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Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine

Il "ruffiano" del quadro. Appunti per una storia della cornice


- Daniela Ferrari -

  Non ci si può quasi fidare di un'incisione; e di una


fotografia solo se essa comprende anche la cornice
(Burckhardt)

1. "Il più mobile dei mobili"

Secondo la prospettiva dell'analisi storico-artistica sono relativamente pochi gli anni a partire dai quali si è
cominciato a indagare sulla cornice in modo sistematico. L'attenzione al tema della cornice, anche come
oggetto di mostre (1983, Chicago, "Cornici americane tra il 1700 e il 1900"; 1990, New York, Metropolitan
Museum, "Cornici italiane del rinascimento"; 1991, Parigi, castello di Bagatelle, "La cornice e il legno
dorato"), risale agli anni Ottanta e questo ritardo nella ricerca giustifica la scarsità di dati certi, di documenti
o di bibliografia. Poche sono le cornici antiche che ci consentono un'attribuzione certa o una datazione ed
esiguo è il numero dei dipinti che possiedono le cornici originarie e integre (rovinate in molti casi da
restauri azzardati o da ridorature posteriori).

La cornice è stato definito "il più mobile dei mobili": è in effetti l'oggetto d'arte più sostituito e subordinato
al gusto, per quanto concerne la sua funzione ornamentale; non vi è mai stata reticenza o scrupolo, quindi,
nel sostituire modificare o riadattare le cornici.

Un fenomeno interessante per questa riflessione è la consuetudine, nei secoli scorsi, di cambiare la cornice
ai dipinti non a causa di problemi di conservazione o restauro, ma in base alla moda o al gusto del
collezionista, quasi come "firma" della propria collezione, fenomeno che perdura nell'Ottocento: Karl
Friedrich Schinkel aveva progettato per l'Altes Museum di Berlino (1830) anche le cornici nello stile dei
dipinti.

È solo verso la metà del XIX secolo che si riconosce alla cornice originaria valore rispetto al dipinto e si

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valuta la loro stretta relazione artistica e storica, al punto tale che per colmare le carenze di cornici storiche
si eseguono copie nella forma antica e secondo le modalità di fabbricazione tradizionali: nonostante questa
sorta di rivalutazione, lo stile originale subisce aggiunte e variazioni che ne alterano la coerenza.

Franco Sabatelli precisa che "negli abbinamenti


quadro-cornice, quasi sempre si operano scelte
tenendo poco conto dei modelli, dell'artista, del luogo
di origine del dipinto, della sua struttura artistica o
dei suoi colori, e privilegiando invece la ricchezza
delle decorazioni e lo sfavillio delle dorature" (F.
Sabatelli, (a cura di), La cornice italiana dal
Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 8.).
Testimonianza esemplare è la vicenda della cornice
della Madonna Sistina di Raffaello L'opera fu
eseguita tra il 1513 e il 1514 "per i monaci neri di
San Sisto a Piacenza", secondo il Vasari, nonostante
vi siano anche altre ipotesi di commissione. Nel 1754
venne ceduta ad Augusto III di Sassonia e nella
chiesa di San Sisto fu collocata una copia eseguita dal
Nogari (l'originale si trova a Dresda, alla
Gemäldegalerie). L'ostentata cornice risale al
1697-98, eseguita da Giovanni Setti,
commissionatagli dall'abate Prospero da Cremona:
tipica ancona barocca, elaboratissima e dalle
dimensioni grandiose, con il bagliore delle sue
dorature mette quasi in ombra la (copia della) Madonna Sistina e ci si immagina di dover escludere dallo
sguardo le volute di foglie d'acanto, i putti dorati, i fiori di girasole e le ghirlande, per poter "vedere" il
quadro. Gli anacronismi tra il dipinto e la cornice - ancora Sabatelli ci ricorda che in molti musei non esiste
una singola cornice corrispondente per epoca e provenienza al quadro - non ci consentono una corretta
lettura dell'opera, anzi la distorcono. Le numerosissime manomissioni, ridorature, stuccature, ingrandimenti
e riduzioni delle cornici hanno "causato maggior danno del tempo, e, se di tempo come caducità si vuol
parlare, innumerevoli cornici sono andate perdute per poca accortezza nella conservazione" (F. Sabatelli, (a
cura di), La cornice italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 8).

 2. La funzione della cornice

 La funzione tradizionale della cornice è quella di isolare il dipinto dal muro a cui è generalmente appeso.
Se concentriamo l'attenzione su quadri in cui la visione che ci restituiscono risponde ancora a un'idea
mimetica della realtà, lo scopo della cornice somiglia molto a quello di limite, oltre il quale lo spazio
illusorio si crea, al punto da farci intuire uno spazio possibile al di là di quel confine.

Secondo Simmel, la cornice genera isolamento e concentrazione: "Quel che la cornice procura all'opera
d'arte è il fatto che essa simboleggi e rafforzi questa doppia funzione del suo confine. Essa esclude
l'ambiente circostante, e dunque anche l'osservatore, dall'opera d'arte e contribuisce a porla a quella
distanza in cui soltanto essa diventa esteticamente fruibile" (G. Simmel, La cornice del quadro. Un saggio
estetico, in I percorsi delle forme, i testi e le teorie, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, Bruno Mondadori,
Milano, 1997, p. 210).

Quando la cornice viene a mancare la nostra percezione dell'opera muta - mi riferisco a un tipo di fruizione
diretta dell'opera, perché l'osservazione di una riproduzione fotografica rimanda ad altri parametri percettivi
- e accettiamo questa assenza solo nei dipinti (è il caso ad esempio di quelli contemporanei) in cui il
rapporto "immagine del dipinto - mimesi - immagine della realtà" è stravolto o declinato.

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Il Tondo Doni, privato della sua cornice appare, quasi trasfigurato, allo stesso modo in cui certi dipinti
mantengono con la loro cornice originale una proporzione tale da equilibrare la visione dell'opera. Questo
accade nel caso della Madonna col Bambino di Fra Bartolomeo, di collezione privata (metà degli anni
Novanta del XV sec., per un collezionista fiorentino, diam. 64,5); Chris Fischer ha fatto notare che, privata
della cornice tonda, composta di quattro fasce concentriche decorate in oro su fondo blu, l'opera perderebbe
l'intera coerenza spaziale. Le dimensioni della cornice sono state, infatti, calibrate secondo le proporzioni
del quadro (F. Sabatelli, (a cura di), La cornice italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 42).

La cornice determina un campo, delimita il nostro sguardo e protegge, ma può anche assumere altre
funzioni: quella, ad esempio, di svelare una visione nascosta.

Quest'opera di Holbein, considerata dal canonico


della cattedrale di Troyes il quadro "più bello che la
Francia possieda" (Cit. in R. Salvini, H. W. Grown,
Holbein il Giovane, Rizzoli, Classici dell'arte,
Milano, 1971, p. 102), ma che nel 1792 passò di
proprietà all'Inghilterra, racchiude uno dei misteri fra
i più affascinanti del mondo della figurazione.
Raffigura alla sinistra Jean de Dinteville, decorato
dell'ordine di San Michele, mentre a destra Georges
de Selve, vescovo di Lavour; questi personaggi sono
più noti come "i due ambasciatori" (del re di Francia).
Il mistero di cui si accennava prima sta tutto
racchiuso nella strana macchia visibile nel primo
piano, che per anni fu interpretata come un foglio di
carta malamente arrotolato. Si tratta invece di una
anamorfosi, cioè una figura dipinta nel quadro
secondo una deformazione prospettica tale per cui la
visione comprensibile si può dare solo da un preciso
punto di vista, che non corrisponde mai a quello secondo il quale è costruito il soggetto principale, punto di
vista che quindi non è mai frontale. L'indecifrabile oggetto osservato da un punto laterale, facilmente
individuabile, si trasforma in teschio, simbolo della caducità, vanitas che contiene ulteriori riferimenti
politico-diplomatici se collegata ad altri riferimenti simbolici disseminati nell'opera: per citarne alcuni, il
fermaglio del berretto di Dinteville ha la forma di un teschio, una corda del liuto è saltata e pare dichiarare
una disarmonia che ha per soggetto stonature politiche. Federico Zeri, in Dietro l'immagine, utilizza questo
quadro come monito contro coloro che pretendono di leggere la pittura con un'insufficiente preparazione
culturale e osserva che probabilmente l'anamorfosi poteva essere svelata esaminando l'opera "attraverso" la
cornice. Zeri ipotizza che il quadro possedesse in origine una cornice aggettante in legno, forata in uno dei
montanti laterali. "Appoggiando l'occhio a questo foro il teschio prendeva le proporzioni giuste e appariva
esclusivamente come un teschio, non come un foglio di carta o altro oggetto, secondo le varie ipotesi
successive" (F. Zeri, Dietro l'immagine, Neri Pozza, Vicenza, 1998, p. 10).

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 3. Cenni storici e principali tipologie

 Cornice-contorno

"L'integrità del quadro è sicura soltanto se la fotografia contiene anche l'inizio della cornice, ossia
l'incastonatura" (J. Burckhardt, Arte e storia. Lezioni 1844-1887, cit., p. 409). Questa citazione da
Burckhardt ci consente di capire quanto il rapporto tra l'immagine e il suo contorno sia stretto e
significativo per leggere un'opera.

Tracce di cornici intese come bordura dipinta si trovano già nell'arte dell'antico Egitto e ancora in Grecia, a
Roma, fino all'arte carolingia e paleocristiana. Osservando mosaici e affreschi, è ben visibile questa
necessità di riquadrare e delimitare lo spazio, di coronare la pittura con un nastro decorato, che risponde
all'esigenza del nostro occhio di stabilire un limite della visione (Cfr. G. Kanizsa, Grammatica del vedere.
Saggi su percezione e Gestalt, Il Mulino, Bologna, 1980).

Cornice indipendente

La storia geografica della cornice italiana coincide naturalmente con quella dei dipinti. I centri dove si
perfeziona la tecnica dell'intaglio sono Venezia e Firenze. L'Emilia apporta un contributo con nuove
tipologie dalla metà del Cinquecento, mentre l'Italia meridionale e la Lombardia (quest'ultima a causa del
forte legame tra cornice e carpenteria d'altare), solo con il XVI secolo cominciarono a modernizzare la
propria idea di cornice.

Di una storia della cornice con ruolo autonomo si scoprono i primi segni nel XIII secolo, con la nascita dei
pannelli dipinti del tardo medioevo, e con la sua assunzione a parte dell'arredo liturgico; originariamente
tuttavia non si trattava di un oggetto a sé stante, staccato dall'opera e intercambiabile come ce lo figuriamo
oggi. Le cornici erano legate al quadro, perché venivano ricavate nella stessa tavola di legno che fa da
supporto al dipinto (naturalmente ci si riferisce a tavole di piccole dimensioni, facilmente lavorabili): la
parte destinata alla pittura si otteneva ribassando la superficie, così da formare un perimetro rialzato, utile al
pittore anche come appoggio per non rovinare il quadro nell'atto di dipingere, la stessa funzione della
bacchetta poggiamano.

Nel XIV secolo la cornice assume sembianze legate


agli schemi architettonici: colonnine tortili di
sostegno, lesene e pilastri poggianti su predelle, a
volte decorate nel tema sacro del dipinto, si
aggiungono agli archi e alle ogive già presenti. Le
colonnine segnano la divisione tra le tavole dipinte.
È evidente che la nascita dello schema a trittico o
polittico subisce l'influenza formale delle facciate o
delle piante gotiche. Una sorta di rivoluzione
avviene nel 1423 con l'Adorazione dei Magi di
Gentile da Fabriano, che utilizza una cornice
indipendente, anche se indivisibile dalla tavola. Pur
avendo ancora le sembianze formali del trittico,
l'Adorazione dei Magi non subisce divisioni e la
scena della processione si snoda liberamente nelle
tre ipotetiche parti del dipinto.

È a partire da questa conquista - l'unità dello spazio


pittorico con il lento e graduale decadere dello
schema a polittico - che si può far nascere l'idea di cornice "moderna". Nel Quattrocento ha origine infatti la
"tabula quadrata" e con essa "il primo momento di reale autonomia sia tecnica che funzionale della cornice"
(Sabatelli, op. cit., p. 8), nel senso che dipinto e cornice cessano di essere legate l'una all'altra (la struttura-
incorniciatura in legno era infatti la prima che si costruiva per poi adattarvi le tavole in legno) e la cornice
viene eseguita indipendentemente dall'opera, in un momento diverso con tecniche di realizzazione sue

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proprie.

Questi due traguardi sono strettamente connessi: lo spazio pittorico cessa di essere un campo astratto, un
cielo d'oro su cui si ritagliano le figure dei santi o di Madonne con Bambino: l'Annunciazione di Simone
Martini è, in questo contesto, un passaggio intermedio fondamentale, a cui si può far seguire come esempio
di tavola quadrata "moderna", l'Annunciazione di Beato Angelico del Museo Diocesano di Cortona, già in
San Domenico.

Il portico frontale, dietro al quale prende vita la scena dell'Annunciazione dell'Angelico, scandisce la
visione in tre spazi equivalenti, che evocano una non dimenticata suddivisione a trittico, ma non
interrompono il fluire dell'azione e l'appropriazione di tutto lo spazio pittorico da parte delle figure
dell'angelo e della Vergine.

Man mano che lo sfondo di un quadro si unifica e concretizza, guadagnando profondità di campo, va a
perdersi la necessità di separare nettamente e organizzare ogni singola scena o figura, suddivisione che lo
schema a polittico garantiva. Alla nascita della pala rinascimentale possiamo quindi far coincidere quello di
cornice, come tradizionalmente siamo abituati a intenderla.

Dalla cornice albertiana...

Nella prima metà del XV secolo si perde l'uso di lesene o colonnine che separano l'opera in spazi
indipendenti, con il principale contributo della prospettiva che rivoluziona ogni norma compositiva. Per
adeguarsi ad essa si diffonde l'uso della cornice detta "a tabernacolo" o "a edicola", che ha origine
dall'architettura classica e che si lega all'idea albertiana di cornice come "finestra aperta per donde io miri
quello che quivi sarà dipinto" (L. B. Alberti, Della pittura, in Opere volgari, cit., p. 28). "La cornice
rinascimentale divenne essenzialmente una struttura architettonica inserita nella parete, una vera
incorniciatura di finestra delimitante lo spazio visibile dalla parete, ed evidenziante ancora di più la
profondità del dipinto. Per questa ragione si trovano così tanti riscontri fra le varie tipologie di
incorniciature architettoniche del XVI secolo e le cornici a tabernacolo" (Sabatelli, op. cit., p. 10). Il
contatto tra architetti e intagliatori era verosimilmente molto forte, e non è affatto una novità che fin
dall'arte templare dorica, il formato e il fregio - che decoravano e incorniciavano - fossero vassalli della
forma architettonica.

Con l'allargamento dell'uso dell'immagine dipinta da un ambito esclusivamente liturgico a quello laico, tra
la fine del XV secolo e l'inizio del XVI, anche la cornice partecipa delle scoperte rinascimentali e raggiunge
il suo acme artistico (nascono nuove tipologie: ad esempio il tondo con decorazioni a carattere vegetale
ispirate a terrecotte dei Della Robbia). Anche gli artisti progettano cornici o intrattengono comunque una
stretta collaborazione con gli intagliatori.

L'Alberti e il Brunelleschi contribuirono direttamente alla formulazione della più diffusa cornice del XV
secolo, come dimostra la sistemazione delle pale d'altare e dell'arredo delle cappelle, in rapporto agli altri
elementi architettonici: per quanto riguarda il Brunelleschi in San Lorenzo e per l'Alberti nel tempietto del
Santo Sepolcro nella cappella Rucellai, a Firenze.

Lo scopo è quello di creare un tutto organico, nello stile, negli equilibri di pieni e vuoti, e la cornice assume
il ruolo di mediatore tra parete architettonica e spazio pittorico, come i profili di una finestra tra parete e
realtà esterna, evocando nella propria forma le leggi della teoria prospettica. Il tabernacolo - che è inoltre
decorato con capitelli, dentelli, frontone, fregio, base e architrave - appare quindi decisamente
"architettonico", dai motivi ornamentali desunti dall'antico che ispireranno tutto il Quattrocento e il
Cinquecento.

Ulteriori sviluppi appariranno in area veneta con lo spostamento di Donatello a Padova.

La cornice a edicola o a tabernacolo si evolve e si semplifica, trasformandosi nella cornice "a cassetta", la
cui forma base è costituita dai profili esterno e interno rialzati rispetto alla fascia piatta, che può essere
decorata con vari motivi o colorata. È questa la tipologia più diffusa, quella che ancora si considera

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basilare, che dal momento della sua nascita possiamo considerare non ancora tramontata e che attesta molte
varianti: le "cornici da galleria" si considerano derivazioni di quella "a cassetta". La fortuna che questa
tipologia ha goduto nei secoli, dipende certamente dalle sue forme eleganti, semplificate e lineari, che
l'hanno resa adattabile a vari generi pittorici, soprattutto al ritratto, qualificandosi, fin dalla seconda metà
del Quattrocento come cornice da collezione.

Particolarmente rara è la cornice a cassetta, nota a partire dal Cinquecento, che nella fascia tra i due profili
reca una scritta dorata in iscrizione latina, su sfondo nero: questa tipologia risente di influenze nordiche,
nonostante si attestino riscontri precoci anche in area ligure-lombarda.

Le variazioni che subirà questa tipologia sono di carattere ornamentale piuttosto che strutturale, in
particolare concentrate nella fascia tra i profili esterno e interno; due sono le principali sotto-varianti: "la
cornice a cassetta con fondo nero e decorazione vegetale dorata tipica dell'Italia centrale e l'albana, la
cassetta completamente dorata con fascia piatta decorata da racemi bulinati, caratteristica dell'area
geografica emiliana, monopolizzeranno il campo fino alla metà del Seicento" (F. Sabatelli, op. cit., p. 55).

Gli stili cominciano a differenziarsi secondo una dimensione geografica, che diventa fondamentale
discriminante nelle attribuzioni delle cornici da collezione:

- nelle Marche predomina la decorazione a finto marmo; è questo un caso quasi unico, considerato che,
nelle altre regioni, prevarrà la variazione sull'intaglio piuttosto che sulla decorazione dipinta;

- le cornici emiliane si caratterizzano per un intaglio morbido con l'uso di motivi vegetali: rosette, foglie di
cavolo, campanule con l'uso di nastri, fuserole e il ventaglio aperto;

- in Veneto si sviluppa una decorazione con motivi eleganti e leggeri (frutti, fiori, uccelli e foglie angolari),
che ha una evidente derivazione dagli ornati dei soffitti (Palazzo Ducale, il Salotto Quadrato) o dei cori
lignei;

- in Lombardia si riscontra un'autonomia compositiva a partire dalla seconda metà del Cinquecento e per un
secolo circa, con la nascita dell'accostamento foglia arrotolata-tortiglione;

- la Sicilia, sempre a partire da metà Cinquecento, sviluppa una cornice dai segni quasi barocchi e
personalissimi, con l'uso di conchiglie aperte, ma anche grazie alla variazione cromatica dovuta agli inserti
di marmi colorati (rossi e gialli).

A fine XVI secolo la cornice si arricchisce con applicazioni di fregi intagliati al centro o agli angoli (la
funzione di questi è innanzitutto decorativa, ma anche funzionale al mascheramento di eventuali giunzioni
o fessure causate dal ritirarsi del legno), fregi che continueranno a modificarsi, ma che garantiranno una
forma base sostanzialmente costante, di larghissima diffusione, fino al XVIII secolo.

...alla cornice manierista

Fino ad ora quindi le tipologie principali, ricostruibili anche


attraverso le fonti, sono: tabernacolo, tondo e cassetta. Con
l'avvento della maniera e della licenzia auspicata dal Vasari:
"licenzia che, non essendo di regola, fusse ordinata nella
regola e potesse stare senza fare confusione o guastare
l'ordine" (Proemio alla terza e ultima parte delle Vite), le
forme si complicano e cedono una parte del loro rigore
architettonico, per guadagnare in "fantastica immaginatione"
(Ottaviano Ridolfi). Anche la cornice si adegua allo stile
manierista - può essere classificata tra le estreme varianti della
cornice a edicola - arricchendosi con ornamentazioni spesso
bizzarre. Geograficamente è collocabile in Italia centrale,
principalmente in Toscana, tra la metà e la fine del

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Cinquecento. Gli architetti "padri" di queste decorazioni sono


l'Ammannati e il Buontalenti, il Ligozzi, Federico Zuccari, e
naturalmente il Vasari, con il suo Libro de' disegni. La
presenza di Giorgio Vasari a Venezia dal dicembre 1541 al
settembre 1542, ci permette di collegare lo stile delle
inquadrature disegnate nel libro sopracitato con quello della decorazione dei soffitti veneziani e ancora con
certe decorazioni della cornice detta Sansovino (probabilmente perché nacque nella sua bottega). Anch'essa
si mantenne nei secoli (almeno fino al XVIII secolo) e si diffuse ben oltre la zona d'origine: nacque nel
secondo e terzo quarto del XVI secolo nel Veneto e si caratterizza per le volute e i nastri che corrono sulle
fasce laterali completando il loro dispiegarsi verso il centro e i bordi; cariatidi laterali, teste di putti o
ghirlande di fiori e frutti si aggiungono talvolta alla decorazione. Anch'essa s'ispira a forme e ornati
architettonici: i soffitti del palazzo dei Dogi o delle chiese veneziane o ancora il sistema decorativo che da
Giulio Romano a Mantova arriva a Rosso e a Primaticcio a Fontainebleau (da rilevare anche l'apporto di
Alessandro Vittoria e Cristoforo Sorte). Il nuovo linguaggio ornamentale che coinvolge anche le cornici è
stato definito da Anthony Blunt strap-work: "un tipo di decorazione ornamentale consistente in una serie di
cartocci, linee dritte, rettangoli e scudi, intagliati o modellati in bassorilievo. L'intera composizione è
generalmente formata da entità figurative susseguentisi tutte su uno stesso piano. L'effetto prodotto è simile
a quello che si ottiene applicando una striscia elaboratamente intagliata e traforata su un piano di base. Di
qui l'origine del termine [strap = striscia]" (Sabatelli, cit., p. 49).

...da quella Barocca

Con l'avvicinarsi del Seicento anche le cornici di struttura più essenziale, come quella a cassetta, si
complicano con intagli più ricchi e il profilo esterno comincia a essere nascosto dal prevalere di
ornamentazioni con motivi di frutti, foglie e volute. La relazione inscindibile tra pittura o scultura, cornice e
architettura, che nel Cinquecento ancora resisteva, con il Seicento perde la sua forza legante e gli stili
prenderanno, in un certo senso, una strada propria, sempre conforme a un pensiero guida, non però così
catalizzatore come lo era stato il mondo rinascimentale. È inevitabile che anche il rapporto con la parete su
cui è collocata la cornice si modifichi: lo stacco diviene meno netto, la cornice sembra volersi allargare
verso l'esterno per conquistare, di voluta in voluta, una porzione di spazio scultoreo sempre più ampia, fino
all'esagerazione di intagli che scoppia con il Barocco, in cui, mentre il motivo di frutti diventa sempre più
raro, predomina quello vegetale che cresce rigogliosamente e viene accostato a conchiglie, mascheroni,
cartigli e legature. Predomina la forma ovale.

Come per la scultura e l'architettura, per ciò che riguarda l'incorniciatura nello stile barocco, l'artefice
principale cui si deve fare riferimento è Gian Lorenzo Bernini. Finzione, libertà assoluta di composizione,
volontà di stupire, il tema della metamorfosi, la trasposizione in chiave scenografica: sono gli elementi che
caratterizzano il barocco e che si spargono in ogni sua manifestazione.

Da citare altri nomi di grandi artisti barocchi che hanno progettato cornici:
Alessandro Algardi, una cornice per la Galleria Spada con gli emblemi di
David che alludevano al soggetto del quadro e Filippo Parodi, la cornice di
Palazzo Spinola raffigurante il Giudizio di Paride.

Lo stile berniniano influenza inevitabilmente gli artisti estensi - Bernini si


ferma a Modena nell'ottobre del 1655 - e si assiste quindi a un intrecciarsi
dei modi romani con quelli modenesi e parmensi. Ad assicurare questi
contatti è anche la presenza alla corte di Modena, come architetto, del
romano Bartolomeo Avanzini, e, come intagliatori di Giovanni Setti e
Lorenzo Aili, nel ducato di Parma. La cornice barocca emiliana si
riconosce per l'ampiezza e la carnosità delle volute vegetali, spesso
simmetriche e ravvivate dalla presenza di putti in volo.

Nell'ultimo Seicento a Firenze si tende ad abbandonare il fasto bizzarro degli ornati cinquecenteschi, di
matrice manierista e nordica con figure mostruose, bucrani, elementi desunti dalle grottesche, che nel XVII

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secolo prenderanno il nome di stile auricolare, e si tende ad adeguarsi allo stile romano, promosso da Pietro
da Cortona, a Firenze dal 1637 per dieci anni, in occasione della decorazione in Palazzo Pitti. L'uso delle
pietre dure viene enfatizzato, e accostato a quello dell'ebano o della tartaruga, con i bronzi dorati.

Nel Regno delle Due Sicilie le cornici sono molto ricche, costruite con materiali preziosi ed elaborate nello
stesso stile architettonico di intarsi policromi che progettò per Napoli Cosimo Fanzago. Certo non
mancavano i contatti con Firenze e Roma, grazie tra l'altro alla presenza di artisti come Caravaggio,
Domenichino e Lanfranco. Lo sfarzo quasi esasperato, di stucchi e intarsi, che caratterizza lo stile
decorativo e architettonico siciliano fino all'inizio del Settecento, è riscontrabile anche nelle cornici di
altari: la produzione di Giacomo Serpotta è emblematica.

Per restare nel Regno delle Due Sicilie, ma parlare di una cornice ben più sobria, è ancora un pittore a dare
il nome alla tipologia più comune tra il XVII e il XVIII secolo: la "Salvator Rosa" o "maratta". È questa la
cornice probabilmente più nota: "un alternarsi di gole e gole rovesce che possono essere arricchite da uno o
più ordini di intaglio a motivi di ovoli, nastri arrotolati o foglioline" (Sabatelli, op. cit., p. 12).

Il XVIII secolo vede cornici con temi vegetali e sagome sottili ed eleganti, che occasionalmente sono
arricchite con raffigurazioni ispirate all'architettura di rovine e tralci che le uniscono fra loro.

Notissima anche la cornice "veneziana", usata per la maggior parte dei dipinti dei maestri veneziani del
XVIII secolo: i lati presentavano al centro delle cartelle e la decorazione era composta da un intreccio di
foglie e fiori posto negli angoli. A Venezia si sviluppa a fine Seicento anche la cornice intarsiata con la
madreperla e nel Settecento quella laccata "a cineserie" oppure, secondo una tecnica meno pregiata, detta
"arte povera", oggi più nota come "découpage".

... passando per lo stile rococò...

Lo stile rococò che nelle sue modalità agili ed eleganti, sontuose fino all'esasperazione ha caratterizzato un
certo gruppo di ornati e cornici (più nella decorazione d'ambiente o nelle specchiere che per i dipinti),
convive, all'interno del panorama settecentesco, con uno stile d'ornato composto, di cui si è già detto.

Il rococò si innesta ad esempio nello stile complesso - e derivante dal barocco dei tempi di Carlo Borromeo
- delle cornici lombarde caratterizzate da accenni allegorici "da sacrestia" o nobiliari, utilizzate quindi sia
per l'arredo liturgico che per quello dei palazzi, come il salone da ballo di palazzo Clerici o le sale del
palazzo Morando e Litta a Milano.

Contribuiscono a creare lo stile rococò italiano influssi dalla Germania, che vengono accolti sia dai
milanesi che dagli estensi: per esempio il salotto d'oro nel Palazzo Ducale di Modena, dal 1750.

Gli intagliatori veneziani assorbono anche il rocaille inglese oltre che quello tedesco: "Ampie volute di
foglie d'acanto alternate a figurazioni mitologiche e a cineserie vengono variamente disposte per riquadrare
specchi o decorare le sale dei palazzi che la nobiltà veneziana, antica o di data recente, si andava facendo
restaurare da architetti di fama, come Baldassare Longhena (1598-1682) o Giorgio Massari (1686c.-1766)"
(Sabatelli, cit., p. 77). Accanto alle cornici ricche di figure allegoriche intagliate a tutto tondo, troviamo
quelle più semplici, dalla forma leggermente convessa, decorata agli angoli e sui montanti con delicati
intrecci floreali, o quelle con complessi intrecci di cartigli, trafori e le costanti foglie d'acanto.

Esemplari le incorniciature in legno intagliato e dorato del Gabinetto delle Lacche in Palazzo Reale a
Torino, progettate dallo Juvarra, che influenzeranno lo stile dei successivi architetti e decoratori piemontesi.

Lo stile Luigi XV conquista il gusto dei regnanti: lo troviamo infatti, promosso dall'Alfieri e trasformato
secondo le esigenze creative dei vari artisti, ma profondamente assimilato, nei palazzi della corte sabauda.
Questa trasformazione accomunerà anche le altre corti che si aggiorneranno stilisticamente nei confronti
degli ornati rococò francesi e tedeschi, secondo le declinazioni già indicate.

... alla cornice Neoclassica

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Se per il barocco la figura chiave è stata Gian Lorenzo Bernini, per l'avvio allo stile neoclassico e all'ornato
in particolare, da nominare è Giovan Battista Piranesi e il suo libro sulle Diverse maniere d'adornare i
camini ed ogni altra parte degli edifizi desunte dall'architettura egizia, etrusca, greca e romana, pubblicato
nel 1769.

In concomitanza allo svilupparsi del "barocchetto", nasce a Roma una precisa sensibilità artistica volta al
recupero delle forme classiche, alimentata dall'interesse archeologico esploso con la scoperta di Ercolano
(1738) e Pompei (1748) e le ulteriori vicende collezionistiche che coinvolgono le passioni artistiche del
Cardinale Alessandro Albani, di Johann Joachim Winckelmann e di Anton Raphaël Mengs.

Nella fase dell'arte Neoclassica compaiono mascheroni con effigi di divinità o eroi classici, sempre legate
da ramificazioni vegetali (spesso con motivi di palmette stilizzate) o festoni, ma la cornice si spoglia della
sovrabbondanza barocca per mostrarsi nella sua linearità ed equilibrata ornamentazione.

Lo stile Luigi XVI si diffonde in Italia come nel resto d'Europa, nelle variazioni legate alle tradizioni
autoctone.

"Vasi, ghirlande, trofei d'arme o d'amore, cornucopie, serti d'alloro, foglie d'acanto, sistri e rosette [...], si
ritrovano impiegati, allo scorcio del secolo, soprattutto nell'ornamento delle specchiere, quasi a legittimare
la funzione eminentemente spettacolare e suntuaria dell'arredamento. Per quanto riguarda le cornici
destinate ai dipinti, l'austera semplificazione della sagome ornate dai motivi geometrici ricavati dalle
componenti dell'architettura classica segna la crisi di un arredo che, avendo attinto nei secoli precedenti
autonoma dignità di manufatto artistico, sacrificava la propria identità al predominio della pittura, divenuta
riferimento principale del dibattito sulle arti e sui principi estetici del bello ideale. Per un rilancio della
propria funzione autonoma, la cornice dovrà attendere gli anni dei revival, quando la pittura di storia
richiederà un supplemento scenografico a tutto campo, dalle cuspidi gotiche al recupero dei polittici del
rinascimento" (ivi, p. 86).

Cornice-figura

Il concetto di cornice-figura nasce dall'osservazione di Arnheim secondo il quale in una serie di opere
(l'esempio che egli pone è quello delle ballerine di Degas) la cornice delimita uno spazio, quello pittorico,
da considerarsi infinito, sia in profondità che lateralmente. Infinito lo pensa l'artista e lo percepisce il
riguardante. Qual è l'indizio che ci permette di cogliere questo aspetto, per nulla scontato, dell'opera? È il
fatto che "la cornice venne a interrompere corpi umani e oggetti molto più ostentatamente che in passato, in
maniera da sottolineare il carattere accidentale del confine e, appunto perciò, la funzione di 'figura' della
cornice" (Arnheim, cit., p. 201).

Alla luce delle considerazioni emerse nelle pagine precedenti, appare evidente che la cornice muta in forma
e funzione, a seconda del modo con il quale l'artista considera l'immagine, il rapporto che essa intrattiene
con la realtà, e in base, ancora, al modo con cui l'opera comunica al cospetto del fruitore.

Lo spazio del quadro, nei confronti dello spazio fisico rappresentato e occupato dall'opera, viene concepito
diversamente. La dimensione pittorica cerca dei limiti, che il pittore trova in una composizione
autosufficiente, in un dipinto che ha racchiuse in sé le proprie leggi dimensionali, statiche e proporzionali.
La delimitazione viene diversamente pensata: essa non è più situata nel margine interno della linea tra tela e
cornice, ma in quello esterno.

Inevitabilmente la cornice si adegua a questa nuova ideologia della pittura: cessa di essere apparentemente
"finestra" e si semplifica, si restringe, tornando ad essere un contorno quasi impercettibile, fino a
scomparire. Il dipinto non si estrania più dal muro, ne ricopre una porzione e assume con sempre maggiore
forza il ruolo di oggetto, che rivendica la propria fisicità - penso ai Gobbi di Burri e alla serie Irregular
Polygon di Frank Stella - la propria capacità di fisicizzare l'infinito - i Concetti spaziali di Fontana - o
ancora con il New Dada e la Pop Art il dipinto rovescia il presente sullo spettatore come uno specchio che
sa leggere nella sua anima.

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 4. Alcuni equivoci

" ... Attraverso la sua configurazione, la cornice non può mai offrire una lacuna o un ponte, tramite i quali il
mondo per così dire potrebbe entrare nel quadro, oppure questo uscire nel mondo - come per esempio
accade nel caso della prosecuzione del contenuto del quadro nella cornice, un traviamento per fortuna raro,
che nega del tutto l'essere-per-sé dell'opera d'arte e proprio per ciò il senso della cornice" (G. Simmel, La
cornice del quadro. Un saggio estetico, in I percorsi delle forme, i testi e le teorie, a cura di Maddalena
Mazzocut-Mis, Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 212).

Il saggio di Simmel è stato scritto


nel 1907; egli non poteva quindi
prevedere che gli sviluppi della
ricerca artistica implicassero la
nozione stessa di cornice.

Nel Novecento sono molte le opere


che recano cornici dipinte, non con
elementi decorativi autonomi al
tema o alla struttura del quadro -
come accadeva nel XVI secolo, in
arte emiliana, marchigiana o
siciliana (si trattava comunque
sempre di eccezioni rispetto alla
cornice a cassetta tradizionale) - ma
proseguendo il quadro come se la
raffigurazione sbordasse fino a
ricoprire i propri limiti fisici.

Un esempio è Ognissanti I di Kandinsky.

È il caso anche del Marinaio Fritz Müller da


Pieschen di Otto Dix (1919), la cui cornice è
dipinta con la stessa tonalità azzurra del fondo
del quadro, di forma quadrata, ma appeso per
uno dei suoi angoli.

Il fondo vorticoso di onde e riferimenti


geografici evoca tutti i mari attraversati dal
marinaio e Dix per realizzarlo utilizza anche la
tecnica del collage, memore di esperienze
cubofuturiste ed espressioniste che

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confluiranno in un dada carico di umorismo


acido e feroce:

"Sulla cornice era originariamente incrostata


anche una stella marina; rimangono adesso
poveri bottoni di madreperla e d'oro matto, àncore in rilievo e decorazioni di paillettes argentate e
luccicanti, a ricordare la sabbia delle spiagge di tutti gli oceani" (A. Negri, Carne e ferro, La pittura
tedesca intorno al 1925 e l'invenzione della Neue Sachlichkeit, Nike, Segrate, 1999, p. 69).

George Seurat aveva dipinto le cornici di alcuni suoi quadri, già dagli ultimi due decenni dell'Ottocento,
rispettando le leggi cromatiche apprese nel libro La loi du contraste simultané des coleurs, di Michel-
Eugène Chevreul, pubblicato nel 1839, e mediate anche dalla conoscenza delle teorie di Blanc e
dell'americano Odgen N. Rood.

 "I quadri vivono nelle cornici. Questa associazione di quadro e cornice non è accidentale. L'uno ha bisogno
dell'altra. Un quadro senza cornice ha l'aria di un uomo svestito e nudo. Il suo contenuto sembra rovesciarsi
fuori dei quattro lati della tela e disfarsi nell'atmosfera. Viceversa, la cornice postula costantemente un
quadro per il suo intimo, fino al punto che, quando le manca, deve trasformarsi in quadro ciò che vi si vede
attraverso. La relazione fra l'uno e l'altra è, dunque, essenziale e non fortuita: ha il carattere di un'esigenza
fisiologica..." (J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla cornice, in Storia dell'estetica. Antologia di testi, a cura
di S. Zecchi ed E. Franzini, il Mulino, Bologna, 1995, p. 793)

Sembra che buona parte dell'arte contemporanea si sia mossa a dimostrare che questa citazione da Ortega y
Gasset sia priva di fondamenti stabili. Può sembrare una forzatura, ma è incontestabile che la storia della
cornice percorra una strada, quella che corre accanto al dipinto che essa racchiude, che porta alla "non-
cornice".

Forse i tempi in cui Ortega y Gasset ha scritto il suo testo non erano maturi perché opere come quelle di
Mondrian o Malevic fossero assimilate completamente nel contesto del gusto corrente, anche se dal 1907 al
1924 le Avanguardie storiche avevano guadagnato larga visibilità.

Per tornare alle "meditazioni sulla cornice" un altro concetto preso in esame è quello di cornice che "ostenta
il quadro", che come quello di "esigenza fisiologica" nei confronti dello stesso, può apparire fuori luogo o
comunque limitato a un campo d'indagine ristretto. E ancora: "Ma neppure è un ornamento, la cornice" (J.
Ortega y Gasset, Meditazioni sulla cornice, cit., p. 793). Sarebbe sufficiente osservare la quadreria della
Galleria Palatina, certe cornici barocche o rocaille fino a quelle liberty per convincersi del contrario o
ancora riportare alla memoria la frase del padre della "salvadora": "La cornice è al quadro un gran ruffiano"
(Sabatelli, cit., p. 12).

Per motivare l'idea di cornice priva della funzione di


ornamento, Ortega y Gasset scrive che "la cornice non attira
su di sé lo sguardo" (Meditazioni sulla cornice, cit.,, p. 12).
Si può essere d'accordo nel caso in cui lo sguardo corra sulla
struttura semplice di una cornice con i montanti lisci;
l'attenzione in questo caso è catturata interamente dal dipinto
e quindi "la cornice si limita a condensarlo e a indirizzarlo sul
quadro" (ivi, p. 12). Ma non si può negare che le cornici di
certe opere come quelle di Klimt o di Segantini, catturino su
di sé l'interesse. Come accade a quelle che con il dipinto
intrattengono un rapporto di accentuazione degli elementi
simbolici: ad esempio la cornice dell'Eros dormiente del
Caravaggio presenta ripetuto il motivo dell'arco e delle
frecce, attributi di Cupido; quella del Bacco di Guido Reni,
una serie di pampini e racemi; ma la cornice simbolica più
conosciuta è probabilmente quella del dipinto di Caspar

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David Friedrich, Croce nei monti, "dove i particolari


decorativi di carattere allegorico disegnati dal pittore stesso
sottolineano la sua visione religiosa della vita, la sua
personale Weltanschaung" (M. Mosco, La cornice attraverso il tempo, Milano, 1984, p. 9).

Ecco che anche in questo caso l'evidenza dell'oggetto artistico fa cadere una teoria.

La funzione di cornice come ornamento è esaltata da questo esemplare di Fausto Melotti, che ci dimostra
come l'ornato non sia prerogativa di certe epoche artistiche come il barocco o il liberty, ma che sia invece
un'attitudine che può convivere in un artista con intenzioni più sintetiche e scarne. Infatti a proposito di
Melotti, Paolo Fossati scrive di "sculture che scostano da sé il peso dei materiali, oltre le leggi statiche..." e
ancora di "assenza di peso, come non desse ombra alcuna e sfiorasse pensieri e ragioni con una penna
lievissima, lirica, impalpabile" (Cfr. Una discreta scienza dei limiti. Ricordo di Fausto Melotti, Casabella n.
527, settembre 1986). Ma quando dal 1943, con il suo ritorno a Milano, l'artista inizia l'attività di ceramista,
dà forma a oggetti d'arte che esprimono una corporeità di cui si scoprono parallelismi con le ceramiche di
Lucio Fontana, con il quale era nato un sodalizio fin dal 1928 nell'aula-studio di Adolfo Wildt,
all'Accademia di Belle Arti di Brera. Da scultore Fausto Melotti si appropria dello spazio e lo occupa
armonizzandolo in un gioco "musicale" di pieni e vuoti: compone lo spazio, ma lo decora...anche. Di
Fontana si riproduce qui una delle Venezie, che testimonia di una sensibilità barocca e decorativa che si può
accostare a quella di Melotti.

Il raggio d'azione del pensiero di Ortega y Gasset si spiega quando del quadro scrive: "Il quadro, come la
poesia o come la musica, come ogni opera d'arte, è un'apertura di irrealtà che avviene magicamente nel
nostro ambiente reale. Quando guardo questa grigia parete domestica, la mia attitudine è, per forza, di un
utilitarismo vitale. Quando guardo il quadro, entro in un recinto immaginario e adotto un'attitudine di pura
contemplazione. Sono, dunque, parete e quadro, due mondi antagonistici e senza comunicazione. Dal reale
all'irreale, lo spirito fa un salto, come dalla veglia al sonno" (J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla cornice,
cit., p. 795).

Per tornare alla separatezza che Ortega y Gasset vorrebbe trovare tra quadro e parete, va sottolineato che il
modello di quadro che emerge dai sui scritti è quello esclusivo di "finestra aperta per donde io miri quello
che quivi sarà dipinto", che rimane a tutt'oggi un modello valido, estendibile con le dovute riflessioni e i
necessari aggiustamenti, anche alla sfera del contemporaneo. Ma il rapporto tra parete, finestra e quadro,
fino a conglobare anche il rapporto con la stanza e lo spazio occupato dal fruitore, c'è, è un fatto oggettivo
che non deve essere separato, pena il rischio di cadere in fraintendimenti sulla natura stessa dell'opera
d'arte. È innegabile che lo spazio occupato dal mio corpo, ad esempio nella sala di un museo, e lo spazio
occupato dal mio sguardo, nel paesaggio di un Cézanne, sono due percezioni diverse che rispondono a
parametri diversi, è supponibile che avvenga come uno scatto tra i due momenti di vissuto, ma proprio in
quanto "finestra", il quadro non richiede nessuna separatezza dalla parete. Non solo. Questa abitudine a
collegare il quadro al museo come luogo per eccellenza deputato a contenerlo, e quindi alla parete del

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museo con una carica di neutralità che la parete di casa non possiede, ci ha fatto dimenticare che i quadri
non sono nati per questa grande affluenza di pubblico museale, ma per un pubblico privato (il collezionista
ad esempio) o per quello che instaura con l'opera un dialogo intriso di valore sacralizzato (il fedele, sempre
per fare un esempio, che entra in San Luigi dei Francesi e osserva la Vocazione di Matteo, non come un
Caravaggio, ma come un episodio dipinto della vita di San Matteo).

Quindi non ci si spiega l'opera come oggetto di "contemplazione" che deve restare ben separato dalla
parete, e, io aggiungo, ben separato dalla vita.

Non è forse necessario un "isolatore": la cornice come "frontiera delle due regioni per neutralizzare una
breve striscia di muro e [che] serve da trampolino che lancia la nostra attenzione sulla dimensione letteraria
dell'isola estetica" (J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla cornice, cit., p. 795).

Ancora un inciso in immagine.


Se la galleria dell'arciduca
Leopoldo Guglielmo
d'Asburgo, dipinta da David
Teniers il giovane nel 1647,
aveva questa disposizione
claustrofobica delle opere
(disposizione che rimane
vigente fino all'800), si deve
convenire che il "problema"
della "striscia di muro" almeno
per un certo periodo non ha
avuto luogo.

Come Ortega y Gasset, anche


Simmel sembra scegliere un
modello di cornice per tutti,
dimenticando le declinazioni
di forma e ruolo che essa ha
subito nei secoli.

Che il quadro, o comunque l'opera d'arte, sia una totalità unitaria può essere facilmente condiviso, ma nel
momento in cui l'opera entra in contatto con il riguardante questa autonomia va a fondersi con quella del
fruitore e si contamina, in un certo senso. Avviene un travaso di senso e l'opera, pur non perdendo la
propria autonomia, si estende e raggiunge la "vita" di chi la osserva. Un'opera quindi è sì totalità, ma nel
contempo diventa parte di me. Anche se Simmel scrive: "Ma l'essenza dell'opera d'arte è quella di essere
una totalità per se stessa, non bisognosa di alcuna relazione con l'esterno, e capace di tessere ciascuno dei
suoi fili riportandolo al proprio centro" (Simmel, cit., p. 210).

Il movente stesso del fare artistico dimostra che l'opera ha bisogno di relazione con l'esterno e di essa vive.
Non ha senso un artista che dipinge un'opera che non vuole essere vista, a meno che non si motivi questo
"non-vedere" e che il fulcro dell'opera sia proprio in questo "esserci occultato".

C'è un altro fattore che non va trascurato e che si collega alle riflessioni mosse dalle citazioni di Ortega y
Gasset: si tratta della relazione al contesto. Un quadro deve essere appeso a un muro, una pala d'altare sta (o
stava in origine) su un altare: non è possibile trascendere questa connessione fortissima con il contesto per
il quale l'opera è nata. Oggi il nostro spazio espositivo è generalmente il museo o la galleria, e ci sono opere
nate espressamente per questi spazi e che al di fuori di essi non avrebbero quella stessa pregnanza o lo
stesso significato: penso agli all-over, a certi lavori di Boetti o Kounellis...

Ancora Simmel: "Dal momento che l'opera d'arte è ciò che altrimenti solo il mondo come intero o l'anima
possono essere: una unità di singolarità - essa si isola, come un mondo per sé, da tutto ciò che le è esterno"
(ivi, p. 210).

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L'arte non vuole questo isolamento e non l'ha mai voluto: qui si torna al concetto che le opere d'arte non
sono nate per stare nei musei. Anzi, vuole che l'opera entri nella vita e il processo che la costituisce lo
dimostra (Pollock, New Dada, Schwitters...). Vuole concentrazione, ma non si vuole difendere dall'esterno:
la concentrazione inoltre può essere un concetto deviante, infatti l'inizio della misurazione dello spazio
inizia dal punto di vista dell'osservatore che è nella stanza, quindi in un luogo "deconcentrato", rispetto al
quadro. La stanza è lo spazio che abitiamo con il corpo, il quadro è uno spazio che abitiamo con gli occhi.

Quindi la definizione di cornice che "esercita in uno stesso atto l'indifferenza e la difesa verso l'esterno
assieme alla concentrazione unificante verso l'interno"... E ancora dire "Quel che la cornice procura
all'opera d'arte è il fatto che essa simboleggi e rafforzi questa doppia funzione del suo confine. Essa esclude
l'ambiente circostante, e dunque anche l'osservatore, dall'opera d'arte e contribuisce a porla a quella
distanza in cui soltanto essa diventa esteticamente fruibile" (ivi, pp. 210-1) ha certamente il fascino della
spiegazione complicata di un oggetto semplice, ma può essere valida, e misurando accuratamente il valore
delle parole, soltanto per un numero relativamente "ristretto" di opere, con una struttura ben codificata da
certe leggi (ci si riferisce alle cornici albertiane a tabernacolo, con un forte legame di dipendenza con
l'apparato architettonico, ma anche alla distanza sacrale che certe rappresentazioni vorrebbero esprimere).

Simmel insiste su "quell'esser-per-sé che le permette di mantenere il proprio riserbo nei confronti di ogni
altro ambito" (ivi). L'opera d'arte non è per sé, è per chi ne fruisce e anche l'artista è un fruitore della
propria opera, e lo spirito stesso che spinge a costituire l'opera lo dimostra. Merleau-Ponty scrive infatti di
Cézanne:

"Le difficoltà di Cézanne sono quelle della prima parola. Egli s'è creduto impotente perché non era
onnipotente, perché non essendo Dio voleva tuttavia dipingere il mondo, convertirlo tutto intero in
spettacolo e farlo vedere come esso ci concerne. [...] Un pittore come Cézanne, un artista o un filosofo,
devono non solo creare ed esprimere un'idea, ma anche ridestare le esperienze che la radicheranno nelle
altre coscienze. Se l'opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da sé. [...] Bisogna attendere che
quest'immagine si animi per gli altri." (M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, dal volume di saggi Senso
e non senso, Garzanti, Milano, 1974, p. 38).

Un'opera nella mente del creatore è "perfetta" ma non significa, non veicola significato. Nel momento in cui
si concretizza diventa perfettibile perché si scontra con l'imperfezione dell'artista, però acquista valore,
senso.

Simmel dà anche dei consigli sulla forma della cornice (del fatto che non debba essere dipinta, secondo lui,
si è già detto): insiste sul valore delle linee di fuga tra i suoi lati che funzionerebbero da accompagnatrici
dello sguardo verso il centro del quadro. Innanzitutto non sempre il centro oggettivo del quadro (l'incrocio
delle diagonali del rettangolo visivo), corrisponde con il centro della composizione; inoltre non è detto che
in una cornice le linee di fuga tra i montanti siano sempre visibili. I casi in cui queste sono nascoste
dimostrano che la loro mediazione è del tutto irrilevante ai fini di una concentrazione dello sguardo. "È più
utile alla funzione isolante che non a quella sintetica che il lato della cornice sia orlato da due liste.
Attraverso di esse scorre tutto il fregio o la profilatura della cornice come una corrente tra due rive. E
appunto questo favorisce quella posizione insulare di cui ha bisogno l'opera d'arte nei confronti del mondo
esterno" (Simmel, cit., p. 212). Una frase poetica e suggestiva, anche se un'opera per essere un'isola,
quando vuole esserlo, non ha bisogno di profili.

"Prima di Cézanne ogni quadro era in una certa misura simile a una vista attraverso una finestra. Courbet
aveva cercato di aprirla per uscire fuori. Cézanne aveva rotto il vetro. La stanza era diventata parte del
paesaggio, l'osservatore parte della veduta" (J. Berger, Réussite et échec del Picasso, Denoel - Les Lettres
Nouvelles, Paris, 1968).

Ma il quadro continua a essere una finestra. Le parole dell'Alberti non hanno perso valore. L'errore sta nel
credere che la cornice sia fondamento. Essa è condizione solo in certi casi necessaria, ma non sufficiente.

Rothko, Fontana, Newman, Mondrian, Malevich lo dimostrano.

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5. Non-cornice e la cornice sagomata

 Si è partiti dalla storia della cornice per arrivare alla non-cornice. Il momento della sua assenza non è un
episodio casuale, ma un aspetto quasi programmatico del modo diverso di pensare l'opera d'arte e il suo
processo di costituzione.

L'opera di Gorky, Pollock, De Kooning è pittura che intende essere solo pittura, eliminando anche gli
apparati e gli strumenti che tradizionalmente costituiscono il quadro: la cornice, che non è più
indispensabile per inquadrare lo spazio pittorico, ma anche il telaio. Ricordiamo che Pollock dipingeva
sulla tela poggiata a terra, e attraverso il dripping aveva eliminato la gestualità diretta e il contatto fisico tra
artista e quadro, ma non per questo ne aveva eliminato la corporeità: l'azione che costituiva il dipinto stava
tutta nella colatura del colore, nello spazio verticale, irriproducibile ma fondamentale, tra la mano del
pittore e la superficie della tela. Anche la mediazione di pennelli e spatole veniva così elisa. Quando decide
di eliminare anche il titolo alle opere, numerando semplicemente gli all-over con numeri neutri spiega.
"Non ho voluto aumentare la confusione. La pittura astratta è astratta. Ti sta di fronte. Qualche tempo fa, un
critico ha scritto che i miei quadri non avevano un inizio né una conclusione. Non intendeva farmi un
complimento, ma in realtà è un bel complimento. Solo che lui non lo sapeva" (E. Pontiggia, Jackson
Pollock, lettere, riflessioni, testimonianze, SE, Milano, 1991, p.76). La moglie Lee Krasner definisce il suo
lavoro uno spazio senza cornice. Ed è proprio uno spazio che non ha limiti e quindi non si può confinare in
una cornice che dipinge Pollock, uno spazio infinito.

Il passaggio da quadro tradizionalmente inteso a "oggetto" artistico si esplica anche attraverso un tipo di
cornice che difficilmente si può avvicinare a quella tradizionalmente intesa: la cornice sagomata. Esempi
precoci si hanno già in Giacomo Balla e Alberto Savinio, ma è soprattutto nell'opera di Frank Stella che il
significato della "cornice-contorno" sagomata assume un pieno valore.

L'opera di Frank Stella si può inscrivere all'interno del fenomeno della Minimal Art.

Le opere minimal hanno generalmente l'aspetto di


fredde e squadrate geometrie "imperfette" e non
"assolute" come invece avrebbe voluto Mondrian. I
materiali che vengono utilizzati sono vari: acciaio,
ferro, allumino, plexiglas, legno, elementi luminosi.

Le dimensioni sono talvolta così esagerate che anche


il contesto museale non le può contenere, tantomeno
il collezionista.

Questo aspetto riflette una polemica contro quello


che è l'apparato tradizionale del mercato artistico:
galleria e collezionismo.

Il rifiuto di questo "contenitore" avviene in nome di


un'arte che non accetta di diventare merce o valore

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di scambio.

È implicito che questa posizione ideologica verrà poi


smentita dalla realtà dei fatti.

Per Morris Louis, Barnett Newman, Ad Reinhardt, Kenneth Noland, Ellsworth Kelly e Frank Stella,
appartenenti all'hard edge, si tratta di lavorare con "strutture primarie".

E la struttura primaria di Frank Stella appare come una sorta di contorno del contorno, una cornice di un
quadro che ne è privo.

6. La cornice/opera

 "... Un po' tutto il mio lavoro è una ricerca


fatta più che sull'immagine presente
dell'oggetto in questione, sul modo
attraverso il quale noi lo vediamo, ed è
sempre sottesa la possibilità che è stato o
avrebbe potuto essere visto in infiniti altri
modi" (Giulio Paolini, le "opere a venire",
atti dell'incontro del 28 aprile 1981,
Accademia di Belle Arti "Pietro Vannucci",
Perugia, 1982, p. 9.).

Le opere di Giulio Paolini, secondo le


parole di Italo Calvino nel testo introduttivo
di Idem, sono "momenti del rapporto tra chi
fa il quadro, chi guarda il quadro e
quell'oggetto materiale che è il quadro. Lo
spazio che occupano queste opere è
soprattutto uno spazio mentale [...]. Non è il
rapporto dell'io col mondo che queste opere
cercano di fissare: è un rapporto che si
stabilisce indipendentemente dall'io e indipendentemente dal mondo" (G. Paolini, Idem, Einaudi, Torino,
1975).

Osservando Mnemosine si incontra una cornice intesa non nella sua funzione di inquadramento della
rappresentazione o di protezione del quadro, ma come elemento che tradizionalmente ma non
necessariamente lo costituisce. Se la cornice è un elemento del quadro, uno degli oggetti che
tradizionalmente immaginiamo appartenenti all'opera d'arte dipinta, allora lo sono anche la tela, il telaio i
colori, le materie prime che costituiscono le opere d'arte e che con Paolini si appropriano di uno spazio che
spetterebbe al quadro, rimandando il pensiero del fruitore ad esso.

 7. Un'altra cornice

 Nelle manifestazioni artistiche contemporanee, nelle quali anche l'idea di quadro viene, in certi casi, a
mancare, non cade in realtà il concetto di cornice, quale elemento che contestualizza un evento. La cornice
c'è sempre. È solo stata spostata. Oggi la cornice è il sistema dell'arte, cornice è la galleria, il museo. La
cornice è il segno che delimita il campo dell'evento artistico (campo che è anche il perimetro di una chiesa);
funziona come il palcoscenico teatrale, luogo deputato a provocare un evento, a far "succedere qualcosa"
che so appartenente a un mondo autre rispetto al vissuto quotidiano.

Questo slittamento di senso, o


presa di coscienza del ruolo

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del "contenitore" ha subìto un


brusco "risveglio dei sensi"
con Fountain di Marcel
Duchamp, che fuori dal
contesto-cornice del museo è
un oggetto privo di valore
estetico.

Si mantiene il bisogno di
segnare lo spazio sacrato, di
disegnare il cerchio
all'interno del quale può
accadere l'evento estetico. Al
di fuori dello spazio sacro lo
scolabottiglie non significa;
quando viene ristabilito un
ambito che lo qualifica come
oggetto d'arte, lo scolabottiglie è un ready-made, è un Duchamp.

"Intorno a quel cerchio, una zona moralmente disertata dove nessun indio si avventurerebbe: si racconta
che, in quel cerchio, gli uccelli che vi si smarriscono precipitando, e le donne gravide sentono l'embrione
decomporsi.

Vi è una storia del mondo nel cerchio di quella danza, racchiusa tra due soli, quello che declina e quello che
sorge. E quando il sole declina gli stregoni entrano nel cerchio, e il danzatore dai seicento campanelli (300
di corno e 300 d'argento) lancia il grido di coiote, nella foresta.

Il danzatore entra ed esce, tuttavia non lascia il cerchio" (A. Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti,
Adelphi, Milano, 1995, p. 80)

Le parole della filosofia, III, 2000

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