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Tardo-antica

————————————————————Enn. V, 3, 3

(Una delle fonti importanti è Ammonio, maestro di Plotino, che sosteneva la concordanza fra il pensiero di Platone e
quello di Aristotele.)

L’anima si estende dalla percezione sensibile fino al pensiero discorsivo (dianoia). Le forme sono l’oggetto proprio
dell’intelletto (nous). La domanda centrale è, dunque, come si fa l’articolazione fra anima, che finisce nella
dianoia, e intelletto, che ha in sé le forme innate. Questo rapporto fra anima e intelletto non si capisce bene in De
An. e De Nous. Aristotele dice che, da un lato, c’è l’anima, e d’altro lato, c’è l’intelletto. Plotino, invece, risponde:
l’anima consiste sopratutto nella dianoia o logismos (ragione, pensiero discorsivo, che ha bisogno però di essere
connesso con il nous, intelletto), e manca veramente in Ar. una spiegazione di come connettere anima e intelletto.
Il problema di non fare questa connessione è il seguente.

Secondo Plot, Ar non spiega come le forme (oppure primi principi!) siano nell’anima percettiva e discorsiva, da
dove provengono. È certo che le forme sono nell’intelletto che li ha astratto dell’esperienza. Ma le forme devono
anche poter arrivare dall’intelletto all’anima per che ci possa essere percezione, dato che già nella percezione delle
cose esteriori ci sono delle idee (albero, gallina, etc). La presenza delle forme nell’operazione della percezione
non si può capire, quindi, se l’intelletto (che ha le forme come oggetti propri) e l’anima (che le usa per la
percezione) sono separati.

Perché il problema è che quello che svolge l’autoconoscenza è l’intelletto, poiché ha in sé le forme che danno
autoconoscenza. Ma se, come dice Ar, anima e intelletto sono separati, non ci sono forme nell’anima ed essa
non svolge nessun ruolo nell’autoconoscenza, non è capace di riflettere sulla sua proprio funzione, non è
capace di conversione.

Risposta al problema: l’intelletto non appartiene all’anima, ma appartiene a noi (“anche noi siamo re” basiléuomen
dé kai hemés: Filebo). L’intelletto non può essere dell’anima perché è puro, separato (ákratos: Anassagora). Ed è
questo il punto, se l’intelletto è una facoltà dell’anima o no, e come si rapportano. La risposta di Plotino è che
l’intelletto è una facoltà nostra diversa dalla dianoia (pens. discorsivo). In questo senso è nostro. Ma anche: non è
nostro (“nostro e non nostro” hemeteron kai ouk hemeteron), nel senso che chi lo usa partecipa in dei principi che
non appartengono a nessun individuo. Quando Pitagora pensa nel triangolo, lo fa universalmente, non in quanto
l’individuo Pitagora. Partecipiamo dell’intelletto e conosciamo dei principi sub specie aeternitatis, e sono nostri in
questo senso, che noi facciamo l’atto stesso, ma non fanno parte di noi in quanto individui.

Nella nostra forma di usare l’intelletto c’è una comparazione implicita con la forma divina (con il modo di essere,
diagogé di dio in Met. 12). Dio è pensiero del pensiero (noésis noéseos), pensiero che sta sempre in atto perfetto
(enérgeia aei). Noi riusciamo questo pensiero soltanto in pochi momenti, e, per questo, siamo e non siamo intelletto.

La risposta definitiva che spiega l’articolazione fra anima e intelletto è che, quando svolgiamo la dianoia bene,
correttamente, operiamo secondo (kata) l’intelletto divino, dato che l’operazione corretta della dianoia è un
recepire le forme dell’intelletto nella nostra ragione discorsiva, nella nostra anima. Noi siamo capaci di pensare
le forme dell’intelletto, ma dobbiamo ragionare secondo il parametro del intelletto per raggiungere questo livello.
L’operazione della dianoia è, dunque, un mirare verso l’alto (blépontas eis to áno).

———————————————————Enn. V, 3, 4, 1-15

Il linguaggio di Plotino, di messaggero e re, ci propone il seguente schema: sensazione (messaggero) ———→
anima fino alla dianoia ———→ intelletto (re). Noi siamo tutto questo, dalla sensazione fino al intelletto, mentre
l’anima copre soltanto lo spazio dalla sensazione al pensiero discorsivo (dianoia), cioè, tutto quello che è in
movimento, mentre il re è fuori dal movimento.

L’essere secondo l’intelletto si organizza in due modi: i. lettere che sono inscritte in noi (grafeisin en hemin) a modo
di leggi (forme oppure primi principi?); ii. essendo nella condizione (dunézentes) di vederlo come se fosse presente
(non ben chiaro come accade questo rapporto mistico.)

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i. Le lettere inscritte in noi come leggi sono tracci, modelli o parametri che ci servono per strutturare
l’esperienza. Ma c’è un’ambiguità importante qui: non è chiaro se si tratta delle idee di Platone oppure dei primi
principi aristotelici. D’Ancona pensa che non possono essere le idee, perché la funzione che si bisogna qui
(funzione apicale: apex mentis) non può essere usare le forme per giudicare l’esperienza1 . Invece, dice lei, si tratta di
parametri per il funzionamento del pensiero discorsivo (dianoia): Plotino parla qui dei primi principi
dell’argomentazione, principi non-dimostrabili che sono delle vere leggi del discorso (nomoi). Non si tratta,
dunque, di contenuti (idee) che ci permettano giudicare sul mondo sensibile, ma di regole formali (principi) che ci
insegnino come pensare discorsivamente sulle cose. Quando facciamo sillogismo secondo i principi, siamo re,
perché pensiamo discorsivamente secondo l’intelletto.

Secondo questa interpretazione delle “lettere inscritte in noi” come primi principi, Plotino trasforma questi principi,
facendoli oggetti di visione dell’intelletto (oggetti del nous, di visione noetica, intuitiva). Dall’operazione della
dianoia, discorsiva, argomentativa e sillogistica, bisogna arrivare alla visione del nous, intuitiva.

(La sovrainterpretazione di V, 3, 4 fatta nella lezione -quella delle lettere inscritti in noi come primi principi e non
idee, lettura più comune- si basa sull’ipotesi che Plotino qui stia usando il platonismo per spiegare quello che Ar ha
detto nel De Anima senza averlo spiegato veramente, per non aver voluto dare fondamento ontologico alle sue
affermazioni di ordine argomentativo).

Nella prima forma di essere secondo l’intelletto, quella delle leggi inscritte in noi, c’è qualcosa nella nostra anima
secondo la quale noi operiamo per argomentare correttamente ed eventualmente arrivare a una visione intuitive
delle leggi. Invece, nella seconda forma c’è un’altro che è attivo nel suo rapporto con noi, un’altro difronte al quale
l’anima è più o meno passiva, dal quale essa viene ricolmata.

A partire della conoscenza intuitiva, noetica, delle leggi di (i) che sono inscritte in noi, ci conosciamo a noi stessi.
Questo vuol dire: riflettendo sulla dianoia capisco le sue regole universali di operazione (principi), e, così,
capisco l’anima nel suo conoscere come soggetto e come oggetto di conoscenza. Le regole sono, in qualche
modo, l’anima stessa (la dianoia).

———————————————————Enn. V, 3, 4, 15 e poi

Poi in V, 3, 4 si va a discutere cosa sia il pensare sé stesso dell’intelletto. Siccome lì c’è molteplicità, l’intelletto non
può essere l’apex relis, l’apice dello reale. Il dio intellettuale non può essere il primi principio.

Plotino riprende l’argomentazione di Sesto Empirico contra l’auto-pensiero per dimostrare, invece, che il pensiero di
se stesso si è possibile, ma non come parte che pensa un’altra parte. Non è una parte che pensa un’altra, poiché il
pensante (Demiurgo) e il modello intelligibile (le Idee) sono la stessa cosa. Da questa tesi si seguono conseguenze
paradossale, e il pensiero di Plotino è pieno di queste conseguenze, dato che la ragione argomentativa che usiamo
adesso non è adeguata per analizzare l’Intelletto com’è in se stesso. La ragione procede con delle separazioni
(analisi) e unioni (sintesi), per parti, e non ci sono parti nell’Intelletto.

(Qui c’è una riposta ai platonici, che hanno interpretato il Timeo alla lettera e hanno pensato, quindi, che l’Intelletto
e le Idee sono realmente diversi. Anche una risposta ad Ar, che non ha chiarito il rapporto della dianoia con il nous,
neanche con l’Intelletto divino. Ar ha confuso l’intelletto umano con l’Intelletto divino).

Il tema è cercare di capire se “la parte migliore dell’anima (to tes psuches ameinon)” e la parte superiore (intelletto)
sono la stessa cosa, e se questo risponde al problema del “nostro e non nostro”. Due questioni: i. È l’intelletto una
capacità nostra, oppure un “server esterno” del quale riceviamo le regole per l’operazione della dianoia; ii. come si
articola l’anima, quindi, con l’intelletto? Opera l’anima dianoetica già nella percezione e nel giudizio della
percezione?

1 Ma il testo di V, 3, 2, 6-14 attesta l’esistenza nell’intelletto delle idee come contenuti: “Invece il principio razionale presente in
lei [l’anima] formula un giudizio a partire dalle immagini interiori risultanti dalla sensazione, le unifica e le distingue; e
senz’altro prende in considerazione (eforâ) anche quella specie di impronte (tupoi) derivanti dai contenuti cognitivi che gli
giungono dall’intelletto (ton ek tou nou ionton), ed esercita anche su questi ultimi la stessa facoltà”.

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15-19: la domanda si può formulare così: sa l’anima che usa criteri intellettuali quando giudica e coglie le cose
esteriori? E questi criteri, sono presenti già in noi? La dianoia ha sempre consapevolezza di quello che sta facendo.
Non è possibile che la dianoia si ferme in giudicare le sensazioni con i canoni, e che non sappia che fa questo. Se
fosse così, non ci sarebbe nessuna articolazione fra dianoia e nous. L’autoconoscenza della dianoia è una
conseguenza della continuità ontologica fra dianoia e nous. Inoltre, col fatto che possiamo fare questo discorso è
già provato che l’auto-conoscenza della dianoia è possibile.

Non è possibile che abbiamo un modo percettivo animale e un modo epistemologico separato che si svolge
sull’informazione del primo (se fossero separati, sarebbe impossibile che il secondo esaminasse quello del primo).
Già nella percezione c’è l’operazione della dianoia, perché l’anima è articolata. Infatti, la dianoia ha come
funzione propria dare struttura alla percezione e ragionare su di essa. Il fatto che la dianoia sappia questo prova la
sua auto-conoscenza.

20-27: non può essere che conosciamo che l’intelletto abbia conoscenza di se sesso, e che invece noi non lo
sappiamo, cioè, che sappiamo di avere i canoni intellettuali e come funziona la dianoia secondo questi canoni, ma
che non sappiamo, anche con la dianoia, che sappiamo tutto questo. Noi ci conosciamo, abbiamo coscienza di noi
stessi in quanto immagini dell’intelletto, che conosce se stesso in un atto semplice. In altre parole, quando mi
rendo conto che la dianoia opera così, avendo intelletto in sé, essendo come una immagine di esso, capisco che
anche la dianoia è autocosciente. Così sono messi in continuità entrambi.

Le due interpretazioni dell’autoconoscenza della dianoia sono, dunque: i. essa conosce se stessa perché conosce le
leggi che sono iscritte in lei, che vengono dall’intelletto; ii. essa conosce se stessa perché sa di essere una immagine
dell’intelletto. In verità, sono le due faci della stessa comprensione: la dianoia è un’immagine dell’intelletto in
quanto opera secondo le regole che sono inscritte in lei e vengono dall’intelletto: “avendo tutte quante le cose
come inscritte in sé dirà che là si trova colui che le scrive e le ha scritte”.

———————————————————Enn. V, 3, 5

5 si può dividere grosso modo in due parti: i. condizioni dell’autoconoscenza dell’intelletto (ancora sul tema della
parte e il tutto, e come si conosce); ii. concezione non-proposizionale della verità.

i. Precetto delfico nel Carmide: Socrate domanda se sarà possibile conoscere la ragione con la ragione, anche se
sappiamo che un senso non si può sentire a se stesso? Aristotele da una prima risposta al problema: non è la vista chi
vede la vista, ma siamo noi tramite la vista. Dunque, “vediamo” la vista con un’altra facoltà, il senso interno, dove si
unificano i dati sensibili e c’è già una consapevolezza. Secondo i scettici, invece, l’uomo non può cogliere se stesso,
né con il senso neanche con la ragione.

Una possibilità di risposta è che “l’intelletto si coglie tutto”, è tutto cogliente e tutto colto. Ma se fosse così, se tutto
facesse l’atto di cogliere, non ci sarebbe nessun oggetto restante da cogliere. In altre parole, se tutto è cogliente,
nulla è oggetto dell’atto di cogliere. Quindi, non può essere così, ma neanche è possibile che conosca con una parte
di sé (come l’occhio conosce il corpo).

La risposta di Plotino sarà che si deve cogliere tutto a tutto, di un modo che non è possibile spiegare
proposizionalmente. In questo senso, l’intelletto è omogeneo (homeómeres), e si coglie tutto a tutto, e questo atto
perfetto di cogliere se stesso è il fondamento della verità proposizionale. Come è basata nel conoscere se stesso!,
si vede che la verità di cui Plotino parla qui ha le sue radice nell’auto identità!!, concetto messo da Platone alla
base della teoria delle Idee. L’essere della idea in Platone consiste, esattamente, nel fatto che essa è identica a se
stessa!!!!!!!. (Dianita: Questa concezione si spiega meglio nella seguente lezione.)

ii. La verità in senso fondamentale verrà capita da Plotino non come proprietà di un enunciato, ma come
fondamento ontologico della verità proposizionale. Questa è la verità dell’Intelletto e delle Intelligibili, verità che
l’Intelletto é. Non dice, non pensa, non esprime essa; la è. La verità non proposizionale è l’origine ontologico, non
discorsivo, delle operazioni della dianoia. Questa verità ha la sua unica spiegazione possibile nell’autoconoscenza
dell’Intelletto.

(In mezzo a questo capitolo troviamo Sesto Empirico, per porre una domando importante: come si può parlare di
verità dopo lo scetticismo? Il testo di Sesto è Contro i matematici, cioè, contro tutti quelli che hanno una mathesis,

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un insegnamento. In questo testo, Sesto si collega a Pirrone e si posiziona contro l’Accademia scettica e contro i
scettici dogmatici. Ci sono due tipi di scettici: accademici e dogmatici. Gli accademici accettano quello che la
sensibilità ci da come evidente; i dogmatici accettano, inoltre, cose non chiare adela. Il rifiuto che Sesto fa di
entrambi si deve a quello che si chiama metadogmatismo negativo, che è la concezione secondo la quale “sapere
è impossibile”. Sesto Empirico cerca una terza via per lo scetticismo, meno radicale, secondo la quale non è
possibile arrivare a una conoscenza definitiva (non è possibile la sapienza), ma è possibile la ricerca filosofica.
La ragione dell’impossibilità della sapienza è che ogni logos ha sempre un’altro logos contrario di uguale forza. Alla
luce di questo, lo sensato è sospendere il giudizio. Il metodo necessario e il fine è sempre la ricerca, che non si
ferma mai. Sesto non nega che ci siano conoscenze, nega il fatto che ci siano verità definitive, poiché in un livello
metalinguistico, si sa che sempre è possibile contradire un logos con un’altro. I logoi, dunque, hanno finalità pratica:
Sesto era medico). Tutto questo per dire che i scettici negano la possibilità dell’autoconoscenza.

———————————————————Enn. V, 3, 5 (verità)

Per spiegare la concezione non-proposizionale della verità, facciamo due passi: i. si spiega la concezione
proposizionale della verità, per poi dire ii. la concezione ontologica, non-proposizionale della verità di Plotino.

i. La concezione proposizionale della verità è espressa nel lemma “adeguazione dell’intelletto alla cosa” (adequatio
intellectus rei). Questa idea ha il suo origine in Aristotele, chi dice che quello che c’è nella mente è una somiglianza
(homoiosis2) delle cose del mondo3. Questa somiglianza è la nostra rappresentazione della cosa, e la verità consiste
nella concordanza fra le due.

Plotino accetterà, in qualche misura, questa concezione della verità come adeguazione della nostra rappresentazione
alla cosa, ma dirà anche che si deve andare oltre la rappresentazione, si deve andare alle “cose stesse”, al prágma
stesso. Come farlo? Certamente non tramite la percezione. Il criterio della verità in senso più profondo deve
essere, dunque, in un’altra facoltà, ed avere un senso ontologico piuttosto che proposizionale.

Charles Kahn ha mostrato in The Greek Verb To Be tre usi diversi del verbo essere che ci aiutano a capire meglio
cosa è la verità in questo senso ontologico:

i. Uso incompleto o predicativo: il cane è bello. Qui il verbo si usa per dare un predicato a un soggetto
grammaticale.
ii. Uso completo o esistenziale: il cane è. Qui il verbo significa esiste.
iii. Veritativo o filosofico: l’idea è. Qui il verbo espressa una verità che non si può verificare immediatamente dalla
percezione, ma che si può capire. Questo uso del verbo è caratteristico della filosofia di Platone. Infatti,
quello che espressa l’essere dell’idea viene sempre espresso così: l’idea è (non esiste), ha uno statuto ontologico
secondo il quale lei viene pensata come identica a se stessa, e ha il suo essere in quanto conosciuta così.

L’uso veritativo del verbo ‘essere’ da espressione a la concezione della verità non proposizionale. Quando si dice
che l’idea è, non si dice che essa esista, ma che si definisce per essere identica a se stessa (come è l’Intelletto in
Plotino: identità fra conoscente, conosciuto e atto del conoscere).

Alle idee, cioè, quelle “cose” che sono identiche a se stesse, Platone le chiama “le cose realmente reali (ta óntos
ónta)” e “il più vero”. Nella Repubblica, affinché i guardiani possano guardare la città, devono avere nell’anima un
“modello in atto” ed essere capaci di guardare il “più vero”. Come aiutano, però, le idee ai guardiani? Le idee sono
quello più determinato e più sicuro (akríbeia), quello che serve di modello, perché sono identiche a se stesse. “La
giustizia è” vuol dire: non è altro che giustizia, non è possibile sbagliarsi su di essa, perché è necessariamente
identica a se stessa e non può non essere così. La verità logico-ontologica di Platone è un non poter perdere la
propria determinazione, l’auto-identità delle idee.

Quando poi Aristotele si confronta con questa concezione platonica della verità, identifica invece l’intelletto,
l’intelligibile e l’atto intellettuale. La identità c’è ancora, ma fra gli elemento dell’atto intellettuale. Ma sarà Plotino

2 C’è già l’adequatio in Platone Cratilo, Sofista, Metafisica γ?

3 Contemporaneamente, Russell ha difeso una Corrispondence theory of truth, dove la verità consiste nell’adeguazione
dell’enunciato all’oggetto. Il rappresentazionismo obietta che non è la cosa ad essere bianca, ma la nostra rappresentazione di
essa. Russell risponde: non si dice che l’oggetto abbia questa proprietà; la teoria è fact based, basata sulle cose come appaiono
per noi come fatti, a partire di un protocollo di spiegazione indipendente dell’ontologia.

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a collegare la concezione di Platone con quella di Aristotele, per dire che l’identità aristotelica fra gli elementi
dell’atto intellettuale ha il suo essere eterno nell’Intelletto divino, che, per questa identità, è il fondamento
ontologico della verità, è la verità.

E questa identificazione fra Intelletto, intelligibili e atto intellettuale è il modo nel quale l’Intelletto pensa se
stesso. Questa è la tesi internalista, che risponde al esternalismo del Timeo, dove il Demiurgo vede le Idee
sopra di lui e diverse da lui. (È impossibile che si conosca come le cose della percezione, nella quale l’oggetto è
sempre esterno all’atto di percepire. Ecco perché l’oggetto e l’atto e l’Intelletto si identificano).

———————————————————Enn. V, 3, 5 (atto puro)

Ma anche nel platonismo medio, prima di Plotino, troviamo la tesi internalista. Quello nuovo in Plotino non sta nel
dire che le Idee sono nella mente divina, ma che le Idee sono la mente divina, entrambi si identificano. Lo
caratteristico di Plotino e il collegamento di Platone e Aristotele per elaborare la spiegazione di questo sistema.
Come si fonda l’autoconoscenza dell’Intelletto su questo modello di identificazione fra Intelletto e Idee?

Per concludere la spiegazione sulla verità ontologica, sull’autoconoscenza dell’Intelletto, si deve spiegare perché lui
è atto puro, come non è possibile che ci sia in lui potenza. L’identificazione fra intelligibili e Intelletto dipende del
fato che l’Intelletto sia atto puro, poiché se ci fosse qualche potenza in lui, dipenderebbe di un altro per essere
attualizzato. L’intelletto è, però, autarchico, come ci dice Aristotele, e questo implica che non può dipendere di un
altro per venire all’atto; per tanto, soltanto è pensabile come atto puro. La natura autarchica, autosufficiente,
dell’Intelletto implica già il fatto che esso si identifica con gli intelligibili. (Deve essere chiaro che questo non è
propriamente il senso che Aristotele da alla autosufficienza (autárcheia). Plotino usa qui il concetto per difendere
l’essere separato delle Idee nella mente dell’Intelletto, per identificare entrambi, paso che Aristotele non da mai.)

Le Idee non sono, dunque, una collezione di enti particolari (l’uomo perfetto accanto alla gallina perfetta accanto
all’albero perfetto); sono una realtà sussistente (ipostasi) come autarchica, che non può avere come esterni gli
oggetti che l’attualizzano. Questo è, un’altra volta, la concezione ontologica della verità, il senso veritativo del
verbo ‘essere’: sussistenza che non deve stare fondata al di fuori di se stessa (ipostasi).

C’è un altro punto importante che si deriva della pura attualità dell’Intelletto. Siccome è atto puro, lui non può
essere attualizzato (essere passivo) dall’Uno. L’Intelletto fa per se stesso il movimento di autoconversione su se
stesso, fa lui stesso il movimento della riflessione.

La domanda che nasce qui, e che sarà importante fino alla fine del trattato, è come nasce l’Intelletto dall’Uno, se
l’Intelletto si attualizza a se stesso. Il problema è che, in ogni caso, l’Intelletto deve guardare l’Uno per
raggiungere la sua perfezione; fino al ‘momento’ in cui vede l’Uno, l’Intelletto è “visione che -ancora- non vede
(ópsis hupo orosa)”. Come fa questo? Non sono contraddittori questi due punti? Non sarebbe attualizzato da un
altro, se è vero che deve guardare l’Uno per diventare perfetto? (In ogni caso, è chiaro che la concezione di potenza
che si usa qui è diversa da quello di Aristotele.)

(Il problema, un’altra volta, è che noi stiamo usando la dianoia per esaminare delle cose che non si possono spiegare
tramite la dianoia, con dei ragionamenti. Per questo, il discorso sembra di essere pieno di contraddizioni. La dianoia
può “mettersi nelle scarpe dell’Intelletto” per guardare come è fatto l’Intelletto e come si rapporta l’Intelletto con
l’Uno. Ma si deve avere in mente che quello che dice la dianoia su tutte queste cose non è vero in senso proprio,
poiché sta mettendo un poi e un prima dove non c’è tempo4.) Dunque, possiamo dire senza paura alla
contraddizione: l’Intelletto è atto puro e si attualizza se stesso, ma fino a che non vede l’Uno come il suo
proprio origine, è vista che non vede, non ha prodotto ancora la molteplicità delle Idee.

——————————————————Enn. V, 3, 6 (persuasione dell’anima)

Spiegato come l’Intelletto conosce se stesso (i. essendo identici alle Idee, ii. essendo atto puro autoconvertentesi), si
può precisare meglio come è che l’anima conosce, a sua volta, lei stessa.

4Lo statuto paradossale dell’anima viene del fatto che Plotino vuole spiegarla, allo stesso tempo, come quello che è principio di
vita e come quello che è capace di convertirsi per guardare gli Intelligibili.

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La domanda che pone Plotino è: perché l’anima non è capace di riconoscere la pura forza di questo logos, ma ha
bisogno di persuasione (questo è un tema plotiniano che si trova in altri luoghi). Il nostro ragionamento deve,
dunque, passare di essere necessario a essere persuasivo.

La persuasione è possibile soltanto grazie alla dianoia, ed è risultato della perduta della visione diretta degli
intelligibili che l’anima aveva prima della sua nascita, e che poi ricorda soltanto tramite il logos. La dianoia
deve procedere discorsivamente tramite il logos perché non è capace di vedere intuitivamente queste cose (che
sarebbe meglio che fare un discorso), come faceva prima della nascita, data la sua condizione strutturale, che è
legata sempre al movimento. É come cercare di fare un’immagine col discorso di quello che prima vedevamo di
modo diretto, intuitivo.

Questa condizione strutturale dell’anima si deriva del fato che essa deve prendersi cura dell’inanimato. Per
questa ragione, l’anima si rivolge necessariamente alla materia. Il problema, che non ci permette di capire facilmente
cosa è l’Intelletto, è la debolezza del corpo, con tutte le sue richieste che non lasciano l’anima stare tranquilla, come
era prima della nascita. L’anima bisogna persuasione e tempo, filosofia insomma, per dirsi come l’Intelletto si
conosce a se stesso e come lei è una immagina di esso. Infatti, non si può dire a qualcuno soltanto “tu sei figlio di
Dio”, come fanno i sacerdoti; si bisogna la filosofia.

(Tutta questa spiegazione ci riporta a quello dei primi capitoli, la discussione con Aristotele sul collegamento fra
dianoia e nous. Aristotele ci spiega come funziona il nous, ma non ci dice come la dianoia riconosce il
funzionamento del nous. Il punto è persuadere l’anima del fatto che il nous pensa se stesso. Questo Aristotele
non lo fa per non aver voluto dare fondamento ontologico al suo pensiero epistemologico. In sostanza, dunque, la
domanda è: se, come dice Aristotele, tutto viene dal senso e dalla esperienza, da dove viene quello che da
struttura l’azione della dianoia. Secondo Plotino, è ovvio che viene dall’Intelletto, ma Aristotele non lo riconosce
per non collegare dianoia e nous.)

Ebbene, siccome l’anima è diaNOIA, lei ha nous in sé. Di modo che il conoscere se stessa dell’anima succede di
questa forma, tramite il logos persuasivo che le fa rendersi conto della presenza in lei del nous. Come si aveva detto,
la continuità ontologica fra dianoia e nous è la causa dell’autoconoscenza della dianoia. Questa autoconoscenza
la fa l’anima tramite le tracce che il nous ha lasciato nella dianoia (punto che Aristotele, come detto, non ci spiega).

Una volta la dianoia si è conosciuta così, è in grado di trasformare questa immagine che ha formato nel logos
in una comprensione vera, e raggiungere una visione intuitiva del nous con la parte più alta di lei.

Con questa spiegazione, sembra che la dianoia si conosce per le tracce delle Idee lasciate in lei dall’Intelletto. Ma
non si aveva detto che l’autoconoscenza della dianoia si faceva tramite i primi principi??? Riappare così il problema
di precisare se queste tracce sono le Idee di Platone oppure i primi principi di Aristotele (dibatto sulle adiaíreta in
Aristotele: primi principi oppure forme?).

—————————————Enn. V, 3, 6 (ritorno all’Intelletto: azione, vita teoretica e tranquillità)

Avendo precisato l’autoconoscenza dell’anima (persuasione della filosofia) sulla base dell’autoconoscenza
dell’Intelletto (concezione ontologica della verità), il discorso fa tre altre precisazioni sul’Intelletto: i. l’opera
sostanziale dell’Intelletto è intelligire, e, dunque, ii. l’intelletto non può essere pratico, e, dunque, ii. la sua vita è
tranquillità teoretica.

i. Il primo punto centrale si basa su un argomento aristotelico: ci sono sostanze a cui appartiene da sé, per la sua
propria essenza (ousía) un’azione (érgon) determinata. Questa azione fa parte della definizione della cosa. Nel caso
dell’Intelletto la definizione consiste nel fato che l’essenza si identifica con l’azione: “la sua azione e l’essenza
non sono altro che questo: essere intelletto e basta”. Questo sembra impossibile di capire, una nullità, ma veramente
è semplice; si dice dell’Intelletto: la sua definizione è la sua azione, la sua definizione è “atto intellettuale puro”.

ii. Dato che la sua definizione è “atto intellettuale puro”, l’Intelletto non è un intelletto pratico, che ha sempre il suo
fine fuori di sé; la riflessione lo obbliga a vedere se stesso. Il capitolo 7 comincia esaminando. Ebbene, l’Intelletto
non può essere pratico, poiché la praxis ha il suo fine fuori di sé e l’Intelletto, invece, riflette su di se stesso, ha il
suo fine in sé: tutto intelletto pratico “guarda al di fuori di sé e non rimane in se stesso, potrà certo avere una
conoscenza delle cose esteriori, ma non c’è alcuna intrinseca necessità, almeno se ipotizziamo che sia

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totalmente pratico, che conosca se stesso. L’autoconversione dimostra che quell’intelletto che non ha alcuna
prassi”.

iii. L’atto puro dell’Intelletto non è un cercare al di fuori di se stesso, dunque è una tranquillità (hesuchía). Sorge
così la domanda sulla vita dell’Intelletto. La sua è una vita teorica, quella della fine della Etica a Nicomaco.
Plotino prende le tracce della vita teorica umana per elevarle allo statuto ontologico dell’Intelletto divino. Vita
teorica, tranquillità, autosufficienza, sono le tracce che distinguono il modo di vita dell’Intelletto (anche per noi
umani).

————————————Enn. V, 3, 7 (A. fonti del sistema, B. duplice attività dell’Intelletto, C. causalità)

A. Le due fonti della articolazione della realtà in Plotino, esplicitata per la prima volta

Sorge un’altra possibilità: non sarà forse l’Uno l’oggetto intellettuale dell’Intelletto? Anche secondo questa ipotesi,
l’Intelletto penserebbe se stesso, poiché riconoscerebbe l’Uno come origine del suo essere, vedendo che anche
lui stesso viene dall’Uno: “saprà di essere lui stesso una delle cose che sono state donate (genómenos ekeîthen
gnósetai)”. (Ma questa ipotesi sarà contraddetta, perché l’Intelletto solo può conoscere se stesso, dal momento che
l’Uno non è conoscibile “ei adunatései ideîn safôs ekeînon”).

Con questa precisazione troviamo il principio esplicito della costruzione del sistema in senso di articolazione fra
principi divini, di articolazione delle ipostasi, Anima, Intelletto e Uno. Si devono notare due fonti diverse per questa
forma di Platino di articolare le ipostasi: i. Platone, ii. platonismo dell’Età imperiale.

i. Il luogo intermedio del nous in Plotino è tratto da Platone: nel Timeo, il Demiurgo è fra le Idee e l’Anima; nel
Fedro, Zeus si muove per la pianura della verità, che è diversa da lui e, in certo senso, più alta di lui).
ii. La idea di una gerarchia dei principi divini è tratta dalla Seconda lettera di Platone, che è, però,
sicurisimamente falsa, ed è stata scritta nell’Età imperiale, caratterizzata dalla “follia platonica,
neopitagorica, ermetica”, dalla ricerca di una struttura sistematica della realtà.

L’ipotesi secondo la quale l’Intelletto guarda l’Uno e, vedendolo, produce tutte le cose (il mondo sensibile con
l’Anima che lo muove), è di Numenio. Secondo questa tesi, l’Intelletto deve percorrere tutto il cosmo per poter
governarlo (argôn) (come Zeus, che percorre la pianura della verità). Plotino risponde con il principio della
tranquillità della vita teoretica dell’Intelletto: come potrebbe l’Intelletto andarsene in giro per il cosmo, ed essere
così in movimento? Va bene: abbiamo capito che l’Intelletto è vita teoretica, somma tranquillità.

B. La dottrina della duplice attività applicata del nous

Ma così sorge una domanda: come fa l’Intelletto per produrre tutte le cose che vengono da lui, Anima e mondo, se
resta sempre tranquillo in se stesso? La risposta è nella dottrina della duplice attività. Ci sono due tipi di attività
per ogni essenza: i. attività interna dell’essenza (enérgeia tês ousiâs) e ii. attività esterna la essenza (enérgeia ek tês
ousiâs). (Queste due saranno chiamate nel Medioevo: attivitá ad intra e attività ad extra di Dio.)

i. L’attività interna dell’essenza appartiene a quello che essa fa all’interno di se stessa e che rimane lì. Questa
attività si svolge più perfettamente quando l’ente (parlando in generale, qualsiasi ente) non deve prendersi cura
di nulla al di fuori di sé. Nell’uomo come nell’Intelletto, l’attività interna è la theoria, contemplazione
intuitiva.
ii. L’attività esterna l’essenza è quella che esce della propria essenza dell’ente e si rivolge a qualcosa d’altro, di
esterno. Nell’uomo, l’attività esterna è la práxis.

La dottrina della duplice attività dice, dunque, che l’Intelletto svolge entrambi attività. Questa duplice attività
dell’Intelletto è analoga a quella del fuoco: “situazione analoga a quella di un fuoco che è già fuoco in sé
considerato, e che ha l’attualità dell’essere fuoco; proprio in quanto tale può produrre in un’altra cosa una traccia di
sé”. L’attività esterna dell’Intelletto, come quella del fuoco, viene considerata come una traccia o immagine di
quella interna, dell’atto intellettuale puro che è l’essenza dell’Intelletto (capitolo 5). Quale sono, nell’Intelletto,
l’attività interna e la esterna?

Ogni attività interna, che rimane nell’essenza, si svolge più perfettamente quando uno non si deve occupare di un
altro, di qualcosa di esterno; essa viene caratterizzata dalla tranquillità (hesuchía) e la autosufficienza (autárkeia).

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Ma soltanto è autarchica quella attività che ha il suo fine in se stessa. L’attività interna e autarchica dell’Intelletto
è, dunque, la contemplazione teoretica, noetica o atto puro, che ha il suo fine in se stessa.

(Per noi umani, questa teoria, autarchica e tranquilla, si può svolgere soltanto quando c’è l’ozio, cioè, mancanza di
obbligazione pratica, poiché lo pratico è sempre diretto a qualcosa di esterno, non è autarchico. L’uomo ha bisogno
di mettersi nel silenzio, nella condizione di essere nel puro operare dell’Intelletto, operazione che sarà, così, l’ultima
parola del trattato: “toglie tutto áphele pánta”.)

(In questa prima parte del capitolo 7, quello che fa Plotino è usare il modello di vita teoretica de l’Etica a Nicomaco
per applicarlo alla operazione del Demiurgo, configurando così l’attività interna del nous plotiniano.)

C. Attività esterna: la causalità del nous, come si producono l’Anima e il mondo

Ma come l’essere del fuoco, la contemplazione o atto intellettuale interno del nous è causa di una attività esterna al
nous. La dottrina alla base della duplice causalità si chiama la causalità dell’atto ed è centrale in Aristotele: “tutto
quello che è in atto, produce”. Come si spiega, a partire della dottrina della duplice attività e questa della
causalità dell’atto, la produzione dell’Anima e il mondo a partire del nous?

Il punto centrale è che secondo la causalità dell’atto, la causa non deve fare nessun’altra cosa che essere in atto per
causare il suo effetto. La causa soltanto è (causalità autô tô eînai). Per questo insiste Plotino nel fatto che il nous
“rimane in se stesso” (ménei en heautô)5. Essendo atto perfetto e senza uscire di sé, quindi, l’Intelletto libera
all’esterno una attività che produce l’Anima.

Dopo di essere stata prodotta (fase passiva), la parte intellettuale dell’Anima, quella che si svolge internamente,
che rimane in sé, presso l’Intelletto, si converte e osserva il suo principio (fase attiva). Quando si converte, la parte
intellettuale dell’Anima diventa perfetta ed, essendo atto, produce a sua volta il mondo, informando la materia con
la sua parte che scende fino a essa per prendersi cura di essa, la parte esterna.

Siccome la parte interna dell’Anima, la parte più alta, guarda le Idee, tutto il fare della parte esterna è immagine
intellettuale. Questo vuol dire: l’azione (praxis) e la produzione (poiesis) che l’Anima svolge nel mondo sensibile
sono immagine delle Idee. Azione e produzione sono forme di contemplazione: “anche quando effettua
un’attività pratica comunque esercita una contemplazione, e quando produce, produce delle forme: una sorta di
intellezioni trasformate in cose ”.

!!!!!!!!L’ultimo effetto dell’attività interna dell’Intelletto è, così, la produzione della natura, del mondo sensibile.
Qui finisce la parte sulla persuasione dell’anima umana!!! Il punto centrale della persuasione è fare che
l’anima veda che tutto il suo attuare, tutto il suo produrre e tutto il suo pensare sono immagini dell’atto
perfetto intellettuale del nous. Nella natura, però, non c’è più nessuna immagine dell’autoconoscenza
dell’Intelletto, che arriva sino all’anima intellettiva, pratica e poietica. Ci sono soltanto i logoi spermatikói, ragioni
dell’operare della natura che non possono riflettere su di se stesse. Questo era il senso della finalità aristotelica e
dell’Anima del mondo nel Timeo: l’intelligenza, la ragione spermatica che c’è nelle operazioni della natura.

————————————————Enn. V, 3, 8 (come è fatto l’Intelletto: intellezione e visione)

La domanda del capitolo è come è fatto l’Intelletto, precisandolo a partire di una comparazione aristotelica fra
intellezione e visione. Il capitolo apre, quindi, con una correzione alla analogia aristotelica fra intellezione e visione,
specificamente una differenziazione degli oggetti di entrambi. L’oggetto intelligibile non è propriamente analogo al
sensibile. Nel sensibile, prima c’è una sostanza (l’albero) che poi acquista un come, una qualità (avere fiori
oppure essere vecchio); questo vuol dire che, nel sensibile, questa qualità che si produce è sempre in un altro, è
un’immagine. Nell’intelligibile, invece, la sostanza (l’idea della giustizia) e la sua qualità (essere giusta) sono la
stessa cosa. Da questo punto di vista, nulla di quello che si produce nella natura (“il principio razionale presente nel
seme”) ha potere di autoconversione, poiché si produce sempre in un altro, non ha un se stesso in senso proprio
verso il quale convertirsi. Invece, l’Intelletto e gli Intelligibili (le Idee) sono in sé stessi (“è proprietà di se stesso e

5 Questa causalità non funziona in Plotino efficientemente. La differenza fra la causalità dell’atto come la propone Aristotele e
come la modifica Plotino è che, secondo Aristotele, l’atto che è messo efficientemente in atto da un altro può raggiungere una
perfezione maggiore che il producente, l’effetto può essere più perfetto che la causa; secondo Plotino, quello che partecipa non
sarà mai così perfetto come la realtà della quale partecipa. In Aristotele l’atto produce un atto di uguale rango ontologico, mentre
in Plotino l’atto secondo è sempre minor rispetto al primo, che lo causa, ed è diverso ontologicamente da lui.

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rimane in se stesso”), e hanno il supremo potere di autoconversione e autoidentità. Conseguentemente, l’anima che
informa la natura non ha potere di autoconversione, mentre quella interna che rimane presso l’Intelletto può
convertirsi. In questo senso, la visione non è come l’intellezione.

Nella intellezione, dunque, la visione e la cosa vista sono la stessa cosa, mentre nella visione l’oggetto è sempre
esterno alla visione. Questo è l’inizio di una lunga digressione sulla natura della visione. a. Secondo il Timeo, citato
qui da Plotino, la visione è una luce che vede un’altra luce, ed è solo così che si vede se stessa: è luce che esce dal
corpo e trova all’esterno la luce del sole, producendo la visione. b. Secondo il De Anima, la teoria del Timeo è
sbagliata, e invece si propone la teoria del diafano, che è un modo di essere nel quale si producono visione e colore;
la luce non è un corpo, non produce niente se non ci sono oggetto; la visione si attualizza nel diafano: luce più
oggetto. c. Plotino risponde a tutto questo dibatto: se nel vedere non c’è la luce, l’intellezione non può essere
uguale alla visione, poiché l’Intelletto sarebbe così una potenza che verrebbe attualizzata dal diafano.
Soltanto se la visione è una luce che trova un’altra luce, la visione può avere una qualche riflessività.

Tutta la digressione sulla visione è per spiegare come l’Anima vede l’Intelletto: “una luce, dunque, vede
un’altra luce: essa vede dunque se stessa”. L’Anima non deve uscire di se stessa per vedere l’Intelletto; deve
vedere la luce che è messa in lei dall’Intelletto, che fa l’Anima come un’immagine sua illuminandola. (Così si
fa ammettere al aristotelico che le Idee sono sostanze, che esse non possono venire dal senso. Se l’Intelletto illumina
l’Anima, c’è una somiglianza fra i due, e l’Anima può conoscere le Idee grazie alla azione illuminante
dell’Intelletto.)

Per arrivare alla visione dell’Intelletto, l’Anima deve lasciare indietro tutto l’ambito sensibile e convertirsi
all’intelligibile, attualizzando quello che in lei c’è di luce intelligibile: “(L’Intelletto) È tale infatti da cogliere se
stesso nel modo più chiaro, e noi (anima) lo cogliamo attraverso lui stesso: è attraverso ragionamenti di questo
tipo che è possibile ricondurre a lui anche la nostra anima, una volta che si sia posta come immagine di quel
principio in quanto comprende che la sua vita è immagine e somiglianza di quel principio: quando pensa,
diviene deiforme e intellettiva”.

——————————————Enn. V, 3, 9 (immagine dell’Intelletto nella parte divina dell’Anima)

Il linguaggio della luce e di eliminare (aphaíresis e aphélois, stessa parola con cui finisce il trattato) il sensibile
viene di Platone e si trova anche in Aristotele. In Repubblica V troviamo la immagine del Glauco marino, un dio che
ha trascorso tanto tempo nel fondo del mare che ha tutta sorta di cose incrostate al suo “centro divino”; per
poter raggiungere il divino che c’è nel Glauco marino, si deve togliere tutta la crosta. In Metafisica λ (12),
Aristotele parla di “raggiungere la parte più divina dell’Anima (to psuchês theiótaton)”, e nella Etica a Nicomaco si
dice che questo raggiungere si fa per l’attività intellettiva, che noi svolgiamo in pochi momento e il nous, invece,
sempre.

Plotino risponde ad Aristotele: è vero, ma non hai spiegato come si raggiunge l’intellezione di questa parte più
divina dell’Anima. Si fa, per l’appunto, per mezzo del togliere tutto. (Aristotele no ha spiegato questo perché lo
avrebbe portato a dire che, sia l’Intelletto divino che l’intelletto umano guardano le Idee, che sono sostanze).
Togliere tutto vuol dire precisamente levarsi dal corpo, cioè, levarsi dalla parte della nostra anima che è
incaricata del corpo: percezione (aísthesis), desiderio (epithumía) e onore (thumós). Tutte queste parti
dell’anima, che sono collegate con il corpo, sono mortali.

Questa anima incaricata di informare il corpo è mia, ma non sono io stesso. Ha dovuto informare il corpo, ma così
facendo si è dimenticata se stessa. Non è che questa parte sia cattiva, ma che, siccome ha dovuto informare il
corpo, si inclina per natura verso tutto quello che è mortale, materia e corpo. Andando oltre essa, si va oltre il
punto di connessione fra anima e corpo, verso la parte più divina. (Questa parte che si lascia indietro è la sfera dove
si forma tutta l’identità personale, quella che viene giudicata nei miti scatologici. Plotino dovrà spiegare cosa accade
con questa anima personale, e alla fine darà l’immagine di Eracle, che alla sua morte si divide in una parte divina,
che rimane nel celo, e una parte mortale, che scende all’Ade.)

In contrasto coll’anima mortale, quella che è la parte divina di noi ha, nel suo rapporto coll’Intelletto, la stessa
relazione che ha la luce con in sole. La luce non è assolutamente diversa dal sole, non c’è un vuoto fra il sole e la sua
luce (la luce “non sussiste in modo autonomo”). Analogamente, la parte più divina dell’anima e come una “luce
derivata dall’Intelletto che è venuta ad essere attorno a lui”; non è diversa da lui, ma c’è una continuità
ontologica fra entrambi. Questa continuità significa che, per raggiungere la parte divina dell’anima e, così,

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l’Intelletto, non si bisogna nessun’altra facoltà che l’anima stessa che abbiamo, che è capace di lasciare tutto indietro
e concentrarsi su di se stessa per raggiungere l’Intelletto: “l’anima di cui stiamo parlando è pura, ragion per cui
può essere vista in se stessa, a partire da se stessa o da un’altra della stessa natura”. È, infatti, luce che vede una luce
della stessa natura di lei.

Il fatto che l’Anima sia luce derivate dall’Intelletto implica, però, che non sono della stessa natura. Sebbene c’è una
continuità. si deve ritenere che l’Anima è una sostanza (hupostásis) diversa dall’Intelletto, infatti un’immagine
di esso. L’immagine non è dal tutto applicabile, perché mentre la luce sussiste soltanto grazie al sole, l’Anima
sussiste in sé e per sé. La prova (epistemologica o fenomenologica) di questa diversità è il fatto che l’Anima debba
fare dei ragionamenti, mentre l’Intelletto né può né deve farli, dato che è sempre presente a se stesso.

Data la continuità ontologica fra l’Intelletto e l’Anima, è possibile risalire verso l’Intelletto da qualche grado nella
scala ontologica: si può fare dalla produzione naturale dell’Anima generatrice, quella dei lógoi spermatikói; si può
fare dalla percezione, che “è già in contatto con delle forme”; si può fare dal discorso razionale, che fa delle
immagini dell’Intelletto; si può fare, finalmente, colla visione diretta dell’Intelletto nella parte più divina
dell’Anima, dove già non c’è immagine, ma le realtà stesse.

————————————Enn. V, 3, 10 (la molteplicità all’interno dell’Intelletto vs la semplicità dell’Uno)

Questo capito inizia l’aprimento della questione del rapporto fra l’Intelletto e l’Uno. Tutto il argomento è basato
sulla presenza delle Idee nell’Intelletto, nella identificazione fra entrambi che, però, è una identificazione di
due cose diverse che possono essere differenziate in quanto oggetto e soggetto d’intellezione. In altre parole,
nell’Intelletto c’è molteplicità, che non può esserci nel primo principio. Da questo punto di vista, possiamo dividere
l’inizio del capitolo in due argomenti: i. perché l’Intelletto non è il primo principio, ii. come e perché c’è una
molteplicità all’interno dell’Intelletto.

(Tutto il problema di come derivare una molteplicità da una assoluta unità è posto nei dialoghi. Nel Fedro e nel
Timeo, abbiamo un dio, Zeus oppure Demiurgo, che vede una molteplicità sopra di sé, mentre nella Repubblica
invece la molteplicità sta sotto l’Idea del bene. Plotino da una risposta a questa apparente contraddizione di Platone.)

i. Il punto importante è che il sorgere dell’Uno nel sistema plotiniano non è una presentazione di un sistema già dato;
la necessità di supporre l’Uno viene della natura dell’Intelletto, che per la sua propria natura deve avere una
molteplicità all’interno di se stesso: soggetto e oggetto di conoscenza, Intelletto e Idee. Questo sembra di essere
contraddittorio colla assoluta identificazione fra Intelletto e Idee che era stata spiega in V, 5, ma il punto non è che
Intelletto e Idee siano realmente diversi, due sostanze diversi, ma che all’interno dell’atto di conoscere si deve
riconoscere un soggetto e un oggetto. Questa molteplicità, però, non può esserci nel primo principio, che,
secondo Plotino, che segue ad Aristotele nella Metafisica, deve essere assolutamente semplice. La domanda che fa
sorgere l’Uno nel sistema di Plotino è, quindi, dove si unificano il soggetto e l’oggetto, questa minima
molteplicità che c’è nell’Intelletto?

Dunque, mentre ci sia una riflessività o autoconoscenza, mentre ci sia una molteplicità, non si tratta di EEEEELLL
PRIMOOOOOO: “Il nostro primo principio, al contrario, non ha affatto bisogno di visione”. Quale sono gli
argomenti che dimostrano che c’è una molteplicità nell’Intelletto e che, per tanto, bisogna supporre l’Uno?

ii. La tesi fondamentale è che l’intellezione suppone per natura una molteplicità. La definizione stessa di intelletto
è sempre relazionale o intenzionale, cioè, bisogna sempre avere un oggetto dell’intellezione. Per questo, benché
oggetto e soggetto siano la stessa cosa da un punto di vista ontologico (una sostanza), dal punto di vista
epistemologico si devono prendere come due (conoscente e conosciuto): “bisogna quindi che esso sia più di ‘uno’,
se deve darsi la visione”.

Un’altro argomento, sebbene simile, e che un atto (enérgeia) ha sempre un oggetto, un qualcosa verso il quale si
muove (eis ti): “In tanto in quanto agisce, infatti, è cose diverse: e se non vi fossero cose diverse, perché agire?”
Ma, siccome l’atto dell’Intelletto ha il suo oggetto in se stesso, no si deve muovere al di fuori. Se non si muove
verso qualcosa di altro e esterno, dunque, l’Intelletto deve avere un altro all’interno di se stesso: l’oggetto del suo
atto intellettuale, le Idee. (Per contraste, questo vuol dire che l’Uno non può avere in sé né vita, né azione, né
intellezione.)

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Da tutta questa argomentazione segue la conclusione di che è necessario che “le realtà intelligibili in senso proprio
siano, rispetto all’intelletto, sia identiche che diverse”, identiche in senso ontologico, diverse in senso
epistemologico. Ma questo no è la fina dell’argomento. Questi generi di ‘identico’ e ‘diverso’ sono ripresi dai
“maggiori generi mégistha genê” del Sofista, dove si spiega come ogni idea, identica a se stessa, deve anche
contenere in sé l’alterità rispetto a tutto quello che lei non è. L’idea, l’oggetto d’intellezione, contiene in sé
identità e alterità. E anche l’Intelletto, se deve cogliere cose che sono molteplici al suo interno, deve avere in sé
qualche molteplicità.

Insomma, l’Intelletto ha in sé molteplicità perché si distingue del suo oggetto, le Idee; anche perché le Idee stesse
sono molteplici al suo interno; e anche perché, per cogliere una molteplicità, l’Intelletto stesso deve essere
molteplice. In contraste con l’Intelletto, il primo principio non può avere in sé nessuna molteplicità, e così è
impossibile che dica qualcosa su di se stesso, è impossibile che si conosca oppure che sia conosciuto. Come è
possibile, da questo punto di vista della struttura dell’atto intellettuale, che l’Intelletto conosca l’Uno? Non
pensandolo, ma toccandolo: “non si darà una sua intellezione, ma un toccare e soltanto una specie di contatto
inesprimibile e inintelligibile: si parla di un contatto pre-noetico perché l’intelletto ancora non è sorto, e ciò
che tocca ancora non pensa”.

———————————————————Enn. V, 3, 11
L’Intelletto deviene Intelletto nel momento in cui pensa l’Uno

Avevamo detto che l’intelletto non è il primo principio perché ha una molteplicità all’interno di se stesso e quindi
deve avere un primo principio che sia sostanzialmente semplice. Allora possiamo chiederci sul rapporto fra intelletto
e l’Uno: 1) Cosa succede nel momento in cui “l’Intelletto” desidera cogliere la semplicità di queste primo principio?
2) Qual è la natura di queste primo principio?

1-16: Cosa succede nel momento in cui “l’Intelletto” desidera cogliere la semplicità di queste primo principio?

Prima considerazione: quello che desidera cogliere la semplicità del primo principio non è ancora Intelletto, ma
un’altra cosa: vista che non vede. Si tratta di un primo stadio dove la vista, che ha un’immagine interiore in modo
ancora indeterminato, desidera qualcosa che alla fine non avrà: la semplicità.
Seconda considerazione: Invece quello che raggiunge è rendere, in se stessa, quella l’immagine indeterminata in
una molteplicità. Quando conosce in questo modo “esso” che ha visto diventa ormai vista che vede e quindi
Intelletto. Diciamo dunque che soltanto c’è Intelletto una volta quella semplicità “è colta”, già non come semplice,
ma come molteplice. In questa misura entra in gioco il pensiero che prima non c’è era dato che soltanto era vista che
non aveva ricevuto un’impronta. Allora “ha incontrato quel principio è cogliendolo è divenuto Intelletto”.
(*Perché la vista renda essa immagine indeterminata in qualcosa molteplice quando tocca il primo principio, già
deve avere dentro di sé un’impronta della cosa che ha visto. Di un altro modo non sarebbe possibile che si
producesse in lei?)

16-30: Qual è la natura di queste primo principio che è anteriore a tutte queste cose?

Non è un principio immanente nel senso degli principi dai quali certe cose sono fatte. Neanche è una cosa fra tutte le
cose. Infatti, è quello che è diverso a tutto, che sta prima di tutte le cose e che è assolutamente semplice. Solo da
questa maniera può essere prima dell’Intelletto dove, per l’appunto, si trova il rango della totalità degli esseri e
inoltre, visto che è molteplice, il pensare. Quindi non è licito definirlo come “intelletto” o “bene” se per ciò capiamo
qualcosa fra altre cose. Invece chiamiamolo “ciò che è prima di tutte le cose” e in conseguenza capiamo che
trascende l’Intelletto, che è di natura semplice e dunque non pensa nel senso che se lo facesse diventerebbe
molteplice.

——————————Enn. V, 3, 12 (i. unità del primo a partire dalla ii. natura molteplice dell’Intelletto)

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12 comincia ponendo e rispondendo una domanda: non sarebbe però possibile che l’Intelletto fosse il primo
principio, dal momento che è una molteplicità che è, però, una sola sostanza? “Cosa impedisce che esso sia
molteplicità, ma in un modo tale che si finisca per avere un’unica sostanza?” In altre parole, perché il fatto che
l’Intelletto sia molteplice fa nascere la necessità di un altro principio assolutamente semplice? Non può essere
molteplice l’Intelletto ed essere anche il primo principio? Per rispondere questa domanda, i. si deve fare una
considerazione sul tema della semplicità (l’uno aristotelico è sostanziale o numerico?), per poi ii. vedere com’è la
molteplicità all’interno dell’Intelletto. Dopo dell’argomentazione, iii. c’è una conclusione sulla natura dell’Uno.

i. La “necessaria semplicità del primo principio” è una ripresa di un tema di Aristotele, che finisce la Metafisica con
una cita di Euripide: “sia uno il signore”. Ma non è chiaro se Aristotele voleva dire che il primo principio deve
essere uno in senso sostanziale -“una sostanza senza molteplicità al suo interno, assolutamente semplice, unitaria”-,
o voleva dire uno in senso numerico -“soltanto un dio”, “uno e non tre”-, ma un solo dio che ha in sé molteplicità,
come l’Intelletto. Secondo questa seconda lettura, che interpreta la unità numericamente, è possibile che il primo
principio sia l’Intelletto (come interpreta Alessandro di Afrodisia, per cui l’Intelletto pensa le Idee ed è il primo
principio!); solo secondo la prima, che interpreta l’uno sostanzialmente, bisogna aggiungere ancora un primo
principio oltre l’Intelletto.

ii. Qual’è, dunque, la natura della molteplicità che c’è nell’Intelletto? È una molteplicità (pléthos) di sostanze
diverse, oppure di atti diversi di una stessa sostanza? La risposta data dopo dell’argomentazione che segue sarà:
l’Intelletto è una molteplicità perché il suo atto intellettuale, che si identifica colla sua sostanza, contiene in sé
una molteplicità (le diverse Idee), ma non perché le Idee siano molte sostanze oppure ci siano atti diversi
all’interno di lui.

La molteplicità dell’Intelletto si può capire meglio spiegando come lui è una hupostásis. Questa parola vuol dire
realtà sussistente in sé e per sé, senza bisogno della materia per essere reale, e identificata dalla sua
definizione. (Il termino è diventato poi persona -nome delle persone della Santissima Trinità-; originalmente era
stoico, ma il primo uso in questo senso di sostanza e sussistenza è stato fatto da Plotino.)

Partendo dalla concezione di hupóstasis, si dice che se le Idee fossero delle hupostáseis, dovrebbero esistere prima o
dopo, sopra o sotto l’Intelletto. (Ricordare che questo è il problema che nasce dei dialoghi, il rapporto fra il
Demiurgo o Zeus e le Idee). Se fosse così, ci sono due opzioni: o le Idee sarebbero prodotte dall’Intelletto, oppure
lui sarebbe prodotto dalle Idee, e nessuna di queste opzioni è giusta. La ragione è che se le Idee fossero prime, non
ci sarebbe unità ontologica fra le Idee e l’Intelletto, che sarebbe secondo (non sarebbe atto primo, sarebbe
derivato); se l’Intelletto fosse primo e producesse le Idee, invece, non ci sarebbe unità sostanziale fra lui e le
Idee. Si vede che il tentativo di Plotino è criticare qualsiasi nozione che ponga una differenza sostanziale fra
l’Intelletto e le Idee, che risulterebbe sempre in una molteplicità di principi, una scissione fra entrambi.

La dottrina della visione che ancora non vede, e che diventa visione quando prova di cogliere l’Uno, è una
risposta a tutto questo problema. Secondo questa dottrina, non è vero né che l’Intelletto produce le Idee né
viceversa. In verità, entrambi si producono allo stesso tempo, sono una stessa hupóstasis.

iii. Sempre in contrasto con l’Intelletto, l’Uno è caratterizzato per la mancanza di questa molteplicità dell’Intelletto.
Ma come mai può derivare la molteplicità di tutta la realtà di qualcosa che è assolutamente uno? Qui troviamo
l’esempio dei numeri: “anche nella serie numerica infatti l’uno è sempre primo”. L’Uno contiene virtualmente tutto
ciò che viene da lui e che è una combinazione e moltiplicazione di lui, come tutti i numero lo sono dell’uno. É
importante notare che anche in questo punto Plotino si separa di Aristotele, che non ha avuto bisogno di dare una
stessa causa a tutta la realtà. Infatti, il primo motore immobile muove soltanto il celo, e il mondo sublunare no gli
interessa.

———————————————————Enn. V, 3, 13

È il primo principio consapevole di se stesso? Questa domanda risponde a Metafisica λ, dove Aristotele dice che il
nous pensa, ma non pensa nulla al di fuori di sé, pensa solo se stesso (e in questo senso è una egrégorsis, una veglia,
un non essere addormentato, atto puro). Aristotele, a sua volta, risponde qui al Sofista, dove di dice che nel mondo
intelligibile deve esserci vita e pensiero, affinché non sia come una statua. La risposta di Aristotele si capisce così,
poiché lui dice che solo c’è la vita lassù se esso è un nous in atto puro. Plotino risponde: la venerabilità del primo
principio sta nel fatto che lui è oltre il pensiero, ma non nel senso di un essere addormentato, ma nel senso che

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questo non pensare è la autosufficienza (autárkeia) perfetta e primaria (mentre quella dell’Intelletto è
seconda, data la sua molteplicità).

Infatti, facendo del primo principio un nous si lo fa peggio, bisognoso di pensare, e proprio questo bisogno lo
farebbe non autarchico. Il bisogno e la molteplicità non sono compatibili con l’autárkeia, e questi sono tutti
principi dello stesso Aristotele. Il primo principio, quindi, non ha bisogno di nulla. Invece, l’Intelletto ha bisogno
perlomeno di pensare se stesso; la sua autárkeia è secondaria.

Quando l’Intelletto guarda le Idee e dice “sono l’essere (ón eimí)”, dice un molteplice. Pensare se stesso è cogliere
perlomeno se stesso è l’essere. Ogni percezione, anche la noetiche ma soprattutto la sensibile, implica una
molteplicità. Da questo punto di vista (già nell’argomento della molteplicità dell’essere nel Sofista), è impossibile
che l’Intelletto pensi una semplicità, come voleva Aristotele.

———————————————Enn. V, 3, 14 (come parliamo sull’Uno: la presenza dell’Uno in tutto)

Se il primo principio è oltre l’essere e la conoscenza, come parliamo su di esso? “Abbiamo (échomen)” il primo
in un senso che non è conoscitivo. Questa “presenza” ci permette soltanto di parlare su di esso, ma non possiamo
dire cosa esso è. Da questo punto di vista, è sbagliato cercare di dire cosa è il primo principio. L’approccio possibile
per noi è analogo a quello dei possessi, che sanno di avere in lei stessi qualcosa di superiore a lei, qualcosa di altro
che, però, è presente. Questo approccio si da quando, avendo raggiunto il livello dell’Intelletto, riconosciamo che
tutto quello che c’è lì (l’essere molteplice) non può avere se stesso, ma un altro, come origine.

———————————————Enn. V, 3, 15 (l’unità come criterio ontologico primo)

Se l’Uno sta presente di un modo non conoscitivo in noi, come origine non presente di tutte le cose, quello che
abbiamo veramente è quello che lui non è. Ma c’è una sorta d’immagine di lui in tutte le cose, dato che tutte
partecipano di lui. Infatti, perché una cosa sia tale, deve essere una cosa, cioè, deve avere unità: “tutto quello che
non è uno, per l’unità si salva e per l’unità si fa quello che è”. Questa unità determina l’essere di ogni cosa; senza
unità non è ancora nulla, non è cosa. È questa unità, anche, quello che ci permette di conoscere la cosa. Essere
e conoscenza derivano dell’unità. Ma questa unità viene alle cose per partecipazione nell’Uno. È l’Uno, dunque,
che li da unità e li preserva nell’essere.

Fra l’essere delle cose e l’Uno c’è un rapporto di desiderio, poiché tutte le cose aspirano a essere una cosa e, in
questa misura, cercano l’unità. Questo è vero in senso primario dell’Intelletto, che si identifica con il suo atto e il
suo oggetto, pur avendo molteplicità in sé. L’Intelletto aspira a essere come l’Uno, ed è l’immagine più perfetta
di lui che c’è: “la sua molteplicità è assolutamente una”, “è molteplicità nell’identità”. Tutte le cose che stano
nell’Intelletto “stano insieme” (homou pánta chrémata: Anassagora. Notare che questa cita si usa per la ragione
opposta di Anassagora. Mentre Anassagora dice che quando le cose sono tutte insieme non c’è nessuna conoscenza
di esse, non c’è visibilità, Plotino dice che stanno tutte insieme nel senso che stanno tutte nella mente divina, che è
una sola cosa, ma dove tutto è chiaro al punto massimo). L’Intelletto è molteplicità, è tutte le cose, avendo però la
seconda unità più perfetta che c’e.

Secondo il principio dell’unità, l’essere e la intelligibilità delle cose viene di una partecipazione (graduata: ogni cosa
nel suo grado) nell’Uno. Ma questo fa sorgere di nuovo la domanda de com’è possibile che sorga dell’Uno la
molteplicità. Plotino da qui una breve precisazione: che tutte le cose vengono dell’Uno perché lui è la potenza di
tutte le cose (dúnamis tôn pantôn), “aveva tutte le cose previamente”. Ma questa potenza è radicalmente opposta
a quella della materia, che è potenza perché viene informata della forma dell’anima, processo nel quale la materia è
passiva, non avendo nessuna capacità propria. Invece, l’Uno è potenza creatrice, è potenza che non è nemmeno
attiva (l’attività nasce con l’Intelletto), ma è al di sopra dell’attività. Questa forma di potenza sarà chiamate
dai medievali virtualità.

————————————————Enn. V, 3, 16 (il bene come principio di vita perfetta)

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——————————————————Enn. V, 3, 15-16-17

Plotino e Dionisio: la questione della incognosibilità de Dio si da nel marco della questione dell’autoconoscenza,
che a sua volta è nel marco delle sostanze che cono capaci di conoscere e, finalmente, quella che né conosce né è
conosciuta. Le radice della teologia negativa sono già in Platone di maniera implicita (Bene è epékeina tês ousías),
ma queste saranno elaborate solo da Plotino, per poi venire sistemate esplicitamente da Dionisio.

C’è una precisazione terminologica importate rispetto alla teologia negativa. Come l’Uno non è conoscibile, quando
parliamo di lui parliamo, veramente, di noi come derivati da lui, cioè, parliamo di noi come relativi al primo
principio. E quando facciamo delle affermazioni, in realtà facciamo soltanto delle negazioni: diciamo cosa lui
non è. Questo è il senso della teologia negativa: non dire soltanto che non si può affermare nulla su di l’Uno, ma
soprattutto spiegare come tutto quello che diciamo, sia negativo che affermativo, è in fondo negativo.

Quando Plotino cita l’epékeina tês ousía, non la fa direttamente della Repubblica, ma lo fa secondo un frammento di
Aristotele trasmesso da Alessandro di Afrodisia. Perché è questo importate? Perché Plotino non cita letteralmente
“oltre l’essenza”, ma cita “oltre l’essere e l’intelletto”.

Questa cita di Aristotele viene di una critica a questo punto platonico dell’epékeina, perché non riesce a capire come
qualcosa possa essere oltre l’intelletto, e dunque dice spregiativamente “oltre l’essere e l’intelletto”, come se fosse
assolutamente impossibile. Plotino, invece, fonda tutto il suo sistema metafisico sull’epékeina. Questo accade nel
capitolo 13. Nei capitoli 15-16-17, Plotino attaccherà questo problema per l’ultima volta. Come si rapporta
l’Intelletto verso l’Uno? Lo vede o non lo conosce? In questi capitoli si spiega come l’Intelletto diventa tale
quando contempla non la sua semplicità, ma la semplicità dell’Uno. La domanda che si deve fare per capire
questo è: come sorge la molteplicità dell’assoluta semplicità? La molteplicità è generata da una operazione di
contemplazione dell’Intelletto sulla semplicità dell’Uno. La metafora che da Plotino è la produzione del colore, che
non è fatto dalla luce (che contiene tutti i colori), ma dal prisma che scompone quello che nella luce c’è in potenza.
Analogamente, nell’Uno c’è la potenza del tutto (dúnamis tôn pánton), ma il tutto è prodotto solo dall’Intelletto
quando contempla quello che gli viene dall’Uno.

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