati
Uniti, la cui economia rimase, durante la guerra, l'unica in grado di ricevere i prodotti della regione. Ma se
le esportazioni latinoamericane verso il vicino del nord crebbero, quelle statunitensi verso il sud del
continente aumentarono ancor più, tanto da determinare un passivo considerevole nella bilancia
commerciale.

La lotta contro le potenze fasciste indusse la maggior parte delle nazioni a intensificare le spese belliche,
ricorrendo soprattutto all'aiuto statunitense.

Altra rilevante voce d'uscita nel periodo fu poi quella della spesa sociale con programmi di previdenza,
introdotti, in molte realtà, per la prima volta. Nel complesso, l'aumento della spesa governativa,
accompagnata da una diminuzione delle entrate, produsse un consistente deficit pubblico, impossibile da
colmare con i prestiti internazionali.

Il panamericanesimo negli anni trenta


Già nel 1933, con l’ascesa alla presidenza di Roosevelt, le relazioni con gli Stati Uniti si erano rinsaldate,
modificando i rapporti con l'America Latina ed inaugurando una linea d'azione – poi nota come di "buon
vicinato" e basata sull'impegno di non ricorrere alla forza. Tale condotta, era comunque legata alla
convinzione che l'egemonia politica di Washington risultasse rafforzata, potendo tra l'altro poggiare, su
Forze Armate ed esecutivi autoritari fedeli, in grado di garantire la difesa dei suoi interessi. Il nuovo
indirizzo scaturiva dal desiderio di tonificare il sistema panamericano, attenuando le diffidenze dei governi
della regione e strutturandolo come organizzazione continentale unanime.

Il nuovo corso trovò attuazione nella conferenza panamericana del 1933 a Montevideo, dove gli USA
sottoscrissero una proposta di accordo con cui i paesi membri si impegnavano a non intervenire negli affari
interni di un altro Stato. Successivamente, nella conferenza panamericana del 1938 di Lima, venne
approvata una risoluzione che enunciava la solidarietà tra le repubbliche del continente prevedendo, in
caso di minaccia contro la sicurezza o l'integrità territoriale di un paese membro, il ricorso alla
consultazione purché richiesta anche da una sola nazione.

Il 1929 e la crisi del modello liberale


Mettendo in discussione la validità del modello economico, la crisi del 1929 screditò quello politico che
stava alla base del liberismo, incrinando l'egemonia delle oligarchie sulla società e avviando in gran parte
dell'America Latina un processo che avrebbe portato all'affievolimento della dipendenza dei ceti più
moderni da quelli tradizionali. Tutto ciò si tradusse, soprattutto nella prima metà degli anni trenta, in
instabilità sociale e comportò la ricerca di nuove risposte.

Sul piano politico, fu caratterizzato dal logoramento delle strutture di democrazia rappresentativa,
percepite come semplici strumenti del dominio dell'oligarchia che le aveva instaurate. Contro il liberalismo
era schierata la Chiesa e i vertici delle Forze Armate, che rafforzeranno la loro tendenza al protagonismo
politico ma manifestando ora un interesse non infrequente per disegni di modernizzazione e soluzioni
nazionaliste. Le spinte in questa direzione erano, peraltro, sufficientemente diffuse e appelli all'identità
nazionale e all'armonia del corpo sociale risultarono temi ricorrenti dell'offensiva antiliberale.

Diverse nazioni in campo politico non proposero indirizzi nuovi, affidandosi piuttosto a regimi autoritari
aventi l'obiettivo di impedire che le difficoltà di quegli anni si traducessero in pericolose manifestazioni di
malcontento, con conseguenti rovesciamenti di governo. In tal senso si trattò di dittature di stampo
esclusivamente patrimoniale, dove il potere serviva ad arricchire chi se ne impadroniva, come la dinastia
dei Somoza in Nicaragua (1937-79).

La nascita di partiti che si richiamavano alle esperienze totalitarie europee fu un'altra delle conseguenze
della crisi del liberismo e del liberalismo innescata dal 1929, dal momento che tali regimi del Vecchio
Continente sembrarono poter proporre soluzioni alternative (e nazionaliste) ai modelli imporrati dal mondo
anglosassone e individuati come responsabili del tracollo economico e del fallimento politico.

Così fecero la loro comparsa partiti che si richiamavano al fascismo e al nazismo come in Cile, che aggregò
soprattutto cileni di origine germanica, ed in Messico ispirati alla Falange franchista. Entrambi i movimenti
ricevettero il sostegno del mondo cattolico e dei gruppi conservatori tradizionali, ma anche di una parte
degli ambienti imprenditoriali, che ne apprezzavano l'opposizione alle sinistre e la difesa dei valori della
famiglia, dell'ordine e della proprietà privata. Malgrado ciò, si trattò sempre di formazioni deboli ed
effimere. Se le formazioni di questo segno non rappresentarono un pericolo concreto in nessuna nazione,
maggiori preoccupazioni suscitò il favore manifestato da qualche forza di governo nei confronti di Adolf
Hitler e Mussolini, specie nella seconda metà del decennio.

L'affiorare del populismo


Gli anni trenta videro affiorare in America Latina un movimento populista diverso dai populismi sorti, ad
esempio, in Russia e negli USA. Nonostante l’idea che questi regimi fossero da assimilare al fascismo, si
trattò invece di esperienze diverse, in cui i governi si proposero di riempire un vuoto politico riuscendo ad
integrare le masse, sino ad allora escluse, ottenendo un profondo allargamento della cittadinanza politica
e, al contrario dei regimi totalitari europei, una base di legittimazione centrata sulle masse popolari urbane.

Si procedette così ad una redistribuzione del reddito e ad una politica assistenziale, in particolare il
proletariato urbano e gli strati inferiori dei ceti medi. Questa prassi di concessioni dall'alto, consentì ai
regimi di presentare se stessi come realizzatori della vera democrazia – quella che aveva come obiettivo il
raggiungimento della giustizia sociale – contrapposta alla democrazia di facciata, quella politica.
Il leader traeva la sua legittimazione dal rapporto diretto con le masse, facilitato dal fatto che la crisi del
1929 portò lo spostamento nelle città di lavoratori rurali, i quali, privi di tradizioni di lotta, accettavano
come legittima la personalizzazione del potere e del paternalismo, rappresentando il popolo con
un'immagine di vera e propria famiglia, al cui interno ogni ceto coesisteva in armonia sotto l'ombrello
protettivo dello Stato.

A tali regimi, un appoggio decisivo venne – oltre che dalle Forze Armate e dalla Chiesa per la difesa dei
valori cattolici e la lotta al comunismo – dagli imprenditori industriali, dalla piccola borghesia e dai ceti
medi, i quali sfruttarono la crescita della pubblica amministrazione.

Il primo esempio di populismo si registrò in Brasile con Vargas, nominato nel 1930 capo provvisorio
dell'esecutivo in seguito a una rivoluzione e successivamente eletto presidente costituzionale dal
Parlamento. Dopo aver fatto leva sul timore suscitato da un tentativo di rivolta comunista, nel novembre
del 1937, con il pieno sostegno dei militari e della Chiesa, instaurò la dittatura dell'Estado Novo, mettendo
fuori legge tutti i partiti. Questo periodo fu caratterizzato da industrializzazione, corporativismo,
integrazione nazionale, aumento del bilancio militare, crescita della burocrazia e delle agenzie governative.
Ma l'elemento che garantì il più convinto sostegno fu la politica sociale, di cui si avvantaggiò gran parte
della popolazione urbana, con allargamento del sistema pensionistico e di previdenza, regolamentazione
del lavoro femminile e minorile, concessione delle otto ore, obbligo di indennizzo per licenziamenti senza
giusta causa, introduzione di un salario minimo.

Caratteristiche simili presentò in Ecuador con Velasco Ibarra. Asceso alla presidenza nel 1934 e poi nel
1944, cercò di schiacciare i partiti a favore di soluzioni dittatoriali, avendo conquistato, attraverso la
gestione del potere, quella base popolare che gli permise di portare avanti la classica politica di
compromesso tra vari soggetti, svincolato da ogni canale politico tradizionale. Rispetto al varghismo, il
populismo ecuadoriano poggiò su sottoproletari e lavoratori marginali più che sulla manodopera di
un'industria che stentava a decollare.

Le soluzioni riformiste
Le difficili condizioni create dalla crisi del 1929 determinarono un po' ovunque un aumento delle agitazioni
sociali, ma, salvo nel caso dei regimi populisti e di poche esempi dei governi progressisti, la risposta fu quasi
esclusivamente repressiva, sollecitata da un'imprenditoria sempre pronta a innalzare rigide barriere di
intransigenza. La situazione più drammatica fu vissuta dai lavoratori rurali impiegati nell'economia
d'esportazione per la drastica cauta di livelli e prezzi e per la scarsa protezione offerta loro delle stesse
forze riformiste. Soltanto in Messico essi furono realmente tutelati dalla politica governativa; altrove
vennero lasciati, privi di ogni diritto, nella loro atavica condizione di minorità e sudditanza nei confronti
delle oligarchie, vittime più di una volta della violenza delle Forze Armate.

Nella sfera del riformismo, oltre alle esperienze populiste, due percorsi emersero con prepotenza: quello
messicano e quello cileno.

In Messico, dopo un ventennio di politica postrivoluzionaria, l'ascesa alla presidenza di Cardenas (1934-40)
segnò una svolta drastica. Egli non solo puntò sulla protezione dell'industria locale e intervenne in alcuni
settori di pubblico interesse, ma riuscì a istituzionalizzare la rivoluzione stabilendo un forte legame tra lo
Stato e le masse, spinte a identificarsi con il primo grazie a una serie di riforme che diedero stabilità al
paese e popolarità all'esecutivo e alla rivoluzione stessa. Lo slancio progressista del Messico nella seconda
metà degli anni trenta ebbe anche una proiezione internazionale, determinando un aumento del consenso
verso Cardenas, accresciuto ulteriormente dalla questione petrolifera.
La svolta dei partiti comunisti
I rivolgimenti economici e sociali determinarono una crescita dei sindacati urbani e dei loro affiliati. Il
fenomeno fu particolarmente evidente nei regimi populisti ma riguardò anche paesi con governi autoritari
di destra e ancor più quelli a gestione democratica. In entrambe queste situazioni si registrò l'aperta crisi
dell'anarchismo e dell'anarcosindacalismo a favore del socialismo, laddove esso era concretamente
presente, e del comunismo.

Sul fronte marxista, i partiti socialisti scomparvero o divennero insignificanti quasi ovunque, tuttavia in Cile
nel 1933 si riuscì a porre finalmente termine alla polverizzazione del passato riunendo in unico partito le
varie piccole formazioni sorte dallo scissionismo precedente. Tale organizzazione, pur schierandosi
decisamente a sinistra, cercò di penetrare tra un ceto medio e una piccola borghesia che la crisi del 1929
aveva spinto alla radicalizzazione. Questa formazione concorse alla creazione del Fronte popolare nel 1936,
insieme ai comunisti. L'alleanza venne resa possibile dal ribaltamento degli indirizzi che seguirono a livello
mondiale in ottemperanza alle direttive della Terza Internazionale.

Al di là dell'eccezione del Brasile – dove il Partito comunista tentò, nel 1935, uno sciagurato colpo di mano
armato – la strategia degli altri schieramenti di questo segno in America Latina fu volta alla lotta pacifica e
alla formazione di Fronti popolari. Tale linea spesso non ebbe successo per l'assenza di interlocutori validi o
per il rifiuto a simili aperture.

Il periodo bellico rappresentò una fase di crescita per la stragrande maggioranza dei partiti comunisti
nell'intera America Latina.

La Seconda guerra mondiale


Dalla fine degli anni trenta gli Stati Uniti s'impegnarono strenuamente per persuadere tutte le altre
repubbliche del continente ad allinearsi alle loro posizioni. Fondamentali in tal senso risultarono le
conferenze panamericane, a partire da quella di Panama nell'autunno del 1939, da cui scaturì l'impegno
alla cooperazione economica e una dichiarazione congiunta di neutralità.

Avendo al centro gli stessi temi (neutralità, salvaguardia della pace nel continente e collaborazione
economica), nel luglio del 1940 si tenne all'Avana un'altra conferenza. Nonostante le resistenze
dell'Argentina – e in parte del Cile – si giunse alla stesura dell'Atto dell'Avana, che stabiliva la creazione di
un comitato di emergenza che si sarebbe riunito su richiesta di un qualsiasi paese firmatario e avrebbe
assunto l'amministrazione di un possedimento attaccato o minacciato. In caso di pericolo, una o più
repubbliche potevano agire senza attendere la convocazione del comitato.

Non mancarono paesi che manifestarono aperte resistenze, in particolare:

 Argentina che con circospezione voleva mantenere la neutralità in chiave antistatunitense reputando
probabile la vittoria nazista.
 Brasile, dove Vargas, dopo avere a lungo fiancheggiato con il fascismo e averne imitato qualche
realizzazione, decise di schierarsi opportunisticamente con gli Stati Uniti in cambio di importanti
vantaggi economici per il paese.
 Cile restio a interrompere i rapporti con la Germania con la quale esisteva un legame di lunga data.
La svolta vera si registrò dopo Pearl Harbor e l'ingresso in guerra degli Stati Uniti. Tutte le nazioni a nord
dell'equatore (ad eccezione di Colombia e Messico che ruppero soltanto le relazioni diplomatiche)
dichiararono guerra ai paesi dell'Asse, mentre le altre si limitarono a esprimere la loro solidarietà.

Con queste premesse, nel 1942 si tenne a Rio de Janeiro una nuova conferenza panamericana. Washington
non riuscì a ottenere che la rottura delle relazioni diplomatiche con i paesi dell'Asse da parte degli Stati che
ancora non lo avevano fatto venisse dichiarata obbligatoria, dovendosi accontentare di una semplice
raccomandazione. La conferenza esortò poi a interrompere tutti i rapporti economici con Germania,
Giappone e Italia, nonché ad aumentare la produzione di materiali strategici.

Lo scoppio del conflitto in Europa servì anche a far superare le divergenze tra il Messico e la Casa Bianca, il
quale dichiarò lo stato di belligeranza contro Germania, Italia e Giappone nel 1942. Ma il principale
contributo fu rappresentato dalla firma di un accordo con Washington con cui il governo messicano si
impegnò a garantire un flusso continuo di manodopera (per lo più agricola) per supplire alla carenza di
braccia determinata dalla chiamata alle armi di lavoratori statunitensi.

Molto più coinvolto sul piano militare risultò il Brasile: l'affondamento di alcune navi, soprattutto
mercantili, spinse Vargas a dichiarare guerra, nell'agosto del 1942, alla Germania e all'Italia (e non al
Giappone). A quel punto, convinti che un intervento diretto nel conflitto avrebbe favorito il rifornimento di
nuovi armamenti e rafforzato la posizione del paese nel subcontinente, gli alti ufficiali e Vargas decisero di
inviare sul fronte di battaglia un corpo di spedizione facendo del Brasile l'unica nazione latinoamericana a
mandare truppe.

Tutte le altre repubbliche dell'America meridionale dichiararono guerra solo a partire dal 1943, ma molte
lo fecero nel 1945. Nell'intera regione, l'adesione alla causa alleata, il più delle volte scaturì da un puro
calcolo opportunistico. Forze politiche e sociali in precedenza neutraliste, se non filofasciste, invocarono,
soprattutto dopo la conferenza di Rio, la rottura delle relazioni diplomatiche con le potenze dell'Asse per i
possibili vantaggi economici e per una collocazione, dopo la guerra, nel campo dei vincitori. Del resto, fu
l'atteggiamento stesso di Washington a risultare strumentale accettando, senza preoccuparsi
dell'orientamento politico, la collaborazione di qualsiasi regime purché aderisse alle sue posizioni
internazionali.

Nel 1945 si tenne a Città del Messico l'ultima conferenza panamericana in tempo di guerra che stabilì, che
un attacco contro uno Stato americano era da considerarsi un'aggressione contro tutti i paesi membri e che
la pace e la democrazia dovevano rappresentare la linea guida nei rapporti tra le nazioni del continente.

Capitolo IV ,Tra guerra fredda e sbocchi


rivoluzionari: 1946-69
I fattori internazionali
Dopo Pearl Harbor, la scelta di campo a fianco degli Stati Uniti ebbe profonde conseguenze e favorì una
fase di democratizzazioni. L'adesione dei vari governi alla causa degli Alleati suscitò attese di cambiamenti
alimentate dalla mobilitazione di una parte consistente dell'opinione pubblica, sotto la spinta dei ceti medi
urbani e dell'intellettualità. La situazione mondiale spinse Washington a far risplendere con la luce della
democrazia i governi di un'area ormai sotto la sua totale egemonia.

Sin dal periodo bellico, gli Stati Uniti elaborarono una sorta di strategia della seduzione nei confronti delle
repubbliche latinoamericane.

Nel 1946 e nel 1947 si svolsero, in parecchie nazioni, elezioni che sancirono un'affermazione senza
precedenti di regimi formalmente inattaccabili sul piano istituzionale, mentre si delineò, al contempo, un
clima di mobilitazioni sociali che favorì uno spostamento a sinistra del quadro politico registrando un forte
attivismo, che si espresse, oltre che con ondate di agitazioni, con il rafforzamento del mondo sindacale e
una maggiore vivacità rispetto al passato delle assemblee parlamentari. La cultura politica democratica non
ebbe, però, il tempo di consolidarsi; già a partire dal 1947, fattori internazionali e interni determinando un
crescendo di prassi autoritarie, di colpi di Stato, di dittature.

In questo processo, un ruolo importante ricoprirono gli USA. Questa svolta ottenne il plauso (quando non
fu incitata) della Casa Bianca, giacché negli anni della guerra fredda esecutivi a connotazione conservatrice
o decisamente reazionaria vennero percepiti come più affidabili per tutelare gli interessi economici, politici
e strategici degli Stati Uniti. Ciò si tradusse nella chiusura di molti o tutti gli spazi del movimento operaio
ma persino nell'insofferenza verso qualsiasi espressione di dissenso. Fu in tal modo evidente quanto la
rivalità tra le due superpotenze avesse ripercussioni in America Latina. Così, la Casa Bianca cominciò a
sostenere i regimi autoritari.

Nei fatti, ormai l'America Latina rivestiva un peso decisivo non solo sul piano commerciale e degli
investimenti ma anche nella strategia globale degli Stati Uniti in termini di sicurezza emisferica.

Alla richiesta di aiuti sulla falsariga del piano Marshall per l'Europa, Washington rispose solo con prodigalità
di consigli e ammonimenti, volti in genere a far promulgare normative in grado di attirare capitale privato
dall'estero. Il continente veniva usato come pedina nello scontro con Mosca.

L'immissione dell'area nella guerra fredda fu sancita nel 1948 dalla conferenza panamericana di Bogotá, in
cui venne approvata una risoluzione contro il comunismo internazionale, giudicato incompatibile con il
"concetto di libertà americana'', il che avrebbe consentito alla Casa Bianca di intervenire anche per
rovesciare governi eletti se avesse ritenuto che fossero troppo indulgenti nei confronti di sinistre e
sindacati.

Sul piano economico, i rapporti tra le due parti furono meno agevoli. Dal secondo dopoguerra agli anni
settanta il modello di sviluppo basato sulla sostituzione delle importazioni entrò nella fase di piena
applicazione, penalizzando l'entrata di molti prodotti industriali dall'estero. Dopo il 1946, l'area si era
trovata ad affrontare più di un ostacolo, tra cui la drastica riduzione di aiuti da parte di Washington la
perdita di mercati nel Vecchio Continente e il deterioramento delle ragioni di scambio.

L’Industrialización por sustitución de importaciones (ISI) rappresentò la risposta nazionalista alle nuove
condizioni e cercò di stimolare, mediante l'introduzione o il rafforzamento delle barriere doganali e
l'ampliamento del mercato interno, il settore industriale. Tale strategia avrebbe dovuto consentire uno
sviluppo più diversificato e autocentrato, basato sulla riduzione o sull'eliminazione di alcune importazioni,
con l'obiettivo fondamentale di ridurre drasticamente la dipendenza. Dalla metà degli anni quaranta e per
tutto il decennio successivo, l'ISI fu da più parti vista come metodo per ridurre il ritardo tecnologico,
assorbire la manodopera e proteggere le economie locali dalle crisi esterne. Il PIL latinoamericano
aumentò con incredibile vivacità negli anni quaranta e cinquanta e ancor di più lo fece tra il 1960 e il 1973. I
paesi che registrarono la performance migliore furono Brasile, Messico, Argentina, Cile e Venezuela.

Le trasformazioni del comparto secondario furono importanti sia per quantità che per qualità, con
aumento notevole della siderurgia, della petrolchimica e della metalmeccanica.

Più eterogeneo fu il comparto agricolo dove, accanto a proprietà moderne con innovazione tecnologica
coesistettero strutture arcaiche e vennero introdotte riforme agrarie, scardinando il sistema latifondista e
aumentando la produzione.
I fattori interni
Il mancato radicamento della stagione democratica dipese anche da fattori interni, legati all'ondata di
trasformazioni che investì l'area tra la Seconda guerra mondiale e la fine degli anni sessanta, determinando
grande fermento e grandi sfide. Si andò affermando una società più composita e complessa, nella quale si
registrarono sussulti di nazionalismo dei ceti medi e una maggiore presa di coscienza delle classi subalterne.

Tanti gli elementi che diedero l'impronta al periodo, a cominciare dal tumultuoso aumento della
popolazione, dovuto a vari fattori, tra cui:

 La ripresa di significativi flussi migratori dall'Europa.


 Calo del tasso di mortalità grazie al miglioramento delle condizioni di vita e di igiene e ai progressi della
medicina. L'aspettativa di vita fece un balzo in avanti nella maggior parte dei paesi passando dai 35 anni
del 1930-40 ai 52 della metà degli anni cinquanta.
L'aumento demografico interessò in particolare le città, ricettrici dell'immigrazione proveniente dall'estero
e di quella interna.

Si assistette anche ad uno spopolamento delle campagne, in cui l'esodo dalle aree rurali venne
determinato dalla parziale modernizzazione e meccanizzazione dell'agricoltura, che fecero diminuire la
necessità di manodopera, e dal consolidarsi della proprietà terriera.

L'effetto congiunto dell'espansione dei centri urbani, dei vari sbocchi lavorativi e del rafforzamento dello
Stato provocò:

 L'incremento del ceto medio.


 Il consolidamento della classe operaia.
 La crescita della burocrazia pubblica.
 Un'ulteriore dilatazione di diseguaglianze e miseria, di cui faceva fede la riorganizzazione spaziale delle
città che diede luogo a un'esplosione di favelas, ovvero baraccopoli installate in aree marginali.
L'impressione generale è quella di una società in movimento, che passa dalle regole codificate di
comportamento dell'ambiente rurale alla frenesia della città. Difficoltà e aspettative, povertà e promozione
sociale, miglioramento delle prestazioni statali e nuove abitudini furono fattori che fecero crescere
coscienze, maturare consapevolezza di diritti, favorire rivendicazioni: politicizzare la società e in particolare
le classi subalterne, che non mancarono di manifestare dissenso e malcontento.

Per quanto riguarda il meccanismo elettorale, la consacrazione della società di massa fu accompagnata
dall'allargamento del suffragio:

 La concessione del diritto di voto alle donne.


 Abbassamento dell'età per diventare elettori, portandola a 18 anni.
 La comparsa di nuovi partiti, che offrirono un panorama diversificato ma incontrarono grandi difficoltà
a strutturarsi come organizzazioni di massa e ad assumere dimensione realmente nazionale.
La complessità di questa fase storica è testimoniata dall'assenza di un modello prevalente nel
subcontinente.
Populismi e democrazie
Il secondo dopoguerra rappresentò la fase in cui il populismo si dispiegò in tutta la sua pienezza, ma anche
quello in cui conobbe la propria fine.

Famosa fu l’esperienza vissuta in Argentina, cui vide Juan Domingo Peron guadagnare rapidamente
consensi trovando, poi, una clamorosa conferma alle elezioni presidenziali del 1946, contro ogni
formazione politica, la stampa e gli Stati Uniti.

Peron si proponeva di dare unità nazionale, di conciliare interessi comuni e aspirazioni ottenendo grande
successo fino quasi alla metà degli anni cinquanta. Numerosi appoggi provenivano da:

 Classe operaia: sia quella di recente migrazione dalle campagne che quella di vecchia data. Elemento
centrale fu il ruolo del sindacato, che perse autonomia ma ebbe una crescita di iscritti, svolgendo
funzioni di collocamento, di assistenza e prestazioni mediche e legali. Accanto ad esso, di grande
importanza fu l’azione della Fondazione Eva Peron che, operando nel campo della beneficienza, diede
un taglio più popolare al movimento e rafforzò la mobilitazione a favore del marito.
 Piccola borghesia, ceti medi, imprenditoria: favorendo una politica di crediti agevolati, di espansione
del consumo, di investimenti significativi in infrastrutture, trasporti e pubblica amministrazione.
 Forze Armate: sia per l'aumento degli organici e delle spese per la difesa sia per il taglio nazionalistico
del governo.
 Chiesa.
Il peronismo godette di una situazione favorevole sino alla fine degli anni quaranta, con alti tassi di crescita
del PIL, che permisero il raggiungimento di molti obiettivi e che favorirono la rielezione di Peron nel 1951.

Tuttavia, dall'inizio del decennio successivo, la situazione mutò registrando un alto tasso di inflazione e una
diminuzione delle esportazioni. La crisi indusse a ridurre le spese pubbliche e a cercare la collaborazione del
capitale estero, ma senza grandi risultati e ciò si tradusse in caduta dei salari e blocco della politica
redistributiva. La situazione precipitò in seguito alla presa di distanza delle Forze Armate e della Chiesa,
Peron fu costretto da un colpo di stato a lasciare l'Argentina nel 1955.

Epilogo drammatico ebbe il populismo in Brasile, dove Vargas riassunse trionfalmente il potere nel 1950. In
questa seconda presidenza, si trovò ad agire in un periodo fortemente ideologizzato, di divisioni profonde
che produssero persino una spaccatura all’interno delle Forze Armate tra ufficiali nazionalisti e statalisti e
ufficiali favorevoli a un minore intervento pubblico in economia e all'apertura al capitale straniero. Ma i
contrasti riguardarono tutta la società, coinvolgendo la posizione da assumere nei confronti degli Stati Uniti
e della loro crociata anticomunista. Vargas perseguì una politica sull'industrializzazione sostenuta dallo
Stato, sull'imposizione di freni alle imprese straniere tentando di portare avanti strategie di conciliazione,
ma la manovra si rivelò ben più ostica che in passato, costringendolo a scelte di campo che lo portarono a
schierarsi più decisamente a fianco dei lavoratori. Anche in Brasile, però, la crisi economica giocò a suo
sfavore ed incapace di mediare tra posizioni così contrapposte, soffocato dall'avversione della stampa,
Vargas si suicidò nel 1954.

In Ecuador, continuò a dominare la figura di Velasco Ibarra. Rispetto al modello varghista e peronista, pur
riuscendo a mediare tra classi diverse, il suo sostegno di massa fu più limitato e l'ultimo suo mandato,
iniziato nel 1968, fu interrotto da un ennesimo golpe nel 1972.

Tentativi di riforma vennero messi in atto anche da regimi rappresentativi non populisti.

Tra i pochi esempi di continuità istituzionale spicca il Messico, il cui modello rivoluzionario conobbe,
tuttavia, un certo esaurimento, specie in termini di riforma agraria, che perse la grande incisività avuta
sotto Cardenas, mentre ripresero slancio le medie proprietà e l’agricoltura capitalista volta sia ali
'esportazione che al mercato interno. In questa fase storica, che vide l'aumento delle diseguaglianze, il
malcontento venne alimentato dalla massiccia corruzione governativa. Elemento essenziale di tale quadro
fu il Partido Revolucionario Institucional (PRI), che esercitava il monopolio del potere nazionale e locale.

Ulteriore esempio di democrazia fu il Brasile che, con la presidenza di Juscelino Kubitschek, insediatosi nel
1956 dopo il suicidio di Vargas, fu il primo paese in cui venne messo in pratica il cosiddetto desarrollismo,
ovvero il favorire lo sviluppo economico, grazie soprattutto ad una forte crescita in tempi brevi
dell'industria. Grande importanza veniva assegnata alla pianificazione, togliendo però protagonismo allo
Stato nella struttura produttiva, predicando l'abbandono del nazionalismo a favore di una grande presenza
del capitale estero, l'aumento della produttività e una modernizzazione dell'agricoltura. Si partiva, quindi,
dalla convinzione che fosse necessario raggiungere ritmi di crescita sostenuti ed equilibrati tra i vari
comparti economici prima di poter distribuire i vantaggi di questo sviluppo, in termini salariali e normativi,
alle classi popolari. Tuttavia, non ottenne grandi successi, e nonostante riuscì a catturare capitali
dall'estero, ma in misura meno consistente di quanto programmato, l'imprenditoria nazionale finì per
trovarsi in condizioni di difficoltà.

Il motto di Kubitschek "50 anni in 5" esemplificava efficacemente la volontà di procedere a una crescita a
tappe forzate, crescita che in effetti fu apprezzabile ma parzialmente vanificata dall'inflazione. Terminata la
sua presidenza all'inizio del 1961, si assistette a un mutamento di indirizzo e a una ripresa degli approcci
populisti.

L'Uruguay rappresentò un anomalo esempio di stabilità politica, sociale e istituzionale, ma con alcuni costi,
primo fra tutti la distribuzione quasi paritaria delle cariche pubbliche tra conservatori e liberali, che si
alternarono alla presidenza. Negli anni sessanta, il modello di conciliazione e il welfare state inaugurato da
Batlle y Ordonez era ormai entrato in fase involutiva e la fine della prosperità veniva testimoniata
dall'inflazione, dalla caduta dei salari, dalla repressione delle agitazioni e tutti elementi indicativi di una
politica non più in grado di dare risposte efficaci.

In Cile, la democrazia rappresentativa non subì scossoni sino al 1973. Il conservatore Jorge Alessandri,
eletto nel 1958, riportò risultati deludenti sul piano economico e sociale, determinando la rapidissima
ascesa di un nuovo partito, il Partido Democrata Cristiano (PDC).

Il propagarsi dell'autoritarismo
Dopo il 1947 andarono sempre più riaffiorando regimi chiusi e repressivi. L'area in cui il fenomeno ebbe
dimensione quasi totalizzante fu quella dell'America centrale e caraibica dove troviamo:

 Dittature: regime di Trujillo a Santo Domingo, della famiglia Somoza in Nicaragua e i governi retti da
militari o civili sostenuti dalle Forze Armate dell'Honduras.
 Gestioni governative che solo formalmente presentavano legalità istituzionale: come in Salvador,
Panama, Haiti e Cuba.
Nell'America meridionale, invece, troviamo:

 Dittature: come in Paraguay che nel 1954 ebbe il dominio assoluto di Alfredo Stroessner cui gestì le
sorti del paese per oltre 34 anni, contando sull'appoggio delle Forze Armate e del Partido Colorado (Pc),
entrambi al centro del suo progetto fortemente autoritario, che si tradusse nell'affermazione di uno
Stato di polizia. Il regime fu poi caratterizzato dalla diffusione della corruzione e dell'illegalità specie
contrabbando e traffico di droga favoriti dalla posizione geografica del paese e dallo scarso controllo
delle frontiere.
 Gestioni governative che solo formalmente presentavano legalità istituzionale: cui appartenevano le
altre nazioni sudamericane caratterizzate dall’alternanza di governi democratici e dittatoriali, come
avvenne in Ecuador e in Perù.
In Argentina, invece, il governo instaurato dai golpisti che avevano deposto Peron cedette il passo nel
1958 a quello desarrollista del radicale Arturo Frondizi che, dopo aver consentito ai peronisti la
partecipazione alle consultazioni parlamentari, venne a sua volta destituito nel 1962. Iniziò così un
periodo di regimi militari che si protrasse fino al 1973, in un paese la cui vita politica girava intorno al
diritto del peronismo di parteciparvi.

In Colombia, al contrario, si cercò di assicurare coattivamente la stabilità politica. Il bipartitismo si mostrava


già ampiamente in crisi quando, nel 1948, l'assassinio di Eliécer Gaitan, capo dell'ala progressista dello
schieramento liberale, fece esplodere la rabbia popolare prima a Bogotá e poi nell'intero paese. Ebbe così
inizio il decennio della Violencia, con la formazione di bande guerrigliere nelle aree agricole che assunsero
ben presto significato di rigetto della caratterizzazione oligarchica di entrambi i partiti, dando sempre più al
movimento veste di banditismo sociale. La radicalizzazione della protesta spinse nel 1953 le Forze Armate a
insediare a capo dell'esecutivo il generale Rojas Pinilla, ma senza che ciò avviasse una pacificazione. I partiti
tradizionali siglarono allora, nel 1957, l'accordo del Fronte Nazionale alternandosi alla presidenza dal 1958
al 1974. La lotta armata determinò un'assuefazione alla violenza nella vita pubblica e preparò l'ambiente
adatto per trasformare, dopo la Rivoluzione cubana, la guerriglia da liberale in castrista, anche se i
comunisti colombiani l’avevano appoggiata fin dalla sua nascita.

Conflittualità sociale, sovvertimento e insurrezioni


Il secondo dopoguerra vide emergere in molte realtà uno dei nodi dell'America Latina, quello delle
popolazioni rurali, che continuavano a essere escluse dalla partecipazione politica ed erano costrette a
subire l'onnipotenza e l'arbitrarietà dei proprietari terrieri. La forte impronta urbana della politica non
alimentò neppure nei governi progressisti e populisti l'interesse per il mondo contadino e anche se il diritto
di sindacalizzazione nelle campagne cominciò a venire riconosciuto.

Qua e là, le esperienze riformiste cercarono di venire incontro ad alcune aspettative della popolazione
delle campagne con limitate assegnazioni di piccoli appezzamenti su scala regionale. Normalmente però la
risposta alle agitazioni contadine fu la pura e semplice repressione. Al di là di questi episodi di grande eco,
la conflittualità sociale più diffusa continuò a essere quella urbana.

La presenza di tensioni sociali crescenti e il maggiore protagonismo delle masse popolari non si tradussero
in rafforzamento delle sinistre marxiste. I socialisti, presenti praticamente solo in Cile, ebbero comunque
un peso significativo e dal 1956 collaborarono sempre con i comunisti, esprimendo sovente posizioni più
radicali di questi ultimi. Altrove, le formazioni di questo segno, superarono raramente il 4% dei voti. Per
quanto riguarda, invece, i partiti comunisti, nel 1946, riuscirono ad affermarsi elettoralmente in molti
paesi, raggiungendo la soglia del 10% in Brasile e in Uruguay. Tuttavia, a partire dall'anno successivo,
vennero ricacciati quasi ovunque nell'illegalità (misura accompagnata dalla rottura delle relazioni
diplomatiche con Mosca il che ne determinò una crisi prolungata). Già nell'immediato dopoguerra
l'ossessione di tutelare URSS e regimi satelliti portò i comunisti a oscillare nella politica di alleanze oppure a
illudersi di avere forza sufficiente per guidare fronti di lotta che godessero anche del sostegno dei ceti medi.
Più coerente risultò la linea della via pacifica al socialismo e della rivoluzione come un lento percorso di
accumulazione di conquiste parziali e di avanzamenti elettorali.

La generalizzazione di questa strategia venne tuttavia intaccata dal trionfo della Rivoluzione cubana nel
1959, che mostrava come l'ascesa al potere avesse possibilità di successo percorrendo un cammino
totalmente diverso, basato sulla lotta armata. A partire da allora si registrarono divisioni interne e solo in
pochi casi (Guatemala, Colombia, Venezuela) i partiti comunisti sostennero la guerriglia di tipo castrista ma
continuando a svolgere lavoro politico e sindacale. Nel resto dell'America Latina prevalse la tesi che il
modello cubano non potesse essere imitato, il che provocò aspri contrasti con L'Avana.
La rivoluzione cubana e le guerriglie
A Cuba, negli anni cinquanta, si registravano enormi diseguaglianze fra centri urbani e rurali ed elevati
livelli di analfabetismo e tassi di mortalità.

Sul piano economico, più di un quarto della popolazione era costretta a lavorare pochi mesi all'anno per il
raccolto nelle piantagioni di canna da zucchero. In più, l’isola dimostrava una forte dipendenza
imperialistica a causa di un commercio limitato ai soli Stati Uniti, i quali provvedevano a versare grandi
capitali presenti in vari settori produttivi e nei servizi.

Sul piano politico, presentava un'alternanza tra regimi formalmente rappresentativi e dittature, di cui
l'ultima quella di Fulgencio Batista instaurata nel 1952.

Contro il governo si schierò un gruppo di giovani cubani del ceto medio guidati da Fidel Castro i quali
tentarono di rovesciarlo attaccando una caserma il 26 luglio 1953. Questa data segnò il nome del
movimento guidato da Castro che, catturato e condannato, ricevette l’amnistia due anni dopo e con il
fratello, si rifugiò in Messico per preparare una nuova insurrezione. Alla fine del 1956, un gruppo di ribelli
(proveniente perlopiù da ceti medi tra cui Ernesto Guevara, un medico argentino) sbarcarono sull’isola per
dare vita ad una lotta armata, praticata sotto forma di guerriglia, che fece crescere il gruppo con
l'incorporazione soprattutto di una base rurale.

A favore dei ribelli vi furono diversi fattori:

 La scarsa determinazione delle truppe regolari nel combattere e un territorio poco familiare.
 Un’opinione pubblica che riteneva obbligata la scelta insurrezionale.
 Il sostegno delle classi popolari di altre forze, comprese quelle di opposizione urbana degli studenti.
Tuttavia, elemento fondamentale per la vittoria nel gennaio del 1959 fu interamente da attribuire alla
guerrigliera. Il modo in cui essa fu raggiunta diede, poi, le basi alla teoria di Che Guevara che per fare la
rivoluzione non è necessario attendere che maturino le condizioni oggettive, ma basta la volontà di un
piccolo gruppo, la cui base rivoluzionaria va cercata tra i contadini motivati dalla propaganda di riforme
sociali. In questo modo viene relativizzato il ruolo sia del partito guida che della partecipazione di massa,
rendendo superflue le lunghe fasi di preparazione.

Sul piano economico, le misure iniziali del governo assolsero le promesse fatte ai contadini attraverso la
riduzione dei canoni di affitto e dei medicinali, dei libri scolastici e dei trasporti urbani. Successivamente il
governo cercò di trasformare l’economia dell’isola rendendola più equilibrata, favorendo
l'industrializzazione e una maggiore diversificazione della produzione agricola.

In questo senso si manifestarono i primi contrasti con gli Stati Uniti, dal momento che molte misure
penalizzavano il capitale statunitense. Il presidente Eisenhower si rifiutò di acquistare zucchero dall'isola e
Castro si rivolse all'URSS che si mostrò pronta a subentrare, interessata com'era ad avere un interlocutore
in un'area così strategica.

Sul piano politico, l'impronta fortemente nazionalista della rivoluzione portò ad un allargamento del
consenso, che permise di procedere a nuovi espropri di aziende nordamericane come risposta alle misure
poste dagli Stati Uniti, tra cui la decisione di quest’ultimi di attuare un embargo sul commercio con l'isola il
cui intento non era solo quello di mettere in ginocchio l'economia cubana ma anche di smantellare tutto
l’apparato rivoluzionario.

In questo senso, la prova di forza si attraverso una spedizione di circa 1500 esuli cubani residenti in Florida,
che la CIA aveva addestrato e armato. Autorizzata da Eisenhower, l’operazione venne proseguita da
Kennedy che portò così, nell'aprile del 1961, il corpo di spedizione a sbarcare nella Baia dei Porci.
Affidandosi all’analisi dell'intelligence statunitense, che sopravvalutò il malcontento della popolazione e
quindi un ipotetico allargamento della rivolta, l’operazione fallì: i controrivoluzionari furono sconfitti e
Castro ne uscì rafforzato. Di fronte a questo insuccesso, gli Stati Uniti indirizzarono così tutti i loro sforzi
verso un coinvolgimento dei paesi latinoamericani nell'isolamento diplomatico dell’isola di Cuba, la quale
dimostrava un'aperta adesione al marxismo avvicinandosi sempre più all’URSS.

Il clima di tensione raggiunse livelli molto alti nell'ottobre del 1962, con la crisi dei missili di Cuba, quando
aerei spia statunitensi scoprirono postazioni missilistiche installate a Cuba dall’URSS. Il rischio però di un
possibile conflitto tra le due superpotenze venne scampato da Chruscev che acconsentì a smantellare i
missili in cambio del ritiro dei missili statunitensi in Turchia.

Nel frattempo, la Rivoluzione cubana si consolidò sempre più nonostante molti obbiettivi in campo
economico non raggiunsero i risultati sperati, dovuti in particolare alla scarsità di materie prime industriali e
di fonti energetiche, di una alta spesa pubblica che assicurava la gratuità di una serie di servizi. In questo
senso, importante fu la campagna di alfabetizzazione e i progressi in campo medico e sanitario. Si cercò,
poi, di sostenere strumenti collettivi di mobilitazione e inquadramento ideologico, dai sindacati ai comitati
di difesa della rivoluzione che svolgevano funzioni civiche e organizzative.

Sul piano partitico, nonostante i contrasti tra il Movimento 26 Luglio e i comunisti, si giunse nel 1965 alla
creazione di una formazione che li riunì prendendo ufficialmente il nome di Partido Comunista de Cuba
(Pcc).

Sul piano internazionale, Cuba ebbe un grande peso in quegli anni convincendo Castro della necessità di
trovare un proprio spazio, poi individuato nel terzomondismo e nel solidarismo rivoluzionario, che mirava
anche a sottrarre l’isola all'isolamento in cui era sta confinata. In questo senso, lo strumento utilizzato
consisteva nell'appoggio alle guerriglie scoppiate in varie parti nella regione (inviando denaro, medici,
tecnici specializzati) e, non cessando di istigare alla lotta armata, la proiezione dell'Avana si tradusse anche
in una forte attenzione per il movimento dei non allineati.

Nacquero così molti gruppi guerriglieri praticamente in ogni paese che tuttavia ebbero poca incidenza,
fallendo l'obiettivo (come dimostrò lo stesso Guevara prima in Congo e poi Bolivia, concludendosi con la
sua cattura ed esecuzione nel 1967). La morte di Guevara spinse Castro ad abbandonare il sostegno a una
lotta armata, rassegnandosi all'isolamento e ad un riavvicinamento all’URSS per motivazioni prettamente di
tipo economico.

Capitolo V, Dalle tenebre dittatoriali alle transizioni


democratiche: 1970-89
L’autoritarismo diffuso
A partire dalla metà degli anni sessanta si assistette a una generalizzata sfiducia nei meccanismi delle
democrazie rappresentative e a una diffusione di modelli autoritari.

Con l'insediamento alla presidenza degli Stati Uniti di Richard Nixon nel 1969, la linea tracciata
precedentemente venne accentuandosi e, pur non ricorrendo più all’intervento diretto, si cercò in tutti i
modi di destabilizzare esecutivi reputati ostili, foraggiando le opposizioni, intensificando la propaganda,
incentivando golpe, sostenendo gli schieramenti politici più vicini e soprattutto le Forze Armate.

Nonostante le ingerenze statunitensi, furono però le dinamiche interne però a determinare il fallimento dei
regimi democratici, quasi tutti i cittadini manifestarono una sfiducia allargata nella classe politica e nei
tradizionali canali di rappresentanza. Questione fondamentale fu lo scollamento tra prassi e legge che
risultava sempre meno tollerabile e sempre meno fiducia ispiravano istituzioni e processi elettorali.
L'assenza di efficaci strumenti di controllo consentì che il quadro generale continuasse a essere segnato da
corruzione, concussione, sprechi, incompetenza, determinando uno svilimento del sistema democratico e
favorendo la moltiplicazione delle soluzioni autoritarie, variabili nella loro progettazione, forma e sviluppo
ma sempre promosse in difesa di indirizzi precisi da alti gradi delle Forze Armate.

In Bolivia le Forze Armate presero il potere nel 1964 anche grazie l’appoggio del mondo rurale,
addomesticato dall'assenza di misure che mettessero in discussione le conquiste sancite dalla precedente
riforma agraria. In tutti gli altri campi si registrò, viceversa, un processo fortemente involutivo, che venne
definitivamente sancito dalla sconfitta del proletariato minerario e del sindacato, dopo il 1974, si
susseguirono ben undici presidenti, di cui solo due eletti. Nei fatti, si assistette ad alleanze anomale tra alti
gradi dell'esercito e vecchi leader che aggravarono la profondissima crisi economica e l'inflazione.

In Colombia, il fenomeno del narcotraffico e del potere acquisito dai suoi esponenti segnò anche la vita
politica dello stato. Liberali e conservatori continuarono ad alternarsi alla presidenza, ma il rafforzamento
della guerriglia, il grande peso della droga e la caduta dei salari spinsero i governi a una politica di
repressione generalizzata, con aumento del peso di militari e polizia. A partire dal 1982, prima un
presidente conservatore e poi uno liberale, oltre a portare avanti una tenace campagna contro la droga,
promossero un piano di pacificazione con la guerriglia. I molti episodi di violenza indussero però la
maggioranza dei gruppi che avevano accettato il dialogo a riprendere le armi.

Anche in Messico il panorama era caratterizzato da autoritarismo. Sul piano economico, la presenza dello
Stato venne ulteriormente rafforzata dall'aumento delle entrate garantito dall'impennata dei prezzi
internazionali del petrolio a partire dal 1973. Alla fine del decennio, tuttavia, iniziò un periodo di difficoltà,
culminato nella crisi del 1982, con svalutazioni continue, inflazione, contrazione del welfare.

La breve stagione cilena


In Cile, nel 1970, il candidato dell’Unidad Popular (UP) – Fronte Popolare che riuniva i due partiti marxisti e
forze minori – il socialista Salvador Allende, vinse elezioni presidenziali. Questa vittoria assunse un forte
valore simbolico, era infatti la prima volta che una coalizione marxista avrebbe potuto governare
democraticamente. Si registrarono picchi di altissima tensione, in parte a causa dell'atteggiamento degli
Stati Uniti, che temevano non solo questo specifico esperimento ma che esso potesse fornire un modello
per il resto dell'America Latina e persino l'Europa. Washington si servì, quindi, di ogni mezzo per impedire
l'insediamento di Allende, esercitando forti pressioni, portando ben presto il nuovo governo a scontrarsi
con un'opposizione sempre pronta a fare ostruzionismo alle proprie iniziative.

Sul piano economico il programma iniziale era teso ad accelerare la riforma agraria, a procedere ad una
redistribuzione del reddito e ad una politica di aumenti salariali. Parallelamente, il governo si proponeva di
incrementare la spesa pubblica nel sociale, dall'edilizia popolare, all'istruzione e alla sanità.

Sul piano industriale, il governo assunse il controllo statale delle industrie strategiche più importanti,
comprese le miniere di rame statunitensi. Questo provocò la reazione di Washington che aumentò i
finanziamenti alle opposizioni e alla stampa di destra.

Durante il primo anno si ottennero innegabili risultati, con diminuzione della disoccupazione, crescita del
PIL e redistribuzione del reddito.

Nel 1972, tuttavia, la situazione peggiorò drasticamente. La fuga di capitali all'estero, l’aumento dei
consumi non accompagnato da un'offerta interna adeguata, il pesante disavanzo ed il prosciugamento delle
riserve alimentarono un clima di sfiducia presso piccola borghesia e ceti medi che si schierarono contro il
governo, spostando a destra l'asse politico che contribuì ad aumentare le tensioni sociali e a moltiplicare
scioperi. Il golpe del settembre del 1973 risultò vincente ma con un epilogo drammatico, nel corso
dell'attacco al palazzo presidenziale, infatti, Salvador Allende si suicidò.

La dittatura militare brasiliana


In Brasile si registrò una delle dittature più emblematica dell’epoca. Il golpe del 1964, appoggiato dagli Stati
Uniti, era diretto a Joao Goulart, presidente populista accusato di generare un clima di disgregazione
sociale e di voler instaurare il comunismo. I partiti vennero ben presto emarginati, sciolti e sostituiti da un
bipartitismo artificiale, con l'ARENA (Aliança Renovadora Nacional), al governo, e l'MDB (Movimento
Democratico Brasileiro), un’opposizione tollerata e "responsabile".

Ai vertici del nuovo governo militare, le Forze Armate continuarono a confrontarsi due linee:

 Una "moderata" che perseguiva un modello di democrazia ristretta esercitato il controllo su un


esecutivo civile;
 Una "dura" che perseguiva una gestione diretta ed autoritaria.
A seconda dei rapporti di forza interni, prevalse l'una o l'altra fazione, il regime non sciolse il Parlamento
che però perse ogni potere a favore del presidente della Repubblica, scelto da un collegio e non più dai
cittadini. Ruolo fondamentale del nuovo assetto ricoprirono gli Atti Istituzionali, leggi eccezionali che
avevano valore di emendamenti costituzionali poi inglobati nelle Costituzioni del 1967 e del 1969, che
istituzionalizzarono il regime.

Sul piano economico, seguendo alcune linee del desarrollismo, il governo militare promosse un processo di
sostituzione delle importazioni, di diversificazione produttiva e di alti tassi di crescita. Successivamente,
l'attenzione si concentrò sullo sviluppo di un'industria di beni capitali, sull'incremento delle prospezioni
petrolifere e sulla costruzione di grandi dighe a fini energetici (favorita dall'impiego di capitale privato e
estero).

Tutte queste misure portarono ad una forte crescita industriale che fu evidente durante gli anni del
cosiddetto miracolo economico (1969-73), con un aumento del PIL oltre l’11% annuo.

La dittatura ottenne così un grande consenso in tutti i comparti sociali, che rimasero indifferenti o
addirittura appoggiarono il terrorismo di Stato e la politica di repressione sociale messe in atto: gli scioperi
furono proibiti, i salari crollarono, l'analfabetismo diffuso, la denutrizione, il pessimo servizio sanitario
pubblico. Tentativi di opposizione furono portati avanti della società civile, già dal 1968, coinvolgendo
studenti e operai. Questo portò il governo ad un inasprimento della repressione e la nomina a presidente di
un ufficiale dell'ala dura, cui (tra il 1969 e il 1974) instaurò una cultura del sospetto.

Successivamente, la nomina del generale Ernesto Geisel nel 1974, ufficiale appartenente all’ala moderata,
avviò un processo di liberalizzazione con l’intenzione di instaurare una "democrazia protetta", al cui
interno i vecchi canali di rappresentanza avessero un ruolo limitato e controllabile. L’intenzione dei militari
di voler mantenere il potere a lungo, venne promossa da vari fattori:

 Il risveglio dell'elettorato.
 L'andamento dell'economia dopo la crisi petrolifera del 1973, che registrò un forte peggioramento nei
conti dello Stato, il raddoppio del debito estero e l'impennata dell'inflazione.
 La libertà d'azione ed il potere conquistati dall'ala dura e dagli organi di sicurezza.
L'apertura all’ala moderata non ebbe comunque un andamento lineare e fino alla fine del 1978 si assistette
ad un alternarsi di misure restrittive e di decisioni conciliatrici. Tuttavia, l'insieme di questi fattori convinse
gli alti gradi a dare continuità al progetto, con l'ascesa alla presidenza di Joao Baptista Figueiredo all'inizio
del 1979.

Gli epigoni del Brasile


Nel corso degli anni settanta, in altre nazioni le Forze Armate presero il controllo instaurando un regime
autoritario. Tra le prime misure vi era sempre quelle di sospendere o mettere fuori legge i partiti, privare
dei diritti politici alcune personalità, sciogliere il Parlamento e assegnare le funzioni legislative, oltre che
all'esecutivo, a organi nominati dall'alto e composti da alti ufficiali.

Rispetto al caso brasiliano, i risultati economici furono ben più modesti. Il modello che i regimi seguirono fu
di totale liberismo: contenimento della base monetaria, ripristino delle leggi della domanda e dell'offerta,
condizioni di favore al capitale estero, privatizzazione e riduzione della presenza statale in economia.

In questo senso fu indispensabile procedere alla disarticolazione della struttura sociale. Di fatto, i costi del
modello ricaddero esclusivamente sulle classi subalterne, che subirono una riduzione del tenore di vita, con
crollo verticale di salari e consumi e aumento della disoccupazione. Il tutto avvenne in un quadro di
violenza giustificata da un pericolo guerrigliero ormai debilitato o inesistente.

Fu in questo contesto che si inserì l'Operacion Condor, decisa dai vertici dei regimi in Cile, Argentina,
Uruguay, Brasile, Bolivia e Paraguay, volta alla persecuzione ed uccisione dei dissidenti all'estero con
l'aiuto dei servizi segreti dei paesi che li ospitavano e con la collaborazione di FBI e CIA. Questo tipo di
violenza alimentò una forte critica dell'opinione pubblica occidentale che spinse lo stesso presidente
statunitense a prendere iniziative per penalizzare i regimi autoritari. Più che altro, l'elezione del
democratico Jimmy Carter nel 1977 modificò la politica latinoamericana della Casa Bianca, tesa ora a
migliorare la propria immagine con il lanciò, in particolare, di una campagna a favore della
democratizzazione e della difesa dei diritti umani, che si concretizzò nella cancellazione di aiuti economici e
militari a molte dittature.

In Cile, il regime si protrasse dal 1973 al 1989 e al cui vertice risiedette il capo di Stato maggiore
dell'esercito Augusto Pinochet.

Sul piano economico, il regime seguì il modello liberista, procedette quindi a privatizzazioni nell'industria,
attirando capitale straniero ed il bilancio economico finale presentò luci e ombre: recessione fino al 1976,
crescita tra il 1976 e il 1980 e dopo il 1985. Tuttavia, solo nel 1987 il settore secondario raggiunse i livelli di
produzione pre-golpe.

Sul piano politico, subito dopo la presa del potere, il regime chiuse il Parlamento e scatenò una selvaggia
repressione. Le immagini dello stadio di Santiago, trasformato in un centro detentivo a cielo aperto, fecero
il giro del mondo suscitando grande sdegno da parte dell'opinione pubblica straniera, portando le proteste
ad assumere toni ancora più accesi quando la DINA (polizia segreta) cominciò a compiere attentati fuori dai
confini cileni contro personaggi dell'opposizione riparati all'estero. La repressione si allentò nel 1980, anno
in cui il regime emanò una Costituzione che prevedeva il mantenimento del regime militare fino al 1989,
per poi procedere alla designazione di un candidato presidenziale, sicuramente lo stesso Pinochet.

L'isolamento internazionale non intaccò il clima di terrore e solo la Chiesa riuscì, nei primi anni, a far sentire
la sua voce critica.

In Argentina, la morte di Peron nel 1974 precedette un golpe quasi annunciato che insediò, nel 1976, alla
presidenza Jorge Rafael Videla, capo dell'esercito.
Sul piano economico, la linea del liberismo fu perseguita con molte incertezze ed il PIL non conobbe
crescita alcuna sino al 1980.

Sul piano politico, la nuova giunta perseguitò sinistre, peronismo, attivisti sindacali e intellettuali con
l'intento di liquidare politicamente, e spesso fisicamente, una classe sociale (il proletariato urbano), una
generazione (i giovani) e ogni forma di ideologia e organizzazione. Giorno e notte susseguirono i sequestri,
a lavoro, per strada o nelle abitazioni e le vittime erano trasferite in centri militari clandestini per essere
interrogate, torturate o uccise. Successivamente, un clima di agitazione e scontri tra l’ala dura e l’ala
moderata delle Forze Armate scosse i vertici della giunta portando, nel 1981, a sostituire Videla a favore
dal generale Roberto Viola che, dopo pochi mesi, cedette il passo al generale Leopoldo Galtieri, sancendo la
consapevolezza nella giunta che, sul lungo periodo, era impossibile mantenere il controllo sociale solo
attraverso il terrore.

Del tutto assente, salvo alcuni casi individuali, fu invece la Chiesa, le cui gerarchie rimasero cieche o,
peggio, conniventi.

Le esperienze militari riformiste


Nel corso degli anni ottanta, accanto ai regimi di destra, le Forze Armate promossero anche alcuni regimi di
sinistra, espressione di una sensibilità per le tematiche economiche e sociali che impegnarono tali regimi ad
avviare processi di trasformazione e modernizzazione autoritaria in chiave progressista.

In Perù, le Forze Armate si impadronirono del potere nel 1968 instaurando una giunta guidata dal generale
Juan Velasco Alvarado, che aveva come ambizione quella di percorrere una terza via, solidale, né
capitalista né comunista, volta a eliminare la conflittualità.

Sul piano economico, si ebbe un profondo processo di trasformazione, sulla base di un progetto riformista
e nazionalista, al cui interno il capitale straniero doveva avere un ruolo, così come l'industria privata,
mentre allo Stato venivano assegnate funzioni di controllo ed una forte presenza in economia (evitando
però i duri scontri con Washington, soddisfatta dell'indennizzo alle imprese statunitensi espropriate). Di
grande rilievo fu l’intervento nelle campagne, dove non solo eliminò diverse forme di servitù ma varò una
riforma agraria che ridimensionò decisamente la concentrazione latifondista. Il regime scelse però di
assegnare poco più di un decimo di queste terre in proprietà individuale, riservando il resto a comunità
indie ed a cooperative. Nel settore secondario, invece, cercò di promuovere la compartecipazione degli
operai agli utili e alla gestione delle imprese.

Sul piano internazionale, l'indipendenza in materia di politica estera venne perseguita con l'adesione al
movimento dei non allineati e il ristabilimento di relazioni diplomatiche con l’URSS, la Cina e Cuba. Tuttavia
il grande recupero della sovranità passò soprattutto attraverso

 Estensione del limite delle acque territoriali a 200 miglia dalla costa (decisione di grande rilevanza vista
l'importanza della pesca)
 Nazionalizzazione delle miniere di rame, dell'energia elettrica, del sistema bancario, dei trasporti.
Sul piano partitico (i partiti vennero mantenuti), i marxisti concessero un appoggio critico mentre
l'opposizione venne identificata dalla destra e dal centro, compresa l'APRA. In campo sindacale, invece, il
regime incentivò la nascita di organizzazioni indipendenti che tuttavia, manifestarono delusione, in
particolare a seguito del peggioramento del quadro economico a partire dal 1974 che innescò una spirale di
scioperi e repressione. Le difficoltà rafforzarono l'opposizione delle classi alte, che scatenarono una
violenta campagna stampa.

Si giunse così al golpe del 1975, la nuova giunta decise di percorrere la via della democratizzazione in un
processo di transizione verso un governo civile che passò, poi, attraverso l'elezione di un'assemblea
costituente nel 1978 e si concluse con le consultazioni presidenziali nel 1980, che sancirono la vittoria di
Belaunde Terry.

In Bolivia, il regime insediatosi nel 1970 in seguito a un golpe del generale Juan José Torres, durò meno di
un anno. Al contrario di quanto avvenuto nella compagine peruviana, Torres cercò di svincolarsi dalle Forze
Armate, favorendo la partecipazione della società civile e creando un'assemblea popolare che doveva
costituire una sorta di potere parallelo. Gli indirizzi avanzati indussero un'altra fazione dei vertici militari a
rovesciarlo nel 1971 per instaurare una brutale dittatura di destra che si protrasse sino al 1978.

L'America centrale tra rivoluzione e repressione


L’unica area a mantenere viva la lotta armata fu l’America centrale e con questa realtà si dovette
scontrare duramente il presidente Ronald Reagan insediatosi nel 1981. A differenza del suo predecessore
Carter, Reagan si propose di riaffermare il ruolo egemonico degli Stati Uniti e nel farlo ripropose una
politica aggressiva contro tutto quello che veniva classificato come comunismo e sovversione. Al centro
dell’agenda, vennero quindi messe le vicende dell'America centrale, dove erano in corso vere e proprie
guerre civili, per impedire che giungessero al potere forze marxiste o per cercare di rovesciarle. Una tale
condotta era giustificata dal pericolo che questi schieramenti rappresentavano per la sicurezza nazionale e
che potessero fungere da esempio per i paesi nelle vicinanze (con particolare attenzione alle vicende
nicaraguensi).

In Nicaragua, sin dal 1937, perdurava il dominio della famiglia Somoza che aveva accumulato ingenti
fortune facendo ricorso alla violenza rafforzando così sempre più il Fronte Sandinista di Liberazione
Nazionale (FSLN) che, abbandonata la strategia della guerriglia aveva optato per una linea democratica,
cercando di stringere alleanze con più settori e prospettando per il futuro soluzioni riformiste e
nazionaliste, il che gli consentì di acquisire un certo peso dalla metà degli anni settanta. Così facendo, nel
1979, l'FSLN guidato dai fratelli Humberto e Daniel Ortega, rovesciò i Somoza stilando un programma che
prevedeva il non allineamento, democrazia partecipativa, sistema di economia mista e una serie di riforme
sanitarie ed educative sull'esempio cubano.

La contromossa di Reagan, che sin dall'inizio si pose come obiettivo di cancellare il sandinismo, fu
l'embargo ma soprattutto la decisione di addestrare, armare e finanziare i controrivoluzionari, noti come
contras.

Questa operazione venne portata avanti dalla CIA e divenne pubblica nel 1986 con l'Irangate che suscitò
grande scandalo. Il Congresso infatti bloccò i finanziamenti ai contras e, per aggirare l'ostacolo, Reagan
utilizzò il ricavato della vendita illegale di armi all'Iran.

Sul piano economico, l'intensificazione delle attività controrivoluzionarie e il blocco economico


statunitense costrinsero il governo ad aumentare le spese per la difesa a danno dei programmi sociali e ad
inasprire la pressione fiscale, con la conseguente drastica caduta del PIL.

Queste difficoltà alimentarono il dissenso che portò alle elezioni del 1984 che, tuttavia, videro trionfare
l’FSLN e l’insediamento alla presidenza di Daniel Ortega, il quale successivamente istituì una commissione
di riconciliazione nazionale, con cui i sandinisti avviarono un processo di distensione, concluso nella
convocazione di elezioni per il 1990.
Il ritorno dei militari in caserma
Nel corso degli anni ottanta si registrò un esaurimento delle dittature precedentemente instaurate per
perdita di credibilità e legittimazione. Altri fattori che determinarono questo cambiamento sono da
ricercare:

 Nelle divisioni all'interno delle Forze Armate.


 L’orrore per la violazione di ogni diritto umano e la conseguente presa di coscienza da parte della
società civile.
 Lo spostamento dell'attenzione, da parte degli Stati Uniti, sull'America centrale.
 La convinzione delle classi dominanti per cui la repressione fosse diventata controproducente.
 L'opposizione da parte della Chiesa.
 La lenta rivitalizzazione dei partiti.
A partire dall'Ecuador nel 1979, i regimi militari si esaurirono e all'inizio degli anni novanta tutto il
subcontinente, salvo Cuba, era guidato da governi democratici. Le transizioni democratiche furono
processi di lunga durata, controllate dagli stessi regimi e portati a compimento solo dopo aver ottenuto
garanzie da parte dei civili, dopo aver imposto una amnistia preventiva per i reati di violazione dei diritti
umani.

L'Argentina fu l'unica realtà, tra i regimi militari, in cui la transazione democratica conobbe tempi molto
brevi e si realizzò senza patti.

Per contrastare il crescente malcontento, il regime militare tentò di riguadagnare prestigio, chiamando a
raccolta il paese (e quindi cercando di distoglierlo dai problemi reali), invadendo le isole Falkland, nel 1982,
storicamente sotto il controllo britannico. La Gran Bretagna, tuttavia, reagì immediatamente inviando la
propria flotta e Buenos Aires si trovò isolata sul piano internazionale e la facilità con cui s'impose
militarmente delegittimò definitivamente la giunta, che fu costretta a indire elezioni presidenziali nel 1983
senza avere il tempo di negoziare l'uscita di scena delle Forze Armate. Fu il candidato radicale Raul Alfonsin
ad uscirne vittorioso, presentandosi come difensore dello stato di diritto e manifestando un approccio etico
alla politica, ereditando però, sul piano economico una situazione disastrosa, con forte contrazione del PIL,
grande inflazione e debito estero.

In Uruguay, la transizione democratica fu negoziata ed i civili fecero una serie di concessioni. Le elezioni
interne delle dirigenze dei partiti tradizionali diedero, di fatto, risultati di chiusura al regime e, per far fronte
alla situazione, i militari impedirono che alle elezioni presidenziali nel 1984 partecipassero personaggi che
avessero subito una condanna o abbandonato il paese durante il regime. Tali misure, accettate dal mondo
politico, favorirono la vittoria di Julio Maria Sanguinetti, che certamente non si era distinto per una
coerente opposizione alla dittatura.

In Brasile, sin dal 1979, la politica di apertura venne favorita da Joao Baptista Figueiredo (esponente
dell’ala moderata del regime) ed ulteriormente motivata in seguito alle tensioni legate all'aumento di
disoccupazione, povertà ed inflazione.

Il regime aveva promulgato l'amnistia per i reati politici e fu consentita la riorganizzazione dei partiti,
confidando nel fatto che, in vista delle elezioni presidenziali del 1982, avrebbe comportato un
deterioramento ed un conseguente indebolimento del fronte di opposizione. Tuttavia, il risultato delle
consultazioni non confermò le attese del regime militare e i voti dell'opposizione si concentrarono sul
Partido do Movimento Democratico Brasileiro (PMDB), il quale, però, non ottenne la maggioranza in
Parlamento e nel collegio incaricato di indicare il possibile successore, venne proposto nuovamente il nome
di Figueiredo.

In seguito a questi avvenimenti, il paese fu scosso da una grande campagna antiregime che suscitò un vasto
consenso popolare volto ad ottenere il ripristino dell'elezione diretta del presidente della Repubblica.
Successivamente, la spaccatura all’interno dei democratici brasiliani, favorì il candidato del PMDB,
Tancredo Neves, che tuttavia morì prima del suo insediamento e quindi la presidenza passò a José Sarney,
il quale però non tagliò i ponti con il passato, in particolare nel costume politico e nel peso dei militari.

Il Cile fu la nazione in cui il processo di transizione democratica giunse tardivamente. Dall'inizio degli anni
ottanta, Pinochet dovette affrontare una crescente mobilitazione di operai e ceti medi e, parallelamente,
assistette ad una riorganizzazione dei partiti politici. Mentre i comunisti difendevano la linea della lotta
armata, l'ala maggioritaria dei socialisti, attestatasi su posizioni più moderate, strinse un'alleanza con i
democristiani, aprendo nuove prospettive al fronte avverso ai militari.

Nel 1986 la giunta militare godette del favore assicurato dalla ripresa economica e ciò le diede ottime
possibilità di vittoria, garantendo la permanenza di Pinochet a capo del governo sino al 1997. Tuttavia,
l'opposizione si mobilitò con forza affinché i cittadini votassero e, contro ogni attesa, il regime venne
sconfitto alle elezioni presidenziali del 1989, il democristiano Patricio Aylwin.

Il debito estero
Le Forze Armate, al loro rientro nelle caserme, lasciarono una pesante situazione economica.

Il problema del debito estero si era sensibilmente aggravato con il forte aumento del prezzo del petrolio
nel 1973-74 e nel 1979-80, quando le grandi somme di denaro accumulate dalle nazioni esportatrici
invasero il circuito finanziario internazionale. Le grandi banche utilizzarono questa ingente quantità di
"petrodollari" concedendo prestiti a bassi tassi di interesse e a breve scadenza agli Stati che necessitavano
di capitali per finanziare il loro sviluppo. Ebbe così inizio un ciclo frenetico, che tra il 1970 e il 1980 spinse il
debito estero della regione dai 20 a 240 miliardi di dollari, per superare, nel 1985, i 380 miliardi. Queste
ingenti somme non vennero però utilizzate dai governi per promuovere la crescita economica ma servirono
principalmente per gonfiare le spese correnti e le spese militari, mentre una parte fu trafugata dalle classi
dominanti.

All'inizio degli anni ottanta, la recessione internazionale e la nuova politica economica statunitense
determinarono una brusca impennata dei tassi di interesse, portando le banche internazionali, consapevoli
della propria sovraesposizione, a chiudere i prestiti contratti e spingendo gli stati sull'orlo del tracollo.

La crisi esplose nell'agosto del 1982 a seguito della moratoria dichiarata dal Messico, seguita poi a
dicembre dal Brasile ed Argentina. Per affrontare la crisi ed evitare l'insolvenza, il G7, Banca Mondiale, FMI
ed alcune banche creditrici crearono un fondo d'emergenza ed un piano composto da tre punti:

 Programma di aggiustamento volto a raccogliere le risorse necessarie per il pagamento del servizio del
debito.
 Ristrutturazione del debito stesso.
 Regolare versamento degli interessi.
Vennero imposte pesanti aggiustamenti strutturali: adozione di piani d'austerità, apertura al mercato e agli
investimenti stranieri, riduzione della spesa pubblica, politiche monetarie restrittive per ridurre l'inflazione.
L'Argentina fu la prima a varare un rigido programma di austerità, nel giugno del 1985, seguita da Brasile e
Messico. Il forte indebitamento ed i piani recessivi adottati dai governi fecero precipitare l'America Latina in
un baratro economico così grave tanto da coniare l'espressione "decennio perduto" per indicare gli anni
'80.

Le politiche neoliberiste, tuttavia, non ebbero impatto su recessione e crisi del debito, portando così, nel
1989, gli Stati Uniti a promuovere una diversa strategia con il coinvolgimento di Banca Mondiale e FMI,
garantendo il sostegno di Washington ("Washington Consensus") ai paesi che avessero adottato politiche
economiche basate sull'apertura illimitata al commercio con l'estero e ai movimenti di capitale, sulle
privatizzazioni, sulla deregolamentazione, sulla parità di bilancio e su bassi tassi di inflazione.

A questi eventi, immune fu Cuba, il cui inserimento nel blocco socialista le permise di trovare mercati sicuri
e remunerativi per le esportazioni, principalmente zucchero.

L' ARDUO PERCORSO DEMOCRATICO


Il ritorno dei militari in caserma non significò la cessazione delle loro ingerenze nella vita politica e questo
fu reso possibile proprio da quelle garanzie strappate ai civili nella fase di passaggio delle consegne, il cui
esempio più riuscito fu quello del Cile, dove Pinochet riuscì a mantenere i propri vertici di comando (tra cui
lui stesso) e dei principali enti pubblici. Anche in Brasile, il governo Sarney era composto da numerosi
generali, che non persero occasione sconfinare in questioni non attinenti alla difesa e alla sicurezza.

Ciò nonostante, uno dei punti più importanti lasciati in eredità ai governi democratici fu quello delle
violazioni dei diritti umani commesse durante i precedenti regimi per cui, in generale, i civili rispettarono
l'amnistia concessa nella fase di pattuizione.

In Argentina questo però non valse, dal momento che fu l’unico paese in cui si giunse alla celebrazione di
processi e dovuto in particolare ai tempi brevissimi che la nazione si trovò ad affrontare durante la
transizione democratica, ostacolando le negoziazioni. Il governo Alfonsin riuscì così a ridurre la spesa
militare, introdurre cambiamenti sul piano organizzativo ma soprattutto nominare una commissione
d'indagine, che nel 1984 consegnò il rapporto Nunca Mas, impegnandosi a far processare i vertici militari.

 Si venne a instaurare un pericoloso clima di agitazione nelle Forze Armate che sfociò anche in un'aperta
ribellione nell'aprile del 1987.
 Tale clima indusse il presidente a promulgare due leggi che avevano come obbiettivo:
 Ley de punto final, estinguere le azioni penali rivolte alle persone coinvolte nei crimini commessi fino
al 1983, fine della dittatura.
 Ley de obediencia debida, che impediva di sottoporre a giudizio uomini in divisa che avessero
semplicemente obbedito agli ordini.
Successivamente, il peronista Carlos Saul Menem, successore di Alfonsin, si spinse oltre la linea
dell'impunità, concedendo l'indulto ai militari già condannati.

Sul piano economico, negli anni ottanta, i governi civili dovettero affrontare anche difficoltà dettate da una
drastica caduta del PIL e ad un consistente aumento dell'inflazione, diffusa disoccupazione e una forte
dipendenza dall'estero.

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