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M arco Tropea
Editore
© 1986 Paco Ignacio Taibo II
© 1996 Marco Tropea Editore s.r.l., Milano
Titolo originale: De paso
Tampico hermoso
puerto tropical
tú eres la gloria de todo nuestro país
y por doquiera yo de ti me he de acordar.*
E ripetevano:
«Meee heee de acordaaar!».
San Vicente era irreprensibile e addirittura m ania
co in fatto di igiene, si lavava le mani due, tre, sei, ot
to, dieci volte al giorno; diceva che era per nasconde
re il grasso e le macchie di carbone che si era fatto
quando lavorava come meccanico sulle navi. Una
delle molte notizie sparse che a poco a poco misi in
sieme a proposito della sua vita.
Le cose cambiarono, dopo che ebbi conosciuto San
Vicente. Di solito lavoravo in posti diversi, per pochi
soldi, qua e là. Consegnavo biancheria per le lavan
derie; facevo il ruffiano per un paio di puttane che ve
nivano dalla costa di Veracruz e d estate mi lasciava
no dormire sotto il portico di casa loro; aiutavo Co
sme, un droghiere spagnolo, a moltiplicare le botti
glie di rum cubano (due da una e, non dirlo a nessu
no, metà di cubano autentico, metà di un miscuglio
di alcol e di canna da zucchero bruciacchiata) e così
d’inverno potevo dormire sul bancone de La Vence
dora, evitando i topi e leggendo il giornale di notte,
prim a che Cosme lo usasse per incartare. Lavoravo
come apprendista tipografo, trasportavo il piombo
già composto e tiravo le bozze a mano, spazzavo il
pavimento. Be’, per dirla breve, da due anni, da quan
do il Rojo era morto nell’incidente alla caldaia num e
* Bella Tampico/ porto dei tropici/ tu sei la gloria del Messico in
tero/ dovunque vada ti ricorderò. (N.d.T.)
ro tre, avevo perso il mio lavoro dì figlio e non ne ave
vo uno nuovo.
San Vicente mi diede un lavoro. Sapeva che non si
può vivere da uomo senza un lavoro. E me ne diede
due: meccanico e incendiario. Come meccanico, lui
era in gamba, parlava con i motori nella loro lingua
mentre li metteva a punto, gli sussurrava qualcosa.
Poi avrei scoperto che recitava brani delle opere di
Malatesta e di Bakunin mentre li sistemava, li con
trollava, li registrava fino a ottenere il ronfo giusto,
perfetto di quando la macchina funziona senza spre
chi, senza intoppi. Fu lui a insegnarmi questo lavoro,
e mentre parlava di motori, quando non parlava con
i motori, mi raccontava la storia dell’um anità secon
do Reclus. Mi descriveva i feudi e le tribù, i re e la na
scita del capitale. Mi raccontava la storia della Co
mune di Parigi come se ci fosse stato. Mi parlava di
Barcellona la Rossa e dei m artiri del Primo Maggio a
Chicago. Di Louis Lingg che si fece saltare la faccia
con una sigaretta piena di esplosivo, piuttosto che
farsi portare sulla forca; di Oscar Neebe che, quando
seppe di essere stato condannato a quindici anni e
che non avrebbe condiviso la sorte dei suoi compa
gni, gridò al giudice: «Impiccatemi con loro!».
Accompagnati dalla sua voce, sfilavano paesi, uo
mini. E tutto quello che mi circondava si completava
con la visione di altri occhi, che da poco avevo impa
rato a riconoscere come miei.
Avevo già sentito quella voce dura, da opera teatra
le, che esce roca dai polmoni, la voce della ribellione,
avevo strillonato i suoi giornali, avevo partecipato a
qualche assemblea, avevo visto gli operai del petrolio
sbraitare contro l’ingiustizia spudorata delle compa
gnie inglesi, gringas e olandesi; avevo visto la miseria
dei nostri quartieri. Avevo ascoltato la voce della ri
bellione, ma non avevo ricevuto sulla faccia, come
uno schiaffo, il suo richiamo. Quell’idea che ti cresce
dentro e ti scava solchi nella pelle, ti propone l’avven-
tura suprema, ti parla dolcemente nell’orecchio, per
conto del destino.
Non era un bravo oratore. Nelle assemblee pubbli
che non faceva bella figura, non infiammava i lavora
tori che si riunivano nei saloni della Casa del Obrero
Mundial. Era di un altro genere. Quando stava a
Tampico da meno di due mesi e mezzo, si era orga
nizzato insieme ad alcuni lavoratori della sezione co
munista. Con i più duri, con i più scettici, con i più
accesi nei confronti del padronato, con i più intransi
genti. Non più di una dozzina. Tutti con lo sguardo
febbrile, lucido.
Andammo insieme ad abitare in una casa abban
donata sul fiume Panuco. Ci facemmo qualche lavo
ro di falegnameria, dormivamo per terra, fianco a
fianco, guardando il cielo attraverso i buchi del tetto.
Un giorno arrivò con Greta. Era una puttana tede
sca, che avevo visto nei Salones Imperiai, mentre be
veva insieme ai capi gringos delle compagnie, fine, di
stante dalla plebe, sempre vestita di garze e tulle dai
colori pastello.
San Vicente la portò a casa nostra e lei sorrise. Sa
peva dire solo poche parole in spagnolo. Tra loro par
lavano in francese. Immagino che gli raccontasse la
sua storia, cosa che, stando alla mia esperienza, le
puttane fanno sempre durante i primi due o tre mesi
di conoscenza. Lui le doveva parlare di altre cose.
Facevamo ginnastica insieme, correvamo sulla
spiaggia, evitando le chiazze di petrolio grezzo che
arrivavano fin sulla sabbia e non se ne andavano più.
In cucina seguivamo turni precisi, preparavamo frit
telle. Io insegnai loro due canzoni, lei ce ne insegnò
una di cui non sono mai riuscito a capire le parole
(cos’è che canto, a volte? che cosa vuole dire? sto p ar
lando di una foresta incantata, di una festa, della ver
gine Maria?) e lui ce ne insegnò un’altra, una haba
nera che aveva im parato in un posto chiam ato Gijón.
Greta alternava vitalità, impeti di isteria e una ma
linconia densa che ci metteva tutti di malumore. San
Vicente e io andavamo qualche volta ai giacimenti di
petrolio; lavoravamo ai motori, parlavamo con la
gente, camminavamo per interminabili giornate lun
go la costa.
Una sera San Vicente non tornò. Greta e io, dopo
aver ciondolato per casa, ci lasciammo cadere sui
materassi con cui avevamo sostituito il pavimento
originario. Lei mi faceva paura, perché l’avevo senti
ta gemere di notte, nel sonno; perché avevo sentito i
sussurri del tulle quando San Vicente le toglieva af
fettuosamente il vestito. Trascinai il mio materasso
fino alla terrazza e cercai di dormire. Lei mi raggiun
se nuda insieme alla notte, mi carezzò i capelli e si di
stese accanto a me. I suoi seni palpitavano, chiusi gli
occhi e le misi la mano tra le gambe.
La pelle bianca brillava sotto la luna e a me uscì
una lacrima quando finimmo di fare l’amore e rim a
nemmo abbracciati, ansimanti. Pensavo di aver tra
dito il mio amico, di aver preso una cosa che gli ap
parteneva senza chiedergli il permesso, di avergli ru
bato qualcosa. Poi mi addormentai. San Vicente ci
svegliò al m attino con l’odore del caffè appena fatto.
Cercai di nascondermi e lui mi sorrise. Lei gli do
mandò qualcosa. La sua nudità risplendeva come la
notte passata, ma il giorno era nuvoloso e non c’era il
sole a farle brillare la pelle. Lui le rispose in francese,
poi si rivolse a me per tradurre.
«In galera. Ho passato la notte in galera. La polizia
ha fermato tutto il gruppo per via di un manifesto
che avevamo attacchinato ieri sera.»
Un paio d’ore dopo, mentre grattavo la sabbia con
i piedi, venne a chiam arm i per un lavoro: bisognava
riparare la caldaia di un albergo.
«Lei non è proprietà di nessuno, amico. Tu non sei
proprietà di nessuno. Io non ho proprietà, ho dei
compagni. Tranquillo» mi disse. Fu tutto quello che
mi disse.
Qualche tempo dopo, Greta si uccise bévendo l’ar
senico che aveva pazientemente distillato dalla carta
moschicida. Lo fece in una stanza d’albergo, in città,
immagino per non comprometterci. Non ho mai sa
puto il perché. Se lasciò qualche riga non fu per me.
San Vicente non me ne parlò mai.
Un mese dopo, San Vicente lasciò Tampico. Anda
va a Città del Messico per rappresentare la sezione
comunista a un congresso. Pensai che non lo avrei
più rivisto. Lo salutai sul molo perché prim a andava
a Veracruz e poi avrebbe proseguito in treno alla vol
ta di Città del Messico. Indossava un vestito bianco e
aveva con sé la sua borsa degli attrezzi. Rimasi sul
molo. Solo, con due lavori nuovi e poco più di sedici
anni.
Quattro
Non esistono fotografie di San Vicente. Neppure una.
Ho l’impressione (da dove mi arriva?) che fosse un
po’ contratto, teso. C’è un disegno che lo ritrae, pub
blicato in El Demócrata (febbraio 1921, Città del
Messico), l’ho qui tra le mani. Sopracciglia vicine, na
so adunco, vestito un po’ frusto e gilet; i capelli petti
nati all’indietro. Dimostra una quarantina d’anni.
Sbagliato, non ne ha più di trenta. L’impressione è
che… Non so che cazzo d’impressione sia. Probabil
mente perché il disegno non coincide con l’immagine
che mi sono formato in testa. Quello che mi dà fasti
dio in questo ritaglio di giornale è che qui San Vi
cente non sembra un uomo allegro, ha quella sorta di
rigidità esteriore, che viene da una rigidità interiore.
La soluzione potrebbe essere immaginarlo con un
mezzo sorriso. Uno di quei sorrisi che garantiscono
al loro proprietario una doppia beffa (del mondo e di
se stesso come protagonista di una tragedia un po’
assurda). Gli m ancano i baffi. Dev’essere questo, gli
m ancano i baffi.
C inque
Caro Pancho,
San Vicente mi incarica di com unicarti che sarà
qui alla fine di giugno per collaborare al lancio di El
Trabajador. È passato da Puebla come un vento di
tempesta, sem inando idee, alcune stram be e altre
non tanto, e mi sono giunte notizie del suo arrivo ad
Atlixco. Mi dicono che è stato molto attivo nei centri
della nostra federazione tessile (te ne parlerà Pache
co che è passato di qui tornando da Veracruz; ci so
no cose che preferisco non affidare alla posta) e tra i
peones delle fattorie vicine. Ha attaccato violente
mente le autorità di Atlixco ed è riuscito a far scar
cerare Sandoval che era in prigione per un’accusa di
furto messa in piedi dal padrone della Metepec e dai
suoi accoliti. Qualcosa di buono ne verrà fuori per
ché, come ti avevo raccontato in un’altra mia lettera,
e come ti avrà detto Marqués nella sua corrispon
denza, la situazione ad Atlixco si è fatta insostenibi
le. Ne parleremo. Riguardo agli opuscoli di Bakunin
che mi hai m andato, devo farti notare che non erano
un centinaio ma soltanto novantotto, ne ho venduti
sessantasette e ti spedisco il vaglia telegrafico oggi
stesso. Conosco bene la scarsità di mezzi dell’orga
nizzazione e so che non può finanziare gli scavezza
collo di provincia come me. Passando ad altro, il me
se prossimo mi unirò a una compagna di qui che
non hai il piacere di conoscere…
Quindici
da :capitano Barcena
a: Comando militare della regione dì Puebla. All’at
tenzione del maggiore R.V. Salazar Durante.
Al comando competente.
L’agente Marcial Ramos Mejía, assegnato al vii di
stretto di questa capitale, e su disposizione del suo
superiore, cap. Leonardo Márquez Lacroix, informa
lautorità competente dei fatti verificatisi oggi tra le
quattro e le cinque del pomeriggio.
Il sottoscritto era stato comandato insieme a nove
altri agenti del suo gruppo per svolgere attività di sor
veglianza presso la sede della Confederación General
de Trabajadores situata in calle de Uruguay al nume
ro 27, sperando che si avesse ha presentare il sovver
sivo spagnolo José San Vicente dicesi Sebastián San
Vicente alias Pedro Sánchez alias il Tampiqueño che
è ricercato perché essendo stato espulso dal Messico
e poi ha rientrato per continuare le sue attività illega
li come secondo informazzioni del capitano. Alle
quattro del pomeriggio circa ci siamo schierati sul
luogo dei fatti e abbiamo avviato discretamente la
sorveglianza. Alle sei circa vedemmo entrare quel
soggetto in questione insieme a certi anarchici del
sindacato tranvieri già schedati presso il nostro di
stretto. L’identificazzione compiuta dal sottoscritto e
da due degli agenti che laccompagnavano (matricola
1103 e 876), è risultata positiva perché ci erano state
fornite fotografie del suddetto allepoca della sua
espulsione. Seduta stando, come si dice, abbiamo
passato comunicazzione al settimo distretto, che ci
ha inviato due camionette con ventiquattro poliziotti
armati. Così, il gruppo che comandavo io in assenza
del mio capitano che non si dava reperibile in quel
momento, fece interruzzione nella sede sindacalista
su citata salendo le scale e abbattendo lingresso vale
a dire la porta. Si svolgeva una assemblea della fede
razione tranvieri nel locale dove erano presenti non
meno di circa duecento quasi trecento membri della
stessa. Al momento della nostra entrata e per quanto
intimavamo opportunam ente di tenere le mani in al
to, si sono avvinghiati contro di noi molti dei presen
ti, più che con intenzione di aggredire con quella di
fare massa per intralciare la nostra missione, essen
do che uno degli agenti del distretto (matricola 1123)
sera accorto come il menzionato San Vicente sera
infilato in un gabbinetto, vale a dire attraverso una
porta che poi apprendemmo essere di un gabbinetto.
Ci siamo fatti strada dopo un certo parapiglia con i
presenti (allegato elenco dei sindacalisti e degli agen
ti che sono rimasti contusi) e chi scrive il rapporto a
perso una fibbia del cinturone e gli anno spaccato un
sopracciglio ma senza dover far uso delle nostre armi
da fuoco come ci era stato ordinato. A chi scrive
toccò l’incarico di aprire la porta del gabbinetto che
risultava chiusa da dentro come verificai in prece
denza e fu una sorpresa scoprire che dentro non c’e
ra nessuno e che San Vicente era scomparso. Il gab
binetto, trattasi di una stanza di un metro e mezzo
per un metro di larghezza con un vaterclos e un la
vandino e si trova in notevole stato di sporchizia. Ha
come sola ventilazzione una finestrella di venticin
que (25) centimetri di larghezza e quindici di altezza
situata sopra il vaterclos. La finestrella in quanto il
locale si trova al terzo piano dà su un cortile interno.
Sono state fatte prove per vedere se qualcuno poteva
uscire da quello spazio verificando senza lombra di
dubbio che è impossibile. Ciò visto è stato punito la
gente (matricola 1123) che aveva detto che il San Vì
cente si era nascosto nel gabbinetto, anche se esso si
è difeso dicendo che la porta era chiusa da dentro.
Dato che la porta della sede era stata sorvegliata da
diversi agenti e nessuno era uscito e poi era stata fat
ta una minuzziosa percuisizzione dei presenti, non
resta niente da aggiungere al sottoscritto, Marcial
Ramos Mejia (matricola 978).
(In fondo, scritto a mano, a matita: «Degradarlo ad
agente semplice per coglionaggine» e una firma illeg
gibile.)
Trentacinque
Stava pulendo le sue due armi. La Browning calibro
25 autom atica brunita e la Colt police special calibro
32-20. La prim a gliel’avevano regalata ad Atlixco, la
seconda l’aveva avuta per uno scambio dal padrone
di un’arm eria del centro: aveva riparato la caldaia
che forniva il riscaldamento a tutto l’edificio, e il pa
drone gli aveva regalato il revolver. Le puliva una vol
ta alla settimana, mettendo i pezzi su una pelle sca
mosciata e oliandoli.
Sul tavolo di legno, dove ci si sedeva per dirigere le
riunioni, accanto alla pelle scamosciata era rimasto
un piatto con pochi resti di cibo. Una fila di formiche
impegnate a trasportare briciole di pane viaggiava
tra il tam buro del revolver e i proiettili. San Vicente
le guardava sorridendo mentre oliava le sue armi.
Trentasei
Lui approfitta delle gocce di pioggia che scivolano
sulla finestra, le prende con le dita e si pettina. Lei at
traversa la strada, piangendo, due piani più sotto, u r
tando quelli che cam m inano in senso contrario, esi
ta, accelera il passo evitando una pozzanghera, cerca
con lo sguardo la finestra al secondo piano ed è qua
si investita da una Packard verde da cui escono grida
e risate. Lui lascia la finestra dove è rim asto ad aspet
tare per due ore ed entra nel bagno; si lava meticolo
samente le mani per liberarsi degli ultimi residui del
grasso del motore su cui ha lavorato, poi va verso la
porta. Quando la apre lei è già lì, in attesa; affonda il
capo nel suo gilet e glielo bagna di lacrime e della
pioggia che ha tra i capelli. Lui cerca di guardarla ne
gli occhi, ma lei li nasconde, fissandoli sul bottone
più alto del gilet grigio. «Perché non possiamo essere
come gli altri?» dice lei, m a lui non ha sentito bene
quel che è stato detto in un sussurro, e capisce: «Do
ve sono gli altri?»; perciò risponde: «Quali altri?».
«Gli altri» gli dice lei. «Chiunque altro», insiste. Lui
non capisce, e le sistema i riccioli schiacciati dalla
pioggia che le coprono la fronte, mentre chiude la
porta. Lei ripete: «Perché non possiamo essere come
tutti gli altri?». Lui capisce cosa voleva dire e le ri
sponde: «Sarebbe terribile». Ma si rende conto che
nella dom anda c’è qualcosa di più della retorica degli
sconfitti, e la guarda con attenzione. Lei gli si rannic
chia contro, si nasconde, affonda i capelli sotto il na
so adunco di lui che, senza volerlo, si riempie di odo
re di pioggia. In piedi all’ingresso della stanza, illu
m inata da un lume a petrolio che appena rischiara, e
male, un cerchio di tre metri di diametro, sembrano
una coppia di attori a disagio che hanno dimenticato
la parte e aspettano soltanto il soffio della voce del
suggeritore che li riporterà alla magia della scena e al
momento degli applausi. Lui le accarezza la schiena
e sente il corpo di lei curvarsi per il dolore. «Che co
sa succede?», le domanda, e lei si scioglie dall’ab
braccio e si allontana dall’alone di luce verso il letto
di San Vicente, una branda che adesso è coperta di
giornali su cui ci sono chiavi inglesi e tubi di rame.
Non può lasciarsi cadere sul letto, e si siede su un an
golo. La luce è rim asta lontana, e lui indovina il pro
filo di lei, confuso con quello del letto, lei che piange
e tira su con il naso. Con la lampada Coleman in m a
no si avvicina e comincia a togliere metodicamente
gli attrezzi da lavoro, mettendo i giornali sul pavi
mento e sopra il saldatore, pezzi della macchina, un
dado arrugginito. Lei approfitta dello spazio che si è
liberato e si stende sul letto, le scarpe si impigliano
nel lenzuolo e lo macchiano di fango; gli orli della
lunga gonna nera sono consunti, tra questa e lo stiva
letto, la calza bianca m ostra un rammendo, lo scialle
nero è rattoppato. Sulla camicia bianca ci sono due
strisce insanguinate che sussultano mentre lei, con la
faccia affondata nel cuscino, singhiozza. Lui va verso
la cucina, sistemata in un angolo della stanza, e da
un fornello a petrolio prende un bollitore, versa ac
qua in una tazza vuota e dal tavolino afferra un cen
cio di dubbia pulizia. «Non strappare la camicia, è
l’unica che ho» dice lei, «si può ancora lavare» e,
senza guardarlo, la sbottona volgendogli le spalle.
Lui l’aiuta a liberare i bottoni delle maniche e a sfi
larsi la camicia, staccandola con attenzione dalla
parte insanguinata. I seni di lei, grandi e appuntiti,
dondolano liberi. Sulla schiena ha due ferite, due ri
ghe al cui centro la pelle è lacerata e si vede il sangue.
«Chi te le ha fatte?» dom anda lui. «Che importa» di
ce lei. Lui bagna nella tazza il cencio da cucina e ri
pulisce accuratam ente le ferite, si morde le labbra,
un paio di lacrime gli escono dagli occhi e gli rotola
no giù per la faccia prima di cadere nella tazza.
Trentasette
TVentasette
Esci dal sonno tra le urla, e salti giù dalla branda con
il pigiama a righe celesti e grigie, carcerario, e la pi
stola in pugno, presa da sotto il cuscino. Il pavimen
to è freddo. Anche se il mondo intorno a te si è tra
sformato in una specie di folle carnevale, cerchi di
orientarti. Di ricordare dove stavi dormendo, in qua
le casa, dove danno le porte, su quali strade. Perché è
ovvio che quelli che ti cercano si stanno avvicinando;
non c’è dubbio: quelle grida, quegli ordini confusi, i
calci dei fucili che battono contro il legno di una por
ta. Ti infili le scarpe senza calze e ti appendi l’altra pi
stola alla spalla dopo aver verificato che è carica.
«Venga fuori, San Vicente, con le mani in alto!»
C’è una finestra, ti affacci. Alle tue spalle risuonano
alcuni spari che bucano le assi della porta. Comin
ciamo dall’inizio: trascini contro la porta un armadio
da un metro e mezzo, e poi ci metti sopra la branda
di tela e un baule pieno di piatti vecchi. La finestra.
Un primo piano. Metti fuori la testa, con i capelli rit
ti, come se avessi preso uno spavento. E questo che
cazzo è, se non uno spavento? I vetri si infrangono,
un colpo entra dalla finestra. La pallottola si conficca
nel soffitto spargendo una nuvola di calce. Con la
canna della Colt elimini i pezzi di vetro rim asti e spa
ri cinque volte in rapida successione. I colpi dei calci
di fucile m andano la porta in pezzi. Salti dalla fine
stra. Quando i piedi toccano terra perdi una scarpa,
continui a sparare, adesso con il revolver, verso due
om bre che scappano. Ricarichi alla luce del lampio
ne, e poi ti metti a correre come un fantasm a in pi
giama per le strade acciottolate di San Àngel, cantan
do a squarciagola Hijos del Pueblo, stonando la strofa
che dice: «Rojo pendón, de libertad». Pensi che, in
queste particolari e allucinanti circostanze, sarebbe
meglio cantare la nona di Beethoven.
Quarantasette
«Nome?»
«Sebastián San Vicente Bermúdez.»
«È quello vero?»
«Sì. O meglio, è il primo, perché veri lo sono tutti,
se uno li usa bene e per un tempo sufficiente. E il suo,
colonnello? Qual è il suo nome?»
«Non ha importanza. Del resto non sono io sotto
interrogatorio, e lei non ha modo di prendere nota
delle risposte, se gliene dessi.»
«Qui, nella testa.»
«Anche se fosse, a cosa le serve il mio nome?»
«A niente. Pura curiosità.»
«Età?»
«Ventisette anni.»
«Luogo di nascita?»
«Gijón, Asturie, Spagna. Un paese di operai metallurgi
ci, di pescatori, di vetrai, sulla costa settentrionale della
Spagna, da dove viene il carbone delle miniere asturiane.»
«Lo so, ho una mezza idea di averlo visto su una
carta geografica.»
«E come le è sembrato?»
«Non so… un punto, come sembrano le cose su
una carta geografica. Stato civile?»
«Celibe.»
«Religione?»
«Dice sul serio?… Nessuna, è chiaro.»
«Ma lei non è anarchico?»
«Certo.»
«E non è una religione?»
«Se vuole metterla così… Religione: anarchico. È
divertente. Ha un suo fascino.»
«Va bene così. Durata del soggiorno in Messico?»
«Trenta mesi e cinque giorni.»
«È entrato legalmente nel paese?»
«La prim a volta. La seconda sono entrato a piedi
dalla frontiera con il Guatemala. Già, dovrebbe scon
tarm i un mese dal soggiorno in Messico.»
«Perché è entrato illegalmente?»
«Perché non credo nella legalità. E, visto che ci sia
mo, non credo nemmeno alle frontiere. Tra Messico e
Guatemala non c’era differenza. Si passa da un albe
ro all’altro nella foresta, e nient’altro. Nemmeno gli
alberi riconoscono le frontiere.»
«Gli alberi non possiamo estradarli.»
«Meglio per loro.»
«E che cosa faceva in Messico?»
«Ero di passaggio.»
«Di passaggio?»
«Di passaggio.»
«Di passaggio per andare dove?»
«Faccia lei…»
«Tìtolo di studio?»
«Quello che dà la vita; mi hanno insegnato a legge
re e a scrivere in una scuola di suore. Quello che ho
scritto e ho letto dopo di allora sono affari miei, ne
sono io il responsabile.»
«Mettiamo autodidatta?»
«Metta quello che vuole.»
«Aderente a partiti o a organizzazioni?»
«Sì, a lla cgt in Messico.»
«E in altre parti del mondo?»
«È ancora da vedere.»
«Che legami ha con l’Intemazionale comunista?»
«Nessuno. Ci risiamo?»
«Con che cosa?»
Con la discussione tra la prima e la terza interna
zionale. Pensavo che, almeno qui, mi sarebbe stata
risparmiata.»
«Non si preoccupi, delle sue faccende non m ’im
porta un cavolo.»
«Tante grazie.»
«Ha processi in sospeso in Spagna?»
«No, nessuno.»
«E negli Stati Uniti o a Cuba?»
«Immagino di sì. Anche se nel caso di Cuba non ho
informazioni recenti.»
«Non im porta… In Messico ha preso parte a qual
che attività illegale?»
«Secondo chi?»
«Secondo me, amico. Non renda le cose difficili:
secondo le leggi messicane…»
«Non riconosco…»
«Be’, anche se non le riconosce.»
«Che cosa vuole che risponda?»
«Di no: ho ricevuto istruzioni di estradarla, non di
arrestarla, e nemmeno di sottoporla a giudizio. Il go
verno messicano vuole soltanto liberarsi di lei, non la
vogliamo nemmeno nelle nostre prigioni. Per questo
non le domanderò se ha fatto fuoco contro i soldati
nella sparatoria di calle de Uruguay, né se ha avuto a
che fare con l’attacco a quelli della crom a Tlalpan, e
non voglio sapere se ha assalito l’am m inistratore del
la Guadalupana di Atlixco. Come vede, la preferisco
innocente.»
«Bene, se le cose stanno così, entro a far parte del
l’esercito delle anime candide… Immagino che non
le interessi nemmeno sapere che quattro giorni fa,
quando mi hanno preso a Città del Messico, sono sta
to pestato per cinque ore da un colonnello di polizia
e da quattro soldati… No, immagino che neanche
questo le interessi.»
«Denaro ne ha?»
«Credo di poter mettere insieme sì e no un paio di
pesos.»
«Non ne ha bisogno.»
«Per che cosa?»
«Per pagare il biglietto del viaggio.»
«Ah, certo che no. Se mi estradate, offrite voi.»
«Così sembra.»
«Sì, così sembra.»
Cinquantadue
C in q u an tad u e
Ristampa Anno
1 2 3 4 5 98 99
In copertina
illustrazione di Anthony Russo
“Dove passa i momenti liberi? Con chi fa l’amore?
A che ora sogna? Dove vanno i suoi sogni?”
ISBN 8 8 - 4 3 8 - 0 0 0 1 - 9
788843 800018