Sei sulla pagina 1di 11

CAPITOLO I: STATO E COMUNITA’ INTERNAZIONALE

Parte I
1. La nozione di Stato

Lo Stato costituisce la forma di organizzazione del potere politico, cui spetta l'uso legittimo della forza, su una
comunità di persone all'interno di un determinato territorio.

Lo Stato rappresenta una istituzione:

- Politica, perché diretta a fini generali: i fini, cioè, non sono rigidamente predeterminati, ma sono determinabili
secondo scelte politiche effettuate in relazione al particolare momento storico;
- Giuridica, perché trova il suo fondamento nel diritto che ne costituisce elemento essenziale e indefettibile;
- Originaria, in quanto trova in se il fondamento della sua validità;
- Sovrana, in quanto non riconosce nell'ambito del proprio territorio alcuna autorità superiore (superiorem non
recognoscens);
- Indipendente, in quanto non riconosce alcun potere esterno che possa condizionarne l’attività (ius excludendi
alios);
- Effettiva, cioè idonea ad imporre in concreto, a tutti i soggetti stanziati nel suo territorio, il proprio
ordinamento e le proprie leggi.

Lo stato moderno è una forma di organizzazione politica che appare nell’Europa occidentale già tra il XVI ed il XVII
secolo con l’affermarsi di entità politiche variamente indipendenti ed emancipate dall’Impero e dalla Chiesa. I trattati
di Westfalia del 1648 segnarono il momento in cui gli Stati si posero come soggettività distinte rispetto al Monarca, e
riuscirono a relazionarsi tra loro sulla base della reciproca posizione di indipendenza.

Lo Stato costituisce un centro di imputazione di rapporti giuridici, per cui gli è riconosciuta, sia in ambito interno che in
ambito internazionale, la personalità giuridica (c.d Stato soggetto o Stato-persona). Tuttavia, lo Stato inteso come
persona giuridica, per poter agire, si serve di un insieme di organi o istituzioni monocratici (ad es. Presidente della
Repubblica), collegiali (ad es. Consiglio dei Ministri), territoriali (ad es. Regioni), ciascuno dotato di caratteristiche
determinate ed elementi costitutivi propri (cd. Stato ordinamento o Stato-istituzione). La Costituzione italiana per
indicare tali accezioni, utilizza termini differenti: Repubblica (artt. 5,29 e 114), Paese (artt. 3,47) Italia (artt. 1, 11), Stato
(art.7), Patria (art.52).

Quando invece si fa riferimento al solo apparato burocratico e alle strutture di vertice dello Stato, ossia all'insieme degli
organi statali che, in un dato momento storico, esercitano la propria potestà d'imperio sulla collettività presente nel
territorio nazionale parla di Stato-apparato o Stato-governo. Da tale apparato, che comprende solo i governanti, vanno
distinti gli altri soggetti della comunità statale, i governati, cui è riconosciuta una propria autonomia sia come individui,
che come formazioni sociali (cd. Stato-comunità).

2. Gli elementi costitutivi dello Stato-istituzione

Lo stato si compone di tre elementi costitutivi essenziali, tra di loro strettamente correlati: un elemento personale
(popolo), un elemento spaziale (territorio) e un elemento organizzativo (sovranità).

A) Il termine popolo indica la comunità di individui ai quali l’ordinamento giuridico statale attribuisce lo status di
cittadino.

Dal concetto di popolo si distinguono:

- popolazione, che indica l'insieme degli individui che si trovano, in un dato momento, nel territorio di uno Stato,
compresi gli stranieri e gli apolidi. Si tratta di un concetto non giuridico, ma demografico e statistico;
- nazione, che identifica una collettività etnico-sociale caratterizzata dalla comunanza di lingua, razza, costumi e
religione e che nel nostro ordinamento gode anche di un riconoscimento costituzionale (es, art. 51 Cost, che
offre una posizione di vantaggio agli "italiani" non appartenenti Repubblica; art.9 c.2);

1
- razza, che indica la comunanza di caratteri biologici che costituisce una pericolosa forma di discriminazione
contraria al principio di eguaglianza se assurge a rango di valore costituzionale (come accadde nel regime nazista
e fascista con le famigerate “leggi razziali”);
- etnia, che indica la comunanza di matrici storiche, culturali, linguistiche che, se istituzionalizzato, può condurre
a forme di ingiuste disparità e conflitti interetnici;
- patria, che indica la terra di un popolo alla quale ci si sente legati per ragioni di nascita e per forti vincoli di
carattere storico, politico, morale, religioso, culturale, (art.52).

La cittadinanza, conseguentemente, è la condizione dei soggetti cui l'ordinamento giuridico statale attribuisce lo status
di cittadino cioè la titolarità di un insieme di situazioni giuridiche attive e passive nei confronti dello Stato. Il
riconoscimento della cittadinanza ha segnato il passaggio da un mero stato di soggezione al potere pubblico
(sudditanza) a uno stato di libertà che ha comportato anche il diritto di partecipare alla vita politica del proprio paese.
Il cittadino italiano, ad esempio, è tenuto ad adempiere ad alcuni doveri come quello di essere fedele alla Repubblica
(art. 54 Cost.) o di concorrere alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), ma allo stesso tempo gode del diritto al voto (art 48
Cost.) all'eleggibilità (art. 51 Cost.).

La cittadinanza tende ormai a smarrire l’originaria funzione di attribuire ai componenti di un determinato gruppo sociale
chiuso entro i proprio confini. Infatti, a seguito dei flussi migratori e dei corrispondenti principi emersi nell’ambito della
Comunità internazionale, i diritti dell’uomo hanno soppiantato l’idea che solo ai cittadini vadano garantiti tali diritti;
infatti ormai si ritiene che lo stesso principio di uguaglianza non tollera discriminazioni fra la posizione di cittadino e
quella di straniero (art.2 del D.lgs. 286/1998 T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero).

Al legislatore è riconosciuta un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero
nel territorio nazionale, tale discrezionalità ovviamente non è assoluta dovendo rispettare quanto sancito dalla
disciplina dell’immigrazione, sancita dal D.lgs. 286/1998.

Dibattuto è il problema circa l’estensione ai non cittadini del diritto di voto, in presenza di disposizioni costituzionali che
appaiono espressamente dirette a garantirlo soltanto ai titolari della cittadini italiana (l’art.48 c.1 attribuisce la qualità
di elettore a tutti i cittadini e gli artt. 56 c.3 e 58 fanno riferimento ai meccanismi elettorali per indicare l’ambito del
diritto di elettorato attivo e passivo per l’elezione di Camera e Senato). Con la legge comunitaria 1994 si è provveduto
a recepire la direttiva 94/80/CE, che consente ai cittadini comunitari che risiedono in uno Stato membro, di cui non
hanno la cittadinanza, di richiedere l’iscrizione in apposite liste elettorali istituite presso il Comune di residenza e, di
esercitare il diritto di voto per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale e della circoscrizione, e di essere eletti
consiglieri o nominati componenti della giunta.

La costituzione non si occupa direttamente delle modalità di acquisto e di perdita della cittadinanza, anche se l’art.22
esclude che il cittadino possa essere escluso dalla comunità politica con la privazione della cittadinanza per motivi
politici.

La L. 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza, stabilisce che è cittadino:

1. per nascita (art.1)


- il figlio di padre o di madre cittadini;
- chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue
la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengo;
- il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga trovato il possesso di altra cittadinanza.

2. per estensione:

- il figlio riconosciuto o dichiarato giudizialmente durante la minore età. Se il figlio riconosciuto o dichiarato è
maggiorenne conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un anno dal riconoscimento o
dalla dichiarazione giudiziale, ovvero dalla dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, di eleggere la
cittadinanza determinata dalla filiazione. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai figli per i quali
la paternità o maternità non può essere dichiarata, purché sia stato riconosciuto giudizialmente il loro diritto al
mantenimento o agli alimenti (art.2)
2
- il minore straniero adottato da cittadino italiano (art.3)
- il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno
due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero,
qualora non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio o
non sussista la separazione personale dei coniugi. I termini sono ridotti della metà in presenza di figli nati o
adottati dai coniugi (art.5 cosi come sostituito dalla L. 15 luglio 2009, n. 94).

3. per beneficio di legge (art. 4)

- lo straniero o l’apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono
stati cittadini per nascita:
a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare
la cittadinanza italiana;
b) se assume pubblico impiego alle dipendente dello Stato, anche all’estero, e dichiara di voler acquistare
la cittadinanza italiana;
c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della
Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana;
- lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della
maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla
suddetta data;

4. per naturalizzazione (art.9)

- lo straniero quando abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello
Stato.

Inoltre, il diritto alla cittadinanza italiana è riconosciuto ai soggetti che siano stati cittadini italiani (e ai loro figli e
discendenti in linea netta di lingua e cultura italianala), già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano
successivamente ceduti alla Repubblica Jugoslava in forza del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 ovvero in forza
del Trattando di Osimo del 10 novembre 1975 (art. 17bis inserito dalla L. 8 marzo 2006, n. 124).

La cittadinanza italiana si perde:

- per assunzione di impiego pubblico o carica pubblica presso uno Stato estero o un ente internazionale cui
non partecipi l'Italia o per prestazioni di servizio militare per uno Stato estero, sempreché non si ottemperi
all’ intimazione che il Governo italiano rivolge di abbandonare l’ impiego, la carica o il servizio militare
(art.12).
- quando si accetti o non si abbandoni un impiego o una carica pubblica, si presti servizio militare senza esservi
obbligato o si acquisti volontariamente la cittadinanza di uno Stato estero che si trovi in stato di guerra con
l'Italia (art.12);
- per rinunzia, qualora il cittadino italiano risieda o stabilisca la residenza all' estero (art. 11) oppure, essendo
figlio di persona che ha acquistato o riacquistato la cittadinanza, abbia raggiunto la maggiore età e sia in
possesso di altra cittadinanza (art.14).

La cittadinanza italiana si può riacquistare:

a. per prestazione del servizio militare o assunzione di un impiego pubblico alle dipendenze dello stato italiano
(anche all’estero) e previa dichiarazione di volerla riacquistare;
b. per rinuncia da parte di un ex cittadino all’ impiego o servizio militare presso uno Stato estero con
trasferimento, per almeno due anni, della propria residenza in Italia;
c. per dichiarazione di riacquisto con stabilimento, entro un anno, della residenza nella Repubblica, ovvero
dopo un anno dalla data in cui l’ex cittadino ha stabilito la propria residenza nel territorio italiano, salvo
espressa.

La cittadinanza europea

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1 novembre 1993, riconosceva ai cittadini degli
Stati membri, oltre la cittadinanza nazionale, anche quella europea. Con la riforma dei trattati operata dal Trattato di
3
Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, la cittadinanza europea viene ribadita in modo più netto, prevedendosi
all'art. 9 TUE e all'art. 20 TFUE che << è cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro>>.
Pertanto, la cittadinanza europea si affianca e non sostituisce la cittadinanza nazionale. Sono cittadini europei anche
coloro che hanno una doppia cittadinanza, di cui una di uno Stato membro e altra di uno Stato terzo.

Il secondo comma dell'art. 20 TFUE, precisa che i cittadini dell'Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti
dai trattati. Sono, quindi precisati alcuni dei diritti che spettano al cittadino europeo e che sono esercitati secondo le
condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi:

- il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (art. 21 TFUE):
- il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato
membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 22 TFUE);
- il diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, nel territorio di un
paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, alle stesse
condizioni dei cittadini di detto Stato (art. 23 TFUE);
- il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle
istituzioni e agli organi consultivi dell'Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella
stessa lingua (art. 24 TFUE).

B) Il territorio

Il territorio è la sede su cui è stabilmente organizzata la comunità statale e sulla quale si estende la sovranità dello Stato.

Esso comprende:

- la terraferma, delimitata da confini naturali o artificiali;


- il mare territoriale, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, ratificata dall’Italia con
l.2.12.94 modificando le precedenti norme internazionali stabile che l’ estensione raggiunge normalmente,
le 12 miglia dalla costa (art. 2 del Codice della navigazione);
- non fanno parte del territorio statale né la zona economica esclusiva, né la piattaforma continentale, nelle
quali è comunque possibile lo sfruttamento delle risorse naturali.
- lo spazio aereo sovrastante la terraferma ed il mare territoriale (con l'esclusione dello spazio
extratmosferico) ed il sottosuolo, nei limiti della loro effettiva utilizzabilità;
- il territorio fluttuante, ossia le navi e gli aerei mercantili in viaggio in alto mare e sul cielo sovrastante,
nonche le navi e gli aerei militari ovunque si trovino.

Le convenzioni internazionali disciplinano inoltre due situazioni particolari riguardo al territorio statale:

a) l’exstraterritorialità, le sedi diplomatiche straniere sono sottratte al potere di imperio statale;


b) l’ultraterritorialità, la potestà statale è esercitata su edifici siti fuori dal proprio territorio, ad esempio, le sedi
diplomatiche italiane all’estero.

In merito rilevanza costituzionale d territorio, si deve tener sente che l’art. 80 Cost., richiede l’autorizzazione legislativa
parlamentare per la ratifica dei trattati internazionali che dovessero comportare variazione del territorio e, dunque,
mutamento dei confini dello Stato. La Costituzione italiana pone tra i principi fondamentali il limite della «indivisibilità»
della Repubblica (art. 5 Cost.). Per altro verso, l’ art.120, comma 1, della stessa Costituzione, in applicazione del principio
di unità della Repubblica, non consente alle Regioni di adottare alcun provvedimento che ostacoli la libera circolazione
delle persone e delle cose o che limiti l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. Il
Governo potrà attivare poteri sostitutivi nei confronti degli enti autonomi, nel caso di mancato rispetto di norme e
trattati internazionali o della normativa comunitaria.

Il Costituente, inoltre, ha circondato di speciali garanzie le variazioni territoriali degli enti autonomi (artt. 132 e 133
Cost), che devono coinvolgere con apposito referendum le popolazioni interessate.

4
In merito alla "indefettibilità" del procedimento ivi sancito, la Corte costituzionale, nella sent. n.220 del 2013, ha rammentato come
“sin dal dibattito in assemblea costituente è emersa l'esigenza che l'iniziativa di modificare le circoscrizioni provinciali con
introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori fosse il frutto di
iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni
politiche imposte dall'alto”.

La corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

- dell’art. 23 del decreto- legge 6 dicembre 2011, n.201 c.d. Salva Italia
- degli art. 17 e 18 del decreto- legge n.95 del 2012 c.d. Spending Review.

per violazione dell’art. 77 Cost., in quanto il decreto-legge, atto a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento
normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica, con la pronuncia della Corte, quindi, venne meno l’intero impianto
del c.d. riordino delle province voluto dal Governo Monti.

Alla luce della dimensione costituzionale dell'elemento territoriale, si può ritenere ampiamente superato il vecchio
dibattito circa la natura del rapporto dello Stato con il proprio territorio poiché quest'ultimo si indentifica con la sede
spaziale entro cui le collettività minori possono soddisfare in autonomia gli interessi pertinenti al corrispondente “livello
di governo”.

Non poche Costituzioni contemporanee esprimono la tendenza, di dar vita a forme di rappresentanza territoriale, più
o meno accentuata a seconda dell'intensità del modello di decentramento di volta in volta realizzato, mediante la
configurazione di una seconda Camera a tal scopo strutturata.

Alla luce della sempre più intensa integrazione europea, i singoli territori statali si sono «aperti» all'esercizio delle libertà
garantite dai trattati ai cittadini europei, apprestando una base più ampia per la costruzione di una «società europea»
in uno spazio comune di libertà giustizia e sicurezza. Il trattato di Schengen del 1985, al qual l'Italia aderisce dal 1990,
ha abolito le frontiere statali interne, sostituendole con un'unica frontiera esterna che può dirsi ormai comprendente
tutti gli Stati membri dell'Unione europea.

C) La sovranità

Inizialmente la sovranità si atteggia come concezione politica che del nascente Stato moderno intendeva affermare
l'autonomia rispetto ad altre forze (la Chiesa, l'Impero, i grandi feudatari), le quali osteggiavano le ambizioni di indipendenza
del nuovo ente. Di qui il significato della sovranità come concetto «negativo» o «polemico» (Jellinek) che le monarchie e i
principi assoluti, invocavano ai fini della propria auto-affermazione in contrapposizione alla pluralità dei centri di potere
dell'età medievale, ai quali non intendevano rimanere subordinati. Oggi la nozione acquisisce un contenuto giuridico
positivo.

La sovranità consiste nel potere supremo dello Stato in un determinato territorio rispetto a tutti gli altri poteri all'interno
dell'ordinamento (sovranità interna) e nell'indipendenza dello Stato rispetto a qualsiasi altro Stato (sovranità esterna).

Così inteso il concetto di sovranità presenta due aspetti fondamentali:

- la sovranità esterna, che riguarda i rapporti dello Stato con gli altri Stati e si concreta nella posizione di
indipendenza dello Stato da qualsiasi autorità statale straniera;
- la sovranità interna, che riguarda i rapporti dello Stato con gli individui che risiedono su territorio e si
oggettiva nella posizione di supremazia del primo nei confronti dei secondi.

La sovranità presenta i seguenti caratteri:

- È originaria: nasce con l'ordinamento dello Stato e solo con esso viene meno;
- È esclusiva: spetta, quindi solo allo Stato
- È incondizionata: non può cioè essere limitata da enti esterni allo Stato senza il consenso di quest’ultimo.

Nelle Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee il potere sovrano non è espressione soltanto delle diverse
funzioni di natura pubblicistica che fanno capo all'organizzazione dello Stato-soggetto, ma si trova disseminato nelle
varie forme in cui la legge fondamentale ammette l'esercizio di altrettante «frazioni» del medesimo potere da parte di

5
enti territoriali autonomi, di privati individui o di formazioni sociali, come, ad es., i partiti politici, chiamati a concorrere
a determinare la «politica nazionale» (art. 49 Cost.).
L'art. 1 della Costituzione italiana, sancendo che la sovranità «appartiene al popolo», come ha spiegato la Corte costituzionale (sent.
n. 106/2002), «impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell'organizzazione costituzionale nella qua le essa si possa insediare
esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma
per meano l'intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una
configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali. Per
quanto riguarda queste ultime, risale alla Costituente la visione per la quale sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione
e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all'affermarsi del principio
democratico e della sovranità popolare».

I punti fermi, devono essere armonizzati con il principio della sovranità popolare, la cui consistenza va individuata «nelle
forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, comma 2). Ciò significa che il popolo è il titolare effettivo della sovranità,
nel senso che i cittadini sono la fonte permanente e diffusa della legittimazione politica delle istituzioni rappresentative
e, quindi, fondamento dell'attività di tutti i pubblici poteri.

L'integrazione europea sta agendo in profondità anche sui tradizionali contenuti del principio di sovranità,
ridimensionandone la portata per via delle «limitazioni» che gli stessi ordinamenti nazionali hanno autorizzato (per
l'ordinamento italiano basilare si è rivelato l'art. 11) e che lo Stato membro è a tenuto registrare in vista della
realizzazione del progetto europeo. Tali limitazione hanno l'obiettivo di assicurare la partecipazione dello Stato italiano
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Del resto, il Trattato di Lisbona del 2007 ha
espressamente previsto che l'Unione rispetta «le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia
dell'integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale», sancendo, in
particolare, che la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro (art. 4, comma 2, Trattato
UE-Lisbona).

Parte II
1. La comunità degli Stati e le fonti dell’ordinamento internazionale

Il diritto internazionale è quel complesso di norme, scritte e consuetudinarie, che disciplinano le relazioni tra i soggetti
sovrani della Comunità internazionale.

Questa sintetica definizione merita alcune precisazioni:

- Per «norme di diritto internazionale» devono intendersi tutte quelle regole di condotta il cui rispetto è da
considerarsi obbligatorio;
- L’espressione «soggetti della Comunità internazionale», invece, fa riferimento a tutti gli enti
(prevalentemente Stati e organizzazioni internazionali) che possiedono l'astratta attitudine a divenire
titolari dei diritti e degli obblighi previsti dalle norme di diritto internazionale, che essi tessi hanno generato.

Convenzionalmente, la nascita del diritto internazionale viene fatta risalire alla pace di Westfalia del 1648, al termine
della sanguinosa Guerra dei Trent'anni: da quella data, gli Stati affermarono la loro sovranità e indipendenza ponendo
fine al dominio dell'Impero e del Papato. In quanto entità politiche di pari grado superiorem non recognoscentes,
avvertirono da subito la necessità di dare vita ad una serie di norme condivise, nel tentativo di autolimitarsi e garantire
la pace all’ interno del sistema internazionale.

In passato il diritto internazionale poteva essere definito come «diritto degli Stati» poiché essi erano gli unici soggetti a
costituire la Comunità internazionale; nel tempo, altri soggetti hanno acquisito personalità internazionale, diventando
titolari dei diritti e degli obblighi derivanti dalle norme di diritto internazionale: tra essi, vanno citate in primis le
organizzazioni internazionali. (TEORIA FUNZIONALISTA)
TEORIA REALISTA: Tale ampia definizione, tuttavia, non è unanimemente condivisa in dottrina; infatti, secondo coloro che privilegiano
una concezione realista, il diritto internazionale è espressione esclusiva della «volontà politica» di Stati indipendenti e sovrani. Per
tanto, il diritto internazionale si riferisce non a qualsiasi organismo come Organizzazioni Non Governative, Organizzazioni
internazionali come ONU e UE, o figure particolari come Movimenti di Liberazione Nazionale, la Chiesa Romana o la Santa Sede, il
Sovrano Militare Ordine di Malta, ma soltanto a quei soggetti che, «per forza propria», dispongano della capacità effettiva e
materiale di impegnare direttamente l'ordinamento esterno attraverso l'esercizio di propri diritti e l'adempimento di propri obblighi
internazionali, quindi solo gli Stati.

6
L'ordinamento giuridico internazionale può essere considerato un sistema atipico, dal momento che non vi è alcuna
autorità sovraordinata o assemblea legislativa preposta alla produzione delle norme giuridiche, né esiste un organo
giudiziario. La produzione delle norme giuridiche, dunque, è affidata agli stessi soggetti che ne sono destinatari e alla
loro libera volontà comune di porre in essere condizionamenti reciproci.

Nonostante non esista una classificazione univoca in dottrina è possibile distinguere le fonti del diritto internazionale in:

- Principi: questi si caratterizzano sia per il contenuto fondamentale e inderogabile, giustificando


l’obbligatorietà di consuetudini e trattati (consuetudo est servanda e pacta sunt servanda), sia perché
sanciscono tratti importanti della convivenza internazionale come il divieto di genocidio.
- Consuetudini generali: queste vengono in esistenza per effetto della combinazione di un elemento
oggettivo consistente nella ripetizione costante di un medesimo comportamento e dell’elemento
soggettivo, dato dal convincimento dei soggetti che tale comportamento costante è necessario e
obbligatorio. Si tratta di norme non scritte che costituiscono il diritto internazionale generale, nel senso che
vincolano tutti i soggetti della Comunità internazionale. Tali sono la garanzia delle immunità diplomatiche
necessarie per garantire il corretto svolgimento delle relazioni, le norme che assicurano i diritti fondamentali
della persona e quelle che vietano le discriminazioni di qualunque tipo.
- Trattati internazionali: da questi derivano le norme pattizie; sono fonti del diritto internazionale che
vincolano i soli soggetti che hanno concorso alla loro formazione (cd. parti contraenti). Sono altresì atti di
natura volontaria, che trovano il fondamento della loro obbligatorietà nella principio pacta sunt servanda.
Nel linguaggio internazionalistico, i termini trattato, accordo, patto e convenzione possono essere utilizzati
indistintamente. I termini Carta o Statuto, invece, si riferiscono ai soli trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali
- Atti vincolanti delle organizzazioni internazionali. Si tratta di font previste dall'accordo istitutivo di
un'organizzazione internazionale, e hanno efficacia per i soli Stati membri. Ne sono un esempio i
regolamenti dell'Unione europea.

La comunità internazionale attribuisce a talune norme del proprio ordinamento, definite imperative (jus cogens),
carattere di inderogabilità: esse sono destinate a prevalere su ogni altra norma; emblematico è il caso della disciplina
riguardante il rispetto della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona, la cui tutela è affidata a norme che si
collocano al vertice dell’ordinamento internazionale.

In relazione alla definizione di una gerarchia delle fonti, non sussistono dubbi circa il fatto che le consuetudini, a
differenza dell'ordinamento statale (in cui le fonti non scritte hanno un valore per lo più secondario e integrativo)
costituiscano fonti di primo grado. Non vi è, invece, unanimità in dottrina circa il rapporto tra consuetudine e trattato:
per alcuni, essi costituiscono entrambi fonti di primo grado, con la conseguenza che le fonti previste da accordi si
qualificano come fonti secondarie: per altri, l'accordo è da considerarsi una fonte secondaria poiché deriva la propria
obbligatorietà dalla noma consuetudinaria pacta sunt servanda (in tale ottica, gli atti delle organizzazioni internazionali
assumerebbero il rango di fonti di terzo grado).

 L'art.38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) è spesso considerato come la chiave di
lettura, anche se non sistematica del sistema internazionale delle fonti. Esso dispone che la Corte, nella
soluzione delle controversie che le sono sottoposte, applicherà:
 le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente
riconosciute fra gli Stati in controversia;
 la consuetudine internazionale, quale prova di una pratica generalmente accettata come diritto;
 i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;
 le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più altamente qualificati delle varie nazioni, in qualità
di strumenti sussidiari.

Queste disposizioni non pregiudicano il potere della Corte di giudicare un caso ex aequo et bono, se le parti sono
d'accordo. Tuttavia, il suddetto articolo opera una mera ricognizione delle fonti, senza fornire alcuna gerarchia
delle stesse. Bisogna dunque negare che abbia un valore pseudo-costituzionale, sottolineando piuttosto che si
tratta di una norma operativa, indicante i criteri adoperati dalla CIG nel procedimento di risoluzione delle
controversie.

7
Questione particolarmente dibattuta, e rilevante per il diritto costituzionale, è la configurazione dei rapporti tra
ordinamento statale e diritto internazionale: se si tratta di sistemi giuridici distinti e separati, o è possibile in qualche
modo considerarli parti di un unico sistema complessivo, entro il quale stabilire la superiorità dell'uno sull'altro.

Da una parte, l’impostazione dualista insiste per la reciproca indipendenza dell'ordinamento statale e di quello
internazionale, entrambi originari ed autonomi e, pertanto, non riconducibili unitariamente in unico sistema. Dall'altra
parte, la concezione monista finisce per sostenere, in nome dell'unicità dell'ordinamento giuridico, la prevalenza del
diritto internazionale sul diritto interno, ipotizzando come vuole dimostrare Kelsen che la validità del diritto nazionale
dipende dal diritto internazionale.

La tesi monista, se non può accettarsi perché sostiene addirittura il carattere «dipendente» e «derivato» del
l'ordinamento interno da quello internazionale tuttavia, è compatibile, con una superiorità diritto internazionale, intesa
come capacità di quest'ultimo di creare obblighi giuridici per gli Stati, che dovranno essere tradotti in una conforme
disciplina interna.
ESEMPIO: Come importante esempio di tale tendenza si può indicare la modifica l'art. 27, comma 4, Cost., da parte della l cost, 2
ottobre 2007 n. 1, concernente l'abolizione di qualsivoglia riferimento alla pena di morte nell'ordinamento italiano. La revisione,
infatti, è stata sollecitata non solo da numerosi atti di indirizzo da parte di istituzioni comunitarie (la Carta diritti fondamentali), ma
anche dal Consiglio d'Europa, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU,
sottoscritta a Roma il 4 dicembre 1950 e resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955 n. 848). Parimenti, va considerata l'evidente
influenza esercitata dal diritto internazionale sul nuovo testo dell'art. 111 Cost. (modificato, nei primi cinque commi dall'art. 1 della
l cost. n. 2 del 1999), atteso che il modello di “giusto processo” trova specifici fondamenti proprio nel diritto internazionale e,
segnatamente, negli artt. 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (proclamata dall'Assemblea generale delle
Nazioni Unite il 10 dicembre 1948) negli artt. 5 e 6 della CEDU e nell'art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici
(approvato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con l.25 ottobre 1977 n.881).

2. La costituzione italiana e il diritto internazionale

La Costituzione italiana dimostra un apertura significativa all'ordinamento internazionale, disciplinando le modalità


attraverso le quali possa essere assicurata efficacia interna alle norme di derivazione internazionale, garantendo alle
medesime una peculiare «posizione» rispetto alla disciplina nazionale eventualmente incompatibile.

a) Tra clausole internazionalistiche si può richiamare, innanzitutto, la disciplina dell'art, 10, comma 1, Cost., che
concerne il c.d. adattamento automatico dell'ordinamento interno nei confronti delle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. Il procedimento speciale o rinvio mobile, opera un adattamento automatico alle norme
internazionali generalmente riconosciute, ossia le consuetudini. Ai sensi dell'art. 10 Cost., tali norme esplicano piena
efficacia e pieno vigore all'interno dell'ordinamento giuridico statale sulla base del semplice rinvio al diritto
internazionale consuetudinario, senza necessità di alcun recepimento formale da parte del legislatore. Riguardo al grado
delle norme interne riproducenti le consuetudini internazionali, esse trovando il loro fondamento nell'art. 10,
prevalgono sulle leggi ordinarie e sugli atti ad esse equiparate, dunque, queste ultime, se in difformità con le prime,
vengono considerate incostituzionali.

 Inizialmente le consuetudini internazionali anteriori all’ 1 gennaio 1948 (data in cui entrò in vigore
nuova Carta costituzionale) sono state salvate dalla Corte costituzionale in base al principio di
specialità, tenuto conto che il Costituente certamente le conosceva, ma non le ha esplicitamente
escluse dalla sfera di applicabilità dell'art. 10, mentre le consuetudini sorte successivamente sono
tenute a rispettare i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale (sent. n. 48 del 1979);

 Tale impostazione è stata criticata da parte della dottrina che ha sostenuto che i principi fondamentali
della Costituzione avendo un rango superiore a quello della Costituzione stessa, dovrebbero per questo
prevalere sulle consuetudini internazionali a prescindere dal momento storico della loro formazione,
infatti la Corte Costituzionale con la sentenza del 22 ottobre 2014, n.238 è ritornata sull’argomento
mutando orientamento e affermando che anche le norme consuetudinarie preesistenti all'entrata in
vigore della Costituzione non possono derogare ai principi fondamentali.
Il ragionamento seguito fonda su argomentazioni logico-sistematiche; i principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all'ingresso

8
delle norme internazionali generalmente riconosciute, rappresentando gli elementi identificativi ed
irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale.

Rivolgendo, adesso, l'attenzione al diritto pattizio, è opportuno esaminare la disciplina contenuta nel nuovo art. 117,
comma 1, nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Quest'ultimo
dispone che la potestà legislativa statale e regionale debba essere esercitata anche nel rispetto dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali: i «vincoli» in oggetto sono da intendersi derivanti da tutte
le norme internazionali convenzionali e, quindi, non solo da quelle espressamente richiamate, per determinate materie,
in specifiche previsioni della Costituzione, come fanno gli artt. 10 e 11 Cost.

L'intervento del legislatore della revisione costituzionale ha, dunque, colmato la lacuna derivante dalla mancanza di una
generale copertura costituzionale per le norme internazionali. Adesso, è possibile alla luce della nuova formulazione
dell’art. 117, attribuire ai trattati internazionali una posizione intermedia tra la Costituzione stessa e le altre fonti
primarie dell'ordinamento interno, potenzialmente in contrasto.
La Corte costituzionale, infatti, ha potuto annoverare questo tipo di norma internazionale tra le fonti interposte, ciò vuol dire che
la norma internazionale pattizia dà concretezza agli obblighi internazionali dello Stato che il legislatore ordinario è chiamato a
rispettare, venendo, ad assumere «valore» integrativo del parametro di costituzionalità, pur attestandosi a livello sub-costituzionale
e le leggi che ne hanno autorizzato la ratifica nell'ordinamento italiano (ai sensi dell’art. 80 Cost.) rimanendo soggette comunque al
sindacato della Corte costituzionale in ordine a qualsiasi profilo di contrasto con la Costituzione.

Nello specifico caso di contrasto tra fonti primarie interne e norme della CEDU, secondo la lettura fornita a partire dalle
sentenze numero 348 e 349 del 2007, il giudice nazionale, diversamente da quanto avviene con il diritto dell’Unione
Europea, non può disapplicare direttamente la norma interna contrastante con le disposizioni della Cedu.

La Corte costituzionale ha ulteriormente precisato (sen. 93/2010) che Il giudice comune, a fronte di un possibile
contrasto tra la norma interna e quella della Cedu deve cercare di risolvere l’antinomia mediante un’interpretazione
della norma interna, utilizzando tutti gli strumenti di ermeneutica giuridica, conforme alla norma convenzionale; qualora
questa soluzione risulti impercorribile, non potrà disapplicare la norma interna, ma deve prospettare tale incompatibilità
attraverso una questione di legittimità da proporre al giudice delle leggi. Quest'ultimo, suo, nel risolvere la questione,
dovrà verificare se norma della Convenzione, come dalla Corte di Strasburgo interpretata si ponga eventualmente in
conflitto con punti della Costituzione. In tale ipotesi dovrà escludersi l’idoneità della norma internazionale ad integrare
il parametro di costituzionalità, ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost., in quanto non potendo la Corte costituzionale
incidere direttamente sulla validità del trattato ,essa non avrà altra alternativa se non quella di dichiararne l'illegittimità
costituzionale.

b) Un altro specifico riconoscimento al diritto internazionale è contenuto nell'art. 10, comma 2, Cost., il quale richiama
le norme di origine consuetudinaria ed i trattati internazionali concernenti la condizione giuridica dello straniero.

Se è vero che alla luce del nuovo art. 117, comma 1, la disposizione ha perso la sua originaria connotazione «speciale»
ai fini della qualificazione di rango interposto alle norme di origine consuetudinaria ed ai trattati internazionali
concernenti la condizione giuridica dello straniero essa comunque conserva un interesse particolare per la materia
trattata.

L'art. 10, comma 2, ha previsto non solo che i profili di disciplina della condizione giuridica dello straniero dovranno
essere conformi con quanto disposto nelle fonti internazionali, ma anche che la condizione giuridica dello straniero
debba essere regolata dalla legge, ponendo, in tal modo, una riserva di legge statale rinforzata, come adesso
puntualizzato dell'art. 117, comma 2, lett. a, Cost., in considerazione del rilievo che l'oggetto riveste nell'ambito delle
relazioni internazionali

c) Altro significativo riconoscimento della rilevanza del diritto internazionale nell'ordinamento costituzionale è sancito
nell'art. 26, comma 1 Cost., il quale dispone che l'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto quando è

9
espressamente prevista dalle convenzioni internazionali, precisando che non può in alcun caso essere ammessa per
reati politici (comma 2).

L'estradizione è una forma di cooperazione tra Stati per il raggiungi mento del fine di giustizia; in assenza di appositi
trattati internazionali l'istituto era stato giustificato da ragioni di morale internazionale. Questa consiste nella consegna
da parte di uno Stato ad un altro di un cittadino accusato o condannato, al fine di consentirne la sottoposizione al
processo o all'esecuzione della pena.

La disciplina costituzionale è una sorta di garanzia (formale e sostanziale) per il cittadino, il quale potrà essere estradato
su richiesta di uno Stato straniero soltanto se apposite convenzioni sono allo scopo vigenti, in modo che siano definite
le condizioni e le singole figure di reato in relazione alle quali il provvedimento governativo estradizionale possa essere
accordato (Corte cost. sent. n. 143 del 2008),
A seguito dell'adesione dell'Italia alla Convenzione internazionale sul genocidio del dicembre 1948 è stato introdotto con legge
costituzionale un vincolo in ordine alla configurazione della nozione di reato politico, in relazione al quale, non è ammessa né
l'estradizione del cittadino né di quella dello straniero tranne per i delitti di genocidio.

Per altro verso, va evidenziato come la nozione di «reato politico» non può ritenersi desumibile semplicemente dalla normativa
penalistica interna, nel sistema delle relazioni internazionali il reato consiste in atti delittuosi che siano specificamente connotati per
l'aggressione di beni e valori primari della persona umana di tale gravità, da porre in pericolo, con mezzi di esecuzione
particolarmente crudeli, la vita, l'integrità fisica e le libertà delle persone.

In materia di estradizione tra Stati membri dell'Unione europea la Decisione-quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato
d'arresto europeo, ha sostituito l'istituto classico con un procedimento di consegna che non prevede alcun rapporto
intergovernativo ma si fonda sui rapporti diretti tra le varie autorità giurisdizionali dei Paesi membri, con l'introduzione
di un sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate.

d) La disciplina sul diritto d'asilo testimonia l'apertura della nostra Costituzione all'ordinamento internazionale, se è
vero che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite prevede il diritto di ogni individuo di cercare
e godere in altri paesi protezione dalle persecuzioni.

Ai sensi dell'art. 10, comma 3, lo straniero, al quale sia impedito nel proprio paese l'effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni
stabilite dalla legge statale.

L'assenza di una organica regolamentazione della materia non comporta l'impossibilità di richiede asilo in Italia, stante
il carattere immediatamente precettivo della norma costituzionale che configura tale situazione giuridica come diritto
soggettivo imperfetto, con la possibilità di far riferimento alla legislazione vigente in tema di «rifugiati».

La qualità di rifugiato va tenuta distinta rispetto a quella di avente diritto ad asilo, in quanto la prima richiede il
presupposto della sussistenza del fondato timore di essere perseguitato, invece per l’asilo è sufficiente la constatazione
dell'oggettiva insufficienza nel Paese di provenienza di un regime di effettività delle libertà democratiche. Il diritto
d'asilo, al momento attuale, deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la
procedura per ottenere lo status di rifugiato politico e non presenta un contenuto più ampio di quello concernente il
diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo.

e) La Costituzione presenta, inoltre, talune disposizioni che, nel tenere conto del pluralismo territoriale della
Repubblica, prevedono la potestà legislativa concorrente delle Regioni in materia di «rapporti internazionali», oltre che
con l'Unione europea», art. 117.comma 3. Si parla a riguardo, di potere estero delle Regioni, secondo la disciplina
contenuta nel comma 5 dell'art. 117, per come innovato dalla l. cost n.3 del 2001 di riforma del Titolo V.

Le Regioni, nelle materie di propria competenza, provvedono direttamente, ai sensi dell'art. 117 comma 5 Cost.,
all'attuazione ed all’ esecuzione degli accordi internazionali, nel rispetto delle "norme di procedura" stabilite dall'art.3
della legge n. 131 del 2003.

Come la Corte costituzionale ha più volte sottolineato, i «rapporti internazionali e la «politica estera» sono,
rispettivamente, «riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento» ed alla
«attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo».

10
Inoltre, le Regioni non possono dare esecuzione ad accordi internazionali indipendentemente dalla legge di ratifica,
quando sia «necessaria ai sensi dell'art. 80 Costituzione, anche perché in tal caso l'accordo internazionale è certamente
privo di efficacia per l'ordinamento italiano.

Il discrimine tra «rapporti internazionali», da un lato, e «politica estera», dall'altro, è ben presente nella giurisprudenza
costituzionale che si è occupata dell'art. 117, comma 2, lettera a), sottolineando la dicotomia concettuale tra i due ambiti
di intervento che non si ritrovano nel c.3 dello stesso art. 117, il quale individua la sola competenza regionale
concorrente in materia di rapporti internazionali. Alla luce di tale riparto si può ritenere fondatamente che la «politica
estera» rappresenta una componente peculiare e tipica dell'attività dello Stato, con un significato, al contempo, diverso
e specifico rispetto all'ambito dei «rapporti internazionali». Infatti, mentre quest’ ultimi sono astrattamente riferibili a
singole attività, caratterizzate da elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento, la «politica estera» concerne un
rilevante compito dello Stato unitariamente considerato in rapporto alle finalità ed all'indirizzo che intende perseguire.

In materia, la L. n. 131 del 2003, all'art. 6, comma 1, ha precisato che lo spazio d'intervento delle Regioni in tale ambito
debba circoscriversi in vista dell'attuazione e dell'esecuzione di accordi internazionali già ratificati e limitato alle materie
di competenza legislativa di queste; che ogni iniziativa al riguardo debba essere immediatamente comunicata al Ministro
degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, i quali nei successivi trenta giorni, potranno formulare
propri criteri e osservazioni; la disciplina non è stata considerata costituzionalmente illegittima, in quanto tali attività
devono essere coordinate con la politica estera dello Stato.

Occorre, inoltre, tener presente che il comma 9 del medesimo art. 117 Cost. riconosce alle Regioni, nelle materie di
propria competenza legislativa, la potestà di concludere accordi con altri Stati e intese con enti territoriali interni ad un
altro Stato, nei casi e con le modalità disciplinati da leggi dello Stato. In particolare, per la conclusione degli accordi è
previsto il conferimento dei pieni poteri di firma ai competenti organi regionali, secondo le norme del diritto
internazionale generale e della Convenzione di Vienna del 1969. L'art, 6, comma 3, della 131 n. 2003, ha previsto che gli
accordi in questione possano essere del esclusivamente di natura esecutiva o applicativa di altri accordi internazionali
già entrati in vigore, o di natura tecnico-amministrativa o programmatica, purché «finalizzati a favorire il loro sviluppo
economico sociale e culturale», sempre nel rispetto della Costituzione, dei vincoli internazionali e degli obblighi
comunitari.

La corte costituzione ha precisato che il c.d. potere estero regionale le disposizioni costituzionali suddette si applicano
anche nelle Regioni ad autonomia speciale.

11

Potrebbero piacerti anche