SEMIOTICA
Prof. Patrizia Magli
Prof. Costantino Marmo
Prof. Patrizia Violi
ANNO ACCADEMICO 2001-2002
INTRODUZIONE
Questa dispensa costituisce un'introduzione breve ed essenziale ai concetti fondamentali della
semiotica così come sono stati elaborati e discussi dai suoi "padri fondatori": Ferdinand de Saussure, Louis
Hjelmslev e Charles Sanders Peirce, a cui sono rispettivamente dedicati i tre capitoli che la compongono.
Perché presentare il pensiero di questi autori individualmente, fornendo anche qualche rapido cenno
alla loro vita e al loro contesto storico, invece di descrivere semplicemente i concetti più importanti della
disciplina?
Come le studentesse e gli studenti capiranno presto, la semiotica è una disciplina complessa, che
include prospettive e progetti di ricerca anche molto differenziati, che si rifanno alle diverse tradizioni al
cui interno si è sviluppata la riflessione sui processi di significazione, comunicazione e semiosi. E' quindi
utile familiarizzarsi subito con questa complessità, che se da un lato costituisce una ricchezza, dall'altro può
risultare difficile a chi si accosta per la prima volta a questo campo, e preferirebbe trovarsi di fronte ad uno
sviluppo unitario e lineare.
A complicare le cose c'è anche il fatto che la semiotica è una disciplina molto antica: la riflessione
sui segni e sui modi attraverso cui utilizziamo i segni per dar senso alla nostra esperienza e al mondo
comincia ancora prima della filosofia greca. E' pero in tempi più recenti, tra la fine dell'Ottocento e la prima
metà del Novecento che la semiotica si costituisce come disciplina autonoma, e ciò avviene soprattutto ad
opera dei tre autori presentati in queste pagine. Nel loro pensiero si trovano le basi concettuali
indispensabili della semiotica, nonché gli strumenti metodologici che ci permetteranno di analizzare
semioticamente linguaggi, testi e forme di comunicazione differenti.
I tre autori qui illustrati si differenziano da molti punti di vista: i primi due, Saussure e Hjelmslev,
sono linguisti europei che appartengono alla corrente dello strutturalismo, mentre il terzo, Charles Sanders
Peirce, è un filosofo americano vissuto fra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del secolo scorso.
Al loro pensiero si fanno risalire le due linee principali della ricerca semiotica contemporanea,
generalmente denominate semiotica strutturale (e generativa) e semiotica interpretativa. Il primo di questi
filoni inizia con Saussure, il fondatore dello strutturalismo linguistico, prosegue con il lavoro di Louis
Hjelmslev, il linguista danese che ha sviluppato le idee di Saussure in una teoria denominata glossematica,
e arriva fino a Algirdas Greimas, semiotico di origine lituana fondatore della semiotica generativa (per la
cui teoria si rimanda ai capitoli del volume Semiotica del testo, di Maria Pia Pozzato, che costituisce parte
del vostro programma di esame).
Il secondo filone ha il suo riferimento nella filosofia di Peirce, che si inserisce nella più ampia
corrente della filosofia pragmatista americana di fine Ottocento, e vede oggi in Umberto Eco il suo
rappresentante più significativo.
Cosa hanno in comune questi due diversi approcci? Certamente, in forma molto generale, l'oggetto,
che potremmo definire come l'insieme dei processi di significazione - cioè i processi attraverso cui diamo
senso al mondo - e dei processi di comunicazione. Inoltre entrambe le semiotiche condividono un comune
assunto "costruttuvista" nei confronti del senso, che non è mai visto come un oggetto dato, ma sempre
come qualcosa di costruito nei nostri processi di attribuzione di significato. In altri termini, i segni e i testi
non sono classi particolari di oggetti dati, indipendenti dalla nostra attribuzione, ma sono piuttosto costruiti
come tali dal nostro lavoro di interpretazione; qualunque oggetto quindi può essere usato come segno o
analizzato come testo, anche se non era stato inizialmente prodotto con questa intenzione. Ricordiamoci
che alle sue origini, e prima di ogni elaborazione filosofica, la riflessione semiotica si è sviluppata nella
pratica medica, come studio dei sintomi fisici, cioè di alterazioni fisiologiche non certo prodotte
intenzionalmente per significare alcunché, ma interpretate come segni dalla nascente scienza medica. Oggi,
come vedrete nel corso dei vostri studi semiotici, si possono analizzare come testi dotati di significato
anche oggetti di consumo quotidiano o situazioni di interazione come una lezione universitaria.
Allo stesso tempo però la semiotica generativa e quella interpretativa costituiscono due progetti
teorici in larga misura diversi e non sovrapponibili, in quanto si pongono domande diverse.
La semiotica generativa, di matrice strutturalista, vuole in primo luogo stabilire procedure precise di
descrizione dei propri oggetti, che sono i testi, non necessariamente e solo i testi verbali e linguistici. In
semiotica il concetto di "testo" è un concetto molto ampio, che include tutto ciò che noi possiamo
delimitare come luogo di organizzazione del senso. Come abbiamo appena detto, anche un oggetto
quotidiano come una confezione di dentifricio o un fustino di detersivo possono essere visti come "testi" se
pure di tipo particolare. Per poter descrivere il modo in cui tutti questi differenti testi significano, cioè quali
sono le loro proprietà significative e in che modo sono organizzate (e quindi in definitiva anche perché certi
testi, o prodotti, sono più efficaci, belli, convincenti o persuasivi di altri), è necessario dotarsi di categorie
di analisi comuni, cioè di costruire un linguaggio specifico per l'analisi. Questo particolare tipo di
linguaggio di cui ci serviremo per descrivere e analizzare tutti gli altri linguaggi viene chiamato
metalinguaggio. Come vedremo, la semiotica generativa ha costruito un metalinguaggio molto articolato, e
anche piuttosto complesso, che viene continuamente modificato e aggiornato con l'analisi di nuovi tipi di
testi. Questo complesso edificio poggia su alcuni concetti di fondo, che sono appunto quelli elaborati da
Saussure e Hjelmslev e dallo strutturalismo linguistico.
Diverso il caso della semiotica interpretativa, i cui presupposti affondano nella filosofia di Peirce,
che era soprattutto interessato a capire il modo in cui noi arriviamo a dare senso a tutto ciò che ci circonda
attraverso l'uso costante di segni. Secondo il filosofo americano tutto il nostro pensiero, ma anche la nostra
percezione e qualunque forma di conoscenza, è un continuo e incessante lavoro di interpretazione basato su
inferenze che noi facciamo, spesso senza nemmeno esserne consapevoli, a partire dai dati dell'esperienza.
Quando si rivolge all'analisi dei testi, questo tipo di semiotica si chiede soprattutto che cosa un testo ci fa
fare per arrivare alla sua interpretazione. Quindi cerca di descrivere tutte le ipotesi, le inferenze e le mosse
interpretative suggerite e richieste da una particolare organizzazione testuale.
Sarebbe un errore pensare che le due correnti che abbiamo appena tratteggiato si differenzino quanto
alle loro sottostanti vocazioni: una più testuale e applicativa (la semiotica strutturale-generativa) e una più
filosofica (quella interpretativa). In realtà entrambe le semiotiche hanno sia un quadro di riferimento
teorico-concettuale che una dimensione testuale, e i due piani sono strettamente connessi. Questo corso
privilegerà tuttavia una prospettiva più orientata alla testualità in entrambe le correnti (non a caso nel vostro
programma di esame figura l'opera più "testuale" di Umberto Eco, il Lector in fabula).
Vi è una ragione di fondo per questa scelta: riteniamo che lo studio della semiotica debba servire
soprattutto (almeno in questa prima fase della vostra formazione) a mettervi in grado di lavorare
direttamente all'analisi di oggetti e linguaggi di vario genere (dai testi letterari alla pubblicità, dalla
televisione ai giornali, dalla comunicazione pubblica alle nuove forme di testualità telematica e ipertestuale,
e così via), secondo un profilo professionale che potremmo definire di "analista" di testi e linguaggi.
Naturalmente questa professionalità non potrà essere acquisita seguendo un solo corso, e per ottenerla
dovrete approfondire queste tematiche nei corsi di semiotica degli anni successivi, dedicati allo studio più
specifico di tutti questi attraenti oggetti. Ma tutto il lavoro successivo si fonderà sulle basi metodologiche e
teoriche fornitevi da questo primo corso introduttivo.
Infine un'avvertenza di metodo. Quando si parla di "classici" si consiglia sempre la lettura diretta dei
testi, piuttosto che riassunti e introduzioni che spesso si rivelano più oscuri degli originali, o tendono a
darne un'interpretazione univoca e parziale. Ciò varrebbe soprattutto nel caso dei nostri autori che, anche
quando ci appaiono semplici (e raramente è così!) sono di una complessità notevole e spesso presentano un
pensiero non unitario, ma soggetto a evoluzioni e cambiamenti in scritti di periodi diversi. Tuttavia la
lettura diretta dei testi sarebbe risultata estremamente ardua e forse troppo teorica per un corso iniziale di
semiotica. Abbiamo quindi scelto di inserire nella dispensa alcuni brani originali particolarmente
significativi, che serviranno a darvi un'idea del linguaggio e del modo di procedere dei nostri autori, senza
appesantire eccessivamente il vostro carico di studio e cercando di non allontanarvi troppo dalla pratica
concreta di analisi testuale. Naturalmente chi vorrà approfondire gli studi semiotici, magari con una
successiva specializzazione, dovrà rivolgersi come indispensabile esercizio ai testi originali. Tuttavia, per
porre le basi di una buona competenza iniziale, una lettura attenta di questa dispensa sarà sufficiente e
costituirà la premessa indispensabile di ogni successivo approfondimento.
(Patrizia Violi)
FERDINAND DE SAUSSURE
1. Note biografiche e sul Corso di linguistica generale
4. Lingua e parole
Vediamo dunque più esattamente che cosa intende Saussure per lingua: la lingua
non si confonde con la totalità del linguaggio ma ne è una determinata parte; essa è “una
totalità e un principio di classificazione”, è il “prodotto sociale della facoltà del
linguaggio e l’insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per consentire
l’esercizio di questa facoltà negli individui” (p.19).
L’atto linguistico individuale è definito invece parole e il “circuito della parole”,
concernendo nella comunicazione contesti e individui concreti, coinvolge fatti psichici,
fisici, fisiologici (onde sonore, fonazione e audizione, immagini verbali e concetti). Si
noti quindi la differenza sostanziale fra lingua e parole: quest’ultima è l’esecuzione,
sempre individuale, di un atto linguistico mentre la “lingua non è una funzione del
soggetto parlante” (p. 23) ma una specie di “organismo” che possiamo studiare anche
quando non viene più usato, come nel caso delle cosiddette “lingue morte”. Un’ulteriore
definizione di lingua che troviamo nel Corso è la seguente: “La lingua è per noi il
linguaggio meno la parole. Essa è l’insieme delle abitudini linguistiche che permettono a
un soggetto di comprendere e farsi comprendere” (p. 95).
Sarà sempre più chiaro in seguito il carattere culturalizzato dei suoni linguistici:
quello che è interessante per il linguista non è il suono bruto, nella sua essenza fisica, ma
le forme sonore che ogni lingua seleziona rispetto alla grande varietà di suoni potenziali
che l’apparato fonatorio umano è in grado di produrre. Ecco perché Saussure parla, per i
suoni della lingua, di “immagine acustica”: il suono linguistico, o fonema, è infatti
delimitato e reso riconoscibile da una serie di tratti pertinenti esattamente come
un’immagine. Dice l’autore: “E’ infatti di capitale importanza sottolineare che
l’immagine verbale non si confonde col suono stesso, e che è psichica allo stesso titolo
del concetto ad essa associato” (p.22). Forse la semiotica contemporanea preferirebbe
dire “culturale” anziché “psichica”, ma rimane in ogni caso l’idea che il linguista non
studia suoni ma forme sonore.
6. Il circuito linguistico
Il fattore passivo contenuto in (4) e quello associativo contenuto in (5) sono, per
Saussure, quelli che caratterizzano una lingua in quanto tale. Infatti noi riceviamo la
lingua materna, non la inventiamo attivamente: “la lingua non è una funzione del
soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra passivamente” (p. 23). “Il segno
sfugge sempre in qualche misura alla volontà individuale o sociale, questo è il suo
carattere essenziale” (p. 27).
7. Linguistica e semiologia
La lingua è solo il più importante dei tanti sistemi di segni istituiti dalla società
(scrittura, riti simbolici, forme di cortesia, ecc.). Saussure comprende quindi con
chiarezza che c’è lo spazio per la nascita di una disciplina più vasta della linguistica,
disciplina che chiama semiologia, destinata a studiare l’insieme della comunicazione e
non solo la comunicazione linguistica:
Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita
sociale […] Noi la chiameremo semiologia […] Essa potrebbe dirci in che consistono i segni,
quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire che cosa sarà; essa ha
tuttavia diritto a esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una
parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla
linguistica e questa si troverà collegata a un dominio ben definito nell’insieme dei fatti umani.
(p.26)
In altri termini, per Saussure il segno va studiato socialmente e in una più vasta
prospettiva semiologica. Infatti, “se si vuol capire la vera natura della lingua, bisogna
afferrarla anzitutto in ciò che essa ha di comune con tutti gli altri sistemi del medesimo
ordine” (p. 27). Bisogna precisare che, pur auspicando la nascita di una semiologia,
Saussure rimane tuttavia un linguista e si occupa pressoché esclusivamente di problemi
linguistici.
8. Elementi interni ed esterni alla lingua
Per Saussure il vero oggetto della linguistica è la lingua parlata. La lingua scritta,
che nasce in modo derivato da quella orale, per il linguista ginevrino addirittura “offusca
la visione della lingua”, la traveste, mentre lo “studio dei suoni in se stessi, viceversa, è il
primo passo verso la verità” (p.44).
Saussure spazza via uno dei luoghi comuni più radicati nella mente delle persone e
cioè che alle parole si associno direttamente le cose:
Per certe persone la lingua, ricondotta al suo principio essenziale, è una nomenclatura, vale a
dire una lista di termini corrispondenti ad altrettante cose. Per esempio:
Questa concezione è criticabile per molti aspetti. Essa suppone idee già fatte preesistenti alle
parole; non ci dice se il nome è di natura vocale o psichica, perché Arbor può essere
considerato sotto l’uno o l’altro aspetto; infine lascia supporre che il legame che unisce un
nome a una cosa sia un’operazione del tutto semplice, ciò che è assai lontano dall’esser vero.
Tuttavia questa visione semplicistica può avvicinarci alla verità mostrandoci che l’unità
linguistica è una cosa doppia, fatta dal raccostamento di due termini […] Il segno linguistico
non unisce una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il
suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la
rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei nostri sensi: essa è sensoriale, e se
ci capita di chiamarla ‘materiale’, ciò avviene solo in tal senso e in opposizione all’altro
termine dell’associazione, il concetto, generalmente più astratto. (pp. 83-84)
Si è già detto della natura culturale del suono linguistico, trascelto da ogni diversa
lingua fra tanti altri possibili. Del resto questo fatto è alla portata dell’esperienza di tutti:
se ascoltiamo una persona che parla una lingua totalmente sconosciuta, non solo non
cogliamo i significati della parole ma non riusciamo nemmeno a segmentare in modo
distinto il “nastro sonoro” che arriva al nostro udito e questo perché non siamo abituati a
riconoscere le forme sonore (i fonemi) di quella lingua. Altro esempio: se leggiamo
silenziosamente un libro, non emettiamo né sentiamo nessun suono ma il “ricordo”
(l’“immagine”) dei suoni, che conosciamo in quanto suoni della nostra lingua, ci sarà
sufficiente per capire ciò che stiamo leggendo.
Il segno linguistico non è però solo l’immagine acustica ma la coppia solidale che
essa forma con un concetto.
linguistica della
linguistica della
lingua della
parole
interna esterna
sincronica diacronica
Lo schema appena tratteggiato ribadisce quanto si è già detto a proposito del segno
come unica, vera entità linguistica. La linguistica saussuriana infatti non si occupa del
significante acustico indipendentemente dal significato, né dei significati
indipendentemente dal significante acustico attraverso il quale vengono veicolati, bensì
del rapporto segnico fra significanti e significati. Questo significa che trattare i concetti
scorporati dal loro espressione linguistica è compito della psicologia e non della
linguistica, così come studiare i suoni indipendentemente dallo loro funzione espressiva è
compito della fonologia (in senso saussuriano, vedi nota 3) e non della linguistica.
Inoltre, come si è detto nei paragrafi precedenti, Saussure privilegia un “percorso” ben
preciso nello schema ad albero appena proposto: la sua attenzione teorica si appunta
soprattutto sui segni di tipo linguistico, intesi nel loro carattere sistemico e non nell’uso
effettivo della lingua (parole). Questo perché, dice il linguista ginevrino, studiare un
sistema linguistico, cioè una grammatica generale, ci dà molte più certezze che non
studiare un campo mobile ed estremamente variegato come quello degli usi concreti che i
parlanti fanno dei sistemi linguistici, introducendo infinite variante individuali e
contestuali. Per lo stesso motivo, Saussure considera sommamente adatta a un approccio
scientifico la linguistica che sia insieme interna e sincronica, sulla definizione della quale
non torneremo.
13. Le teoria delle “masse amorfe”
Per Saussure il pensiero umano non è affatto indipendente dalla lingua in cui si
esprime: “fatta astrazione dalla sua espressione in parole, il nostro pensiero non è che una
massa amorfa” (p. 136). Non va diversamente per i suoni, o sostanza fonica che, in
assenza di una forma linguistica, non è né più fissa né più rigida della massa amorfa dei
pensieri. Il disegno proposto nel Corso è questo:
Ogni unità linguistica è caratterizzata dunque non dalla materia di cui è fatta (lo
sostanza di un concetto o di un suono) ma dal valore che essa acquista in relazione agli
altri elementi linguistici. L’autore ritorna alla metafora degli scacchi: non importa se un
cavallo è fatto di legno o di avorio, se viene danneggiato può essere sostituito anche da
un fagiolo purché mantenga lo stesso valore di cavallo sulla scacchiera. “Nei sistemi
semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio
secondo regole determinate, la nozione di identità si confonde con quella di valore e
viceversa” (p. 134). La conclusione di Saussure è dunque la seguente: “[Nella lingua] la
nozione di valore ricopre quella di unità, di entità concreta e di realtà […] per cui è
preferibile abbordare il problema dell’unità linguistica dal lato del valore perché è questo,
a nostro avviso, il suo aspetto primordiale” (p. 135). E ancora: “La lingua non comporta
né delle idee né dei suoni che preesistono al sistema linguistico, ma soltanto delle
differenze concettuali e foniche uscite da questo sistema” (p. 145). Ecco che, accanto al
termine-chiave di “valore” se ne aggiunge un altro di importantissimo all’interno della
linguistica saussuriana che è quello di “differenza”.
Dice Saussure:
Se la parte concettuale del valore è costituita unicamente da rapporti e da differenze con gli
altri termini della lingua, si può dire altrettanto della sua parte materiale. Ciò che importa nella
parola non è il suono stesso, ma le differenze foniche che permettono di distinguere questa
parola da tutte le altre, perché sono tali differenze che portano la significazione.
Può darsi che la cosa stupisca; ma dove sarebbe in verità la possibilità del contrario? Poiché
non vi è immagine vocale che risponda più di un’altra a ciò che essa è incaricata di dire, è
evidente, anche a priori, che mai un frammento della lingua potrà essere fondato, in ultima
analisi, su alcunché di diverso dalla sua non coincidenza col resto. Arbitrario e differenziale
sono due qualità correlative. […] Ogni idioma compone le sue parole sulla base di un sistema
di elementi sonori ciascuno dei quali forma una unità nettamente delimitata ed il cui numero è
perfettamente determinato. Ora ciò che li caratterizza non è, come si potrebbe credere, la loro
qualità propria e positiva, ma semplicemente il fatto che essi non si confondono tra loro. I
fonemi sono anzitutto delle entità oppositive, relative e negative. (p. 144)
E ancora: sono le differenze foniche che determinano la significazione e sono le
differenze concettuali ispirano quelle fonetiche. “Il significante linguistico - insiste
Saussure - è, nella sua essenza, incorporeo, costituito non dalla sua sostanza materiale ma
unicamente dalle differenze che separano la sua immagine acustica da tutte le altre” (p.
144).
Quanto Saussure dice per i fonemi della lingua orale, si può facilmente estendere
anche per la scrittura:
Infatti: (1) i segni della scrittura sono arbitrari: nessun rapporto, per esempio, tra la lettera t
ed il suono che essa designa; (2) il valore delle lettere è puramente negativo e differenziale;
così una stessa persona può scrivere t con varianti come
La sola cosa essenziale è che questo segno non si confonda sotto la sua penna con quello di l,
d, ecc. (pp. 144-45)
Arriva quindi all’affermazione più nota e radicale. “Tutto ciò che precede si risolve
nel dire che nella lingua non vi sono che differenze”(p.145). E continua:
Di più: una differenza suppone in generale determini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma
nella lingua non vi sono che differenze senza termini positivi. Si prenda il significante e il
significato, la lingua non comporta né delle idee né dei suoni che preesistano al sistema
linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali e delle differenze foniche uscite da questo
sistema. Ciò che vi è di idea o di materia fonica in un segno importa meno di ciò che vi è
intorno ad esso negli altri segni. La prova è che il valore d’un termine può essere modificato
senza che si tocchi né il suo senso né i suoi suoni, ma soltanto dal fatto che questo o quel
termine vicino abbia subìto una modifica.
Ma dire che tutto è negativo nella lingua, è vero soltanto del significato e del significante
presi separatamente: dal momento in cui si considera il segno nella sua totalità, ci si trova in
presenza di una cosa positiva nel suo ordine. Un sistema linguistico è una serie di differenze di
suoni combinate con una serie di differenze di idee; ma questo mettere di faccia un certo
numero di segni acustici con altrettante sezioni fatte nella massa del pensiero genera un
sistema di valori; ed è questo sistema che costituisce il legame effettivo tra gli elementi fonici
e psichici all’interno di ciascun segno. Benché il significante e il significato siano, ciascuno
preso a parte, puramente differenziali e negativi, la loro combinazione è un fatto positivo; è
altresì la sola specie di fatti che comporti la lingua, perché il proprio dell’istituzione linguistica
è per l’appunto mantenere il parallelismo tra questi due ordini di differenze. (pp. 145-46)
“La lingua è una forma e non una sostanza”, afferma ancora il linguista e tutti gli
errori provengono dalla “supposizione involontaria che vi sia una sostanza nel fenomeno
linguistico.” (p.148) Ciò che dovrebbe risultare chiaro ormai dalle diverse citazioni è
questo concetto generale secondo il quale “tutto è negativo nella lingua” quando si
considerino significante e significato separatamente mentre ciò che è positivo è il segno:
tra segni, per esempio fra parole, non vi sono differenze bensì opposizioni. Ed è proprio
di questo che andiamo ora a parlare.
Perché ci sia un valore bisogna che ci sia: (a) una cosa dissimile con cui poterlo
scambiare; (b) una cosa simile con cui poterlo scambiare. La metafora qui è quella
monetaria: una moneta può comprare del pane (equivalenza e scambio con il dissimile) o
essere confrontata con altre valute (equivalenza e scambio con il simile). Così il rapporto
significante/significato corrisponde a quello fra moneta e pane mentre i diversi segni
stanno fra loro come le diverse valute di cui si possono confrontare i valori. Se questi
segni sono parole ad esempio, è evidente che ogni singola parola non può acquisire il suo
valore nella lingua in modo indipendentemente dalle altre parole di quella lingua. “E’
dalla totalità solidale [dei segni] che occorre partire per ottenere, mercé l’analisi, gli
elementi che contiene” (p.138):
Per esempio una parola francese come “mouton” e una parola inglese come “sheep”
indicano lo stesso animale ma non hanno lo stesso valore all’interno della “scacchiera”
delle due lingue a cui appartengono. La parola francese, infatti, indica sia la pecora viva
che quella uccisa e cotta, mentre la parola inglese ha un significato più limitato esistendo
in inglese anche la parola “mutton” che, a differenza di “sheep”, indica lo stesso animale
ma ucciso e cucinato.
All’interno di una stessa lingua, tutte le parole che esprimono delle idee vicine si limitano
reciprocamente: sinonimi come redouter, craindre, avoir peur hanno un loro proprio valore
solo per la loro opposizione: se redouter non esistesse, tutto il suo contenuto andrebbe ai suoi
concorrenti. Inversamente, vi sono termini che arricchiscono per contatto con degli altri. (p.
141)
Nella lingua vi sono due principi fondamentali che corrispondono a due forme della
nostra attività mentale: concateniamo delle unità, cioè le mettiamo in un ordine di
successione lineare; oppure le associamo in absentia, tenendo presente una serie
mnemonica virtuale. Ad esempio, quando pronuncio una frase e uso un articolo, un
sostantivo e un verbo come in “Il cielo si è rannuvolato”, compio un’azione associativa in
quanto metto nel giusto ordine, concatenandoli, tutti i diversi elementi della mia frase.
Ma questo è reso possibile anche perché trascelgo da serie virtuali di articoli, di sostantivi
e di verbi. Ho scelto “il”, ben sapendo che in italiano potevo disporre anche di “la” o di
“lo”, ecc., perché si accordava con il maschile singolare di “cielo”; ho scelto “cielo”
perché, fra tutte le parole italiane mi sembrava la più adatta a esprimere quello che volevo
dire, scartando magari “immensità celeste” che mi sembrava troppo aulico o “terra” che
mi sembrava addirittura opposto al termine che mi serviva. Insomma, le operazioni che
ho fatto sono state due: scelta di alcune unità a scapito di altre, possibili e alternative;
combinazione lineare delle unità scelte. Saussure chiama questi due ordini di operazioni,
rispettivamente, ordine sintagmatico e ordine associativo. L’esempio del linguista è
quello di un tempio greco: se considero il rapporto fra le colonne e l’architrave che
reggono, ho una buona immagine del rapporto sintagmatico fra elementi linguistici; se
penso invece alla serie delle possibile, diverse colonne (ioniche, corinzie, ecc.), ho una
buona immagine delle associazioni fra elementi. (p. 150) Mentre un sintagma richiama
l’idea di u ordine e di un limite, i termini di una famiglia associativa sono più
indeterminati. A meno che non si tratti di classi grammaticali: tornando all’esempio della
frase, non ho infiniti articoli fra cui scegliere. Se si tratta invece di classi lessicali, allora
le possibilità si moltiplicano: quante parole avrei potuto scegliere al posto di “cielo”,
magari ricorrendo a metafore? Saussure dice che, se non si tratta di classi grammaticali,
ogni termine è come il centro di una costellazione infinita: ogni idea richiama tutto un
sistema latente all’interno del quale operiamo la nostra scelta.
1. La vita
2. La glossematica e la semiotica
[…] il linguista [deve] considerare come proprio campo non solo la lingua “naturale”, ma
qualunque semiotica, qualunque struttura sia analoga alla lingua […]. Una lingua (nel senso
ordinario) si può considerare come un caso particolare di questo oggetto più generale, e le sue
caratteristiche specifiche, che riguardano solo l’uso linguistico, non incidono sulla definizione
[generale di semiotica].
Qui di nuovo vogliamo aggiungere che non è tanto questione di una pratica divisione del
lavoro quanto di una identificazione definitoria dell’oggetto. Il linguista può e deve
concentrarsi, nella sua ricerca, sulle lingue “naturali”, e lasciare ad altri meglio preparati - in
particolare ai logici - l’investigazione delle strutture semiotiche. Ma il linguista non può
impunemente studiare il linguaggio senza avere quell’orizzonte più vasto che gli offre un
orientamento nei riguardi di altre strutture analoghe a quella linguistica. Da esse egli può anzi
trarre dei vantaggi pratici, poiché alcune di tali strutture sono nella loro costruzione più
semplici che non le lingue, e sono per questo indicate come modelli nello studio preliminare.
(ib.: 114-5)
Gli oggetti che interessano la teoria linguistica sono testi. Lo scopo della teoria linguistica
è di fornire un procedimento per mezzo del quale un dato testo possa essere compreso
attraverso una descrizione coerente ed esauriente. (ib.: 19)
Se a chi compie l’indagine linguistica qualcosa è dato […], ciò è il testo non ancora
analizzato, nella sua integrità indivisa ed assoluta. L’unico procedimento possibile […] sarà
un’analisi in cui il testo sia considerato come una classe analizzata in componenti, poi tali
componenti siano considerati come classi analizzate in componenti, e così via fino ad
esaurimento dell’analisi. Questo procedimento si può dunque definire brevemente come una
progressione dalla classe al componente, non dal componente alla classe, come un
movimento analitico e specificante, non sintetico e generalizzante, come l’opposto
dell’induzione. […] Nella linguistica recente, in cui questo contrasto è venuto alla luce,
questo procedimento (o altri che ad esso si approssimano) è stato indicato col termine
deduzione. (ib.: 15-6)
Una teoria raggiungerà il massimo della semplicità se si baserà solo su premesse che siano
necessarie rispetto al suo proprio oggetto. Inoltre, per essere adeguata al suo scopo, una
teoria deve produrre, in ogni sua applicazione, risultati che siano in accordo con i cosiddetti
dati empirici (reali o presunti). (ib.: 13)
3. La funzione segnica
Come Saussure, Hjelmslev critica la concezione tradizionale del segno per cui “un
segno è in primo luogo e soprattutto un segno di qualcosa” (ib.: 52). “Dobbiamo ora
mostrare - dice Hjelmslev - che tale concezione è linguisticamente insostenibile, e qui
siamo d’accordo col pensiero linguistico recente” (ib.), ovvero con la linguistica
saussuriana secondo la quale il segno non rimanda a un contenuto esterno al segno stesso,
ma “è un’entità generata dalla connessione fra un’espressione e un contenuto” (ib.).
Hjelmslev smette quindi di parlare genericamente di segno, perché ciò potrebbe
rimandare alla concezione tradizionale, e parla di “funzione segnica, che si pone fra due
entità, un’espressione e un contenuto” (ib.). Laddove Saussure parlava di segno, di
significante e significato, Hjelmslev parla di funzione segnica, di espressione e contenuto
o, più ampiamente, di piano dell’espressione e piano del contenuto; la funzione segnica è
costituita da espressione e contenuto, da un piano dell’espressione e un piano del
contenuto, che sono reciprocamente solidali, dice Hjelmslev, nel senso che non si può
avere espressione senza contenuto né contenuto senza espressione.
Funzione segnica =
Un’altra distinzione importante per la teoria linguistica è quella fra la funzione “e” o
“congiunzione”, e la funzione “o” o “disgiunzione”. Questo è ciò che sottostà alla distinzione
fra processo e sistema: nel processo, nel testo, si ha un “e”, una congiunzione o coesistenza fra
i funtivi che in esso entrano; nel sistema si ha un “o”, una disgiunzione o alternanza fra i
funtivi che in esso entrano.
Consideriamo l’esempio (grafemico)
mani
pero
Scambiando m e p, a e e, n e r, i e o rispettivamente, otteniamo parole diverse, cioè mani,
pani, mero, pero, meni, paro, mani, peno, mano, peri: queste entità sono catene che entrano
nel processo linguistico (testo); d’altra parte m e p insieme, a e e insieme, n e r insieme, i e o
insieme, producono dei paradigmi che entrano nel sistema linguistico. In mani c’è
congiunzione o coesistenza fra m, a, n, e i: abbiamo “di fatto” davanti agli occhi m, a, n e i;
allo stesso modo c’è congiunzione o coesistenza fra p, e, r e o in pero. Ma fra m e p c’è
disgiunzione o alternanza: ciò che “di fatto” abbiamo davanti agli occhi è o m o p; allo stesso
modo c’è disgiunzione o alternanza fra a e e, n e r, i e o.
In un altro senso si può dire che le stesse entità entrano nel processo linguistico (testo) e nel
sistema linguistico: m considerata come componente (derivato) della parola mani entra in un
processo e quindi in una congiunzione, e considerata come componente (derivato) del
paradigma
m
p
m entra in un sistema e quindi in una disgiunzione. Dal punto di vista del processo m è una
parte, dal punto di vista del sistema m è un membro. I due punti di vista portano a riconoscere
due oggetti diversi poiché la definizione funzionale cambia; ma unendo e moltiplicando le due
diverse definizioni funzionali possiamo porci dal punto di vista che giustifica la nostra
affermazione che si tratta della “stessa” m. In un certo senso possiamo dire che tutti i funtivi di
una lingua entrano sia in processi sia in sistemi, contraggono sia congiunzione, o coesistenza,
che disgiunzione, o alternanza, e che la loro definizione in casi particolari come congiunti o
disgiunti, coesistenti o alternanti, dipende dal punto di vista da cui sono considerati.
Nella teoria linguistica, in contrasto con la scienza linguistica tradizionale e come reazione
deliberata ad essa, noi miriamo ad una terminologia non ambigua. […]
Chiameremo dunque correlazione la funzione “o”, e relazione la funzione “e”; chiameremo
rispettivamente correlati e relati i funtivi che contraggono queste funzioni. Su questa base
possiamo definire un sistema come una gerarchia correlazionale e un processo come una
gerarchia relazionale.
Ora, come abbiamo visto […], processo e sistema sono concetti di grande generalità, che
non si possono limitare esclusivamente a oggetti semiotici. I termini sintagmatica e
paradigmatica offrono designazioni speciali, pratiche e accettate largamente, per il processo
semiotico e per il sistema semiotico rispettivamente. Quando si tratta di linguaggio nel senso
ordinario del termine, che solo ci interessa qui, possiamo usare anche designazioni più
semplici: possiamo chiamare il processo testo, e il sistema lingua.
Un processo e un sistema che gli appartenga (gli “sottostia”) contraggono insieme una
funzione che, a seconda del punto di vista, si può concepire come una relazione o una
correlazione. […] [L]’esistenza di un sistema è presupposta necessariamente dall’esistenza di
un processo: il processo viene ad esistere grazie al fatto che c’è un sistema sottostante che lo
governa e determina nel suo sviluppo possibile. Un processo è inimmaginabile (perché
sarebbe, in un senso assoluto e irrevocabile, inesplicabile) senza un sistema ad esso
soggiacente. D’altra parte un sistema non è inimmaginabile senza un processo; l’esistenza di
un sistema non presuppone l’esistenza di un processo. Il sistema non viene ad esistere grazie
al fatto che si trovi un processo.
E’ dunque impossibile avere un testo senza una lingua ad esso soggiacente. D’altra parte si
può avere una lingua senza un testo costruito in tale lingua. Questo significa che la lingua in
questione è prevista dalla teoria linguistica come un sistema possibile, ma che nessun
processo appartenente a tale sistema è presente in maniera realizzata. Il processo testuale è
allora virtuale. (ib.: 40-4)
Ma questo pedagogico esperimento ragionativo, per quanto ben eseguito, è in realtà privo
di significato, e Saussure deve essere arrivato anche lui a questa conclusione. In una scienza
che evita postulati non necessari non c’è posto per l’assunto che la sostanza del contenuto (il
pensiero) o la sostanza dell’espressione (la catena sonora) precedono la lingua, nel tempo o
in un ordinamento gerarchico, o viceversa. Se conserviamo la terminologia di Saussure,
partendo appunto dai suoi presupposti, appare chiaro che la sostanza dipende dalla forma in
maniera tale che essa vive solo grazie alla forma e non si può dire in nessun modo che abbia
un’esistenza indipendente. (ib.: 55)
Sostanza dell’espressione
-------------------------------
Forma dell’espressione
[…] sarebbe conveniente dire a quali scienze spetti la descrizione della materia, tanto più che
finora la linguistica è stata incline, su questo punto, a una vaghezza che ha profonde radici
nella tradizione. Qui si possono ricordare due fatti:
(a) Si può concepire la descrizione della materia (tanto riguardo all’espressione quanto
riguardo al contenuto linguistici) come essenzialmente spettante in parte alla fisica e in
parte all’antropologia (sociale), e con questo non intendiamo prendere posizione su certi
punti dibattuti nella filosofia contemporanea. Si può considerare la sostanza di tutti e due i
piani sia in termini di entità fisiche (suoni del piano dell’espressione, cose sul piano del
contenuto), sia in termini della concezione che di tali entità hanno gli utenti della lingua.
Si devono richiedere dunque, per entrambi i piani, una descrizione fisica e una descrizione
fenomenologica.
(b) Una descrizione esauriente della materia del contenuto linguistico richiede in effetti la
collaborazione di tutte le scienze non linguistiche; dal nostro punto di vista tutte le
scienze, senza eccezioni, si occupano del contenuto linguistico. (ib.: 84)
Per quanto riguarda la forma del contenuto, essa è la forma con cui una lingua o un
sistema semiotico specifico ritagliano, selezionano, pertinentizzano la materia del mondo,
trasformandola in sostanza del contenuto di quella lingua o sistema semiotico. Ogni
lingua e ogni sistema semiotico ritagliano la materia del mondo secondo una propria
specifica forma del contenuto, che differisce da quella imposta da altre lingue e/o sistemi
semiotici. In altre parole, la forma del contenuto è interna, immanente a una data lingua o
a un dato sistema semiotico, ed è quella che la teoria glossematica mira a cogliere e
descrivere nel rendere conto del funzionamento di quella lingua o sistema semiotico. Il
concetto di forma del contenuto sarà più chiaro quando, nel §7, esamineremo nel
dettaglio le forme del contenuto di alcune lingue naturali.
In sintesi, per riprendere tutte queste distinzioni in relazione al concetto di segno e
di funzione segnica, nei termini di Hjelmslev:
Se torniamo alla questione da cui siamo partiti, del significato più appropriato della parola
segno, siamo ora in condizione di veder più chiaro nella controversia fra i punti di vista della
linguistica tradizionale e quelli della linguistica moderna. Pare che sia vero che un segno è
segno di qualcosa, e che questo qualcosa si trova in un certo senso al di fuori del segno stesso.
Per esempio la parola mosca è il segno di un determinato insetto che vola ora in questa stanza,
insetto che, in un certo senso (tradizionale) non entra nel segno stesso. Ma questo particolare
insetto è un’entità di sostanza del contenuto che, attraverso il segno, è coordinata a una forma
del contenuto, ed ivi sistemata insieme ad altre entità di sostanza del contenuto (per esempio
la mosca come barbetta, la mosca come bastimento, la città di Mosca). Che un segno sia il
segno di qualcosa significa che la forma del contenuto del segno può sussumere questo
qualcosa come sostanza del contenuto. […] La sequenza sonora [‘moska], come fenomeno
unico, pronunciato hic et nunc, è un’entità di sostanza dell’espressione che, grazie al segno e
solo grazie ad esso, è coordinata a una forma dell’espressione, e come tale viene classificata
insieme a varie altre entità di sostanza dell’espressione (altre pronunce possibili, da parte di
altre persone o in altre occasioni, dello stesso segno).
Il segno è dunque, per quanto possa sembrare paradossale, segno di una sostanza del
contenuto e segno di una sostanza dell’espressione. E’ in questo senso che si può dire che il
segno è segno di qualcosa. […]
Ma pare più appropriato usare il termine segno come nome dell’unità che consiste di forma
del contenuto e di forma dell’espressione, ed è stabilita dalla solidarietà che abbiamo
chiamato funzione segnica. (ib.: 63)
Pertanto, una volta chiarito in che senso il segno è “l’unità che consiste di forma del
contenuto e di forma dell’espressione”, è chiaro anche in che senso la linguistica (e la
semiotica che dalla linguistica prende metodo e concetti) vada concepita come una
“scienza della forma”, autonoma e indipendente rispetto a tutte le altre scienze:
Tutti i concetti fin qui messi in gioco saranno più chiari quando li avremo
ulteriormente specificati in relazione alle lingue naturali.
[…] si possono anche scoprire, confrontando lingue diverse, zone della sfera fonetica
suddivise in maniera diversa in lingue diverse. Possiamo per esempio pensare a una sfera
fonetico-fisiologica di movimento, che si può ovviamente rappresentare come spazializzata in
varie dimensioni, e che si può presentare come un continuum inanalizzato ma analizzabile
[…]. In tale zona amorfa è posto un numero diverso di figure (fonemi) in lingue diverse,
poiché le suddivisioni si trovano in punti diversi del continuo. Come esempio si può
considerare il continuo costituito dal profilo trasversale del palato, dalla faringe e dalle labbra.
In lingue ben note questa zona è divisa in tre settori, uno posteriore k, uno centrale t, e uno
anteriore p. Ma, limitandoci alle occlusive, eschimese e lettone per esempio distinguono due
aree k, la cui delimitazione non è la stessa nelle due lingue: l’eschimese distingue una zona
ululare e una velare, il lettone una velare e una velo-palatale. Molte lingue dell’India
distinguono due aree t, una con t retroflessa e una con t dentale, e così via. Un altro continuo
ovvio è quello delle vocali; il numero delle vocali varia da lingua a lingua, e le suddivisioni
sono diverse. […] Grazie in particolare alla straordinaria mobilità della lingua, le possibilità
sono indefinitamente ampie, ma ciò che è caratteristico è che ogni idioma pone le proprie
suddivisioni particolari entro questo indefinito numero di possibilità. […]
Gli esempi che abbiamo dato, il continuo vocalico e il profilo trasversale del palato, sono
dunque le zone fonetiche della materia, formate in maniera diversa in lingue diverse, a
seconda delle funzioni specifiche delle singole lingue, e organizzate quindi come sostanza
dell’espressione rispetto alla loro rispettiva forma dell’espressione. (ib.: 59-61)
Lo studio fonetico dell’insieme di suoni possibili non dice però ancora nulla dei
suoni che sono selezionati, fra tutti i suoni possibili a livello di apparato fonatorio, dal
sistema delle diverse lingue: ogni lingua seleziona come propri alcuni suoni (fonemi) e
non altri, e questi vengono poi riconosciuti automaticamente dai parlanti di quella lingua.
I fonemi delle varie lingue sono oggetto di studio della fonologia, che è la descrizione dei
sistemi e dell’organizzazione dei suoni nelle varie lingue del mondo.
La fonologia individua quindi la forma dell’espressione nelle lingue naturali.
Compito della linguistica è però quello di analizzare il piano dell’espressione in modo
esauriente, coerente e il più semplice possibile per individuare tutti i livelli di forma
dell’espressione, non solo quello fonologico.
Come procede dunque l’analisi linguistica del piano dell’espressione per
individuare tutti i livelli di forme dell’espressione di una lingua naturale?
In ogni singola partizione [partizione è per Hjelmslev l’analisi delle catene linguistiche a
livello di processo] potremo fare un inventario delle entità che hanno le stesse relazioni, che
possono cioè occupare la stessa “posizione” nella catena. Possiamo, per esempio, fare
inventari di tutte le proposizioni che si possono inserire in certe posizioni; in certe condizioni
ciò potrebbe portare a un inventario di tutte le proposizioni principali e a un inventario di tutte
le proposizioni secondarie. Analogamente possiamo fare un inventario di tutte le parole, di
tutte le sillabe, e di tutte le parti di sillabe con certe funzioni. […] Per soddisfare l’esigenza di
una descrizione esauriente sarà necessario fare tali inventari. […]
Quando paragoniamo gli inventari dati ai vari stadi della deduzione, vediamo che
generalmente la loro estensione decresce con l’avanzare del procedimento. Se il testo è
illimitato, cioè capace di estendersi grazie a un’aggiunta continua di parti ulteriori, come
accade se si prende una lingua viva come testo, sarà possibile registrare un numero illimitato
di periodi, un numero illimitato di proposizioni, un numero illimitato di parole. Ma prima o
poi nel corso della deduzione si arriva a un punto in cui il numero delle unità inventariate
diviene ristretto, e dopo cui esso diminuisce continuamente. Così pare certo che una lingua
avrà un numero limitato di sillabe, anche se tale numero sarà relativamente alto. […]
[Q]uando le parti di sillaba siano soggette a ulteriore partizione si arriva a entità chiamate
convenzionalmente fonemi; il loro numero è probabilmente così basso in qualunque lingua
che lo si può scrivere con due cifre, e in molte lingue è intorno alla ventina. (ib.: 46-7)
L’economia relativa nelle liste degli inventari di non-segni rispetto a quelle degli inventari
di segni corrisponde pienamente a quello che è, presumibilmente, il fine del linguaggio. Una
lingua è, per il suo stesso fine, in primo luogo e soprattutto un sistema di segni; per essere
pienamente adeguata essa deve essere sempre pronta a formare nuovi segni, nuove parole e
nuove radici. Ma, con tutta la sua illimitata ricchezza, per essere adeguata una lingua deve
essere anche facile da impiegare, pratica da apprendere e da usare. E, rispettando l’esigenza di
un numero illimitato di segni, ciò si può ottenere se tutti i segni sono costituiti da “non segni”
il cui numero sia limitato, anzi, preferibilmente, limitatissimo. Questi “non segni” che entrano
in un sistema di segni come parti di segni, saranno chiamati qui figure; si tratta di un termine
puramente operativo, introdotto semplicemente per convenienza. Una lingua è dunque
organizzata in maniera che, grazie a un gruppetto di figure e a disposizioni sempre nuove di
esse, si possa costituire un numero larghissimo di segni. (ib.: 51)
La prova di commutazione
I suoni (fonemi) che fanno parte del sistema di una lingua sono quelli per i quali
esiste almeno una coppia di parole in cui, se si scambiano due suoni, si produce una
differenza di significato: questi due suoni che, se scambiati, producono una differenza di
significato sono, appunto, fonemi che fanno parte del sistema di quella lingua.
In italiano, ad esempio, non è pertinente la differenza fra una pronuncia breve della
vocale [i] (= i breve) e una pronuncia lunga [i:] (= i lunga): possiamo pronunciare la
parola “pino” allungando più o meno la pronuncia della /i/, ma il significato della parola
che pronunciamo con una /i/ più o meno lunga non cambia. Il che equivale a dire che [i]
(i breve) e [i:] (i lunga) non sono due fonemi distinti nel sistema della lingua italiana. In
inglese invece la differenza fra [i] e [i:] è pertinente (ovvero [i] e [i:] sono due fonemi
distinti nel sistema della lingua inglese), perché, se in inglese si scambia una [i] con una
[i:] si producono parole dotate di significato diverso, come ad esempio shit (merda) vs.
sheet (foglio) e ship (nave) vs. sheep (pecora).
Per fare altri esempi, in italiano abbiamo i fonemi distinti /p/, /c/, /v/, /l/, /r/, /s/, /m/,
/n/, perché la loro sostituzione in una serie di parole come quella che segue determina
significati ben differenti: pane vs. cane vs. vane vs. lane vs. rane vs. sane vs. mane vs.
nane. Analogamente, si veda la serie di parole inglesi: car (auto) vs. bar (sbarra) vs. tar
(catrame) vs. far (lontano), da cui emerge che nel sistema della lingua inglese /c/, /b/,
/t/, /f/ sono fonemi distinti.
Questo test per cui si sostituiscono coppie di suoni in coppie di parole per
determinare quali sono i fonemi di una lingua è detto prova di commutazione (e i sistemi
semiotici che vi si possono assoggettare sono detti commutabili). La prova di
commutazione è un concetto operativo che era stato già individuato dal linguista N.S.
Trubeckoj (della scuola fonologica del Circolo di Praga), ma che è stato definito
compiutamente in questi termini solo da Hjelmslev e Uldall al V Congresso di Fonetica
del 1936. Consiste, come abbiamo visto, nell’introdurre artificialmente un mutamento,
sul piano dell’espressione, nella catena di suoni che compongono una parola e
nell’osservare se questo mutamento determina un cambiamento relativo, sul piano del
contenuto, nel significato della parola. Se la sostituzione comporta un mutamento sul
piano del contenuto, allora siamo di fronte a un’unità minima del piano dell’espressione,
detta fonema.
Va ribadito che la prova di commutazione serve a distinguere le unità minime
pertinenti sul piano dell’espressione di una lingua, che in sé sono prive di significato
(tanto è vero che Hjelmslev dice che i fonemi sono non-segni o figure dell’espressione):
il cambiamento di significato delle parole è chiamato in causa solo per determinare
differenze pertinenti sul piano dell’espressione.
Per fare un altro esempio, in italiano le varie pronunce della [a] (breve, lunga,
aperta breve e aperta lunga) appartengono alla stessa classe di suoni, che è il fonema /a/
pare
pa:re
paere
pae:re
Un fonema è definibile quindi come una classe di suoni commutabili fra loro, suoni
cioè che si possono scambiare fra loro nella stessa posizione senza che ciò produca
cambiamenti di significato. Nel caso appena visto, abbiamo /a/ = {[a], [a:], [ae], [ae:] ...}.
I suoni compresi nell’insieme astratto che costituisce un fonema sono detti varianti o
allofoni del fonema cui appartengono, mentre il fonema è detto anche invariante. Come
abbiamo fatto fin qui, nell’indicare un fonema si prende come suo nome il simbolo della
variante del fonema usata più frequentemente nella lingua cui ci si riferisce e lo si mette
fra barrette (es.: /a/).
Ora, come vedremo meglio fra breve, per Hjelmslev l’analisi linguistica deve
avvalersi della prova di commutazione non solo per individuare i fonemi o figure
dell’espressione, come ha fatto il Circolo di Praga prima di lui, ma deve applicarla
sistematicamente per individuare tutti i livelli di invarianti e varianti esistenti in una data
lingua, sia sul piano dell’espressione che sul piano del contenuto. E’ applicando
sistematicamente questo metodo che si individua una delle caratteristiche fondamentali
delle lingue naturali, che le distinguono da molti altri sistemi semiotici più semplici: la
doppia articolazione (o dualità).
In latino articulus significa “membro, parte, suddivisione in una sequenza di cose”. In materia
di linguaggio l’articolazione può designare tanto
(1) la suddivisione della catena parlata in sillabe, quanto
(2) la suddivisione della catena di significazioni in unità significative (parole). (Saussure
1916, trad. it.: 20)
In questo modo già Saussure si avvicinava all’idea che le lingue naturali non sono
semplicemente articolate, ma sono doppiamente articolate, sono cioè organizzate in due
livelli strutturali diversi: (1) le unità foniche, ovvero i fonemi, in sé privi di significato
che, combinandosi, danno luogo a (2) unità di livello superiore dotate di significato.
E’ stato il linguistica francese André Martinet a introdurre per primo esplicitamente
il concetto di “doppia articolazione” delle lingue naturali. Per Martinet il livello dei
fonemi è quello della seconda articolazione, e il livello delle parole dotate di significato è
quello della prima articolazione: nell’analisi del piano dell’espressione, infatti,
incontriamo prima le parole come unità capaci di veicolare autonomamente significati
distinti (o meglio, come ci insegna la morfologia, incontriamo i morfemi, visto che le
parole sono composte a loro volta di unità significative di livello inferiore), e soltanto in
un secondo momento individuiamo, attraverso la prova di commutazione, i fonemi.
Mentre sul piano del contenuto esiste un’entità (o meglio, come vedremo nei §§7-8, un
insieme di componenti o tratti di significato) che corrisponde a ogni singola parola (e a
ogni singolo morfema), non esiste nulla sul piano del contenuto che corrisponda ai singoli
fonemi.
In altre parole, l’unità minima autonoma (ovvero il frammento di processo che
possiamo identificare con certezza e distinguere dagli altri) sul piano dell’espressione è il
fonema, mentre sul piano del contenuto è un insieme più vasto di componenti la cui
espressione è una parola o un morfema, non un fonema. In altri termini ancora, le lingue
naturali si devono analizzare a due livelli diversi e le unità minime autonome sul piano
del contenuto sono di dimensioni molto più grandi delle unità minime autonome sul
piano dell’espressione: è questa la doppia articolazione, che fa riferimento appunto al
fatto che, poiché le unità minime sul piano dell’espressione hanno una dimensione
diversa dalle unità minime sul piano del contenuto, il piano dell’espressione e quello del
contenuto non hanno la stessa articolazione, ma ne hanno due diverse.
Questa dualità di dimensioni di articolazione è una delle caratteristiche più
economiche del linguaggio umano in quanto, con un insieme limitato di suoni distinti,
siamo in grado di produrre un numero molto grande di combinazioni di suoni in parole
che hanno significati distinti. Il che equivale a dire che la doppia articolazione delle
lingue naturali e dei sistemi comunicativi più complessi è una caratteristica che sta alla
base della loro produttività.
Inoltre, la doppia articolazione è una delle caratteristiche fondamentali che
distinguono le lingue naturali rispetto ad altri sistemi di significazione più semplici, nei
quali il piano dell’espressione e quello del contenuto si articolano allo stesso modo,
ovvero a ogni unità del piano dell’espressione corrisponde esattamente un’unità del piano
del contenuto. Si pensi ad esempio al sistema dei semafori, in cui all’unità minima del
piano dell’espressione costituita dalla luce rossa corrisponde uno e un solo contenuto,
quello di “fermarsi”, all’unità minima del piano dell’espressione costituita dalla luce
gialla corrisponde uno e un solo contenuto, quello di “prepararsi a fermarsi”, all’unità
dell’espressione costituita dal verde corrisponde uno e un solo contenuto, quello di
“passare”.
I sistemi di significazione in cui il piano dell’espressione è organizzato
parallelamente al piano del contenuto (ovvero con questa corrispondenza uno a uno fra
unità minime del piano dell’espressione e unità minime del piano del contenuto) sono
detti conformi, monoplanari o simbolici. Sono conformi i sistemi più elementari di
significazione, dalle luci lampeggianti sulle automobili con cui si segnala che si vuole
svoltare a destra o a sinistra, ai sistemi di segnalazione con le bandiere che si usano in
marina.
I sistemi di significazione a doppia articolazione, nel senso appena visto, sono detti
invece non conformi o biplanari o duali o semiotici.
La semiotica successiva a Hjelmslev ha individuato un terzo tipo di sistemi, quelli
semi-simbolici. Si tratta di sistemi di significazione in cui non si ha una corrispondenza
fra singole unità dell’espressione e singole unità del contenuto, come nel caso dei sistemi
simbolici, ma fra coppie oppositive di unità dell’espressione e coppie oppositive di unità
del contenuto (nei termini della semiotica greimasiana si parla oggi di corrispondenza fra
categorie del piano dell’espressione e categorie del piano del contenuto). Si pensi ad
esempio a un film a colori in cui si usa il bianco e nero per marcare i flashback di un
protagonista: all’opposizione sul piano dell’espressione “colore vs. bianco e nero”
corrisponde, sul piano del contenuto, l’opposizione “presente vs. passato”. Un celebre
esempio di Greimas è quello dell’affermazione e della negazione che, perlomeno nella
cultura occidentale, si fanno spostando la testa lungo l’asse verticale o orizzontale del
collo: alla coppia oppositiva sul piano dell’espressione “movimento del capo verticale vs.
movimento del capo orizzontale” corrisponde la coppia oppositiva sul piano del
contenuto “affermazione vs. negazione”.
7. Materia, sostanza e forma del contenuto nelle lingue naturali
Come già visto in §5, nell’introdurre il concetto di materia come “fattore comune”
che si astrae mettendo a confronto lingue diverse, Hjelmslev ha confrontato le seguenti
frasi, che vogliono tutte dire “Non so”:
jeg véd det ikke (danese)
I do not know (inglese)
Riconosciamo così nel contenuto linguistico, nel suo processo, una forma specifica, la
forma del contenuto che è indipendente dalla materia ed ha con essa un rapporto arbitrario, e
la forma rendendola sostanza del contenuto.
Non occorre una lunga riflessione per vedere che lo stesso vale per il sistema del contenuto.
Si può dire che un paradigma in una lingua, e un paradigma corrispondente in un’altra
coprano una medesima zona di materia che, astratta da tali lingue, è un continuo amorfo
inanalizzato entro cui l’azione formatrice delle lingue pone delle suddivisioni.
Dietro ai paradigmi offerti nelle varie lingue dalle designazioni dei colori possiamo,
sottraendo le differenze, scoprire tale continuo amorfo, lo spettro solare, a cui ogni lingua
impone arbitrariamente le sue suddivisioni. Se le formazioni in questa zona della materia sono
per lo più approssimativamente le stesse nelle lingue europee più diffuse, non occorre andare
molto lontano per trovare formazioni che ad esse non corrispondano. Confrontando il gallese
e l’inglese per esempio, troviamo che all’inglese green corrispondono in gallese gwyrdd o
glas; a blue corrisponde glas; a gray corrispondono glas o llwyd; a brown corrisponde llwyd.
Cioè, la parte dello spettro coperta dall’inglese green è tagliata in gallese da una linea che
assegna una parte di tale zona alla parola gallese che copre anche l’area dell’inglese blue,
mentre la distinzione inglese fra green e blue non si trova in gallese. In gallese mancano anche
le distinzioni inglesi fra blue e gray e fra gray e brown; d’altra parte l’area coperta dall’inglese
gray è suddivisa in gallese e attribuita in parte all’area che corrisponde a blue e in parte
all’area che corrisponde a brown. Un confronto schematico illustra la mancanza di
corrispondenza fra le delimitazioni nelle due lingue:
gwyrdd
green
blue glas
gray
llwyd
brown
I paradigmi dei morfemi illustrano situazioni simili. La zona del numero è analizzata
diversamente in lingue che distinguono solo un singolare e un plurale, in lingue che
aggiungono un duale (come il greco antico e il lituano), e in lingue che hanno anche un
paucale, un triale (come la maggior parte delle lingue melanesiane, la lingua indonesiana
occidentale saŋir, nelle isole fra Mindanao e le Celebes, e alcuni dialetti della lingua kulin
dell’Australia sud-orientale), o anche un quadrale (come la lingua micronesiana delle isole
Gilbert). La zona del tempo è analizzata in maniera diversa in lingue che (a parte formazioni
perifrastiche) hanno solo un presente e un passato (come, per esempio, l’inglese), e in cui il
presente copre quindi anche l’area coperta in altre lingue dal futuro, e in lingue che pongono
un limite fra presente e futuro; le suddivisioni sono ancora diverse in lingue (come il latino, il
greco antico, il francese, l’italiano) che distinguono diversi tipi di passato.
Questa mancanza di corrispondenza entro una stessa zona della materia si presenta
dappertutto. Si confrontino, ad esempio, le seguenti corrispondenze fra danese, tedesco e
francese:
Baum arbre
Træ
Holz bois
Possiamo concludere che in una delle due entità che sono funtivi della funzione segnica -
cioè il contenuto - la funzione segnica istituisce una forma, la forma del contenuto, che dal
punto di vista della materia è arbitraria, e che si può spiegare solo grazie alla funzione
segnica, ed è ovviamente solidale con essa. In questo senso Saussure ha ragione nel
distinguere fra forma e sostanza. (ib.: 57-9)
Il modo in cui una lingua ritaglia la materia del contenuto è dunque arbitrario o
immotivato, come già aveva sottolineato Saussure: il mondo non nasce “etichettato”
(come voleva la concezione della lingua come “nomenclatura”, criticata sia da Saussure
che da Hjelmslev), i contenuti delle parole in una data società e cultura cambiano nel
tempo e differiscono da quelli di altre società e culture. Dice Volli (2000):
Due secoli fa non c’erano parole per dire “elettricità”, “calcolatore”, “automobile”, perché
gli oggetti stessi non erano stati inventati. Parole come “libertà” e “eguaglianza” esistevano,
ma, prima della Rivoluzione francese, avevano certo un significato sensibilmente diverso.
Anche il significato di “amore” è molto cambiato nel corso dei secoli, fra il desiderio fisico
dei greci, l’amore angelicato di Dante e quello passionale dei romantici.
Inoltre ci sono lingue che classificano in maniera diversa dei fenomeni universali della
percezione umana come i colori e i sapori: certe lingue hanno griglie più complesse, altre più
semplici. Così gli animali, gli oggetti naturali, gli aspetti del cielo, i sentimenti. Il modo in cui
questi campi di interesse comunicativo sono organizzati dipende dalla singola società, e
quindi, di nuovo, dalla sua storia. Naturalmente tutte le sfumature di colore sono percepite alla
stessa maniera da occhi fatti alla stessa maniera, anche se, per esempio, non vi è in una certa
cultura l’“unità culturale” corrispondente a una certa sfumatura di azzurro; e le lingue sono
attrezzate per esprimere in qualche modo (per via di perifrasi, usando calchi, metafore e altri
espedienti) anche i contenuti per cui “mancano le parole” e che per caso si trovino a dover
esprimere. In italiano, parole come “rosa” o “marrone” (che vengono da certe piante per
analogia), “tifone” o “computer” (prestiti da lingue straniere), “pomodoro” o “grattacielo”
testimoniano di questo processo di adattamento, che è continuo e pervasivo. […]
Ogni significato, come ogni significante di un codice arbitrario, si può pensare come una
sorta di gettone il cui valore consiste nelle relazioni di opposizione che lo distinguono dagli
altri significati che gli sono in un certo senso vicini. L’alba è il momento che non è più la notte
e non ancora il giorno; l’affetto è un sentimento che non è così passionale come l’amore ma
neppure così impersonale come la simpatia, ecc. Vi è chi, come i linguisti Sapir e Whorf, ha
sostenuto che questa diversa organizzazione dei significati nelle varie lingue implica modi
diversi di pensare. La questione è controversa, ma certo la semiotica deve ritenere che anche il
sistema degli oggetti che si possono comunicare, come quello dei significanti che lo
esprimono, sia arbitrario. (Volli 2000: 40-1)
Il metodo che l’analisi linguistica deve applicare per individuare la forma del
contenuto di una lingua, ovvero il modo in cui una lingua ritaglia la materia del
mondo in unità minime o figure del contenuto è ancora una volta, secondo Hjelmslev,
la prova di commutazione (o prova dello scambio):
[…] è una conseguenza logica inevitabile che questa prova dello scambio si possa applicare
al piano del contenuto, e non soltanto al piano dell’espressione, e debba consentirci di
registrare le figure che compongono i contenuti dei segni. Come sul piano dell’espressione,
l’esistenza di figure non sarà che la logica conseguenza dell’esistenza di segni. Si può dunque
prevedere con certezza che tale analisi è realizzabile. E si può aggiungere subito che è della
massima importanza che essa sia realizzata, poiché si tratta di una condizione preliminare
necessaria per una descrizione esauriente del contenuto. Tale descrizione esauriente
presuppone la possibilità di spiegare e descrivere un numero illimitato di segni, anche dal
punto di vista del loro contenuto, valendosi di un numero limitato di figure. E l’esigenza della
riduzione deve essere qui la stessa che sul piano dell’espressione: quanto più basso sarà il
numero delle figure del contenuto, tanto meglio potremo soddisfare il principio empirico nella
sua esigenza della descrizione più semplice possibile.
Fino ad ora questa analisi in figure del contenuto non è mai stata compiuta, e neppure
tentata dalla linguistica, sebbene un’analisi corrispondente in figure dell’espressione sia tanto
antica quanto l’invenzione stessa della scrittura alfabetica (per non dire più antica: dopo tutto
l’invenzione della scrittura alfabetica presuppone un siffatto tentativo di analisi
dell’espressione). Questo squilibrio ha avuto conseguenze catastrofiche: in presenza di un
numero illimitato di segni, l’analisi del contenuto è apparsa un problema insolubile, una fatica
di Sisifo, un ostacolo insuperabile. (ib.: 72-3)
Si può dire che l’analisi in figure sul piano dell’espressione consista, in pratica, nella
risoluzione di entità che entrano in inventari illimitati (per esempio espressioni di parole) in
entità che entrano in inventari limitati, e questa risoluzione è portata avanti fino a che restino
solo gli inventari più limitati. Lo stesso varrà per l’analisi in figure sul piano del contenuto.
[…]
Così in pratica il procedimento consiste nel cercare di analizzare le entità che entrano in
inventari illimitati puramente in entità che entrino in inventari limitati. Il compito consisterà
dunque nel portare avanti l’analisi fino a che tutti gli inventari siano diventati limitati, anzi
quanto più limitati possibile. (ib.: 77)
Questa regola va applicata sul piano del contenuto allo stesso modo che sul piano
dell’espressione. Se, per esempio, un inventario meccanico a un dato stadio del procedimento,
porta a registrare in italiano le entità di contenuto “montone”, “pecora”, “porco”, “scrofa”,
“toro”, “vacca”, “stallone”, “giumenta”, “fuco”, “pecchia”, “uomo”, “donna”, e “maschio”,
“femmina”, e “(capo) ovino”, “(capo) suino”, “(capo) bovino”, “(capo) equino”, “ape”,
“(essere) umano”, le prime dodici entità vanno eliminate dall’inventario degli elementi se
possono essere spiegate in maniera univoca come unità relazionali che comprendono solo
“maschio” e “femmina” da un lato, e “ovino”, “suino”, “bovino”, “equino”, “ape”, “umano”
dall’altro. Qui, come sul piano dell’espressione, il criterio è la prova di scambio con cui si
trova una relazione fra correlazioni su ciascuno dei due piani. Come scambi fra sai, sa e si
possono comportare scambi fra tre contenuti diversi, così scambi fra le entità di contenuto
“toro”, “maschio” e “bovino” possono comportare scambi fra tre espressioni diverse. “Toro” =
“bovino maschio” sarà diverso da “vacca” = “bovino femmina” esattamente come sl è
diverso, poniamo, da sn; e “toro” = “bovino maschio” sarà diverso da “stallone” = “equino
maschio” esattamente come sl è diverso, poniamo, da fl. Lo scambio di un solo elemento con
un altro è, in tutti e due i casi, sufficiente a comportare uno scambio sull’altro piano della
lingua. (ib.: 75-6)
In breve, Hjelmslev propone una combinatoria di elementi del contenuto che può
essere schematizzata come propone Eco (1984: 77):
Per Hjelmslev tutte le unità di contenuto che in questo schema sono espresse dalle
parole in corsivo possono essere eliminate in quanto analizzabili come combinazione
delle unità di contenuto espresse dalle parole in tondo nella riga e nella colonna
corrispondenti (“montone” è eliminabile perché equivalente a “ovino maschio”, “vacca”
è eliminabile perché equivalente a “bovino femmina”, ecc.). Le parole in tondo della
colonna più a sinistra e della riga più in alto nella tabella esprimono appunto le figure del
contenuto di cui parla Hjelmslev, ovvero le unità minime che analizzano il contenuto
delle parole in corsivo ma non sono a loro volta analizzabili in altre figure del contenuto.
In questo modo l’analisi linguistica sarebbe giunta a individuare le componenti ultime
anche sul piano del contenuto, analogamente a quanto aveva fatto individuando i fonemi
sul piano dell’espressione.
(Giovanna Cosenza)
Riferimenti bibliografici
Hjelmslev, L.
1943 Omkring sprogteoriens grundlaeggelse (tr. it. I fondamenti della teoria del
linguaggio, Torino, Einaudi).
Eco, U.
1984 Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino Einaudi.
Violi, P.
1997 Significato ed esperienza, Milano, Bompiani.
Volli, U.
2000 Manuale di semiotica, Bari, Laterza.
Conoscenza e interpretazione:
La semiotica cognitiva di Ch. S. Peirce
Cosa vuole dire interpretare un testo? Cosa succede quando leggiamo un racconto,
una poesia, un articolo di giornale o le istruzioni per l’uso del videoregistratore?
Cosa vuol dire interpretare il mondo? Cosa succede quando decifriamo un evento
del mondo fisico, ad esempio risalendo dalle impronte all’identità dell’animale-
impressore, dal fumo al fuoco, dalla nuvola al temporale in arrivo, da una reazione
chimica alle sue cause scatenanti?
C’è un meccanismo comune tra il modo in cui interpretiamo i testi e il modo in cui
interpretiamo il mondo?
Congetture e confutazioni
Strettamente parlando, le questioni di fatto non possono mai essere dimostrate una volta
per tutte, in quanto rimane pur sempre un qualche margine di errore possibile. Ad esempio,
mi pare sufficientemente dimostrato che il mio nome sia Charles Peirce e che io sia nato a
Cambridge, nel Massachusetts, in una casa di legno color pietra in Mason Street. Ma, anche
per quanto riguarda la parte di questa affermazione di cui mi sento più certo - ossia, il mio
nome -, rimane una certa piccola probabilità che io mi trovi in una situazione anomala e che
mi stia sbagliando. Sono conscio dei miei occasionali cali di memoria; e sebbene mi ricordi
bene - o, perlomeno, pensi di ricordare - di avere vissuto in quella casa fin da una tenera età,
non ricordo affatto di esserci nato, per quanto ci sarebbe da immaginarsi che tale prima
esperienza debba essere stata piuttosto impressionante. In effetti, non sono neppure in grado
di specificare la data esatta in cui una certa qualsivoglia persona mi abbia informato del
luogo della mia nascita; e certamente sarebbe stato molto facile ingannarmi su questo punto,
se ci fosse stato un motivo serio per farlo; e come faccio a essere così sicuro, come
certamente lo sono, che non esista un tale motivo? Perché sarebbe una teoria priva di
plausibilità, ecco tutto. (“Notes on the Doctrine of Chances”, 1910, CP 2.663)
Approfondimenti bibliografici:
I “saggi anticartesiani” di Peirce:
1867 “On a New List of Categories”, Proceedings of the American Academy of Arts and
Sciences, vol. 7, pp. 287-98. CP 1.545-1.559. Ora in Semiotica, Torino: Einaudi,
1980, pp. 19-35.
1868 “Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man”, Journal of Speculative
Philosophy, vol. 2, pp. 103-114. CP 5.213-5.263. Ora in Le leggi dell’ipotesi,
Milano: Bompiani, 1984, pp. 33-61.
1868 “Some Consequences of Four Incapacities”, Journal of Speculative Philosophy, vol.
2, pp. 140-157. CP 5.264-5.317. Ora in Semiotica, “Pensiero - Segno - Uomo”,
Torino: Einaudi, 1980, pp. 39-85.
Gli esempi appena riportati tendono a dimostrare che anche le “azioni mentali” più
elementari, come le sensazioni e le percezioni, lungi dall’essere delle immediate
“impressioni dei sensi”, sono in effetti rappresentazioni selettive e unificatrici delle
impressioni sconnesse esercitate dagli stimoli sui centri nervosi. Come dimostrano gli
esperimenti svolti dagli psicologi della percezione, la nostra conoscenza dei dati
sensoriali esterni è mediata da un processo inferenziale che seleziona solo alcune
proprietà dello stimolo esterno e, tramite un’opposizione rispetto ad altre qualità (ad
esempio, durezza vs. mollezza), formula un giudizio percettivo del tipo “questo è duro”.
Solitamente non ci si rende conto di questo ragionamento: ciò è dovuto al fatto che esso
avviene a un livello pressoché automatico.
Ma è sufficiente immaginare una situazione in cui la percezione sia disturbata da
fonti di “rumore” esterno per capire quanti calcoli logici siano necessari per potere
esprimere un giudizio percettivo. Peirce cita, ad esempio, la celebre illusione ottica dei
due gradini visti in prospettiva e disegnati senza ombra (Figura 1): inizialmente sembra
di vedere i gradini dall’alto ma poi, all’improvviso, il giudizio percettivo cambia e pare di
vedere i gradini dal di sotto. A seconda del giudizio percettivo che si applica alla figura, i
tratti che la compongono vengono interpretati in un modo o nell’altro; e, d’altra parte, a
seconda del modo in cui i tratti vengono intesi, viene formulato un giudizio percettivo
piuttosto che l’altro.
Figura 1
Approfondimenti bibliografici:
1903 “Pragmatism and abduction”. CP 5.180-212. Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano:
Bompiani, 1984: 177-198.
CASO : A
REGOLA : Se A, allora B
RISULTATO: B
Come si vede, gli elementi che possono entrare in gioco in qualsiasi processo
inferenziale sono tre: un caso, una regola e un risultato. Il caso è una occorrenza a cui
viene applicata una regola generale. La regola è l’elemento di mediazione che collega
caso e risultato tramite un rapporto di implicazione. Il risultato è la conseguenza
prevedibile dell’applicazione della regola a quel caso. Così, data la regola “Tutti i
ruminanti mancano degli incisivi superiori” (ossia: se ruminante, allora manca degli
incisivi superiori), e il caso “la pecora è un ruminante”, se ne potrà inferire il risultato “la
pecora manca degli incisivi superiori”. La nostra esistenza è impostata sulla possibilità di
fare simili inferenze, grazie alle quali possiamo dare per scontate molte conoscenze anche
senza andare, per così dire, a controllare ogni volta dentro la bocca della pecora.
Nel nostro esempio, abbiamo ricavato un risultato applicando una regola a un caso.
Ma avremmo altresì potuto inferire la regola dal caso e dal risultato:
1.3.1. Fagioli
Peirce introduce i tre tipi di inferenza attraverso l’oramai celebre esempio dei
fagioli: immaginiamo di essere in una stanza nella quale vi siano tanti sacchi pieni di
diversi tipi di fagioli. Sul tavolo, c’è un sacco di tela con su scritto: fagioli bianchi.
Sappiamo dunque che dentro al sacco vi sono solo fagioli bianchi. Di conseguenza, se
dovessimo estrarre a caso una manciata di fagioli dal sacco, avremmo la certezza che essi
sarebbero tutti bianchi (a meno che la scritta sul sacco non ci abbia mentito). Questa è la
struttura della deduzione.
Il rapporto causale tra risultato e regola non è immediato e inevitabile: può sempre
darsi che i fagioli sul tavolo provengano da un altro sacco nascosto in un angolo della
stanza, o che qualcuno abbia messo i fagioli bianchi sul tavolo per depistarci (o
semplicemente per caso).
L’abduzione è un ragionamento rischioso perché implica un salto logico: il fatto che
abbiamo constatato (la presenza di fagioli bianchi sul tavolo) potrebbe essere un caso
della regola che abbiamo reperito ma, come si è visto, sono ugualmente possibili altre
regole altrettanto funzionanti. Ogni volta che formuliamo un’ipotesi, noi facciamo una
scommessa.
Approfondimenti bibliografici
L’esempio dei fagioli per esporre i tre tipi di inferenza si trova in Peirce,
1878 “Deduction, Induction and Hypothesis”, Popular Science Monthly, pp. 470-482. CP
2.619-2.644. Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 201-221.
Primo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato è
data in modo obbligante e automatico o semiautomatico.
Secondo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato
viene reperita per selezione nell’ambito dell’enciclopedia disponibile.
Terzo tipo di abduzione - la legge-mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato
viene costituita ex novo, inventata. (Bonfantini-Proni, in Eco-Sebeok [a cura di] 1983: 154)
Le abduzioni creative sono molto più rare: sono quelle ipotesi altamente innovative
in cui la legge-mediazione ancora non c’è, e spetta all’interprete di formularla ex novo,
postulando che il fatto constatato sia il caso di tale regola ancora inespressa. L’operazione
logica richiesta in simili casi è pertanto duplice: l’interprete deve contemporaneamente
(a) ideare una legge-mediazione originale e (b) immaginare che tale legge si applichi al
fenomeno riscontrato.
È il caso delle cosiddette “rivoluzioni scientifiche” (Kuhn, 1962) che insorgono
quando l’attività di ricerca che caratterizza la “scienza normale” fa emergere delle
anomalie le quali, dapprima ignorate o integrate con difficoltà nel complesso di ipotesi
esplicative (o paradigma) dominante, ad un certo punto determinano l’insorgere di un
nuovo paradigma che rimpiazza quello precedentemente accettato. Si pensi, ad esempio,
alla teoria della combustione per opera dell’ossigeno formulata da Lavoisier nel 1777, la
quale diede luogo ad una vera e propria rivoluzione chimica: prima che Lavoisier
“scoprisse” l’ossigeno, il paradigma dominante all’epoca attribuiva la combustibilità dei
corpi al flogisto, una specie di “spirito” immateriale che, all’atto della reazione, si
liberava sotto forma di calore o di fiamma: questa teoria implicava che le sostanze che
bruciano consumassero flogisto e pertanto perdessero peso. Lavoisier era convinto che vi
fosse qualcosa di sbagliato nella teoria del flogisto e dimostrò che i corpi che bruciano,
lungi dal perdere peso, diventano più pesanti. Per spiegare questa anomalia, Lavoisier
avanzò l’ipotesi che, bruciando, le sostanze assorbissero una parte dell’atmosfera. Le sue
ricerche mirarono a scoprire la natura della sostanza che la combustione rimuove
dall’atmosfera, e tale sostanza venne infine identificata con l’ossigeno.
Nelle abduzioni creative […] tiriamo a indovinare non solo intorno alla natura del risultato
(la sua causa) ma anche intorno alla natura dell’enciclopedia (cosicché, se la nuova legge
viene verificata, la nostra scoperta porta a un cambiamento di paradigma). (Eco, in Eco-
Sebeok, 1983: 246)
1.5. Il macroargomento
Abduzione
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia
REGOLA: Il pesce avariato provoca mal di pancia
CASO: Questo bambino ha mangiato pesce avariato.
Deduzione
REGOLA: Il pesce della mensa scolastica provoca mal di pancia
CASO: Questo bambino ha mangiato il pesce della mensa
scolastica
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia.
Induzione
CASO: Questo bambino ha mangiato il pesce della mensa
scolastica
RISULTATO: Questo bambino ha mal di pancia
REGOLA: Tutti i bambini che hanno mangiato il pesce della
mensa scolastica hanno mal di pancia.
Qualora la prova sperimentale non dia i risultati previsti (ad esempio, se si scopre
che non tutti i bambini che hanno mangiato il pesce hanno mal di pancia, oppure che non
tutti i bambini col mal di pancia hanno mangiato il pesce), l’abduzione iniziale non viene
convalidata. Il che non significa necessariamente che essa vada immediatamente scartata,
ma che - perlomeno - l’interprete mantiene un’apertura nei confronti di ipotesi esplicative
alternative.
La sequenza abduzione-deduzione-induzione rappresenta per Peirce l’impalcatura
costante di ogni indagine (inquiry) scientifica: a partire dalla constatazione di un fatto
sorprendente, che contravvenga alle attese dell’interprete, quest’ultimo avanza
tentativamente una possibile spiegazione la quale, se accettata, fa sì che il fatto in
questione non appaia più come sorprendente ma come perfettamente prevedibile.
Successivamente, e siamo alla fase deduttiva dell’argomento, vengono tratte le varie
conseguenze sperimentali dell’ipotesi proposta: ad esempio, nel caso dell’interpretazione
storiografica, ci si aspetta di trovare conferma dell’esistenza di un avvenimento anche in
altri documenti oltre a quello che ha suggerito la congettura iniziale. Ne consegue che
quanto maggiore è il numero di frammenti indipendenti che suggeriscono una medesima
interpretazione senza contraddirsi a vicenda, tanto più tale interpretazione ne risulta
corroborata. Infine, le conseguenze previste vengono verificate (o falsificate)
induttivamente e dunque l’ipotesi di partenza viene conservata, rielaborata oppure
scartata. È chiaro che per Peirce un’abduzione non può mai essere verificata una volta per
tutte, e ciò per via del carattere fondamentalmente fallibile di ogni conoscenza.
Approfondimenti bibliografici:
Per la classificazione dei tre tipi di abduzione e per l’esplicitazione del macroargomento
si rimanda a Bonfantini-Proni, in Eco-Sebeok [a cura di] 1983: 154, nonché
all’introduzione (“Peirce e l’abduzione”) di Bonfantini in Peirce 1984. I tre tipi di
abduzione sono ripresi da Eco 1983 (“Ipotesi su tre tipi di abduzione”), ora in Eco 1990,
“Corna, zoccoli e scarpe”.
2. L’indagine
FATTO SORPRENDENTE
Attenzione
Messa in moto dell’indagine (dubbio)
Tensione abduttiva (fatto come risultato ABDUZIONE
di un’abduzione virtuale) Scelta dell’ipotesi
(Verifica della scommessa
meta-
abduttiva: macroargomento)
Fissarsi della credenza
ABITO
esperienza falsificante (disposizione all’azione)
Di primo acchito, l’osservatore sul tram immagina che la donna sia di umili origini,
forse una domestica: l’ipotesi è corroborata da alcuni elementi rilevati nel suo aspetto e
nei suoi modi (educazione di basso livello, mancanza di signorilità nel vestire). Tuttavia
egli osserva certi dettagli a suo avviso inconciliabili con l’ipotesi di partenza (contegno
sinistro, rughe che rivelano anni di severa disciplina, espressione ipocrita e servile
“troppo abietta per una domestica”, ecc.). Di per sé, come abbiamo visto, la presenza di
qualche apparente irregolarità rispetto alla regolarità attesa non è sufficiente per dare
avvio all’indagine.
Tuttavia, i dettagli dissonanti (rispetto all’ipotesi “questa donna è una domestica”)
non sono sconnessi, ma “fanno sistema” tra loro, nel senso che sono compatibili
reciprocamente e insieme puntano a una possibile ipotesi alternativa (“questa donna è
un’ex monaca”). È la regolarità delle anomalie riscontrate (rispetto a un’ipotesi
alternativa) che attiva l’Attenzione dell’osservatore. Dunque, un fatto è tanto più
sorprendente quanto più (a) si dimostra inconciliabile con il sistema di attese (i pre-
giudizi) dell’interprete, e (b) suggerisce, anche solo vagamente, che sia possibile
formulare un’ipotesi alternativa.
Approfondimenti bibliografici:
La definizione di “fatto sorprendente” si trova in Peirce, 1901, “On the Logic of Drawing
History from Ancient Documents, Especially from Testimonies”. CP 7.164-2.253. Ora in
Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 223-299.
Il passaggio dal dubbio alla credenza, e cioè lo stabilirsi di un’opinione, può essere
conseguito in diversi modi:
È peraltro interessante che Peirce non affermi mai che il metodo scientifico è
sempre e comunque preferibile agli altri tre: ci sono determinati ambiti dell’agire umano,
come quello della fede religiosa, in cui i metodi della tenacia, dell’autorità e della
ragione a priori dimostrano la propria efficacia, e sarebbe una “non pertinenza
egocentrica” (5.377) pretendere che essi si piegassero ai princìpi del pensiero
inferenziale. Naturalmente l’importante è che chi impiega i metodi della tenacia,
dell’autorità e della ragione a priori per produrre credenze non pretenda di fondare le
proprie opinioni sul metodo scientifico: è quanto accade, ad esempio, quando i
sostenitori di una tesi ideologicamente motivata impiegano delle argomentazioni pseudo-
scientifiche per occultare la natura aprioristica dei propri convincimenti. In simili casi è
opportuno smascherare le interferenze indebite tra i diversi metodi per fissare le
credenze.
Approfondimenti bibliografici:
1877 “The Fixation of Belief”, The Popular Science Monthly. CP 5.358-5.387. Ora in Le
leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 81-103
1878 “How to Make our Ideas Clear”, The Popular Science Monthly. CP 5.388-5.410.
Ora in Le leggi dell’ipotesi, Milano: Bompiani, 1984: 104-127
2.3. L’abito
Nel saggio intitolato Come rendere chiare le nostre idee, Peirce scrive che “ciò che
una cosa significa è semplicemente quali abiti comporta” (5.400).Vale la pena riportare il
brano in cui Peirce postula la convergenza tra la nozione di abito e quella di significato:
In base a questa definizione, quando diciamo che una cosa è dura intendiamo che le
sostanze che la possono scalfire non sono molte: il significato di durezza comprende
quindi tutte le azioni che potremmo compiere su un oggetto che possiede tale attributo per
constatarne la solidità, la robustezza, la resistenza.
Un altro esempio citato da Peirce, sul quale si sofferma Eco 1979, è il significato
della parola “litio”. Una buona definizione dovrebbe includere una serie di informazioni
enciclopediche, come il fatto che il litio è un elemento vitreo, traslucido, grigio o bianco,
molto duro eppure fragile, insolubile, il quale, se posto sopra una fiamma non luminosa,
conferisce a quest’ultima un colore rosso acceso mentre, se viene triturato con la calce e
poi fuso, può essere parzialmente dissolto nell’acido muriatico, e così via. Insomma, il
significato della parola coincide con l’insieme (indefinitamente dilatabile) delle
operazioni che si possono compiere per avere l’esperienza percettiva dell’oggetto che il
termine denota e dei suoi usi possibili.
Secondo la massima pragmatica (il significato di un concetto sta nell’insieme suoi
effetti concepibili, ovvero nella somma dei suoi abiti), il significato di “tigre” comprende
- oltre alle informazioni più strettamente dizionariali (la definizione tassonomica) - tutta
una serie di elementi descrittivi e contestuali (“grande felino asiatico, con manto fulvo a
strisce scure, ventre, lati del muso e gola bianchi; è un feroce predatore”, ecc.) che ne
rendano possibile l’identificazione tipologica, il reperimento nel mondo dell’esperienza
reale e, eventualmente, la sua rappresentazione (dunque rientrano nella definizione anche
un’illustrazione o la fotografia di un esemplare, la simulazione di un ruggito, l’atto di
mimare l’incedere tigresco, e così via); inoltre, il significato può essere ulteriormente
allargato per includere tutti i trattati etologici sui comportamenti delle tigri nel loro
ambiente naturale, oppure le analisi degli effetti della cattività su questi animali, eccetera;
infine, una definizione completa dovrebbe rendere conto dei sensi derivati o secondari del
termine (“essere feroce come una tigre”, “cavalcare la tigre”, “una tigre di carta”, ecc.) e
al limite toccare, anche se Peirce non ne parla esplicitamente, le sue occorrenze artistiche
più o meno note (dalla Tyger di William Blake alla Shere Khan di Kipling).
Una simile definizione è praticamente impossibile da realizzare perché, per quanto
ci si sforzi di essere esaustivi, rimangono sempre fuori numerosissime accezioni, usi
particolari, esemplari specifici, ecc., del concetto, il quale oltrettutto è in perenne
evoluzione. E difatti l’esplicitazione della totalità dei suoi sensi rimane una pura
potenzialità, mentre ciascun atto interpretativo concreto seleziona - in base a una scelta
preliminare di pertinenza - solo i percorsi di senso che appaiono più fecondi in quella
determinata circostanza. È a questo fenomeno che si riferisce Eco (1979) quando parla
del semema (o concetto) come testo virtuale, e del testo come espansione di un semema:
da questo punto di vista, un film come Rocky potrebbe essere visto come un’espansione
del semema “incontro di boxe” (nel senso che lo sviluppo narrativo rende espliciti alcuni
percorsi che erano già virtualmente presenti nel concetto di partenza), mentre il semema
“carabiniere” racchiude in forma condensata e virtuale un’infinità di espansioni testuali
diverse, tra cui l’intero corpus delle barzellette sui carabinieri.
3.1.1. Pertinenza
(o Representamen) Figura 2
L’Oggetto
A questo punto bisogna chiarire se per “oggetto” Peirce intenda riferirsi al referente
(lo stato del mondo, la “cosa in sé”) oppure al semema (al concetto corrispondente).
Peirce stesso si rende conto di questa ambiguità, e ad un certo punto distingue tra tra
Oggetto Dinamico, “realmente efficiente ma non immediatamente presente” (8.343), e
Oggetto Immediato, che è l’oggetto “così come il segno lo rappresenta” (8.343):
l’Oggetto Immediato è quindi l’effetto nel segno e attraverso il segno dell’Oggetto
Dinamico (di per sé inconoscibile, trattandosi del dato bruto dell’esperienza).
L’Oggetto Immediato è il modo in cui l’Oggetto Dinamico è focalizzato, e consiste
nella somma degli attributi dell’Oggetto Dinamico resi pertinenti dal segno.
In base a questa distinzione tra Oggetto Immediato e Oggetto Dinamico, possiamo
definire il segno come la combinazione di un Representamen (in quanto Espressione) e
un Oggetto Immediato (in quanto Contenuto del segno), mentre l’Oggetto Dinamico
corrisponde allo stato di cose, esterno al segno, al quale il segno stesso si riferisce. Così,
dato il segno rappresentato nella figura 3, il Representamen corrisponde alla pura
espressione grafica, l’Oggetto Immediato equivale al concetto di “uomo” (ad esempio, in
quanto contrapposto a “donna”, nel caso in cui il segno sia posto sulla porta della toilette
degli uomini di un locale pubblico), mentre l’Oggetto Dinamico coincide con tutti gli
uomini “in carne e ossa” a cui il segno si riferisce (ad esempio, tutti i potenziali utenti del
bagno).
SEGNO
Representamen Oggetto Oggetto
Immediato Dinamico
Figura 3 Espressione Contenuto Referente
L’Interpretante
Versione “aggiornata” del triangolo semiotico (da Bonfantini, in Peirce 1980: XXXV e
Proni, 1990: 266)
Approfondimenti bibliografici:
Definizioni di segno:
1897, CP 2.227-29 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 132-133)
1902, “Syllabus”, CP 2.274 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 154-55)
1904, Lettera a Lady Welby, CP 8.333 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi, 1980: 190)
1908, Lettera (mai spedita) a Lady Welby, CP 8.343 (ora in Semiotica, Torino: Einaudi,
1980: 194)
Interpretante 3:
Possibili complicazioni
Interpretante 1: “morbillo”
Segno Oggetto
Ogni Interpretante rinvia a un Interpretante successivo, in una fuga potenzialmente
infinita di Interpretanti, per cui ogni segno suggerisce qualcosa al segno successivo che
lo interpreta.
S = segno
I = interpretante
(Valentina Pisanty)
Riferimenti bibliografici
Eco, U.
1975 Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani.
1979 Lector in fabula, Milano, Bompiani.
1984 Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi.
1990 I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani.
1995 Interpretazione e sovrainterpretazione, Milano, Bompiani.
Kuhn, T.S.
1962 The structure of scientific revolutions, The University of Chicago Press (tr. it.
1969 La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi).
Peirce, Ch.S.
1931, 1932, 1934 e 1935, Collected Papers, Cambridge (Mass.), Harvard
University Press (tr. it. parziali Semiotica, Torino, Einaudi, 1980 e Le
leggi dell’ipotesi, Milano, Bompiani, 1984).
Popper, K.R.
1934 Logik der Forschung, Vienna (tr. it. 1970 Logica della scoperta scientifica,
Torino, Einaudi).
1972 Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Bologna, Il
Mulino.
Proni, G.
1990 Introduzione a Peirce, Milano, Bompiani.