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CIVILTà ROMANA
Rivista pluridisciplinare di studi su Roma antica
e le sue interpretazioni

III – 2016

Edizioni Quasar
Direttore scientifico
Anna Maria Liberati

Comitato scientifico internazionale


Joshua Arthurs • West Virginia University, Morgantown
Silvana Balbi de Caro • Bollettino di Numismatica, MiBACT, Roma – Museo della Zecca di Roma, IPZS
Gino Bandelli • Università degli Studi di Trieste
Marcello Barbanera • “Sapienza” Università di Roma
Mihai Bărbulescu • Universitatea Babeş Bolyai, Cluj-Napoca – Accademia di Romania in Roma
Giovanni Brizzi • “Alma Mater Studiorum” Università di Bologna
Franco Cardini • Istituto di Scienze Umane e Sociali, Scuola Normale Superiore, Pisa
Maddalena Carli • Università degli Studi di Teramo
Juan Carlos D’Amico • Université de Caen Basse-Normandie
Lucietta Di Paola Lo Castro • Università degli Studi di Messina
Maurilio Felici • LUMSA, Palermo
Philippe Fleury • Université de Caen Basse-Normandie
Oliver Gilkes • University of East Anglia, Norwich
Anna Pasqualini • Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Giuseppina Pisani Sartorio • Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Roma
Isabel Rodà de Llanza • Universitat Autònoma de Barcelona – ICAC, Tarragona
Friedemann Scriba • “Hermann Hesse” Oberschule, Berlin
Paolo Sommella • “Sapienza” Università di Roma – Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma
Heinz Sproll • Universität Augsburg

Coordinamento editoriale: Teresa Silverio


Editing: CIVILTÀ ROMANA. Rivista pluridisciplinare di studi su Roma antica e le sue interpretazioni
Via Salaria 1495/U, B6, 00138 Roma – tel./fax 068887304 – email: rivistaciviltaromana@gmail.com
This is a peer-reviewed Journal

CIVILTÀ ROMANA
Rivista pluridisciplinare di studi su Roma antica e le sue interpretazioni
Direttore responsabile: Enrico Silverio
Proprietario: Anna Maria Liberati
Registrazione Tribunale Ordinario di Roma n. 265 del 27 novembre 2014
ISSN 2421-342X
© Roma 2017 Anna Maria Liberati

Edizioni Quasar di Severino Tognon s.r.l.


via Ajaccio 41-43, 00198 Roma
tel. 0685358444, fax 0685833591
email: info@edizioniquasar.it

Finito di stampare nel mese di aprile 2017

Nessuna parte del presente volume può essere riprodotta senza preventivo permesso scritto degli aventi diritto
Sommario

Presentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V
Editoriale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII

Heinz Sproll, Aitiologische Narrative Vergils (70-19 v. Chr.) um die Res publica restituta des
Augustus (63 v. Chr. - 14 n. Chr.). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1
Sergio Rinaldi Tufi, Marocco antico. Dai re dei Mauri alla provincia romana di Mauretania
Tingitana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
Alessandro Pergoli Campanelli, Conservazione, tutela e restauro delle antichità:
Cassiodoro e l’inizio dell’era moderna. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Juan Carlos D’Amico, La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi. 47
Enrico Silverio, Divus Augustus pater. Augusto, Roma, l’Italia e l’Impero nel Cinquantenario
del Regno d’Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
Flavia Marcello, All Roads Lead to Rome: the Universality of the Roman Ideal in Achille Funi’s
incomplete fresco cycle for the Palazzo dei Congressi in EUR, 1940-43. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151
Martin M. Winkler, Imperial Roman Architecture Made in Hollywood. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Per il novantesimo anniversario dell’istituzione del Museo dell’Impero Romano

Anna Maria Liberati, Il Museo dell’Impero Romano. La genesi, l’istituzione, lo sviluppo, la sorte. 203
Friedemann Scriba, La romanizzazione dell’antichità nel Museo dell’Impero (1927-1939).
Una tappa tra l’interpretazione nazionalista di materiali archeologici e la messa in scena olistica
in senso fascista. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279
Letizia Lanzetta, Momenti di vita del Museo dell’Impero Romano nelle carte d’archivio dell’Istituto
Nazionale di Studi Romani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303
Enrico Silverio, 21 aprile 1927: l’inaugurazione del Museo dell’Impero Romano nella stampa
quotidiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329

Abstracts. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 361
Notiziario. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 369
La rivolta di Cola di Rienzo:
dalla Roma vidua alla Roma caput mundi*

Con le trasformazioni economiche che si produssero nella penisola italiana a partire dall’XI
secolo, le città divennero i nuovi centri di scambi commerciali e di produzione di ricchez-
ze. Questa rivoluzione economica determinò un’evoluzione sociale che mise in pericolo la
gerarchia tradizionale. Durante il XIII ed il XIV secolo, il “popolo grasso” s’impose come
classe dirigente in numerosi comuni italiani e vi sviluppò una politica contraria agli inte-
ressi dell’oligarchia dei magnati. Le reazioni a questa trasformazione radicale da parte delle
persone colte differì a seconda delle loro origini sociali e geografiche, delle esperienze vis-
sute, dei loro impegni e dei loro ideali. Dante, ad esempio, si scagliò contro questa «gente
nova»1 e si volse con nostaglia verso il passato; altri invece, come Boccaccio, presero parte
alla celebrazione del mercante, il nuovo modello umano che, nella società e nella letteratu-
ra, prese il posto del cavaliere cortese diffuso nel XII secolo dalla scuola siciliana2.
Questo nuovo modello portò alla creazione di una nuova scala di valori di cui l’accumu-
lazione del capitale, lo spirito d’iniziativa, la sagacia nella gestione delle proprie ricchezze,
la prudenza negli affari e la riuscita sociale furono gli elementi portanti. La fine del XII e
l’inizio del XIII secolo videro apparire una serie di opere letterarie in lingua vernacolare
strettamente legate a tale rivoluzione dei costumi. Queste opere portarono sulla scena cul-
turale le ambizioni della borghesia, la nuova classe sociale impegnata nella costruzione del
sistema comunale. Da parte loro, i cronisti si impegnarono a trasmettere l’immagine di una
società comunale del tutto presa dalle trasformazioni istituzionali ed urbanistiche delle cit-
tà, una società fiera, orgogliosa e molto combattiva. Con loro la gloria di Roma antica tornò
in primo piano quale legittimazione del potere comunale.
A prescindere dalla supposta influenza, evidenziata dalla critica, del Liber Ystoriarum
Romanorum3 e di un’altra cronaca dal titolo De quibusdam gestis sulla nascente storiografia
comunale, è certo che l’immagine di Roma mater, già incontrata presso Dante a proposito
di Firenze4, traduceva perfettamente il titolo di nobiltà e d’orgoglio municipale delle città
italiane. La maggior parte dei Comuni volle infatti rivendicare la propria filiazione da Roma

* Traduzione dal francese di Teresa Silverio.


1 
If XVI 73-75: «La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
2 
Sul tipo umano del mercante vd. ad esempio A.Ja. Gurevič, Il mercante nel mondo medievale, in A. Giardina - A.Ja.
Gurevič, Il mercante dall’Antichità al Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 63-127, già in L’uomo medievale, a cura di J. Le
Goff, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 271-317.
3 
Vd. ad esempio A. Del Monte, La storiografia fiorentina dei secoli XII e XIII, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo», LXII (1950), pp. 175-282.
4 
Sia consentito il rinvio a J.C. D’Amico, Dante e le rappresentazioni allegoriche di Roma, in «Civiltà Romana» II (2015), pp.
101-116.
48  Juan Carlos D’Amico

antica inserendola nelle leggende e nell’immaginazione creatrice dei suoi cronisti: è il caso,
solo per citarne alcune, di Pisa, Siena, Piacenza o Firenze5.
Il cronista fiorentino Giovanni Villani (c. 1275-1348), ad esempio, richiama la leggenda
della prima fondazione di Firenze da parte di Giulio Cesare presso il luogo ove Fiorino – il pre-
tore romano incaricato di distruggere Fiesole per aver seguito Catilina durante la sua rivolta
– aveva trovato la morte6. Per Villani Firenze è «figliuola e fattura di Roma»7 e, proprio come
sua madre, aveva subito l’attacco dei barbari e era stata straziata da «Totile Flagellum Dei»8.
Il cronista si riferisce anche ad una leggenda sulla ricostruzione di Firenze realizzata grazie alla
«potenzia di Carlo Magno e de’ Romani». Secondo Villani, dopo l’incoronazione il primo
imperatore cristiano del medioevo ricevette una delegazione di ambasciatori fiorentini la cui
missione era di ottenere da Carlo Magno e da Leone III l’invio di cavalieri e soldati per con-
sentire la ricostruzione della città, ostacolata dagli abitanti della nemica Fiesole. Carlo Magno
soddisfece la loro richiesta facendo intervenire truppe in «grande quantità», mentre i Ro-
mani, come già avevano fatto i loro antenati all’epoca della prima fondazione, inviarono le
«migliori schiatte di Roma, e di nobili e di popolo» per ripopolare la città. Carlo Magno
ordinò che quest’ultima venisse governata da due consoli e da un consiglio di cento sena-
tori «al modo di Roma»; l’imperatore investì numerosi cavalieri e concesse alla città un
privilegio imperiale. La «nuova Firenze» era così libera ed affrancata da ogni potere ostile9.
La storia riportata da Villani ci mostra il carattere politico rivestito dalla leggenda, dal
momento che essa valse a legittimare la struttura delle istituzioni fiorentine, modellate su
quelle di Roma antica. La prima Firenze, quindi, doveva la sua nascita alla Roma imperiale
e la “nuova Firenze” nacque come una “seconda Roma” tre secoli dopo la distruzione della
città ad opera dei “barbari”10.
La Cronica dell’Anonimo Romano, redatta tra il 1357 ed il 1358 con una postilla di aggior-
namento successiva al 1360, si colloca in questa stessa corrente di letteratura comunale11. La

5 
Altre città italiane vantavano una fondazione anteriore alla nascita di Roma: vd. J. Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia
medievale (secoli V-XV), in Storia d’Italia. Annali, 5, Il paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi, 1982, pp. 3-43 (27).
Sul punto cfr. anche L. Braccesi, Roma bimillenaria. Pietro e Cesare, Roma, «L’ERMA» di Bretschneider, 1999, pp. 34-39.
6 
G. Villani, Nuova Cronica, I 31-37 e II 1.
7 
Ibidem, II 4.
8 
Ibidem, II 1.
9 
Ibidem, IV 1-3.
10 
Sono numerose le fonti letterarie che menzionano la leggenda di Carlo Magno quale restauratore di Firenze. Nell’Inferno,
Dante si riferisce alla seconda fondazione «sovra ’l cener che d’Attila rimase» e nel Paradiso egli evoca i benefici accordati da
Carlo Magno alla Chiesa di Roma: vd. If XIII 149 e Pr VI 96. Boccaccio allude alla storia narrata da Villani nel Ninfale Fiesolano
e nel Trattatello in laude di Dante, ricorda l’origine romana di Firenze, la sua distruzione da parte di «Attila, crudelissimo re
de’ Vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia» e la sua nuova nascita sotto l’egida dell’imperatore cristiano. Boccaccio
collega queste leggende alla translatio imperii e considera Carlo Magno come un inviato della Divina Provvidenza. Influenzato
probabilmente da Dante, l’autore del Decamerone aveva confuso il nome del re in questione: Attila non era re dei Vandali e gli
Unni non avevano mai varcato il Po. Si trattava in realtà di Totila, re degli Ostrogoti, che nel 542 aveva assediato la città, per
quanto senza distruggerla: si consulti G. Boccaccio, Ninfale fiesolano, in Opere in versi, Milano -Napoli, Ricciardi, 1965, pp.
144-145 (= vv. 461-462), nonché Id., Trattatello in laude di Dante, Milano, Garzanti, 1995, pp. 9-10. Su Firenze come Figlia di
Roma, vd. anche D. Weinstein, Savonarole et Florence, Paris, Calmann-Lévy, 1973, pp. 45-66.
11 
Vd. Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979. Per la data di redazione del testo, vd. anche M.
Miglio, Anonimo romano, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350), Atti del quattordicesimo Convegno
Internazionale di studio, Pistoia, 14-17 maggio 1993, Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, 1995, pp. 175-187 (187).
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  49

cronaca comprende anche riferimenti alla storia spagnola, francese ed italiana, ma in modo par-
ticolare essa fornisce una precisa testimonianza della storia comunale di Roma e del tentativo
rivoluzionario di Cola di Rienzo (fig. 1), sostenuto nella sua impresa da gruppi economici e so-
ciali la cui importanza si era accresciuta durante i due secoli precedenti e che si consideravano
soffocati dal potere dei rappresentanti della Chiesa e della nobiltà12. Roma si trovava all’epoca
in preda alle lotte intestine tra le differenti fazioni aristocratiche, e l’intenzione di Cola di Rien-
zo era quella di cambiare la costituzione della città e di liberarla dalla tirannide dei baroni.
È anche in quest’epoca che si palesa più forte il contrasto tra il Comune e la Santa Sede13.

12 
Gianfranco Contini definisce la Cronica un capolavoro praticamemte misconosciuto della letteratura antica. Egli descrive
l’autore come un umanista borghese che utilizza il dialetto a favore del pubblico meno colto, e considera il suo stile come un
«prodigio di paratassi e di asindeto». Contini desiderava che la lettura di questa opera «capitale» entrasse nelle abitudini di
ciascun italiano colto. Egli considera, al contrario, il rimaneggiamento di d’Annunzio (1905) (fig. 2) come una descrizione di
tono grottesco e sardonico, «un caso clinico di megalomania»: G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni,
1970, pp. 504-506. Per una visione generale della Cronica, vd. L. Felici, La Vita di Cola di Rienzo nella tradizione cronachistica
romana, in «Studi Romani», XXV (1977), 3, pp. 325-343; G. Tanturli, La Cronica di Anonimo Romano, in «Paragone»,
a. XXXI, n. 368 (ottobre 1980), pp. 84-93; G.M. Anselmi, Il tempo della storia e quello della vita nella Cronica dell’Anonimo
romano, in «Studi e problemi di critica testuale», XXI (1980), pp. 181-194; Id., La Cronica dell’Anonimo romano: problemi
di inquadramento culturale e storiografico, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», XCI (1984), pp. 423-
440; M. Pozzi, Appunti sulla Cronica di Anonimo Romano, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», a. XCIX, n. 159
(1982), pp. 481-504; M. Miglio, La “Cronica” dell’Anonimo romano, in «Roma nel Rinascimento», VIII (1992), pp. 19-37; Id.,
Anonimo romano, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana, cit., pp. 175-187; J. Bartuschat, Analyse stylistique d’un
texte historiographique: La Cronica dell’Anonimo Romano, in Arzanà. Chemins de la prose, éd. C. Perrus, Paris, Presses de la
Sorbonne Nouvelle, 1995, pp. 53-91; R. Delle Donne, Storiografia ed “esperienza storica” nel medioevo: l’Anonimo romano,
in «Storica», VI (1996), 2, pp. 97-117; A. Modigliani, Signori e tiranni nella “Cronica” dell’Anonimo romano, in «Rivista
storica italiana», CX (1998), 2, pp. 357-410; G. Seibt - R. Delle Donne, Anonimo romano. Scrivere la storia alle soglie del
Rinascimento, Roma, Viella, 2000 e M. Campanelli, The Preface of the Anonimo Romano’s Cronica: Writing History and
Proving Truthfulness in Fourteenth-Century Rome, in «The Medieval Journal», III (2013), 1, pp. 83-101.
13 
Discutere di Cola di Rienzo (1313-1354) costituisce un’impresa esaltante ma delicata, a causa dei problemi sollevati
nel dibattito scientifico e delle conclusioni talvolta completamente antitetiche che la sua personalità e le sue azioni hanno
suscitato. Cola di Rienzo non procedette soltanto ad operare delle riforme nelle istituzioni comunali, egli tentò infatti
anche di mettere in pratica quanto vi fosse di realizzabile nell’idea imperiale di Roma. Secondo uno dei suoi biografi, Paul
Piur, la possibilità di una concreta realizzazione dell’idea imperiale costituisce la chiave per comprendere l’intero operato
di Cola. Su questo punto vd. P. Piur, Cola di Rienzo, Milano, Treves, 1934; E. Dupré-Theseider, L’idea imperiale di
Roma nella tradizione del Medioevo, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Documenti di storia e di pensiero
politico, 17), 1942, pp. 273-345; G. Vinay, Cola di Rienzo e la crisi dell’universalismo medievale, in «Convivium», II (1948),
pp. 96-107; E. Rodocanachi, Cola di Rienzo. Histoire de Rome de 1342 à 1354, Paris, A. Lahure, 1888; F. Gregorovius,
Storia della città di Roma nel Medioevo. Dal secolo V al XVI, voll. I-IX, Venezia, Antonelli, 1872-1876, VI, pp. 269-363 (libro
XI, capitolo V, paragrafo 3 e capitolo VI, paragrafi 1-4) e pp. 394-434 (libro XI, capitolo VII, paragrafi 3-4). Vd. anche, nel
«Dizionario Biografico degli Italiani», la voce estremamente charificatrice realizzata da J.-C. Maire Vigueur e la relativa
bibliografia. Come afferma Maire Vigueur, tra le prime opere su Cola la monografia di F. Papencordt (1841) «risponde ai
criteri scientifici molto più delle pagine tuttavia assai più famose» del Gregorovius: vd. J.-C. Maire Vigueur, s.v. Cola di
Rienzo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», XXVI, Roma, Treccani, 1982, pp. 662-675 (675). D’altra parte, l’opera
di K. Burdach e P. Piur, nonostante sia datata, resta ancora un punto di riferimento essenziale per una visione generale
dell’azione di Cola: vd. K. Burdach - P. Piur, Briefwechsel des Cola di Rienzo, Berlin, I-V, 1913-1929. Per lavori più recenti,
vd. T. di Carpegna Falconieri, Cola di Rienzo, Roma, Salerno, 2004, ed inoltre L. Braccesi, Roma bimillenaria, cit., pp.
123-127; A. Vauchez in A. Giardina - A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma - Bari, Laterza,
2000, pp. 49-51; A. Collins, Greater Than Emperor. Cola di Rienzo (ca. 1313-54) and the World of Fourtheenth-Century
Rome, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2002; R.G. Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and the Politics
of the New Age, Berkeley - Los Angeles (CA) - London, University of California Press, 2003; T. di Carpegna Falconieri,
Rappresentazione del potere e sistemi onomastici. Il caso di Cola di Rienzo, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori
Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo (Nuovi studi storici, 76), 2008, pp. 173-
185, ed A. Modigliani, Cola di Rienzo e l’Italia. Parole, immagini, simboli di un progetto politico, in L’Officina dello sguardo.
Scritti in onore di Maria Andaloro. I luoghi dell’arte. Immagine, memoria, materia, a cura di G. Bordi et alii, Roma, Gangemi,
2014, I, pp. 441-446, con ulteriore bibliografia. Si veda inoltre J.C. D’Amico, Le mythe impérial et l’allégorie de Rome. Entre
Saint-Empire, Papauté et Commune, Caen 2009, pp. 123-151.
50  Juan Carlos D’Amico

Fig. 1. Il busto di Cola di Rienzo realizzato nel 1871 da Girolamo Masini (1840-1885) e posizio-
nato nei giardini del Pincio, a Roma.
Fig. 2. Copertina dell’edizione de La vita di Cola di Rienzo di Gabriele d’Annunzio pubblicata nel
febbraio 1943.

Nel 1342, Cola si riunì ad una delegazione composta dai due senatori romani e da
numerosi rappresentanti dell’aristocrazia, del clero e delle corporazioni artigianali, che si
recava in Avignone per rendere omaggio al nuovo papa Clemente VI (1342-1352)14. La
delegazione era stata incaricata dalle istituzioni cittadine di incitare il pontefice a ritornare
a Roma e ad indire un giubileo. Inviato dai tredecim boni viri che si erano in quel momento
impadroniti del potere nella città, Cola approfittò dell’occasione per spiegare a Clemente
VI la situazione di conflitto in cui versava Roma15. Il giovane romano fece mostra delle sue
conoscenze classiche e bibliche e si fece notare per le sue doti oratorie che piacquero al
papa, ma che suscitarono l’inimicizia dei nobili romani presenti ad Avignone. Dopo esere
stato tenuto per un certo tempo ai margini della Curia, probabilmente a causa dell’ostilità
del cardinale Giovanni Colonna, nell’aprile del 1344 Cola venne nominato notaio della

14 
Benedetto XII morì il 23 aprile 1342. L’arcivescovo di Rouen, Pierre Roger, venne allora eletto papa con il nome di
Clemente VI. In quell’epoca i titoli di “senatore” e di “capitano del popolo” appartenevano di diritto ai pontefici. Nel corso
degli ultimi anni del suo pontificato, Benedetto XII fece eleggere senatori delegati Stefano Colonna il Giovane ed un altro
barone romano del quale non si conosce l’identità. Fu in questa occasione che Petrarca, già cittadino romano ed amico dei
Colonna, scrisse la famosa epistola in cui Roma supplica il suo sposo spirituale di ritornare alla sua dimora e lo incita ad
anticipare il Giubileo: vd. Epistole poetiche, I 15.
15 
Circa le due ambasciate romane giunte ad Avignone, vd. F. Papencordt, Cola di Rienzo e il suo tempo, Torino, Pomba, 1844
(1841), pp. 324-328.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  51

Fig. 3. L’ingresso alla chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, realizzato inglobando resti della Porticus Octaviae.

“camera urbana”, ovvero dell’ufficio del Tesoro della città16. Tale carica amministrativa di
scarso rilievo era, nondimeno, un osservatorio privilegiato per la conoscenza degli ingra-
naggi dell’amministrazione, degli abusi e degli intrighi dei baroni, dei giudici e delle alte
cariche.
Al suo ritorno a Roma, Cola si mise a capo di un movimento sociale che avrebbe condotto
alla nascita di un regime popolare. In un primo tempo il suo programma politico prevede-
va il miglioramento delle condizioni economiche della città, la sicurezza delle strade intorno
a Roma, un controllo amministrativo dei distretti cittadini, la fine dell’anarchia baronale, la
preparazione del giubileo, ed un insieme di riforme delle istituzioni comunali con lo scopo di
spezzare i legami feudali, ancora esistenti malgrado la natura popolare delle origini di quelle
istituzioni. Per alimentare il proprio progetto politico e per condurre alla rivolta, Cola tentò di
risvegliare nei suoi concittadini la fierezza della passata grandezza di Roma.
Allo scopo di fare conoscere le sue idee ai Romani e di ottenere la loro adesione, Cola
fece uso – sorprendentemente – di supporti iconografici, accompagnati da numerose figu-
re allegoriche tradizionali, e del suo estro retorico. Nella Cronica dell’Anonimo Romano
ricorre la descrizione delle tavole che egli fece dipingere ed esporre in molti luoghi pubbli-
ci assai frequentati: al Campidoglio una scena apocalittica; a San Giovanni in Laterano la
raffigurazione del popolo romano nell’atto di concedere l’autorità imperiale a Vespasiano;
a Sant’Angelo in Pescheria (fig. 3) un angelo mentre salva la città dalle fiamme; a Santa
Maria Maddalena un angelo con gli emblemi di Roma in atto di schiacciare un drago, un

16 
È stata avanzata l’ipotesi secondo cui Cola ritrovò i favori del pontefice grazie all’intervento del Petrarca presso il suo amico
e protettore, il cardinale Colonna. Non vi sono prove; comunque i due si conobbero ad Avignone, come attesta una lettera del
Petrarca – Sine nomine, VI – scritta dopo la partenza di Cola da Avignone.
52  Juan Carlos D’Amico

leone, un’aspide ed un basilisco17. Si trattava di immagini particolarmente esplicite quanto


il messaggio politico che intendevano veicolare e che testimoniano l’attitudine di Cola a
creare una propaganda politica costituita da una combinazione di retorica, immagini di-
pinte ed elementi archeologici18. Molti di tali elementi integravano l’allegoria di Roma, dal
momento che Cola ne predilesse l’utilizzo allo scopo di sintetizzare gli umori del popolo e
la contingenza della città.
Roma è già presente nella prima lettera che Cola inviò da Avignone al popolo romano
alla fine del gennaio 1343, nella quale annunciava la pubblicazione da parte di Clemente
VI della bolla Unigenitus filius Dei con cui veniva proclamato il Giubileo per l’anno 135019.
In tale lettera, Cola, estremamente entusiasta, invita Roma a sbarazzarsi della sua veste a
lutto per indossare piuttosto quella da sposa; la incita a prendere la corona della libertà e
lo scettro della giustizia, ed a ritrovare una nuova virtù per offrirsi degnamente al papa, suo
sposo e signore spirituale. Roma avrebbe ritrovato così il suo splendore di sposa mistica
e, in qualche modo, avrebbe rinnovato il sogno di ringiovanimento, tipico della tradizione
classica. Cola la invita anche ad uscire dall’ombra per offrirsi alla luce dello Spirito San-
to20. La stessa immagine ritorna in un passo successivo della lettera, allorché egli esorta i
Romani a rendere grazie al pontefice deponendo le armi ed estinguendo le fiamme della
guerra21.
Secondo il racconto dell’Anonimo, al suo ritorno da Avignone, Cola fece uso di una
nuova immagine di Roma con un intento propagandistico rivolto ai suoi concittadini. Il di-
pinto del Campidoglio rappresentava una nave alla deriva, senza timone né vele, in preda ad
un mare agitato. Sulla nave che sta per affondare si trovava una donna vestita di nero, cinta
da un cordiglio di tristezza e sul punto di piangere. I capelli scarmigliati, la donna era ingi-
nocchiata ed aveva una veste lacerata all’altezza del petto, le mani giunte in atto di supplica
al cielo che non la lasciasse naufragare:

17 
La componente simbolica del pensiero medievale utilizzava la natura come repertorio di simboli e Cola se ne servì in
maniera significativa. Come scritto da Jacques Le Goff in uno dei suoi saggi, l’uomo medievale aveva una mentalità simbolica
che si riscontra in tutte le manifestazioni artistiche e sociali dell’epoca: vd. L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Roma-Bari,
Laterza, 1987, p. 34.
18 
A tale proposito, Ludovico Gatto ha scritto: «come si vede la sua (i.e. di Cola di Rienzo) è una vera campagna elettorale cui
la città viene sottoposta con uno spirito organizzativo e con un senso della programmazione e della persuasione più o meno
occulta che hanno dello straordinario e che inducono a ricredersi sulla arretratezza di una città che conosce e applica metodi
della politica molto vicini a quelli ancora in uso». Vd. L. Gatto, Storia di Roma nel medioevo, Roma, Newton & Compton,
1999, p. 457. Su tale aspetto vd. anche M. Miglio, Roma dopo Avignone. La rinascita politica dell’antico, in Memoria dell’antico
nell’arte italiana, a cura di S. Settis, I, L’uso dei classici, pp. 77-111 (79-80); S. Romano, “Regio dissimilitudines”: immagine e
parola nella Roma di Cola di Rienzo, in Bilan et perspectives des études médiévales en Europe, Actes du premier Congrès européen
d’Études Médiévales, Spoleto, 27-29 mai 1993, éd. J. Hamesse, Louvain-la-neuve, Fidem (Textes et études du Moyen Age, 3),
1995, pp. 329-336.
19 
Vd. G. Villani, Nuova Cronica XIII 11.
20 
Vd. Epistolario di Cola di Rienzo, a cura di A. Gabrielli, Roma, Istituto Storico Italiano (Fonti per la storia d’Italia), 1890,
p. 3: […] resurgat Romana civitas diuturne prostrationis a lapsu, solium solite maiestatis ascendens, vestitum viduitatis deponat et
lugubre, sponsalem induat purpuram, liberum diadema capud exornet, colla munilibus muniat, resumat iustitie sceptrum, ac totis
circumfulta et renovata virtutibus, tamque sponsa ornata, se placituram exhibeat sponso suo.
21 
Vd. Ibidem, p. 4: Cum itaque, fratres carissimi, a Domino factum sit istud mirabile quidem in oculis intuentium non aliter nisi ut
civitas vestra sponsa Romani pontificis, expurgata vitiorum vepribus, suavibus renovata virtutibus, in odorem unguentorum suorum
vernarum suscipiat sponsum suum.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  53

In mieso de questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza tomone, senza
vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, stava una femina vedova vestuta de nero,
centa de cengolo de tristezze, sfessa la gonnella da pietto, sciliati li capelli, como volessi pia-
gnere. Stava inninocchiata, incrociava le mano piecate allo pietto per pietate, in forma de
precare che sio pericolo non fussi. Lo soprascritto diceva: «Questa ène Roma»22.
Nell’ambito di questa stessa rappresentazione figuravano anche altre allegorie che ser-
vivano a chiarire senza equivoci quali fossero i pericoli che minacciavano la città. Intorno
alla nave si trovavano altre quattro navi alla deriva, le vele sul ponte, gli alberi distrutti, i
timoni perduti. Numerose donne annegate giacevano su degli isolotti, vittime del mare
agitato. Si trattava di Babilonia, Troia, Cartagine e Gerusalemme e la loro presenza nella raf-
figurazione alludeva alla sorte riservata alla sola superstite. L’iscrizione recitava: «Queste
citati per la iniustizia pericolaro e vennero meno». Al centro, tra le vittime, una legenda
riportava: «Sopra onne signoria fosti in aitura. / Ora aspettamo qui la toa rottura»23. Su
di un’altra isola erano illustrate le quattro virtù cardinali che si dolevano ricordando il
tempo in cui Roma aveva loro garantito rifugio; più avanti figurava la Fede Cristiana in atto
di supplicare il Signore di salvare la sua anziana ospite e di renderle un giorno la sua sede
tradizionale. Sul lato destro della pittura, numerosi animali alati – una sorta di bestiario
diabolico – cercavano in ogni modo di rovesciare la nave soffiando attraverso dei corni per
intensificare i venti e l’agitazione delle acque. Questi animali, rappresentazione dei nemici
interni che Cola incitava a combattere, incarnavano le forze del male che minacciavano
l’avvenire di Roma.
Secondo l’Anonimo, le accuse riguardavano tutte le classi sociali, dalle gerarchie più alte
sino ai più infimi popolani. In questo gruppo di nemici di Roma, i primi erano i potenti ba-
roni ed i cattivi amministratori, simboleggiati da leoni, lupi e da orsi alati; seguivano i cattivi
consiglieri ed i partigiani dell’aristocrazia, resi come un cane, un maiale ed un capriolo24. Si
potevano poi osservare dei montoni, dei dragoni e delle volpi, che rappresentavano i falsi
officiales, i giudici ed i notai. In quest’iconografia nemmeno il popolo era risparmiato, dal
momento che dietro le figure, anch’esse alate, di lepri, gatti, capre e scimmie, si nascondeva
la gente del popolo, gli assassini, gli adulteri ed i ladri.
Conformemente ai canoni dell’estetica medievale, in questa rappresentazione apocalit-
tica l’essenza della vita, i concetti, i valori morali o quelli astratti sono anch’essi rappresen-
tati da allegorie femminili come la religione, le virtù o le città, tutte minacciate da nemici

22 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 145.
23 
Ibidem, p. 146. Circa l’utilizzo delle immagini da parte di Cola di Rienzo, vd. P. Sonnay, La politique artistique de Cola di
Rienzo (1313-1354), in «Revue de l’art», LV (1982), pp. 35-44. Secondo lo studioso, le allegorie impiegate dall’anonimo
autore della pittura sarebbero debitrici delle immagini presenti nel panegirico di Convenevole da Prato offerto a Roberto
d’Angiò. A chi scrive pare da un lato che la Roma descritta dall’Anonimo abbia una postura differente rispetto a quelle che
figurano sulle miniature del panegirico e che, d’altro lato, l’ipotesi secondo cui Cola avesse impiegato lo stesso miniaturista
del panegirico non può appoggiarsi unicamente ad un aspetto così ricorrente come l’impiego iconografico delle allegorie.
Dal punto di vista degli aspetti collegati alla propaganda politica, è difficile credere che un’opera di tendenza guelfa, come il
panegirico in questione, abbia potuto costituire una fonte di ispirazione per le ambizioni politiche del tribuno. Cfr. ibidem,
pp. 36, 38 e 42.
24 
Voir anche J.-C. Maire Vigueur, Il Comune romano, in Storia di Roma dall’antichità a oggi, Roma medievale, a cura di A.
Vauchez, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 117-157 (135-138).
54  Juan Carlos D’Amico

dotati di una natura bestiale o demoniaca25. La sola triade maschile è quella di Dio accom-
pagnato dagli apostoli Pietro e Paolo. Infatti la parte alta dell’affresco rappresenta un cielo al
centro del quale si trova la Divina Maestà che sembra annunciare la fine delle tribolazioni.
Ci troviamo di fronte ad un’allegoria apocalittica e l’immagine allude ad un secondo diluvio
universale che doveva precedere la fine dei tempi. L’ora in cui gli uomini dovranno rendere
conto delle loro azioni si avvicina, e la giustizia divina sembra pronta ad abbattersi sui ne-
mici della città26.
Cola utilizza la raffigurazione allegorica nel quadro di un intento essenzialmente ide-
ologico. Tuttavia dietro la rappresentazione di Roma e delle sue lotte intestine, si impone
anche una lettura simbolica che va al di là di quella politica e che rinvia ad una verità totale
che lega una situazione particolare ad una visione religiosa globale. Infatti il programma di
riforme di Cola nacque sia dall’esigenza di una renovatio politica che di una reformatio spiri-
tuale, la quale assumerà sempre di più degli accenti gioachimiti27.
Cola, tuttavia, intendeva ugualmente utilizzare il passato glorioso di Roma per lanciare
dei messaggi di natura politica chiari e persuasivi. La sua capacità di leggere i testi epigrafici
dell’antichità romana lo indusse ad interpretare a proprio vantaggio la sola grande iscri-
zione giuridica conosciuta all’epoca, la cosiddetta lex de imperio Vespasiani28 (fig. 4). Cola
era un notaio e, stando all’Anonimo, l’unico in grado di comprendere l’iscrizione, incisa
su di una lastra bronzea, fatta murare nell’interno della basilica di S. Giovanni in Laterano
e circondare da un affresco rappresentante il senato romano29. Dopo aver fatto installare
una tribuna all’interno della chiesa, egli convocò numerose autorità ed i più potenti tra gli
aristocratici della città e pronunciò un discorso nel quale sostenne che all’epoca dell’impe-
ro romano il popolo stesso aveva conferito il potere all’imperatore. Fece quindi leggere un

25 
Nel simbolismo medievale gli animali favolosi erano spesso l’incarnazione stessa del Diavolo.
26 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 147: «In mieso stava la maiestate divina como venissi allo iudicio. Doi spade li
iessivano dalla vocca, de là e de cà. Dall’uno lato stava santo Pietro, dall’aitro santo Pavolo ad orazione. Quanno la iente vidde
questa similitudine de tale figura, onne perzona se maravigliava». Vd. anche F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel
Medioevo, cit., VI, pp. 275-276 (libro XI, capitolo V, paragrafo 3); M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, I, Per la storia del
Trecento a Roma, Manziana, Vecchiarelli, 1991, pp. 22-24.
27 
P. Oskar Kristeller riteneva che l’adesione di Cola alle teorie gioachimite fosse successiva alla prima fuga da Roma; tuttavia,
in queste pitture si possono già riconoscere i segni evidenti di una grande attenzione di Cola per il pensiero escatologico. Cfr.
P.O. Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 128.
28 
Si tratta di un elenco di diritti e di poteri concessi dal Senato e dal popolo romano all’imperatore Vespasiano nel 69 d.C.,
attualmente conservata presso i Musei Capitolini. Cola accusò papa Bonifacio VIII di aver volontariamente dissimulato la lex
sotto un altare allo scopo di nascondere l’importanza del Senato e del popolo romano nel processo di legittimazione al potere.
Circa questa utilizzazione politica dei reperti archeologici da parte di Cola ed a proposito delle differenti interpretazioni
critiche, vd. C. Franceschini, “Rerum gestarum significacio”. L’uso di oggetti antichi nella comunicazione politica di Cola di
Rienzo, in Senso delle rovine e riuso dell’antico, a cura di W. Cupperi, Pisa 2004 (= «Annali della Scuola Normale Superiore di
Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. IV, Quaderno 14 [1/2002]), pp. 233-254. Del resto è difficile pensare che Cola sia stato
così impressionato dalla figura e dall’opera di Bonifacio VIII, come ha sostenuto Philippe Sonnay nel suo studio sulla politica
artistica del tribuno, poiché, al momento del suo soggiorno ad Anagni il papa era già morto e Cola era piuttosto concorde con
Dante riguardo la virtù di Roma antica ed il ruolo provvidenziale dell’Impero nella salvezza dell’umanità. Vd. il commentario
di Cola alla Monarchia di Dante in P.G. Ricci, Il commento di Cola di Rienzo alla «Monarchia» di Dante, Spoleto, CISAM,
1980, p. 677 e P. Sonnay, La politique artistique de Cola di Rienzo, cit., p. 36.
29 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 143: «Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche
vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava». Circa la raccolta epigrafica attribuita dapprima a Cola di
Rienzo e quindi a Poggio Bracciolini, vd. A. Silvagni, Se la silloge epigrafica Signoriliana possa attribuirsi a Cola di Rienzo, in
«Archivium Latinitatis Medii Aevi», I (1924), pp. 175-183.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  55

Fig. 4. La tavola bronzea contenente la cosiddetta Lex de imperio Vespasiani (da I. Calabi Limentani,
Epigrafia latina, Varese - Milano 1968, p. 345).
56  Juan Carlos D’Amico

testo nel quale erano riportati gli “articoli” relativi all’autorità che il popolo romano aveva
accordato all’imperatore Vespasiano, poi aggiunse:
Signori, tanta era la maiestate dello puopolo de Roma, che allo imperatore dava la auto-
ritate. Ora l’avemo perduta30.
Possiamo dunque apprezzare la maniera in cui il futuro tribuno del popolo si servisse
con abilità della storia romana per trarne degli argomenti di carattere politico. È evidente
come l’utilizzo di conoscenze archeologiche o l’analisi delle istituzioni antiche non cor-
rispondesse per Cola ad un’esigenza di tipo scientifico, come invece sarà più tardi per gli
umanisti. Anche se sappiamo che alle spalle del modello istituzionale proposto da Bruni,
Bracciolini o Flavio Biondo si nascondeva assai spesso l’intento di costruire una storia apo-
logetica della città-stato che ciascuno di essi serviva, nondimeno i loro obiettivi erano sen-
sibilmente differenti31. Lo scopo di Cola era invece immediato e congiunturale, e dunque
l’interpretazione dell’epigrafe mirava unicamente a sottolineare la necessità di una riforma
istituzionale di Roma32. I Romani presenti al discorso l’avevano sicuramente interpretato in
questo modo33. Una volta giunto al potere, Cola mise l’accento sulla legittimità del popolo
romano rispetto al conferimento della dignità imperiale ed al trasferimento del suo potere
all’imperatore, ma allo stesso tempo, in quanto fonte di diritto, anche a revocarlo34.
Nel discorso pronunciato in quell’occasione, Cola fece uso di una nuova variante
dell’allegoria della città. Roma si presenta oggi – dice infatti il futuro tribuno – abbattuta a

30 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 149.
31 
Vd. le Historiarum Florentini populi libri XII di Leonardo Bruni, la Roma triumphans di Flavio Biondo o la Historia florentina
di Poggio Bracciolini.
32 
Luigi Cantarelli definisce questa iscrizione come la carta costituzionale dell’Impero romano: vd. L. Cantarelli, La lex de
imperio Vespasiani, in «Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma», XVIII (1890), pp. 194-208, pp. 235-
246 = Studi romani e bizantini, Roma 1915, pp. 99-123. Marta Sordi ha dimostrato che l’interpretazione della lex da parte di
Cola non è frutto di fantasia, come affermato da altri interpreti come De Rossi, Silvagni o Dupré-Theseider, ma anzi essa riposa
su di una lettura attenta della tavola e probabilmente sulla conoscenza di una seconda tavola che completava l’iscrizione: vd.
M. Sordi, Cola di Rienzo e le clausole mancanti della lex de imperio Vespasiani, in Studi in onore di Edoardo Volterra, II, Milano,
Giuffrè, 1971, pp. 303-311 = Scritti di Storia romana, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 223-231. Dal canto suo, M. Miglio
evidenzia con ragione che questo utilizzo politico della lex de imperio non riguarda unicamente l’autorità dell’imperatore, ma
che costituisce anche una risposta alle teorie relative alla legittimità della sovranità papale su Roma: vd. M. Miglio, Il senato
in Roma medievale, in Il Senato nella Storia, II, Il Senato nel Medioevo e nella prima Età moderna, [Roma], Istituto Poligrafico
e Zecca dello Stato, 1997, pp. 117-172 (162-163). Riguardo la lex de imperio Vespasiani, sotto il profilo dei temi relativi al
presente studio, vd. anche, G. Purpura, Sulla tavola perduta della Lex de auctoritate Vespasiani, in «Annali del Seminario
Giuridico dell’Università di Palermo», XLV (1998), pp. 413-432 ed in «Minima Epigraphica et Papyrologica», II (1998),
2, pp. 261-295; A. Collins, Cola di Rienzo, The Lateran Basilica and the Lex de imperio of Vespasian, in «Medieval Studies»,
LX (1998), pp. 159-183; M. Malavolta, Sulla clausola discrezionale della c.d. lex de imperio Vespasiani, in «Simblos. Scritti
di Storia antica», V (2008), pp. 105-129; C. Bruun, Riflessioni sulla parte perduta della cd. Lex de imperio Vespasiani, in La
Lex de Imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi, Atti del Convegno di Roma, 20-22 novembre 2008, a cura di L. Capogrossi
Colognesi - E. Tassi Scandone, Roma, «L’ERMA» di Bretschneider, 2009, pp. 23-45.
33 
W. Ullmann rileva che tutti i cultori di diritto avevano ben presente la lex regia con cui il popolo aveva conferito ogni
potere al principe: cfr. D. 1, 4, 1. Cino da Pistoia, l’amico di Dante, aveva scritto: imperium a Deo, imperator a populo. Vd W.
Ullmann, Origini medievali del Rinascimento, in Il Rinascimento, interpretazioni e problemi, Roma - Bari, Laterza, 1979, p. 73.
34 
L’argomento era attuale dal momento che, circa vent’anni prima, all’atto dell’incoronazione di Ludovico IV di Baviera
da parte di un rappresentante del popolo, i giuristi avevano posto il problema della concessio temporanea del potere
all’imperatore in opposizione alla teoria della translatio imperii. Quell’incoronazione ebbe anche delle ripercussioni in
Germania, dal momento che nel 1338 i principi elettori si pronunciarono contro l’ingerenza del papa nell’elezione imperiale.
Sfortunatamente, i due capitoli della cronaca dell’Anonimo che contenevano la descrizione dell’incoronazione di Ludovico
IV di Baviera e di Carlo IV sono andati perduti.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  57

terra senza sapere neppure dove giace. Il suo sconforto è quello di una cieca che non può
scegliere il proprio destino:
Fatto silenzio, fece sio bello sermone, bella diceria, e disse ca Roma iaceva abattuta in
terra e non poteva vedere dove iacessi, ca li erano cavati li uocchi fòra dello capo. L’uocchi
erano lo papa e lo imperatore, li quali aveva Roma perduti per la iniquitate de loro citatini35.
Dante, in precedenza, aveva fatto uso della stessa immagine per simboleggiare la pro-
fonda afflizione nella quale la città era immersa a causa dell’assenza delle due più grandi
autorità del mondo medievale36.
Roma, in ogni caso, è presente anche in altri passi della narrazione dell’Anonimo. Infatti
l’immagine della venuta del Giudizio finale è presente anche in un altro quadro che Cola
fece esporre sulla parete della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria. Lì, nella parte sinistra, un
grande fuoco si scagliava sino al cielo ed al suo interno giacevano uomini arsi vivi mentre
Roma, rappresentata come una donna molto anziana, aveva il corpo per due terzi bruciato
dalle fiamme. A destra, invece, un angelo armato giungeva dal cielo, vestito di bianco e di
una cappa rossa, i colori dell’impero. L’angelo in una mano stringeva una spada e con l’al-
tra afferrava l’anziana donna per allontanarla dalle fiamme. Pietro e Paolo, scendendo dal
cielo, gli indirizzavano queste parole: «Agnilo, agnilo, succurri alla albergatrice nostra».
Sotto queste figure, un’epigrafe esplicitava il tenore escatologico del messaggio facendo ri-
ferimento all’approssimarsi di un’epoca di pace: «veo lo tiempo della granne iustizia e ià
taci fi’ allo tiempo»37.
Ancora una volta, il significato allegorico e politico dell’immagine non lascia adito a
dubbi: l’angelo armato non può essere altri che lo stesso Cola, cui i santi protettori della
città affidano la suprema missione di salvare Roma. L’immagine, tuttavia, interamente me-
dievale nel suo complesso simbolismo, non si limita agli elementi già descritti. Il trionfo
del bene sul male era rappresentato da alcuni uccelli. Nel momento in cui numerosi falconi
morti si abbattevano a terra, una colomba che scendeva dal cielo offriva una corona di mirto
che teneva nel becco ad un piccolo uccello, una sorta di passero. Con questa corona il «pic-
colo celletto» incoronava Roma salvata dalle fiamme. Nessun dubbio, neppure questa volta,
circa l’identità di questo passero che, inviato dallo Spirito Santo, riconduce la giustizia sulla
terra e pone sulla testa dell’anziana donna la corona di mirto, simboleggiante l’amore per
il proprio dovere38. L’anonimo autore della cronaca ci informa, menzionando un’ulteriore
iscrizione collocata sulla porta della chiesa di San Giorgio al Velabro il 14 febbraio 1347,
che quell’immagine simbolica era un modo per rappresentare un prossimo ritorno delle
istituzioni romane «allo […] antico buono stato» e che, di fronte alla propaganda allestita

35 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 148.
36 
Esiste una grande differenza tra il progetto politico conservatore difeso da Dante ed il programma rivoluzionario di Cola;
tuttavia, a sostegno delle concezioni e delle argomentazioni di entrambi, si rinvengono talvolta le medesime immagini
allegoriche di Roma. Tali immagini erano il risultato di una tradizione già ben consolidata.
37 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 151. La frase ricorda quella di Ecclesiaste, 20, 7: Homo sapiens tacebit usque ad tempus.
38 
Philippe Sonnay associa questa immagine a quelle portate sulla scena nelle sacre rappresentazioni ed egli evoca anche le
profezie spiritualiste alle quali Cola «s’était montré sensible». Cfr. P. Sonnay, La politique artistique de Cola di Rienzo, cit.,
p. 40.
58  Juan Carlos D’Amico

per una tale missione messianica che incombeva sul futuro tribuno di Roma, i sentimenti
dei Romani erano divisi tra scetticismo ed entusiasmo.
Stando all’Anonimo, coloro che appoggiavano l’azione di Cola erano «Romani populari,
discreti e buoni uomini. Anco fra essi fuoro cavalerotti39 e de buono lenaio, moiti descreti e
ricchi mercatanti», che egli definisce come «bona iente e matura»40. Con essi, Cola si riunì
segretamente sull’Aventino il 18 maggio 1347 per procedere agli ultimi preparativi in vista di
un colpo di Stato che aveva lo scopo di rimettere politicamente in sesto il Patrimonium beati
Petri e di riscostruire uno stato «pacifico, signorile, lo quale Romani solevano avere»41. Ap-
profittando dell’assenza di molti baroni, di Stefano Colonna il Vecchio e della sua milizia, il
giorno seguente Cola mise in atto la sua congiura contro il Campidoglio e convocò per l’indo-
mani un’assemblea allargata – «parlamento» – per procedere alla riforma istituzionale. Dopo
aver passato la notte ad ascoltare «trenta messe dello Spirito Santo nella chiesia de Santo
Agnilo Pescivennolo», il mattino seguente, accompagnato da tutti i suoi partigiani e di fronte
ad una folla entusiasta, colui che si presentava come il liberatore di Roma si mise alla testa del
corteo che lo condusse sino in Campidoglio per impadronirsi del potere42 (fig. 5). Il corteo era
preceduto da «tre buoni uomini della ditta coniurazione» che reggevano «tre confalloni».
Questi tre gonfaloni costituiscono la perfetta sintesi dei simboli che accompagnavano
il progetto di Cola di Rienzo. Il primo, un grande drappo rosso con iscrizioni in lettere do-
rate, era il simbolo della ritrovata libertà del Comune di Roma. Vi si poteva vedere Roma
assisa su di un trono dotato di protomi leonine mentre stringeva tra le mani «lo munno e la
palma»43. Sul secondo, di colore bianco, figurava l’apostolo Paolo, con una spada tra le mani
ed il capo cinto con la corona della giustizia, e, sul terzo, probabilmente dello stesso colore
del precedente, Pietro con le chiavi della concordia e della pace. Da un lato, lo splendore
politico di Roma antica, il suo trionfo nel mondo – il globo – e la sua funzione di città guida
per la concordia della Cristianità – la palma – appaiono ora recuperati in funzione anti-
baronale ed anti-imperiale per rivendicare la libertas politica ed istituzionale del Comune;
d’altro lato, le immagini dei due apostoli che riportano la giustizia, la concordia e la pace
nella città ricordano sino a qual punto il progetto politico di Cola fosse intrinsecamente

39 
Si tratta di ricchi borghesi appartenenti alla nuova aristocrazia urbana che prestava servizio a cavallo nella milizia civica:
vd. A. Rehberg, Nobiles, milites e cavallerocti nel tardo Duecento e nel Trecento, in La nobiltà romana nel Medioevo, a cura di S.
Carocci, Roma, École française de Rome («CEFR», 359), 2006, pp. 413-460.
40 
Anonimo Romano, Cronica, cit., pp. 151-152. Circa la difficile identificazione dei gruppi sociali che appoggiarono
l’azione di Cola, vd. J. Macek, Les racines sociales de l’insurrection de Cola di Rienzo, in «Historica», VI (1963), pp. 45-107 e
M. Miglio, Gruppi sociali e azione politica nella Roma di Cola di Rienzo, in «Studi Romani», XXIII (1975), 4, pp. 442-461.
41 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 152.
42 
Le cronache dell’epoca pongono l’accento sul carattere popolare della rivolta. Ad esempio, la cronaca senese di Agnolo di
Tura del Grasso descrive così l’accaduto: «El popolo di Roma cacciò a romore tutti li prenci di Roma e féro signore Cola di
Renzo e chiamorlo tribuno; era cittadino di bassa conditione, ma era molto savio». Vd. Cronaca senese, in L.A. Muratori,
Rerum italicarum scriptores, XV, Mediolani 1729, parte VI, p. 550. Dal canto suo G. Villani scrisse: «[…] a grido fu fatto
tribuno del popolo e messo in Campidoglio in signoria». Vd. G. Villani, Nuova Cronica, XIII 110.
43 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 154. «Là, su l’ora de mesa terza iessìo fòra della preditta chiesia, armato de tutte arme,
ma solo lo capo era descopierto. Iesse fòra bene e palese. Moititudine de guarzoni lo sequitavano tutti gridanti. Denanti da
sé faceva portare da tre buoni uomini della ditta coniurazione tre confalloni. Lo primo confallone fu grannissimo, roscio, con
lettere de aoro, nello quale staieva Roma e sedeva in doi lioni, in mano teneva lo munno e la palma. Questo era lo confallone della
libertate. […]. Lo secunno era bianco, nello quale staieva santo Pavolo colla spada in mano, colla corona della iustizia. […].
Nello terzo staieva santo Pietro colli chiavi della concordia e della pace». Corsivo dell’autore.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  59

Fig. 5. Il monumento a Cola di Rienzo collocato alle pendici del Campidoglio. La statua
venne eseguita nel 1871 da Girolamo Masini (1840-1885), mentre il basamento fu realiz-
zato tra il 1886 ed il 1887 da Francesco Azzurri (1827-1901), utilizzando rilievi marmo-
rei antichi provenienti anche dall’area della vicina basilica dell’Ara Coeli.
60  Juan Carlos D’Amico

legato al simbolismo cristiano. Non fu un caso se, nel salire le scale del Campidoglio che lo
conducevano verso il potere, Cola di Rienzo avesse al suo fianco Raimondo di Orvieto, il
vicario di Clemente VI, al quale aveva promesso, oltre alla pacificazione di Roma, l’assoluto
rispetto di tutti i diritti della Chiesa. Cola pronunciò in quell’occasione un discorso nel
quale spiegava i motivi del suo colpo di Stato – il suo amore verso il papa e la salvezza del
popolo romano – e in seguito fece leggere «li ordinamenti dello buono stato»44.
Dopo il tentativo di resistenza di Stefano Colonna il Vecchio, che riuscì a scampare al fu-
rore di «tutto lo puopolo», Cola ordinò ai baroni di abbandonare la città e di ritornare ai loro
castelli. Li convocò e li obbligò a giurare obbedienza «allo buono stato»; i giudici ed i notai
della città dovettero fare lo stesso alcuni giorni più tardi. Creò inoltre una «casa della iusti-
zia e della pace» nella quale alcuni «iustissimi populari» avevano il compito di risolvere le
controversie tra i cittadini. Inoltre, Cola aveva chiesto all’assemblea popolare che gli lasciasse
assumere il titolo di “tribuno del popolo” (fig. 6) e di poter condividere quello di “liberatore”
con il vicario, al fine di evitare eventuali dissidi con il pontefice. Roma parve vivere un periodo
di prosperità, le strade erano tranquille ed i mercanti ritornarono in gran numero:
[…] le selve se comenzaro ad alegrare […], li vuovi comenzaro a arare. Li pellegrini
comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li mercatanti comenzaro a spessiare li procacci
e camini. […]. La bona iente, como liberata da servitute, se alegrava45.
L’Anonimo segue ogni tappa dell’avventura politica e militare di Cola ed in particolare
ne sottolinea la volontà di ridurre il potere baronale attraverso condanne esemplari che in-
timorissero «li animi delli potienti»; la sua volontà di «esterminare li tiranni» o quella di
punire i propri corrieri che avessero accettato remunerazioni senza esserne stati autorizzati.
L’Anonimo si compiace per la «fama de sì virtuoso omo» conosciuta «per tutto lo mun-
no» e spiega che «tutta la Cristianitate fu commossa come se levassi da dormire»46. Dalla
trattazione dell’Anonimo si desume molto chiaramente la sua iniziale adesione alla riforma
di Cola di Rienzo per quanto riguardava il miglioramento della vita dei cittadini romani47.

44 
L’Anonimo presenta una lista delle prime misure relative ad una migliore amministrazione della giustizia, una riorganizzazione
della milizia popolare per aumentare la sicurezza, un indebolimento dei poteri dei baroni, una raccolta rigorosa delle imposte,
una prevenzione delle carestie, aiuti ai più bisognosi e l’allargamento del «reimento dallo puopolo de Roma» alle città del
distretto. Tutte misure che, di fatto, erano contrarie agli ufficiali del Patrimonio di San Pietro: vd. ibidem, pp. 155-156.
45 
Ibidem, p. 160. Circa i luoghi romani citati dall’Anonimo, vd. T. Catavero, Topografia storica romana dalla Cronica
dell’Anonimo, in «Studi Romani», LIV (2006), 1-2, pp. 62-78.
46 
Anonimo Romano, Cronica, cit., pp. 164-165. In una lettera del 28 luglio 1347 indirizzata al Petrarca, con cui lo invitava a
recarsi a Roma, il tribuno racconta, con molto entusiasmo, la ritrovata libertà: […] almam Urbem, cuius totius populi anima est
ipsa libertas […]. Vd. Epistolario, cit., pp. 37-38. Per la corrispondenza tra il poeta ed il tribuno, questione che travalica i limiti
del presente contributo, vd. soprattutto, oltre all’opera di Burdach e Piur già supra citata, Pétrarque, Lettres de Pétrarque
à Rienzi, Paris, Flammarion, 1885; M.E. Cosenza, Francesco Petrarca and the Revolution of Cola di Rienzo, Chicago (MI),
University of Chicago Press, 1913; J. Macek, Pétrarque et Cola di Rienzo, in «Historica», XI (1965), pp. 5-51; F. Petrarca,
Lettere disperse, a cura di A. Pancheri, Parma, Guanda, 1994, ed E. Fenzi, Per Petrarca politico: Cola di Rienzo e la questione
romana in Bucolicum Carmen V, Pietas pastoralis, in «Bollettino di italianistica», VIII (2011), 1, pp. 49-88.
47 
Per quanto riguarda gli «ordinamenti dello buono stato» e la politica di Cola rispetto alle clientele che costituivano
la società cittadina romana, vd. gli studi di Anna Modigliani (L’eredità di Cola di Rienzo. Gli statuti del comune di popolo e
la riforma di Paolo II) e di Andreas Rehberg (Clientele e fazioni nell’azione politica di Cola di Rienzo), in A. Rehberg - A.
Modigliani, Cola di Rienzo e il Comune di Roma, in «Roma nel Rinascimento. Inedita», 2 voll., Roma 2004. Vd anche M.
Jallet-Huant, L’aventure impossible de Cola di Rienzo, Charenton-le-Pont, Presses de Valmy, 2005, pp. 49-55.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  61

Fig. 6. La targa posta nel 1872 presso il luogo ove tradizionalmente si riteneva fosse nato Cola di Rienzo. Roma,
odierna via di S. Bartolomeo de’ Vaccinari.

La reputazione del buon governo di Cola e dei gruppi sociali che lo appoggiavano si espan-
se nelle regioni limitrofe, a tal punto che alcuni cittadini, probabilmente dei “fuoriusciti”,
vennero a chiedere giustizia dall’Umbria e dalla Toscana:
Tutta Roma staeva, rideva, pareva tornare alli anni megliori passati. Venne la venerabile
ammasciata e trionfale de Fiorentini, de Senesi, de Arezzo, de Tode, de Terani, de Spoleti, de
Riete, de Amelia, de Tivoli, de Velletri, de Pistoia, de Fuligni, de Ascisci. […] Tutte queste
citati e communanze se offierzero allo buono stato48.
L’immagine di Cola al potere, in questo primo periodo, è quella di un uomo prudente,
dotato di una grande memoria, di un’ampia conoscenza scientifica ed in grado di ammini-
strare saggiamente la giustizia. Cola possedeva una perfetta conoscenza del latino e delle
Sacre Scritture, e l’Anonimo riporta alcune delle sue «magnifiche resposte» agli amba-
sciatori, che ne restavano stupefatti49. L’Anonimo, tuttavia, non parteggia incondizionata-
mente per Cola e la sua cronaca è lungi dall’esserne un’apologia50. Di certo egli ne ammira

48 
Anonimo Romano, Cronica, cit., pp. 178-179. La descrizione del «buono stato» che ci fornisce l’Anonimo ricorda
l’affresco del Buon Governo dipinto da Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena. Vd. anche la lettera nella quale Cola descrive
le terribili condizioni in cui si trova Roma ed annuncia al Comune di Viterbo che il popolo romano lo ha incaricato di
conservare il «buono stato»: Epistolario, cit., pp. 6-7. Vd. anche J. Le Goff, L’immaginario urbano, cit., pp. 40-41.
49 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 162. L’Anonimo si comporta già come un umanista. Scrive correttamente in latino ma
traduce la sua cronaca in dialetto romano per i «vulgari mercatanti». I critici hanno riconosciuto tra le sue letture le opere
di Tito Livio, Sallustio, Valerio Massimo, Lucano, ed anche quelle di Gregorio Magno e Isidoro di Siviglia. Il Villani – Nuova
Cronica, XIII 110 – chiama «Niccolaio di Renzo», «maestro di rettorica».
50 
Sulla personalità dell’Anonimo e sulle sue reticenze a proposito di un’immagine idealizzata di Roma vd. il capitolo
L’Anonimo e il passato. L’ombra di Roma e i diritti del presente, in G. Seibt, Anonimo Romano. Scrivere la storia alle soglie del
Rinascimento, Roma, Viella, 2000 (1992).
62  Juan Carlos D’Amico

l’erudizione classica, la conoscenza della Bibbia e la presa di posizione contro i baroni, ma


non approva né le sue “derive” mondane51 né i suoi comportamenti quale sorta di novello
imperatore come, per esempio, la cavalcata per le strade di Roma il 24 giugno, che ricordava
i trionfi antichi e che peraltro, in prospettiva, anticipa quelle che saranno le entrate princi-
pesche nella città durante i secoli XV e XVI52.
Pur se in maniera non esaustiva, l’Anonimo si sofferma anche sull’azione politica di
Cola nei confronti delle altre città italiane, sulla sua ricerca di ambasciatori, e sulle sue in-
tenzioni di convocare un sinodo ad pacem et salutem totius sacrae Italiae53. Su questo aspetto,
alcune lettere redatte nello stesso periodo dalla cancelleria romana ci forniscono delle in-
formazioni supplementari circa le intenzioni di Cola. Egli in un primo tempo aveva pensato
di costituire un’alleanza con altre città italiane allo scopo di favorire altri partiti popolari,
sottomettere i baroni, ristabilire l’ordine, eliminare le fazioni ed elargire all’intera Italia lo
stesso regime che aveva instaurato in Roma54. In queste lettere e ambasciate destinate ai
Comuni italiani, l’immagine di Roma mater viene nuovamente utilizzata a fini politici. Ad
esempio, Cola chiede aiuto militare a Firenze servendosi della leggenda della fondazione
di Firenze da parte dei Romani, rammentando il debito che la «la figliuola di Roma» ave-
va contratto nei confronti della propria genitrice55. Proprio uno degli ambasciatori inviati
in Toscana, Francesco Baroncelli, annunciò davanti ai governanti della città che la “santa
Roma” si era liberata dalla schiavitù dei suoi tiranni, che l’avevano «facta vedova e ignuda
d’ogni virtù, d’ogni bene madre, e vestita d’ogni vitio e d’ogni difetto»56.
È tuttavia in occasione delle cerimonie del mese di agosto 1347 che si manifesta la reti-
cenza dell’Anonimo nei confronti dell’azione di Cola, allorché apparve molto chiaramente
come la seconda parte del suo programma avesse l’obiettivo di indebolire il potere papale e
di conferire di nuovo le antiche prerogative imperiali al popolo romano57. Sino a quel mo-

51 
L’Anonimo riporta: «Dallo principio questo omo faceva vita assai temperata. Puoi comenzao a muitiplicare vite e cene e
conviti e crapule de divierzi civi e vini e de moiti confietti». Vd. Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 167.
52 
L’Anonimo ci fornisce una descrizione dettagliata della sfilata di soldati, amministratori, giudici, notai ufficiali, di «trom-
matori» e «vannitori», di personalità sfoggianti gli attributi del potere – spada, corona e stendardo – e di un uomo «iettanno
e sparienno pecunia a muodo imperiale». Il corteo di personalità precede il tribuno, che reca con sé «una verga de acciaro
polita, lucente» con alla sua estremità «uno melo de ariento ’naorato, e sopra lo pomo staieva una crocetta de aoro. Drento
della crocetta staieva lo leno della croce». Cola giunge a San Pietro con «cutale triomfo», è salutato da una folla entusiasta
ed è accolto dai canonici della basilica, come prevedeva la tradizione medievale in caso di ingresso imperiale. Vd. ibidem, pp.
166-167.
53 
Circa il progetto di convocare un sinodo a Roma, Cola inviò lettere in Toscana, in Lombardia, a Venezia ed anche in Sicilia.
Di esse, il solo esemplare che ci resta è la lettera inviata a Perugia il 7 giugno 1347: vd. Epistolario, cit., p. 9. Vd. anche E. Dupré-
Theseider, L’idea imperiale di Roma, cit., pp. 307-318 e M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, I, cit., pp. 89-98.
54 
Tale modello di Comune fondato su di un’alleanza più o meno stretta tra «popolo grasso» e «popolo minuto» si ispira
all’esempio di Todi, che aveva riformato i propri statuti nel 1337, ed a quello di Firenze che nel 1343 aveva cacciato il duca di
Atene, Gualtieri di Brienne, instaurando un regime maggiormente aperto alle classi emergenti.
55 
Giovanni Villani ne parla nella sua cronaca: «E mandò lettere a tutte le caporali città d’Italia, e una ne mandò al nostro
Comune con molto eccellente dittato. E poi ci mandò V solenni ambasciatori gloriando sé, e poi il nostro Comune, e come la
nostra città era figliuola di Roma e fondata e dificata dal popolo di Roma, e richiesene d’aiuto alla sua oste. A’ quali ambasciadori
fu fatto grande onore, e mandati a Roma al tribuno cento cavalieri, e profferto maggiore aiuto, quando bisognasse; e’ Perugini
gline mandaro CL». G. Villani, Nuova Cronica, XIII 110.
56 
Citato in M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, I, cit., p. 31.
57 
Vd. A. Modigliani, Cerimonie e organizzazione del consenso ai tempi di Cola di Rienzo nella Cronica dell’Anonimo romano,
in Patrimonium in festa. Cortei, tornei, artifici e feste alla fine del Medioevo (secoli XV-XVI), Atti del Convegno di Orte, 3-4
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  63

mento le tensioni con Avignone erano rimaste latenti, poiché Cola aveva informato il papa
dello stato delle riforme e della repressione esercitata nei confronti dei baroni, ed aveva
sollecitato il suo intervento affinchè avesse termine la ribellione di alcuni ufficiali e rettori
del Patrimonio di San Pietro nei suoi confronti e contra Romanum populum58. Cola aveva
informato il pontefice anche del divieto nei confronti dei Colonna, degli Orsini di Marino e
dei Savelli di fare uso delle proprie insegne e di impiegare invece solum arma sancte Ecclesie
Sanctitatisque vestre et Romani populi59. In queste lettere si ritrova già quella propensione
profetica che caratterizzerà, in maniera molto più approfondita, l’epistolario del secondo
periodo. La speranza di Cola, scrive lui stesso al papa, è quella di veder arrivare a Roma il
papa e l’imperatore nell’anno del giubileo, così da poter realizzarsi la profezia di Giovanni:
un solo gregge sotto un solo pastore60.
Questo discorso profetico, tuttavia, non poteva nascondere interamente le ambizioni di
Cola e, nonostante un comportamento sempre rispettoso nei riguardi di Clemente VI e no-
nostante le sue cure per non inimicarsi il clero locale, il conflitto con Avignone non tardò ad
esplodere61. Nelle lettere inviate in questo periodo, Cola pretende di essere uno strumento
dello Spirito Santo e si firma con queste parole: Nicholaus severus et clemens, libertatis, pacis
iustitieque tribunus, sacre Romane reipublice liberator et alme Urbis prefectus illustris62. No-
nostante la riforma fosse realizzata a nome del popolo e della Chiesa, tutti i cambiamenti
operati da parte di Cola non potevano che destare i sospetti del pontefice, dal momento
che appariva sempre più chiaro come l’autonomia del Comune era imposta nuovamente
tramite un “dittatore”, come all’epoca di Brancaleone degli Andalò.
La notte dal 31 luglio al 1° agosto 1347, dopo la cerimonia di investitura che gli avrebbe
permesso di accedere al rango di “cavaliere dello Spirito Santo”, Cola la trascorse all’interno

novembre 1995, a cura di A. Modigliani, Orte, Ente Ottava Medievale, 2000, pp. 97-118.
58 
Gli ufficiali del papa contrari al potere di Cola erano Giovanni da Vico, prefetto di Roma e «tiranno de Vitervo», il conte
di Fondi ed il vescovo di Viterbo. Con l’espressione “Patrimonio di San Pietro” viene identificata una regione particolare
all’interno dei territori pontifici comprendente una parte del Lazio – la Tuscia – e la Campania. Le altre province dello Stato
della Chiesa erano: ducatus Spoletanus, Romandiola et marchia Anconitana. Vd. Epistolario, cit., pp. 20-27, lettera dell’8 luglio
1347 a papa Clemente VI.
59 
Ibidem, p. 22.
60 
Ibidem, p. 45, lettera del 27 luglio 1347 con una postilla del 5 agosto: […] et, cum auxilio Spiritus Sancti, spes certa me
confovet quod in anno Domini iubileo vestra Sanctitas erit Rome, ac imperator vobiscum, quos unum erit ovile et unus pastor, per
gratie eiusdem Spiritus Sancti unionem.
61 
Numerosi prelati invitarono Cola a non allontanarsi dalla Chiesa ed a «suiere le zinne della santa Chiesia como de pietosa
e dolce matre»: vd. Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 180. Cola si servì della religione come avrebbe fatto il Principe di
Machiavelli, oppure la sua azione politica era interamente ispirata da principi cristiani? Le opinioni degli storici sono diverse.
Nelle lettere del primo periodo il riferimento allo Spirito Santo come ispiratore della propria azione è costante, così come
sono costanti i riferimenti alla Bibbia, il tono ossequioso riguardo al papa ed il rispetto per il clero locale. Dopo la perdita
di Roma, Cola scelse volontariamente un eremitaggio come quello dei “fraticelli” e questo denota in maniera molto netta
un’attenzione particolare per le teorie che predicavano: la povertà evangelica e l’avvento di un’età dello Spirito in accordo
con le teorie escatologiche gioachimite. Si rinviene già un bagliore di questa evoluzione successiva nelle pitture proposte
ai Romani prima della presa del potere e sembra difficile ritenere il capovolgimento gioachimita di Cola come una risposta
opportunista o, peggio, come l’esito di uno spirito in delirio totalmente dissociato dalla realtà.
62 
Epistolario, cit., p. 35. La progressiva presa di potere di Cola si manifesta anche nei titoli sfoggiati nell’epistolario. Ad
esempio, in vista della sua prossima incoronazione, egli aggiunge l’aggettivo augustus in una lettera indirizzata a Clemente VI:
Humilis creatura, candidatus Spiritus Sancti, miles Nicolaus severus et clemens, liberator Urbis, zelator Italie, amator orbis et tribunus
augustus, se ad pedes, oscula beatorum. Ibidem, p. 45, postilla indirizzata a Clemente VI del 5 agosto 1347.
64  Juan Carlos D’Amico

della basilica di San Giovanni in Laterano63. L’indomani, dopo la celebrazione della messa
solenne che consacrò il nuovo miles, Cola s’indirizzò ad una folla composta di «baroni e
foresi e citadini di Roma» con parole che meritano di essere interamente riportate perché
mettono a nudo le sue intenzioni e svelano il suo ambizioso progetto politico:
«Noi citemo missore papa Chimento che a Roma venga alla soa sede». Puoi citao lo
colleio delli cardinali. Anco citao lo Bavaro. Puoi citao li elettori dello imperio in la Alamagna
e disse: «Voglio che questi vengano a Roma. Voglio vedere che rascione haco nella elezzio-
ne»; ca trovava scritto che, passato alcuno tiempo la elezzione recadeva a Romani. […].
Puo’ questo trasse fòra della vaina la soa spada e ferìo lo aitare [airo] intorno in tre parte dello
munno e disse: «Questo è mio, questo è mio, questo è mio»64.
Il programma politico di Cola mirava dunque nella sua globalità non solo a cambiare le
istituzioni comunali allo scopo di spezzare i legami feudali che ancora persistevano nono-
stante la sua organizzazione popolare, ma allo stesso tempo anche a restituire al popolo di
Roma il proprio diritto a conferire l’Impero. Invitò il papa a ritornare a Roma e convocò i
principi elettori tedeschi e l’imperatore per discutere del principio della translatio imperii65.
Cola insistette sul carattere temporaneo di un tale trasferimento e rivendicò il ruolo centrale
del popolo romano nell’elezione dell’imperatore66. L’audacia di Cola, tuttavia, non si fermò

63 
La cerimonia d’investitura ebbe un carattere fortemente simbolico perchè Cola, come un novello imperatore, s’immerse
nel fonte battesimale di Costantino prima di ricevere la spada. Una lettera, probabilmente indirizzata ad un notaio del papa
ad Avignone, racconta l’episodio in questo modo: Item die penultima Julii dictus Dominus Tribunus hora vesperarum accessit
triumphaliter ad Ecclesiam lateranensem, et in Concha paragonis olim Constantini lavavit seu baptizatus fuit honorifice, ut
esset imperator, et plus quam imperator, ad quam baptizationem omnes predicti ambassiadores personaliter interfuerunt. Vd. F.
Papencordt, Cola di Rienzo, cit., doc. XI, p. 369. Vd anche la lettera di Ildebrandino de’ Conti, in K. Burdach - P. Piur,
Briefwechsel des Cola di Rienzo, cit., II, pp. 13-14. Sull’aspetto imperiale di questa cerimonia vd. M. Miglio, Roma dopo
Avignone, cit., p. 80. Sul significato del lavacrum militare, vd. W. Ullmann, Medieval Foundations of Renaissance Humanism,
Londres, P. Elek, 1977, p. 138, citato da A. Modigliani, Cerimonie e organizzazione del consenso, cit., pp. 110-111 e nota 59.
Per festeggiare l’evento, vennero fatti colare del vino e dell’acqua dalle narici del cavallo creduto di Costantino, in realtà di
Marco Aurelio, quale segno di prosperità.
64 
Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 187. M. Miglio corregge «aitare», privo di senso, con “airo”, cioè aria. Vd. M. Miglio,
Tradizione popolare e coscienza politica, in Roma medievale, cit., pp. 317-338 (334).
65 
Alcuni anni più tardi, durante la sua reclusione decretata da Carlo IV, Cola cercò di diminuire la portata politica della
sua azione in una lettera all’arcivescovo di Praga datata 15 agosto 1350: egli non aveva mai convocato il papa a presentarsi
davanti al suo tribunale, ma l’aveva unicamente pregato di riportare il papato a Roma. D’altra parte, la citazione di Carlo IV e
dei principi elettori era stato un pretesto per far convenire tutti i tiranni d’Italia a Roma e farli impiccare ad locum universalis
iustitie. Vd Epistolario, cit., p. 154.
66 
Il 22 luglio 1347, dopo il parere reso da un gruppo di giuristi, un’assemblea popolare aveva revocato tutte le concessioni
fatte in passato a nome del popolo romano ed aveva incaricato Cola di dare seguito a questa decisione. Di conseguenza, Cola
inviò all’imperatore ed ai sette elettori delle lettere con cui li incitava a presentarsi a Roma l’anno seguente, prima della festa
della Pentecoste, per discutere delle prerogative imperiali davanti al papa ed all’assemblea popolare. In queste lettere veniva
apertamente dichiarato che il popolo romano si riappropriava di tutti i suoi diritti, ceduti a suo detrimento, per rivendicare
di nuovo l’autorità, i poteri e la giurisdizione in toto orbe terrarum: vd. Epistolario, cit., pp. 48-51. Giovanni Villani ricorda
così l’accaduto: «E·cciò fatto, fece a grido nel detto parlamento invocare, e poi per sue lettere citare i lettori dello ’mperio
della Magna, e Lodovico di Baviera detto Bavero, che s’era fatto Imperadore, e Carlo di Buem, che novellamente s’era fatto
imperadore, che d’allora alla Pentecosta a venire fossono a Roma a mostrare la loro elezione, e con che titolo si facieno
chiamare imperadori, e’ lettori dovessono mostrare [con che] autoritade li avessono eletti; e fece trarre fuori e piuvicare certi
privilegi del papa, e come avea commessione di ciò fare». G. Villani, Nuova Cronica, XIII 110. Vd. anche la lettera trascritta
nella sua cronaca da Giovanni da Bassano: J. de Bazano, Chronicon Mutinense, a cura di T. Casini, in L.A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores, a cura di G. Carducci - V. Fiorini, Bologna, N. Zanichelli, 1917, XV, parte IV, pp. 137-139. In merito a
tale episodio, Anna Modigliani parla di un gesto inaspettato e provocatorio da parte di Cola; tuttavia, a noi sembra che al di
là dell’aspetto spettacolare del gesto, si trattasse di una logica conseguenza dell’interpretazione resa da parte di Cola della
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  65

qui, dal momento che il suo comportamento e le sue intenzioni parevano mirare a restau-
rare simbolicamente il potere universale dell’Impero arrogandosi lui stesso tale potere, pur
a fronte dell’immediata protesta di Raimondo di Orvieto, vicario pontificio presente alla
cerimonia d’investitura67.
Infatti, rivendicando il ruolo del popolo romano e affermando il carattere temporaneo
della concessio del potere imperiale, Cola rimetteva anche in questione il ruolo tradizionale
del papa che, oltre alla circostanza di confermare e di trasmettere de iure la maestà imperiale
propria del titolo di “imperatore dei Romani”, era anche all’origine della trasmissione dei
poteri nei confronti del collegio dei sette elettori. Esistevano, in effetti, due modi d’inter-
pretare l’origine popolare della sovranità imperiale. La prima – translatio – riteneva che il
popolo romano, destinato da Dio all’Impero, in un primo tempo avesse trasferito il suo po-
tere al Senato romano, poi alla Dieta tedesca ed ai Cesari germanici in un modo definitivo
ed irrevocabile. La seconda – concessio – prevedeva invece come il popolo romano potesse
concedere direttamente la sovranità ad un principe da esso eletto e che tale concessione fos-
se revocabile68. Inoltre, ristabilendo il potere del popolo romano si ledeva inevitabilmente
il principio stesso che sottostava all’esistenza del Patrimonio di San Pietro. Ecco perché il
tentativo di Cola suscitò dapprima le proteste del vicario e quindi i sospetti del pontefice69.
Nel corso delle cerimonie del 1° agosto 1347 Cola concesse, in nome del popolo roma-
no, la cittadinanza romana a tutti gli abitanti delle città italiane rappresentate a Roma, ultra
XXV Civitatum et Provinciarum. Roma veniva definita la capitale del mondo, fondamento
della religione cristiana, e tutte le città italiane venivano dichiarate libere70. Cola fece anche

lex de imperio e delle decisioni assunte dal consiglio ristretto di giuristi che avevano deciso di revocare tutte le prerogative
concesse o comunque perdute durante i secoli da parte del popolo romano. Cfr. A. Modigliani, Cerimonie e organizzazione
del consenso, cit., p. 110.
67 
L’Anonimo, sino a quel momento entusiasmato dall’azione di Cola e dal sensibile miglioramento della vita dei Romani
grazie alle riforme, manifesta apertamente il suo dissenso. Davanti alle pubbliche proteste del vicario pontificio, Cola ordinò
ai musici di suonare per farlo tacere e l’Anonimo qualifica la reazione del tribuno in termini di «viziosa buffonia». Egli riporta
anche lo scetticismo di alcuni dei presenti di fronte a tanta audacia «puoi che palesato fu che vagnato era nella conca de
Constantino e che citato avea lo papa, moito ne stette la iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale disse
che era fantastico, pazzo». Anonimo Romano, Cronica, cit., pp. 187-188, corsivo dell’autore.
68 
Le posizioni su questo aspetto dei maggiori giuristi del XIV secolo erano assai varie. Cino da Pistoia, per esempio, riteneva
che la translatio imperii fosse legittima, ma che l’elezione dovesse essere fatta dai Romani e che l’imperatore dovesse risiedere a
Roma: vd. Cino da Pistoia, In Codicem…commentaria, a cura di N. Cisner, Francfort ad Moenam, 1578 (ristampa anastatica,
Torino, Bottega d’Erasmo, 1964). Ancora alla metà del XIV secolo, Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) giustificava la
legittimità degli imperatori germanici sulla base del principio della translatio imperii: vd. J. Baskiewicz, La conception du
dominum mundi dans l’œuvre de Bartole, in Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario, a cura di D. Segoloni,
II, Milano, Giuffré, 1962, pp. 9-25. Vd. anche D. Quaglioni, Regimen ad populum e regimen regis in Egidio Romano e Bartolo de
Sassoferrato, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», LXXXVII (1978), pp. 201-228.
69 
Una lettera scritta da Clemente VI al suo vicario Raimondo, vescovo di Orvieto, inizia in questo modo: 1347, sept. 12.
Raymundum episcopum Urbevetanum, in spiritualibus in Urbe vicarium, hortatur, quatenus attente vigilet, et si aliquid per Nicolaum
Laurentii, qui se tribunum nominat, in preiudicium Ecclesie Romane contigeret attemptari, ei obviet, et ubi non posset, Sedi Apostolice
intimet. Lettera citata da Gabrielli, in Epistolario, cit., p. 60.
70 
Ibidem, pp. 49-50: […] declaramus et pronunctiamus ipsam sanctam Romanam urbem caput orbis et fundamentum fidei
christiane, ac omnes et singulas civitates Italie liberas esse, et easdem ad cautelam integre libertati dedimus et donamus, ac omnes et
singulos populos totius sacre Italie liberos esse censemus, et ex nunc omnes prefatos populos et cives civitatum Italie facimus, declaramus
et pronunctiamus cives esse Romanos, ac Romane libertatis privilegio de cetero volumus eos gaudere. A proposito del sermone del
1° agosto, il Villani scrive: «E fatta la grande corte e festa di sua cavalleria, ragunato il popolo, fece un gran sermone, dicendo
come volea riformare tutta Italia all’ubidienzia di Roma al modo antico, mantegnendo le città i·lloro libertà e giustizia, […]».
Vd. G. Villani, Nuova Cronica, XIII 110. Vd anche M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, I, cit., p. 97.
66  Juan Carlos D’Amico

consacrare quattro stendardi con l’intenzione di offrirli ad alcune città in segno di amore e
fratellanza. È interessante notare in che modo i messaggi politici trasmessi anche attraverso
l’utilizzo dei nuovi stendardi intendessero rappresentare la nuova condizione politica di
Roma e come proprio su di essi fossero manifesti i segni del recupero simbolico del passa-
to. Il tribuno aveva fatto preparare quattro stendardi per gli ambasciatori di Firenze, Siena,
Perugia e Todi71. Alla città di Perugia egli ne consegnò uno sul quale figurava l’emblema di
Costantino: un’aquila bianca su campo rosso che serrava tra gli artigli una raffigurazione
tripartita dell’orbe terrestre72. Un altro stendardo celebrava la libertas romana, mentre il ter-
zo recava le insegne del popolo romano, la Lupa, Romolo e Remo, insieme con quelle del
tribuno – un sole e dei pianeti in argento73.
Sullo stendardo destinato a Firenze compariva di nuovo l’immagine di Roma. Come Cola
si era augurato nella sua lettera rivolta al popolo romano, Roma si era infine sbarazzata dei suoi
abiti vedovili per assidersi di nuovo sul trono e riprendere l’aspetto della Roma trionfante con
il globo e la palma. Ai suoi lati stavano due donne rappresentanti l’Italia e la Fede cristiana74.
L’immagine è emblematica e sintetizza perfettamente il progetto politico di Cola, che accarez-
zò il sogno di ricreare le condizioni necessarie al ritorno di un impero nei limiti geografici della
penisola italiana, con Roma come capitale75. Tuttavia, questa volontà di restaurare l’Impero si
inseriva in una prospetiva di pace e di rispetto tanto della libertas romana che delle altre realtà
municipali italiane, quantomeno di quelle che avrebbero aderito al progetto. Quest’ultimo
non avrebbe potuto nascere se non ponendo l’accento sul mito politico di Roma76. L’Impero

71 
Questo è quanto, più tardi, Cola disse in proposito al papa: Perusii, stantale felicis memorie imperatoris Constantini; Senarum,
stantale libertatis, Florentie, stantale Italie; Tuderti, stantale mei nominis: recepta cum alacritate maxima ab ambassiatoribus supra
dictis. Vd. Epistolario, cit., p. 46.
72 
Chronicon Estense, in L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores, cit., vol. XV, parte III (anno 1347), p. 152: […] unum
cum signo, quod consueverat portare imperator Constantinus, scilicet unam aquilam albam in campo rubeo cum orbe sub pedibus
eius, divixo tribus partibus: quod vexillum tradidit civibus Peruxie […].
73 
Inoltre, Cola aveva fatto realizzare più di duecento anelli che aveva offerto agli ambasciatori in segno di pace e di fraternità:
Item Ambassatori Tuderti tradidit vexillum cum arma tribuni et Romani populi et cum lupa et Romulo et Remo. Item Ambassatori
Senarum tradidit vexillum libertatis, et omnibus supradictis Ambassatoribus et universis aliis misit annulum aureum in digitis in
signum fraternitatis, pacis, et amoris, et fuerunt dicti annuli ultra CC. Vd. F. Papencordt, Cola di Rienzo e il suo tempo, cit., doc.
IX, p. 371.
74 
Chronicon Estense, cit., p. 152: In secundo vexillo designata erat Roma triumphalis cum duabus dominabus, una ad similitudinem
Italye, alia ad similitudinem fidei christiane ; et habens vexillum manibus [Cola] dixit : vivat Florentia; et volens tradere ipsum
Florentinis, nemo respondit pro eis (tondo dell’autore). Il motivo per il quale tale stendardo fosse assegnato a Firenze non
è affatto chiaro, ma sembrerebbe, stando ad un’altra lettera, che esso recasse anche la sigla S.P.Q.R.: Item Ambassatori
Florentinensi tradidit vexillum cum figura Rome, et ab uno latere est depicta Fides Christiana, et alio Italia, et cum literis Sen[atus
?]: vd. F. Papencordt, Cola di Rienzo e il suo tempo, cit., doc. IX, p. 371, tondo dell’autore. Villani descrive diversamente il
gonfalone e parla d’una sola giovane donna, Firenze, che offre il globo ad un’anziana dama assisa, Roma, quale segno del suo
ritrovato potere: «[…] un’altra ne trasse di nuova fazione, dov’era una donna vecchia a sedere in figura di Roma, e dinanzi
le stava ritta una donna giovane colla figura del mappamondo in mano, rappresentando alla figura della città di Firenze, che ’l
porgesse a Roma, e fece chiamare se v’avesse sindaco del Comune di Firenze; e non essendovi, la fece porre ad alt[r]i in su una
stacca, e disse: “È verrà bene chi·lla prenderà a tempo e luogo”». G. Villani, Nuova Cronica, cit., XIII 90. Corsivo dell’autore.
75 
Con la lettera circolare del 19 settembre 1347, Cola riassunse gli aspetti costituzionali delle decisioni assunte il 1° agosto,
compresa la cittadinanza romana concessa ai cittadini della Penisola. In quella sede egli aggiunse che aveva deciso di concedere
alla totalità dei Romani il diritto di partecipare all’elezione del nuovo imperatore. Questa avrebbe dovuto concretizzarsi
attraverso il voto di 24 seniores, e Cola sperava di essere eletto. Circa l’Impero di nazione italiana nel pensiero di Cola, vd. E.
Dupré-Theseider, L’idea imperiale di Roma, cit., p. 312 e pp. 331-335.
76 
Non si deve dimenticare che la città era all’epoca demograficamente ridotta – tra i 20.000 ed i 40.000 abitanti – e che il suo
peso economico e politico era estremamente debole.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  67

dipendeva dal popolo romano e, in teoria, non era affatto incompatibile con le altre realtà
municipali italiane e la loro libertas, mentre – come riporta l’Anonimo – tutti i «tiranni» della
Lombardia disprezzavano Cola77. L’azione del tribuno tuttavia si estese ben al di là dei reali
rapporti di forza e, nonostante la sua posizione alla testa di un movimento popolare che racco-
glieva un grande consenso sociale, egli sottostimò la forza dei suoi avversari ed in particolare
quella del papato, che vedeva diminuire i suoi poteri sul Patrimonio di San Pietro.
Le derive “imperiali” divennero ancora più evidenti al momento dell’incoronazione
del tribuno, che si svolse quindici giorni più tardi nella chiesa di Santa Maria Maggiore e
che l’Anonimo passa sotto silenzio. Cola aveva annunciato le sue intenzioni al pontefice,
spiegandogli che si trattava di una cerimonia assai comune nell’antichità78. Il 15 agosto del
1347, Cola fu incoronato dai vertici ecclesiastici delle maggiori chiese romane con sei dif-
ferenti corone79. Una era in argento e le altre cinque erano quelle che si attribuivano agli
imperatori romani, ciascuna di esse carica di un simbolismo ben preciso80. Successivamente
Goffredo degli Scotti, in rappresentanza del popolo romano, affidò al tribuno il globo tri-
partito, simbolo dell’Impero universale, consentendo in tal modo a Cola di mettere in pra-
tica la teoria della concessio temporanea dell’imperium da parte del popolo romano81. Dopo
aver cinto la corona d’argento, Cola si assise in trono a guisa di un imperatore romano e, una
palma d’argento in una mano ed il “pomum” nell’altra, egli parve voler incarnare l’immagine
stessa di Roma caput mundi82.
Si materializzava così, in foggia antica e con il paramento dei suoi attributi imperiali,
l’allegoria della Roma triumphans, quella che Cola aveva delineato nella sua prima lettera al

77 
Secondo l’Anonimo, Venezia appoggiava la riforma del «buono stato» mentre «la maiure parte delli tiranni de
Lommardia lo desprezzaro». Solo Luchino Visconti «lo granne tiranno de Milana» aveva inviato a Cola una lettera di
sostegno «e ammaiestravalo che cautamente sapessi domare li baroni». Cola, dal proprio canto, lo considerava un «tyranno
crudelissimo». Vd. F. Papencordt, Cola di Rienzo, cit., p. 411. Lo stesso Filippo, re di Francia, scrisse una lettera in volgare
«come lettera da mercatanti» per sostenere il tribuno, ma quando essa giunse a Roma «lo tribuno era caduto de sio dominio,
lo stato era rotto»: vd. Anonimo Romano, Cronica, pp. 131-134. Nella voce del «Dizionario Biografico degli Italiani»
riguardante Cola, J.-C. Maire Vigueur pone in evidenza l’incapacità del tribuno di comprendere l’evoluzione istituzionale in
atto nel nord Italia attraverso la creazione delle signorie, dal momento che queste ultime erano da lui poste allo stesso piano
delle baronie romane: vd. J.-C. Maire Vigueur, s.v. Cola di Rienzo, cit., p. 670.
78 
Vd. Epistolario, cit., pp. 42-43, lettera del 27 luglio con una postilla del 5 agosto 1347: […] et sumpta predicta militia, dispono
in festo sancte Marie de mense augusti laurea tribunitia coronari solita in honoris premium actenus dari tribunis ab antiquo.
79 
Secondo Cola, una parte delle corone utilizzate in quella occasione era stata realizzata con erbe e piante raccolte sotto
l’arco di Costantino. Vd. anche ibidem, pp. 245-247 (appendice V). Circa tale incoronazione, Agnolo di Tura del Grasso –
Cronaca senese, cit., p. 551 – scrisse: «El dì de l’Asunsione de la Vergine Maria il detto tribuno fu incoronato da 5 corone di
frondi di chuercia e l’altra di frondi di lella, l’altra di mortina, l’altra d’orbaco e la quinta d’ulivo, con gran festa e onore, e lo
detto tribuno signoregiava Roma con gran justitia». Circa il possibile ricorso alla terza parte della Graphia aureae urbis per la
preparazione di questa cerimonia, vd. P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig, Teubner, 1929, II, pp. 43-44. Circa
le differenti tipologe di corone nell’antichità classica vd. G. Lauro, Meraviglie della Roma antica, Roma, Audino, s.d., p. 16.
80 
Vd. le lettere indirizzate al papa del 15 e del 30 agosto, nelle quali Cola spiega al pontefice la tradizione delle sei corone:
Epistolario, cit., p. 59. Vd. anche M. Jallet-Huant, L’aventure impossible, cit., pp. 66-68.
81 
Vd. Chronicon Estense, cit., p. 153. Con riguardo al complesso della cerimonia, vd. le riserve espresse da F. Gregorovius
circa la salute mentale di Cola. Lo studioso tedesco, che considerava i diritti sovrani del popolo romano alla stregua di
una superstizione nazionale, definì l’incoronazione del tribuno «la caricatura fantastica in cui si seppellì l’Impero di Carlo
Magno»: vd. F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., VI, pp. 328-333 (libro XI, capitolo VI, paragrafo 3).
82 
Vd. Epistolario, cit., p. 247: Palmam argenteam in manu tenebit, more imperatorum in maiestate sedentium, habentium orbem in
manu, quia forma rotunda semper abilis est ad motum, et more Romani principis, quia omnia Cesar erat, quia Roma caput mundi.
L’iscrizione Roma caput mundi figurava altresì su due tipi di moneta coniati dal Comune all’epoca di Cola.
68  Juan Carlos D’Amico

popolo romano. Roma si era sbarazzata della sua veste vedovile, aveva smesso di piangere e
pareva fondersi con il suo sposo provvidenziale. Una simbiosi perfetta, grazie alla quale il
sogno politico di Cola prese corpo per pochissimo tempo. Roma era di nuovo il caput d’un
Impero che si estendeva a tutte le città italiane nel nome della giustizia, della pace e della
concordia83. Per la cerimonia Cola aveva scelto il mese di agosto e, in memoria d’Augusto,
assunse il titolo di tribunus augustus84.
Proprio le cerimonie del mese d’agosto costituirono tuttavia il preludio della caduta del
tribuno. Cola realizzò una serie di leggi in virtù delle quali la cittadinanza romana veniva
confermata a tutta l’Italia, veniva vietato l’utilizzo delle detestabili definizioni di “guelfo”
e di “ghibellino” e, per favorire la pace e la quiete pubblica, gli imperatori, i re ed i principi
potevano entrare nella penisola solo se muniti di un permesso speciale del papa o del po-
polo romano85. Nelle settimane successive, l’opposizione del papa alla politica imperiale
di Cola si fece sempre più scoperta, finchè i più ostili tra i baroni organizzarono una nuova
ribellione86. Nonostante la vittoria delle sue truppe nel mese di novembre, il tribuno non
seppe trarre profitto dalla situazione e, una volta palesatosi il conflitto con il pontefice, finì
per rinunciare lui stesso spontaneamente al potere il 15 dicembre 134787. Due giorni più
tardi, Stefano Colonna il Vecchio entrò in Roma con i suoi sostenitori. Successivamente,
arrivò a Roma Bertrando di Deux, il legato pontificio che si era attivamente adoperato da
Montefiascone per mettere fine al governo di Cola. Il legato s’impossessò del governo in
nome della Chiesa, annullò i decreti promulgati da Cola, ristabilì le regole antecedenti e, fa-
cendo ritorno alla prassi precedente, nominò due senatori di origine aristocratica: Bertoldo
Orsini e Luca Savelli.

83 
In seguito Cola spiegherà che Dio l’aveva giustamente punito ed espulso da Roma per essersi paragonato al Cristo nel
giorno della propria incoronazione. Nella prefazione alla pubblicazione della corrispondenza del tribuno – vd. ibidem, pp.
IX-X – Annibale Gabrielli afferma che il carattere religioso e mistico di questa cerimonia è legato alla tradizione medioevale
e che «il misticismo del tribuno in quelle cerimonie è ben altro da quello che lo invase nella prigionia di Praga». Ibidem, pp.
IX-X.
84 
Ibidem, p. 175, lettera all’arcivescovo di Praga: […] nam debetis scire quod ille qui triumphavit de Cleopatra, regina Egipti, fuit
Octavianus Augustus, nepos Cesari, qui reversus Romam cum triumpho, impositum est sibi nomen Augusti. […] et sic, ob vanitatem
meam, ego, coronatus mense augusti, volui dici augustus.
85 
Ibidem, p. 59: Item quod nullus imperator, rex, princeps, marchio, sive quovis alio censitus nomine cum gente audeat in Italiam
introire sine vestre Sanctitatis vel Romani populi licentia speciali: ad que me induxit pura quam habeo ad Ecclesiam sancta fides et
desiderum pacis et quietis Italie atque regni.
86 
La cronaca senese di Tura del Grasso ci fornisce un esempio dell’attività diplomatica che il papa innescò contro Cola. Vd.
Cronaca senese, cit., p. 552: «Un ambasciatore e legato del papa vene a Siena a dì 21 di novembre, espose a’ signori Nove come
il tribuno di Roma era contra a la Chiesa di Roma e occupava i beni di Santa Chiesa di Roma e per questo il papa intendeva
procedere contra al detto tribuno, e così domandò aiuto a’ Sanesi». Sui combattimenti a porta San Lorenzo, sulla morte di
Stefanuccio Colonna e sull’investitura del figlio di Cola a cavaliere, vd. M. Jallet-Huant, L’aventure impossible, cit., pp. 81-87.
87 
Il 3 dicembre, da Avignone, il papa aveva indirizzato al popolo romano la lettera di scomunica del tribuno, nella quale
esponeva tutti i suoi errori e lo qualificava come eretico e precursore dell’Anticristo. All’interno della lunga lista di accuse
lanciate contro tale “figlio del demonio” figuravano la sua immersione nel fonte battesimale di Costantino, la citazione del
papa e dell’imperatore, la messa in dubbio della legittimità dei sette elettori, l’abrogazione di tutti i privilegi concessi dal
popolo romano, l’ambizione di accedere alla dignità imperiale, d’aver vituperato la Chiesa, d’essersi arrogato la giurisdizione
sul clero e d’aver offeso i diritti ecclesiastici con la confisca dei beni e l’imposizione di nuove gabelle. Vd. O. Raynaldi,
Annales ecclesiastici, Parisiis, Consociationis Sancti Pauli, 1864-1883, XXV (anno 1347, § 17-20). Per le ultime settimane
di Cola al potere vd. anche G. Villani, Nuova Cronica, XIII 105. Massimo Miglio descrive questa rinuncia «psicologica e
politica» come logica conseguenza d’una presa di coscienza del fallimento del suo progetto politico: vd. M. Miglio, Scritture,
Scrittori e Storia, I, cit., p. 97.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  69

Cola, che probabilmente si era rifugiato a Civitavecchia, fece ritorno a Roma al princi-
pio dell’anno 1348. Venne incarcerato dagli Orsini in Castel Sant’Angelo, dal quale riuscì
a fuggire grazie alla peste che uccise i suoi due carcerieri88. Fu in questo periodo che fece
dipingere sul muro della chiesa di Santa Maddalena, di fronte a Castel Sant’Angelo, un an-
gelo con una croce tra le mani, su cui si trovava una colomba. L’angelo sfoggiava lo stemma
del Comune di Roma ed i suoi piedi schiacciavano una vipera, un basilisco, un leone ed
un drago89. Il dipinto dimostra che Cola aveva probabilmente l’intenzione di riprendere la
lotta, ma in questo periodo la pubblica scomunica da parte del cardinale legato rese ancor
più difficile il suo desiderio di ritrovare un solido appoggio popolare90.
Successivamente, di fronte all’ostilità di Clemente VI, Cola tentò di mettere in pratica
un nuovo progetto imperiale chiedendo aiuto a Carlo IV per trovare una soluzione politica
alla situazione romana ed italiana: un progetto, questo, accarezzato anche da Petrarca91. È
per questo motivo che Cola, sicuramente influenzato dal suo soggiorno presso i “fraticelli”,
si diresse alla volta della corte di Praga, ove risiedeva l’imperatore92. In un primo tempo egli
si guardò dal rivelare la propria identità ed annunciò a Carlo IV che proprio lui, Carlo, era
l’“ultimo imperatore” tanto atteso dai cristiani, e che si avvicinava l’età dello Spirito Santo93.
Cola pensava inoltre di poter convincere l’imperatore a servirsi di lui per riportare Roma

88 
Vd. Epistolario, cit., p. 170. Cola riteneva che la morte dei suoi due carcerieri avvenuta nello stesso giorno fosse un aiuto
divino.
89 
I bestiari medievali ci aiutano a comprendere il significato del dipinto. Nella simbologia cristiana il drago è un’incarnazione
di Lucifero vinto dall’arcangelo Michele e precipitato all’inferno. Tra i peccati capitali, il basilisco, re dei serpenti, simboleggia
la lussuria; il leone aveva un doppio significato, che poteva essere positivo quando fungeva da modello dell’uomo eroico,
negativo se simboleggiva il demonio. L’intenzione di Cola è evidente dal momento che nel Medioevo il Cristo è spesso
rappresentato in lotta con il drago, il leone ed il basilisco. Circa questa pittura Philippe Sonnay ha scritto: «il est frappant de
voir Cola revenir au genre allégorique qu’il avait vraisemblablement abandonné pendant le Tribunat». Vd. P. Sonnay, La
politique artistique de Cola di Rienzo, cit., p. 41. Per quanto concerne Roma, abbiamo osservato che questo abbandono sembra
meno evidente.
90 
Voir O. Raynaldi, Annales ecclesiastici, cit., XXV (anno 1348, § 13). Dopo un possibile transito a Napoli, Cola si rifugiò
in un eremo di “fraticelli” in Abruzzo, dove restò probabilmente sino al 1350. Influenzati dalle teorie di Gioacchino da Fiore,
questi frati francescani attendevano l’arrivo dell’epoca dello Spirito Santo, che avrebbe fondato sulla terra il nuovo regno di
Dio. Erano assertori dell’assoluta povertà e criticavano i fasti e le mondanità del papato.
91 
Cresciuto presso la corte francese, Carlo IV sposò Bianca di Valois nel 1329. Venne eletto re dei Romani nel 1346, contro
Ludovico IV di Baviera e, nel 1347, divenne re d’Italia.
92 
Vd. la lunga lettera indirizzata da Cola a Carlo IV e scritta nell’agosto del 1350 quando egli si trovava già in prigione a
Praga. In questa lettera, Cola si difende dalle accuse di eresia, in modo particolare da quella d’aver negato il libero arbitrio
dell’uomo, insiste sulla corruzione del clero, difende la vita e le teorie dei “fraticelli”, manifesta la sua convinzione rispetto
alla veridicità delle profezie e annuncia il prossimo avvento dello Spirito Santo. Come farà Petrarca più tardi, sempre in una
lettera a Carlo IV, Cola rievoca la magnanimità di Giulio Cesare e rimprovera all’imperatore di non seguire più l’esempio dei
suoi predecessori tenendolo in prigionia. Vd. anche la lettera del 15 agosto 1350 ad Ernest de Parbubitz, arcivescovo di Praga:
vd. Epistolario, cit., pp. 111-141. Per la corrispondenza tra Cola e la cancelleria imperiale, vd. F. Borchardt, First Contacts
with Italy: German Chancellery Humanism in Prague, in The Renaissance and Reformation in Germany: An Introduction, éd. G.
Hoffmeister, New York, F. Ungar, 1977, pp. 1-5.
93 
Vd. Epistolario, cit., p. 167. Sulle attese escatologiche di questo periodo, la bibliografia è molto vasta; ci limitiamo a citare
in questa sede alcune opere che si riferiscono anche a Cola: vd. K. Burdach - P. Piur, Briefwechsel des Cola di Rienzo, cit., II,
p. 295; R. Rusconi, Millenarismo e centenarismo: tra due fuochi, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
degli Studi di Perugia. 2: Studi storico-antropologici», XXII, n.s. VIII (1984-1985), pp. 51-64; E. Dupré-Theseider,
L’attesa escatologica durante il periodo avignonese, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo, Todi, Centro
di Studi sulla Spiritualità Medievale, 1962, pp. 67-126; M. Reeves, Joachim of Fiore and the Prophetic Future, London, Sutton,
1976 e R.G. Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and the Politics of the New Age, Berkeley (CA), University of California
Press, 2003.
70  Juan Carlos D’Amico

nell’orbita imperiale94. All’interno di questa logica si inserisce il tentativo di Cola di arro-


garsi un’origine imperiale attraverso la linea di una pretesa discendenza diretta da Enrico
VII, nonno di Carlo IV: affermò di essere il frutto di una relazione adulterina tra sua madre
ed Enrico VII, e chiese all’imperatore di mantenere il segreto95.
Nella sua missiva all’arcivescovo di Praga, tornando su questo episodio, Cola lo carica
di un nuovo simbolismo e associa l’immagine di sua madre a quella di Roma mater. La
presunta relazione fuggevole di Enrico VII con sua madre, diventa uno specchio ove si
riflettono le condizioni storiche della città. Alla stessa maniera con cui aveva posseduto
sua madre, in modo adulterino, temporaneo e segreto, Enrico VII aveva preso possesso
della sua città-sposa solo per un momento, a causa del tradimento di Stefano Colonna il
Vecchio. Per contro, Carlo IV si sarebbe impossessato ufficialmente e legittimamente della
sua sposa davanti al popolo in festa (per totum populum exultantem). In tal modo, non più
amante segreta e sottomessa di Enrico VII, la sposa avrebbe ripreso la condizione di poten-
te sovrana e di madre libera96.
L’impiego dell’immagine allegorica di Roma, tuttavia, non è funzionale soltanto a ri-
chiamare il suo sposo temporale. Cola parla anche dello sposo spirituale e legittimo dell’al-
ma mater che, invece di governare la Chiesa da Roma e di condurla fuori dai lupanari in cui
si trova con le altre schiave e cum ceteris paranimphis, si arrocca nella fortezza di Avignone.
Sono trascorsi quarant’anni dalla partenza da Roma, ed è ormai giunto il momento che lo
sposo spirituale protegga nella sua sacra dimora la madre mistica di tutti i Romani, come
aveva annunciato nella bolla Unigenitus Dei filius. In tal modo, i Romani potranno di nuovo
essere considerati come i figli legittimi e prediletti della Chiesa, secondo il pensiero di Dan-
te97. Cola non si attende affatto una ricompensa da parte di Carlo IV, ma spera di ottenere il
permesso per recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, sempre che l’imperatore non riten-
ga che la sua presenza sia utile in Italia98.

94 
Vd. la lettera di Cola a Carlo IV (20-31 luglio 1350) nella quale egli espose la sua idea ghibellina del potere temporale:
riconobbe la legittimità dell’elezione imperiale da parte dei sette elettori e ricordò che, sotto il suo regime, il popolo era stato
unito. Affermò inoltre d’essere il solo uomo in grado di aiutare la causa imperiale in Italia: vd. Epistolario, cit., pp. 95-96 e 109.
Gli stessi argomenti sono presenti in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Praga, in cui Cola afferma: […] quos quidem
vades paratus sum, antequam assumam Romanum regimen pro Cesare, assignare prefecto Urbis, quamquam meo dudum emulo et
hodie non amico: quem attamen confido meum futurum in imperii exaltatione conformem. Inoltre, egli promette di incorporare
altre province romane all’Impero: vd. ibidem, pp. 163 e 165-166.
95 
Ibidem, pp. 100-102 e 110. Vd. anche M. Jallet-Huant, L’aventure impossible, cit., pp. 102-106.
96 
Epistolario, cit., pp. 167-168: […] ego quidem volo hunc Cesarem sicut predecessorem suum matris mee, Romane videlicet
civitatis, thalamum introire, sed lete et publice, sicut sponsus, non per unum Latinum tantum in thalamum nostre matris induci,
sicut quondam dominus imperator, avus suus, introductus fuit latenter et per impedimenta viarum, per solum quondam dominum
Stephanum de Columpna, a quo postea deceptus extitit et relictus; sed per totum populum exultantem. non denique sponsum ipsum
ipsam sponsam eius et matrem nostram invenire volumus hospitam et ancillam, sed potius liberam et reginam;[…].
97 
Ibidem, p. 168: […] et sic domus matris nostre erit Ecclesia, non taberna, et nos omnes, Romani et Italici, qui speciales filii
existimus, tamen ex ancilla, que dudum regina fuit libera, facti prorsus adulteri, erimus legitimi filii et fideles; spero quod sponsus alter
spiritualis, videlicet matris nostre legitimus, qui pro custodia castri Avinionensis sponsam suam in taberna reliquit, una cum ceteris
paranimphis, licet in principio adversari forsitan se parabunt, tamen, cum viderint opus dominicum, quod videbunt, ad sponsam
redire, Cesari applaudere et gratulari populis in integrum restitutis, potius quam resistere, festinabunt, et sic implebitur quod ipse
idem papa, cum esset pontifex, prophetavit, in sermone videlicet, quod in iubilei confessione vulgavit, quod completis XL annis a
transmigratione Ecclesie ab Urbe, erit aut ipse, aut suus successor ad sedem propriam rediturus: qui iam terminus est finitus.
98 
Ibidem: Ego autem nullum aliud a Cesare postulo premium, quod a Deo penitus concupisco, nisi ipso pacifice in sua exaltatione
sedente peregrinationem michi concedat, nisi sibi forem apud Italicos opportunus.
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  71

Si ha l’impressione che Cola si serva dell’immagine tradizionale della Roma mater per
consigliare all’imperatore di seguire un nuovo indirizzo politico. Quella che sembra una
bizzarria improvvisata e ridicola fa parte, in realtà, di un piano ben preciso. Sua madre è
l’incarnazione della Roma mater e Cola si può presentare come nato dall’unione tra lo spo-
so temporale e l’Alma urbs sacra. In quanto figlio di Enrico VII, il sangue imperiale scorre
nelle sue vene ed egli è la persona ideale per riportare il prestigio del Sacro Impero a Roma.
Il nuovo figlio di Roma si pone al servizio dell’Impero perché ritrovi la sua magnificenza
perduta e favorisca un rinnovamento spirituale.
Di fronte al suo fallimento, Cola tenta quindi di recuperare il potere attraverso una nuo-
va azione politica volta al trionfo della causa imperiale in tutta la penisola ed al ristabilimen-
to della libertà nella sua città. Per questo motivo egli invita i guelfi italiani a non dubitare più
di Carlo IV, che non è parziale come suo nonno ed il cui unico pensiero è rivolto alla pace
ed alla prosperità di tutti99.
Per tutta risposta, Carlo IV lo fece arrestare, ancorché trattandolo con molti riguardi. Le
istanze di Cola rivolte all’imperatore ed a molti dei suoi più vicini collaboratori per ottenere
la libertà non condussero ad alcun risultato e, nel 1352, dietro le pressioni di Clemente
VI, l’imperatore decise di inviarlo ad Avignone dove, accusato d’eresia, venne giudicato
dall’Inquisizione100. Cola tentò di dimostrare l’ortodossia delle sue idee e della sua politica
religiosa nel periodo del proprio tribunato e prese le distanze dalle profezie gioachimite. Il
processo si concluse con una condanna, ma la morte di Clemente VI – il 6 dicembre 1352 –
giocò in suo favore, dal momento che il nuovo papa Innocenzo VI (1352-1362) decise di
liberarlo e di servirsi di lui per restaurare l’ordine a Roma. Egli venne quindi inviato in Italia,
senza alcun titolo ufficiale, e si ricongiunse in qualità di cavaliere all’esercito del cardinale
Albornoz impegnato a restaurare l’autorità pontificia all’interno dello Stato della Chiesa101.
Più tardi, nel 1354, l’Albornoz decise di nominare Cola senatore vicario di Roma per conto
del papa e Cola fece un’entrata trionfale nella città il 1° agosto 1354, esattamente sette anni
dopo dopo il giorno della sua investitura102.
Nel proprio discorso ai Romani, Cola affermò il proposito di voler «rettificare e rele-
vare lo stato de Roma». L’Anonimo, tuttavia, descrive un uomo completamente differente
da quello del periodo precedente e ne delinea un ritratto sconfortante. La totale assenza
di corrispondenza relativa a questo periodo ci impedisce di avere un’idea precisa delle
sue intenzioni reali, ed il suo comportamento non è sufficiente a spiegare interamente le
ragioni della sua tragica fine. Cola non è più il tribuno del popolo, ma un rappresentante

99 
Vd. F. Papencordt, Cola di Rienzo, cit., doc. XXIV, p. 454.
100 
Vd. la lettera di Petarca a Francesco Nelli – Fam. XIII 6 – in cui il poeta racconta dell’arrivo di Cola ad Avignone come
prigioniero.
101 
Vd. P. Colliva, Il Cardinale Albornoz, lo Stato della Chiesa, le “Constitutiones Aegidianae” (1353-1357), Bologna, Real
Colegio de España (Studia Albornotiana, XXXII), 1977, ed E. Dupré-Theseider, I papi di Avignone e la questione romana,
Firenze, Le Monnier, 1939.
102 
Anonimo Romano, Cronica, cit., pp. 246-247: «La cavallaria de Roma li iessìo denanti fi’ a Monte Malo (Mario, n.d.a.)
colle frasche delle olive in mano in segno de vettoria e pace. Iessìoli lo puopolo con granne letizia, como fussi Scipione
Africano. Fuoro fatti archi triomfali. […] Granne festa li Romani li fecero, como fecero li Iudei a Cristo, quanno entrao in
Ierusalem a cavallo nella asina».
72  Juan Carlos D’Amico

Fig. 7. Particolare della cosiddetta Casa dei Crescenzi. Si distingue la lunga iscrizione menzionan-
te un Nicolaus, da cui deriverebbe l’erronea identificazione popolare del sito come Casa di Cola
di Rienzo. La costruzione attuale faceva parte di un edificio fortificato appartenente alla famiglia
baronale dei Crescenzi di cui era un esponente il Nicolaus menzionato nell’epigrafe.

dell’autorità papale, un’autorità che egli aveva ferocemente criticato durante il suo sog-
giorno a Praga103.
Una volta installatosi al potere, Cola riprese la lotta contro i baroni – in modo partico-
lare contro i Colonna – e per poter sostenere un lungo assedio a Palestrina e pagare il soldo
alla truppa fu costretto ad aumentare l’imposta sul vino e sul sale, il che creò scontento in
una parte della popolazione104. L’8 ottobre 1354, dopo una rivolta di una parte dei rioni,
probabilmente fomentata dai Savelli e dai Colonna, fu assassinato sui gradini del Palazzo
Senatorio. Decapitato, il suo cadavere restò appeso per i piedi durante due giorni davanti
alla chiesa di San Marcello, nei pressi della dimora dei Colonna. Il terzo giorno, «de com-
mannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna», il cadavere fu spostato e, secondo
l’Anonimo, bruciato dagli Ebrei romani presso le vestigia del mausoleo di Augusto – «allo
campo dell’Austa» –, il che sembra essere un avvenimento, ancora una volta, carico di sim-
bolismo105.

103 
Clemente VI era stato accusato d’aver offerto il potere su Roma e sull’Italia ai tiranni, di preferire di vedere il gregge del
Signore sbranato dai lupi piuttosto che rientrare a Roma, di voler custodire la spada del potere temporale insanguinata al posto
del suo legittimo possessore, l’imperatore. Vd. Epistolario, cit., pp. 144-155. Su di un privilegio del 16 settembre di quell’anno,
si trovano menzionati i nuovi titoli delle funzioni sfoggiati da Cola: cavaliere del popolo romano, illustre senatore, capitano,
sindaco e difensore dell’alma Urbs per conto della sede apostolica. E. Dupré-Theseider, Roma dal Comune di popolo alla
Signoria pontificia (1252-1377), Bologna, Cappelli, 1952, p. 645.
104 
Apparentemente, lo stesso Cola partecipò agli sforzi fiscali e, stando alla Cronica, parrebbe che una parte dei Romani
accettasse il «sussidio»: «Aveva lo tribuno fatta una gabella de vino e de aitre cose. Puseli nome ‘sussidio’. Coize sei denari per
soma de vino. Coglievase la moita moneta. Romani se·llo comportavano per avere stato. Anco stregneva lo sale per più moneta
avere. Anco stregneva soa vita e soa famiglia in le spese. Onne cosa penza per sollati». Anonimo Romano, Cronica, cit., p. 258.
105 
Ibidem, p. 265: «Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello
cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de
La rivolta di Cola di Rienzo: dalla Roma vidua alla Roma caput mundi  73

Dopo numerose vicissitudini, si instaurò un governo popolare che abbandonò il sogno


imperiale di Cola per ritornare ad un’organizzazione istituzionale maggiormente repubbli-
cana sotto l’egida del potere pontificio. Gli statuti del Comune popolare vennero redatti nel
1360 e, all’interno delle istituzioni cittadine, iniziò ad imporsi una nuova milizia incaricata
di limitare il potere dei baroni (fig. 7). Tale milizia, chiamata “Felice Società dei Balestrieri
e dei Pavesati”, divenne sempre più potente, sino ad identificarsi con il regime comunale106.
Nel 1398, tuttavia, Bonifacio IX mise fine all’autonomia del Comune, che esisteva da più di
due secoli e mezzo.

Juan Carlos D’Amico


Professeur des Universités
Université de Caen Basse-Normandie
Maison de la Recherche en Sciences Humaines
Équipe de Recherche sur les Littératures, les Imaginaires et les Sociétés

Roma, lo quale voize essere campione de Romani». Un episodio eroico della storia romana riportato da Tito Livio servirà
all’Anonimo per chiudere la trattazione relativa a Cola e condannare il suo tentativo di fuggire dal Palazzo Senatorio. In
precedenza Cola era uscito sul balcone del Palazzo con un gonfalone, tuttavia, come ci racconta Paul Piur, «una freccia trafisse
la sua mano. Allora spiegò con le due mani il gonfalone e indicò silenziosamente le lettere d’oro S.P.Q.R. e l’insegna di Roma:
riconoscimento simbolico della sua sorte collegata con quella della citta eterna, quale non poteva pensarsi più sublime e nello
stesso tempo più commovente […] ». P. Piur, Cola di Rienzo, cit., p. 199. Corsivo dell’autore.
106 
Vd. F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., VI, pp. 464-637 (libro XII, capitolo I, paragrafi 2-4 e
capitoli II-III e IV, paragrafo 1); A. Natale, La felice società dei Balestrieri e Pavesati a Roma e il governo dei Banderesi dal 1358 al
1408, in «Archivio della R. Deputazione Romana di Storia Patria», LXII (1939), pp. 1-176; J.-C. Maire Vigueur, Il comune
romano, cit., ed Id., La Felice Societas dei Balestrieri e dei Pavesati: una società popolare e i suoi ufficiali, in Scritti per Isa. Raccolta
di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma 2008, pp. 577-606.

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