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FREUD (1856-1938) E LA SUA RIVOLUZIONE PSICOANALITICA



La psicoanalisi, terza “ferita narcisistica”
“Nel corso del tempo l’umanità ha dovuto sopportare da parte della scienza due grandi
mortificazioni del proprio ingenuo amor proprio. La prima, quando apprese che la Terra non è il
centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, nella sua
grandezza, è difficilmente immaginabile. Essa è associata al nome di Copernico, benché già la
scienza alessandrina [età ellenistica] avesse proclamato qualcosa di simile. La seconda, poi,
quando la scienza biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione,
gli dimostrò la sua provenienza dal mondo animale e l’inestirpabilità della sua natura animale.
Questo sovvertimento di valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto l’influsso di Darwin, di
Wallace e dei loro precursori, non senza la più violenta opposizione da parte dei contemporanei.
Ma la terza e la più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da
parte dell’odierna indagine psicologica, la quale tende a dimostrare all’Io che non solo egli non è
padrone in casa propria, ma deve fare affidamento su scarne notizie su ciò che avviene
inconsciamente nella sua vita psichica” [da S.Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1916].
In questo breve testo Freud appare del tutto consapevole di avere rivoluzionato non solo la psicologia, ma la
concezione filosofico-antropologica dell’uomo. La psicoanalisi freudiana infligge all’uomo la “terza ferita
narcisistica”, “la più scottante” perché fra crollare la coincidenza tra mentale e razionale, che era ovvia per la
tradizione scientifica e filosofica occidentale, da Platone e Aristotele a Cartesio, Kant ed Hegel (vedi il mondo
delle idee di Platone, “l’animale razionale” di Aristotele, la res cogitans cartesiana, l’intelletto di Kant e la
ragione hegeliana); e rivela – scandalosamente – che la psiche è in larga misura istintuale, irrazionale,
inconscia (cioè non trasparente alla consapevolezza).

Un ebreo a Vienna, dai tempi della Felix Austria di fine Ottocento all’Anschluss del 1938
Sigmud (per esteso Sigismundus Shlomo) Freud nacque nel 1856 in Moravia (periferia dell’impero asburgico, oggi
repubblica ceca), nipote di un rabbino e figlio di un modesto commerciante di lana e della sua giovane seconda
moglie. Per le difficoltà economica, il padre si trasferì con la numerosa famiglia a Vienna, nel tradizionale
quartiere ebraico di Leopolstadt, quando Sigmud aveva quattro anni. Scolaro dotatissimo, Sigmud si iscrisse
alla facoltà di medicina a 17 anni, ma già dagli anni del liceo aveva rivolto la sua curiosità intellettuale in molti
campi: era un divoratore di libri di letteratura, arte, filosofia, scienze, curioso di archeologia, dotatissimo nelle
lingue (oltre alla sua lingua-madre, il tedesco, imparò francese, inglese, italiano, spagnolo oltre al latino e al
greco studiati a scuola, e a un po’ di ebraico). Il suo rapporto con la religione della famiglia fu complesso: era
rigidamente ateo, e impose la rinuncia a ogni pratica religiosa anche alla moglie, quando si sposò nel 1886;
però mantenne sempre un profondo legame con l’identità culturale ebraica, disapprovando i molti ebrei
“assimilati” cioè convertitisi al cristianesimo.
In questo, anche la situazione di Vienna e dell’Austria di fine Ottocento-inizio Novecento, in cui Freud si formò,
era complessa, ambivalente. Vienna, centro di un grande – sia pur declinante – impero multietnico, era una
delle tre grandi capitali culturali europee, assieme a Parigi e a Berlino, e protagonista della fioritura scientifica,
artistica e letteraria della capitale austriaca era una borghesia in gran parte ebraica. La rapida ascesa
intellettuale degli ebrei, e la loro integrazione nella borghesia viennese, era stata possibile grazie alla caduta
delle discriminazioni giuridiche cui erano stati soggetti fino a metà Ottocento. Contro questa integrazione, in
Austria prima che altrove, emerse un nuovo antisemitismo di tipo razziale, alimentato da partiti di destra
xenofobi e antisemiti (ricordiamo che Adolf Hitler era austriaco). Nel 1897, quando divenne sindaco di Vienna
il demagogo antisemita Karl Lueger, Freud valutò la possibilità di emigrare a Londra, ma lo fece solo 40 anni
dopo (pochi mesi prima della morte), quando nel 1938 l’Austria fu invasa dalla Germania nazista, che già da
anni aveva messo al bando e bruciato le sue opere. Pur con frequenti viaggi all’estero, anche negli Stati Uniti
(e quasi ogni anno in Italia), Freud visse dunque tutta la sua vita, una tranquilla esistenza borghese, a Vienna.
Studente ambizioso e consapevole delle sue doti, Freud si trovò però preclusa la carriera universitaria, per la
forte ostilità antisemita presente anche nel mondo accademico. Inoltre la ricerca, cui si dedicò inizialmente nel
campo della neurologia, era poco remunerativa. Per questi motivi, pressato da problemi economici, Freud si
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orientò verso la psicopatologia e si diede alla professione privata, che gli consentì di utilizzare i casi clinici
come banco di prova delle sue ricerca.

Dall’ipnosi, con il caso di Anna O., al metodo delle libere associazioni e dell’analisi dei sogni
In quegli anni ’80, grazie a una borsa di studio a Parigi, era entrato in contatto con il famoso Jean Martin
Charcot, uno dei pionieri dello studio delle malattie mentali, e il primo a utilizzare l’ipnosi come terapia.
La scienza ottocentesca, di stampo positivista, aveva iniziato a considerare i disturbi mentali come malattie, e
tendeva a farli risalire a cause organiche, cioè somatiche. Era già un enorme progresso rispetto ai secoli
precedenti quando, va ricordato, la “follia” veniva criminalizzata (basti pensare agli “indemoniati”, e alle
“streghe”, che per secoli, fino al Settecento, venivano mandate al rogo). Rispetto a quel passato, era un
progresso anche l’internamento dei casi più gravi (ma non solo di quelli…) nei manicomi, che nacquero
proprio nell’Ottocento. A fine secolo, poi, si sviluppò una particolare attenzione per una patologia, allora in
forte espansione tra le donne dei ceti altolocati, chiamata isteria. Il termine risaliva al famoso medico greco
Ippocrate, e derivava da histera (=utero), perché riguardava le donne: secondo Ippocrate, era un disturbo
provocato dall’assenza di rapporti sessuali. Nel clima positivista della scienza ottocentesca, si cercarono
cause su basi organiche (es. malformazioni dell’ utero), ma senza successo. Charcot per primo ipotizzò cause
non somatiche ma psicologiche, legate a traumi emotivi, e mediante l’uso dell’ipnosi ottenne che le pazienti
rievocassero quei trami: in tal modo, ne prendevano coscienza e si liberavano dei relativi sintomi. Però gli
effetti benefici duravano solo per il tempo della terapia, poi le pazienti regredivano. Freud, dopo l’esperienza
parigina, entrò in stretto rapporto di collaborazione-discepolato col medico viennese Josef Breuer, che
utilizzava a sua volta il metodo dell’ipnosi, e che per primo definì “catarsi” o “abreazione” la liberazione delle
emozioni. Dalla collaborazione con Breuer nacque nel 1895 l’opera Studi sull’isteria, accolta peraltro con
molta freddezza dagli ambienti scientifici. Breuer coinvolse Freud nel caso clinico di Anna O., caso che
divenne il punto di partenza della psicoanalisi. Si trattava di una giovane paziente, ricca, colta e intelligente,
che alternava una serie impressionante di sintomi: paralisi ricorrenti, disturbi visivi, fobie, allucinazioni e
incapacità temporanee di parlare la propria lingua (il tedesco, cui sostituiva l’inglese). Sotto ipnosi, ella riuscì a
risalire per ciascun sintomo alla causa scatenante, cioè a ricordare episodi del passato, variamente legati a un
lungo periodo di assistenza al padre malato: le rievocazioni prima riacutizzavano violentemente i sintomi, poi li
facevano scomparire, tanto che la stessa paziente definì questo approccio talking cure. In forme diverse, i suoi
problemi si rivelarono legati al rapporto ambivalente col padre, oggetto di profondo amore, ma anche di odio
(che peraltro Anna O. non poteva legittimarsi) per i tanti anni sacrificati ad accudirlo.
Riportiamo brevemente un esempio. Un grave sintomo, l’improvvisa e temporanea idrofobia (incapacità di
bere), scomparve quando la paziente ricordò sotto ipnosi un episodio del passato, quando aveva provato
ripugnanza alla vista del gatto della governante che beveva da una tazza (destinata alle persone). La
repulsione per quell’atto era dovuta all’odio per la governante, alimentato anche da una certa gelosia nei
confronti del padre. Anna O. aveva represso la sua reazione istintiva, cioè non si era data il permesso di
sfogarla [ad esempio sbottando: “Tieni al suo posto quel gattaccio, brutta stronza, che oltretutto tenti anche di
circuire mio padre!”], ma d’altra parte non aveva potuto cancellare quell’emozione negativa, bensì l’aveva
“rimossa” cioè spostata nell’inconscio. Ella aveva poi adottato come “soluzione di compromesso” – del tutto
autolesionistica – il precludersi l’atto del bere, così riprovevole perché fatto dal gatto della governante.
Come sarebbe emerso dagli studi successivi di Freud, durante la terapia il/ la paziente attua il “transfert”, cioè
concentra sul terapeuta le forti emozioni relative ai diversi contesti relazionali in cui vive, sia di ostilità sia di
attrazione: in particolare, tende a “innamorarsi” del/della terapeuta. Ciò accadde nel caso di Anna O., e
spaventò Breuer (anche perché si manifestò anche l’altro fenomeno tipico, uguale e di segno opposto: il
“contro-transfert” del terapeuta, qui verso la giovane e bella paziente), per cui egli interruppe bruscamente la
terapia. Il disaccordo tra Breuer e Freud su come interpretare e gestire quel problema divenne forse il motivo
per cui ruppero la loro collaborazione. Dopo quella rottura, Freud trascorse gran parte degli anni ’90 in un duro
isolamento intellettuale (che in seguito paragonò a quello dei solitari esploratori di nuove terre), analizzando
pazienti e anche se stesso, ma quella fertilissima esplorazione del mondo dell’inconscio era iniziata con in
caso di Anna O.. Da quegli anni di lavoro intenso, solitario e spesso frustrante, Freud riemerse dando alle
stampe, nell’anno 1900, L’interpretazione dei sogni [vedi in appendice], che egli considerò il suo capolavoro e
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l’atto di nascita di una nuova scienza: la psicoanalisi o psicologia del profondo. Per arrivare a questo, Freud
aveva abbandonato la tecnica dell’ipnosi (per gli inconvenienti già citati) in favore del metodo delle “libere
associazioni”: il paziente, sdraiato sul celebre lettino dell’analisi, era invitato a lasciare fluire liberamente i
propri pensieri, in modo spontaneo, senza controlli e autocensure, perché ciò consentiva di aggirare le
“resistenze” che la parte conscia della nostra psiche oppone alla rievocazione, cioè a riportare alla luce quanto
ha “rimosso”. Forse alla luce delle sue passioni archeologiche, Freud paragonò questo tipo di indagine al
“disseppellimento di un passato sepolto”, le cui iscrizioni in una lingua morta vanno pazientemente
decodificate, imparando i segni e le regole di quella lingua. Si noti che Freud non scoprì l’esistenza e
l’importanza dell’inconscio. Da attento frequentatore del dibattito culturale, egli sapeva che già i filosofi
Schopenhauer (con la sua nozione di “volontà di vita”), e Nietzsche (con la categoria del “dionisiaco”, e poi
parlando esplicitamente di inconscio) avevano teorizzato l’esistenza di moventi irrazionali e istintuali alla base
dell’agire umano. Freud si considerò invece, legittimamente, lo scopritore del metodo per rendere decifrabile
l’inconscio, cioè del linguaggio per decodificarlo e fornirne una spiegazione razionale, che secondo Freud
esiste sempre (come Shakespeare aveva fatto dire di Amleto: “C’è del metodo in questa follia”).
All’interno del metodo delle libere associazioni, Freud scoprì che particolarmente feconda era l’analisi dei
sogni, da lui definita “la via maestra dell’accesso all’inconscio”. Perché?
In primo luogo, perché se il problema è quello di aggirare le “resistenze” che la coscienza frappone, il sogno
rappresenta la fase in cui queste difese sono non assenti, ma più blande (come sentinelle più… pigre o
distratte). In secondo luogo, perché il sogno – ecco la grande intuizione di Freud – è del tutto analogo al
sintomo nevrotico (nell’esempio prima citato di Anna O., l’idrofobia): entrambi, infatti, rappresentano la
soddisfazione parziale (di compromesso, abbiamo detto prima) di un desiderio rimosso, proveniente
dall’inconscio [vedi esempi in appendice]. Decifrare i sogni, dunque, può fornire la chiave per accedere a quelle
rimozioni che provocano il sintomo nevrotico, ovvero fanno sì un disagio psicologico si esprima in un disturbo
nervoso, che si somatizza (ad esempio nei tic nervosi, o in disfunzionalità, nella sfera sessuale o in altri
organi: cefalee, gastriti, ecc.), o si manifesta nella sfera relazionale (fobie, complessi, paure immotivate...).
Freud scoprì che siccome il sogno – come il sintomo nevrotico – è una “soluzione di compromesso”, esso è
composto di parti che vanno accuratamente distinte: il contenuto latente e il contenuto manifesto. Il secondo è
quello che ricordiamo al mattino (se la censura non è troppo forte da impedircelo), ed è il risultato di due forze
opposte: il contenuto latente, cioè profondo, espresso dall’inconscio, e dall’altra parte le censure ad esso
frapposte. Per aggirare almeno in parte queste censure, l’inconscio camuffa il contenuto con una serie di
meccanismi, da Freud meticolosamente analizzati, e qui solo accennabili: la condensazione (un personaggio,
o un dettaglio del sogno che ne rappresenta diversi, anche opposti); lo spostamento (un personaggio del
sogno che sta al posto di un altro), e altri. L’inconscio, dal quale il sogno proviene, non ha vincoli spaziali,
temporali, causali, perché è del tutto irrazionale (come era la “volontà di vita” di Schopenhauer): un desiderio o
un dolore provato nella prima infanzia può ripresentarsi, sia pur mascherato, a distanza di decenni con intatta
intensità emotiva. Freud definisce “lavoro onirico” la trasformazione che il contenuto latente subisce ad opera
della censura, e che lo trasforma nel contenuto manifesto. L’analisi del sogno, svolta in collaborazione tra
terapeuta e paziente nella seduta, ha il senso e il significato opposto: svelare il contenuto latente attraverso gli
indizi, le tracce, a partire dal contenuto manifesto e dal contesto (la storia del paziente, e gli accadimenti del
giorno precedente il sogno). La collaborazione tra paziente e terapeuta, ovvero la relazione terapeutica, è un
processo complesso e ambivalente, non solo per il già accennato insorgere del transfert e del controtransfert.
Infatti il paziente tende, inconsapevolmente, a mentire e a difendere le sue resistenze: vuole “guarire”, ovvero
superare i suoi sintomi nevrotici, ma al contempo è “affezionato” ai meccanismi che li hanno prodotti, e
spaventato dalla prospettiva di cambiare; ma proprio le sue resistenze diventano indizi preziosi per l’analista.
Alla fine dell’opera, Freud delineò una vera e propria teoria dell’apparato psichico, così riassumibile: la psiche
è divisa in tre “luoghi” (perciò Freud definì questa tripartizione “topica”, dal greco topos = luogo) chiamati
inconscio, preconscio, e coscienza, cioè la parte conscia. L’inconscio è il luogo delle “pulsioni”, cioè di tutte le
forze, le eccitazioni del corpo che vengono trasmesse alla psiche, le quali seguono esclusivamente il “principio
di piacere”, ovvero il soddisfacimento immediato di desideri e bisogni, in modo spontaneo e del tutto primitivo.
La coscienza, viceversa, tiene conto dei vincoli esterni, ovvero obbedisce al “principio di realtà” (ad esempio,
l’inconscio potrebbe sentire il bisogno di volare, e in nome di questo spingerci salire sul davanzale della
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finestra e farci spiccare il volo dal 5^piano; è la coscienza a bloccare questo impulso, perché è in grado di
valutarne le conseguenze pratiche, ovvero tiene conto del “principio di realtà”). Il “preconscio” è una zona
intermedia tra inconscio e coscienza (per il superamento di questa tripartizione, vedi dopo: seconda topica).
Inizialmente, L’interpretazione dei sogni ebbe un’accoglienza molto fredda. Già era apparso scandaloso
applicare l’ipnosi, una pratica da… ciarlatani ambulanti; figurarsi il dare dignità scientifica all’interpretazione dei
sogni che (certo, senza la decodifica appena descritta) era tipica di indovini e oracoli nelle più antiche civiltà,
insomma evocava mondi magici e del tutto prescientifici! Eppure, Freud trovò modo di scandalizzare i colleghi
e l’opinione pubblica in ben altri modi, come ora vedremo.

La libido e la teoria della sessualità infantile


Già nei primi anni del Novecento, nelle due opere Psicopatologia della vita quotidiana (1901) e Il motto di
spirito e i suoi rapporto con l’inconscio (1905), Freud dimostrò con solidi argomenti che rimozione, censura,
spostamento e gli altri meccanismi inconsci sono sottesi anche a lapsus, amnesie e a tanti altri aspetti della
vita quotidiana di ciascuno di noi (così come tutti sogniamo, indipendentemente dal fatto di ricordare o meno i
sogni), per cui non esiste una differenza di “natura”, o di “qualità” tra salute/benessere e malattia/disagio
mentale, ma solo una differenza di “grado”, o di “quantità”.
Ma l’aspetto più dirompente – e più controverso anche tra i seguaci di Freud – fu, dopo la scoperta delle chiavi
dell’accesso all’inconscio, la scoperta del suo contenuto, che Freud riassunse, dal 1905, nel termine “libibo”.
Non è facile spiegare che cosa Freud intenda con questo termine. La libido è l’energia originaria, profonda,
alla base del nostro essere e operare, che sta al confine tra organico e psichico, e si esprime in quelle che
abbiamo prima definito “pulsioni”. Ebbene, fin dall’indagine su Anna O. e sugli altri casi di isteria, Freud ritenne
che le pulsioni fossero essenzialmente di natura sessuale, e per questo Freud usò il termine “libido”, ma in un
senso molto ampio. La libido include tutti gli aspetti della “affettività”, è indirizzata sia verso l’esterno che verso
se stessi, e prende anche forme apparentemente lontanissime dalla sessualità: ad esempio l’energia creativa
che si esprime nel lavoro, e nelle creazioni artistiche, fu definita da Freud “sublimazione”, ovvero un distogliere
l’energia sessuale dal suo oggetto diretto e convogliarla verso altri scopi (esempio banale: il poeta che, in
assenza della donna amata, compone una poesia a lei ispirata). Tutta la civiltà umana con le sue creazioni
può così essere interpretata come una serie sterminata di atti di sublimazione della libido.
La conseguenza, coerente ma “scandalosa”, fu la teoria di Freud della sessualità infantile, secondo la quale:
1) le pulsioni sessuali e l’attività sessuale agiscono in noi fin dal primo giorno di vita (contrariamente all’idea
dominante dell’infanzia come età innocente, “angelicata”, asessuata); se i bisogni e desideri di questo tipo
vengono soddisfatti, il bambino ne trae piacere, e all’opposto dispiacere se vengono frustrati.
2) tale sessualità infantile si sviluppa secondo tre fasi, e ciò delinea la seguente teoria dell’età evolutiva.
Il primo anno di vita è quella della “fase orale”, quando la pulsione sessuale si concentra nella bocca.
Ora infatti il bambino prova piacere soprattutto attraverso la bocca, tramite la nutrizione, la suzione (a partire
dal seno materno), il morsicamento: il bambino conosce il mondo, gli oggetti, mettendoseli in bocca.
Nei due anni seguenti, subentra la “fase anale”, nella quale si trae piacere dall’evacuare le feci, ma anche
dall’imparare a trattenerle. E’ in questo periodo che il bambino è “orgoglioso” della sua cacca, tende a
manipolarla: se ci pensiamo, questa è… la sua (nostra) prima produzione!
Dai tre-quattro ai cinque anni subentra la cosiddetta “fase fallica”, in cui la libido si sposta verso l’organo
genitale (il pene nel maschio, la clitoride nella femmina): il bambino prova piacere nel toccarlo, e sperimenta
una prima volta la differenziazione di genere. Infatti ora il maschietto scopre con orgoglio che ha il pene (ma
prova anche, come vedremo tra poco, la paura di perderlo, ovvero il complesso di castrazione), mentre la
bambina o trova l’equivalente nella clitoride, o prova la cosiddetta “invidia del pene”. La fase fallica è di
particolare importanza nella teoria di Freud perché in essa emerge l’ormai celebre “complesso di Edipo”.
Edipo, secondo la mitologia greca e la tragedia di Sofocle, era il figlio dei sovrani di Tebe che, abbandonato in
fasce e perciò non consapevole della propria identità, una volta divenuto adulto uccise, per motivi accidentali,
il re Laio, senza sapere che era suo padre; e, dopo avere risolto l’enigma della terribile Sfinge ed essere per
questo acclamato re di Tebe, sposò la vedova del padre, cioè la regina, che era però sua madre: si rese così
responsabile – senza saperlo – dei due crimini più gravi: l’uccisione del padre, e l’incesto. Secondo Freud
questo complesso si esprime nel desiderio di un rapporto esclusivo col genitore del sesso opposto, e in un
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sentimento misto di rivalità e di timore verso il genitore del proprio sesso (il padre per il bambino, la madre per
la bambina). Nell’esempio del maschietto, infatti (ma per la bambina vale la stessa dinamica, ovviamente
speculare), egli prova rivalità verso il padre (molto più forte di lui, per di più…), ma al tempo stesso vergogna
(non è bello odiare il proprio papà!), e paura (se mi scopre, la sua vendetta sarà terribile!): da qui il prima citato
complesso di castrazione.
Dopo i sei anni, secondo Freud interviene la cosiddetta “fase di latenza”, nella quale gli impulsi sessuali
vengono sopiti o mascherati, e di fatto cessano di manifestarsi fino alla pubertà.
Nella pubertà inizia la “fase genitale”, che dura per tutta l’età adulta. E’ il periodo della sessualità vera e
propria, durante la quale, parallelamente allo sviluppo fisico, avviene anche la maturazione psicologica propria
dell’adolescenza. L’inizio di questa fase è particolarmente delicato, perché in essa riemerge il complesso di
Edipo, ed è dal suo positivo superamento che dipende, secondo Freud, il successivo benessere sessuale ed
esistenziale dell’individuo: in che termini? Rimanendo all’esempio del maschio, egli supera positivamente il
complesso di Edipo se scopre che può: a) rivolgere verso altre donne il desiderio che prima concentrava sulla
madre; b) “riappacificarsi” con il padre assumendolo come modello positivo, cioè imitarlo e anche superarlo,
come un allievo nei confronti del maestro; e ovviamente il “teatro” di questa imitazione/emulazione sarà
l’ambito della vita lavorativa e relazionale, con l’assunzione delle responsabilità proprie della vita adulta. Se,
viceversa, il complesso non viene superato, questa piena maturazione non avviene, e si può regredire a fasi
precedenti; ciò provoca problemi psicologici che limitano o compromettono una serena vita di relazione, sul
versante sessuale e/o in altre sfere relazionali: così nascono le nevrosi.
Proprio la centralità della libido, e del complesso di Edipo all’interno della teoria della sessualità infantile,
furono i punti più criticati e controversi, anche tra i seguaci di Freud: seguaci che erano sempre più numerosi.
Infatti, dai primi anni del Novecento Freud divenne famoso e attirò sia feroci critiche, sia un vasto interesse, in
Europa e soprattutto negli Stati Uniti. Di fronte al moltiplicarsi dei seguaci, Freud impegnò grandi energie nel
creare un movimento e nel mantenerlo fedele alla propria “ortodossia” (obiettivo, quest’ultimo, del tutto fallito).
La Società psicoanalitica, fondata a Vienna nel 1908, divenne un modello per analoghe associazioni nate
altrove, a partire da Berlino, già nello stesso anno, poi a Baltimora negli Stati Uniti, a Londra e a Budapest e
via via in molti altri paesi, prima del 1915; al congresso di Norimberga del 1910 venne fondata la Società
internazionale di psicoanalisi.

La “seconda topica: Es, Super-io, Io


Freud rielaborò e arricchì nel tempo la sua concezione, con aggiustamenti di rotta, ripensamenti, esplorazioni
di nuovi aspetti. Uno dei capisaldi della psicoanalisi è la cosiddetta “seconda topica”, che emerse nell’opera Io
e l’Es del 1922. Fu una nuova tripartizione delle funzioni psichiche, così chiamata per distinguerla dalla “prima
topica” (vedi sopra) e profondamente diversa da quella. Freud descrisse così la “seconda topica”:
“Super-io, Io ed Es sono i tre regni, i territori in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della
persona. La funzione che più tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno,
l’autorità dei genitori. Essi esercitano il loro influsso e governano il bambino sia dimostrandogli
amore sia minacciandogli castighi, e questi ultimi fanno temere al bambino di perdere l’amore dei
genitori, per cui di per se stessi sono temuti. Questo timore, o angoscia reale è la precorritrice della
futura angoscia morale [ndr: che insorge poi con l’emergere del Super-Io]; finché essa domina, non c’è bisogno
di parlare di Super-io, di coscienza morale. Solo in seguito [attorno ai 5-6 anni] si forma la situazione in
cui l’impedimento esterno viene interiorizzato, e al posto del governo dei genitori subentra il
Super-io, il quale osserva, minaccia e giudica l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col
bambino. Il Super-io è dunque il successore legale e il legittimo erede naturale del ruolo dei
genitori. Dobbiamo però soffermarci su una differenza. Il Super-io sembra aver preso, con una
scelta unilaterale, solo il rigore e la severità dei genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, non
anche la loro sollecitudine e il loro amore. Se i genitori hanno applicato realmente un regime di
severità, diventa facilmente comprensibile che anche nei bambini si sviluppi un Super-io severo;
tuttavia l’esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-io può acquistare
lo stesso carattere di inesorabile rigore anche se l’educazione era stata indulgente e benevola e
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aveva evitato il più possibile minacce e castighi. (…) Il Super-io è dunque per noi il rappresentante
di tutte le limitazioni morali, l’avvocato dell’aspirazione alla perfezione.
L’Es [parola che in tedesco indica il pronome personale neutro, cioè l’italiano ‘esso’] è la parte oscura, inaccessibile
della nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico
e dalla formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte si lascia descrivere
soltanto per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un
calderone di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità verso il
somatico, e che qui accolga in sé i bisogni pulsionali, i quali trovano così la loro espressione
psichica. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non ha un’organizzazione, bensì
solo lo sforzo di procurare soddisfacimento ai bisogni pulsionali seguendo il principio di piacere.
Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non il principio di
contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a
vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare l’energia, confluiscono in
formazioni di compromesso. L’Es non conosce la negazione, né lo spazio e il tempo. Impulsi di
desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell’Es
dalla rimozione, sono virtualmente immortali e si comportano dopo decenni come se fossero
appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico, essi possono
essere riconosciuti come passato, venire svalutati e privati della loro carica energetica, e su ciò si
fonda, e non in minima parte, l’effetto terapeutico del trattamento analitico.
L’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno:
è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione degli stessi. Il
rapporto con il mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di
rappresentarlo presso l’Es, e questa è una fortuna per lo stesso Es il quale, incurante di questa
preponderante forza esterna, nel suo cieco tendere al soddisfacimento pulsionale non sfuggirebbe
all’annientamento. Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il mondo esterno,
conservarne memoria, e mediante l’esercizio dell’ “esame di realtà” tenere lontano ciò che in
questo esame del mondo esterno proviene da fonti interne d’eccitamento, cioè dall’Es. L’Io ha
inserito tra bisogno, proveniente dall’Es, e azione, la dilatazione dell’attività di pensiero, e perciò la
dimensione del tempo. In tal modo, ha detronizzato il principio di piacere, che domina
illimitatamente i processi dell’Es, e l’ha sostituito con il principio di realtà, che promette più
sicurezza e maggior successo. E’ dall’Io che ha tratto origine l’idea di tempo, così come è l’Io che
sintetizza e unifica i processi psichici, ciò che manca completamente all’Es. Per dirla alla buona, l’Io
rappresenta nella vita psichica la ragione e l’avvedutezza, l’Es invece le passioni sfrenate.
Finora siamo stati colpiti dai molti meriti e dalle facoltà dell’Io, ma è tempo di guardare anche al
rovescio della medaglia. L’Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell’Es, opportunamente
modificata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Un proverbio ammonisce di non servire
contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni,
severi, e si dà da fare per mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese, sempre divergenti e
che spesso sembrano inconciliabili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce tanto spesso nel suo compito.
I tre tiranni sono il mondo esterno, il Super-io e l’Es. L’Io è destinato a rappresentare le richieste
del mondo esterno, ma vuole anche essere il fedele servitore dell’Es, rimanere con lui in buona
armonia (…). D’altro canto, viene osservato passo passo dal severo Super-io, che esige determinate
norme di comportamento senza tenere conto delle difficoltà provenienti dall’Es e dal mondo
esterno, e lo punisce, in caso di inadempienza, con i sentimenti spasmodici dell’inferiorità e del
senso di colpa. Spinto così dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a
capo del suo compito di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e
noi comprendiamo perché tanto spesso ci viene da esclamare: “La vita non è facile!”. Se deve
ammettere le sue debolezze, l’Io prorompe in angoscia: angoscia reale dinnanzi al mondo esterno,
angoscia morale di fronte al Super-Io, angoscia nevrotica di fronte alla forza degli impulsi dell’Es.
(…) L’intenzione della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente
dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che
possa annettersi nuove zone dell’Es. Dov’era l’Es, deve diventare l’Io.”
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Due punti sono da sottolineare. In primo luogo, la psiche è rappresentabile come un iceberg, nel quale l’Es è
certamente la parte totalmente sommersa (inconscia); ma parzialmente inconscio è anche il Super-io; e
sarebbe del tutto erroneo considerare l’Io come totalmente conscio, cioè come la punta emersa dell’icerberg:
L’Io è certo l’unica parte consapevole, ma non lo è del tutto, come dimostrano alcune sue attività
inconsapevoli, quali la rimozione e la censura che esso opera sui sogni.
In secondo luogo, l’obiettivo di “annettere” parti crescenti dell’Es all’Io, cioè di ampliare la consapevolezza dei
nostri atti psichici, è un obiettivo tendenziale, mai raggiungibile per intero. Infatti, in un’altra sua immagine
Freud paragona la psiche al mare, e l’Io alla schiuma superficiale delle onde.

La psicoanalisi come chiave di lettura della civiltà


Nei corso degli anni emerse in Freud la tendenza ad estendere il campo di applicazione della sua teoria
dall’ambito della psicologia individuale a una dimensione collettiva, di tipo antropologico. La prima opera di
questo tipo fu Totem e tabù (1913), nella quale Freud cercò di mostrare il valore universale del complesso di
Edipo, ponendolo alle origini della morale, della religione e della stessa civiltà. Appoggiandosi all’antropologia
evoluzionista del positivismo, Freud ipotizzò che alle origini i gruppi umani fossero organizzati in forma di orda
promiscua, nella quale un solo maschio adulto dominante aveva l’accesso esclusivo alle femmine (come
accade in alcune altre specie animali). A un certo punto i giovani, tutti suoi figli, si sarebbero ribellati,
l’avrebbero ucciso e mangiato (cosa ovvia, questa, trattandosi di selvaggi cannibali). Il rimorso, cioè il senso di
colpa che ne seguì, portò a due conseguenze: vietarsi l’unione con le donne dell’orda, ovvero l’origine del tabù
dell’incesto; e sostituire il padre con un totem (animale, o pianta) la cui uccisione venne proibita, e che venne
onorato come sacro: questo totem, nel corso del tempo, divenne il dio-padre delle religioni monoteistiche.
Forse anche per l’influenza traumatica della prima guerra mondiale, nel 1920 scrisse Al di là del principio di
piacere, che sembra modificare radicalmente la visione delle psiche fino ad allora elaborata. Anziché un solo
tipo di pulsioni, essenzialmente riconducibili alla libido, Freud distinse due tipi di pulsioni antagoniste: a) le
“pulsioni erotiche”, riassunte nel termine Eros, alla base di tutte le tendenze che favoriscono la vita, propria e
degli altri, nelle sue forme via via più complesse: tali sono le pulsioni sessuali e quelle di autoconservazione,
all’origine di tutti i legami affettivi, interpersonali e sociali (amicizia, affetto, protezione, solidarietà, ecc); b) le
“pulsioni di morte”, riassunte nel termine Thanathos, in cui si manifesta la tendenza fatale di ogni forma
vivente a ritornare alla stato inorganico, all’equilibrio definitivo che è la morte: Thanathos sarebbe alla base dei
sentimenti di invidia, odio e di aggressività, distruttiva o autodistruttiva, dunque il nemico della vita associata e
della civiltà, costruita con faticosa dalle pulsioni erotiche, da Eros. La guerra (che nel 1932 sarebbe stato
l’argomento di un interessantissimo scambio epistolare tra Einstein e Freud) è l’esempio più vistoso e
ripugnante, secondo Freud, della manifestazione di Thanathos a livello collettivo, ma tale tendenza è a suo
avviso rintracciabile anche nell’individuo, in particolare nella cosiddetta “coazione a ripetere”, tipica delle
nevrosi: la tendenza a reiterare (ripetere) comportamenti negativi, autodistruttivi, ma di cui non si riesce a
liberarsi. Freud sottolineò che Eros e Thanathos non sono da considerare, rispettivamente, come il bene e il
male: essi sono intrecciati, così da avere effetti contradditori, ma entro certi limiti utili e indispensabili l’un l’altro
(come due polarità elettriche o magnetiche): ad esempio una certa dose di aggressività è utile per la conquista
del/della partner, o per realizzare determinate imprese e progetti positivi.
Fu soprattutto nell’opera Il disagio della civiltà (1929) che Freud estese la portata della sua visione dalla sfera
individuale a quella collettiva e storico-antropologico. Il Super-io, insieme al timore dell’autorità, avrebbe dato
origine al senso di colpa, attraverso cui la civiltà frena le pulsioni aggressive. Se alle origini (nello “stato di
natura”, avrebbe detto Hobbes, di cui Freud condivideva il pessimismo sulla natura umana) l’uomo poteva
dare sfogo liberamente alle sue pulsioni, il progresso civile impone una serie via via crescente di restrizioni al
“principio di piacere”, e comporta perciò un alto costo psichico per l’individuo, in termini di perdita di libertà e di
felicità, ma tale costo è inevitabile: “L’uomo civile ha barattato la sua felicità con un po’ di sicurezza”.
Di fatto la civiltà, con le sue regole, leggi e vincoli, rappresenta un gigantesco Super-io collettivo, per cui essa
induce inevitabilmente una certa dote di nevrosi, che è data dal prevalere del Super-io sull’Es.
Accenniamo al riguardo che tra gli squilibri psichici si è soliti distinguere psicosi e nevrosi (anche se tale
distinzione oggi non è più riconosciuta dal sistema internazionale di classificazione dei disturbi psichici, il
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DSM., che utilizza classificazioni più complesse). La psicosi è data dal prevalere dell’Es, ed è un disturbo
disagio molto più grave (es. schizofrenia, paranoia, ecc), perché il soggetto non è consapevole dei suoi
problemi (che, per lui, sono problemi degli altri), per cui difficilmente va in terapia. La nevrosi è data,
all’opposto, dal prevalere del Super-io: essa è meno grave, anche se il soggetto può soffrire di più proprio
perché è consapevole del suo disagio, e per questo può ricorrere all’analisi.

Da: SIGMUD FREUD, L’interpretazione dei sogni, 1900 (parti del cap.6)
Il lavoro onirico
Tutti i precedenti tentativi di risolvere i problemi del sogno si rifacevano direttamente al
contenuto onirico manifesto, dato nel ricordo, e si sforzavano di ricavare da questo
l’interpretazione del sogno, oppure, se rinunciavano a un’interpretazione, di fondare il loro
giudizio sul sogno riferendosi al suo contenuto. Noi siamo i soli a trovarci di fronte a una
situazione diversa; per noi, fra il contenuto del sogno e i risultati del nostro lavoro di osservazione
si inserisce un nuovo materiale psichico: il contenuto latente o pensieri del sogno, ottenuto
attraverso il nostro procedimento. Da questo contenuto, e non da quello manifesto, siamo venuti
sviluppando la soluzione del sogno. E’ a noi pertanto che spetta anche un nuovo compito, che
prima non esisteva, il compito di esaminare i rapporti tra contenuto manifesto e pensieri onirici
latenti e indagare per quali processi da questi ultimi abbia a risultare il primo.
Pensieri onirici e contenuto manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo
contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione
del pensiero del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere
segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. Noti questi, i pensieri del
sogno ci riescono senz’altro comprensibili. Il contenuto del sogno è dato per così dire in una
scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno.
Si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere quei segni secondo il loro valore di
immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica. Per esempio, ho davanti a me un
indovinello a figure (rebus): una casa sul cui tetto si vede una barca, poi una singola lettera
dell’alfabeto, poi una figura che corre senza testa, eccetera. Potrei ora cadere nell’errore critico di
dichiarare assurda quella composizione e i suoi elementi. Una barca non è al suo posto sul tetto di
una casa, eccetera. Evidentemente, la valutazione esatta del rebus si ha soltanto se non sollevo
obiezioni di questo tipo, ma se invece mi sforzo si sostituire a ogni immagine una sillaba o una
parola che sia rappresentabile, secondo un rapporto qualsiasi, con un’immagine. Le parole, che in
questo modo si connettono tra loro, non sono più assurde, ma hanno un senso preciso. Ora, il
sogno è un indovinello a rebus di questo tipo, e i nostri predecessori nel campo
dell’interpretazione del sogno hanno commesso l’errore di giudicare il rebus come una
composizione pittorica. Come tale apparve loro assurdo e senza valore (…).

La deformazione nel sogno


Se io ora affermo che il senso di ogni sogno è l’appagamento di un desiderio, vale a dire che non
esistono altri sogni oltre ai sogni di desiderio, sono convinto a priori d’incontrare l’opposizione più
decisa. Mi si obietterà: “Che esistano sogni da intendersi come appagamento di desideri non è un
fatto nuovo, è stato osservato già da tempo dagli studiosi. Ma che esistano soltanto sogni di
appagamento di un desiderio, questa è una generalizzazione ingiustificata, che per fortuna può
essere facilmente contestata. Esistono infatti molti sogni nei quali si riconosce un contenuto
penosissimo, e nessun segno di un qualsiasi appagamento di desideri (…)”. Effettivamente,
proprio i sogni d’angoscia sembrano non consentire la generalizzazione assiomatica dell’asserto,
basato sugli esempi da noi addotti nel precedente capitolo, che i sogni siano appagamenti di
desideri; sembrano anzi autorizzare a definire assurda tale tesi.
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Eppure non è molto difficile controbattere queste obiezioni, apparentemente definitive. Basta tener
presente che la nostra teoria non si basa sulla valutazione del contenuto manifesto, ma si riferisce
al contenuto latente che il lavoro d’interpretazione riconosce dietro il sogno. Noi contrapponiamo
contenuto manifesto a contenuto latente. E’ vero che esistono sogni il cui contenuto manifesto è
decisamente penoso. Ma qualcuno ha forse tentato di interpretare quei sogni, di scoprire il loro
contenuto latente? In caso negativo, queste obiezioni non ci colpiscono più: rimane pur sempre la
possibilità che, una volta interpretati, anche i sogni penosi e angosciosi si rivelino appagamenti di
desideri (…). Questo potrebbe essere un’acquisizione di validità generale. Dove l’appagamento del
desiderio è irriconoscibile, dove si è travestito, là dovrebbe esistere una tendenza alla difesa contro
il desiderio, e in seguito a questa difesa il desiderio non potrebbe esprimersi se non deformato.
Voglio cercare nella vita sociale un corrispettivo di questo fenomeno della vita psichica intima.
Dove troviamo, nella vita sociale, una deformazione analoga a quella di un atto psichico? Soltanto
là dove esistono due persone, di cui una possiede un certo potere e l’altra, a causa di questo potere,
deve usare qualche riguardo. Questa seconda persona allora deforma i suoi atti psichici oppure,
come si potrebbe dire, dissimula. La cortesia di cui faccio quotidianamente uso è in buona parte
una dissimulazione di questo tipo.
In situazione analoga si trova lo scrittore politico che deve dire spiacevoli verità a chi detiene il
potere. Se le dice apertamente, chi detiene il potere ne reprimerà prima o poi l’espressione: in
seguito, se si tratta di affermazioni orali; preventivamente, se l’intenzione dello scrittore è di
diffonderle mediante la stampa. Lo scrittore è cioè costretto a temere la censura, perciò modera e
deforma l’espressione delle proprie opinioni. In rapporto alla forza e alla suscettibilità di questa
censura, si vede costretto o a tenersi semplicemente nei limiti di determinate forme di polemica o a
parlare per allusione anziché chiamare le cose con il loro nome o a celare il suo messaggio
scandaloso dietro una maschera apparentemente innocua: egli può narrare per esempio un fatto
accaduto tra due mandarini nel Regno di Mezzo [in Cina], mentre intende riferirsi ai funzionari della
sua patria. Quanto più severa è la censura, tanto più esteso è il travestimento e tanto più arguti,
spesso, i mezzi che comunque guidano il lettore sulle tracce del vero significato delle sue parole.
A questo punto forse cominciamo a intuire che l’interpretazione del sogno è in grado di fornirci
chiarimenti sulla struttura del nostro apparato psichico, che finora abbiamo atteso invano dalla
filosofia. Torniamo dunque al nostro problema di partenza. Ci si chiedeva in che modo possano
venire spiegati come appagamenti di desideri i sogni di contenuto penoso. Ora vediamo che ciò è
possibile se si è verificata una deformazione del sogno e se il contenuto penoso serve soltanto a
mascherarne un altro desiderato. Tenendo presente l’ipotesi delle sue istanze psichiche, possiamo
anche dire: i sogni penosi contengono effettivamente qualcosa che è spiacevole per la seconda
istanza, ma che contemporaneamente soddisfa un desiderio della prima. (…) L’analisi dovrà
mostrare, da parte sua, per ogni singolo caso, il fatto che il sogno abbia effettivamente un
significato segreto, da cui risulta un appagamento di un desiderio. Sceglierò perciò alcuni casi di
contenuto penoso e ne tenterò l’analisi.

DUE ESEMPI DI ANALISI DI SOGNI


Quando prendo in trattamento analitico uno psiconevrotico, i suoi sogni diventano regolarmente
l’argomento dei nostri colloqui, nel corso dei quali devo dargli tutte le spiegazioni psicologiche di
cui io stesso mi sono servito per giungere alla comprensione dei suoi sintomi. In questo modo mi
espongo inevitabilmente a una critica certo non meno spietata di quella che potrebbe venirmi dai
colleghi. Regolarmente, in particolare, i miei pazienti si oppongono alla tesi che i sogni siano tutti
appagamenti di desideri. Ecco alcuni esempi del materiale onirico presentatomi come controprova.

PRIMO CASO
“Lei dice sempre che il sogno è un desiderio esaudito”, incomincia a dire una mia spiritosa
paziente: “Ore le voglio raccontare un sogno il cui contenuto rivela invece un desiderio non
esaudito. Come lo mette d’accordo con la sua teoria? Il sogno è questo:
“Voglio offrire una cena, ma non ho altre provviste tranne un po’ di salmone affumicato. Penso
di uscire a comprare qualcosa, ma mi ricordo che è domenica pomeriggio e che tutti i negozi sono
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chiusi. Voglio telefonare a qualche fornitore, ma il telefono è guasto. Così devo rinunciare al mio
desiderio di fare un invito a cena”.
Naturalmente io rispondo che soltanto l’analisi può decidere del significato del sogno, anche
ammettendo che a prima vista esso appare ragionevole, coerente e somigliante al contrario di un
appagamento di un desiderio. “Ma da quale materiale proviene il sogno? Lei sa che lo spunto di
un sogno si trova sempre nelle esperienze del giorno prima”.
Analisi. Il marito della paziente, un bravo e onesto macellaio all’ingrosso, le ha detto il giorno
prima che sta diventando troppo grasso e che intende quindi iniziare una cura dimagrante. Si
alzerà presto, farà del moto, osserverà una dieta rigorosa e soprattutto non accetterà più inviti a
cena. Ridendo, la paziente continua a parlare del marito, dice ch’egli ha conosciuto al suo tavolo
abituale in birreria un pittore che voleva a tutti i costi fargli il ritratto, perché non aveva mai visto
una testa così espressiva. Ma suo marito, con il suo schietto modo di fare, lo ha ringraziato
dicendosi convinto che il pittore avrebbe preferito all’intera sua faccia un pezzo di sedere di una
bella figliola. Attualmente è molto innamorata del marito e lo tormenta amorevolmente. Lo ha
anche pregato di non regalarle del caviale. Le chiedo cosa significa e lei mi risponde che da molto
tempo desidera poter mangiare ogni mattina un panino con caviale, ma non si concede questo
lusso. Naturalmente, suo marito le farebbe avere subito del caviale, se lei glielo chiedesse, invece
l’ha pregato di non regalargliene per poter continuare a stuzzicarlo.
Questa motivazione mi sembra debole. Dietro queste informazioni poco soddisfacenti, si celano
di solito motivi inconfessati. Basti pensare ai soggetti ipnotizzarti di Bernheim, che eseguono un
compito postipnotico e che, richiesti dei motivi delle loro azioni, invece di rispondere che non li
sanno, si trovano costretti a inventare una motivazione palesemente insufficiente. Qualche cosa di
simile ci sarà nel caso del caviale della mia paziente. Noto che è costretta a crearsi nella vita un
desiderio inappagato e che il suo sogno le dà per esaudita questa rinuncia. Ma perché ha bisogno
di un desiderio inappagato?
Ciò che le è venuto in mente finora non è stato sufficiente per l’interpretazione del sogno. Dopo
una breve pausa, che di solito corrisponde al superamento di una resistenza, ella mi riferisce di
aver fatto ieri visita a un’amica, di cui in fondo è gelosa perché suo marito non fa che lodarla. Per
fortuna quest’amica è molto secca e magra e a suo marito piacciono le bellezze formose. Di che
cosa ha dunque parlato quest’amica magra? Naturalmente del suo desiderio di diventare un po’
più formosa. Le ha anche chiesto: “Quand’è che ci invita di nuovo? Da lei si mangia sempre tanto
bene!”
Ora il significato del sogno è chiaro. Posso dire alla paziente: “E’ proprio come se lei, di fronte a
quella sollecitazione, avesse pensato: ‘Proprio te inviterò, perché tu possa farti una bella mangiata,
ingrassare e piacere ancora di più a mio marito. Preferisco non dare più cene!’ Infatti il sogno le
dice che non può offrire nessuna cena ed esaudisce quindi il suo desiderio di non contribuire
all’arrotondamento dell’amica. Il proponimento di suo marito di non accettare più inviti a cena per
riuscire a dimagrire, le insegna che i cibi offerti nei pranzi di società fanno ingrassare.” Alla
conferma della soluzione manca ora solo una coincidenza qualsiasi. Anche il salmone affumicato
del contenuto del sogno non ha ancora trovato la sua derivazione. “Come arriva al salmone citato
in sogno?” “Il salmone affumicato è il cibo preferito della mia amica”, risponde. Casualmente,
anch’io conosco la signora e posso confermare che si concede il salmone non più di quanto la mia
paziente si conceda il caviale.
Lo stesso sogno ammette anche un’altra e più sottile interpretazione, resa addirittura necessaria
da una circostanza accessoria. Le due interpretazioni non si contraddicono tra di loro, anzi si
sovrappongono e costituiscono un bell’esempio del consueto doppio senso dei sogni e di tutte le
altre formazioni psicopatologiche. Abbiamo appreso che, contemporaneamente al sogno del suo
desiderio non esaudito, la paziente si sforzava si procurarsi nella realtà un desiderio inappagato (il
panino col caviale). Anche l’amica aveva espresso un desiderio, e precisamente quello di
ingrassare, e non ci meraviglieremmo se la nostra paziente avesse sognato che il desiderio
dell’amica non viene appagato. Infatti il desiderio della paziente è che un desiderio dell’amica –
precisamente quello di ingrassare – non si realizzi. Ma invece ella sogna che è il suo desiderio a
non appagarsi. Si ottiene così una nuova interpretazione, se supponiamo che nel sogno ella non
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intenda sé stessa bensì l’amica, che si sia sostituita all’amica o, in altre parole, si sia identificata in
lei. In altre parole, si potrebbe enunciare il procedimento anche in questo modo: in sogno ella si
sostituisce all’amica perché questa si sostituisce a lei presso il marito e perché lei vorrebbe
prendere il posto dell’amica nell’apprezzamento del marito.

SECONDO CASO
Un altro sogno, di carattere più tetro, mi venne raccontato da una paziente, sempre come
obiezione alla mia teoria del sogno come desiderio. La paziente, una giovane ragazza, incominciò:
“Lei si ricorderà che mia sorella ha ora un solo figlio, Karl; il maggiore, Otto, l’ha perduto quando
stava ancora a casa sua. Otto era il mio prediletto, praticamente l’ho allevato io. Voglio bene anche
al piccolo, ma naturalmente mai quanto al morto. Ora stanotte ho sognato di vedere davanti a me
Karl morto. Giace nella sua piccola bara, con le mani giunte, le candele tutt’attorno, insomma
proprio come allora il piccolo Otto, la cui morte mi ha così tanto colpita. Mi dica, che cosa
significa? Lei mi conosce bene; sono così cattiva da augurare a mia sorella la perdita dell’unico
figlio che le è rimasto? O forse significa che desidero la morte di Karl al posto di quella di Otto, cui
ero molto più affezionata?”
Le assicurai che quest’ultima interpretazione era esclusa. Dopo una breve riflessione, potei dare
l’esatta interpretazione del sogno, che mi fu poi confermata da lei. Vi riuscii perché ero a
conoscenza di tutta la sua storia precedente.
Rimasta orfana assai presto, la ragazza era stata allevata in casa della sorella, molto più anziana.
Tra gli amici e i visitatori della casa incontrò anche l’uomo che lasciò un’impronta duratura nel suo
cuore. Per un po’ di tempo sembrò che quel rapporto, quasi inespresso, dovesse concludersi in un
matrimonio. Ma l’esito felice fu sventato dalla sorella, i cui moventi non furono mai interamente
chiariti. Dopo la rottura, l’uomo amato dalla nostra paziente non frequentò più quella casa, e la
ragazza stessa, qualche tempo dopo la morte del piccolo Otto, sul quale nel frattempo aveva
riversato la sua tenerezza, si rese indipendente. Ma non riuscì a liberarsi dallo stato di dipendenza
cui l’aveva portata l’inclinazione per l’amico della sorella. Il suo orgoglio le imponeva di evitarlo,
ma non le fu possibile trasferire il suo amore sui corteggiatori che si presentarono in seguito.
Quando veniva annunciata in qualche luogo una conferenza dell’amato, che apparteneva al
mondo letterario, lei si trovava immancabilmente tra gli ascoltatori, e del resto coglieva ogni
occasione per vederlo di lontano, in ambiente neutrale. Mi ricordai che il giorno precedente mi
aveva detto che il professore sarebbe andato a un concerto, e che lei stessa ci si sarebbe recata per
gioire ancora una volta della sua vista. Questo era successo il giorno prima e il concerto doveva
aver luogo nel giorno in cui mi raccontò il sogno. Mi era quindi facile ricostruire l’esatta
interpretazione, e le chiesi se si ricordava qualche avvenimento verificatosi dopo la morte del
piccolo Otto. Mi disse immediatamente: “Certo, il professore tornò allora a trovarci dopo una
lunga assenza e lo rividi ancora una volta presso la bara del piccolo Otto”. Era precisamente quello
che mi aspettavo. Interpretai dunque il sogno nel modo seguente: “Se ora morisse l’altro bambino,
si ripeterebbe la stessa cosa. Lei passerebbe la giornata presso sua sorella, il professore verrebbe
certamente a far le condoglianze e lei lo rivedrebbe come allora, nelle medesime circostanze. Il
sogno non significa altro che questo suo desiderio di rivederlo, un desiderio contro il quale lei sta
lottando intimamente. So che lei ha nella borsetta il biglietto per il concerto di oggi. Il suo è un
sogno di impazienza, che anticipa di qualche ora lo sguardo fugace che lei getterà su di lui, oggi.”
Per mascherare il suo desiderio, ella aveva evidentemente scelto una situazione in cui di solito si
reprimono desideri di questo genere, una situazione in cui si è talmente presi dal dolore da non
pensare all’amore.

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