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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA


CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

DISPENSE PER L’ESAME DI

SEMIOTICA
Prof. Patrizia Magli
Prof. Costantino Marmo
Prof. Patrizia Violi
ANNO ACCADEMICO 2001-2002
INTRODUZIONE
Questa dispensa costituisce un'introduzione breve ed essenziale ai concetti fondamentali della
semiotica così come sono stati elaborati e discussi dai suoi "padri fondatori": Ferdinand de Saussure, Louis
Hjelmslev e Charles Sanders Peirce, a cui sono rispettivamente dedicati i tre capitoli che la compongono.
Perché presentare il pensiero di questi autori individualmente, fornendo anche qualche rapido cenno
alla loro vita e al loro contesto storico, invece di descrivere semplicemente i concetti più importanti della
disciplina?
Come le studentesse e gli studenti capiranno presto, la semiotica è una disciplina complessa, che
include prospettive e progetti di ricerca anche molto differenziati, che si rifanno alle diverse tradizioni al
cui interno si è sviluppata la riflessione sui processi di significazione, comunicazione e semiosi. E' quindi
utile familiarizzarsi subito con questa complessità, che se da un lato costituisce una ricchezza, dall'altro può
risultare difficile a chi si accosta per la prima volta a questo campo, e preferirebbe trovarsi di fronte ad uno
sviluppo unitario e lineare.
A complicare le cose c'è anche il fatto che la semiotica è una disciplina molto antica: la riflessione
sui segni e sui modi attraverso cui utilizziamo i segni per dar senso alla nostra esperienza e al mondo
comincia ancora prima della filosofia greca. E' pero in tempi più recenti, tra la fine dell'Ottocento e la prima
metà del Novecento che la semiotica si costituisce come disciplina autonoma, e ciò avviene soprattutto ad
opera dei tre autori presentati in queste pagine. Nel loro pensiero si trovano le basi concettuali
indispensabili della semiotica, nonché gli strumenti metodologici che ci permetteranno di analizzare
semioticamente linguaggi, testi e forme di comunicazione differenti.
I tre autori qui illustrati si differenziano da molti punti di vista: i primi due, Saussure e Hjelmslev,
sono linguisti europei che appartengono alla corrente dello strutturalismo, mentre il terzo, Charles Sanders
Peirce, è un filosofo americano vissuto fra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del secolo scorso.
Al loro pensiero si fanno risalire le due linee principali della ricerca semiotica contemporanea,
generalmente denominate semiotica strutturale (e generativa) e semiotica interpretativa. Il primo di questi
filoni inizia con Saussure, il fondatore dello strutturalismo linguistico, prosegue con il lavoro di Louis
Hjelmslev, il linguista danese che ha sviluppato le idee di Saussure in una teoria denominata glossematica,
e arriva fino a Algirdas Greimas, semiotico di origine lituana fondatore della semiotica generativa (per la
cui teoria si rimanda ai capitoli del volume Semiotica del testo, di Maria Pia Pozzato, che costituisce parte
del vostro programma di esame).
Il secondo filone ha il suo riferimento nella filosofia di Peirce, che si inserisce nella più ampia
corrente della filosofia pragmatista americana di fine Ottocento, e vede oggi in Umberto Eco il suo
rappresentante più significativo.
Cosa hanno in comune questi due diversi approcci? Certamente, in forma molto generale, l'oggetto,
che potremmo definire come l'insieme dei processi di significazione - cioè i processi attraverso cui diamo
senso al mondo - e dei processi di comunicazione. Inoltre entrambe le semiotiche condividono un comune
assunto "costruttuvista" nei confronti del senso, che non è mai visto come un oggetto dato, ma sempre
come qualcosa di costruito nei nostri processi di attribuzione di significato. In altri termini, i segni e i testi
non sono classi particolari di oggetti dati, indipendenti dalla nostra attribuzione, ma sono piuttosto costruiti
come tali dal nostro lavoro di interpretazione; qualunque oggetto quindi può essere usato come segno o
analizzato come testo, anche se non era stato inizialmente prodotto con questa intenzione. Ricordiamoci
che alle sue origini, e prima di ogni elaborazione filosofica, la riflessione semiotica si è sviluppata nella
pratica medica, come studio dei sintomi fisici, cioè di alterazioni fisiologiche non certo prodotte
intenzionalmente per significare alcunché, ma interpretate come segni dalla nascente scienza medica. Oggi,
come vedrete nel corso dei vostri studi semiotici, si possono analizzare come testi dotati di significato
anche oggetti di consumo quotidiano o situazioni di interazione come una lezione universitaria.
Allo stesso tempo però la semiotica generativa e quella interpretativa costituiscono due progetti
teorici in larga misura diversi e non sovrapponibili, in quanto si pongono domande diverse.
La semiotica generativa, di matrice strutturalista, vuole in primo luogo stabilire procedure precise di
descrizione dei propri oggetti, che sono i testi, non necessariamente e solo i testi verbali e linguistici. In
semiotica il concetto di "testo" è un concetto molto ampio, che include tutto ciò che noi possiamo
delimitare come luogo di organizzazione del senso. Come abbiamo appena detto, anche un oggetto
quotidiano come una confezione di dentifricio o un fustino di detersivo possono essere visti come "testi" se
pure di tipo particolare. Per poter descrivere il modo in cui tutti questi differenti testi significano, cioè quali
sono le loro proprietà significative e in che modo sono organizzate (e quindi in definitiva anche perché certi
testi, o prodotti, sono più efficaci, belli, convincenti o persuasivi di altri), è necessario dotarsi di categorie
di analisi comuni, cioè di costruire un linguaggio specifico per l'analisi. Questo particolare tipo di
linguaggio di cui ci serviremo per descrivere e analizzare tutti gli altri linguaggi viene chiamato
metalinguaggio. Come vedremo, la semiotica generativa ha costruito un metalinguaggio molto articolato, e
anche piuttosto complesso, che viene continuamente modificato e aggiornato con l'analisi di nuovi tipi di
testi. Questo complesso edificio poggia su alcuni concetti di fondo, che sono appunto quelli elaborati da
Saussure e Hjelmslev e dallo strutturalismo linguistico.
Diverso il caso della semiotica interpretativa, i cui presupposti affondano nella filosofia di Peirce,
che era soprattutto interessato a capire il modo in cui noi arriviamo a dare senso a tutto ciò che ci circonda
attraverso l'uso costante di segni. Secondo il filosofo americano tutto il nostro pensiero, ma anche la nostra
percezione e qualunque forma di conoscenza, è un continuo e incessante lavoro di interpretazione basato su
inferenze che noi facciamo, spesso senza nemmeno esserne consapevoli, a partire dai dati dell'esperienza.
Quando si rivolge all'analisi dei testi, questo tipo di semiotica si chiede soprattutto che cosa un testo ci fa
fare per arrivare alla sua interpretazione. Quindi cerca di descrivere tutte le ipotesi, le inferenze e le mosse
interpretative suggerite e richieste da una particolare organizzazione testuale.
Sarebbe un errore pensare che le due correnti che abbiamo appena tratteggiato si differenzino quanto
alle loro sottostanti vocazioni: una più testuale e applicativa (la semiotica strutturale-generativa) e una più
filosofica (quella interpretativa). In realtà entrambe le semiotiche hanno sia un quadro di riferimento
teorico-concettuale che una dimensione testuale, e i due piani sono strettamente connessi. Questo corso
privilegerà tuttavia una prospettiva più orientata alla testualità in entrambe le correnti (non a caso nel vostro
programma di esame figura l'opera più "testuale" di Umberto Eco, il Lector in fabula).
Vi è una ragione di fondo per questa scelta: riteniamo che lo studio della semiotica debba servire
soprattutto (almeno in questa prima fase della vostra formazione) a mettervi in grado di lavorare
direttamente all'analisi di oggetti e linguaggi di vario genere (dai testi letterari alla pubblicità, dalla
televisione ai giornali, dalla comunicazione pubblica alle nuove forme di testualità telematica e ipertestuale,
e così via), secondo un profilo professionale che potremmo definire di "analista" di testi e linguaggi.
Naturalmente questa professionalità non potrà essere acquisita seguendo un solo corso, e per ottenerla
dovrete approfondire queste tematiche nei corsi di semiotica degli anni successivi, dedicati allo studio più
specifico di tutti questi attraenti oggetti. Ma tutto il lavoro successivo si fonderà sulle basi metodologiche e
teoriche fornitevi da questo primo corso introduttivo.
Infine un'avvertenza di metodo. Quando si parla di "classici" si consiglia sempre la lettura diretta dei
testi, piuttosto che riassunti e introduzioni che spesso si rivelano più oscuri degli originali, o tendono a
darne un'interpretazione univoca e parziale. Ciò varrebbe soprattutto nel caso dei nostri autori che, anche
quando ci appaiono semplici (e raramente è così!) sono di una complessità notevole e spesso presentano un
pensiero non unitario, ma soggetto a evoluzioni e cambiamenti in scritti di periodi diversi. Tuttavia la
lettura diretta dei testi sarebbe risultata estremamente ardua e forse troppo teorica per un corso iniziale di
semiotica. Abbiamo quindi scelto di inserire nella dispensa alcuni brani originali particolarmente
significativi, che serviranno a darvi un'idea del linguaggio e del modo di procedere dei nostri autori, senza
appesantire eccessivamente il vostro carico di studio e cercando di non allontanarvi troppo dalla pratica
concreta di analisi testuale. Naturalmente chi vorrà approfondire gli studi semiotici, magari con una
successiva specializzazione, dovrà rivolgersi come indispensabile esercizio ai testi originali. Tuttavia, per
porre le basi di una buona competenza iniziale, una lettura attenta di questa dispensa sarà sufficiente e
costituirà la premessa indispensabile di ogni successivo approfondimento.

(Patrizia Violi)
FERDINAND DE SAUSSURE
1. Note biografiche e sul Corso di linguistica generale

Ferdinand de Saussure nasce a Ginevra il 26 novembre 1857 da una famiglia di


naturalisti, fisici, geografi. Nel corso degli studi universitari, passa quattro anni a Lipsia
(1876-1880) e qui scrive, nel 1878, il Mémoire sur le système primitif des voyelles dans
les langues indo-européennes, opera che viene accolta con grande interesse tanto che un
professore chiede al ventiduenne studente di linguistica se è “per caso un parente del
famoso linguista svizzero Ferdinand de Saussure”. Nel 1880 si laurea con una tesi sul
genitivo assoluto in sanscrito. Prima di trasferirsi a Parigi, fa un viaggio in Lituania per
studiare dalla viva voce dei parlanti una serie di dialetti particolarmente arcaici e quindi
vicini all’indoeuropeo.
Arrivato a Parigi nell’autunno del 1880, esattamente un anno dopo viene nominato
maître de conférences e tiene un corso di germanico. Rimane a Parigi per undici anni ma
rifiuta di perdere la cittadinanza svizzera per prendere quella francese. Ritorna a Ginevra
durante l’inverno del 1891 e vi rimane fino alla morte, avvenuta nel 1913, tenendo corsi
di sanscrito, linguistica generale, gotico, ecc. Sviluppa inoltre un grande interesse per il
contesto culturale delle lingue e per gli anagrammi.
Il Corso di linguistica generale è una raccolta delle sue lezioni tenute a Ginevra fra
il 1906 e il 1909. Come è noto, il libro non è stato scritto tuttavia da Saussure bensì da
due suoi allievi, Charles Bally e Albert Sechehaye, che si sono basati su appunti propri e
di altri studenti. Come sottolinea Tullio de Mauro nell’introduzione all’edizione italiana
dell’opera, la summa del pensiero di Ferdinand de Saussure, così come esposta nel Corso,
è fedele nel riprodurre le singole parti ma forse non nell’ordine complessivo e quindi
ancor oggi prosegue lo studio degli scritti originali dell’autore per estrarre la forma più
autentica del suo pensiero linguistico.

2. Compiti della linguistica

I compiti della linguistica sono (p.15):*


1) La descrizione e la storia di tutte le lingue, di tutte le famiglie linguistiche e delle
lingue madri di ciascuna famiglia.
2) Il rinvenimento delle forze in gioco in tutte le lingue e delle leggi generali a cui
possano essere ricondotti tutti i fenomeni specifici.
3) La delimitazione e la definizione della linguistica stessa in quanto disciplina.

3. Oggetto della linguistica

“Qualunque sia il punto di vista adottato, il fenomeno linguistico presenta


eternamente due facce”, dice Saussure (p.17). Per esempio: il suono e l’articolazione
boccale che serve a produrlo; il movimento degli organi vocali e l’impressione acustica
che il suono emesso produce nell’ascoltatore; la componente individuale del linguaggio,
cioè l’uso che il singolo parlante fa delle lingua, e la componente sociale del linguaggio,
ovvero il contesto generale in cui la lingua viene usata e tutte quelle strutture linguistiche
(lessico, grammatica, ecc.) che i parlanti non “inventano” da sé ma si ritrovano già
costituite come retaggio culturale del loro ambiente; ci sono poi l’aspetto stabile e
l’aspetto evolutivo della lingua, i quali aprono due diverse prospettive di studio dato che
una lingua si può analizzare in quanto sistema grammaticale colto in un determinato
momento oppure come successione di trasformazioni avvenute nel corso degli anni e dei
secoli.
Come si dirà anche più avanti, Saussure si concentra soprattutto sull’aspetto stabile
del fenomeno linguistico, cioè sulla lingua (langue) propriamente detta perché, dice, “tra
le tante dualità soltanto la lingua sembra suscettibile di una definizione autonoma e
fornisce un punto di appoggio soddisfacente per lo spirito” (p. 18).

4. Lingua e parole

Vediamo dunque più esattamente che cosa intende Saussure per lingua: la lingua
non si confonde con la totalità del linguaggio ma ne è una determinata parte; essa è “una
totalità e un principio di classificazione”, è il “prodotto sociale della facoltà del
linguaggio e l’insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per consentire
l’esercizio di questa facoltà negli individui” (p.19).
L’atto linguistico individuale è definito invece parole e il “circuito della parole”,
concernendo nella comunicazione contesti e individui concreti, coinvolge fatti psichici,
fisici, fisiologici (onde sonore, fonazione e audizione, immagini verbali e concetti). Si
noti quindi la differenza sostanziale fra lingua e parole: quest’ultima è l’esecuzione,
sempre individuale, di un atto linguistico mentre la “lingua non è una funzione del
soggetto parlante” (p. 23) ma una specie di “organismo” che possiamo studiare anche
quando non viene più usato, come nel caso delle cosiddette “lingue morte”. Un’ulteriore
definizione di lingua che troviamo nel Corso è la seguente: “La lingua è per noi il
linguaggio meno la parole. Essa è l’insieme delle abitudini linguistiche che permettono a
un soggetto di comprendere e farsi comprendere” (p. 95).

5. Livelli del fenomeno linguistico

Nel fenomeno linguistico, si possono distinguere tre livelli:

4) Livello fisico. Riguarda la trasmissione delle onde sonore dall’apparato di fonazione


di un soggetto (A) a quello di un soggetto (b), e viceversa.
5) Livello fisiologico. Riguarda la trasmissione dal cervello agli organi di fonazione di
un impulso correlativo all’immagine acustica p trasmissione di un’immagine
acustica dall’orecchio al cervello.
6) Livello psichico. Un concetto fa scattare un’immagine acustica o un’immagine
acustica fa scattare un concetto.

Sarà sempre più chiaro in seguito il carattere culturalizzato dei suoni linguistici:
quello che è interessante per il linguista non è il suono bruto, nella sua essenza fisica, ma
le forme sonore che ogni lingua seleziona rispetto alla grande varietà di suoni potenziali
che l’apparato fonatorio umano è in grado di produrre. Ecco perché Saussure parla, per i
suoni della lingua, di “immagine acustica”: il suono linguistico, o fonema, è infatti
delimitato e reso riconoscibile da una serie di tratti pertinenti esattamente come
un’immagine. Dice l’autore: “E’ infatti di capitale importanza sottolineare che
l’immagine verbale non si confonde col suono stesso, e che è psichica allo stesso titolo
del concetto ad essa associato” (p.22). Forse la semiotica contemporanea preferirebbe
dire “culturale” anziché “psichica”, ma rimane in ogni caso l’idea che il linguista non
studia suoni ma forme sonore.

6. Il circuito linguistico

Il circuito linguistico si divide in :

(1) Una parte esteriore e una interiore


(2) Una parte psichica e una parte fisiologica
(3) Una parte attiva e parte una passiva
(4) Una parte esecutiva e una parte ricettiva (dal concetto all’immagine acustica e
viceversa, sempre ed esclusivamente sul piano dei meccanismi psichici).
(5) Una facoltà di associare e coordinare più segni

Il fattore passivo contenuto in (4) e quello associativo contenuto in (5) sono, per
Saussure, quelli che caratterizzano una lingua in quanto tale. Infatti noi riceviamo la
lingua materna, non la inventiamo attivamente: “la lingua non è una funzione del
soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra passivamente” (p. 23). “Il segno
sfugge sempre in qualche misura alla volontà individuale o sociale, questo è il suo
carattere essenziale” (p. 27).

7. Linguistica e semiologia

La lingua è solo il più importante dei tanti sistemi di segni istituiti dalla società
(scrittura, riti simbolici, forme di cortesia, ecc.). Saussure comprende quindi con
chiarezza che c’è lo spazio per la nascita di una disciplina più vasta della linguistica,
disciplina che chiama semiologia, destinata a studiare l’insieme della comunicazione e
non solo la comunicazione linguistica:

Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita
sociale […] Noi la chiameremo semiologia […] Essa potrebbe dirci in che consistono i segni,
quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire che cosa sarà; essa ha
tuttavia diritto a esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una
parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla
linguistica e questa si troverà collegata a un dominio ben definito nell’insieme dei fatti umani.
(p.26)

In altri termini, per Saussure il segno va studiato socialmente e in una più vasta
prospettiva semiologica. Infatti, “se si vuol capire la vera natura della lingua, bisogna
afferrarla anzitutto in ciò che essa ha di comune con tutti gli altri sistemi del medesimo
ordine” (p. 27). Bisogna precisare che, pur auspicando la nascita di una semiologia,
Saussure rimane tuttavia un linguista e si occupa pressoché esclusivamente di problemi
linguistici.
8. Elementi interni ed esterni alla lingua

Si può studiare la lingua in rapporto a fattori esterni come le istituzioni, le


condizioni socio-politiche, le collocazioni geografiche. Ma, dice l’autore, in questi campi
è molto difficile trovare dei criteri comuni. Viceversa, la linguistica interna considera la
lingua come “un sistema che conosce soltanto l’ordine che gli è proprio” (p.33) e in
questo modo, prendendo cioè in considerazione solo fattori linguistici puri, si può
padroneggiare con maggiore sicurezza il campo d’indagine. Come nel gioco degli
scacchi, nella linguistica interna contano solo il “sistema delle regole ed è considerabile
interno alla lingua solo ciò che intacca il sistema a qualsiasi livello” (p. 34).
In questa affermazione vediamo come il contesto sociale della lingua venga espunto
dall’orizzonte della linguistica interna. Tuttavia questa posizione viene mitigata
dall’autore stesso: la lingua, come qualsiasi altro sistema semiotico, è qualcosa di irreale,
dice Saussure, se la si considera facendo astrazione dalla sua natura sociale. La sua
definizione completa può avvenire solo in relazione alla massa parlante (p. 96), cioè al
popolo o alla comunità che usano effettivamente una data lingua. Inoltre, “per restare
nella realtà”, bisogna aggiungere il fattore temporale, e cioè quello che rende conto dei
cambiamenti linguistici. Si potrebbe vedere una contraddizione in questa affermazione
poiché l’autore, in moltissimi altri passaggi, auspica una linguistica che si occupi della
lingua come puro sistema. In realtà Saussure si rende conto anche che la lingua è
qualcosa di vivo e che, nella realtà, lingua e parole, stabilità e cambiamento delle forme
linguistiche vanno sempre di pari passo. In sostanza, astrarre delle forme grammaticali
stabili dalla realtà mutevole e vivente degli usi linguistici è solo un modo, per il linguista,
di fissare provvisoriamente il proprio oggetto allo scopo di poterlo definire meglio.

9. Lingua orale e lingua scritta

Per Saussure il vero oggetto della linguistica è la lingua parlata. La lingua scritta,
che nasce in modo derivato da quella orale, per il linguista ginevrino addirittura “offusca
la visione della lingua”, la traveste, mentre lo “studio dei suoni in se stessi, viceversa, è il
primo passo verso la verità” (p.44).

10. Il segno linguistico: significante e significato

Saussure spazza via uno dei luoghi comuni più radicati nella mente delle persone e
cioè che alle parole si associno direttamente le cose:

Per certe persone la lingua, ricondotta al suo principio essenziale, è una nomenclatura, vale a
dire una lista di termini corrispondenti ad altrettante cose. Per esempio:
Questa concezione è criticabile per molti aspetti. Essa suppone idee già fatte preesistenti alle
parole; non ci dice se il nome è di natura vocale o psichica, perché Arbor può essere
considerato sotto l’uno o l’altro aspetto; infine lascia supporre che il legame che unisce un
nome a una cosa sia un’operazione del tutto semplice, ciò che è assai lontano dall’esser vero.
Tuttavia questa visione semplicistica può avvicinarci alla verità mostrandoci che l’unità
linguistica è una cosa doppia, fatta dal raccostamento di due termini […] Il segno linguistico
non unisce una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il
suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la
rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei nostri sensi: essa è sensoriale, e se
ci capita di chiamarla ‘materiale’, ciò avviene solo in tal senso e in opposizione all’altro
termine dell’associazione, il concetto, generalmente più astratto. (pp. 83-84)

Si è già detto della natura culturale del suono linguistico, trascelto da ogni diversa
lingua fra tanti altri possibili. Del resto questo fatto è alla portata dell’esperienza di tutti:
se ascoltiamo una persona che parla una lingua totalmente sconosciuta, non solo non
cogliamo i significati della parole ma non riusciamo nemmeno a segmentare in modo
distinto il “nastro sonoro” che arriva al nostro udito e questo perché non siamo abituati a
riconoscere le forme sonore (i fonemi) di quella lingua. Altro esempio: se leggiamo
silenziosamente un libro, non emettiamo né sentiamo nessun suono ma il “ricordo”
(l’“immagine”) dei suoni, che conosciamo in quanto suoni della nostra lingua, ci sarà
sufficiente per capire ciò che stiamo leggendo.
Il segno linguistico non è però solo l’immagine acustica ma la coppia solidale che
essa forma con un concetto.

Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso


corrente questo termine designa generalmente soltanto l’immagine acustica, per esempio una
parola (arbor ecc.). Si dimentica che se arbor è chiamato segno, ciò è solo in quanto esso
porta il concetto di ‘albero’, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del totale.
L’ambiguità sparirebbe se designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi che si
richiamano l’un l’altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare la parola segno per
designare il totale, e di rimpiazzare concetto e immagine acustica rispettivamente con
significato e significante: questi due ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente
l’opposizione che li separa sia tra di loro sia dal totale di cui fanno parte. Quanto a segno, ce
ne contentiamo per il fatto che non sappiamo come rimpiazzarlo, poiché la lingua usuale non
ce ne suggerisce nessun altro. (p. 85)
Saussure propone quindi di chiamare significato il concetto veicolato da
un’immagine acustica la quale, in questo caso, è un significante. Né i concetti né i suoni
sono in se stessi delle entità linguistiche ma solo il segno lo è. In altri termini, secondo la
lapidaria definizione del linguista, “l’entità linguistica non esiste che per l’associazione
fra significante e significato” (p. 125).
Il legame fra il significante e il significato è arbitrario come dimostra l’esistenza
stessa di diverse lingue: non c’è ragione alcuna perché in italiano si indichi come
“sorella” quanto in francese si dice “soeur” e in inglese “sister”. Anche le onomatopee e
le esclamazioni sono per questo autore in gran parte arbitrarie, relative ai contesti
culturali e, come tutte le altre parole, destinate a cambiare nel corso dell’evoluzione
fonetica e morfologica delle lingue (p. 87).
Ovviamente, l’arbitrarietà con cui la lingua unisce suoni e concetti non è da
intendersi come scelta arbitraria del soggetto parlante ma nel senso di mancata
motivazione del suono in rapporto al significato, di “mancato aggancio naturale” (p. 87).
Oltre all’arbitrarietà del segno, Saussure indica un secondo, importante carattere del
segno linguistico: la linearità del significante. Mentre i segni visivi di un quadro, ad
esempio, sono disposti contemporaneamente nello spazio, i segni linguistici orali
vengono prodotti in una necessaria linea di successione temporale. Anche la ricezione
linguistica, essendo di natura uditiva, ha le stesse caratteristiche del tempo e quindi
consiste in una catena di percezioni che si oppongono in successione (p. 88).
11. Il cambiamento linguistico

Un argomento che non approfondiremo in queste dispense ma al quale dobbiamo


almeno accennare è quello dell’evoluzione delle lingue. Saussure distingue:
(1) Una linguistica diacronica. Essa studia i rapporti che collegano termini successivi
percepiti da una medesima coscienza collettiva e che si sostituiscono gli uni agli
altri senza formare sistema fra loro.
(2) Una linguistica sincronica. Essa studia i rapporti logici e psicologici che
collegano termini coesistenti che formano sistema così come percepiti dalla stessa
coscienza collettiva (p. 120).
Con queste definizioni un po’ tecniche, si vuole dire che l’approccio sincronico
studia uno stato della lingua, cioè una lingua nei suoi aspetti grammaticali, così come
essa è in un dato momento storico; mentre l’approccio diacronico confronta forme
linguistiche successive, che si sono succedute nel tempo, e quindi il cambiamento
linguistico. Quest’ultimo, per Saussure, è anch’esso fortuito e arbitrario, come il rapporto
fra significante e significato di cui si è detto. Anche nel processo di cambiamento delle
forme linguistiche, afferma Saussure, “tutto avviene per puro accidente” e le stesse leggi
linguistiche “sono un risultato fortuito e arbitrario dell’evoluzione” (p.106).
Per spiegare meglio la sua concezione della lingua, l’autore paragona quest’ultima
a una partita a scacchi e stabilisce le seguenti equivalenze di tipo metaforico (p.107):

stato della lingua in un dato momento storico = situazione momentanea della


partita a scacchi
valore di una unità linguistica = valore dei pezzi sulla scacchiera in un dato
momento e nelle loro relazioni reciproche
principi costanti della semiologia = regole generali del gioco degli scacchi
cambiamento linguistico = mossa sulla scacchiera

12. La linguistica e le discipline limitrofe

Per lo studio della semiotica appare particolarmente importante la linguistica


sincronica mentre lo studio dei cambiamenti linguistici è più di stretta pertinenza del
linguista che studia una specifica lingua. Per questo da qui in poi limiteremo le nostre
considerazioni alla parte del Corso di linguistica generale dedicata alla linguistica
sincronica.
Potrebbe essere utile, prima di approfondire ulteriormente i concetti della
linguistica sincronica, fare uno schema delle diverse discipline “limitrofe”, ciascuna con
il proprio oggetto, così come le intende Saussure:
Fonologia Psicologia Semiologia
oggetto: oggetto: oggetto:
significante significato segni
acustico

studio dei sistemi di segni linguistica


non linguistici generale

linguistica della
linguistica della

lingua della
parole

interna esterna

sincronica diacronica

Lo schema appena tratteggiato ribadisce quanto si è già detto a proposito del segno
come unica, vera entità linguistica. La linguistica saussuriana infatti non si occupa del
significante acustico indipendentemente dal significato, né dei significati
indipendentemente dal significante acustico attraverso il quale vengono veicolati, bensì
del rapporto segnico fra significanti e significati. Questo significa che trattare i concetti
scorporati dal loro espressione linguistica è compito della psicologia e non della
linguistica, così come studiare i suoni indipendentemente dallo loro funzione espressiva è
compito della fonologia (in senso saussuriano, vedi nota 3) e non della linguistica.
Inoltre, come si è detto nei paragrafi precedenti, Saussure privilegia un “percorso” ben
preciso nello schema ad albero appena proposto: la sua attenzione teorica si appunta
soprattutto sui segni di tipo linguistico, intesi nel loro carattere sistemico e non nell’uso
effettivo della lingua (parole). Questo perché, dice il linguista ginevrino, studiare un
sistema linguistico, cioè una grammatica generale, ci dà molte più certezze che non
studiare un campo mobile ed estremamente variegato come quello degli usi concreti che i
parlanti fanno dei sistemi linguistici, introducendo infinite variante individuali e
contestuali. Per lo stesso motivo, Saussure considera sommamente adatta a un approccio
scientifico la linguistica che sia insieme interna e sincronica, sulla definizione della quale
non torneremo.
13. Le teoria delle “masse amorfe”

Per Saussure il pensiero umano non è affatto indipendente dalla lingua in cui si
esprime: “fatta astrazione dalla sua espressione in parole, il nostro pensiero non è che una
massa amorfa” (p. 136). Non va diversamente per i suoni, o sostanza fonica che, in
assenza di una forma linguistica, non è né più fissa né più rigida della massa amorfa dei
pensieri. Il disegno proposto nel Corso è questo:

Le linee verticali rappresentano le scomposizioni che la lingua opera


contemporaneamente nella massa dei suoni e delle idee. Il pensiero, per sua natura
caotico, dice Saussure, è portato dalla lingua a precisarsi decomponendosi. E’ un processo
“abbastanza misterioso” attraverso il quale la lingua elabora le sue unità costituendosi fra
due masse amorfe. Come il recto e il verso di uno stesso foglio non possono venire
tagliati l’uno senza l’altro, così pensiero e suono nella lingua non hanno una forma
indipendente l’una dall’altra ma di determinano reciprocamente. E’ la combinazione dei
due ordini a produrre una forma al punto che “nella lingua un concetto è una qualità della
sostanza fonica, così come una determinata sonorità è una qualità del concetto.”
L’idea di Saussure, paradossale per il senso comune, è insomma quella di una
delimitazione fra suoni che serve a delimitare i pensieri ma, parallelamente, di una
delimitazione fra pensieri che rende distinguibili i suoni, esattamente come in un castello
di carte ogni carta “regge” l’altra senza che vi sia una strutturazione a monte,
indipendente dalle spinte e controspinte della carte stesse. Ne risulta una concezione della
lingua in un certo senso smaterializzata. Le delimitazioni della catena fonica non sono
possibili, dice Saussure, se non in base ai significati e “questa analisi non ha nulla di
materiale”. L’unità non ha infatti nessun carattere fonico speciale ma è una “porzione di
sonorità che è, a esclusione di ciò che precede e di ciò che segue nella catena parlata, il
significante di un certo concetto” (p. 126). Se prendiamo ad esempio le due parole della
lingua italiana “parca” e “barca”, vediamo che, pur molto simili foneticamente, hanno un
significato diverso. L’unico elemento che le differenzia è il tratto “sordo/sonoro” della
labiale iniziale (“p”, labiale sorda in “parca”; “b”, labiale sonora in “barca”), Il fatto che,
nonostante questa piccola differenza nel suono del loro significante, le due parole abbiano
un significato completamente diverso significa che la differenza fra il tratto /labiale +
sordo/ e il tratto /labiale + sonoro/ è fra quelle selezionate dalla lingua italiana come
pertinenti per determinare differenze sul piano dei concetti. Ma non c’è, dice Saussure,
una ragione intrinseca, legata alla natura di questo suono, perché questo tratto sonoro sia
linguisticamente pertinente, e altri no, nella lingua italiana. E’ pertinente perché
determina differenze sul piano dei significato e determina differenze sul piano del
significato perché è pertinente. Di nuovo il castello di carte, di nuovo la capacità
“abbastanza misteriosa” della lingua di reggersi da sé, sulla base di un reticolo
immateriale e formale di differenze.

14. Il valore linguistico

Ogni unità linguistica è caratterizzata dunque non dalla materia di cui è fatta (lo
sostanza di un concetto o di un suono) ma dal valore che essa acquista in relazione agli
altri elementi linguistici. L’autore ritorna alla metafora degli scacchi: non importa se un
cavallo è fatto di legno o di avorio, se viene danneggiato può essere sostituito anche da
un fagiolo purché mantenga lo stesso valore di cavallo sulla scacchiera. “Nei sistemi
semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio
secondo regole determinate, la nozione di identità si confonde con quella di valore e
viceversa” (p. 134). La conclusione di Saussure è dunque la seguente: “[Nella lingua] la
nozione di valore ricopre quella di unità, di entità concreta e di realtà […] per cui è
preferibile abbordare il problema dell’unità linguistica dal lato del valore perché è questo,
a nostro avviso, il suo aspetto primordiale” (p. 135). E ancora: “La lingua non comporta
né delle idee né dei suoni che preesistono al sistema linguistico, ma soltanto delle
differenze concettuali e foniche uscite da questo sistema” (p. 145). Ecco che, accanto al
termine-chiave di “valore” se ne aggiunge un altro di importantissimo all’interno della
linguistica saussuriana che è quello di “differenza”.
Dice Saussure:

Se la parte concettuale del valore è costituita unicamente da rapporti e da differenze con gli
altri termini della lingua, si può dire altrettanto della sua parte materiale. Ciò che importa nella
parola non è il suono stesso, ma le differenze foniche che permettono di distinguere questa
parola da tutte le altre, perché sono tali differenze che portano la significazione.
Può darsi che la cosa stupisca; ma dove sarebbe in verità la possibilità del contrario? Poiché
non vi è immagine vocale che risponda più di un’altra a ciò che essa è incaricata di dire, è
evidente, anche a priori, che mai un frammento della lingua potrà essere fondato, in ultima
analisi, su alcunché di diverso dalla sua non coincidenza col resto. Arbitrario e differenziale
sono due qualità correlative. […] Ogni idioma compone le sue parole sulla base di un sistema
di elementi sonori ciascuno dei quali forma una unità nettamente delimitata ed il cui numero è
perfettamente determinato. Ora ciò che li caratterizza non è, come si potrebbe credere, la loro
qualità propria e positiva, ma semplicemente il fatto che essi non si confondono tra loro. I
fonemi sono anzitutto delle entità oppositive, relative e negative. (p. 144)
E ancora: sono le differenze foniche che determinano la significazione e sono le
differenze concettuali ispirano quelle fonetiche. “Il significante linguistico - insiste
Saussure - è, nella sua essenza, incorporeo, costituito non dalla sua sostanza materiale ma
unicamente dalle differenze che separano la sua immagine acustica da tutte le altre” (p.
144).
Quanto Saussure dice per i fonemi della lingua orale, si può facilmente estendere
anche per la scrittura:

Infatti: (1) i segni della scrittura sono arbitrari: nessun rapporto, per esempio, tra la lettera t
ed il suono che essa designa; (2) il valore delle lettere è puramente negativo e differenziale;
così una stessa persona può scrivere t con varianti come

La sola cosa essenziale è che questo segno non si confonda sotto la sua penna con quello di l,
d, ecc. (pp. 144-45)

Arriva quindi all’affermazione più nota e radicale. “Tutto ciò che precede si risolve
nel dire che nella lingua non vi sono che differenze”(p.145). E continua:

Di più: una differenza suppone in generale determini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma
nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi. Si prenda il significante e il
significato, la lingua non comporta né delle idee né dei suoni che preesistano al sistema
linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle differenze foniche uscite da questo
sistema. Ciò che vi è di idea o di materia fonica in un segno importa meno di ciò che vi è
intorno ad esso negli altri segni. La prova è che il valore d’un termine può essere modificato
senza che si tocchi né il suo senso né i suoi suoni, ma soltanto dal fatto che questo o quel
termine vicino abbia subìto una modifica.
Ma dire che tutto è negativo nella lingua, è vero soltanto del significato e del significante
presi separatamente: dal momento in cui si considera il segno nella sua totalità, ci si trova in
presenza di una cosa positiva nel suo ordine. Un sistema linguistico è una serie di differenze di
suoni combinate con una serie di differenze di idee; ma questo mettere di faccia un certo
numero di segni acustici con altrettante sezioni fatte nella massa del pensiero genera un
sistema di valori; ed è questo sistema che costituisce il legame effettivo tra gli elementi fonici
e psichici all’interno di ciascun segno. Benché il significante e il significato siano, ciascuno
preso a parte, puramente differenziali e negativi, la loro combinazione è un fatto positivo; è
altresì la sola specie di fatti che comporti la lingua, perché il proprio dell’istituzione linguistica
è per l’appunto mantenere il parallelismo tra questi due ordini di differenze. (pp. 145-46)

“La lingua è una forma e non una sostanza”, afferma ancora il linguista e tutti gli
errori provengono dalla “supposizione involontaria che vi sia una sostanza nel fenomeno
linguistico.” (p.148) Ciò che dovrebbe risultare chiaro ormai dalle diverse citazioni è
questo concetto generale secondo il quale “tutto è negativo nella lingua” quando si
considerino significante e significato separatamente mentre ciò che è positivo è il segno:
tra segni, per esempio fra parole, non vi sono differenze bensì opposizioni. Ed è proprio
di questo che andiamo ora a parlare.

15. La lingua come sistema oppositivo di segni

Perché ci sia un valore bisogna che ci sia: (a) una cosa dissimile con cui poterlo
scambiare; (b) una cosa simile con cui poterlo scambiare. La metafora qui è quella
monetaria: una moneta può comprare del pane (equivalenza e scambio con il dissimile) o
essere confrontata con altre valute (equivalenza e scambio con il simile). Così il rapporto
significante/significato corrisponde a quello fra moneta e pane mentre i diversi segni
stanno fra loro come le diverse valute di cui si possono confrontare i valori. Se questi
segni sono parole ad esempio, è evidente che ogni singola parola non può acquisire il suo
valore nella lingua in modo indipendentemente dalle altre parole di quella lingua. “E’
dalla totalità solidale [dei segni] che occorre partire per ottenere, mercé l’analisi, gli
elementi che contiene” (p.138):

significante significante significante significante


--------------- « -------------- « -------------- « --------------
significato significato significato significato

Per esempio una parola francese come “mouton” e una parola inglese come “sheep”
indicano lo stesso animale ma non hanno lo stesso valore all’interno della “scacchiera”
delle due lingue a cui appartengono. La parola francese, infatti, indica sia la pecora viva
che quella uccisa e cotta, mentre la parola inglese ha un significato più limitato esistendo
in inglese anche la parola “mutton” che, a differenza di “sheep”, indica lo stesso animale
ma ucciso e cucinato.

All’interno di una stessa lingua, tutte le parole che esprimono delle idee vicine si limitano
reciprocamente: sinonimi come redouter, craindre, avoir peur hanno un loro proprio valore
solo per la loro opposizione: se redouter non esistesse, tutto il suo contenuto andrebbe ai suoi
concorrenti. Inversamente, vi sono termini che arricchiscono per contatto con degli altri. (p.
141)

La conclusione di Saussure è che “il valore di un qualunque termine è determinato


da ciò che lo circonda” (p. 141) e questo non vale solo per le unità del lessico ma anche
per entità di tipo grammaticale (flessioni, plurale/singolare, ecc.). Ad esempio, in
sanscrito esiste anche il duale che è diverso sia dal singolare che dal plurale delle nostre
lingue, indicando un insieme composto esattamente da due elementi.

16. Sintagmi e associazioni

Nella lingua vi sono due principi fondamentali che corrispondono a due forme della
nostra attività mentale: concateniamo delle unità, cioè le mettiamo in un ordine di
successione lineare; oppure le associamo in absentia, tenendo presente una serie
mnemonica virtuale. Ad esempio, quando pronuncio una frase e uso un articolo, un
sostantivo e un verbo come in “Il cielo si è rannuvolato”, compio un’azione associativa in
quanto metto nel giusto ordine, concatenandoli, tutti i diversi elementi della mia frase.
Ma questo è reso possibile anche perché trascelgo da serie virtuali di articoli, di sostantivi
e di verbi. Ho scelto “il”, ben sapendo che in italiano potevo disporre anche di “la” o di
“lo”, ecc., perché si accordava con il maschile singolare di “cielo”; ho scelto “cielo”
perché, fra tutte le parole italiane mi sembrava la più adatta a esprimere quello che volevo
dire, scartando magari “immensità celeste” che mi sembrava troppo aulico o “terra” che
mi sembrava addirittura opposto al termine che mi serviva. Insomma, le operazioni che
ho fatto sono state due: scelta di alcune unità a scapito di altre, possibili e alternative;
combinazione lineare delle unità scelte. Saussure chiama questi due ordini di operazioni,
rispettivamente, ordine sintagmatico e ordine associativo. L’esempio del linguista è
quello di un tempio greco: se considero il rapporto fra le colonne e l’architrave che
reggono, ho una buona immagine del rapporto sintagmatico fra elementi linguistici; se
penso invece alla serie delle possibile, diverse colonne (ioniche, corinzie, ecc.), ho una
buona immagine delle associazioni fra elementi. (p. 150) Mentre un sintagma richiama
l’idea di u ordine e di un limite, i termini di una famiglia associativa sono più
indeterminati. A meno che non si tratti di classi grammaticali: tornando all’esempio della
frase, non ho infiniti articoli fra cui scegliere. Se si tratta invece di classi lessicali, allora
le possibilità si moltiplicano: quante parole avrei potuto scegliere al posto di “cielo”,
magari ricorrendo a metafore? Saussure dice che, se non si tratta di classi grammaticali,
ogni termine è come il centro di una costellazione infinita: ogni idea richiama tutto un
sistema latente all’interno del quale operiamo la nostra scelta.

17. Verso una nuova definizione della grammatica

Tradizionalmente la grammatica comprendeva morfologia e sintassi escludendo la


lessicologia. Ma, dice Saussure, alcune funzioni sono grammaticalmente in alcuni casi e
lessicalmente in altri: per esempio, la differenza fra persuadere e obbedire, è risolta
grammaticalmente in greco, come forma attiva / passiva di uno stesso verbo (peitho /
peithomai); ed è invece risolta come opposizione lessicale in francese moderno, con due
diversi verbi (persuader / obéir). La conclusione di Saussure è che la grammatica si
edifica su un principio superiore a quello che vede la distinzione fra morfologia e sintassi
da un lato e lessicologia dall’altro. Questo principio superiore, o più profondo, se
vogliamo, sta per l’appunto nella teoria dei sintagmi e delle associazioni: “Tutto ciò che
compone uno stato di lingua deve poter essere ricondotto a una teoria dei sintagmi e a una
teoria delle associazioni” (p.164). Non tutti i fatti di sintagmatica si classificano nella
sintassi tradizionale ma, viceversa, tutto ciò che è studiato come sintassi rientra nella
sintagmatica. Infine, poiché forma e funzione sono solidali […] linguisticamente, la
morfologia non ha un oggetto reale e autonomo e non può costituire una disciplina
distinta dalla sintassi” (p.163).
Queste note finali, che non approfondiremo, ci fanno tuttavia intuire come la
definizione differenziale, né storica né materiale quindi, del fenomeno linguistico, porti
con sé un ripensamento radicale anche delle più tradizionali ripartizioni della
grammatica.

(Maria Pia Pozzato)


Louis Hjelmslev

1. La vita

Louis Trolle Hjelmslev (1899-1965) nacque a Copenaghen da Johannes Trolle


Petersen (che assunse nel 1903 il nome di Hjelmslev dal luogo in cui era nato, Hjelmslev
Herred, vicino Aarhus). Il padre era un matematico, dal 1917 docente all’Università di
Copenaghen (il carattere formale e astratto della teoria linguistica di Hjelmslev è stato
spesso ricondotto a una presunta influenza paterna, ma Hjelmslev rifiutò sempre questo
collegamento).
Gli interessi linguistici di Hjelmslev, non solo per gli aspetti teorici ma per l’uso
effettivo delle lingue, furono molto precoci: sembra che a dieci anni pagasse una
domestica perché gli desse lezioni di italiano; a diciassette anni vinse un premio al liceo
per un saggio sulle parole composte in danese (aveva scelto lui l’argomento);
all’università di Copenaghen, dove si iscrisse nel 1917, seguì corsi di filologia romanza,
di indiano, filologia classica; nel 1919 ottenne dall’università una medaglia d’oro per un
lavoro sulle iscrizioni osche; nel 1920 seguì un corso di lituano e scelse come argomento
di laurea la fonologia lituana; studiò in Lituania nel 1921 e si laureò nel 1923.
Dopo la laurea Hjelmslev proseguì gli studi a Praga (1923-24), quindi a Parigi
(1926-27), dove venne a contatto con la linguistica francese, che molto avrebbe
influenzato la sua riflessione teorica, e dove conseguì il dottorato nel 1932.
Dopo aver insegnato a Copenaghen in diverse scuole, fu chiamato nel 1934 a
insegnare linguistica comparativa all’Università di Aarhus, dove rimase fino al 1937,
quando ottenne la cattedra di linguistica comparativa all’Università di Copenaghen.
Grande influenza ebbe il suo insegnamento sia in Danimarca, dove non solo gli studenti
locali ma anche molti studiosi stranieri seguivano le sue lezioni, sia all’estero, dove fu
chiamato ripetutamente a insegnare.
Come docente universitario si impegnò anche nell’amministrazione accademica,
ricoprendo cariche di vario genere e si dedicò ad attività organizzative in campo
linguistico: fece parte del Comité international permanent des linguistes, partecipò a tutti
i convegni internazionali di linguistica (a partire dal primo, nel 1928), nel 1931 promosse
la fondazione del Circolo linguistico di Copenaghen, nel 1956 inaugurò un suo Istituto di
Linguistica e Fonetica all’Università di Copenaghen. Morì il 30 maggio 1965.
Hjelmslev scrisse numerosi saggi, la maggior parte dei quali è oggi raccolta nei
Saggi linguistici (1963). La sintesi più completa delle basi teoriche e del metodo della sua
teoria linguistica si trova nei Fondamenti della teoria del linguaggio (1943), che
costituisce il principale testo di riferimento per la teoria di Hjelmslev. Da quest’opera
sono tratte tutte le citazioni che seguono.

2. La glossematica e la semiotica

Hjelmslev chiamò la sua teoria linguistica “glossematica” (l’invenzione del termine


fu condivisa con il linguista danese Hans Jorgen Uldall), con un neologismo che
intendeva sottolineare la differenza della sua linguistica da quelle precedenti e
contemporanee. Il termine riprende il greco “glossa”, che vuol dire lingua, con l’aggiunta
del suffisso tipicamente strutturalistico “-ema”: glossemi per Hjelmslev sono gli elementi
ultimi, le invarianti minime che la teoria linguistica giunge a individuare
indipendentemente dalle differenze fra le varie lingue. Nell’elaborazione della sua teoria
Hjelmslev riconobbe sempre i debiti con altre teorie precedenti e contemporanee:
principalmente, la linguistica danese, E. Sapir, i formalisti russi, la logica contemporanea,
ma soprattutto la linguistica di Saussure.
Anche se il nome di Hjelmslev è di solito associato alla glossematica, si possono
comunque individuare alcune costanti nel pensiero linguistico di Hjelmslev, indipendenti
dall’elaborazione esplicita della glossematica, che vanno comprese nel quadro di una
continuazione e sistemazione del pensiero di Saussure: ad esempio, l’interesse per le
questioni di metodo e per la linguistica generale più che per lo studio delle singole lingue,
la valorizzazione degli aspetti formali, astratti, algebrici dell’analisi linguistica, la
necessità di distinguere il significato linguistico da qualunque concetto psicologico (idea,
pensiero, mente, ecc.).
Per Hjelmslev la teoria linguistica deve essere immanente, deve cioè analizzare la
lingua in quanto sistema formale astratto depurato da tutte le componenti concrete
(fisiche, psicologiche, sociologiche, ecc.); nello stesso tempo, la linguistica deve studiare
la lingua tenendo presente l’orizzonte più vasto delineato dalle strutture di altri sistemi di
segni. Rispetto a questo orizzonte la glossematica, in quanto scienza della forma, si
candida per costituire “un punto di vista comune per molte discipline diverse, dallo studio
della letteratura, dell’arte, della musica e della storia in generale, fino alla logistica e alla
matematica”, discipline che tutte insieme, attraverso una “fruttuosa collaborazione”,
possono “produrre un’enciclopedia generale delle strutture di segni” (Hjelmslev 1943,
trad. it.: 116).
Quindi Hjelmslev fonda esplicitamente una scienza semiotica generale che,
analogamente alla semiologia di Saussure, va intesa come sguardo unificante che assume
il metodo e i concetti della linguistica: essendo la linguistica, come vedremo meglio, una
“scienza della forma”, dice Hjelmslev, “sarà possibile applicare il nostro apparato a
qualunque struttura la cui forma sia analoga a quella di una lingua ‘naturale’” (ib.: 109).

[…] il linguista [deve] considerare come proprio campo non solo la lingua “naturale”, ma
qualunque semiotica, qualunque struttura sia analoga alla lingua […]. Una lingua (nel senso
ordinario) si può considerare come un caso particolare di questo oggetto più generale, e le sue
caratteristiche specifiche, che riguardano solo l’uso linguistico, non incidono sulla definizione
[generale di semiotica].
Qui di nuovo vogliamo aggiungere che non è tanto questione di una pratica divisione del
lavoro quanto di una identificazione definitoria dell’oggetto. Il linguista può e deve
concentrarsi, nella sua ricerca, sulle lingue “naturali”, e lasciare ad altri meglio preparati - in
particolare ai logici - l’investigazione delle strutture semiotiche. Ma il linguista non può
impunemente studiare il linguaggio senza avere quell’orizzonte più vasto che gli offre un
orientamento nei riguardi di altre strutture analoghe a quella linguistica. Da esse egli può anzi
trarre dei vantaggi pratici, poiché alcune di tali strutture sono nella loro costruzione più
semplici che non le lingue, e sono per questo indicate come modelli nello studio preliminare.
(ib.: 114-5)

Ma in cosa consiste “l’apparato” della linguistica che la semiotica deve


generalizzare? Consiste innanzi tutto in un metodo, un procedimento generale che è nello
stesso tempo empirico, nel senso che si applica ai dati empirici che sono i testi, e
deduttivo o analitico, nel senso che analizza o scompone i testi evidenziandone solo le
parti costitutive necessarie, e lo fa in maniera coerente, cioè priva di contraddizioni,
esauriente e il più possibile semplice:

Gli oggetti che interessano la teoria linguistica sono testi. Lo scopo della teoria linguistica
è di fornire un procedimento per mezzo del quale un dato testo possa essere compreso
attraverso una descrizione coerente ed esauriente. (ib.: 19)

Se a chi compie l’indagine linguistica qualcosa è dato […], ciò è il testo non ancora
analizzato, nella sua integrità indivisa ed assoluta. L’unico procedimento possibile […] sarà
un’analisi in cui il testo sia considerato come una classe analizzata in componenti, poi tali
componenti siano considerati come classi analizzate in componenti, e così via fino ad
esaurimento dell’analisi. Questo procedimento si può dunque definire brevemente come una
progressione dalla classe al componente, non dal componente alla classe, come un
movimento analitico e specificante, non sintetico e generalizzante, come l’opposto
dell’induzione. […] Nella linguistica recente, in cui questo contrasto è venuto alla luce,
questo procedimento (o altri che ad esso si approssimano) è stato indicato col termine
deduzione. (ib.: 15-6)

Una teoria raggiungerà il massimo della semplicità se si baserà solo su premesse che siano
necessarie rispetto al suo proprio oggetto. Inoltre, per essere adeguata al suo scopo, una
teoria deve produrre, in ogni sua applicazione, risultati che siano in accordo con i cosiddetti
dati empirici (reali o presunti). (ib.: 13)

La descrizione deve essere libera da contraddizioni (coerente), esauriente e semplice


quanto più si possa. L’esigenza dell’assenza di contraddizioni ha la precedenza su quella
della descrizione esauriente. L’esigenza della descrizione esauriente ha precedenza su
quella di semplicità. (ib.: 14, corsivi dell’autore)

3. La funzione segnica

Come Saussure, Hjelmslev critica la concezione tradizionale del segno per cui “un
segno è in primo luogo e soprattutto un segno di qualcosa” (ib.: 52). “Dobbiamo ora
mostrare - dice Hjelmslev - che tale concezione è linguisticamente insostenibile, e qui
siamo d’accordo col pensiero linguistico recente” (ib.), ovvero con la linguistica
saussuriana secondo la quale il segno non rimanda a un contenuto esterno al segno stesso,
ma “è un’entità generata dalla connessione fra un’espressione e un contenuto” (ib.).
Hjelmslev smette quindi di parlare genericamente di segno, perché ciò potrebbe
rimandare alla concezione tradizionale, e parla di “funzione segnica, che si pone fra due
entità, un’espressione e un contenuto” (ib.). Laddove Saussure parlava di segno, di
significante e significato, Hjelmslev parla di funzione segnica, di espressione e contenuto
o, più ampiamente, di piano dell’espressione e piano del contenuto; la funzione segnica è
costituita da espressione e contenuto, da un piano dell’espressione e un piano del
contenuto, che sono reciprocamente solidali, dice Hjelmslev, nel senso che non si può
avere espressione senza contenuto né contenuto senza espressione.
Funzione segnica =

La funzione segnica è di per sé una solidarietà. Espressione e contenuto sono solidali - si


presuppongono reciprocamente in maniera necessaria. Un’espressione è un’espressione solo
grazie al fatto che è espressione di un contenuto, e un contenuto è un contenuto solo grazie
al fatto che è contenuto di un’espressione. Non ci può dunque essere, tranne che per
un’artificiale separazione, un contenuto senza espressione, né un’espressione senza un
contenuto. Se pensiamo senza parlare, il pensiero non è un contenuto linguistico, non è un
funtivo di una funzione segnica; se parliamo senza pensare, producendo una serie di suoni a
cui nessun ascoltatore può attribuire un contenuto, il nostro discorso sarà un abracadabra,
non un’espressione linguistica, non un funtivo di una funzione segnica. (ib.: 53)

La definizione di espressione e contenuto fornita da Hjelmslev è puramente


formale, nel senso che espressione e contenuto non sono definiti in altro modo che come i
due “funtivi” che contraggono la funzione segnica e “funtivi di una funzione sono i suoi
terminali, intendendo con funtivo un oggetto che ha funzione rispetto ad altri oggetti”
(ib.: 37).
Il senso con cui Hjelmslev usa il termine “funzione” è “a metà strada fra quello
logico-matematico e quello etimologico” (ib.: 37): in un senso affine a quello logico-
matematico, espressione e contenuto stanno tra loro in una certa relazione, cioè, più nello
specifico, si presuppongono reciprocamente e necessariamente; nel senso etimologico del
termine “funzione”, espressione e contenuto svolgono l’una rispetto all’altro un certo
ruolo, occupano una certa posizione reciproca.
4. Processo e sistema

Dopo aver definito la funzione segnica, Hjelmslev introduce la distinzione fra


processo e sistema, che riprende e approfondisce la distinzione saussuriana fra rapporti
sintagmatici e rapporti associativi.
Come si è visto nella sezione su Saussure, nell’ordine sintagmatico un elemento
linguistico è in relazione a ciò che lo precede e ciò che lo segue nel tempo (dato che, per
il carattere lineare del significante, un termine non può essere simultaneo ad altri). I
rapporti sintagmatici sono rapporti in praesentia: in una lingua naturale, ad esempio, sono
rapporti sintagmatici quelli che, nell’atto di produzione della parole, intercorrono fra i
suoni che compongono le parole, le parole, le parole composte, le frasi intere, i discorsi:
queste relazioni in praesentia si concatenano nel tempo nel caso della lingua parlata,
nello spazio nel caso della lingua scritta.
Per Saussure un rapporto associativo è invece un rapporto in cui un elemento
linguistico si oppone ad altri che con quel termine hanno “qualcosa in comune” (per
somiglianza o differenza) ma che non compaiono nella catena significante del discorso,
proprio perché è quel termine a comparire: è un rapporto in absentia (in assenza degli
altri termini con cui il termine in questione è in rapporto associativo). Per Saussure i
termini assenti del rapporto associativo costituiscono una serie mnemonica virtuale che
ha sede è nel cervello.
Traducendo questa distinzione nei termini di Hjelmslev, sull’asse del processo o
asse sintagmatico i segni e i loro componenti stanno fra loro in relazione o congiunzione,
ovvero sono legati ad altri elementi e segni con cui si presentano in contiguità spazio-
temporale, gli uni vicino agli altri. Sull’asse del processo i singoli elementi si
accompagnano ad altri elementi e poi ad altri e poi ad altri ancora, ecc. (si noti la
congiunzione che indica contiguità spaziale e/o temporale). Per fare esempi tratti da
sistemi semiotici non linguistici, i segni visivi sono sempre accompagnati da altri segni,
un elemento di abbigliamento (ad esempio una camicia) si usa sempre in congiunzione
con altri elementi complementari (gonna, scarpe, ecc.), una scena di un film è congiunta
ad altre in una sequenza più complessa, la portata di un pasto segue e precede altre
portate, ecc.
Sull’asse del sistema o asse paradigmatico (il termine viene dall’uso grammaticale
di “paradigma” che è l’elenco di forme coniugate o declinate, che hanno fra loro,
appunto, un rapporto paradigmatico, spesso illustrato dall’apparire in colonna sulla
pagina), i segni e i loro componenti stanno in correlazione o disgiunzione, come dice
Hjelmslev, ovvero sono legati ad altri segni o componenti che potrebbero stare al posto
loro sull’asse del processo - e in questo senso sono a loro simili - ma che non ci sono
perché la simultaneità nel tempo e la sovrapposizione nello spazio non sono possibili. Nel
ruolo grammaticale del soggetto di una frase, ad esempio, al posto di un nome proprio
possono stare un altro nome proprio oppure una descrizione identificante oppure un nome
comune preceduto da un articolo, ecc. (si noti la disgiunzione); sopra la gonna, al posto
della camicia, potrebbero stare una maglietta a maniche corte oppure una camicia di un
colore diverso oppure un maglioncino leggero, ecc.; in un palinsesto televisivo, al posto
di un film in prima serata possono stare una trasmissione a quiz oppure una puntata di
uno sceneggiato, ecc.
Così Hjelmslev esprime la distinzione fra processo e sistema:

Un’altra distinzione importante per la teoria linguistica è quella fra la funzione “e” o
“congiunzione”, e la funzione “o” o “disgiunzione”. Questo è ciò che sottostà alla distinzione
fra processo e sistema: nel processo, nel testo, si ha un “e”, una congiunzione o coesistenza fra
i funtivi che in esso entrano; nel sistema si ha un “o”, una disgiunzione o alternanza fra i
funtivi che in esso entrano.
Consideriamo l’esempio (grafemico)
mani
pero
Scambiando m e p, a e e, n e r, i e o rispettivamente, otteniamo parole diverse, cioè mani,
pani, mero, pero, meni, paro, mani, peno, mano, peri: queste entità sono catene che entrano
nel processo linguistico (testo); d’altra parte m e p insieme, a e e insieme, n e r insieme, i e o
insieme, producono dei paradigmi che entrano nel sistema linguistico. In mani c’è
congiunzione o coesistenza fra m, a, n, e i: abbiamo “di fatto” davanti agli occhi m, a, n e i;
allo stesso modo c’è congiunzione o coesistenza fra p, e, r e o in pero. Ma fra m e p c’è
disgiunzione o alternanza: ciò che “di fatto” abbiamo davanti agli occhi è o m o p; allo stesso
modo c’è disgiunzione o alternanza fra a e e, n e r, i e o.
In un altro senso si può dire che le stesse entità entrano nel processo linguistico (testo) e nel
sistema linguistico: m considerata come componente (derivato) della parola mani entra in un
processo e quindi in una congiunzione, e considerata come componente (derivato) del
paradigma
m
p
m entra in un sistema e quindi in una disgiunzione. Dal punto di vista del processo m è una
parte, dal punto di vista del sistema m è un membro. I due punti di vista portano a riconoscere
due oggetti diversi poiché la definizione funzionale cambia; ma unendo e moltiplicando le due
diverse definizioni funzionali possiamo porci dal punto di vista che giustifica la nostra
affermazione che si tratta della “stessa” m. In un certo senso possiamo dire che tutti i funtivi di
una lingua entrano sia in processi sia in sistemi, contraggono sia congiunzione, o coesistenza,
che disgiunzione, o alternanza, e che la loro definizione in casi particolari come congiunti o
disgiunti, coesistenti o alternanti, dipende dal punto di vista da cui sono considerati.
Nella teoria linguistica, in contrasto con la scienza linguistica tradizionale e come reazione
deliberata ad essa, noi miriamo ad una terminologia non ambigua. […]
Chiameremo dunque correlazione la funzione “o”, e relazione la funzione “e”; chiameremo
rispettivamente correlati e relati i funtivi che contraggono queste funzioni. Su questa base
possiamo definire un sistema come una gerarchia correlazionale e un processo come una
gerarchia relazionale.
Ora, come abbiamo visto […], processo e sistema sono concetti di grande generalità, che
non si possono limitare esclusivamente a oggetti semiotici. I termini sintagmatica e
paradigmatica offrono designazioni speciali, pratiche e accettate largamente, per il processo
semiotico e per il sistema semiotico rispettivamente. Quando si tratta di linguaggio nel senso
ordinario del termine, che solo ci interessa qui, possiamo usare anche designazioni più
semplici: possiamo chiamare il processo testo, e il sistema lingua.
Un processo e un sistema che gli appartenga (gli “sottostia”) contraggono insieme una
funzione che, a seconda del punto di vista, si può concepire come una relazione o una
correlazione. […] [L]’esistenza di un sistema è presupposta necessariamente dall’esistenza di
un processo: il processo viene ad esistere grazie al fatto che c’è un sistema sottostante che lo
governa e determina nel suo sviluppo possibile. Un processo è inimmaginabile (perché
sarebbe, in un senso assoluto e irrevocabile, inesplicabile) senza un sistema ad esso
soggiacente. D’altra parte un sistema non è inimmaginabile senza un processo; l’esistenza di
un sistema non presuppone l’esistenza di un processo. Il sistema non viene ad esistere grazie
al fatto che si trovi un processo.
E’ dunque impossibile avere un testo senza una lingua ad esso soggiacente. D’altra parte si
può avere una lingua senza un testo costruito in tale lingua. Questo significa che la lingua in
questione è prevista dalla teoria linguistica come un sistema possibile, ma che nessun
processo appartenente a tale sistema è presente in maniera realizzata. Il processo testuale è
allora virtuale. (ib.: 40-4)

5. Forma, sostanza, materia

Come abbiamo visto, Hjelmslev riprende da Saussure la sua definizione di segno e


l’opposizione alla concezione tradizionale del segno; tuttavia, egli critica a sua volta
Saussure per aver cercato comunque di concettualizzare in qualche modo separatamente
espressione e contenuto (significante e significato, nei termini di Saussure). Infatti, nel
chiarire che la lingua elabora le sue unità costituendosi fra le due masse amorfe del
pensiero e della catena sonora, Saussure immaginava il pensiero in sé e per sé come,
appunto, una “massa amorfa e indistinta”, “una nebulosa in cui niente è necessariamente
delimitato”, e la catena sonora come una “materia plastica” indeterminata, “né più fissa
né più rigida” del pensiero preso in sé.

Ma questo pedagogico esperimento ragionativo, per quanto ben eseguito, è in realtà privo
di significato, e Saussure deve essere arrivato anche lui a questa conclusione. In una scienza
che evita postulati non necessari non c’è posto per l’assunto che la sostanza del contenuto (il
pensiero) o la sostanza dell’espressione (la catena sonora) precedono la lingua, nel tempo o
in un ordinamento gerarchico, o viceversa. Se conserviamo la terminologia di Saussure,
partendo appunto dai suoi presupposti, appare chiaro che la sostanza dipende dalla forma in
maniera tale che essa vive solo grazie alla forma e non si può dire in nessun modo che abbia
un’esistenza indipendente. (ib.: 55)

La sostanza di cui parlava Saussure, dunque, non esiste e non è neanche


concepibile in sé e per sé ma esiste ed è concepibile solo in quanto messa in forma,
dotata di forma da una lingua. Tuttavia, prosegue Hjelmslev,

[…] parrebbe giustificabile un esperimento in cui si confrontassero lingue diverse, estraendo o


sottraendo il fattore comune ad esse e a tutte le altre lingue che si possono introdurre nel
confronto. […] questo fattore comune sarà un’entità definita solo dal suo aver funzione
rispetto […] a tutti i fattori che rendono le lingue diverse le une dalle altre. Questo fattore
comune è da noi chiamato materia.
Così troviamo che le catene:

jeg véd det ikke (danese)


I do not know (inglese)

Je ne sais pas (francese)


En tieda (finlandese)
Naluvara (eschimese)
nonostante le loro differenze, hanno un fattore comune, cioè la materia, il senso, il pensiero
stesso. Questa materia così considerata esiste provvisoriamente come una massa amorfa,
un’entità inanalizzata definita solo dalle sue funzioni esterne, cioè dalle sue funzioni rispetto a
ognuno dei periodi citati. Possiamo immaginare questa materia analizzata da molti punti di
vista, soggetta a varie analisi diverse sotto le quali si presenterebbe come altrettanti oggetti
diversi. La si potrebbe per esempio analizzare da questo o dal quel punto di vista logico o
psicologico. In ognuna delle lingue considerate essa deve essere analizzata in maniera diversa:
ciò che si può interpretare solo come indicazione del fatto che la materia è organizzata,
articolata, formata in maniera diversa nelle diverse lingue. […]
Vediamo dunque che la materia non formata che si può estrarre da tutte queste catene
linguistiche è formata diversamente nelle singole lingue. Ogni lingua traccia le sue particolari
suddivisioni all’interno della “massa del pensiero” amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi
in disposizioni diverse, pone i centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse. E’
come una stessa manciata di sabbia che può prendere forme diverse, o come la nuvola di
Amleto che cambia aspetto da un momento all’altro. Come la stessa sabbia si può mettere in
stampi diversi, come la stessa nuvola può assumere forme sempre nuove, così la stessa materia
può essere formata o strutturata diversamente in lingue diverse. A determinare la sua forma
sono soltanto le funzioni della lingua, la funzione segnica e le altre da essa deducibili. La
materia rimane, ogni volta, sostanza per una nuova forma, e non ha altra esistenza possibile al
di là del suo essere sostanza per questa o quella forma. (ib.: 55-7)

E’ dunque attraverso un esperimento mentale di astrazione rispetto alle differenze


fra le varie lingue che per Hjelmslev si può concepire la materia (in danese mening, in
inglese purport, in francese matière o sens) come “massa amorfa”, “entità inanalizzata”.
Tuttavia, pur immaginandola in questi termini, si deve ricordare sempre che la materia in
sé non è conoscibile né esprimibile, perché conoscerla vuol dire organizzarla in categorie
concettuali di qualche tipo ed esprimerla in qualche lingua, il che equivale a dire che essa
non è più materia ma è già divenuta sostanza cui una lingua (e il relativo apparato
concettuale) ha dato forma.

In se stessa la materia è non formata, non soggetta a formazione, ma solo suscettibile di


formazione, di qualunque formazione; e se qui si trovano delle delimitazioni, esse
appartengono alla formazione e non alla materia. La materia è dunque in se stessa
inaccessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni conoscenza è un’analisi di qualche
tipo; la materia si può conoscere solo attraverso una qualche formazione, e non ha quindi
esistenza scientifica indipendente da tale formazione. (ib.: 82-3)

Quindi la massa amorfa o sostanza di cui parlava Saussure è la “materia” di


Hjelmslev, con la differenza che Hjelmslev ne specifica meglio il carattere di
inconoscibilità. “Sostanza” è invece per Hjelmslev la materia in quanto già messa in
“forma” da qualche lingua.
Ma vediamo più nel concreto che cosa sono forma, sostanza e materia per
Hjelmslev. La materia è l’universo mondo, e comprende idealmente tutto ciò che si può
conoscere, sapere, di cui si può avere esperienza (percettiva, immaginativa, concettuale,
ecc.), ma che non si è ancora conosciuto, interpretato ed espresso attraverso segni
linguistici e/o non linguistici. Da un lato, questo mondo non ancora semiotizzato
comprende un continuum informe di suoni, colori, configurazioni spaziali, immagini, che
le varie lingue e i vari sistemi semiotici possono utilizzare come piano dell’espressione,
dando forma a questo continuum in modi e secondo pertinenze diverse e quindi
producendo diverse sostanze dell’espressione; dall’altro, il continuum della materia
include tutti gli oggetti, eventi, fatti e relazioni del mondo, tutte le possibili esperienze e
tutti i pensieri che possono costituire il piano del contenuto cui le varie lingue danno
forma secondo punti di vista e pertinenze diverse, producendo quindi diverse sostanze
del contenuto.
I rapporti fra forma e sostanza sia sul piano dell’espressione che sul piano del
contenuto possono essere schematizzati col diagramma che segue:

Sostanza dell’espressione
-------------------------------
Forma dell’espressione

Forma del contenuto


-------------------------------

Sostanza del contenuto

Lo schema mostra da un punto di vista hjelmsleviano l’organizzazione di qualunque


sistema semiotico. La materia in sé, l’abbiamo visto, è inattingibile: noi possiamo
cogliere solo le sostanze e le forme con cui qualche cultura (la nostra oppure quella di
altri popoli e paesi), la lingua e i sistemi semiotici che esprimono quella cultura hanno
ritagliato, selezionato, pertinentizzato porzioni della materia complessiva del mondo che
ci circonda. Vediamo alcuni esempi di sostanze e forme sia dell’espressione che del
contenuto.
Fra le sostanze dell’espressione, abbiamo la voce articolata della lingua parlata e,
per quanto riguarda la lingua scritta, le configurazioni tipografiche con i loro contrasti di
bianco e nero (ma anche le configurazioni di pixel sul monitor di un computer nel caso
della videoscrittura); per quanto riguarda sistemi semiotici non verbali, abbiamo ad
esempio i pigmenti di colore organizzati sulla tela di un quadro, la configurazione dei
fotogrammi in una pellicola cinematografica, quella dei punti luminosi di uno schermo
televisivo, dei pixel del monitor di un computer quando costituiscono il piano di
espressione di video, animazioni multimediali, illustrazioni e fotografie digitali, ecc.
Come esempio di forma dell’espressione si pensi al modo in cui la fonologia
individua e sistematizza i suoni propri di una data lingua naturale nell’insieme dei suoni
che l’apparato vocale umano può produrre e che costituiscono la sostanza
dell’espressione. Ma di questo diremo meglio nel prossimo paragrafo.
Sul piano del contenuto, è sostanza del contenuto qualunque pensiero, oggetto,
evento, fatto, relazione del mondo, nella misura in cui è espresso da qualche lingua o
sistema semiotico.
Naturalmente non solo le varie lingue e i vari sistemi semiotici del mondo, ma
anche le scienze e molte discipline diverse si occupano di descrivere e categorizzare la
materia del mondo, trasformandola in sostanza del contenuto. Tali scienze, esterne alla
linguistica e alla semiotica, sono per Hjelmslev innanzi tutto la fisica, poi la biologia,
quindi, fra le scienze umane, la fenomenologia, l’antropologia e le scienze sociali. Nel
loro insieme queste scienze individuano diversi livelli o, come dice Hjelmslev, diversi
“strati” di sostanza del contenuto. Nei termini di Hjelmslev:

[…] sarebbe conveniente dire a quali scienze spetti la descrizione della materia, tanto più che
finora la linguistica è stata incline, su questo punto, a una vaghezza che ha profonde radici
nella tradizione. Qui si possono ricordare due fatti:
(a) Si può concepire la descrizione della materia (tanto riguardo all’espressione quanto
riguardo al contenuto linguistici) come essenzialmente spettante in parte alla fisica e in
parte all’antropologia (sociale), e con questo non intendiamo prendere posizione su certi
punti dibattuti nella filosofia contemporanea. Si può considerare la sostanza di tutti e due i
piani sia in termini di entità fisiche (suoni del piano dell’espressione, cose sul piano del
contenuto), sia in termini della concezione che di tali entità hanno gli utenti della lingua.
Si devono richiedere dunque, per entrambi i piani, una descrizione fisica e una descrizione
fenomenologica.
(b) Una descrizione esauriente della materia del contenuto linguistico richiede in effetti la
collaborazione di tutte le scienze non linguistiche; dal nostro punto di vista tutte le
scienze, senza eccezioni, si occupano del contenuto linguistico. (ib.: 84)

Per quanto riguarda la forma del contenuto, essa è la forma con cui una lingua o un
sistema semiotico specifico ritagliano, selezionano, pertinentizzano la materia del mondo,
trasformandola in sostanza del contenuto di quella lingua o sistema semiotico. Ogni
lingua e ogni sistema semiotico ritagliano la materia del mondo secondo una propria
specifica forma del contenuto, che differisce da quella imposta da altre lingue e/o sistemi
semiotici. In altre parole, la forma del contenuto è interna, immanente a una data lingua o
a un dato sistema semiotico, ed è quella che la teoria glossematica mira a cogliere e
descrivere nel rendere conto del funzionamento di quella lingua o sistema semiotico. Il
concetto di forma del contenuto sarà più chiaro quando, nel §7, esamineremo nel
dettaglio le forme del contenuto di alcune lingue naturali.
In sintesi, per riprendere tutte queste distinzioni in relazione al concetto di segno e
di funzione segnica, nei termini di Hjelmslev:

Se torniamo alla questione da cui siamo partiti, del significato più appropriato della parola
segno, siamo ora in condizione di veder più chiaro nella controversia fra i punti di vista della
linguistica tradizionale e quelli della linguistica moderna. Pare che sia vero che un segno è
segno di qualcosa, e che questo qualcosa si trova in un certo senso al di fuori del segno stesso.
Per esempio la parola mosca è il segno di un determinato insetto che vola ora in questa stanza,
insetto che, in un certo senso (tradizionale) non entra nel segno stesso. Ma questo particolare
insetto è un’entità di sostanza del contenuto che, attraverso il segno, è coordinata a una forma
del contenuto, ed ivi sistemata insieme ad altre entità di sostanza del contenuto (per esempio
la mosca come barbetta, la mosca come bastimento, la città di Mosca). Che un segno sia il
segno di qualcosa significa che la forma del contenuto del segno può sussumere questo
qualcosa come sostanza del contenuto. […] La sequenza sonora [‘moska], come fenomeno
unico, pronunciato hic et nunc, è un’entità di sostanza dell’espressione che, grazie al segno e
solo grazie ad esso, è coordinata a una forma dell’espressione, e come tale viene classificata
insieme a varie altre entità di sostanza dell’espressione (altre pronunce possibili, da parte di
altre persone o in altre occasioni, dello stesso segno).
Il segno è dunque, per quanto possa sembrare paradossale, segno di una sostanza del
contenuto e segno di una sostanza dell’espressione. E’ in questo senso che si può dire che il
segno è segno di qualcosa. […]
Ma pare più appropriato usare il termine segno come nome dell’unità che consiste di forma
del contenuto e di forma dell’espressione, ed è stabilita dalla solidarietà che abbiamo
chiamato funzione segnica. (ib.: 63)

Pertanto, una volta chiarito in che senso il segno è “l’unità che consiste di forma del
contenuto e di forma dell’espressione”, è chiaro anche in che senso la linguistica (e la
semiotica che dalla linguistica prende metodo e concetti) vada concepita come una
“scienza della forma”, autonoma e indipendente rispetto a tutte le altre scienze:

[…] Se la materia del contenuto e la materia dell’espressione si devono considerare come


descritte in maniera sufficiente (e nell’unica maniera adeguata) dalle scienze non linguistiche,
alla linguistica si deve assegnare il compito specifico di descrivere la forma linguistica, per
consentirne la proiezione sulle entità non linguistiche che, dal punto di vista del linguaggio,
costituiscono la sostanza. La linguistica deve dunque vedere il proprio compito principale
nell’edificazione di una scienza dell’espressione e di una scienza del contenuto su una base
interna e funzionale; essa deve costruire la scienza dell’espressione senza ricorrere a premesse
fonetiche o fenomenologiche, e la scienza del contenuto senza ricorrere a premesse
ontologiche o fenomenologiche (ma naturalmente senza rinunciare alle premesse
epistemologiche su cui tutta la scienza è fondata. (ib.: 85)

Tutti i concetti fin qui messi in gioco saranno più chiari quando li avremo
ulteriormente specificati in relazione alle lingue naturali.

6. Materia, sostanza e forma dell’espressione nelle lingue naturali

Nelle lingue naturali la materia dell’espressione è costituita dal continuum fonico-


acustico dei suoni che l’apparato fonatorio umano (composto da bocca, labbra, denti,
glottide, palato, corde vocali, ecc.) può produrre e che l’apparato uditivo umano può
percepire. Questo insieme di suoni costituisce la materia dell’espressione delle lingue
naturali solo se considerato come un continuum inanalizzato, precedente ogni tipo di
esame linguistico e scientifico. Esiste comunque una disciplina che studia tutti i suoni che
l’apparato fonatorio umano può produrre, e questa disciplina è la fonetica: l’insieme di
suoni producibili dall’apparto fonatorio umano, in quanto articolato e studiato, ovvero
messo in forma dalla fonetica, non è più continuum indifferenziato o materia ma un
livello di sostanza dell’espressione.
Dice Hjelmslev,

[…] si possono anche scoprire, confrontando lingue diverse, zone della sfera fonetica
suddivise in maniera diversa in lingue diverse. Possiamo per esempio pensare a una sfera
fonetico-fisiologica di movimento, che si può ovviamente rappresentare come spazializzata in
varie dimensioni, e che si può presentare come un continuum inanalizzato ma analizzabile
[…]. In tale zona amorfa è posto un numero diverso di figure (fonemi) in lingue diverse,
poiché le suddivisioni si trovano in punti diversi del continuo. Come esempio si può
considerare il continuo costituito dal profilo trasversale del palato, dalla faringe e dalle labbra.
In lingue ben note questa zona è divisa in tre settori, uno posteriore k, uno centrale t, e uno
anteriore p. Ma, limitandoci alle occlusive, eschimese e lettone per esempio distinguono due
aree k, la cui delimitazione non è la stessa nelle due lingue: l’eschimese distingue una zona
ululare e una velare, il lettone una velare e una velo-palatale. Molte lingue dell’India
distinguono due aree t, una con t retroflessa e una con t dentale, e così via. Un altro continuo
ovvio è quello delle vocali; il numero delle vocali varia da lingua a lingua, e le suddivisioni
sono diverse. […] Grazie in particolare alla straordinaria mobilità della lingua, le possibilità
sono indefinitamente ampie, ma ciò che è caratteristico è che ogni idioma pone le proprie
suddivisioni particolari entro questo indefinito numero di possibilità. […]
Gli esempi che abbiamo dato, il continuo vocalico e il profilo trasversale del palato, sono
dunque le zone fonetiche della materia, formate in maniera diversa in lingue diverse, a
seconda delle funzioni specifiche delle singole lingue, e organizzate quindi come sostanza
dell’espressione rispetto alla loro rispettiva forma dell’espressione. (ib.: 59-61)

Quanto si è appena visto di materia e sostanza dell’espressione riguarda il sistema


dell’espressione. Una distinzione analoga fra materia e sostanza dell’espressione si può
fare anche nell’ordine del processo:

Il tedesco [bεr’li:n], l’inglese [be:’lin], il danese [bær’lin], il giapponese [bεlulinu]


rappresentano formazioni diverse di una medesima materia dell’espressione (il toponimo
Berlin, che designa la città di Berlino). E’, ovviamente, indifferente che la materia del
contenuto sia, casualmente, in questo esempio, la stessa; infatti potremmo anche dire che, per
esempio, la pronuncia dell’inglese got (“ottenuto”), del tedesco Gott (“Dio”), e del danese
godt (“bene”), rappresentano formazioni diverse di una stessa materia dell’espressione. In
questo esempio la materia dell’espressione è la stessa, ma la materia del contenuto è diversa.
(ib.: 61-2)

Lo studio fonetico dell’insieme di suoni possibili non dice però ancora nulla dei
suoni che sono selezionati, fra tutti i suoni possibili a livello di apparato fonatorio, dal
sistema delle diverse lingue: ogni lingua seleziona come propri alcuni suoni (fonemi) e
non altri, e questi vengono poi riconosciuti automaticamente dai parlanti di quella lingua.
I fonemi delle varie lingue sono oggetto di studio della fonologia, che è la descrizione dei
sistemi e dell’organizzazione dei suoni nelle varie lingue del mondo.
La fonologia individua quindi la forma dell’espressione nelle lingue naturali.
Compito della linguistica è però quello di analizzare il piano dell’espressione in modo
esauriente, coerente e il più semplice possibile per individuare tutti i livelli di forma
dell’espressione, non solo quello fonologico.
Come procede dunque l’analisi linguistica del piano dell’espressione per
individuare tutti i livelli di forme dell’espressione di una lingua naturale?

In ogni singola partizione [partizione è per Hjelmslev l’analisi delle catene linguistiche a
livello di processo] potremo fare un inventario delle entità che hanno le stesse relazioni, che
possono cioè occupare la stessa “posizione” nella catena. Possiamo, per esempio, fare
inventari di tutte le proposizioni che si possono inserire in certe posizioni; in certe condizioni
ciò potrebbe portare a un inventario di tutte le proposizioni principali e a un inventario di tutte
le proposizioni secondarie. Analogamente possiamo fare un inventario di tutte le parole, di
tutte le sillabe, e di tutte le parti di sillabe con certe funzioni. […] Per soddisfare l’esigenza di
una descrizione esauriente sarà necessario fare tali inventari. […]
Quando paragoniamo gli inventari dati ai vari stadi della deduzione, vediamo che
generalmente la loro estensione decresce con l’avanzare del procedimento. Se il testo è
illimitato, cioè capace di estendersi grazie a un’aggiunta continua di parti ulteriori, come
accade se si prende una lingua viva come testo, sarà possibile registrare un numero illimitato
di periodi, un numero illimitato di proposizioni, un numero illimitato di parole. Ma prima o
poi nel corso della deduzione si arriva a un punto in cui il numero delle unità inventariate
diviene ristretto, e dopo cui esso diminuisce continuamente. Così pare certo che una lingua
avrà un numero limitato di sillabe, anche se tale numero sarà relativamente alto. […]
[Q]uando le parti di sillaba siano soggette a ulteriore partizione si arriva a entità chiamate
convenzionalmente fonemi; il loro numero è probabilmente così basso in qualunque lingua
che lo si può scrivere con due cifre, e in molte lingue è intorno alla ventina. (ib.: 46-7)

Ma cercando di analizzare le espressioni di segni nel modo indicato, l’esperienza induttiva


mostra che in tutte le lingue finora osservate si arriva a uno stadio nell’analisi dell’espressione
in cui non si può dire che le entità ottenute siano portatrici di significato e quindi espressioni
di segni. Sillabe e fonemi non sono espressioni di segni, ma solo parti di espressioni di segni.
(ib.: 50)

L’economia relativa nelle liste degli inventari di non-segni rispetto a quelle degli inventari
di segni corrisponde pienamente a quello che è, presumibilmente, il fine del linguaggio. Una
lingua è, per il suo stesso fine, in primo luogo e soprattutto un sistema di segni; per essere
pienamente adeguata essa deve essere sempre pronta a formare nuovi segni, nuove parole e
nuove radici. Ma, con tutta la sua illimitata ricchezza, per essere adeguata una lingua deve
essere anche facile da impiegare, pratica da apprendere e da usare. E, rispettando l’esigenza di
un numero illimitato di segni, ciò si può ottenere se tutti i segni sono costituiti da “non segni”
il cui numero sia limitato, anzi, preferibilmente, limitatissimo. Questi “non segni” che entrano
in un sistema di segni come parti di segni, saranno chiamati qui figure; si tratta di un termine
puramente operativo, introdotto semplicemente per convenienza. Una lingua è dunque
organizzata in maniera che, grazie a un gruppetto di figure e a disposizioni sempre nuove di
esse, si possa costituire un numero larghissimo di segni. (ib.: 51)

I fonemi individuati dalla fonologia costituiscono dunque il livello ultimo di analisi


del piano dell’espressione, le unità più piccole del piano dell’espressione; nei termini di
Hjelmslev, sono non-segni o figure del piano dell’espressione, perché ai singoli fonemi
non corrisponde nessun significato sul piano del contenuto. Come vedremo nel prossimo
paragrafo, nello stesso modo in cui si arrivano a individuare figure o non-segni sul piano
dell’espressione, così ci sono figure o non-segni anche sul piano del contenuto: in
generale per Hjelmslev le figure sono le unità minime individuate dall’analisi sia sul
piano dell’espressione che su quello del contenuto, unità minime cui non corrisponde
nulla sul piano di analisi che non è di loro pertinenza (quello del contenuto nel caso delle
figure dell’espressione, quello dell’espressione nel caso delle figure del contenuto). Si
possono quindi definire le figure come elementi minimi che hanno solo funzioni
omoplane (= all’interno di un solo piano) e nessuna funzione segnica autonoma.
Le forme dell’espressione di una lingua naturale successive a quella individuata
dalla fonologia individuano unità di dimensioni più grandi dei fonemi. Queste unità di
dimensioni maggiori non sono più figure prive di significato ma sono già segni, cioè
hanno un corrispettivo sul piano del contenuto e sono: (1) le unità individuate dalla
morfologia, cioè i morfemi, ovvero le unità minime di costruzione delle parole dotate di
significato (le cosiddette radici: cavall-, bell-, cammin-, ecc.) o di funzione grammaticale
(i vari gli affissi indicanti tempo verbale, persona, numero genere, ecc.); (2) le forme
individuate dalla sintassi, che studia come le parole e i sintagmi si organizzano in frasi;
(3) per espressioni linguistiche superiori alla frase, le forme studiate dall’analisi del
discorso; (4) per i testi narrativi, le forme del racconto studiate dalla semiotica narrativa
e dalla narratologia.
Ma, per tornare alle unità minime prive di significato o figure dell’espressione,
come fa in pratica la fonologia a individuare il sistema di fonemi specifico di una certa
lingua, ovvero tutte e solo le figure dell’espressione proprie di quella lingua? E’ qui che
entra in gioco un metodo linguistico specifico, la cosiddetta “prova di commutazione”.

La prova di commutazione
I suoni (fonemi) che fanno parte del sistema di una lingua sono quelli per i quali
esiste almeno una coppia di parole in cui, se si scambiano due suoni, si produce una
differenza di significato: questi due suoni che, se scambiati, producono una differenza di
significato sono, appunto, fonemi che fanno parte del sistema di quella lingua.
In italiano, ad esempio, non è pertinente la differenza fra una pronuncia breve della
vocale [i] (= i breve) e una pronuncia lunga [i:] (= i lunga): possiamo pronunciare la
parola “pino” allungando più o meno la pronuncia della /i/, ma il significato della parola
che pronunciamo con una /i/ più o meno lunga non cambia. Il che equivale a dire che [i]
(i breve) e [i:] (i lunga) non sono due fonemi distinti nel sistema della lingua italiana. In
inglese invece la differenza fra [i] e [i:] è pertinente (ovvero [i] e [i:] sono due fonemi
distinti nel sistema della lingua inglese), perché, se in inglese si scambia una [i] con una
[i:] si producono parole dotate di significato diverso, come ad esempio shit (merda) vs.
sheet (foglio) e ship (nave) vs. sheep (pecora).
Per fare altri esempi, in italiano abbiamo i fonemi distinti /p/, /c/, /v/, /l/, /r/, /s/, /m/,
/n/, perché la loro sostituzione in una serie di parole come quella che segue determina
significati ben differenti: pane vs. cane vs. vane vs. lane vs. rane vs. sane vs. mane vs.
nane. Analogamente, si veda la serie di parole inglesi: car (auto) vs. bar (sbarra) vs. tar
(catrame) vs. far (lontano), da cui emerge che nel sistema della lingua inglese /c/, /b/,
/t/, /f/ sono fonemi distinti.
Questo test per cui si sostituiscono coppie di suoni in coppie di parole per
determinare quali sono i fonemi di una lingua è detto prova di commutazione (e i sistemi
semiotici che vi si possono assoggettare sono detti commutabili). La prova di
commutazione è un concetto operativo che era stato già individuato dal linguista N.S.
Trubeckoj (della scuola fonologica del Circolo di Praga), ma che è stato definito
compiutamente in questi termini solo da Hjelmslev e Uldall al V Congresso di Fonetica
del 1936. Consiste, come abbiamo visto, nell’introdurre artificialmente un mutamento,
sul piano dell’espressione, nella catena di suoni che compongono una parola e
nell’osservare se questo mutamento determina un cambiamento relativo, sul piano del
contenuto, nel significato della parola. Se la sostituzione comporta un mutamento sul
piano del contenuto, allora siamo di fronte a un’unità minima del piano dell’espressione,
detta fonema.
Va ribadito che la prova di commutazione serve a distinguere le unità minime
pertinenti sul piano dell’espressione di una lingua, che in sé sono prive di significato
(tanto è vero che Hjelmslev dice che i fonemi sono non-segni o figure dell’espressione):
il cambiamento di significato delle parole è chiamato in causa solo per determinare
differenze pertinenti sul piano dell’espressione.
Per fare un altro esempio, in italiano le varie pronunce della [a] (breve, lunga,
aperta breve e aperta lunga) appartengono alla stessa classe di suoni, che è il fonema /a/
pare
pa:re
paere
pae:re
Un fonema è definibile quindi come una classe di suoni commutabili fra loro, suoni
cioè che si possono scambiare fra loro nella stessa posizione senza che ciò produca
cambiamenti di significato. Nel caso appena visto, abbiamo /a/ = {[a], [a:], [ae], [ae:] ...}.
I suoni compresi nell’insieme astratto che costituisce un fonema sono detti varianti o
allofoni del fonema cui appartengono, mentre il fonema è detto anche invariante. Come
abbiamo fatto fin qui, nell’indicare un fonema si prende come suo nome il simbolo della
variante del fonema usata più frequentemente nella lingua cui ci si riferisce e lo si mette
fra barrette (es.: /a/).
Ora, come vedremo meglio fra breve, per Hjelmslev l’analisi linguistica deve
avvalersi della prova di commutazione non solo per individuare i fonemi o figure
dell’espressione, come ha fatto il Circolo di Praga prima di lui, ma deve applicarla
sistematicamente per individuare tutti i livelli di invarianti e varianti esistenti in una data
lingua, sia sul piano dell’espressione che sul piano del contenuto. E’ applicando
sistematicamente questo metodo che si individua una delle caratteristiche fondamentali
delle lingue naturali, che le distinguono da molti altri sistemi semiotici più semplici: la
doppia articolazione (o dualità).

La doppia articolazione (o dualità o biplanarità)


L’idea generica secondo cui le lingue sono articolate è antichissima ed è entrata a
far parte della coscienza linguistica comune: si parla infatti di “linguaggio articolato”.
Così Saussure esprimeva il concetto di linguaggio articolato:

In latino articulus significa “membro, parte, suddivisione in una sequenza di cose”. In materia
di linguaggio l’articolazione può designare tanto
(1) la suddivisione della catena parlata in sillabe, quanto
(2) la suddivisione della catena di significazioni in unità significative (parole). (Saussure
1916, trad. it.: 20)

In questo modo già Saussure si avvicinava all’idea che le lingue naturali non sono
semplicemente articolate, ma sono doppiamente articolate, sono cioè organizzate in due
livelli strutturali diversi: (1) le unità foniche, ovvero i fonemi, in sé privi di significato
che, combinandosi, danno luogo a (2) unità di livello superiore dotate di significato.
E’ stato il linguistica francese André Martinet a introdurre per primo esplicitamente
il concetto di “doppia articolazione” delle lingue naturali. Per Martinet il livello dei
fonemi è quello della seconda articolazione, e il livello delle parole dotate di significato è
quello della prima articolazione: nell’analisi del piano dell’espressione, infatti,
incontriamo prima le parole come unità capaci di veicolare autonomamente significati
distinti (o meglio, come ci insegna la morfologia, incontriamo i morfemi, visto che le
parole sono composte a loro volta di unità significative di livello inferiore), e soltanto in
un secondo momento individuiamo, attraverso la prova di commutazione, i fonemi.
Mentre sul piano del contenuto esiste un’entità (o meglio, come vedremo nei §§7-8, un
insieme di componenti o tratti di significato) che corrisponde a ogni singola parola (e a
ogni singolo morfema), non esiste nulla sul piano del contenuto che corrisponda ai singoli
fonemi.
In altre parole, l’unità minima autonoma (ovvero il frammento di processo che
possiamo identificare con certezza e distinguere dagli altri) sul piano dell’espressione è il
fonema, mentre sul piano del contenuto è un insieme più vasto di componenti la cui
espressione è una parola o un morfema, non un fonema. In altri termini ancora, le lingue
naturali si devono analizzare a due livelli diversi e le unità minime autonome sul piano
del contenuto sono di dimensioni molto più grandi delle unità minime autonome sul
piano dell’espressione: è questa la doppia articolazione, che fa riferimento appunto al
fatto che, poiché le unità minime sul piano dell’espressione hanno una dimensione
diversa dalle unità minime sul piano del contenuto, il piano dell’espressione e quello del
contenuto non hanno la stessa articolazione, ma ne hanno due diverse.
Questa dualità di dimensioni di articolazione è una delle caratteristiche più
economiche del linguaggio umano in quanto, con un insieme limitato di suoni distinti,
siamo in grado di produrre un numero molto grande di combinazioni di suoni in parole
che hanno significati distinti. Il che equivale a dire che la doppia articolazione delle
lingue naturali e dei sistemi comunicativi più complessi è una caratteristica che sta alla
base della loro produttività.
Inoltre, la doppia articolazione è una delle caratteristiche fondamentali che
distinguono le lingue naturali rispetto ad altri sistemi di significazione più semplici, nei
quali il piano dell’espressione e quello del contenuto si articolano allo stesso modo,
ovvero a ogni unità del piano dell’espressione corrisponde esattamente un’unità del piano
del contenuto. Si pensi ad esempio al sistema dei semafori, in cui all’unità minima del
piano dell’espressione costituita dalla luce rossa corrisponde uno e un solo contenuto,
quello di “fermarsi”, all’unità minima del piano dell’espressione costituita dalla luce
gialla corrisponde uno e un solo contenuto, quello di “prepararsi a fermarsi”, all’unità
dell’espressione costituita dal verde corrisponde uno e un solo contenuto, quello di
“passare”.
I sistemi di significazione in cui il piano dell’espressione è organizzato
parallelamente al piano del contenuto (ovvero con questa corrispondenza uno a uno fra
unità minime del piano dell’espressione e unità minime del piano del contenuto) sono
detti conformi, monoplanari o simbolici. Sono conformi i sistemi più elementari di
significazione, dalle luci lampeggianti sulle automobili con cui si segnala che si vuole
svoltare a destra o a sinistra, ai sistemi di segnalazione con le bandiere che si usano in
marina.
I sistemi di significazione a doppia articolazione, nel senso appena visto, sono detti
invece non conformi o biplanari o duali o semiotici.
La semiotica successiva a Hjelmslev ha individuato un terzo tipo di sistemi, quelli
semi-simbolici. Si tratta di sistemi di significazione in cui non si ha una corrispondenza
fra singole unità dell’espressione e singole unità del contenuto, come nel caso dei sistemi
simbolici, ma fra coppie oppositive di unità dell’espressione e coppie oppositive di unità
del contenuto (nei termini della semiotica greimasiana si parla oggi di corrispondenza fra
categorie del piano dell’espressione e categorie del piano del contenuto). Si pensi ad
esempio a un film a colori in cui si usa il bianco e nero per marcare i flashback di un
protagonista: all’opposizione sul piano dell’espressione “colore vs. bianco e nero”
corrisponde, sul piano del contenuto, l’opposizione “presente vs. passato”. Un celebre
esempio di Greimas è quello dell’affermazione e della negazione che, perlomeno nella
cultura occidentale, si fanno spostando la testa lungo l’asse verticale o orizzontale del
collo: alla coppia oppositiva sul piano dell’espressione “movimento del capo verticale vs.
movimento del capo orizzontale” corrisponde la coppia oppositiva sul piano del
contenuto “affermazione vs. negazione”.
7. Materia, sostanza e forma del contenuto nelle lingue naturali

Come già visto in §5, nell’introdurre il concetto di materia come “fattore comune”
che si astrae mettendo a confronto lingue diverse, Hjelmslev ha confrontato le seguenti
frasi, che vogliono tutte dire “Non so”:
jeg véd det ikke (danese)
I do not know (inglese)

Je ne sais pas (francese)


En tieda (finlandese)
Naluvara (eschimese)

Da questo confronto si capisce come lingue diverse esprimano in forme diverse,


producendo sostanze del contenuto diverse, gli stessi concetti, cioè quello di sapere, di
negazione, di tempo verbale presente, di prima persona singolare. La distinzione fra
forma e sostanza del contenuto si applica in questo caso all’ordine del processo: si tratta
infatti di frasi che possono essere pronunciate in atti di parole diversi da individui che
parlano lingue diverse per esprimere certi concetti.
La stessa distinzione si ritrova anche nell’ordine del sistema. Dice Hjelmslev:

Riconosciamo così nel contenuto linguistico, nel suo processo, una forma specifica, la
forma del contenuto che è indipendente dalla materia ed ha con essa un rapporto arbitrario, e
la forma rendendola sostanza del contenuto.
Non occorre una lunga riflessione per vedere che lo stesso vale per il sistema del contenuto.
Si può dire che un paradigma in una lingua, e un paradigma corrispondente in un’altra
coprano una medesima zona di materia che, astratta da tali lingue, è un continuo amorfo
inanalizzato entro cui l’azione formatrice delle lingue pone delle suddivisioni.
Dietro ai paradigmi offerti nelle varie lingue dalle designazioni dei colori possiamo,
sottraendo le differenze, scoprire tale continuo amorfo, lo spettro solare, a cui ogni lingua
impone arbitrariamente le sue suddivisioni. Se le formazioni in questa zona della materia sono
per lo più approssimativamente le stesse nelle lingue europee più diffuse, non occorre andare
molto lontano per trovare formazioni che ad esse non corrispondano. Confrontando il gallese
e l’inglese per esempio, troviamo che all’inglese green corrispondono in gallese gwyrdd o
glas; a blue corrisponde glas; a gray corrispondono glas o llwyd; a brown corrisponde llwyd.
Cioè, la parte dello spettro coperta dall’inglese green è tagliata in gallese da una linea che
assegna una parte di tale zona alla parola gallese che copre anche l’area dell’inglese blue,
mentre la distinzione inglese fra green e blue non si trova in gallese. In gallese mancano anche
le distinzioni inglesi fra blue e gray e fra gray e brown; d’altra parte l’area coperta dall’inglese
gray è suddivisa in gallese e attribuita in parte all’area che corrisponde a blue e in parte
all’area che corrisponde a brown. Un confronto schematico illustra la mancanza di
corrispondenza fra le delimitazioni nelle due lingue:
gwyrdd
green
blue glas
gray
llwyd
brown
I paradigmi dei morfemi illustrano situazioni simili. La zona del numero è analizzata
diversamente in lingue che distinguono solo un singolare e un plurale, in lingue che
aggiungono un duale (come il greco antico e il lituano), e in lingue che hanno anche un
paucale, un triale (come la maggior parte delle lingue melanesiane, la lingua indonesiana
occidentale saŋir, nelle isole fra Mindanao e le Celebes, e alcuni dialetti della lingua kulin
dell’Australia sud-orientale), o anche un quadrale (come la lingua micronesiana delle isole
Gilbert). La zona del tempo è analizzata in maniera diversa in lingue che (a parte formazioni
perifrastiche) hanno solo un presente e un passato (come, per esempio, l’inglese), e in cui il
presente copre quindi anche l’area coperta in altre lingue dal futuro, e in lingue che pongono
un limite fra presente e futuro; le suddivisioni sono ancora diverse in lingue (come il latino, il
greco antico, il francese, l’italiano) che distinguono diversi tipi di passato.
Questa mancanza di corrispondenza entro una stessa zona della materia si presenta
dappertutto. Si confrontino, ad esempio, le seguenti corrispondenze fra danese, tedesco e
francese:

Baum arbre
Træ
Holz bois

Skov Wald forêt

Possiamo concludere che in una delle due entità che sono funtivi della funzione segnica -
cioè il contenuto - la funzione segnica istituisce una forma, la forma del contenuto, che dal
punto di vista della materia è arbitraria, e che si può spiegare solo grazie alla funzione
segnica, ed è ovviamente solidale con essa. In questo senso Saussure ha ragione nel
distinguere fra forma e sostanza. (ib.: 57-9)

Il modo in cui una lingua ritaglia la materia del contenuto è dunque arbitrario o
immotivato, come già aveva sottolineato Saussure: il mondo non nasce “etichettato”
(come voleva la concezione della lingua come “nomenclatura”, criticata sia da Saussure
che da Hjelmslev), i contenuti delle parole in una data società e cultura cambiano nel
tempo e differiscono da quelli di altre società e culture. Dice Volli (2000):

Due secoli fa non c’erano parole per dire “elettricità”, “calcolatore”, “automobile”, perché
gli oggetti stessi non erano stati inventati. Parole come “libertà” e “eguaglianza” esistevano,
ma, prima della Rivoluzione francese, avevano certo un significato sensibilmente diverso.
Anche il significato di “amore” è molto cambiato nel corso dei secoli, fra il desiderio fisico
dei greci, l’amore angelicato di Dante e quello passionale dei romantici.
Inoltre ci sono lingue che classificano in maniera diversa dei fenomeni universali della
percezione umana come i colori e i sapori: certe lingue hanno griglie più complesse, altre più
semplici. Così gli animali, gli oggetti naturali, gli aspetti del cielo, i sentimenti. Il modo in cui
questi campi di interesse comunicativo sono organizzati dipende dalla singola società, e
quindi, di nuovo, dalla sua storia. Naturalmente tutte le sfumature di colore sono percepite alla
stessa maniera da occhi fatti alla stessa maniera, anche se, per esempio, non vi è in una certa
cultura l’“unità culturale” corrispondente a una certa sfumatura di azzurro; e le lingue sono
attrezzate per esprimere in qualche modo (per via di perifrasi, usando calchi, metafore e altri
espedienti) anche i contenuti per cui “mancano le parole” e che per caso si trovino a dover
esprimere. In italiano, parole come “rosa” o “marrone” (che vengono da certe piante per
analogia), “tifone” o “computer” (prestiti da lingue straniere), “pomodoro” o “grattacielo”
testimoniano di questo processo di adattamento, che è continuo e pervasivo. […]
Ogni significato, come ogni significante di un codice arbitrario, si può pensare come una
sorta di gettone il cui valore consiste nelle relazioni di opposizione che lo distinguono dagli
altri significati che gli sono in un certo senso vicini. L’alba è il momento che non è più la notte
e non ancora il giorno; l’affetto è un sentimento che non è così passionale come l’amore ma
neppure così impersonale come la simpatia, ecc. Vi è chi, come i linguisti Sapir e Whorf, ha
sostenuto che questa diversa organizzazione dei significati nelle varie lingue implica modi
diversi di pensare. La questione è controversa, ma certo la semiotica deve ritenere che anche il
sistema degli oggetti che si possono comunicare, come quello dei significanti che lo
esprimono, sia arbitrario. (Volli 2000: 40-1)

Il metodo che l’analisi linguistica deve applicare per individuare la forma del
contenuto di una lingua, ovvero il modo in cui una lingua ritaglia la materia del
mondo in unità minime o figure del contenuto è ancora una volta, secondo Hjelmslev,
la prova di commutazione (o prova dello scambio):

[…] è una conseguenza logica inevitabile che questa prova dello scambio si possa applicare
al piano del contenuto, e non soltanto al piano dell’espressione, e debba consentirci di
registrare le figure che compongono i contenuti dei segni. Come sul piano dell’espressione,
l’esistenza di figure non sarà che la logica conseguenza dell’esistenza di segni. Si può dunque
prevedere con certezza che tale analisi è realizzabile. E si può aggiungere subito che è della
massima importanza che essa sia realizzata, poiché si tratta di una condizione preliminare
necessaria per una descrizione esauriente del contenuto. Tale descrizione esauriente
presuppone la possibilità di spiegare e descrivere un numero illimitato di segni, anche dal
punto di vista del loro contenuto, valendosi di un numero limitato di figure. E l’esigenza della
riduzione deve essere qui la stessa che sul piano dell’espressione: quanto più basso sarà il
numero delle figure del contenuto, tanto meglio potremo soddisfare il principio empirico nella
sua esigenza della descrizione più semplice possibile.
Fino ad ora questa analisi in figure del contenuto non è mai stata compiuta, e neppure
tentata dalla linguistica, sebbene un’analisi corrispondente in figure dell’espressione sia tanto
antica quanto l’invenzione stessa della scrittura alfabetica (per non dire più antica: dopo tutto
l’invenzione della scrittura alfabetica presuppone un siffatto tentativo di analisi
dell’espressione). Questo squilibrio ha avuto conseguenze catastrofiche: in presenza di un
numero illimitato di segni, l’analisi del contenuto è apparsa un problema insolubile, una fatica
di Sisifo, un ostacolo insuperabile. (ib.: 72-3)

Si può dire che l’analisi in figure sul piano dell’espressione consista, in pratica, nella
risoluzione di entità che entrano in inventari illimitati (per esempio espressioni di parole) in
entità che entrano in inventari limitati, e questa risoluzione è portata avanti fino a che restino
solo gli inventari più limitati. Lo stesso varrà per l’analisi in figure sul piano del contenuto.
[…]
Così in pratica il procedimento consiste nel cercare di analizzare le entità che entrano in
inventari illimitati puramente in entità che entrino in inventari limitati. Il compito consisterà
dunque nel portare avanti l’analisi fino a che tutti gli inventari siano diventati limitati, anzi
quanto più limitati possibile. (ib.: 77)

La prova di commutazione costituisce quindi il metodo generale grazie al quale la


linguistica può realizzare l’analisi di una lingua in maniera esauriente, soddisfacendo
cioè sia un principio di economia che un principio di riduzione, che Hjelmslev enuncia
come segue:

Principio di economia: la descrizione si compie attraverso un procedimento. Il


procedimento deve essere tale che il risultato sia il più semplice possibile, e deve essere
interrotto se non porta a ulteriore semplificazione.
Principio di riduzione: ogni operazione nel procedimento va continuata o ripetuta fino ad
esaurimento della descrizione, e deve ad ogni stadio portare alla registrazione del numero più
basso possibile di oggetti. (ib.: 66, corsivi dell’autore)

Ma come si applica la prova di commutazione sul piano del contenuto?

Questa regola va applicata sul piano del contenuto allo stesso modo che sul piano
dell’espressione. Se, per esempio, un inventario meccanico a un dato stadio del procedimento,
porta a registrare in italiano le entità di contenuto “montone”, “pecora”, “porco”, “scrofa”,
“toro”, “vacca”, “stallone”, “giumenta”, “fuco”, “pecchia”, “uomo”, “donna”, e “maschio”,
“femmina”, e “(capo) ovino”, “(capo) suino”, “(capo) bovino”, “(capo) equino”, “ape”,
“(essere) umano”, le prime dodici entità vanno eliminate dall’inventario degli elementi se
possono essere spiegate in maniera univoca come unità relazionali che comprendono solo
“maschio” e “femmina” da un lato, e “ovino”, “suino”, “bovino”, “equino”, “ape”, “umano”
dall’altro. Qui, come sul piano dell’espressione, il criterio è la prova di scambio con cui si
trova una relazione fra correlazioni su ciascuno dei due piani. Come scambi fra sai, sa e si
possono comportare scambi fra tre contenuti diversi, così scambi fra le entità di contenuto
“toro”, “maschio” e “bovino” possono comportare scambi fra tre espressioni diverse. “Toro” =
“bovino maschio” sarà diverso da “vacca” = “bovino femmina” esattamente come sl è
diverso, poniamo, da sn; e “toro” = “bovino maschio” sarà diverso da “stallone” = “equino
maschio” esattamente come sl è diverso, poniamo, da fl. Lo scambio di un solo elemento con
un altro è, in tutti e due i casi, sufficiente a comportare uno scambio sull’altro piano della
lingua. (ib.: 75-6)
In breve, Hjelmslev propone una combinatoria di elementi del contenuto che può
essere schematizzata come propone Eco (1984: 77):

Ovino Suino Bovino Equino Ape Umano


Maschio Montone Porco Toro Stallone Fuco Uomo
Femmina Pecora Scrofa Vacca Giumenta Pecchia Donna

Per Hjelmslev tutte le unità di contenuto che in questo schema sono espresse dalle
parole in corsivo possono essere eliminate in quanto analizzabili come combinazione
delle unità di contenuto espresse dalle parole in tondo nella riga e nella colonna
corrispondenti (“montone” è eliminabile perché equivalente a “ovino maschio”, “vacca”
è eliminabile perché equivalente a “bovino femmina”, ecc.). Le parole in tondo della
colonna più a sinistra e della riga più in alto nella tabella esprimono appunto le figure del
contenuto di cui parla Hjelmslev, ovvero le unità minime che analizzano il contenuto
delle parole in corsivo ma non sono a loro volta analizzabili in altre figure del contenuto.
In questo modo l’analisi linguistica sarebbe giunta a individuare le componenti ultime
anche sul piano del contenuto, analogamente a quanto aveva fatto individuando i fonemi
sul piano dell’espressione.

8. Alcuni problemi dell’analisi in figure sul piano del contenuto


In sintesi lo scopo finale dell’analisi linguistica di Hjelmslev è, l’abbiamo visto,
quello di “analizzare le entità che entrano in inventari illimitati puramente in entità che
entrino in inventari limitati” e, meglio ancora, “quanto più limitati possibile”. E’ così che
la glossematica pretende di individuare in modo esauriente, coerente e quanto più
semplice possibile la forma di una lingua, sia sul piano dell’espressione che su quello del
contenuto. Ora, sappiamo che il metodo di Hjelmslev funziona sul piano dell’espressione,
visto che in tutte le lingue del mondo i fonemi sono di numero finito e piccolo (poche
decine); tuttavia questo metodo incontra diversi problemi sul piano del contenuto, dove
non funziona se non nell’analisi del significato di pochissimi tipi di parole.
L’analisi in figure del contenuto proposta da Hjelmslev è all’origine di quella che,
dopo di lui, è diventata una delle procedure più note per l’analisi del significato delle
parole: la cosiddetta “analisi componenziale”. Tale procedura si basa sull’idea che il
significato di parole come nomi comuni, verbi, aggettivi, avverbi si risolva in una somma
di componenti o tratti di significato, che sono altre parole dotate di significato più
generale che possono far parte anche dell’analisi del significato di altre parole ed essere
quindi comuni all’analisi del contenuto di più parole. Quest’idea sta anche alla base delle
cosiddette semantiche a dizionario, secondo le quali il significato delle parole è dato da
un’equivalenza con (e dunque si esaurisce in) un insieme finito di tratti o componenti di
significato.
Le figure del contenuto di Hjelmslev sono appunto componenti di significato
generali e comuni a più parole: nell’esempio dato, la figura di contenuto “ovino” è più
generale di ciascuna delle unità di contenuto “pecora” e “montone”, della cui analisi fa
parte, e comune a entrambe; le figure di contenuto “maschio” e “femmina” sono le più
generali di tutte, visto che ognuna di esse è comune al significato di sei parole. Detto nei
termini dell’analisi componenziale, il significato di “pecora” equivale alla somma dei
componenti o tratti di significato “ovino” e “femmina” (pecora = +ovino + femmina) e il
significato di “uomo” equivale alla somma dei componenti o tratti “essere umano” e
“maschio” (uomo = +essere umano + maschio), ecc.
Ma cosa non funziona nel metodo di Hjelmslev applicato al piano del contenuto?
Molte critiche sono state mosse contro l’analisi componenziale del significato, per un
approfondimento delle quali rimandiamo a Violi (1997: cap. 2). Richiamiamo qui
brevemente solo un paio dei problemi più gravi di un approccio hjelmsleviano al
significato.
(1) L’analisi del contenuto di “scrofa” attraverso gli elementi “suino” e “femmina”
non produce, come vorrebbe Hjelmslev, due figure del contenuto prive di un
corrispettivo sul piano dell’espressione, ma attribuisce necessariamente a questi
due elementi del contenuto due espressioni nuove, appunto “suino” e “femmina”.
In altri termini, l’analisi del contenuto non produce equivalenze di segni
linguistici con non-segni o figure, ma inevitabilmente con altri segni linguistici,
con altre parole dotate di significato loro proprio.
(2) Se l’analisi del contenuto produce equivalenze di segni linguistici con altri segni
linguistici, di parole con altre parole, il significato di queste ulteriori parole avrà a
sua volta bisogno di essere analizzato e così via, in un processo che di principio è
inarrestabile. Analizzare il contenuto delle parole con altre parole non riduce
affatto il numero di entità messe in gioco dall’analisi linguistica, e di questo lo
stesso Hjelmslev si rende conto quando ammette che “l’inventario dei contenuti di
parole è illimitato” (ib.: 77). Ad esempio, è evidente che ciò che sappiamo del
significato della parola “uomo” è molto più complesso, articolato, ricco e sfumato
della somma di componenti +maschio +essere umano +animato +adulto cui
l’analisi componenziale del significato vorrebbe ridurlo: tale sapere comprende
virtualmente tutte le conoscenze che possediamo, dall’uomo di Neanderthal alla
costituzione dell’organismo fisico-biologico, ed è un insieme di informazioni
sconfinato, potenzialmente infinito in quanto include praticamente tutto il sapere
di una data cultura relativamente al concetto di uomo. Pensare alla
rappresentazione del contenuto attraverso un “inventario limitato” e
autosufficiente di componenti di significato è del tutto inadeguato a rendere conto
di questa complessità e ricchezza.
Dalla critiche all’analisi componenziale del significato e alle semantiche
dizionariali, sono nate le cosiddette semantiche a enciclopedia, nell’accezione di Eco
(1984). Pensare nei termini di una semantica a enciclopedia vuol dire in sintesi sostenere
che il significato di una parola è rappresentato da un insieme potenzialmente illimitato di
componenti di significato, appartenenti anche a sistemi semiotici non verbali, e che
questo insieme potenzialmente illimitato non è equivalente (ovvero non è perfettamente
sostituibile in tutti i contesti) al significato della parola stessa, ma costituisce un insieme
di istruzioni per la comprensione e l’applicazione della parola nei suoi differenti contesti
d’uso.

(Giovanna Cosenza)

Riferimenti bibliografici

Hjelmslev, L.
1943 Omkring sprogteoriens grundlaeggelse (tr. it. I fondamenti della teoria del
linguaggio, Torino, Einaudi).

Eco, U.
1984 Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino Einaudi.

Violi, P.
1997 Significato ed esperienza, Milano, Bompiani.

Volli, U.
2000 Manuale di semiotica, Bari, Laterza.
Conoscenza e interpretazione:
La semiotica cognitiva di Ch. S. Peirce
Cosa vuole dire interpretare un testo? Cosa succede quando leggiamo un racconto,
una poesia, un articolo di giornale o le istruzioni per l’uso del videoregistratore?
Cosa vuol dire interpretare il mondo? Cosa succede quando decifriamo un evento
del mondo fisico, ad esempio risalendo dalle impronte all’identità dell’animale-
impressore, dal fumo al fuoco, dalla nuvola al temporale in arrivo, da una reazione
chimica alle sue cause scatenanti?
C’è un meccanismo comune tra il modo in cui interpretiamo i testi e il modo in cui
interpretiamo il mondo?

In passato, la riflessione sull’interpretazione dei testi e quella sull’interpretazione


del mondo sono state trattate come due branche separate della filosofia. Se la disciplina
che tradizionalmente si è occupata dell’interpretazione dei testi (sacri, giuridici e letterari)
è l’ermeneutica, la comprensione dei princìpi logici che rendono possibile
l’interpretazione del mondo è stata affidata alla gnoseologia (o teoria della conoscenza) e
all’epistemologia (la disciplina filosofica che si interessa ai meccanismi
dell’accrescimento del sapere scientifico, in quanto contrapposto ad altre forme di
conoscenza).
In senso stretto, interpretare testi significa conferire senso a quegli artefatti
comunicativi (verbali, ma anche iconici, acustici, ecc.) prodotti da qualcuno con il preciso
intento di comunicare qualcosa, laddove interpretare il mondo vuol dire comprendere le
cause di determinati fenomeni naturali (fenomeni atmosferici, sintomi fisici, reazioni
chimiche, ecc.) privi di un emittente vero e proprio. La distinzione tra le due forme di
interpretazione - la prima rivolta ai segni artificiali trasmessi intenzionalmente da
qualcuno, la seconda a segni naturali privi di un emittente consapevole (distinzione che
per certi versi coincide con l’opposizione tra significazione e comunicazione adottata da
alcuni semiologi) - è in realtà molto più sfumata di quanto non appaia a prima vista.
In quale delle due sfere collocare, ad esempio, la categoria - per nulla esigua - degli
utensili (come un rasoio, un tostapane o un paio di scarpe) i quali, sebbene siano stati
progettati per svolgere una determinata funzione pratica e non per raccontare alcunché,
devono pur sempre essere in grado di comunicare all’utente qualcosa - quantomeno la
propria funzione? In quanto utensili, la loro fruizione sembra rientrare nel dominio
dell’interpretazione del mondo (l’utente interagisce con essi non diversamente da come
interagisce con gli oggetti che danno forma all’arredo del suo ambiente naturale); ma in
quanto artefatti, essi vengono interpretati come testi intenzionali.
La stessa duplice inclinazione si riscontra nell’interpretazione dei comportamenti
gestuali: di fronte a qualcuno che strizza l’occhio, l’osservatore deve decidere se il gesto
vada inteso come un sintomo involontario, ad esempio come un tic nervoso, oppure se si
tratti di un ammiccamento, ossia di un gesto emesso volontariamente con lo scopo di
alludere a qualcosa. A seconda della scelta compiuta dall’interprete, il medesimo gesto
potrà essere inteso come un episodio di significazione inconsapevole oppure di
comunicazione intenzionale.
Da ciò si capisce come l’intenzionalità o meno dell’emittente non sia sempre
immediatamente accessibile all’interprete, e come talvolta accada che essa debba essere
ricostruita congetturalmente dall’osservatore esterno. A questo punto ci si può chiedere se
non esista un meccanismo comune a entrambi i tipi di interpretazione, indipendentemente
dalla presenza o meno di un emittente intenzionato a comunicare qualcosa.

Testi come mondi, mondi come testi

La prima operazione da compiere per entrare nel campo della semiotica


interpretativa è di fare confluire i due tipi di interpretazione, e di trattare l’interpretazione
dei testi alla stregua dell’interpretazione dei mondi (nel senso che l’Otello di Shakespeare
ci immette in un mondo narrativo in cui il protagonista è geloso della moglie, l’amico è
invidioso e malvagio, ecc., esattamente come, nel mondo reale, abbiamo a che fare con
persone gelose, invidiose e malvagie); e, viceversa, di affrontare l’interpretazione dei
mondi così come ci si avvicina all’interpretazione dei testi (nel senso che, per risalire da
un’impronta all’identità dell’impressore, bisogna decidere preventivamente di inquadrare
una certa porzione del terreno, trasformandolo in testo, proprio come quando si incornicia
un quadro o una fotografia).
La semiotica interpretativa ritiene che, affinché si possa parlare di semiosi (e
dunque di interpretazione), non sia indispensabile che vi sia un emittente intenzionato a
comunicare qualcosa: l’importante è che ci sia un interprete che decide di attribuire dei
contenuti a una certa porzione del mondo sensibile (ossia, a un fenomeno accessibile ai
sensi), la quale può essere considerata alla stregua di un testo.
In base a questa accezione allargata, un testo è ogni porzione del mondo sensibile
sulla quale qualcuno decide di esercitare la propria attività interpretativa. In un certo
senso, tutto il mondo fisico è un grande testo da interpretare: il compito istituzionale
degli scienziati è per l’appunto di leggere i fenomeni naturali come se fossero i segni
visibili di una serie di leggi fisiche da scoprire. Un testo è insomma una qualunque
occorrenza espressiva che qualcuno decide di interpretare come il segno di un contenuto
ancora da stabilire.

Congetture e confutazioni

Prima ancora di cominciare a leggere un libro, l’interprete parte da una ipotesi


preliminare di senso, ovvero da un sistema di attese che articola una vaga pre-
comprensione del significato generale da attribuire al testo. Man mano che procede nella
lettura, la sua ipotesi iniziale viene messa alla prova dell’evidenza testuale: se essa viene
confermata, allora ne esce rafforzata, mentre se tale ipotesi si dimostra incompatibile
rispetto a quanto emerge dall’ulteriore penetrazione del testo, allora l’interprete la
sostituisce con un’ipotesi più adeguata. Questo processo circolare, noto come circolo
ermeneutico, rappresenta l’essenza stessa dell’interpretazione.
Analogamente, l’interpretazione dei fenomeni naturali che caratterizza la ricerca
scientifica procede attraverso una sequenza circolare di congetture e di confutazioni. Di
fronte a un determinato fenomeno naturale, lo scienziato congettura la causa che ne ha
determinato l’insorgere; la sua spiegazione viene poi messa a confronto con gli altri dati
sperimentali di cui lo scienziato dispone: se questi si dimostrano incompatibili con le
aspettative create dalla congettura, essa viene falsificata e sostituita con un’altra
spiegazione; se al contrario i dati confermano la supposizione di partenza, questa viene
corroborata e conservata, fino a prova della sua inadeguatezza.
CONGETTURA

VERIFICA vs. CORROBORAZIONE DELL’IPOTESI vs.


CONFUTAZIONE NUOVA CONGETTURA

Il presupposto che fonda l’epistemologia contemporanea è quello del fallibilismo


delle ipotesi scientifiche: non si può mai raggiungere un grado di assoluta certezza delle
ipotesi, perché può sempre emergere qualche dato inaspettato che metta in crisi ciò che
veniva precedentemente dato per scontato, riavviando il circolo.
Sul medesimo principio si erige la semiotica cognitiva di Charles Sanders Peirce
(1834-1914), che Umberto Eco pone all’origine della propria semiotica interpretativa.
Ecco, ad esempio, come Peirce applica il principio del fallibilismo al racconto della sua
stessa nascita:

Strettamente parlando, le questioni di fatto non possono mai essere dimostrate una volta
per tutte, in quanto rimane pur sempre un qualche margine di errore possibile. Ad esempio,
mi pare sufficientemente dimostrato che il mio nome sia Charles Peirce e che io sia nato a
Cambridge, nel Massachusetts, in una casa di legno color pietra in Mason Street. Ma, anche
per quanto riguarda la parte di questa affermazione di cui mi sento più certo - ossia, il mio
nome -, rimane una certa piccola probabilità che io mi trovi in una situazione anomala e che
mi stia sbagliando. Sono conscio dei miei occasionali cali di memoria; e sebbene mi ricordi
bene - o, perlomeno, pensi di ricordare - di avere vissuto in quella casa fin da una tenera età,
non ricordo affatto di esserci nato, per quanto ci sarebbe da immaginarsi che tale prima
esperienza debba essere stata piuttosto impressionante. In effetti, non sono neppure in grado
di specificare la data esatta in cui una certa qualsivoglia persona mi abbia informato del
luogo della mia nascita; e certamente sarebbe stato molto facile ingannarmi su questo punto,
se ci fosse stato un motivo serio per farlo; e come faccio a essere così sicuro, come
certamente lo sono, che non esista un tale motivo? Perché sarebbe una teoria priva di
plausibilità, ecco tutto. (“Notes on the Doctrine of Chances”, 1910, CP 2.663)

1. Peirce e la teoria dell’inferenza

1.1. Contro l’intuizionismo

La teoria peirceana della conoscenza prende le mosse dalla polemica contro


l’intuizionismo cartesiano. Secondo la tradizione gnoseologica inaugurata dal
razionalismo (e riscontrabile in gran parte della filosofia moderna, incluso l’empirismo),
accanto alle conoscenze incerte che derivano dal ragionamento per ipotesi e verifiche
successive, esistono delle verità indubitabili ed evidenti di per sé. Tali cognizioni sicure,
o intuizioni, sono quelle conoscenze dirette degli oggetti che implicano una relazione
speculare fra due termini: un soggetto conoscente e una realtà conosciuta.
Peirce si oppone a una simile visione della conoscenza come rispecchiamento.
Nella sua confutazione dell’intuizionismo, egli si pone innanzitutto una domanda.
Ammettendo per un istante che esistano le intuizioni (in quanto cognizioni non
determinate da cognizioni precedenti), sarebbe possibile distinguerle dalle cognizioni che
invece sono determinate da cognizioni precedenti? Sembrerebbe di no: è noto ad esempio
che i testimoni faticano a discernere ciò che hanno visto effettivamente da ciò che hanno
solo inferito.
Si potrebbe obiettare che l’esistenza delle intuizioni sia dimostrata dal sentimento
di certezza che accompagna il loro insorgere: per Cartesio l’esistenza di Dio (o delle leggi
matematiche) è una verità indubitabile in quanto, per quanto ci si sforzi di negarla, la sua
evidenza assoluta si impone alla nostra coscienza. Ma, risponde Peirce, la convinzione
individuale che un certo giudizio sia vero non è affatto garanzia della verità di tale
convinzione, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che persone diverse siano convinte di
verità diverse e talvolta inconciliabili.
Dunque, non abbiamo nessuna capacità intuitiva di distinguere le intuizioni dalle
conoscenze mediate. A questo punto Peirce si chiede per quale motivo si debba
continuare a sostenere che vi sia una categoria privilegiata di cognizioni che attingono
direttamente alla realtà oggettiva, senza la mediazione di cognizioni precedenti. A cosa
serve parlare di intuizioni se non vi è alcuna prova della loro esistenza e, soprattutto, se il
modello della conoscenza mediata (dell’inferenza) è già sufficiente per rendere conto di
tutti quei fenomeni che solitamente vengono fatti rientrare nel dominio delle intuizioni?
Tanto più che vi sono molte ragioni per ritenere che perfino le operazioni cognitive
apparentemente più dirette siano in realtà il frutto di un calcolo logico. Qualche esempio:
Berkeley ha dimostrato che la terza dimensione dello spazio non è intuita
immediatamente, ma è conosciuta per inferenza; per riconoscere al tatto un certo tipo di
stoffa dobbiamo muovere le dita sul tessuto, confrontando le sensazioni di un istante con
quelle di un altro e formulando un giudizio percettivo; sulla retina c’è un punto cieco, di
cui però non siamo consapevoli perché completiamo (inferenzialmente) i dati che ci
giungono dai sensi.

Approfondimenti bibliografici:
I “saggi anticartesiani” di Peirce:
1867 “On a New List of Categories”, Proceedings of the American Academy of Arts and
Sciences, vol. 7, pp. 287-98. CP 1.545-1.559. Ora in Semiotica, Torino: Einaudi,
1980, pp. 19-35.
1868 “Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man”, Journal of Speculative
Philosophy, vol. 2, pp. 103-114. CP 5.213-5.263. Ora in Le leggi dell’ipotesi,
Milano: Bompiani, 1984, pp. 33-61.
1868 “Some Consequences of Four Incapacities”, Journal of Speculative Philosophy, vol.
2, pp. 140-157. CP 5.264-5.317. Ora in Semiotica, “Pensiero - Segno - Uomo”,
Torino: Einaudi, 1980, pp. 39-85.

1.2. Percezione come inferenza

Gli esempi appena riportati tendono a dimostrare che anche le “azioni mentali” più
elementari, come le sensazioni e le percezioni, lungi dall’essere delle immediate
“impressioni dei sensi”, sono in effetti rappresentazioni selettive e unificatrici delle
impressioni sconnesse esercitate dagli stimoli sui centri nervosi. Come dimostrano gli
esperimenti svolti dagli psicologi della percezione, la nostra conoscenza dei dati
sensoriali esterni è mediata da un processo inferenziale che seleziona solo alcune
proprietà dello stimolo esterno e, tramite un’opposizione rispetto ad altre qualità (ad
esempio, durezza vs. mollezza), formula un giudizio percettivo del tipo “questo è duro”.
Solitamente non ci si rende conto di questo ragionamento: ciò è dovuto al fatto che esso
avviene a un livello pressoché automatico.
Ma è sufficiente immaginare una situazione in cui la percezione sia disturbata da
fonti di “rumore” esterno per capire quanti calcoli logici siano necessari per potere
esprimere un giudizio percettivo. Peirce cita, ad esempio, la celebre illusione ottica dei
due gradini visti in prospettiva e disegnati senza ombra (Figura 1): inizialmente sembra
di vedere i gradini dall’alto ma poi, all’improvviso, il giudizio percettivo cambia e pare di
vedere i gradini dal di sotto. A seconda del giudizio percettivo che si applica alla figura, i
tratti che la compongono vengono interpretati in un modo o nell’altro; e, d’altra parte, a
seconda del modo in cui i tratti vengono intesi, viene formulato un giudizio percettivo
piuttosto che l’altro.

Figura 1

Da ciò si comprende che anche la percezione rientra nella sfera dell’interpretazione


mediante inferenze, e assume quell’andamento tipicamente circolare (dal giudizio
generale all’interpretazione delle singole parti, e viceversa) che altrove è stato definito
circolo ermeneutico.
Peirce postula una scala di consapevolezza (e di controllo) crescente delle
inferenze, che va dalle interpretazioni inconsce e obbligate della sensazione (io vedo
rosso e non posso decidere di non vedere rosso), attraverso le inferenze semi-consce dei
giudizi percettivi (“mi sembra di vedere un gatto”), fino alla relativa libertà interpretativa
che caratterizza le operazioni cognitive più complesse (come le spiegazioni scientifiche o
le letture critiche di un componimento poetico). Come vedremo fra poco, le differenze tra
la percezione e un’ipotesi scientifica riguardano il margine di creatività concesso
all’interprete nel reperimento della regola generale che renda conto delle occorrenze
particolari. Ma, al di là di questo, Peirce ritiene che in entrambi i casi - e in tutte le
possibilità intermedie - sia in gioco un unico meccanismo logico e psicologico.

Approfondimenti bibliografici:
1903 “Pragmatism and abduction”. CP 5.180-212. Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano:
Bompiani, 1984: 177-198.

1.3. Deduzione, induzione e abduzione

Ogni azione mentale è un processo inferenziale. Ovvero, non vi è nessuna


conoscenza assolutamente prima di nessun oggetto, ma la cognizione sorge sempre da un
processo continuo. Quale processo? Quello dell’inferenza valida (del sillogismo) che
procede da una premessa A a una conclusione B se e solo se c’è una regola che dice che
B è vera (sempre o solitamente) quando A è vera. La struttura generale dell’inferenza (o
argomento) può essere rappresentata come segue:

CASO : A
REGOLA : Se A, allora B
RISULTATO: B

Come si vede, gli elementi che possono entrare in gioco in qualsiasi processo
inferenziale sono tre: un caso, una regola e un risultato. Il caso è una occorrenza a cui
viene applicata una regola generale. La regola è l’elemento di mediazione che collega
caso e risultato tramite un rapporto di implicazione. Il risultato è la conseguenza
prevedibile dell’applicazione della regola a quel caso. Così, data la regola “Tutti i
ruminanti mancano degli incisivi superiori” (ossia: se ruminante, allora manca degli
incisivi superiori), e il caso “la pecora è un ruminante”, se ne potrà inferire il risultato “la
pecora manca degli incisivi superiori”. La nostra esistenza è impostata sulla possibilità di
fare simili inferenze, grazie alle quali possiamo dare per scontate molte conoscenze anche
senza andare, per così dire, a controllare ogni volta dentro la bocca della pecora.
Nel nostro esempio, abbiamo ricavato un risultato applicando una regola a un caso.
Ma avremmo altresì potuto inferire la regola dal caso e dal risultato:

caso: la pecora è un ruminante;


risultato: la pecora manca degli incisivi superiori;
regola: [forse] tutti i ruminanti mancano degli incisivi
superiori,

oppure il caso dal risultato e dalla regola:

risultato: la pecora manca degli incisivi superiori;


regola: tutti i ruminanti mancano degli incisivi superiori;
caso: [forse] la pecora è un ruminante.

Un semplice calcolo combinatorio (3!, ovvero 3 x 2 x 1) dimostra che i tre elementi


dell’inferenza possono essere ordinati in sei modi possibili e quindi, in linea di principio,
vi sono sei tipi di inferenza. Tuttavia, siccome l’inferenza si caratterizza per l’ultimo
elemento che la compone (mentre l’ordine delle due premesse è ininfluente), ne consegue
che ci sono solo tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione e l’abduzione.

1.3.1. Fagioli

Peirce introduce i tre tipi di inferenza attraverso l’oramai celebre esempio dei
fagioli: immaginiamo di essere in una stanza nella quale vi siano tanti sacchi pieni di
diversi tipi di fagioli. Sul tavolo, c’è un sacco di tela con su scritto: fagioli bianchi.
Sappiamo dunque che dentro al sacco vi sono solo fagioli bianchi. Di conseguenza, se
dovessimo estrarre a caso una manciata di fagioli dal sacco, avremmo la certezza che essi
sarebbero tutti bianchi (a meno che la scritta sul sacco non ci abbia mentito). Questa è la
struttura della deduzione.

REGOLA: Tutti i fagioli che provengono da questo sacco sono bianchi


CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco
RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi (sicuramente)

Come si vede, il ragionamento deduttivo non comporta alcun accrescimento del


sapere in gioco. Noi sapevamo fin dall’inizio che i fagioli nel sacco erano bianchi, e ci
siamo limitati a calcolare le conseguenze logiche di questo assunto: se estraessimo dei
fagioli dal sacco, sarebbero necessariamente bianchi.
L’induzione procede diversamente. In questo caso noi non sappiamo ancora che
cosa ci sia nel sacco (manca l’etichetta). Per scoprirlo, procediamo sperimentalmente.
Infiliamo la mano nel sacco, e estraiamo una manciata di quello che vi troviamo dentro.
Sono fagioli bianchi. Ma siamo sicuri che nel sacco non ci sia altro che fagioli bianchi?
Assolutamente no. Allora ripetiamo l’operazione: ancora fagioli bianchi. Ogni volta che
estraiamo una nuova manciata di fagioli bianchi, aumentano le probabilità che il sacco
contenga solo fagioli bianchi. Ma in linea di principio non possiamo esserne sicuri fino al
momento in cui abbiamo tirato fuori l’ultimo fagiolo del sacco. La struttura logica
dell’induzione sarà allora la seguente:

CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco


RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi
REGOLA: Tutti i fagioli che provengono da questo sacco sono bianchi
(probabilmente)

L’induzione, dice Peirce, ci consente di allargare orizzontalmente la nostra


conoscenza del mondo. La sua essenza è la generalizzazione: noi immaginiamo che ciò
che è vero per un certo campione, preso a caso da un insieme, sia vero anche per tutti gli
altri componenti dell’insieme. Non ci vuole molta inventiva per compiere questo salto
logico, che comunque è sempre passibile di errore.
L’unico modo per penetrare più a fondo nella comprensione delle cose e delle leggi
che ne regolano il funzionamento è attraverso la formulazione di ipotesi o abduzioni.
Entriamo nella stanza e vediamo il tavolo. Sul tavolo vi sono già dei fagioli bianchi
sparsi, ma noi non sappiamo ancora da dove provengano. Guardando in giro, scopriamo
che uno dei sacchi della stanza contiene solo fagioli bianchi. Cosa facciamo?
Congetturiamo (ipotizziamo) che i fagioli sparsi sul tavolo provengano da quel sacco,
ossia che costituiscano un caso di questa regola generale - ma potremmo sbagliarci.
Scomponendo il nostro ragionamento nelle sue parti costitutive avremo:
RISULTATO: Questi fagioli sono bianchi
REGOLA: Tutti i fagioli che provengono da questo sacco sono bianchi;
CASO: Questi fagioli provengono da questo sacco (forse)

Il rapporto causale tra risultato e regola non è immediato e inevitabile: può sempre
darsi che i fagioli sul tavolo provengano da un altro sacco nascosto in un angolo della
stanza, o che qualcuno abbia messo i fagioli bianchi sul tavolo per depistarci (o
semplicemente per caso).
L’abduzione è un ragionamento rischioso perché implica un salto logico: il fatto che
abbiamo constatato (la presenza di fagioli bianchi sul tavolo) potrebbe essere un caso
della regola che abbiamo reperito ma, come si è visto, sono ugualmente possibili altre
regole altrettanto funzionanti. Ogni volta che formuliamo un’ipotesi, noi facciamo una
scommessa.

Approfondimenti bibliografici
L’esempio dei fagioli per esporre i tre tipi di inferenza si trova in Peirce,
1878 “Deduction, Induction and Hypothesis”, Popular Science Monthly, pp. 470-482. CP
2.619-2.644. Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 201-221.

1.4. Tipi di abduzione

Il meccanismo dell’abduzione è in gioco ovunque ci sia interpretazione, dalla


sensazione alla formulazione di ipotesi scientifiche. Sebbene la struttura logica delle
abduzioni sia sempre la stessa, non tutte le ipotesi sono ugualmente creative: la maggior
parte delle nostre abduzioni quotidiane avviene in maniera quasi automatica, come
quando riconosciamo il volto di un amico che ci viene incontro o quando conferiamo
senso alle parole di un testo che non presenti particolari difficoltà interpretative. In
generale, diremo che un’abduzione è tanto più originale (e pertanto rischiosa), quanto più
si discosta dai percorsi interpretativi precedentemente battuti. Il che significa che, a
determinare l’originalità o meno dell’ipotesi, è la scelta della regola alla quale correlare il
caso. A seconda del modo in cui l’interprete ricava la regola alla quale ascrivere il
risultato si possono distinguere tre tipi fondamentali di abduzione:

Primo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato è
data in modo obbligante e automatico o semiautomatico.

Secondo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato
viene reperita per selezione nell’ambito dell’enciclopedia disponibile.

Terzo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato
viene costituita ex novo, inventata. (Bonfantini-Proni, in Eco-Sebeok [a cura di] 1983: 154)

Il primo tipo di abduzione, che Eco chiama abduzione ipercodificata, si ha quando


la correlazione tra caso e regola è già registrata nell’enciclopedia (nella “conoscenza
corrente del mondo”), e il suo reperimento avviene in modo pressoché obbligato. Di
fronte a uno stimolo sensoriale, il giudizio percettivo viene emesso grazie all’intervento
di una legge-mediazione vincolante che impone al soggetto percipiente di considerare lo
stimolo come l’occorrenza di un certo tipo già noto.

Es. :Squillo del telefono (risultato)


Se chiamata in arrivo, allora squillo (regola)
Chiamata in arrivo (caso)

L’implicazione posta dalla regola è quasi un’equivalenza, nel senso che


l’implicazione potrebbe essere ribaltata (da “se chiamata in arrivo, allora squillo” a “se
squillo, allora chiamata in arrivo”), trasformando l’abduzione in deduzione.
Lo stesso meccanismo si verifica quando si interpretano le impronte di animali
conosciuti: il risultato percepibile è l’impronta stessa (poniamo, la traccia di uno zoccolo
impressa nel terreno) che l’interprete riconosce come occorrenza di un’impronta-tipo che
ha registrato in memoria:

RISULTATO: Il terreno presenta un’impronta così-e-così


REGOLA: Se zoccolo di cavallo, allora impronta così-e-
così
CASO: Zoccolo di cavallo

Qui il codice da cui attingere la legge-mediazione è il sistema di correlazione che


mette in rapporto determinate tracce con le classi dei possibili impressori. Se non si è in
possesso del codice adatto (ad esempio, se ci si trova di fronte all’impronta di un animale
sconosciuto), allora l’abduzione cessa di essere ipercodificata e richiede un maggiore
sforzo interpretativo, perché bisogna tentare di risalire all’identità dell’impressore a
partire da ciò che la traccia ci dice circa le dimensioni e la forma del piede, il peso
dell’animale, ecc.: è un po’ ciò che fanno i paleontologi con le impronte dei dinosauri.
Ma a questo punto siamo sconfinati nel territorio delle abduzioni ipocodificate.

Le abduzioni ipocodificate si hanno quando la regola viene selezionata a partire da


una serie di leggi equiprobabili messe a disposizione dall’enciclopedia. In questi casi,
l’ipotesi non è data in modo univoco o quasi-univoco, e la sua scelta non è affatto
scontata in quanto esistono altre possibilità esplicative che rendano conto del medesimo
fenomeno. Di fronte a un fatto sorprendente che chiede di essere spiegato, l’interprete
scandaglia il proprio bagaglio di conoscenze per trovare una regola la quale potrebbe
applicarsi a quel fatto, spiegandolo. Ma fino a quando la legge non viene verificata,
l’ipotesi rimane nella sfera della pura possibilità in quanto vi sono altre leggi che
potrebbero spiegare il medesimo fenomeno. È il caso dei fagioli di Peirce, del detective
che avanza le sue ipotesi sull’identità dell’assassino a partire dagli indizi che questi ha
lasciato inavvertitamente sulla scena del delitto, del medico che formula la propria
diagnosi in base ai sintomi riscontrati nel paziente, di Keplero che - per spiegare
determinate misurazioni astronomiche incompatibili con l’idea che l’orbita dei pianeti
sia circolare - postula l’ellitticità dell’orbita di Marte.
Va peraltro aggiunto che, man mano che vengono assimilate (attraverso ripetute
verifiche), le abduzioni ipocodificate si sclerotizzano e diventano ipercodificate.

Le abduzioni creative sono molto più rare: sono quelle ipotesi altamente innovative
in cui la legge-mediazione ancora non c’è, e spetta all’interprete di formularla ex novo,
postulando che il fatto constatato sia il caso di tale regola ancora inespressa. L’operazione
logica richiesta in simili casi è pertanto duplice: l’interprete deve contemporaneamente
(a) ideare una legge-mediazione originale e (b) immaginare che tale legge si applichi al
fenomeno riscontrato.
È il caso delle cosiddette “rivoluzioni scientifiche” (Kuhn, 1962) che insorgono
quando l’attività di ricerca che caratterizza la “scienza normale” fa emergere delle
anomalie le quali, dapprima ignorate o integrate con difficoltà nel complesso di ipotesi
esplicative (o paradigma) dominante, ad un certo punto determinano l’insorgere di un
nuovo paradigma che rimpiazza quello precedentemente accettato. Si pensi, ad esempio,
alla teoria della combustione per opera dell’ossigeno formulata da Lavoisier nel 1777, la
quale diede luogo ad una vera e propria rivoluzione chimica: prima che Lavoisier
“scoprisse” l’ossigeno, il paradigma dominante all’epoca attribuiva la combustibilità dei
corpi al flogisto, una specie di “spirito” immateriale che, all’atto della reazione, si
liberava sotto forma di calore o di fiamma: questa teoria implicava che le sostanze che
bruciano consumassero flogisto e pertanto perdessero peso. Lavoisier era convinto che vi
fosse qualcosa di sbagliato nella teoria del flogisto e dimostrò che i corpi che bruciano,
lungi dal perdere peso, diventano più pesanti. Per spiegare questa anomalia, Lavoisier
avanzò l’ipotesi che, bruciando, le sostanze assorbissero una parte dell’atmosfera. Le sue
ricerche mirarono a scoprire la natura della sostanza che la combustione rimuove
dall’atmosfera, e tale sostanza venne infine identificata con l’ossigeno.

Le abduzioni creative incoraggiano l’interprete a scommettere che l’universo


possibile postulato dall’abduzione di primo livello sia lo stesso di quello della propria
esperienza. Eco chiama questa scommessa circa la natura dell’enciclopedia meta-
abduzione.

Nelle abduzioni creative […] tiriamo a indovinare non solo intorno alla natura del risultato
(la sua causa) ma anche intorno alla natura dell’enciclopedia (cosicché, se la nuova legge
viene verificata, la nostra scoperta porta a un cambiamento di paradigma). (Eco, in Eco-
Sebeok, 1983: 246)

Ad esempio, prima ancora di verificare la validità dell’ipotesi eliocentrica, Galileo


formula una meta-abduzione, scommettendo sul fatto che l’universo possibile postulato
dall’abduzione secondo cui la terra ruota intorno al sole sia conforme all’universo reale.
Si ha meta-abduzione anche quando, dopo avere formulato un’abduzione
ipocodificata (come quella del detective che trova un indizio che punta a un possibile
colpevole), si scommette sul fatto che gli eventi si siano svolti proprio nella maniera
suggerita dall’ipotesi. Chiaramente, rispetto alla meta-abduzione dello scienziato, in
questo caso cambia la posta in gioco della scommessa: il detective scommette sul modo
in cui si è svolto quello specifico episodio, ma non pretende di intaccare a fondo
l’enciclopedia, laddove lo scienziato scommette sulle leggi della natura, e dunque le
conseguenze che deriverebbero dall’accettazione della sua abduzione sono molto più
cospicue.
Nel caso delle abduzioni creative, la meta-abduzione è dunque un’ipotesi di
secondo livello che non si limita a creare un “corto-circuito” più o meno insolito tra un
fatto e un principio noto, senza per questo intaccare la struttura dell’enciclopedia (salvo
che nell’aggiunta del nuovo collegamento tra due punti dello spazio semantico globale);
essa produce un riassestamento più drastico del sistema di conoscenze soggiacente,
aggiungendovi degli elementi inediti e, di conseguenza, inducendo l’interprete a scartare
o a riformulare quelle zone dell’enciclopedia che si rivelano incompatibili con
l’abduzione di primo livello.
Prima che la comunità scientifica prenda atto del “terremoto” meta-abduttivo e ne
accetti le ripercussioni enciclopediche, occorre che l’ipotesi che lo ha scatenato venga
messa alla prova. Infatti, se ogni abduzione è in linea di principio fallibile, il margine di
errore possibile aumenta man mano che la connessione tra caso e risultato si fa più
avventurosa e si carica di conseguenze meta-abduttive. In generale, Peirce avverte che
l’abduzione da sola non dimostra alcunché e richiede di essere messa alla prova:

La retroduzione [o abduzione] non dà sicurezza. L’ipotesi deve essere verificata. Questa


verifica, per essere logicamente valida, deve partire onestamente, non come parte la
retroduzione, con lo scrutinio dei fenomeni, ma con l’esame dell’ipotesi, e una rivista di tutti i
tipi di conseguenze sperimentali nell’esperienza. Questo costituisce il secondo passo della
ricerca. (CP 6.470)

1.5. Il macroargomento

Il “secondo passo della ricerca” di cui parla Peirce è la fase deduttivo-induttiva


dell’argomento scientifico. Poniamo che in una scuola si siano verificati dieci casi di
intossicazione alimentare. Il medico visita il primo paziente e scopre che ha mangiato il
pesce della mensa scolastica. A questo punto formula un’ipotesi:

Abduzione
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia
REGOLA: Il pesce avariato provoca mal di pancia
CASO: Questo bambino ha mangiato pesce avariato.

Per sondare l’attendibilità dell’abduzione prevede che, se la causa


dell’intossicazione è proprio il pesce, allora anche gli altri bambini col mal di pancia
avranno mangiato lo stesso pesce avariato:

Deduzione
REGOLA: Il pesce della mensa scolastica provoca mal di pancia
CASO: Questo bambino ha mangiato il pesce della mensa
scolastica
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia.

Dopodiché visita i bambini uno a uno e l’ipotesi viene verificata - o falsificata -


mediante un’induzione generalizzante:

Induzione
CASO: Questo bambino ha mangiato il pesce della mensa
scolastica
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia
REGOLA: Tutti i bambini che hanno mangiato il pesce della
mensa scolastica hanno mal di pancia.

Qualora la prova sperimentale non dia i risultati previsti (ad esempio, se si scopre
che non tutti i bambini che hanno mangiato il pesce hanno mal di pancia, oppure che non
tutti i bambini col mal di pancia hanno mangiato il pesce), l’abduzione iniziale non viene
convalidata. Il che non significa necessariamente che essa vada immediatamente scartata,
ma che - perlomeno - l’interprete mantiene un’apertura nei confronti di ipotesi esplicative
alternative.
La sequenza abduzione-deduzione-induzione rappresenta per Peirce l’impalcatura
costante di ogni indagine (inquiry) scientifica: a partire dalla constatazione di un fatto
sorprendente, che contravvenga alle attese dell’interprete, quest’ultimo avanza
tentativamente una possibile spiegazione la quale, se accettata, fa sì che il fatto in
questione non appaia più come sorprendente ma come perfettamente prevedibile.
Successivamente, e siamo alla fase deduttiva dell’argomento, vengono tratte le varie
conseguenze sperimentali dell’ipotesi proposta: ad esempio, nel caso dell’interpretazione
storiografica, ci si aspetta di trovare conferma dell’esistenza di un avvenimento anche in
altri documenti oltre a quello che ha suggerito la congettura iniziale. Ne consegue che
quanto maggiore è il numero di frammenti indipendenti che suggeriscono una medesima
interpretazione senza contraddirsi a vicenda, tanto più tale interpretazione ne risulta
corroborata. Infine, le conseguenze previste vengono verificate (o falsificate)
induttivamente e dunque l’ipotesi di partenza viene conservata, rielaborata oppure
scartata. È chiaro che per Peirce un’abduzione non può mai essere verificata una volta per
tutte, e ciò per via del carattere fondamentalmente fallibile di ogni conoscenza.

Approfondimenti bibliografici:

Per la classificazione dei tre tipi di abduzione e per l’esplicitazione del macroargomento
si rimanda a Bonfantini-Proni, in Eco-Sebeok [a cura di] 1983: 154, nonché
all’introduzione (“Peirce e l’abduzione”) di Bonfantini in Peirce 1984. I tre tipi di
abduzione sono ripresi da Eco 1983 (“Ipotesi su tre tipi di abduzione”), ora in Eco 1990,
“Corna, zoccoli e scarpe”.
2. L’indagine

FATTO SORPRENDENTE
Attenzione
Messa in moto dell’indagine (dubbio)
Tensione abduttiva (fatto come risultato ABDUZIONE
di un’abduzione virtuale) Scelta dell’ipotesi
(Verifica della scommessa
meta-
abduttiva: macroargomento)
Fissarsi della credenza

ABITO
esperienza falsificante (disposizione all’azione)

2.1. Che cos’è un fatto sorprendente?

Abbiamo visto che l’indagine parte dalla constatazione di un fatto sorprendente.


Prima che venga messo in moto il processo abduttivo, deve esserci un momento in cui -
dal coacervo di stimoli indifferenziati che lo circondano - l’interprete ne seleziona solo
qualcuno. Dunque l’indagine è avviata da qualcosa che colpisce l’Attenzione
dell’interprete, inducendo quest’ultimo a ritagliare tale cosa dal proprio sfondo e a
renderla pertinente (attraverso una sorta di messa a fuoco).
Ma quand’è che un fatto può definirsi sufficientemente sorprendente da destare
l’attenzione dell’interprete? Peirce insiste molto sul fatto che l’esperienza di
un’irregolarità non è di per sé sufficiente per stimolare una richiesta di spiegazione
perché “l’irregolarità è di gran lunga la modalità preponderante dell'esperienza” (7.189;
ora in Peirce 1984: 250): nessuno si sorprende perché gli alberi della foresta non
assumono una disposizione regolare. Se dovessimo meravigliarci di fronte al disordine
del mondo ci troveremmo in uno stato di perenne stupore.
Invece, si avverte la necessità di intraprendere un’indagine quando si verifica una
rottura di regolarità, ovvero quando “si presenta un fenomeno che, a prescindere da una
spiegazione particolare, ci sarebbe ragione di aspettarsi che non accadesse”. Detto
altrimenti, la richiesta di indagine scatta quando si prende atto di una regolarità
imprevista, come potrebbe essere la constatazione che gli alberi su un’isola deserta sono
disposti in filari o in cerchio (constatazione che farebbe scattare, oltre che l’attenzione
dell’interprete, anche un abbozzo di ipotesi esplicativa: la disposizione degli alberi non è
casuale, dunque qualcuno li ha piantati, dunque questa isola non è - o non è sempre stata -
deserta, ecc.).
Si consideri un esempio (politicamente scorretto) proposto da Peirce:
Le vetture tranviarie sono ben noti laboratori di modelli speculativi. Chiusi lì dentro, senza
nulla da fare, si comincia a esaminare la gente che ci siede di fronte, e a cercare di elaborare
biografie calzanti. Osservo una donna sulla quarantina. Il suo contegno è così sinistro che è
difficile trovarne uno simile su un migliaio, quasi al limite della pazzia, tuttavia con una
smorfia di amabilità che poche, anche del suo sesso, sono allenate a comandare; oltre a ciò,
due brutte rughe, ai lati delle labbra serrate, rivelano anni di severa disciplina. Vi si aggiunga
un’espressione di servilità e ipocrisia, troppo abietta per una domestica, mentre si rivela
un’educazione di basso livello, ancorché per nulla comune, assieme a un gusto nel vestire né
grossolano né vistoso, ma tuttavia nient’affatto signorile. Tutto ciò, benché a prima vista non
colpisca, a un esame più attento appare veramente insolito. La nostra teoria dichiara che in
questo caso è necessaria una spiegazione, e non impiego molto a indovinare che la donna sia
un’ex monaca. (CP 7.196)

Di primo acchito, l’osservatore sul tram immagina che la donna sia di umili origini,
forse una domestica: l’ipotesi è corroborata da alcuni elementi rilevati nel suo aspetto e
nei suoi modi (educazione di basso livello, mancanza di signorilità nel vestire). Tuttavia
egli osserva certi dettagli a suo avviso inconciliabili con l’ipotesi di partenza (contegno
sinistro, rughe che rivelano anni di severa disciplina, espressione ipocrita e servile
“troppo abietta per una domestica”, ecc.). Di per sé, come abbiamo visto, la presenza di
qualche apparente irregolarità rispetto alla regolarità attesa non è sufficiente per dare
avvio all’indagine.
Tuttavia, i dettagli dissonanti (rispetto all’ipotesi “questa donna è una domestica”)
non sono sconnessi, ma “fanno sistema” tra loro, nel senso che sono compatibili
reciprocamente e insieme puntano a una possibile ipotesi alternativa (“questa donna è
un’ex monaca”). È la regolarità delle anomalie riscontrate (rispetto a un’ipotesi
alternativa) che attiva l’Attenzione dell’osservatore. Dunque, un fatto è tanto più
sorprendente quanto più (a) si dimostra inconciliabile con il sistema di attese (i pre-
giudizi) dell’interprete, e (b) suggerisce, anche solo vagamente, che sia possibile
formulare un’ipotesi alternativa.

Approfondimenti bibliografici:
La definizione di “fatto sorprendente” si trova in Peirce, 1901, “On the Logic of Drawing
History from Ancient Documents, Especially from Testimonies”. CP 7.164-2.253. Ora in
Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 223-299.

2.2. Il fissarsi della credenza

Una volta registrata la presenza di un fatto sorprendente, l’indagine è innescata e procede


secondo la cadenza abduttiva-deduttiva-induttiva illustrata in 1.5. O meglio, il
macroargomento è prerogativa del ragionamento scientifico, imperniato sul concetto di
prova, mentre vi sono altri metodi per “fissare la credenza” che non ne condividono la
struttura logica.

2.2.1. Dubbio e credenza


Prima di esporre i “quattro metodi per fissare una credenza” citati da Peirce,
definiamo che cosa egli intenda per credenza. Peirce sostiene che “la sola funzione del
pensiero è produrre la credenza” in quanto “il pensiero in azione ha come solo possibile
motivo il raggiungimento del pensiero in riposo” (5.396). La credenza è uno stato
mentale che si oppone al dubbio il quale, come abbiamo visto, nasce quando una regola
interpretativa precedentemente accettata viene messa in crisi dall’insorgenza di
un’anomalia, ovvero da un’esperienza falsificante. Ma il dubbio non è una condizione
mentale con la quale si riesca a convivere pacificamente, in quanto esso crea
un’irrequietezza che spinge alla ricerca di un modo per farla cessare. L’unica soluzione
per placare l’irritazione del dubbio è l’affacciarsi di una credenza - o regola interpretativa
stabile - che segni un provvisorio punto di non ritorno della ricerca.
La regola interpretativa verrà poi registrata in memoria e entrerà a far parte del
bagaglio di credenze di cui dispone l’interprete: la prossima volta che gli capiterà di
affrontare circostanze apparentemente analoghe, andrà ad attingere a quell’esperienza
passata per spiegare il nuovo fenomeno.

2.2.2. Quattro metodi per fissare la credenza

Il passaggio dal dubbio alla credenza, e cioè lo stabilirsi di un’opinione, può essere
conseguito in diversi modi:

7) Metodo della tenacia: consiste nell’aggrapparsi ostinatamente alle opinioni


precedentemente accettate, evitando il contatto con quanto potrebbe disturbare tali
credenze (è l’atteggiamento assunto dal fisico aristotelico Cesare Cremonini
quando rifiuta di guardare nel cannocchiale di Galileo). Va peraltro osservato che la
fiducia nella tradizione (“ci credo perché si è sempre detto così”) si riscontra, oltre
che nelle modalità di diffusione della diceria, del pregiudizio, dei proverbi e nella
ripetizione liturgica dei racconti sacri, anche all’interno della pratica scientifica,
dove la resistenza che i sostenitori di un paradigma accettato oppongono ai tentativi
di falsificare il complesso di ipotesi su cui si fonda il paradigma stesso svolge
un’importante funzione adattativa, evitando che la comunità scientifica abbandoni
prematuramente una spiegazione prima che ne venga formulata un’altra adeguata.
8) Metodo dell’autorità: di fronte alla constatazione della diversità delle opinioni
altrui, e al vago sospetto che forse le opinioni degli altri possano valere quanto le
proprie, l’individuo sceglie di (o è costretto ad) ancorare le proprie credenze a
quelle di un’autorità superiore (un capo, una istituzione, una dottrina teologica, un
testo sacro, un sacerdote): “ci credo perché l’ha detto lui/lei”. Anche in questo caso,
vale la pena ricordare che molte delle nostre credenze sono fissate attraverso il
metodo dell’autorità: crediamo alle diagnosi del medico (o alle ricostruzioni dello
storico, del paleontologo, del geologo, ecc.) perché in quei determinati settori
riconosciamo a quegli interpreti una competenza superiore alla nostra. Dunque il
metodo dell’autorità risponde alla necessità che ciascuno di noi ha di delegare parte
del proprio lavoro cognitivo ad altri. Naturalmente nei casi appena citati il metodo
dell’autorità si accompagna alla consapevolezza che, se volessimo, potremmo
controllare la validità delle credenze che ci vengono consegnate dall’alto (o almeno
potremmo chiedere il parere di altri esperti), e dunque la delega alla fonte
autorevole non implica necessariamente una rinuncia a esercitare il proprio senso
critico. Il metodo dell’autorità diventa invece incompatibile con quello scientifico
quando al destinatario venga negata la possibilità di verificare (se lo ritiene
opportuno) l’affidabilità delle sue fonti.
9) Metodo della ragione a priori: è caratterizzato dall’idea (metafisica) che le
credenze debbano essere fisse, universali e in accordo con la ragione (“ci credo
perché è così”, ovvero “è così e basta”): ad esempio Platone “trova in accordo con
la ragione che le distanze relative delle sfere celesti siano proporzionali alle diverse
lunghezze delle corde che producono accordi armonici” (5.382). Sfortunatamente,
non vi è accordo unanime e permanente su quali siano le verità alle quali è
ragionevole concedere la propria fiducia incrollabile.
10) Metodo scientifico: le caratteristiche che lo contraddistinguono rispetto ai
precedenti metodi sono:
·1 il suo realismo: il metodo scientifico è l’unico che non ricusa, ma anzi ricerca
attivamente, il confronto (potenzialmente falsificante) con l’esperienza. Per
Peirce, “reale” è un concetto che abbiamo avuto per la prima volta quando ci
siamo imbattuti in un nostro errore e ci siamo autocorretti. L’esigenza di
autocorrezione emerge quando ci si rende conto dell’inadeguatezza delle
proprie credenze rispetto agli stimoli del mondo esterno. C’è qualcosa, là
fuori, che oppone una resistenza alle nostre credenze e che ci induce a
riformularle quando queste si dimostrano incompatibili con i dati empirici
dell’esperienza;
·2 la sua natura dichiaratamente inferenziale: la realtà esterna non è qualcosa che
si conosce direttamente, per intuizione o illuminazione interiore (v. anti-
intuizionismo di Peirce, discusso sopra), bensì attraverso una serie
potenzialmente infinita di tentativi e di errori: il prezzo da pagare è la
provvisorietà delle regole adottate per dare senso alle cose; il vantaggio è,
secondo Peirce, un adeguamento progressivo alle leggi del mondo esterno;
·3 la fiducia che esso ripone nella capacità della comunità degli interpreti di
discernere tra ipotesi plausibili e ipotesi inverosimili. Che cosa garantisce che
le credenze si adeguino man mano al modo in cui “stanno veramente le cose”
(alla realtà)? Il controllo incrociato della comunità degli interpreti che,
attraverso una serie ininterrotta di verifiche empiriche, di nuove ipotesi e di
falsificazioni, alla lunga seleziona solo quelle credenze che dimostrano una
maggiore capacità di adattamento rispetto all’ambiente, laddove le credenze
che si rivelano inefficaci tendono ad essere abbandonate.

È peraltro interessante che Peirce non affermi mai che il metodo scientifico è
sempre e comunque preferibile agli altri tre: ci sono determinati ambiti dell’agire umano,
come quello della fede religiosa, in cui i metodi della tenacia, dell’autorità e della
ragione a priori dimostrano la propria efficacia, e sarebbe una “non pertinenza
egocentrica” (5.377) pretendere che essi si piegassero ai princìpi del pensiero
inferenziale. Naturalmente l’importante è che chi impiega i metodi della tenacia,
dell’autorità e della ragione a priori per produrre credenze non pretenda di fondare le
proprie opinioni sul metodo scientifico: è quanto accade, ad esempio, quando i
sostenitori di una tesi ideologicamente motivata impiegano delle argomentazioni pseudo-
scientifiche per occultare la natura aprioristica dei propri convincimenti. In simili casi è
opportuno smascherare le interferenze indebite tra i diversi metodi per fissare le
credenze.

Approfondimenti bibliografici:
1877 “The Fixation of Belief”, The Popular Science Monthly. CP 5.358-5.387. Ora in Le
leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 81-103
1878 “How to Make our Ideas Clear”, The Popular Science Monthly. CP 5.388-5.410.
Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 104-127

2.3. L’abito

In qualunque modo avvenga il fissarsi della credenza, il suo esito è la provvisoria


eliminazione del dubbio tramite l’accettazione di una regola d’azione, o abito mentale.
Peirce definisce l’abito (ing. habit) come “la tendenza a comportarsi effettivamente in
modo simile in circostanze simili in futuro” (5.487). Dopo avere constatato per la prima
volta che il fuoco bruciava, ciascuno di noi ha introiettato la regola d’azione secondo cui
non è consigliabile appoggiare la mano sui fornelli accesi; analogamente, avendo
scoperto le qualità terapeutiche della penicillina, i medici hanno imparato che certe
malattie si curano con gli antibiotici; una volta appreso il teorema di Pitagora acquisiamo
l’abito che ci permetterà di calcolare la lunghezza di tutte le ipotenuse che incontreremo
nel corso della nostra esistenza (come si vede, non è indispensabile che l’abito venga
acquistato per esperienza diretta); e così via. La nozione di abito può essere estesa a ogni
forma di conoscenza acquisita che predispone l’interprete a comportarsi (in senso sia
pratico sia cognitivo) in un certo modo quando si trova in determinate circostanze note o
ritenute simili a situazioni già esperite in precedenza.
La distinzione (molto sottile) tra credenza e abito va probabilmente ricercata nel
fatto che, mentre la credenza può essere intesa come il punto di arrivo dell’indagine,
l’abito che ne deriva è lo strumento che permette di calcolare le conseguenze prevedibili
di quella determinata credenza in alcuni contesti che potrebbero darsi in futuro. Così, la
regola “il fuoco brucia” è una credenza che comporta lo stabilirsi di un abito d’azione:
siccome il fuoco brucia (credenza), se in futuro non vorrò bruciarmi non dovrò toccare il
fuoco (abito).
Quando funziona, l’abito si sedimenta e la sua applicazione procede in modo
automatico. L’abito diventa legge, convenzione e relazione arbitraria. Ma se, al contrario,
si presenta qualche problema che rivela l’inadeguatezza di una determinata “disposizione
all’azione” rispetto al compito per il quale essa è preposta (ad esempio, se si constatano
dei fenomeni che sfuggono al dominio di una certa legge fisica alla quale ci si
aspetterebbe che si adeguassero), allora l’abito entra in crisi e si cerca di costruirne uno
nuovo. Il mondo dell’esperienza reale si sottrae all’azione regolatrice dell’abito e
costringe l’interprete a riformulare i suoi programmi comportamentali. Pungolata
dall’“irritazione del dubbio”, l’indagine riparte e avanza fino al fissarsi di una nuova
credenza e, di conseguenza, fino alla formazione di un nuovo abito d’azione.
Approfondimenti bibliografici
1878 “How to Make our Ideas Clear”, The Popular Science Monthly. CP 5.388-5.410.
Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 104-127

3. Modello inferenziale del segno

3.1. La massima pragmatica

Nel saggio intitolato Come rendere chiare le nostre idee, Peirce scrive che “ciò che
una cosa significa è semplicemente quali abiti comporta” (5.400).Vale la pena riportare il
brano in cui Peirce postula la convergenza tra la nozione di abito e quella di significato:

Per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali


abiti produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta. Ora,
l’identità di un abito dipende da come può indurci ad agire, non solamente nelle circostanze
che probabilmente si daranno, ma anche in quelle che potrebbero darsi, a prescindere dalla
loro improbabilità. (CP 5.400)

In base a questa definizione, quando diciamo che una cosa è dura intendiamo che le
sostanze che la possono scalfire non sono molte: il significato di durezza comprende
quindi tutte le azioni che potremmo compiere su un oggetto che possiede tale attributo per
constatarne la solidità, la robustezza, la resistenza.
Un altro esempio citato da Peirce, sul quale si sofferma Eco 1979, è il significato
della parola “litio”. Una buona definizione dovrebbe includere una serie di informazioni
enciclopediche, come il fatto che il litio è un elemento vitreo, traslucido, grigio o bianco,
molto duro eppure fragile, insolubile, il quale, se posto sopra una fiamma non luminosa,
conferisce a quest’ultima un colore rosso acceso mentre, se viene triturato con la calce e
poi fuso, può essere parzialmente dissolto nell’acido muriatico, e così via. Insomma, il
significato della parola coincide con l’insieme (indefinitamente dilatabile) delle
operazioni che si possono compiere per avere l’esperienza percettiva dell’oggetto che il
termine denota e dei suoi usi possibili.
Secondo la massima pragmatica (il significato di un concetto sta nell’insieme suoi
effetti concepibili, ovvero nella somma dei suoi abiti), il significato di “tigre” comprende
- oltre alle informazioni più strettamente dizionariali (la definizione tassonomica) - tutta
una serie di elementi descrittivi e contestuali (“grande felino asiatico, con manto fulvo a
strisce scure, ventre, lati del muso e gola bianchi; è un feroce predatore”, ecc.) che ne
rendano possibile l’identificazione tipologica, il reperimento nel mondo dell’esperienza
reale e, eventualmente, la sua rappresentazione (dunque rientrano nella definizione anche
un’illustrazione o la fotografia di un esemplare, la simulazione di un ruggito, l’atto di
mimare l’incedere tigresco, e così via); inoltre, il significato può essere ulteriormente
allargato per includere tutti i trattati etologici sui comportamenti delle tigri nel loro
ambiente naturale, oppure le analisi degli effetti della cattività su questi animali, eccetera;
infine, una definizione completa dovrebbe rendere conto dei sensi derivati o secondari del
termine (“essere feroce come una tigre”, “cavalcare la tigre”, “una tigre di carta”, ecc.) e
al limite toccare, anche se Peirce non ne parla esplicitamente, le sue occorrenze artistiche
più o meno note (dalla Tyger di William Blake alla Shere Khan di Kipling).
Una simile definizione è praticamente impossibile da realizzare perché, per quanto
ci si sforzi di essere esaustivi, rimangono sempre fuori numerosissime accezioni, usi
particolari, esemplari specifici, ecc., del concetto, il quale oltrettutto è in perenne
evoluzione. E difatti l’esplicitazione della totalità dei suoi sensi rimane una pura
potenzialità, mentre ciascun atto interpretativo concreto seleziona - in base a una scelta
preliminare di pertinenza - solo i percorsi di senso che appaiono più fecondi in quella
determinata circostanza. È a questo fenomeno che si riferisce Eco (1979) quando parla
del semema (o concetto) come testo virtuale, e del testo come espansione di un semema:
da questo punto di vista, un film come Rocky potrebbe essere visto come un’espansione
del semema “incontro di boxe” (nel senso che lo sviluppo narrativo rende espliciti alcuni
percorsi che erano già virtualmente presenti nel concetto di partenza), mentre il semema
“carabiniere” racchiude in forma condensata e virtuale un’infinità di espansioni testuali
diverse, tra cui l’intero corpus delle barzellette sui carabinieri.

3.1.1. Pertinenza

Per illustrare meglio il concetto di pertinenza, così come lo si sta impiegando in


queste pagine, può essere utile rifarsi ad un esempio proposto da Luis Prieto (1976):
prendiamo un insieme qualunque di oggetti, come può essere l’insieme composto da un
portacenere di cristallo, un bicchiere di carta e un martello. Questo insieme potrà essere
suddiviso internamente in modi diversi a seconda che il principio di classificazione
interna sia costituito dall’insieme degli oggetti in grado di raccogliere liquidi (nel qual
caso andranno bene sia il portacenere di cristallo, sia il bicchiere di carta) oppure
dall’insieme degli oggetti contundenti che possiamo impiegare a scopi di difesa personale
(nel qual caso raggrupperemo insieme il portacenere di cristallo e il martello, mentre il
bicchiere di carta si dimostrerà inutile allo scopo che ci siamo prefissati). Nel caso degli
oggetti recipienti, avremo reso pertinente solo la caratteristica della concavità (del
portacenere e del bicchiere), indipendentemente dal materiale di cui sono composti gli
oggetti in questione. La qualità materiale degli oggetti (la loro durezza e il loro peso) si
dimostrerà invece essenziale nel secondo caso, quello in cui decidiamo di riunire insieme
gli oggetti contundenti, ma allora sarà del tutto irrilevante la forma più o meno concava
degli oggetti in esame.
La decisione di sussumere un dato oggetto sotto un certo abito interpretativo
piuttosto che un altro dipende dall’universo di discorso nel quale ci si muove in quel
determinato momento. All’interno di un contesto scientifico, ad esempio, sembra più utile
ricondurre il concetto di tigre alle sue descrizioni morfologiche piuttosto che alle sue
rivisitazioni in chiave artistica, per cui il repertorio dei riferimenti letterari verrà spinto in
secondo piano (o narcotizzato), laddove le proprietà più strettamente zoologiche
dell’animale verranno magnificate.

3.2. La semiosi secondo Peirce

Il concetto di pertinenza - sebbene Peirce non impieghi questo termine - svolge un


ruolo fondamentale nella definizione che egli dà del processo semiosico. Secondo Peirce,
infatti, un segno (o representamen) è “qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto
qualche rispetto o capacità” (2.228).
Interpretante
Segno Oggetto

(o Representamen) Figura 2

Il Representamen è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, ovvero per il suo


Oggetto. Ad esempio, la figura 2 è un Representamen il quale sta per la tartaruga, che è il
suo Oggetto. Ma di tutte le proprietà che si potrebbero predicare dell’Oggetto-tartaruga
(rettile acquatico e terrestre, appartenente all’ordine dei Cheloni, il cui corpo è racchiuso
da uno scudo corneo, che si muove con proverbiale lentezza, dal cui guscio si ricava un
materiale col quale si fanno pettini, soprammobili e altri oggetti, ecc.,) se ne seleziona
solo qualcuno: dal disegnino si evince soltanto il fatto che la tartaruga abbia una testa, un
guscio, due zampe (visto che è disegnata di profilo: spetta poi all’interprete di completare
le informazioni inferenzialmente). Ciò dimostra che il Representamen sta per l’Oggetto
non sotto ogni aspetto possibile, ma solo a partire da una determinata scelta di pertinenza.
Se poi il disegno viene impiegato provocatoriamente per insinuare che una certa persona
sia particolarmente lenta nello svolgere i suoi compiti, ecco che il piano di pertinenza
viene spostato, e allora sarà poco importante che il disegno riproduca accuratamente i
tratti morfologici dell’animale - basta che questo sia riconoscibile per far scattare le
connotazioni adeguate. Dunque, il segno non è perfettamente equivalente al suo Oggetto,
ma ne seleziona (e ne sviluppa) alcune proprietà, trascurandone altre.

L’Oggetto

A questo punto bisogna chiarire se per “oggetto” Peirce intenda riferirsi al referente
(lo stato del mondo, la “cosa in sé”) oppure al semema (al concetto corrispondente).
Peirce stesso si rende conto di questa ambiguità, e ad un certo punto distingue tra tra
Oggetto Dinamico, “realmente efficiente ma non immediatamente presente” (8.343), e
Oggetto Immediato, che è l’oggetto “così come il segno lo rappresenta” (8.343):
l’Oggetto Immediato è quindi l’effetto nel segno e attraverso il segno dell’Oggetto
Dinamico (di per sé inconoscibile, trattandosi del dato bruto dell’esperienza).
L’Oggetto Immediato è il modo in cui l’Oggetto Dinamico è focalizzato, e consiste
nella somma degli attributi dell’Oggetto Dinamico resi pertinenti dal segno.
In base a questa distinzione tra Oggetto Immediato e Oggetto Dinamico, possiamo
definire il segno come la combinazione di un Representamen (in quanto Espressione) e
un Oggetto Immediato (in quanto Contenuto del segno), mentre l’Oggetto Dinamico
corrisponde allo stato di cose, esterno al segno, al quale il segno stesso si riferisce. Così,
dato il segno rappresentato nella figura 3, il Representamen corrisponde alla pura
espressione grafica, l’Oggetto Immediato equivale al concetto di “uomo” (ad esempio, in
quanto contrapposto a “donna”, nel caso in cui il segno sia posto sulla porta della toilette
degli uomini di un locale pubblico), mentre l’Oggetto Dinamico coincide con tutti gli
uomini “in carne e ossa” a cui il segno si riferisce (ad esempio, tutti i potenziali utenti del
bagno).

SEGNO
Representamen Oggetto Oggetto
Immediato Dinamico
Figura 3 Espressione Contenuto Referente

L’Interpretante

Da un certo punto di vista, dunque, il Representamen sta per l’Oggetto Immediato,


e il Segno (inteso come combinazione di Representamen e Oggetto Immediato) si
riferisce al suo Oggetto Dinamico.
Ma per comprendere il rapporto, poniamo, tra il disegno della figura 2 e il concetto
di tartaruga (ossia, per cogliere l’Oggetto Immediato), occorre che ci sia un interprete
competente in grado di farlo: donde il riferimento al “qualcuno” nella definizione di
Peirce. Come fa l’interprete a cogliere e a esprimere il rapporto tra segno e Oggetto? Usa
la parola “tartaruga”, alla quale la cultura ha assegnato una serie indefinita di descrizioni
enciclopediche (di cui l’attuale segno è un’ulteriore occorrenza). La parola “tartaruga”,
che lega il segno all’Oggetto, è ciò che Peirce chiama l’Interpretante del segno.
Il segno verbale non è l’unico modo per esprimere il concetto di tartaruga: si
sarebbe altresì potuto ricorrere a un’ostensione (il dito puntato verso un esemplare della
specie), a una traduzione in un’altra lingua, a un campione noto (quell’animale che, in un
paradosso di Zenone, gareggia con Achille; quello che vince contro la lepre nella favola
di Fedro; ecc.). In ogni caso, l’unico modo che abbiamo per conoscere l’oggetto di un
segno passa per la formulazione di un altro segno che lo interpreti.
Questo secondo segno è, per l’appunto, l’Interpretante. Va peraltro aggiunto che
per Peirce un segno-Interpretante non ha confini necessariamente ristretti, poiché anche
un intero libro può essere inteso come segno (La Montagna Incantata può essere
l’Interpretante della parola “tubercolosi”). Peirce ritiene inoltre che anche un’immagine
mentale (un’idea) possa essere considerata un Interpretante. Dunque, l’Interpretante è una
qualunque altra rappresentazione riferita allo stesso oggetto o significato.
Che cosa distingue l’Interpretante dall’Oggetto Immediato? La differenza è
piuttosto sfumata e talvolta si ha l’impressione che Peirce sovrapponga i due concetti:
entrambi hanno a che fare con ciò che comunemente si definisce il significato di un
segno, ma mentre l’Oggetto Immediato è qualcosa di interno al segno (nel senso che è il
modo in cui l’Oggetto Dinamico viene focalizzato dal segno), l’Interpretante è il mezzo
per rappresentare l’Oggetto Immediato tramite un altro segno e corrisponde all’effetto del
primo segno sulle disposizioni e sui comportamenti dell’interprete.
Ma, visto che non c’è modo di descrivere l’Oggetto Immediato se non tramite
Interpretanti, in alcuni contesti i due termini possono essere intesi come fungibili: in
generale, si tende a parlare di Oggetto Immediato se ci si sta occupando del rapporto tra
segni e Oggetti Dinamici (ad esempio se si descrive l’atto di riferirsi a un determinato
stato del mondo), mentre si usa il termine “Interpretante” quando l’attenzione viene
spostata sull’effettivo processo semiosico e interpretativo.
A complicare ulteriormente le cose, Peirce suddivide l’Interpretante in:

11) Interpretante Immediato: l’Interpretante come il segno lo rappresenta, colto


attraverso una corretta comprensione del segno. È l’effetto previsto del segno sulla
mente dell’interprete: provoca nell’interprete la “pallida soddisfazione” del
riconoscimento e scatena una serie di effetti e di tensioni interpretative;
12) Interpretante Dinamico: l’effetto realmente prodotto sulla mente dell’interprete, il
quale si risolve nell’
13) Interpretante Logico-Finale: un’ipotesi interpretativa più comprensiva che segna un
provvisorio punto di non ritorno per la riflessione intellettuale, un abito
interpretativo che blocca temporaneamente il processo potenzialmente infinito
dell’interpretazione.

Versione “aggiornata” del triangolo semiotico (da Bonfantini, in Peirce 1980: XXXV e
Proni, 1990: 266)

Approfondimenti bibliografici:
Definizioni di segno:
1897, CP 2.227-29 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 132-133)
1902, “Syllabus”, CP 2.274 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 154-55)
1904, Lettera a Lady Welby, CP 8.333 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 190)
1908, Lettera (mai spedita) a Lady Welby, CP 8.343 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi,
1980: 194)

3.2.1. Applicazione: la diagnosi medica

Un dottore visita un paziente con la faccia coperta di macchie rosse e gli


diagnostica il morbillo.
L’Oggetto Dinamico è costituito dall’insieme delle reazioni fisiche, chimiche,
fisiologiche, ecc., che danno luogo allo stato patologico del paziente. Per comodità
espositiva, possiamo riferirci a questo conglomerato di eventi organici con l’espressione
“malattia”, ma bisogna tenere ben presente il fatto che la “malattia” in quanto Oggetto
Dinamico è qualcosa di pre-semiosico (mentre chiamare “malattia” questo continuum di
eventi è già di per sé il frutto di un’interpretazione).
In quanto motore primo della semiosi, l’Oggetto Dinamico può essere definito
(come fa Eco 1997) il terminus a quo della semiosi: “se parliamo (o emettiamo segni, di
qualsiasi tipo essi siano) è perché Qualcosa ci spinge a parlare” (Eco, 1997: XI). Nel
nostro esempio, l’Oggetto Dinamico che scatena il processo semiosico è la malattia, in
quanto virus che causa una serie di reazioni dell’organismo. Se il medico è stato
chiamato dal paziente, è perché qualcosa ha provocato certi effetti percepibili (i sintomi),
i quali hanno risvegliato l’Attenzione del paziente stesso.
Ma l’Oggetto Dinamico è anche quel qualcosa, di per sé inconoscibile, che la
semiosi cerca di ricostruire inferenzialmente. “Manipolando segni, noi ci riferiamo
all’Oggetto Dinamico come terminus ad quem della semiosi” (Eco, 1997: XI). Il medico
deve cercare di ricostruire l’Oggetto Dinamico a partire dai suoi effetti registrabili: non è
possibile conoscere direttamente la causa dei sintomi, e dunque la conoscenza
dell’Oggetto Dinamico non può che essere indiretta, inferenziale e approssimativa.
I sintomi sono i segni da cui trae avvio l’interpretazione del medico. Il
Representamen è dato dalla presenza delle macchie rosse (intese come occorrenze
espressive) che il medico riscontra sul viso del suo paziente. Le macchie sono
l’Espressione del Segno, ovvero il “fatto sorprendente” da cui prende le mosse
l’abduzione. L’occorrenza viene fatta risalire al tipo espressivo generale della “macchia
rossa”, il quale a sua volta attiva il tipo cognitivo (la rappresentazione semantica) che il
medico associa alla macchia rossa.
Così, le macchie rosse fanno scattare nel medico una serie di abiti interpretativi: se
morbillo, allora esantema; se intossicazione alimentare, allora eruzione cutanea; se
allergia, allora eczema, ecc. Di tutti questi abiti interpretativi, l’interprete dovrà
selezionare quello che gli sembra più adeguato in quel determinato contesto.
L’Oggetto Immediato coincide pertanto con l’insieme degli abiti, precedentemente
acquisiti dall’interprete, attivati dall’attuale occorrenza espressiva (in quanto occorrenza
di un tipo generale). Nel momento in cui il tipo del Contenuto viene inserito in un
determinato contesto, l’interprete sarà chiamato a selezionare uno di questi possibili abiti.
Ma per cogliere il legame tra il Representamen e il suo Oggetto Immediato, occorre
formulare un altro segno (l’Interpretante). L’Interpretante è l’effetto del segno sulle
disposizioni ad agire dell’interprete (cioè sulle sue azioni mentali oltre che pratiche).
Esso può essere scomposto in tre fasi, corrispondenti a ciascuno dei tre tipi di
interpretante:
·4 Interpretante Immediato: il medico attiva e mette in “stand-by” la rete degli abiti di
cui dispone per risalire alle possibili cause delle macchie rosse, predisponendosi a
verificare le diverse ipotesi;
·5 Interpretante Dinamico: la tensione abduttiva sfocia nel flusso della semiosi in
azione: il medico prende in esame le diverse ipotesi di cui dispone e seleziona
quella che gli sembra più adeguata in quella determinata circostanza. Per orientarsi
nella scelta dell’ipotesi è probabile che vada alla ricerca di ulteriori indizi (di altri
sintomi) che corroborino o falsifichino le varie possibili diagnosi;
·6 Interpretante Logico-Finale: infine, l’interpretazione si risolve in una ipotesi più
saldamente fondata, consolidandosi nella formazione di un abito. L’Interpretante
Finale è la diagnosi “questo paziente ha il morbillo” la quale, se da un lato è il
punto d’approdo del processo inferenziale, dall’altro inaugura una nuova catena di
interpretanti (in quanto attiva nuovi collegamenti e abiti interpretativi).
3.3. Fuga degli interpretanti e semiosi illimitata

Essendo a sua volta un segno, per essere conosciuto l’Interpretante richiede di


essere interpretato da un altro Interpretante, cioè da un altro segno. L’Interpretante
“morbillo” attiva una serie di abiti nel medico che l’interpreta: ad esempio, le aspettative
che riguardano la durata, il decorso, le possibili complicazioni, ecc., della malattia.
Ciascuno di questi abiti può essere considerato come un ulteriore Interpretante che si
arrocca su quello precedente.

Interpretante 3:
Possibili complicazioni

Interpretante 2: “malattia esantematica contagiosa


che colpisce soprattutto i bambini”

Interpretante 1: “morbillo”

Macchie rosse Stato di salute di x

Segno Oggetto
Ogni Interpretante rinvia a un Interpretante successivo, in una fuga potenzialmente
infinita di Interpretanti, per cui ogni segno suggerisce qualcosa al segno successivo che
lo interpreta.

S = segno
I = interpretante

Ogni nuova interpretazione (che corrisponde allo stabilirsi di un nuovo abito


interpretativo, ossia di un altro Interpretante Finale), rivela qualche aspetto inesplorato
dell’oggetto iniziale e del segno corrispondente, poiché il segno è “qualcosa attraverso la
conoscenza del quale noi conosciamo qualcosa di più” (8.332).

3.4. Apertura e chiusura dell’interpretazione

La fuga degli interpretanti costituisce l’essenza del “pensiero in azione”. A spingere


questo concetto fino in fondo si dovrebbe concludere che per Peirce l’interpretazione
consista in un perenne slittamento di senso, senza che si possa mai giungere a una
qualsivoglia conclusione definitiva: se ogni pensiero suggerisce qualcosa al pensiero
susseguente, allora non c’è modo di porre fine alla catena degli interpretanti. E in effetti
il principio del fallibilismo su cui Peirce impernia la sua teoria dell’inferenza suggerisce
che ogni nostra conoscenza circa il mondo (esterno e interno) sia provvisoria e
riformulabile.
Ma il fatto che la semiosi sia teoricamente illimitata non significa che, in
determinate circostanze, essa non possa approdare a un punto di riposo in cui l’interprete
giudica che - dato un certo compito da eseguire - la formazione di un determinato abito
interpretativo fornisca una soluzione soddisfacente. Poniamo che il problema sia un
rubinetto che perde acqua. Lo sgocciolìo è il Representamen che si impone all’attenzione
dell’interprete, scatenando il processo semiosico. Nel tentativo di trovare la causa
(l’Oggetto Immediato) del fenomeno riscontrato, introduce un Interpretante (ad esempio,
l’esclamazione “il rubinetto perde!”), il quale fornisce una rappresentazione dell’Oggetto
Immediato e, indirettamente, dell’Oggetto Dinamico (lo stato effettivo del sistema
idraulico). L’Interpretante verbale viene tradotto in un altro segno (ad esempio, una
possibile spiegazione del fenomeno riscontrato: “il rubinetto perde perché…”), il quale a
sua volta genera un ulteriore Interpretante (che può assumere la forma di un
comportamento pratico, come l’atto di stringere le guarnizioni del tubo che porta l’acqua
al rubinetto). La catena di Interpretanti procede fino a quando l’interprete formula un
Interpretante che, in quell’universo di discorso, gli appare come una soluzione
accettabile del problema.
In linea teorica, la semiosi avrebbe potuto procedere all’infinito, attraverso una
serie di ipotesi tentative o, addirittura, sfociando in una riflessione angosciata sui
contrattempi della vita quotidiana. E non è detto che ciò non accada: tuttavia - a meno di
non avere tendenze paranoiche e ossessive - solitamente si arriva a un punto in cui si
arresta la deriva interpretativa. La chiusura dell’interpretazione è resa possibile (e
necessaria) dalla presenza di uno scopo, il quale determina gli “aspetti o capacità” sotto i
quali il segno va inteso. Se lo scopo è “aggiustare il rubinetto”, allora diventa
antieconomico far avanzare la semiosi oltre i confini della pertinenza idraulica.
L’instaurarsi dell’Interpretante Finale interrompe il processo semiosico. Ciò non
significa, però, che la fuga degli interpretanti non possa ripartire in un secondo tempo,
quando l’abito escogitato per rendere conto del problema riveli le proprie insufficienze,
oppure quando - per un qualsiasi motivo - si decida di spostare il piano di pertinenza del
discorso. L’esempio del rubinetto è volutamente elementare, ma si possono applicare i
medesimi princìpi a forme più complesse di attività intellettuale. Il progresso scientifico
è cadenzato da provvisori momenti di sosta dell’interpretazione, mentre la fuga degli
Interpretanti riparte quando gli abiti accettati dimostrano la propria inadeguatezza
rispetto ai fatti che essi sono chiamati a spiegare.

(Valentina Pisanty)

Riferimenti bibliografici

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