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Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in

quanto pratica
di Alessandro Volpone

0. Prologo
“Pratica” della filosofia, al volgere del nuovo millennio, è anche quel-
la delle “pratiche filosofiche”, definibili come percorsi e metodi dell’inda-
gine razionale con orientamento filosofico1. A scuola, sul posto di lavoro, in
luoghi ricreativi o altrove (dalle istituzioni pubbliche alle aziende, dalle
aule universitarie ai caffè in piazza, dagli enti locali alle strutture turisti-
che, dai presidi sanitari e ospedalieri ai centri di bellezza e fitness, ecc.)
sempre più spesso si frequenta oggi la “filosofia”, o, meglio, il “filosofa-
re” nella sua dimensione di attività sociale e culturale umana, badando
non tanto ai contenuti, quanto più alla correttezza dell’argomentazione
e alla collegialità della riflessione. Generalmente, si tratta della ricerca
comune di una soddisfacente risposta “filosofica”, almeno in via presun-
tiva, a problemi e interrogativi, portati dai partecipanti alla discussione,
sufficientemente interessanti da poter essere assunti a oggetto d’indagine
da parte del gruppo di lavoro.
Snodi storici importanti di questa variegata tradizione d’uso, che,
senza alcun progetto unitario, s’è venuta frammentariamente e indipen-
dentemente costituendo lungo il corso del XX secolo, sono almeno tre o
quattro: la nascita del Sokratisches Gësprach di Nelson, la Philosophy for
children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach, o la Philosophi-
sche Organisationsberatung, il Café philo e la Consultation philosophique di
Sautet, ecc. Ciascuno di questi “eventi” apre la strada ai diversi filoni di
sviluppo della costellazione attuale delle pratiche filosofiche.
Il metodo del dialogo socratico (Sokratisches Gësprach) viene ideato e
messo a punto inizialmente, negli anni Venti, da Leonard Nelson
(1882-1927), un post-kantiano tedesco, che, cercando di riabilitare la
metafisica, a livello teorico, pensò di utilizzare, a livello pratico, il me-
todo dialogico filosofico nell’insegnamento di tipo “attivo”, della pe-

1 Cfr. A. Volpone, «Pratiche filosofiche, forme di razionalità, modi del filosofare con-
temporaneo», in Kykéion, 8, 2002, pp. 17-36. Analogamente, «metodi filosofici con orien-
tamento pratico» li definisce Paul Wouters, direttore della Scuola Internazionale di Filoso-
fia di Leida (cfr. Denkgereedschap. Een filosofische onderhoudsbeurt, 1999; trad. it. La bottega del
filosofo, Carocci, Roma, 2001, p. 9.)

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dagogia coeva, convinto che i bisogni educativi di bambini e adole-


scenti non fossero solo materiali e prestando attenzione alla loro indi-
vidualità, nonché alle abilità sociali e al senso della comunità. Nelson
si occupa di Führerschaft e questo può anche piacere al Terzo Reich, ma
le sue vedute libertarie e socialiste portano ben presto alla chiusura
della Landeserziehungsheim Walkemuehle, la scuola sperimentale da lui
fondata2. Nel secondo dopoguerra, Gustav Heckmann, Minna Specht
e altri discepoli rielaborano ed estendono l’applicazione del metodo di
Nelson soprattutto all’età adulta, in Germania, Inghilterra e Olanda, e
come tale oggi è conosciuto, diffuso sotto svariate forme e modalità di
realizzazione. La Philosophy for children deriva invece da tutt’altra parte,
sia dal punto di vista geografico-culturale che da quello dei presupposti
teorici di base: nasce negli anni Settanta in USA, ad opera di Matthew
C. Lipman. Egli, deweyano, attento alle problematiche pedagogiche
non solo in materia di didattica della filosofia, ma nell’educazione e
nella formazione in generale, pensa di adoperare il metodo dell’inda-
gine filosofica di gruppo per migliorare le abilità logiche a livello me-
tadisciplinare. Successivamente estende il programma e approfondisce
il concetto di “community of inquiry”, che fu di Peirce e, soprattutto,
di Dewey. Con Ann M. Sharp e altri collaboratori della Montclair Sta-
te University (NJ), Lipman costituisce un vero e proprio curricolo, con
materiale stimolo-strutturato (racconti, sotto forma dialogica) com-
prendente la maggior parte dei grandi temi della logica, della metafisi-
ca, dell’etica, dell’estetica, ecc., messi in forma narrativa e organizzati
“a spirale”, per fasce d’età (vedi figura alla pagina seguente). L’idea è
quella che la riflessione su un medesimo argomento possa esser affron-
tata, nel corso della vita, con un grado crescente di complessità, senza
limiti anagrafici, di sesso, di razza, di credo politico o religioso, ecc., là
dove se ne senta semplicemente l’esigenza e sotto la supervisione, ma-
gari, di un facilitatore esperto delle dinamiche dialogiche di stampo
filosofico.
Negli anni Ottanta e Novanta, in Francia e ancora in Germania e ne-
gli Stati Uniti, emergono nuove frontiere d’uso della pratica della filoso-
2 Anche in Italia, in cui rarissime menzioni coeve vi sono dell’opera del filosofo tedesco,
Antonino Pane trova nella sua attenzione alla Führerschaft «uno dei tanti accenni a risolvere
quel problema che ormai s’impone a tutti gli spiriti più eccelsi, intendiamo il problema
dell’autorità», ma giudicava «discutibilissime le idee dell’Autore» (A. Pane, «Recensione alla
Educazione del duce di Leonard Nelson», in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 6,
1926, p. 454). La discussione concernente una relazione di Nelson «Sulla impossibilità di
una teoria della conoscenza» si trova invece negli Atti del IV Congresso internazionale di
filosofia di Bologna, del 5-11 aprile 1911 (Formiggini, Bologna, 1912, 3 voll.; 1, pp. 277-
286). Altri due riferimenti, in italiano, sono rinvenibili nella manualistica di storia della
filosofia degli anni Cinquanta: A. Aliotta, Pensatori tedeschi dell’Ottocento, Libreria Scientifica
Editrice, Napoli, 1950, pp. 125-140; V. Mathieu, «Nelson, Leonard», in Enciclopedia della
Filosofia, Centro Studi Filosofici di Gallarate, Milano, 1957, 3, pp. 846-847. Per il resto,
Nelson può dirsi pressoché sconosciuto qui da noi.

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fia, mediante l’introduzione del con-filosofare nella riflessione di gruppo


in azienda o in altre organizzazioni economiche e sociali, nei circoli cul-
turali, nelle discussioni pubbliche e nei caffè, oppure nel confronto vis-
à-vis su dilemmi decisionali, problemi esistenziali, ecc. Ancora una volta
non è tanto l’interesse nel
corpus disciplinare sedi-
mentato nel corso del tem-
po a motivare simili uti-
lizzazioni della filosofia,
ma soprattutto quello per
i suoi metodi d’indagine.
Gerd B. Achenbach conia
il termine Philosophische
Praxis per la discussione
privata su temi filosofici,
detta anche Lebensbera-
tung3. Marc Sautet, a Pari-
gi, fa Consultation philoso-
phique e anima, al “Café
des Phares”, discussioni
filosoficamente ispirate e
condotte. In Germania, la
proposta di Achenbach viene estesa al lavoro di gruppo in organizzazio-
ni e strutture pubbliche o private di vario genere, come Philosophische
Organisationsberatung, e qualcosa di analogo era stato già fatto alla fine
degli anni Settanta in alcune aziende statunitensi, sotto forma di Philo-
sophy in business, o Management philosophy. Nel 1989, la voce “Praxis, Phi-
losophische”, curata da Odo Marquard, compare nel dizionario tedesco
Historisches Wörterbuch der Philosophie, con valore di termine generico e da
estendersi anche alla variante in ambito aziendale dell’attività4. Nella
voce vi sono riferimenti anche ad Hans Krämer, che lavora da tempo
nell’ambito della praxis in oggetto; a suo dire, fin dalla fine degli anni
Settanta, soprattutto in riferimento a questioni di etica5.
Numerose altre determinazioni sono proliferate negli ultimi anni, per
la maggior parte influenzate dagli eventi di cui sopra, ma emergono oggi
diverse rivendicazioni, come si accennava, in materia di autonomia e
3 La denominazione Philosophische praxis viene in genere preferita, in Germania, soprat-
tutto per il duplice valore semantico che il termine “praxis” possiede in tedesco: esso può
indicare sia la prassi, la pratica, l’esercizio, ecc., e sia il luogo fisico in cui esercitare qualco-
sa, come l’ufficio, lo studio, il gabinetto professionale, ecc.
4 O. Marquard, Hg., «Praxis, Philosophische», in Historisches Wörterbuch der Philosophie,
Basel, 1989, Band 7, pp. 1307-1308; trad. it. «Filosofica, Pratica», nella sezione Pratiche
filosofiche del sito: www.filosofare.net.
5 Cfr. H. Krämer, «Prolegomena zu einer Kategorienlehre des richtigen Lebens», in Philo-
sophische Jahrbücher, 83, 1976, p. 73.

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indipendenza di alcune iniziative, che farebbero retrodatare questo o


quel fenomeno descritto. Tutto sommato la tendenza attuale, di cui an-
che l’Italia è stata investita, è quella di aprire nuove nicchie alla pratica
della filosofia, mediante modalità alternative d’esercizio. Tutti gli autori
menzionati e altri possibili, cultori a vario titolo della filosofia come
attività, prerogativa esistenziale o stile di vita (ad es., Peter Köstenbaum e
la sua Philosophy in business, Pierre Grimes e la Philosophical Midwifery,
Lawrence Kohlberg e la Moral education fondata sulla “justice com-
munity”, ecc.)6, poco hanno in comune se non l’idea, variamente soste-
nuta, formalizzata, direttamente o indirettamente espressa, che la filoso-
fia, sotto forma del con-filosofare, almeno duale, possa essere praticata in
luoghi, situazioni e contesti altri rispetto a quelli tradizionalmente depu-
tati alla produzione-riproduzione disciplinare. Questo comune denomi-
natore è di certo un buon motivo per inquadrare, completamente o in
parte, le diverse iniziative descritte entro un unico orizzonte tematico,
come da me sostenuto in più sedi, ferma restante la genesi storica mol-
teplice ed eteroclita del fenomeno nella sua globalità.
In prima approssimazione, si può dire che si tratta generalmente di
un tempo e di uno spazio dedicati alla filosofia come esercizio dialogico,
paritario e democratico fondato sull’argomentazione e il contraddittorio,
il dissenso, il rispetto, la tolleranza. Ciò presuppone un coinvolgimento
in prima persona, nell’attività, senza deleghe a terzi, seguendo regole,
obiettivi e metodi condivisi, che la comunità riconosce come i propri,
mutuandoli dall’esterno o definendoli ex novo per se stessa. Il principio
più generale è il medesimo di ogni altro processo umano d’interazione
gruppale su base auto-regolativa (il gruppo possiede una gestione auto-
noma) e auto-correttiva (il gruppo cresce, sia dal punto di vista delle abi-
lità sociali, della comunicazione, dell’affiatamento, e sia dal punto di
vista del miglioramento dei prodotti della propria attività precipua), co-
me può esserlo ad esempio anche una “semplice” partita di calcetto, o
suonare in un complesso musicale. Non è necessario chiamarsi Pelè per
giocare a pallone, o Jimi Hendrix per fare esperienza della musica. Basta
avere motivazione, desiderio e disponibilità all’impegno, nonché una
qualche competenza calcistica, in un caso, musicale nell’altro. Se non

6 Per una disamina meglio articolata dello sviluppo storico delle diverse pratiche si veda:
A. Volpone, «Pratiche filosofiche, forme di razionalità…», cit., pp. 18-25. Nel lavoro non
viene menzionata (e me ne scuso) la Autobiografia filosofica, di Romano Madera e Luigi
Vero Tarca, alquanto interessante e certamente meritevole d’attenzione. Si tratta di una
delle pochissime pratiche filosofiche originali italiane, nata intorno alla fine degli anni
Settanta, autonoma e indipendente rispetto al contesto internazionale. (Per informazioni
sull’argomento cfr. R. Madera, L. Vero Tarca, La filosofia come stile di vita, Bruno Mondado-
ri, Milano, 2003.) Rimando ad altra sede l’analisi delle sue caratteristiche fondamentali e la
discussione delle ragioni intellettuali per cui è possibile inserire a pieno titolo la medesima
nel panorama più esteso delle pratiche filosofiche. Altro caso italiano è quello delle Vacan-
ze filosofiche, ma anche su questo, al momento, si preferisce sorvolare.

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v’è competenza, s’impara, esercitandosi. Una cosa è tirare calci ad un


pallone o suonare uno strumento, un’altra è fare il calciatore o il musici-
sta di professione, un’altra cosa ancora è essere Pelè o Jimi Hendrix. Cia-
scuno prende e dà allo sport o alla musica ciò che riesce a fare7. Fuor di
metafora: fare esperienza della filosofia non vuol dire necessariamente
coltivare il delirio di essere Platone, Kant o Hegel, oppure aspirare a son-
tuose elaborazioni creative di ricerca filosofica. Vi sono differenti gradi e
livelli di fruizione della filosofia, contesti molteplici di sviluppo, tipolo-
gie diverse di risultati, ecc. «La verità riluce solo tra amici, in ore fortuna-
te del giorno», ha scritto Platone nella sua Lettera VII. Aristotele, a sua
volta, ha passato buona parte della vita ad occuparsi delle forme molte-
plici attraverso cui la razionalità umana può esprimersi, mostrando che
ci sono svariati modi di “essere razionali”, non tutti riconducibili ad al-
goritmi logico-dimostrativi, ma tutti ugualmente validi, nel loro ambito
specifico, controllabili, comunicabili, universalizzabili8.
L’aspetto fondamentale dell’esercizio pratico della filosofia in grup-
po è appunto la sua dimensione comunitaria. Ciascun sentiero attraver-
so cui il dialogo si articola corrisponde ad una negoziazione di signifi-
cati, unica, irripetibile. Oralità e scrittura si compenetrano l’un l’altra,
nella filosofia delle pratiche filosofiche, ad esempio attraverso agende
di lavoro, schemi, appunti di vario genere, personali o, meglio, visibili
per l’intera comunità di pratica e da essa con-divisi9. Il meccanismo è il
medesimo di quello adoperato da Socrate quando, ad esempio, fa di-
segni sulla sabbia per meglio seguire il filo del ragionamento che si va
sviluppando con i suoi interlocutori. Ma v’è qualcosa, hic et nunc, che
sfugge a tutto quanto (il silenzio letterario di Socrate lo dimostra, la
forma dialogica adoperata da Platone lo conferma), anche ai moderni
mezzi di registrazione audio-visiva: l’essere lì, in quel momento, con se
stessi e con gli altri, vivere l’esperienza, quella del (con)filosofare, in
prima persona.
Torniamo agli esempi precedenti, per cercare di sfruttarli ancora, fin
dove è possibile. Nel bel mezzo di una partita di calcetto è completa-
mente inutile, ad esempio, menzionare il nome di Maradona o di Ro-
naldo, o proiettare un video dell’uno o dell’altro, mentre può giovare,
invece, l’emulazione di un loro dribbling o di qualche colpo particola-
re, ma non v’è bisogno di nessun sottotitolo a questa nostra azione,
nessun sigillo. Ciò che si fa, lo si fa per noi stessi, per la squadra o per
la partita; lo si fa e basta, e soprattutto: credendoci. Evocare autorità è

7
Per un paragone analogo, cfr. M. De Pasquale, Al caffè con Socrate, Stilo, Bari, 1999, p. 9.
8 Su questo precipuo significato dell’opera di Aristotele, si veda in particolare: E. Berti,
Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 1989.
9 In proposito, cfr. ad esempio: A. Cosentino, «Tra oralità e scrittura in filosofia: il mo-
dello della Philosophy for Children», in M. De Pasquale, a cura di, Filosofia per tutti, Angeli,
Milano, 1998, pp. 134-155.

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completamente inopportuno quando si fa qualcosa in prima persona,


sia perché non siamo l’autorità evocata (a meno che queste parole non
le stiano leggendo proprio Maradona o Ronaldo) e sia perché, se vi
fosse l’autorità in questione, avrebbe un bel da fare a misurarsi con gli
altri, proprio come ciascun giocatore, qui ed ora, può e deve fare. Stes-
sa cosa nel caso della musica: parlare delle scale musicali di B. B. King
o Eddy Van Halen, ad esempio, o far ascoltare i loro assoli registrati,
non serve a niente quando si suona, qui ed ora. Tutt’al più, si può di-
mostrare di essere altrettanto virtuosi, ma questo può e deve avvenire
di fatto e non in astratto. Una chitarra che non suona è solo una chitar-
ra che non suona. Un chitarrista può conoscere anche tutti i pezzi del
suo idolo, ma quando suona con altri si misura innanzitutto con se
stesso. Fuor di metafora: fare esperienza di filosofia presuppone il di-
ritto-dovere all’argomentazione, sempre e comunque. Non v’è ipse dixit
che tenga e, come nello sport o nella musica di gruppo, praticati in
prima persona, non v’è conoscenza né competenza che valga, se non
sia consolidata, messa a frutto, esercitata, sentita, condivisa e opportu-
na, qualunque sia il nostro nome, nello spazio e nel tempo della prati-
ca comunitaria.
Come si vede, le pratiche filosofiche pongono il problema della natu-
ra stessa della filosofia, nel senso del con-filosofare, ed è per questo che si
rivela di fondamentale importanza la loro epistemologia, che, in tal ca-
so, diviene un’indagine sui presupposti di base della filosofia in quanto
pratica.

1. Il Quid
Lavorare ad una epistemologia delle pratiche filosofiche vuol dire di-
scutere dell’orizzonte di significato entro cui collocare gli oggetti concet-
tuali di riferimento. È un lavoro teorico che non tradisce per niente la
natura eminentemente operativa delle pratiche filosofiche, perché è ge-
neralmente sconveniente che teoria e pratica restino divise, nelle diverse
occupazioni umane, mentre è più sensato che ciascuna svolga il proprio
ufficio, nell’economia del tutto. Il meccanismo è il medesimo, ad esem-
pio, di quello che esiste nel rapporto tra filosofia e scienza. La scienza si
costituisce come processo autonomo di organizzazione razionale di dati
sperimentali, mentre la filosofia si attribuisce il compito di “fondare” la
scienza, cioè quello di chiarirne i presupposti, le condizioni e le finalità.
L’epistemologia è una “filosofia” della scienza, nel caso della scienza, e
analogamente si potrà parlare, nel caso che qui interessa, di una vera e
propria “filosofia” delle pratiche filosofiche.

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Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

Quanto alle modalità possibili d’esistenza della riflessione in questio-


ne, come già da me indicato in altra sede10, è opportuno distinguere una
fondazione materiale e una formale. La prima è essenzialmente una disa-
mina dei presupposti non pratico-filosofici che forniscono la ragion d’es-
sere delle pratiche filosofiche. In questo caso, queste ultime sono consi-
derate come un tutt’uno; facendo leva sulle caratteristiche fondamentali
comuni, e senza entrare nello specifico, ci si chiede “perché le pratiche
filosofiche?”, secondo il noto duplice valore semantico del “perché”: per
quale causa? e per quale fine? La seconda fondazione concerne invece il
processo di costituzione in sé delle pratiche filosofiche, in quanto strut-
ture, procedure e linguaggi. La domanda in questo caso diviene: cosa si
deve fare e come si procede affinché una pratica filosofica sia tale?
Esemplifichiamo. Quando Marx interpreta la scienza moderna come
sovrastruttura, cioè come forza produttiva e riproduttiva del capitale, si
ha un chiaro esempio di fondazione “materiale” della scienza. In questo
caso, non interessa quali e quante siano le diverse discipline; esse sono
considerate come un tutt’uno e come tali analizzate, cercando i presup-
posti non scientifici della scienza. Quando, al contrario, il Positivismo
logico riflette su questo o quel settore scientifico, distinguendo fra pro-
blemi, relazioni, metodi, nozioni, ecc., si ha un esempio di fondazione
“formale” della scienza. In questo caso, si entra nel merito della scienza,
sia dal punto di vista teorico che pratico, e ciò che si finisce per analiz-
zare, in fondo, è il linguaggio stesso entro cui tutto il complesso feno-
meno, così e così articolato, si manifesta.
Le due fondazioni, tanto nel caso della scienza quanto in quello, più
umile e meno pretenzioso, delle pratiche filosofiche, sono alternative,
ma non in senso esclusivo. Esse non possono certo dirsi complementari,
poiché l’opzione per l’una o per l’altra non è indifferente ad una presa
di posizione filosofica generale, ma probabilmente è opportuno che coe-
sistano, se non altro per una maggiore ricchezza di punti di vista.

2. Il punto di vista materiale


L’esistenza delle pratiche filosofiche è un fatto, e il loro darsi nel pre-
sente getta nuova luce sul rapporto tra l’uomo e il suo filosofare. Esse
non rappresentano una filosofia di tipo nuovo, ma solo un modo diver-
so di rapportarsi ad essa. Per il loro tramite, la filosofia conserva le mo-
dalità che da sempre le competono, mentre esprime ed assume su di sé
una rinnovata ragion d’essere. Alla domanda “dove va la filosofia?” si
può rispondere semplicemente che essa va dove va l’uomo!

10 Cfr. A. Volpone, «Oltre le pratiche filosofiche», in Pratiche Filosofiche/ Philosophy Practi-


ce, 3, 2004, pp. 1-40: 13.

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2.1. Pratiche filosofiche come fenomeno storico e culturale


Le pratiche filosofiche sono molteplici, come illustrato in precedenza.
Metodo e tematiche filosofiche, secondo l’ambito in cui la filosofia si fa
“pratica”, sono adoperati (attenzione: non “applicati”) a partire dalle spe-
cificità degli interessi, reali o presunti, di coloro con cui s’interagisce
(bambini, adulti, anziani, maschi, femmine, bianchi, neri, immigrati,
ecc.), tenendo conto generalmente del livello di competenza disciplinare
posseduto dai diversi interlocutori (iniziale, intermedio, avanzato, ecc.) e
nel rispetto delle condizioni al contorno della situazione dialogica (strut-
tura scolastico-educativa, posto di lavoro, ambiente ricreativo, ecc.).
L’ambito delle pratiche filosofiche è vasto, e negli ultimi anni continua
ad estendersi ulteriormente, come, ad esempio, nel caso dei servizi con
diverse finalità offerti, anche in Italia, da enti locali, altre strutture pub-
bliche o associazioni private.
Chiunque ritenga che vi sia un modo unico di fare filosofia, nei diffe-
renti ambiti socio-culturali in cui è possibile, commette senz’altro un
errore di giudizio e mostra pressappochismo, ignorando l’evoluzione
storica reale dei vari approcci in uso e rischiando di far passare un mal
celato ideale di “filosofizzazione” dell’intera società nelle sue diverse
forme e manifestazioni attuali. Tutt’altro. Occuparsi seriamente di que-
sta o di quella pratica filosofica, invece, significa agire mediante discer-
nimento metodologico specifico e, all’interno di ciascun campo
d’azione, svolgere un lavoro di sottile alchimia, a seconda dei soggetti,
delle situazioni e dei contesti, per riuscire a fare “buona” filosofia sul
breve, medio o lungo periodo. Filosofare, in genere, non è così “natura-
le” come superficialmente si può supporre: mettere semplicemente “in
moto il cervello” non significa fare filosofia. Pensare è una cosa, eserci-
tarsi nel pensiero filosofico un’altra. Questo vale per la filosofia in gene-
rale, ma è ancor più vero nel caso delle pratiche filosofiche: la produ-
zione-riproduzione disciplinare di ciascuna di esse necessita di apprendi-
stato operativo. Non si può re-inventare più volte la stessa cosa. Il ri-
schio che si corre, altrimenti, è che per ogni cento diversi cultori di una
certa pratica vengano a generarsi cento nuove differenti versioni della
stessa. Ciò può essere anche interessante, a livello di comparazioni, ma
sicuramente è poco professionale.
2.2. Pratiche filosofiche come fenomeno filosofico
Nel testo del 2000 in cui per la prima volta viene introdotto il termi-
ne “pratiche filosofiche”11, ho sostenuto l’idea che la filosofia contempo-

11 A. Volpone, «Crisi della razionalità e ritorno alla pratica filosofica», relazione al 1°


Seminario dell’Associazione Italiana Counseling Filosofico (AICF), Castello di Caselette,
Torino, 30/04-01/05/2000; on-line agli indirizzi: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/
relCaselette/relazione.htm, in versione italiana, e http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/
relCaselette/Crisis_of_Rationality.htm, in versione inglese; su cartaceo, il testo integrale

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ranea stia andando nella direzione che porta ad esse. Il rinnovato inte-
resse odierno nei confronti della filosofia e il bisogno culturale e sociale
diffuso ne sono una dimostrazione. Non è un caso che oggi vi siano
appunto le pratiche filosofiche. L’evento, in sé, per la filosofia non rap-
presenta “cadute” di sorta, cioé non si “sminuisce” alcunché. La filosofia
non è mai cambiata. Ciò che si modifica, nel corso dei secoli, è invece il
nostro rapporto nei suoi confronti: ciascuna epoca si pone in una certa
relazione rispetto alla filosofia, così e così determinata. Il ragionamento
si può perfino ribaltare: oggi non è possibile in filosofia spingersi oltre le
pratiche filosofiche. Esse ne rappresentano la frontiera estrema attuale,
frutto di una rinnovata attenzione verso la disciplina, e ignorarle o sot-
tovalutarle è del tutto sconveniente.
La storia della filosofia non può esimersi dall’analisi del fenomeno in
questione. Il punto è: noi desideriamo le pratiche filosofiche, ma per-
ché? È razionale il nostro desiderio? Perché lo desideriamo oggi? Di cosa
è sintomo tutto questo? Queste sono domande filosofiche, e rispondere
ad esse significa immediatamente “fondare” queste varietà atipiche della
filosofia e del filosofare, considerandole come un tutt’uno, senza entrare
nel merito di ciascuna di esse, cioè proprio secondo il punto di vista
“materiale” di cui si sta discutendo.
Nel lavoro del 2000 qui richiamato, l’Ontologismo novecentesco12
viene indicato come il canto del cigno della razionalità filosofica occi-
dentale, entrata successivamente in crisi. Existenzphilosophie ed esistenzia-
lismo, invece, cioè le cosiddette “filosofie della crisi”, hanno ri-scoperto
e pure ri-coperto l’esistenza, concreta, ponendola (nuovamente) al cen-
tro dell’attenzione, ma trattandola mediante vecchie categorie e conce-
zioni13. I loro “limiti” sono quelli di buona parte della filosofia del No-
vecento, che hanno impedito di arrivare (o di poter tornare) prima d’og-
gi all’esercizio pratico filosofico pubblico, e sono almeno due: (1) la spo-
liticizzazione della filosofia che assurge a scienza autonoma e (2) il pri-
mato del commentario erudito sul vissuto concreto. Il primo può essere
brevemente illustrato mediante un richiamo a Hannah Arendt, il secon-
do a Pierre Hadot.
Arendt ha visto in Platone e nella sua opera il primo tentativo di
porre fine al conflitto tra il filosofo e la polis, manifestatosi in tutta la
sua gravità nel processo e nella condanna a morte di Socrate. Falliti i
vari tentativi di Platone di rifondare la polis, sia teorici, superbamente
espressi nella Repubblica, che pratici, con Dionigi e la tragica disavven-

della relazione ora è contenuto in: A. Volpone, «Oltre le pratiche filosofiche», in Pratiche
Filosofiche/ Philosophy Practice, cit., pp. 18-23 (in italiano) e pp. 32-37 (in inglese).
12 Quello italo-tedesco di Pantaleo Carabellese (Critica del concreto, 1921), di Nicolai Hart-
mann (Wie ist eine kritische Ontologie überhaupt möglich?, 1925) e soprattutto di Martin Hei-
degger (Sein und Zeit, 1927), inclusi gli sviluppi che ne sono derivati.
13 Cfr. A. Volpone, «Oltre le pratiche filosofiche», cit., pp. 8-9.

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Alessandro Volpone

tura siracusana, la creazione dell’Accademia dovette essere intesa in


maniera del tutto diversa rispetto a quella di altre scuole filosofiche
che l’avevano preceduta. Essa volle offrire garanzie istituzionali per
uno spazio autonomo “artificiale” (contrapposto a quello “naturale”
della polis), in cui esercitare la propria attività speculativa e salvaguar-
dare la ricerca. Gli Accademici, osserva la Arendt, «dovevano essere
liberati dalla politica nel senso greco, né più né meno di quanto i cit-
tadini dovevano essere affrancati dallo stato di necessità della vita per
rendersi disponibili per la politica. E per poter accedere allo spazio
“accademico” dovevano abbandonare lo spazio del vero politico [das
Politische], proprio come i cittadini dovevano lasciare la sfera privata
della loro casa per recarsi nella piazza del mercato. Come l’af-
francamento dal lavoro e dalle cure della vita era un presupposto ne-
cessario della libertà del politico, così l’affrancamento dalla politica
divenne il necessario presupposto della libertà dell’Accademia [das A-
kademische]»14. Il discorso della Arendt continua. Nel corso dei secoli
l’atteggiamento menzionato è andato consolidandosi, e come tale lo si
ritrova, ad esempio, nella libertas philosophandi spinoziana, o nel pro-
cesso di secolarizzazione culturale e religiosa alla base della nascita
dello Stato moderno, tendente a separare filosofia, scienza e religione
dalla politica e dall’amministrazione15.
Negli ultimi decenni, tuttavia, occorre registrare un cambiamento
nell’atteggiamento dei cultori della filosofia, coinvolti in maniera cre-
scente nelle vicissitudini socio-politiche; e la moda dei filosofi-opinioni-
sti presenti sui mass media, probabilmente, non è che la punta di un ice-
berg. Più concretamente, la filosofia sta cercando di recuperare quello
spazio “naturale”, di cui diceva la Arendt, che un tempo ha dovuto la-
sciare. E non si tratta di vetero-marxismo. Le ideologie hanno fatto il
loro tempo. Si tratta invece dell’idea che il prezzo della libertà e dell’af-
francamento dalla politica non sia poi così conveniente per la filosofia,
non tanto per gli addetti ai lavori, quanto per la società stessa da cui essa
si estranea. Torneremo tra poco su questo punto.
Il secondo “limite” di cui si diceva, variamente connesso col prece-
dente, risiede nella riduzione della filosofia ad esercizio storico-
letterario ed esegetico, trascurando tutta la complessità posseduta da
questa occupazione umana fin dalle origini della civiltà occidentale.
Lo storico della filosofia antica greca e romana Pierre Hadot ha riflet-
14 H. Arendt, Was ist Politik? (1993), trad. it. Che cos’è la politica, Edizioni di Comunità,
Milano, 1995, p. 43.
15 Cfr. ivi, pp. 46-49. Per un approfondimento dell’indagine della Arendt sulla spoliticiz-
zazione della filosofia, cfr. ad esempio: H. Jonas, «Agire, conoscere, pensare: spigolature
dall’opera filosofica di Hannah Arendt», in Aut-Aut, 238, 1990, pp. 47-63; R. Esposito,
L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma, 1996; F. Fistetti,
Hannah Arendt e Martin Heidegger. Alle origini della filosofia occidentale, Editori Riuniti, Roma,
1998.

32
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

tuto su questi temi in più occasioni, come noto, analizzandone diversi


risvolti16. Egli ha enfatizzato soprattutto l’uso originario preponderan-
te, comune e diffuso della filosofia come manière-de-vivre, nell’Atene di
Socrate e per tutta la storia successiva della Grecia antica, soprattutto
fra Stoici ed Epicurei, poi anche a Roma e nelle sue Province, fra i di-
versi epigoni, spesso eclettici, della tarda Antichità. È con il Medioevo
e l’affermarsi della Cristianità che, secondo Hadot, un certo modo di
fare e concepire la filosofia è poi tramontato, nel corso del tempo, per
divenire esclusivamente studio e dottrina, Comentarium raffinato, ma-
nieristico o astratto. La ricerca erudita nell’Umanesimo-Rinascimento e
lo specialismo accademico dell’Età Moderna, cioè quello della filosofia
che si costituisce come scienza autonoma, hanno poi fatto il resto.
“Fare filosofia” oggi vuol dire in genere occuparsi della disciplina, la-
vorare in seno ad essa, il che significa produrre e riprodurre la filosofia
stessa. La “produzione” è l’attività militante speculativa, variamente
espressa e codificata nel corso del tempo; la “riproduzione” è la tra-
smissione da una generazione all’altra dell’insieme delle nozioni disci-
plinari riconosciute. Il circolo (virtuoso) così costituito è variamente
articolato e realizzato nella società attraverso istituzioni (scuole, acca-
demie), associazioni di settore e attività editoriali di vario genere (spe-
cialistiche, manualistiche, divulgative, giornalistiche, ecc.), per mano
di studiosi e ricercatori, addetti ai lavori, docenti, esperti, giornalisti,
divulgatori, semplici appassionati, ecc. «In tal modo – per dirla con le
parole di Schopenhauer – essa [la filosofia] viene ad acquistare
un’esistenza pubblica, e il suo stendardo è piantato dinanzi agli occhi
degli uomini, cosicché la sua esistenza è continuamente riportata alla
memoria e posta in rilievo»17.
Il j’accuse di Hadot non è anti-accademismo, come può esserlo quello
di Schopenhauer, a cui qui, per ragioni di sola enfasi, s’è fatto riferimen-
to. Si tratta invece della mera constatazione di uno stato-di-cose. Il pro-
fessore e lo studente di filosofia, ad esempio, si occupano di leggere,
interpretare, commentare o discutere i testi con lo scopo di chiarire con-
cetti già in uso o cercarne di meglio adeguati. Con ciò passa la produ-
zione-riproduzione disciplinare della filosofia, ma non passa la filosofia.
Raggiungere un buon risultato, nella mente dello studente o sul registro
dell’insegnante, è tutt’altra cosa rispetto ad una concezione della filoso-
16 Il primo e l’ultimo suo lavoro sull’argomento: P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie
2
antique (1981), Études Augustiniennes, Paris, 1987 (trad. it. Esercizi spirituali e filosofia antica,
Einaudi, Torino, 1988, trad. ingl. Philosophy As a Way of Life: Spiritual Exercises from Socrates
to Foucault, Blackwell, Oxford-Cambridge (Mass.), 1995). Id., Qu’est-ce que la philosophie
antique, Gallimard, Paris, 1995, trad. inglese What Is Ancient Philosophy?, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.), 2002. Da segnalare, infine, una sua intervista biografica: id., La
philosophie comme manière de vivre, Albin Michel, Paris, 2002.
17 A. Schopenhauer, Ueber die Universitäts-Philosophie (1851), trad. it. La filosofia delle uni-
versità, Adelphi, Milano, 1992, p. 17

33
Alessandro Volpone

fia intesa come attività, o, meglio ancora, come un’attitudine, una ma-
niera di vivere: in questo caso, il filosofare non può dirsi affatto conclu-
so una volta raggiunto un qualche risultato.
Molte difficoltà che incontriamo quando cerchiamo di comprendere le opere
filosofiche degli antichi spesso derivano dal fatto che, interpretandole, com-
mettiamo un duplice anacronismo: crediamo che, come molte opere moder-
ne, siano destinate a comunicare informazioni intorno a un contenuto con-
cettuale dato, e che noi ne possiamo anche trarre direttamente chiare infor-
mazioni sul pensiero e sulla psicologia del loro autore. Ma, di fatto, sono as-
sai spesso esercizi spirituali che l’autore pratica egli stesso, e fa praticare al suo
lettore. Sono destinate a formare le anime18.
L’inversione del processo di spoliticizzazione della filosofia e il recu-
pero della dimensione del modus vivendi in seno ad essa sono chiari segni
di un cambio d’atteggiamento dell’uomo verso la disciplina. L’esistenza
della filosofia riscopre o assume un senso nuovo (per l’uomo). È ormai
matura per poterlo fare e i tempi lo richiedono. Ciò non vuol dire che il
filosofo di professione debba più frequentemente comunicare il “distilla-
to dei suoi pensieri” al “volgo”, agevolarne la comprensione in vario
modo, o che debba fare l’opinionista o debba competere con consiglieri
e consulenti di varia schiatta. Si tratta piuttosto di diffondere e animare
piccole-grandi comunità di ricerca filosofica, luogo di costruzione di
democrazia autentica, da una parte, e laboratorio d’autonomia di pensie-
ro, dall’altra, senza la tutela di nessun maestro, pregiudizio, opinione ed
emozione.

3. Il punto di vista formale


L’epistemologia delle pratiche filosofiche non può e non deve legarsi
ad alcuna particolare teoria o sistema filosofico. Pensare il contrario, in
realtà, è un po’ come ritenere ad esempio che la Logica, l’Etica o altri
ambiti di riflessione della grande famiglia delle scienze filosofiche deb-
bano essere ancorati alla singola filosofia di questo o di quell’autore (per
quanto complessa possa essere). Le pratiche filosofiche rappresentano
probabilmente un ramo della “grande famiglia” in questione, e come tali
dovrebbero essere considerate. Quando siano citati autori, come avviene
pure in queste pagine, semplicemente si discute un concetto giovandosi
dell’opinione di qualcun altro in proposito, cercando solo di tesaurizza-
re riflessioni già svolte, per quanto possibile. È del tutto sconveniente
cercare precursori, padri, padrini e simili. Il pericolo principale, altri-
menti, consiste in un doppio riduzionismo, a discapito della complessità
del pensiero dei filosofi coinvolti, da una parte, e della stessa portata
teorica delle pratiche filosofiche, dall’altra.

18 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. IX.

34
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

3.1. Quante filosofie?


L’esistenza dell’uomo è limite, precarietà e rischio, ciò che Giuseppe
Semerari definiva in una sola parola: insecuritas. «Insecuritas – egli chiari-
va – vuol dire, letteralmente, non-senza-cura. Cura ha qui il significato di
preoccupazione, affanno, difficoltà, pensiero angustiante e perturbante,
ecc. L’insecuritas investe l’esistenza umana nella sua globalità, a tutti i
livelli. Si tratta di un investimento non accidentale, non avventizio, ben-
sì strutturale e permanente. Perciò, l’insecuritas è, per l’uomo, essenzia-
le19. Questo non significa che la vita sia solo tristezza e sofferenza, sia
perché v’è una certa ambivalenza, e ciò che causa terrore, spavento e
angoscia può destare anche stupore, meraviglia o ammirazione, e sia
perché l’uomo, nel corso del tempo, s’è ben attrezzato, in vario modo,
per fronteggiare la propria condizione.
Che l’insecuritas è «essenziale» per l’uomo significa che esso è perma-
nentemente e strutturalmente
minacciato (1) dal suo stesso Corpo, esposto, dalla nascita in poi, agli assalti
delle malattie, ai morsi della indigenza e al destino del finale inevitabile disfa-
cimento totale; (2) dalla Natura, sempre pronta a scatenare impietosamente,
contro di lui, le sue strapotenti forze dei terremoti, degli uragani, delle tem-
peste solari, delle inondazioni, dei gravi sconvolgimenti metereologici, e a ri-
cordagli che le sue ricchezze, di cui egli si serve, non sono inesauribili e, un
giorno, finiranno per sempre; (3) dagli Altri, che hanno interessi opposti, per-
seguono obiettivi diversi, amano l’aggredire, il dominare, l’opprimere, il ri-
durre in servitù. L’insecuritas essenziale è che ciò per cui solamente l’uomo può
esistere (il Corpo, la Natura, gli Altri) costituisce, potenzialmente, affronti, of-
fese, pericoli per la sua stessa esistenza20.
A tutto ciò l’uomo risponde mediante l’invenzione e l’esercizio di
quelle che Semerari denomina le tecniche di rassicuramento, la cui organiz-
zazione e integrazione, più o meno sistematica e razionale, viene detta
“civiltà”. La Scienza e la Politica21 sono tecniche di rassicuramento, così
come la Religione22, nonché la Filosofia.
Il problema della insecuritas attraversa, penetra e avvolge l’intera storia filo-
sofica e la specificità della Filosofia è la specificità di come si risponde a ta-
le problema quando si fa filosofia. La molteplicità e la varietà delle filosofie
coincide con la molteplicità delle risposte. Le filosofie, tuttavia, possono
essere ricondotte a tre generi fondamentali. Il primo è la Filosofia come
progetto di sistemi metafisici, completi o incompleti che siano, rappresentan-

19 G. Semerari, Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano, 1982, p. 7.


20
Ivi, pp. 8-9.
21 “Politica” è intesa in questo caso in senso ampio, cioè non solo come gestione di go-
verno o amministrazione, ma pure, ad esempio, come Morale, Diritto o qualunque altro
settore che miri a relazioni certe e più sicure fra gli uomini.
22 Semerari definisce razionali le tecniche come la Scienza o la Politica, irrazionali quelle
come la Religione.

35
Alessandro Volpone

ti altrettanti paradigmi di risoluzione della insecuritas esistenziale, che ridu-


cono – comunque la riduzione avvenga – a “mondo apparente”, che il
“mondo vero” – dunque, assolutamente certo e sicuro – sovrasta in ogni
senso e direzione, sua Garanzia (o Fondamento, Grund) da sempre e per
sempre data, anche se ignorata o obliata o occultata. Che la Garanzia meta-
fisica si chiami Essere o Logo o Natura o Dio o Coscienza o Sostanza o Io
o Spirito o Ragione o Storia, ecc. […] Il secondo è la Filosofia, che si costi-
tuisce a legittimazione e autoriflessione (critica) delle altre tecniche di rassicu-
ramento (Scienza, Politica, Religione, ecc.) in rapporto alle finalità proprie
di ciascuna. Qui la filosofia funge da rassicuramento di secondo grado, tec-
nica di rassicuramento teorico della pratica delle tecniche di primo grado
(Scienza, Politica, Religione, ecc.). […] Nel terzo genere [rientrano] le con-
futazioni e le distruzioni, che la Filosofia fa delle false sicurezze e delle false
certezze, in vista di sicurezze e certezze più affidabili dal punto di vista del-
la insecuritas esistenziale dell’uomo, anche più contenute e limitate. Anche
la descrizione di una Götterdammerung, di un crepuscolo degli idoli in corso
può essere un modo di praticare la Filosofia quale tecnica di rassicuramen-
to23.
Questa è solo una concezione della filosofia, fra le tante, ma è quella
che in questa sede si preferisce privilegiare nella epistemologia “formale”
delle pratiche filosofiche, poiché il suo valore euristico, nella fattispecie,
si rivela apprezzabile. Attraverso di essa, ad esempio, assume nuova luce
il bisogno di rassicuramento e validazione diffuso nella società attuale,
di cui si diceva in precedenza, per il singolo o per la collettività, concer-
nente soprattutto decisioni e responsabilità nei confronti delle nuove
questioni morali, sociali, economiche, politiche, ecc. generate dal mon-
do contemporaneo. Le pratiche filosofiche rappresentano un nuovo
“strumento” di cui la Civiltà si dota all’uopo. Anch’esse possono essere
viste come tecniche di rassicuramento, fra le altre, provincia aggiunta di
quel territorio più esteso di lotta contro l’insecuritas chiamato appunto
Filosofia.
Il discorso che si sta conducendo, si noterà, rientra nella seconda del-
le categorie entro cui Semerari articola le filosofie, quello del rassicura-
mento di secondo grado24, mentre le pratiche filosofiche, in sé, non rien-
trano in alcuna di esse; ed è proprio questo che qui si vuole enfatizzare.
La loro esistenza, come fenomeno storico e culturale, rende datati sche-
mi classificatori come quello semerariano e probabilmente ogni altro
possibile, fatto prima d’oggi. Stiamo infatti parlando di qualcosa di “u-
nico” nella storia della filosofia occidentale, qualunque siano i preceden-
ti rintracciabili nella tradizione codificata.
Riflettiamo. Occorre innanzitutto distinguere, in seno alle pratiche fi-
losofiche, le determinazioni di fatto dal loro statuto epistemologico. In una
23 Ivi, pp. 14-15.
24 A rischio di enfatizzare l’ovvio, si sottolinea che ricadono in essa sia il punto di vista
materiale che quello formale dell’epistemologia delle pratiche filosofiche.

36
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

sessione di lavoro, cioè nel con-filosofare concreto, si può giungere a ri-


sultati che rientrano nell’uno o nell’altro dei generi menzionati, ma le
pratiche filosofiche in quanto tali, così e così determinate, non vi appar-
tengono. Piuttosto, esse a stento si contengono nei limiti stessi della filo-
sofia, mediante procedure auto-correttive (rispetto a temi, questioni, me-
todi, contenuti, ecc.) e auto-regolative (rispetto a relazioni intersoggetti-
ve, dinamiche di gruppo, scambi comunicativi, ecc.), come già sottoli-
neato. Le pratiche filosofiche sono metodi, programmi e curricoli25 di
ricerca comunitaria razionale con due principali obiettivi: il primo, mi-
noritario e immanente rispetto alla filosofia, è quello di divenire appunto
“filosofici”, vedendosi così davvero realizzati come tali; il secondo, prio-
ritario, trascende invece l’ambito disciplinare, comunque inteso, dive-
nendo al contempo “politico”, in senso ampio, rispetto alla sfera pubbli-
ca, ed “emancipativo”, cioè educativo, formativo, evolutivo, ecc., rispet-
to a quella privata.
Il primo obiettivo è particolarmente delicato da chiarire. La natura
“filosofica” delle pratiche filosofiche non è garantita a priori, ma realizza-
ta a posteriori. La loro legittimazione disciplinare è temporale, quindi falli-
bile e limitata. Essa è continuamente a rischio. Non può mai essere data
per scontata e, nel processo della sua realizzazione, bisogna ammettere
l’eventualità del fallimento, in varia entità e misura. L’indagine razionale
svolta in gruppo non è in sé filosofica; può divenirlo, ma non necessa-
riamente, cioè automaticamente e per sempre, ed è proprio questo il
punto. La “filosoficità” delle pratiche filosofiche – come si chiarirà oltre
– è di tipo sincategorematico.
Il secondo obiettivo è duplice, come affermato, e non riguarda la fi-
losofia in quanto disciplina, bensì l’uomo, che la fa, la coltiva, la rinno-
va. Si potrebbe dire che concerne più in generale la Bildung (cultura,
educazione, formazione, sviluppo, ecc.), dei tedeschi, ma bisogna enfa-
tizzarne la dimensione socio-politica. Volendo accostare i diversi modi
della filosofia alle forme possibili di governo, ad esempio, si deve rico-
noscere che probabilmente il con-filosofare è quello che meglio corri-
sponde agli ideali di democrazia e libertà26. Filosofare in gruppo me-

25 Un curricolo comprende, oltre a metodi e programmi, anche materiale stimolo, più o


meno strutturato (ad es.: racconti filosofici nel caso della Philosophy for Children di Lipman
o in pratiche affini, dilemmi morali nella Moral Education alla Kohlberg). Materiali, metodi
e programmi, nei curricoli, sono tra loro senz’altro connessi e comunque in qualche misu-
ra indipendenti.
26 John Dewey, ad esempio, in Democracy and Education ha definito la filosofia come
«general theory of education» (Macmillan, NewYork, 1944, p. 331, trad. it. Democrazia ed
educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1988), sebbene non abbia poi chiarito in che maniera
esercitare questa meravigliosa teoria. Sull’argomento cfr. anche: M. Lipman, «Democracy,
Education, and Philosophy for Children», in Philosophy News Service/ WHiP (What Happened in
Philosophy), September 2, 1999, http://www.philosophynews.com; oppure: id., Thinking in
Education, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1991 (in corso di traduzione).

37
Alessandro Volpone

diante l’esercizio del pensiero critico, argomentativo, creativo e valo-


riale stimola un certo tipo d’interazione sociale e culturale, e non altre.
È questa la vera educazione alla democrazia cui la filosofia può contri-
buire, e non quella di costruire un singolo sistema filosofico e diffon-
derlo (i.e., fornire contenuti specifici). In un caso si diffonde un certo
tipo di cultura, nell’altro semplicemente si costruisce un’ideologia27.
Questo tipo di filosofare è comunitario, collegiale, distribuito, compar-
tecipativo, paritario, tollerante, ecc. e non solitario, interiore, estatico,
isolato, autarchico, assolutistico, ecc. Non è d’altronde didascalico,
impostato, nozionistico, didattico, ma spontaneo, discorsivo, autono-
mo. In ogni caso, non è mai fine a se stesso, ma di una qualche utilità
reale più o meno immediata, almeno in linea di principio, nell’ambito
della dimensione pubblica o di quella privata, nella vita del singolo.
Ed è per questo che il filosofare delle pratiche filosofiche può definirsi
“strumentale”, cioè funzionale a qualcosa di diverso rispetto al circolo
della produzione-riproduzione disciplinare28.
Riprendiamo un attimo le fila del discorso. S’è detto che la filosofia,
in quanto produzione della Civiltà (occidentale), può esser vista come
tecnica di salvezza e rassicuramento, nel senso semerariano, presidio, se-
condo le modalità sue proprie, contro l’insecuritas, matrice fondamen-
tale della condizione umana, base tanto dell’affanno, dell’irrequie-
tezza, dello sgomento, ecc., quanto dello stupore, della meraviglia,
ecc., dunque costituzionalmente ambivalente (Summum ius, summa
iniuria). S’è detto che vi sono diverse modalità con cui il filosofare,
così inteso, è stato esercitato nel corso dei secoli, sedimentando nel
patrimonio culturale collettivo, il che corrisponde, in qualche senso,
ad una classificazione generale delle filosofie che la storia finora ha
prodotto (sistemi, analisi logico-linguistiche e decostruzioni). S’è detto
che le pratiche filosofiche rappresentano un elemento di novità, rispet-
to a tutto ciò, sia perché la loro natura filosofica è temporale e caduca
e sia perché il loro valore d’uso è soprattutto “politico”, in senso am-
pio (culturale, sociale, educativo, formativo, ecc.). Queste e altre carat-
teristiche fanno letteralmente saltare tassonomie come quella di Seme-
rari, fin troppo classiche, poiché le pratiche socio-culturali in oggetto
scompaginano nel profondo l’assetto classico della filosofia. A questo
punto vi sono almeno due punti da approfondire, isomorfi rispetto
alle differenze espresse, consistenti nei due seguenti binomi: sincatego-
27 Non è un caso che in alcuni Paesi neolatini (Messico, Chiapas, Brasile) la Philosophy for
Children sia stata valorizzata proprio nel senso indicato, cioè anche e soprattutto come
educazione al pensiero critico e democratico delle nuove generazioni. Sull’argomento vi
sono alcuni interessanti lavori di Walter O. Kohan, della Universidade do Estado do Rio
de Janeiro.
28 Cfr. in proposito A. Volpone, «Questioni epistemologiche concernenti le pratiche fi-
losofiche», in Atti del Convegno «Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare»
(Università di Padova, 2-3 settembre 2003), Liguori, Napoli, 2004 (in corso di stampa).

38
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

rematico-categorematico, da una parte, e produttore-fruitore, dall’altra.


La loro analisi consente di formulare due diverse classificazioni della
filosofia, o, meglio, delle filosofie, e questo è ciò che verrà fatto, nel
prosieguo, ma si ricordi che l’obiettivo non è questo: l’intento classifi-
catorio è meramente funzionale alla chiarificazione epistemologica,
non viceversa.
3.2. Kategorein e Synkategorein
Ascoltando la voce di Bessie Smith è evidente sin da subito che si
tratta di musica, anzi, di grande musica, e questo sia per la qualità e-
spressa, in sé, e sia per tutto il sistema di riconoscimento pubblico,
codificazione e perpetuazione della sua opera. All’inizio del racconto
La messe de l’athée (1836), Honoré de Balzac accosta bravura e gloria dei
chirurghi a quella di attori e cantanti, notando che tutti costoro recano
nella tomba qualcosa d’intrasmissibile. «La gloria dei chirurghi – egli
osserva – è simile a quella degli attori, che esistono soltanto finché
sono vivi, e la cui bravura sfugge ad ogni valutazione appena sono
scomparsi. Gli attori e i chirurghi, come pure i grandi cantanti, come i
virtuosi che centuplicano con l’esecuzione il poter della musica, sono
gli eroi d’un attimo, tutti». È chiaro che Balzac non aveva previsto
l’invenzione dei registratori audio e video, ma il suo discorso trascende
i limiti della storia, almeno in un duplice senso. In primo luogo, ciò
che Balzac afferma non è del tutto superato, poiché v’è qualcosa che
sfugge anche ai riproduttori odierni di suoni, d’immagini, ecc.; ad e-
sempio, la professionalità di un chirurgo può essere documentata e
tramandata in vario modo (oralmente, per iscritto o mediante svariate
forme di registrazione analogica e digitale), ma ciò non vuol dire – o
non ancora – che qualcuno possa più davvero fruirne, in prima perso-
na, nell’hic et nunc del presente, a meno che non s’inventino macchine
operative che riproducano l’expertise del singolo individuo. E anche
ammesso e non concesso che l’invenzione venga fatta, comunque non
sarebbe la stessa cosa. In secondo luogo, stiamo qui parlando di Balzac
proprio perché la sua opera rientra in quel corpus di contenuti, temi,
metodi, autori, ecc. denominato “letteratura” che, sotto guise molte-
plici di trasmissione disciplinare da una generazione all’altra, permane
nello spazio-tempo. L’osservazione di Balzac rientra essa stessa in ciò
di cui si sta qui trattando, tant’è vero che ne stiamo discorrendo a di-
stanza di quasi due secoli.
Veniamo alla filosofia. Esiste una certa idea della filosofia ed esiste
un corpus disciplinare riconosciuto, sedimentato nel corso dei secoli:
entrambe le cose sono strettamente connesse l’una all’altra, interagi-
scono tra loro e permangono nello spazio-tempo secondo il circolo
virtuoso della produzione-riproduzione disciplinare. Quando qualcu-
no pronuncia il nome di Platone, Kant o Hegel (o altri nomi della filo-

39
Alessandro Volpone

sofia), tratta delle loro nozioni fondamentali (contenuti, metodi, ecc.


dei diversi filosofi riconosciuti) oppure discute di “essere”, “verità”,
“conoscenza”, “virtù”, “giustizia”, ecc. (i grandi temi della filosofia),
sappiamo con ciò di trovarci nel mezzo di un discorso “filosofico”,
concernente la produzione disciplinare (teoretica, speculativa, militan-
te, ecc.) oppure la sua riproduzione, diretta o indiretta (codificazione
della disciplina, insegnamento, diffusione, divulgazione, ecc.). Il di-
scorso disciplinare filosofico, in qualunque forma si manifesti, è ipso
facto filosofico, appunto, altrimenti non sarebbe tale29. Un esempio
può servire a chiarire il concetto. Se supponiamo per ipotesi che
l’affermazione “A” è vera (oppure giusta, bella, ecc.), la prima conse-
guenza logica che se ne può trarre, ovviamente, è proprio che “A” è
vera (oppure giusta, bella, ecc.). In questo caso, non si fa altro che ap-
plicare il principio d’identità. Analogamente, la filosofia, in quanto
campo d’indagine così e così concepito, definito, riconosciuto, artico-
lato, sedimentato nel corso del tempo, ecc., non può essere altri che se
stessa, e tutto ciò che si abbevera alla sua fonte non può essere che
“filosofico”. Qualunque tipo d’esercizio disciplinare così compiuto (a
prescindere dalla qualità specifica del singolo esercizio, dalle doti di chi
lo compie, ecc.) è di per se stesso “filosofico”: è necessariamente tale, a
meno che, per assurdo, la filosofia non cambi, come entità disciplina-
re. La filosofia praticata, frequentata, discussa, estesa, affinata, ecc. in
questo modo è per forza di cose “filosofica”, lo è a priori, a prescindere
da tutto e da tutti, lo è in sé; pena: l’invalidamento, l’implosione di
tutto quanto fino ad oggi si è racchiuso e si racchiude sotto la deno-
minazione appunto di “filosofia”. Da tutt’altra parte risiedono invece
le pratiche filosofiche, che giungono a lambire temi, metodi, contenu-
ti, ecc. filosofici solo mediante uno sforzo auto-correttivo e auto-
regolativo di gruppo, cioè mediante un processo concreto di sviluppo
(temporale, mondano, ecc.), per gradi successivi, che può esser definito
“filosofico” solo a posteriori; e seppure sia divenuto tale, nel corso di
una sessione di lavoro, la sua compiutezza non è affatto importante,
poiché l’obiettivo principale del processo in questione è altro rispetto
a ciò.
L’esercizio della filosofia che parte dalla filosofia e ad essa ritorna –
non importa per quali strade – può esser detto “categorematico”, poiché
esso è in sé significante, compiuto, autonomo, ecc. addirittura ancor
prima di cominciare, secondo il ragionamento espresso. Quello invece
che parte dal vissuto concreto, comunque interrogato (esperito diretta-
mente, oppure riportato sotto forma narrativa, iconica, ecc.), e giunge
alla filosofia – se, come e quando giunge – è di tipo “sincategorematico”,

29 Così come se parliamo di secondo principio della termodinamica, ad esempio, di


campi gravitazionali, oppure di massa, energia, velocità, accelerazione, ecc., sappiamo di
trovarci nel campo della fisica; e così via per altre discipline.

40
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

poiché assume un significato solo in connessione ad altro, che può esse-


re rappresentato dai termini di un ragionamento, dal contesto, dalle cir-
costanze, dagli interlocutori, da vicende di vario genere, ecc.
Questa è solo una delle differenze tra categorematico e sincatego-
rematico. Un’altra, ancor più significativa, dal nostro punto di vista, è
quella tra ciò-che-è-già-tutto-dispiegato (secondo un atto unico) e ciò-
che-si-va-dispiegando (secondo un processo). Se diciamo, ad esempio,
“consideriamo l’insieme dei numeri naturali” stiamo parlando di qual-
cosa di categorematico, poiché, nella mente di chi concepisce l’insieme
numerico, esso è (o dovrebbe essere) già tutto dispiegato, cioè in atto.
Se invece cominciamo a contare: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 ecc.,
parliamo sì dello stesso insieme, ma esso è solo potenzialmente tale: ar-
riviamo ad esso in una maniera diversa, cioè sincategorematica30. Il pri-
mo è un evento unico di concepimento, il secondo è un processo. A-
nalogamente per la filosofia: se ci poniamo all’interno del circolo pro-
duzione-riproduzione disciplinare, è come se dicessimo “consideriamo
la filosofia”, già tutta dispiegata. Se invece cominciamo a riflettere,
argomentare, astrarre, generalizzare, ecc., iniziando da un punto di
partenza qualunque, giungiamo ad essa proprio attraverso il processo
che si va dispiegando. Nel primo caso la “filosoficità” del ragionamen-
to è categorematica (cioè a priori, o, alternativamente, necessaria, in
atto, ecc.), nel secondo è sincategorematica (cioè a posteriori, o, alterna-
tivamente, possibile, in potenza, ecc.). Chi si dedica alle pratiche filo-
sofiche, è chiaro, non ha problemi con la filosofia, bensì, tutt’al più,
con se stesso, con gli altri o col mondo. Molto spesso non si tratta ne-
anche di veri e propri “problemi”, ma semplicemente di “perché”; e
questi “perché” non sono quasi mai del tipo “perché Kant ha discusso
di ragion pura?” oppure “perché Heidegger ha scritto Sein und Zeit?”.
Piuttosto, si parte da interrogativi più vicini al vissuto comune, come
piccoli spunti tratti dalla quotidianità o dalla contingenza degli eventi,
che sovente dischiudono questioni fondamentali che l’esistenza e la
coesistenza continuamente ci pongono. Tanto può bastare, soprattutto
se si suppone che i grandi temi della filosofia, in fondo, non sono poi
così lontani da noi stessi.
Questa, dunque, la prima grossa distinzione che viene qui proposta
per il filosofare: v’è un filosofare categorematico che è di per sé filosofico,
poiché si pone come tale, rispetto alla filosofia, o, più in generale, alla
conoscenza, ed un filosofare sincategorematico che può divenire filosofico,
rispetto alla filosofia, ma non necessariamente. In quest’ultimo caso v’è
il rischio che il filosofare, in realtà, non sia affatto un “filosofare”, ap-
punto, ma si trasformi in qualcosa di diverso. Nella fattispecie, proba-

30 Questo aspetto del binomio categorematico-sincategorematico è stato ben messo in evi-


denza, ad esempio, da Georg Cantor nella Teoria del transfinito, o dagli Intuizionisti nel
dibattito sui fondamenti della matematica.

41
Alessandro Volpone

bilmente, l’unico risultato sarà quello di una apertura alla riflessione filo-
sofica, che, in sé, è già qualcosa, in confronto alla chiusura.
Giova a questo punto ricordare quanto da me già espresso altrove31,
trattando della nozione di “chiacchiera” (das Gerede) in Heidegger.
Ciò-che-è-stato detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autori-
tà. Le cose stanno così perché così si dice. […] La totale infondatezza della
chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, ma un fat-
tore determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza
alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera
garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione32.
Più avanti: «La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime
da una comprensione autentica, ma diffonde una comprensione indiffe-
rente, per la quale non esiste più nulla di incerto»33. Ancor più significa-
tivamente: «La chiacchiera, rifiutandosi di risalire al fondamento di ciò
che è detto, è sempre e recisamente un procedimento di chiusura. Que-
sta chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la
sua presunzione di possedere sin dall’inizio la comprensione di ciò di
cui si parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, svalutan-
doli o ritardandoli in
modo caratteristico»34.
Mediante questa o
altre riflessioni analo-
ghe, sembra del tutto
lecito affermare che se
non è possibile dimo-
strare che nelle prati-
che filosofiche si fac-
cia davvero filosofia, si
può almeno dire che
in esse non si fanno
affatto chiacchiere. Vi
sono contesti comuni-
cativi in cui la chiac-
chiera svolge una fun-
zione essenziale, inso-
stituibile, ma in una sessione di lavoro di qualsiasi pratica filosofica, inve-
ce, qualunque sia l’età degli interlocutori e dovunque ci si trovi (in
un’aula scolastica, sul posto di lavoro, in un caffè, ecc.), accade spesso

31 A. Volpone, «Questioni epistemologiche», cit.


32 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p.
213.
33 Ivi.
34 Ivi, p. 214.

42
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

che per fare un passo in avanti, in un ragionamento, se ne facciano mol-


ti di più all’indietro, nel tentativo di definire un concetto, motivare
un’opinione, giustificare un’ipotesi, una conclusione, ecc. Tutt’altro,
quindi, che «rifiutarsi di risalire al fondamento di ciò che è detto»,
tutt’altro che «procedimento di chiusura». Se chiacchiera significa ap-
punto dare le cose per scontate, per buone così come sono, di certo non
è questo il caso.
La posizione qui sostenuta può dunque essere illustrata mediante il
ramo di un’iperbole, asintotica rispetto agli assi coordinati (vedi figura:
Quadro generale). L’asse delle ordinate è quello dell’atteggiamento a-critico
della chiacchiera, di cui si diceva, mentre quello delle ascisse concerne
l’atteggiamento critico proprio della filosofia. Ebbene, probabilmente la
dimensione filosofica delle pratiche filosofiche giace lungo il ramo
d’iperbole così individuato, potendo spostarsi in grado minore o mag-
giore nell’una o nell’altra direzione, e comunque in maniera asintotica
verso le due estremità. Nel mezzo, si trovano operazioni come la pro-
blematizzazione, l’analisi, la riflessione, l’approfondimento, la generaliz-
zazione, l’astrazione, ecc., la cui cura risulta di fondamentale importanza
quando si voglia fare esercizio di filosofia.
Così pure si può raffigurare la transizione dalla (mera) conversazione
al dialogo vero e proprio (vedi figura: Aspetti collegiali, comunitari), in una
sessione pratica filosofica, mediante una rappresentazione analoga.
L’atteggiamento a-critico sull’asse delle ordinate indica questa volta la
conversazione, mentre quello critico sulle ascisse il dialogo vero e pro-
prio. Anche in questo caso, lo stato della situazione comunicativa giace
lungo il ramo dell’iperbole, spostandosi in un verso o nell’altro. Nel
mezzo si trovano questa volta l’auto-correzione (rispetto ai contenuti) e
l’auto-regolazione (rispetto al procedimento) del gruppo considerato
nella sua totalità.
Nell’una e nell’altra
figura, l’aspetto sincate-
gorematico, di cui fin
qui s’è detto, è rappre-
sentato dalla natura a-
sintotica del ramo d’i-
perbole rispetto ai pro-
pri assi. Ed utilizzando
la metafora dell’opera-
zione di passaggio al limi-
te (o semplicemente li-
mite) dell’Analisi mate-
matica, si può dire che
il filosofare delle prati-
che filosofiche, in realtà,

43
Alessandro Volpone

è un “passaggio al filosofare”, così come il dialogo un “passaggio al dia-


logo”. Entrambe le cose sono perfettibili, mai perfette. La loro natura è
asintotica, appunto. Lo scarto ineliminabile è il medesimo di quello fra
l’astrazione (o l’ipostasi), da una parte, e la realtà concreta, dall’altra:
nessun triangolo reale, infatti, corrisponderà mai completamente alla
nostra idea di triangolo.
3.3. Un passo oltre il circolo della produzione-riproduzione disciplinare
La produzione-riproduzione della filosofia come disciplina auto-
noma (in ambito universitario, scolastico, associazionistico, ricreativo,
ecc.), nella ricerca come nella diffusione in genere, impone costrizioni
ben precise nella trasmissione di temi, metodi e conoscenze nello spa-
zio e nel tempo. Pena: il deterioramento del corpus disciplinare, il dis-
solvimento della filosofia stessa. Tuttavia, v’è qualcosa della filosofia
che sembra non potersi risolvere in questi soli meccanismi. È per que-
sto che, a mio parere, si sente oggi il bisogno di un doppio binario
d’accesso alla filosofia, o, il che è lo stesso, l’esigenza di un suo doppio
utilizzo: uno per la disciplina, l’altro per la vita. Per chiarire questo
punto occorre chiedersi: cosa farne di un’esperienza di filosofia?35 Non
s’intende con ciò il problema delle modalità operative, comunicative,
didattiche, ecc. con cui eseguire l’esperienza. Tali aspetti riguardano il
ricercatore, l’insegnante o l’educatore, non l’epistemologo. In discus-
sione qui è invece il valore d’uso di un’esperienza filosofica, cioè il suo
orientamento pratico. In un’esperienza filosofica gruppale (almeno
diadica) sono almeno due gli interessi di cui tener conto: quelli (1)
della disciplina, dell’istituzione, ecc., da una parte, e quelli (2) del
gruppo o dei singoli individui, dall’altra. Se prevale l’interesse (1) sia-
mo nel circolo della produzione-riproduzione disciplinare, se prevale
l’interesse (2) entriamo invece nell’ambito delle pratiche filosofiche. Lo
spartiacque teorico fra l’una e l’altra dimensione della filosofia, quindi, risiede
anche nel valore d’uso socio-culturale dell’esperienza filosofica. In un caso chi
se ne giova è la filosofia stessa in quanto “oggetto” o “entità” culturale
da perpetuare nel corso del tempo, nell’altro caso la filosofia, prescin-
dendo dalla sua perpetuazione disciplinare, assume una connotazione
meramente “strumentale”, “funzionale” e “tecnica” (nel senso della
téchne dei greci o dell’instrumentum dei latini) nell’ambito di dubbi,
questioni, interrogativi o quant’altro possa concernere l’individuo con-
creto, che la (ri)utilizza per proprio diretto tornaconto nella sfera pub-
blica o in quella privata.
Fra l’una e l’altra frequentazione della filosofia, però, v’è almeno un
grado intermedio, secondo il criterio indicato. Si tratta della filosofia
cosiddetta “applicata” (oppure “sociale”, sebbene questa denominazione
35 Sulla questione del doppio binario d’accesso alla filosofia cfr. A. Volpone, «Questioni
epistemologiche», cit.

44
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

sia meno corretta), che oggi include ormai un mare magnum di attività
filosofiche o presunte tali. Con il termine composto di “filosofia appli-
cata” s’intende generalmente la discussione delle conseguenze logiche di
principi e sistemi filosofici in circostanze specifiche, oppure la riflessione
filosofica, per lo più di natura etica, su questioni del nostro tempo di
una certa rilevanza, generate soprattutto dai cambiamenti economici,
scientifici e tecnologici della società attuale. L’etica biomedica, o la bioe-
tica in generale, l’etica economica (o degli affari), quella computistica, o
delle reti informatiche, quella ecologica o ambientale, ecc. sono alcuni
tra gli esempi più noti di applicazione (iniziata a partire almeno dagli anni
Settanta) di contenuti e strumenti filosofici per analizzare e tentare di
risolvere problemi del mondo reale, mettendo alla prova i precetti che
derivano da questa o quella teoria dell’agire etico in nuove circostanze
storiche. Esempi ben noti delle questioni più dibattute sono l’aborto, il
divorzio, l’eutanasia, la sperimentazione sugli animali non umani, le
biotecnologie, l’ingegneria genetica, la farmacopea con molecole d’ori-
gine umana, la globalizzazione economica, i diritti-doveri dell’operatore
economico, l’impiego di immigrati irregolari, le manifestazioni di odio
via Internet, l’ambiente, lo sviluppo compatibile, l’eliminazione di rifiuti
tossici, ecc.
La filosofia delle pratiche filosofiche si differenzia dalla filosofia ap-
plicata sotto almeno due aspetti. In primo luogo, non v’è un sistema
privilegiato di principi da mettere alla prova in situazioni specifiche,
sebbene sia possibile in entrambi i casi discutere di diverse soluzioni
possibili in riferimento a problemi, dilemmi esistenziali e dubbi di varia
natura. In secondo luogo, non si hanno di mira problemi di vasta porta-
ta, come quelli menzionati, ma si parte da questioni personali, cui ov-
viamente possono far da sfondo problemi di più ampio respiro. Sempli-
ficando al massimo: l’una prospettiva parte di solito dal generale per
arrivare al particolare, l’altra sembra compiere il percorso inverso. Per
certi versi, tuttavia, la separazione può essere molto difficile da definire,
come nel caso della “bioetica clinica” e dei suoi operatori che, vis-à-vis,
in ospedali, centri di assistenza o ascolto, hanno di certo a che fare con-
temporaneamente sia con grosse questioni etiche che con problemi per-
sonali, nell’immediatezza e corporeità di un singolo individuo, della sua
storia, delle sue aspettative e prospettive reali d’esistenza.
Il fine precipuo di ogni “applicazione” della filosofia è la messa a
punto e il controllo di quanto è stato elaborato in ambito teorico-
speculativo, tradotto in situazioni e contesti reali. Tale esercizio, in effet-
ti, è a vantaggio più della disciplina stessa che dell’individuo che se ne fa
cultore, oppure, tutt’al più, fa gli interessi di entrambi. In una sessione
pratica filosofica, invece, a rigori, non si “applica” nulla, ma si elabora, si
crea, si co-costruisce qualcosa. Questo qualcosa, spesso, anziché essere il
raggiungimento di una conclusione, è semplicemente la modificazione

45
Alessandro Volpone

di un atteggiamento, un cambiamento intellettuale o una qualche sensa-


zione di migliore comprensione. In una sessione pratico-filosofica il ri-
sultato della produzione non pre-esiste rispetto agli interlocutori e al
contesto reale, poiché non si formulano ipotesi di soluzione (problem-
solving) se non v’è un problema, e l’oggetto di cui si discorre prende cor-
po all’interno del dialogo stesso, assumendo una certa forma e non
un’altra (problem-posing o problem-creating). Questioni, dubbi, interrogati-
vi, curiosità, ecc. e così pure analisi, conclusioni e tentativi di risposta
hanno natura eminentemente discorsiva.
La classificazione delle filosofie in base al criterio del dualismo discipli-
na-individuo, finora considerato e definito, radicato nel discrimine di
quale sia l’unità di vantaggio immediato dell’esercizio filosofico, può
essere dunque la seguente:

Filosofia ad disciplinam (obiettivi disciplinari)


Filosofia ad hoc (obiettivi disciplinari ed extra-disciplinari)
Filosofia ad hominem (obiettivi extra-disciplinari)

Nel primo caso, ad disciplinam, prevalgono gli interessi disciplinari e


siamo pienamente nel circolo della produzione-riproduzione della filo-
sofia (teoresi, attività speculativa di varia natura, studi storici e storiogra-
fici, insegnamento, diffusione, divulgazione, ecc.). Nel secondo la filoso-
fia si fa “applicata” e, mettendo in contatto fra loro le elaborazioni teori-
che e le situazioni concrete, ad hoc, gli interessi possono essere tanto del-
la disciplina, che viene con ciò consolidata, affinata, estesa, modificata,
ecc., quanto dell’individuo che la (ri)elabora o ne fruisce. Nel terzo caso
l’interesse individuale o di gruppo prevale nettamente su quello discipli-
nare. La filosofia origina dall’irriducibilità del mondo reale e autono-
mamente riscopre, mediante la riflessione critica, l’argomentazione, il
dialogo, l’astrazione, la generalizzazione, ecc., il concreto stesso. Ciò
ricorda le discussioni che gli Scolastici direbbero ad hominem, come quel-
le politiche, delle assemblee consultive o deliberative, o quelle dei dibat-
titi giudiziari.
In tutti e tre i casi descritti ciò che cambia – sia chiaro – non è la filo-
sofia o il filosofare, ma il modo di rapportarsi a questa occupazione u-
mana, così e così concepita, codificata, trasmessa nel corso del tempo.
Ogni ri-appropriazione della filosofia da parte dell’uomo, a seconda di
come venga realizzata, rinnova e al contempo modifica il rapporto fra
l’uomo e la filosofia, ma non cambia la filosofia in sé. La filosofia è una
soltanto, qualunque sia il nostro tipo di frequentazione, ma in ogni i-
stante si ha la possibilità di riscoprirla sotto una luce diversa, soprattutto
se si seguano sentieri differenti d’accesso.

46
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

4. Quante distinzioni?
Le classificazioni proposte e illustrate nei paragrafi 3.2 e 3.3 presenta-
no differenze di genere, e non di grado, rispetto alla classificazione delle
filosofie di Semerari, da cui il discorso, in questa sede, strumentalmente,
era partito. Si tratta di prospettive completamente diverse d’analisi, con
livelli discordanti di sviluppo e generalizzazione. Stessa cosa dicasi nel
caso, ad esempio, della distinzione di Chaïm Perelman fra filosofie prime
e filosofia regressiva36, secondo cui le une si basano su principi fondanti
considerati veri, la cui messa in discussione le invalida, mentre l’altra fa
scaturire i propri assiomi da situazioni determinate e particolari, che
vanno rivisti se il contesto si modifica. Ciò rientra nella sua critica del
concetto di ragione di matrice cartesiana e tende ad enfatizzare l’ambito
del probabile rispetto a quello del necessario. Quest’ultimo, per Perel-
man, è limitato a ciò che può essere dedotto in modo astratto e formale,
oppure ricavato per via empirica e sperimentale; l’altro, invece, più am-
pio, è il mondo dell’opinabile, entro cui si confrontano convinzioni e
pareri diversi, o si giudica sui valori37.
La tripartizione semerariana, forse, non va oltre ciò che Perelman
definisce come “filosofie prime”, poiché in essa, è chiaro, non v’è al-
cunché di rapportabile alla “filosofia regressiva”. Ma si potrebbe far
rientrare quest’ultima nella terza strada da lui indicata, cioè «le distru-
zioni, che la Filosofia fa delle false sicurezze e delle false certezze, in
vista di sicurezze e certezze più affidabili». Ogni filosofia, in fondo, è
critica e (ri)costruzione al tempo stesso, e con ciò si può definire tutto e
il contrario di tutto. A prescindere da incongruenze e coincidenze fra le
due tassonomie, tuttavia, il fatto è che, rispetto al fenomeno delle prati-
che filosofiche, entrambe risultano “datate”, per così dire. Esse non sono
in grado di contenere la sua natura teorica, pratica e storica, ma prima di
esplicitare meglio il motivo di ciò è opportuno puntualizzare qualcosa.
Non si pensi che Semerari, nella sua opera professionale, si sia mosso,
di fatto, altrove rispetto alla filosofia regressiva di Perelman38, quando, ad
esempio, cercava di indicare la strada per una “metafisica a misura d’uo-
mo”, collocata semplicemente al limite mutevole del noto e dell’ignoto
che mette continuamente in movimento la ragione umana, nella condi-
zione dell’insecuritas; oppure quando sosteneva la necessità di una filoso-
fia della scienza che si occupi di uno dei più grandi fenomeni della civil-
36 Cfr. C. Perelman, «Philosophies premières et philosophie régressive» (1949), in: id. e L.
Olbrechts-Tyteca, Rhétorique et philosophie. Pour une théorie de l’argumentation en philosophie
(1952), trad. it. Retorica e filosofia. Per una teoria dell’argomentazione in filosofia, De Donato,
Bari, 1979, pp. 121-139.
37 Cfr. anche: C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhé-
torique (1958), trad. it. Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino, 1966.
38 Con Perelman, Semerari condivide molti punti in comune, sebbene la provenienza
intellettuale dei due autori sia completamente diversa.

47
Alessandro Volpone

tà occidentale evitando sia gli eccessi del fondazionismo o, alternativa-


mente, della mera analisi logica, da un lato, e sia quello della distruzione
teorica di tutto quanto, dall’altro, badando invece solo ed insistente-
mente al télos dei Greci39. Un po’ tutta la sua produzione intellettuale
percorre in realtà una strada terza rispetto a ciò che egli definiva il “nar-
cisismo” o, all’opposto, il “masochismo” della ragione, entro cui, diret-
tamente o meno, la filosofia tradizionale, secondo la tassonomia men-
zionata, s’era venuta a suo parere articolando40. Dunque, anche lui ha
scandagliato variamente l’ambito del probabile – antagonista rispetto a
quello del necessario –, lo ha delineato, approfondito in vario grado,
come buona parte della filosofia della seconda metà del ‘900, ma, al
contrario di Perelman, non ha conferito ad esso alcuna chiara colloca-
zione nel proprio schema classificatorio, oppure forse, sull’argomento
specifico, è stato solo troppo generico.
Ma anche qualora si sia stabilito che autori come Perelman o Semera-
ri, in fondo, direttamente o meno, parlavano delle stesse cose, si potrà
ancora sostenere che la loro tassonomia, o, meglio, la loro visione dell’u-
niverso filosofia è comunque “datata”, come si diceva. Il razionalismo
filosofico dell’uno e dell’altro, infatti, per quanto sia aperto e soddisfi,
per strade diverse, la concretezza dell’esistenza, nasce dalla filosofia in
quanto filosofia, entità significante intellettuale e materiale fra altre entità
analoghe, oggetto fra gli oggetti, e ad essa ritorna semplicemente passan-
do, questa volta, per il mondo dell’opinabile, della contingenza, della
mutevolezza, ecc., anziché per l’ipostasi antica o moderna. Sostituire il
possibile (il “mai falso a priori”) al necessario (il “sempre vero a priori”), pe-
rò, non vuol dire, in sé, andare in filosofia oltre il circolo della produ-
zione-riproduzione disciplinare, tant’è vero che di Semerari e Perelman
qui ne sto parlando, mentre di questo o quello degli interlocutori della
mia ultima sessione pratica filosofica (di Philosophy for children, dialogo
socratico, caffè filosofico, ecc.) non ne faccio la minima menzione. In
questo momento siamo – io e chiunque stia leggendo queste pagine –
completamente all’interno del circolo in questione, senza alcuna speran-
za d’uscirne, se non facendo altrimenti: partire, direttamente o meno, da
uno spunto interno alla vita presente, al mondo dei significati che su di
essa edifichiamo, continuamente, per portarsi, mediante razionalizza-
zione e riflessione, verso la filosofia, o il filosofare, per approssimazioni,
cioè in maniera asintotica, per poi tornare, eventualmente, nel mondo
della vita, da cui si era partiti. Il processo è dialettico, proprio come
l’altro menzionato, ed entrambi si esplicano attraverso una tensione tra
filosofia e realtà, ma la meta è diametralmente opposta.

39 Su questo argomento e su quello precedente della metafisica rinnovata, si consiglia la


raccolta di saggi: G. Semerari, Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un razionalismo filosofico-
politico, Bertani, Verona, 1979.
40 Cfr. G. Semerari, «Narcisismo e masochismo della ragione», ivi, pp. 23-32.

48
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

Modello 1 (Filosofia ad disciplinam)

1.a realtà → filosofia

1.b filosofia → realtà → filosofia

Modello 2 (Filosofia ad hominem)

2.a filosofia → realtà

2.b realtà → filosofia → realtà

Come si vede, ciò che fa la differenza fra l’uno e l’altro processo è la


meta, e l’intermedio, nell’uno e nell’altro caso, diviene “strumento” per
il suo raggiungimento: la “realtà”, nella filosofia ad disciplinam, o la “filo-
sofia”, in quella ad hominem41. A cavallo fra le due, ecco invece il model-
lo processuale di quella ad hoc:

Modello 3 (Filosofia ad hoc)

3.a filosofia → realtà

3.b filosofia → realtà → filosofia

In questo caso non è importante la meta, bensì l’origine, e la filosofia,


non importa se intesa come disciplina o come modo di essere nel mon-
do, può rappresentare sia lo strumento che il fine del processo intellet-
tuale e materiale nel quale si sostanzia la filosofia cosiddetta “applicata”.
Essa è propaggine (sotto-caso 3.a) o completamento (sotto-caso 3.b) del-
la filosofia ad disciplinam, e soltanto di essa, poiché l’una inizia là dove
finisce l’altra: esse si giustappongono perfettamente.

1.a realtà → filosofia


3.a filosofia → realtà

1.b filosofia → realtà → filosofia


3.b filosofia → realtà → filosofia

La meta della “realtà”, nel Modello 2 (filosofia ad hominem) può con-


sistere, ad esempio, in una ricaduta di quanto elaborato a livello teorico

41 È proprio e soltanto questo ciò che intendo per valore “strumentale” della filosofia
nelle pratiche filosofiche (cfr. A. Volpone, «Questioni epistemologiche» e «Oltre le prati-
che filosofiche», cit.).

49
Alessandro Volpone

nell’agire presente, oppure solo in una modificazione di atteggiamenti,


una crescita intellettuale, morale e simili.
Attenzione, però, con ciò non siamo ancora nel mondo delle pratiche
filosofiche. La filosofia ad hominem non rappresenta tout court le pratiche
filosofiche (!), e la differenza è la medesima che può esserci tra un in-
sieme dato e uno qualunque dei suoi sottoinsiemi propri e non vuoti42.
(come illustrato nella figura qui sotto). La caratteristica fondamentale,
irrinunciabile, di cui non s’è tenuto conto finora è la presenza di inter-
locutori, cioè la dimensione comunitaria del filosofare, senza la quale nessu-
na pratica filosofica, fra quelle definibili tali, può esistere. Detto tra pa-
rentesi, è soprattutto per tale motivo che è meglio definire i membri dei
gruppi di lavoro delle pratiche filosofiche “ragionatori”, anziché “pensa-
tori” o altro43.

42 Si dice che un insieme A è sottoinsieme proprio dell’insieme B, se ogni elemento di A è


anche elemento di B, ma esiste almeno un elemento di B che non appartiene ad A.
43 «Con una terminologia che, in altra sede, mi sono permesso di mutuare dalla recente
riflessione anglo-americana in materia di logica induttiva applicata, ho ritenuto opportuno
definire gli interlocutori di una sessione pratica filosofica come reasoners, cioè dei “ragiona-
tori”, o, meglio, dei “ragionatori creativi”. L’alternativa possibile è ovviamente quella di
“pensatori” (corrispondente all’inglese thinkers), ma risulta meno calzante, dal mio punto di
vista, per almeno due motivi. In primo luogo, il termine “pensatore” è probabilmente più
impegnativo rispetto a quello di “ragionatore” (pensatori sono definiti solitamente i filoso-
fi di professione), pur ammettendo che l’uno non sia meno generale dell’altro (pensatori,
ad esempio, sono detti sia filosofi occidentali che santoni e saggi di religioni o tradizioni di
pensiero orientali). In secondo luogo, “pensatore” può essere anche qualcuno che medita
in perfetta solitudine, e questo di certo non esprime la dimensione sociale, comunitaria
della riflessione in una sessione pratica filosofica. Il latino ratio, cioè “ragione, conto, calco-
lo”, giustifica espressioni come “usare la ragione” o “muoversi con raziocinio”, le quali
sembrano confermare l’idea appunto di pensare, ponderare. Ma nell’arcaico uso transitivo
del verbo “ragionare”, ormai perso, si intravede invece una fondamentale differenza rispet-
to a tutto ciò, che è poi il motivo per cui questo verbo può anche essere adoperato come
sinonimo di discutere, conversare e simili (ad esempio “stanno ragionando di cose impor-
tanti”). Scrive Dante nella Divina Commedia: “Poscia che m’ebbe ragionato questo”; e
Carducci nelle sue Odi: “Il parer mio ti ragionerei se fossi presente a te”. Seguendo questa
traccia semantica, diviene pressoché impossibile adoperare in maniera intercambiabile
ragionare e pensare». (A. Volpone, «Pratiche filosofiche, forme di razionalità…», cit., pp.
17-18.)

50
Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

La dinamica processuale definita nel Modello 2, nel caso specifico, di-


viene la seguente:

Caso particolare del Modello 2 (Pratiche filosofiche):

a con-filosofare → realtà

b realtà → con-filosofare → realtà

Il con-filosofare può abbeverarsi alla filosofia o al filosofare, comun-


que si vogliano intendere, ma questo non è rilevante rispetto a quanto
si sta qui sostenendo. Può accadere, ad esempio, che il concetto di epo-
ché di Husserl venga perfettamente snocciolato nei suoi vari punti, nel
corso di un dialogo, con o senza esplicito riferimento al filosofo tede-
sco44. Ma questo non è rilevante, o, almeno, lo è relativamente, perché
ciò che più importa, nel caso delle pratiche filosofiche, è il fatto che
qui ed ora si stia filosofando insieme, cioè, appunto, si stia con-filoso-
fando. Seppure Husserl in persona partecipasse al dialogo, sarebbe la
stessa cosa, perché, come Jacques Derrida ha magnificamente espresso,
mediante il concetto di “droit-devoir à l’argumentation”, «coloro che si
raccolgono nel nome e sotto il titolo della filosofia devono ambire ad
essere giustificati, in ogni istante, e a ri-discutere non solo ogni sapere
determinato, ma anche il valore stesso del sapere e ciascun presuppo-
sto racchiuso sotto il nome di filosofia»45.
Non sempre, tuttavia, alla dimensione comunitaria è attribuita l’im-
portanza che merita, anche da parte degli “addetti ai lavori”, sicuramente
per l’assenza attuale di una corretta epistemologia delle pratiche filosofi-
che. Gerd Achenbach, ad esempio, iniziatore della consulenza filosofica,
scrive in uno dei suoi principali lavori: «Die konkrete Gestalt der Philo-
sophie ist der Philosoph: und er, der Philosoph als Institution in einem
Fall, ist die Philosophische Praxis»46. Che il filosofo, o, meglio, il filosofo
praticante rappresenti in sé, hic et nunc, la Philosophische Praxis, cioè, nella

44 Nelle pratiche filosofiche, sarebbe opportuno non fare mai riferimenti espliciti a
questo o quel filosofo della tradizione disciplinare, perché, in qualche senso, è come
fare entrare nel gruppo un nuovo ragionatore, che, però, non può usufruire del diritto-
dovere all’argomentazione se non per interposta persona. Questo è scorretto: nei con-
fronti di se stessi, dei propri interlocutori e dello stesso filosofo menzionato. L’intro-
duzione in oggetto altera il dialogo, che si va svolgendo, e incurva la trama delle rela-
zioni comunicative, che si va strutturando, ma nessuno potrà mai sostituirsi completa-
mente al filosofo richiamato, a meno di non essere proprio lui, in quel momento e in
quel contesto.
45 J. Derrida, Du droit à la philosophie, Galilée, Paris, 1990, p. 33 (mia traduzione).
46 G. B. Achenbach, Philosophische Praxis, Dinter, Köln, 1984, p. 14. «La figura in cui la
filosofia si concretizza è il filosofo: ed egli, in quanto istituzione della filosofia nel caso
specifico, è la pratica filosofica» (mia traduzione).

51
Alessandro Volpone

terminologia achenbachiana, la consulenza filosofica, può anche andar


bene, nel senso di una sovrapposizione tra l’operatore e la funzione da
esso svolta47. Ma che “la filosofia si concretizzi nella figura del filosofo”,
cioè, nella fattispecie, del consulente filosofico, o, peggio ancora, che il
consulente filosofico sia “l’istituzione della filosofia nel caso specifico”,
non è affatto sostenibile, poiché si tratta di un’ipostasi bella e buona,
almeno per due motivi. In primo luogo, in una sessione pratico-
filosofica la filosofia non pre-esiste in alcun modo, né come disciplina
né come entità incarnata. La sua natura, s’è detto, è sincategorematica.
L’avvio di una sessione di pratica filosofica, in sé, non ha alcunché di
“filosofico”: la filosofia semplicemente non c’è, non esiste, né sotto
forma di cose né di persone. La “filosoficità”, se e quando emerge, si
sviluppa in corso d’opera, in maniera discorsiva e temporale, e come tale
permane costantemente caduca, limitata, finita, vivente, reale, ecc. Essa è
il risultato di un processo, non il suo presupposto; è l’omega, non l’alfa.
In secondo luogo, il filosofare pratico filosofico in realtà è un con-
filosofare, cioè è imprescindibile dal dialogo. La filosofia, in esso, è una
co-costruzione di conoscenza, collettiva, distribuita, paritaria, argomenta-
tiva, ecc. Il dialogo è ciò in cui “la filosofia si concretizza”; è esso che
può divenire “filosofico”, cioè che può essere considerato “l’istituzione
della filosofia nel caso specifico”, ma non le persone. Questo vale anche
se gli interlocutori si chiamino Immanuel Kant e Friedrich Hegel, redi-
vivi.
Non è chiara l’importanza attribuita da Achenbach al filosofo, nella
sua definizione, anziché all’interazione dialogica. Il suo è un anti-
costruttivismo in piena regola, un solipsismo, un individualismo, un
primato del singolo rispetto al processo eminentemente comunitario che
lo vede coinvolto. Il consulente filosofico non è la filosofia, affatto, per-
ché la filosofia delle pratiche filosofiche, che è eminentemente un con-
filosofare, in realtà, può nascere solo ed esclusivamente con l’aiuto di
almeno un interlocutore.
La dimensione comunitaria è di cruciale importanza nelle pratiche fi-
losofiche, così e così definite. E anch’essa contribuisce a scompaginare
l’assetto della filosofia rispecchiato nelle tassonomie classiche di cui si
diceva. Ogni ragionatore, infatti, è anche un pensatore, come tradizio-
ne vuole, qualunque sia il tipo di filosofia cui egli pensi (edificata sulle
rocce del necessario o persa fra le sabbie del probabile), ma non vale
l’inverso. L’uno semplicemente costruisce significati, l’altro, soprattut-
to, li negozia. La differenza è la medesima esistente fra l’uno e il mol-
teplice, la parte e il tutto. Un sistema di parti manifesta proprietà, co-
siddette “emergenti”, in alcun modo riconducibili alla somma dei suoi

47 Nella logica matematica questo è abbastanza comune. L’espressione f(x), ad esempio,


rappresenta una certa funzione, così e così articolata, ma può rappresentare anche lo stru-
mento per svolgerla (e.g., una calcolatrice), oppure l’operatore che la svolge.

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Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica

elementi costitutivi. Il logos prodotto all’interno di una comunità di


ricerca filosofica non è di certo indifferente rispetto agli individui
coinvolti nel processo d’elaborazione, ma il risultato ottenuto non
rappresenta la semplice addizione dei loro singoli pareri. Elaborare un
pensiero è una cosa (l'operazione può esser fatta benissimo da soli);
elaborarlo mediante una negoziazione di significati è un'altra cosa (in
questo caso, la condizione comunitaria è fondamentale e irrinunciabi-
le). Anche per questa strada, dunque, si potrà dire che la differenza fra
la filosofia ad disciplinam e le pratiche filosofiche, appartenenti, secon-
do le modalità specificate, all’ambito della filosofia ad hominem, è di
genere, non di grado.

5. Epilogo
Torniamo alle tassonomie di cui si diceva, cercando di concludere. Lo
scopo per cui se n’è discusso, nella presente sede, è semplicemente quel-
lo di chiarire meglio, per analogia o per contrasto, la dimensione epi-
stemologica delle pratiche filosofiche. Sono state dapprima introdotte
due discriminanti: (1) la distinzione fra un esercizio di tipo categorema-
tico della filosofia e uno di tipo sincategorematico e (2) l’oltrepassamen-
to del circolo produzione-riproduzione disciplinare. Esse consentono di
circoscrivere il campo di una filosofia definibile ad hominem (contrappo-
sta ad una ad disciplinam e ad una ad hoc). L’ambito delle pratiche filoso-
fiche, però, collocato all’interno di questo campo, ha bisogno ancora di
un terzo discrimine: (3) l’uso del con-filosofare, cioè quello di un’in-
terazione dialogico-filosofica di natura auto-correttiva (rispetto a conte-
nuti, forme e metodi) e auto-regolativa (rispetto ad abilità comunicative,
sociali e politiche in senso ampio).
In termini kantiani, si può dire che tutta quanta la filosofia ricono-
sciuta finora è sempre stata “analitica a priori” oppure “sintetica a priori”,
rispetto a se stessa, mentre oggi essa compare anche sotto forma “sinteti-
ca a posteriori”. Quella “analitica a priori” guarda solo ed esclusivamente
a se stessa, quella “sintetica a priori” trova nel mondo il proprio fonda-
mento, ma alla fine torna comunque a se stessa. Quella “sintetica a poste-
riori”, invece, guarda al mondo e solo al mondo. La prima e la seconda
possono garantire l’universalità della riflessione umana o qualunque al-
tra cosa, ma non riusciranno mai dimostrare che tutto ciò sia escluso
dalla terza. Il Possibile non è mai falso a priori. Fuor di metafora: non si
può dimostrare a priori, cioè in linea di principio, che la filosofia delle
pratiche filosofiche, o, più in generale, quella ad hominem non è “filoso-
fia”. L’unica maniera di farlo è soltanto a posteriori (cioè sessione dopo
sessione, caso dopo caso, ecc.), s’è detto ampiamente, e in fondo è pro-
prio questo il rischio del Synkategorein.

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Alessandro Volpone

A questo punto è chiaro perché tassonomie come quella di Semerari


o Perelman, o qualunque altra possibile, come ad esempio la ben nota
distinzione tra filosofia analitica, filosofia ermeneutica e materialismo
storico-dialettico, non vanno per niente bene al fine di comprendere il
fenomeno delle pratiche filosofiche. Non sono sbagliate, ma semplice-
mente fuori luogo. Pensare di farsene qualcosa, nel caso specifico, è un
po’ come voler ramazzare il deserto del Sahara con una scopa. Il fatto è
che le pratiche filosofiche pongono il problema di dover riflettere sulla
Filosofia come non è mai stato fatto prima: non si tratta più di dover
distinguere fra approcci, sistemi e gruppi di sistemi filosofici, ma di (tor-
nare a) discutere della natura stessa della filosofia. Il resto è conseguen-
za48.

48 Ringrazio Roberto Frega per la disponibilità costante e appassionata a riflettere su temi


di comune interesse, e per l'acutezza dei suoi commenti e suggerimenti.

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