Michel Foucault
Edizione stabilita da Bernard E. Harcourt
sotto la direzione di Francois Ewald e Alessandro Fontana
Edizione italiana a cura di Deborah Borca e Pier Aldo Rovatti
Feltrinelli, 2016
Avvertenza
1 Foucault aveva concluso l'opuscolo redatto in occasione della sua candidatura con que-
sta formula: “Sarebbe necessario intraprendere la storia dei sistemi di pensiero” (“Titres
et travaux”, in Dits et écrits, 1954-1988, a cura di D. Defert e F. Ewald in collaborazione
con J. Lagrange, Gallimard, Paris 1994, n. 71, vol. I, p. 846; ed. 2001, vol. I, p. 874; trad.
it. di M. Bertani, “Titoli e lavori”, in L'ordine del discorso e altri interventi , Einaudi,
Torino 2004).
2 Verrà pubblicata dalle edizioni Gallimard nel marzo 1971 col titolo L'ordre du discours
(trad. it. L'ordine del discorso, cit.).
l'anno (possono essere svolte in forma di seminari di tredici ore al massi-
mo)3. I docenti devono presentare ogni anno una ricerca originale, e ciò li
costringe a rinnovare ogni volta il contenuto del loro insegnamento. La
partecipazione ai corsi e ai seminari è del tutto libera; non richiede né
iscrizione né titoli di studio. Ma nemmeno gli insegnanti ne rilasciano al-
cuno4. Nel vocabolario del Collège de France si dice che i professori non
hanno studenti ma solo uditori.
I corsi di Michel Foucault si svolgevano ogni mercoledì dall'inizio di
gennaio alla fine di marzo. Il pubblico, assai numeroso, composto da stu-
denti, insegnanti, ricercatori, curiosi, molti dei quali stranieri, impegnava
due anfiteatri del Collège de France. Michel Foucault si è spesso dispia-
ciuto della distanza tra lui e il suo “pubblico” e del ridotto scambio che
la forma del corso rendeva possibile5. Avrebbe desiderato un seminario
che fosse il luogo di un vero lavoro collettivo, e fece al riguardo numerosi
tentativi. Negli ultimi anni, alla conclusione di ogni corso, si dedicava
per un po' di tempo a rispondere alle domande degli uditori.
Per l'anno 1972-1973 non disponiamo più delle registrazioni del cor-
so di Foucault realizzate da Gilbert Burlet, ma possediamo un dattilo-
scritto realizzato da Jacqueline Germé. Questo dattiloscritto, insieme al
manoscritto preparatorio al corso, è servito come base per stabilire il te-
sto. Bernard E. Harcourt, nella “Nota del curatore”, precisa le regole
adottate a questo fine9.
Il testo del corso è seguito dal riassunto pubblicato nell' Annuaire du
Collège de France. Michel Foucault lo redigeva generalmente nel mese di
giugno, qualche tempo dopo la fine del corso. Quella era per lui l'occa-
sione per circoscriverne, retrospettivamente, l'intenzione e gli obiettivi. E
tali riepiloghi rappresentano la miglior presentazione di ciascun corso.
Ogni volume si conclude con una “nota dei curatori” di cui sono re-
sponsabili unicamente gli editori di ogni corso: in essa si cerca di fornire
al lettore alcuni elementi al contesto di ordine biografico, ideologico e
politico, situando il corso all'interno dell'opera pubblicata e indicandone
la collocazione all'interno del corpus utilizzato, allo scopo di facilitarne
la comprensione e di evitare i controsensi che potrebbero sorgere dall'o-
blio delle circostanze nelle quali ciascun corso è stato elaborato ed enun-
ciato.
9 Cfr. infra […].
La società punitiva, corso tenuto nel 1973, è stato curato da Bernard
E. Harcourt.
Con questa edizione dei corsi al Collège de France, una nuova di-
mensione dell'“opera” di Michel Foucault risulta pubblicata.
Non si tratta, in senso proprio, di inediti, dal momento che questa
edizione riproduce la parola proferita pubblicamente da Michel Fou-
cault. Il supporto scritto che egli utilizzava poteva essere anche molto ela-
borato, come attesta questo volume.
Questa edizione dei corsi al Collège de France è stata autorizzata da-
gli eredi di Michel Foucault che hanno voluto così soddisfare la forte
pressione esercitata su di loro, tanto in Francia quanto all'estero. E ciò
entro incontestabili condizioni di serietà. I curatori hanno cercato di es-
sere all'altezza della fiducia che è stata loro accordata.
Alessandro Fontana è scomparso il 17 febbraio 2013, prima di poter vedere compiuta l'e-
dizione dei Corsi di Michel Foucault al Collège de France, di cui è stato uno dei promoto-
ri. Questa edizione, poiché manterrà lo stile e il rigore che lui aveva saputo imprimerle,
continuerà a risultare fino alla fine sotto il suo nome. – F.E.
Lezione del 3 gennaio 1973
vol. II, p. 204; ed. 2001, vol. I, p. 1072; trad. it. di R. Nencini, “Io scorgo l'intollerabile”,
in L'emergenza delle prigioni, La Casa Usher, Firenze 2011, pp. 51-52: “La nostra socie-
tà ha cominciato a praticare un sistema di esclusione e di reclusione – l'internamento o
l'imprigionamento – contro ogni individuo che non corrispondesse a queste norme. Da
allora, degli uomini sono stati esclusi dal circuito della popolazione e allo stesso tempo
reclusi nelle prigioni”; Id., “Le grand enfermement” (intervista con N. Meienberg, in
“Tages Anzeiger Magazin”, n. 12, 15 marzo 1972, trad. fr. di J. Chavy), in DE, n. 105,
ed. 1994, vol. II, p. 306; ed. 2001, vol. I, p. 1174; trad. it. di R. Nencini, “La grande re-
clusione”, in L'emergenza delle prigioni, cit., p. 85: “Il problema è il seguente: offrire
una critica del sistema che spieghi il processo attraverso il quale la società attuale spinge
ai margini una parte della popolazione”. Nella sua lezione inaugurale al Collège de
France, pronunciata il 2 dicembre 1970 e pubblicata con il titolo L'ordre du discours
(Gallimard-NRF, Paris 1971; trad. it. di A. Fontana, L'ordine del discorso e altri inter-
venti, Einaudi, Torino 2004), Foucault usa estensivamente la nozione di esclusione, a
partire dalla quinta pagina per designare le “procedure che hanno la funzione di scon-
giurare i poteri e i pericoli [del discorso], di padroneggiarne l'evento aleatorio, di schi-
varne la pesante, temibile materialità”. Foucault prosegue la lezione identificando tre
“procedure d'esclusione” (corsivo nel testo, p. 5), alternativamente definite come “prin-
cipio d'esclusione” (p. 5) o “sistema d'esclusione” (p. 7), a proposito dell'interdetto (p.
5), dell'opposizione tra follia e ragione (pp. 5-6) e della partizione tra vero e falso (p. 7).
Si potrebbe anche pensare che l'idea di esclusione – o almeno delle “espulsioni” secondo
Foucault (cfr. “Lettre de M. Michel foucault”, in DE, n. 96, ed. 1994, vol. II, p. 210; ed.
2001, vol. I, p. 1078) – sottenda la sua analisi della follia nel XV e XVI secolo; cfr. Folie
et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, Plon, Paris 1961, pp. 10-13; trad. it. di
F. Ferrucci, Storia della follia nell'età classica , a cura di M. Galzigna, Rizzoli, Milano
2011, pp. 59-61.
La nozione di esclusione è contigua anche al concetto di “repressione” che Foucault ave-
va sviluppato l'anno precedente nel suo corso sulle “Teorie e istituzioni penali” (vedi,
per esempio, l'inizio della prima lezione in cui espone il suo metodo: sostituire le teorie
e le istituzioni penali “nel loro funzionamento d'insieme, cioè all'interno di sistemi di
repressione” [fol. 1]; la quinta lezione, a proposito dell'apparato fiscale di stato, che
“non è più in grado di funzionare senza essere protetto, raddoppiato da un apparato re-
pressivo” [fol. 10bis]; o ancora la sesta lezione, che descrive la messa in atto di un appa-
rato repressivo di stato [foll. 18-20]). In modo analogo, Foucault si sarebbe allontanato
anche dalla nozione di “repressione” negli anni seguenti (cfr. Sorvegliare e punire, cit.,
p. 26).
psicosociologiche che avevano invaso il campo delle scienze umane, come
quelle di devianza, di disadattamento, di anomalia, il cui contenuto psi-
cologico, nascondeva una funzione ben precisa: mascherare le tecniche, le
procedure, gli apparati con cui la società escludeva un certo numero di
individui, per ripresentarli in seguito come anormali, devianti. In questa
misura, la funzione di inversione critica della nozione di esclusione ri-
spetto alle nozioni psicosociologiche di devianza o di disadattamento è
stata importante. Ma mi sembra ormai insufficiente se si vuole approfon-
dire l'analisi, nella misura in cui la nozione di esclusione, in fondo, ci dà
lo statuto dell'individuoa escluso nel campo delle rappresentazioni sociali.
È all'interno di questo campo che l'escluso appare come tale: non comu-
nica più con gli altri al livello del sistema delle rappresentazioni ed è per
questo che appare appunto come deviante. Mi sembra quindi che questa
nozione di esclusione rimanga all'interno del campo delle rappresentazio-
ni senza tenere conto – senza essere in grado, dunque, di tenere conto –,
senza analizzare le [lotte], i rapporti, le operazioni specifiche del potere a
partire da cui l'esclusione ha luogo. L'esclusione b sarebbe l'effetto rappre-
sentativo generale di un certo numero di strategie e di tattiche di potere,
che la nozione stessa di esclusione non riesce in quanto tale a cogliere.
Inoltre, questa nozione attribuisce alla società in generale la responsabili-
tà del meccanismo grazie al quale l'escluso risulta escluso. In altre parole,
si perde non solo il meccanismo storico, politico, di potere, ma si rischia
di essere indotti in errore per quanto concerne l'istanza che esclude, poi-
ché l'esclusione [sembra] riferirsi a qualcosa come a un consenso sociale
che respinge, mentre dietro a esso c'è forse un certo numero di istanze di
potere del tutto specifiche, di conseguenza definibili, che sono responsa-
bili del meccanismo di esclusione.
La seconda ragione per cui non posso concordare con l'ipotesi di Lé-
vi-Strauss è la seguente: lui, in fondo, contrappone due tecniche che sa-
rebbero del tutto diverse, una di rigetto, l'altra di assimilazione. Mi chie-
a Manoscritto (fol. 3): “degli individui (o dei gruppi) […]”.
b Manoscritto (fol. 4): “L'esclusione è l'effetto rappresentativo generale di strategie e tatti-
che molto più sottili. Sono queste che bisogna determinare”.
do se non sia stato vittima della metafora digestiva indotta dalla stessa
nozione di antropofagia, perché, se si osserva da vicino come avvengono
le procedure di esclusione, ci si accorge che non sono affatto opposte alle
tecniche di assimilazione. Non esiste esilio, reclusionea che non comporti,
oltre a ciò che in generale si caratterizza come espulsione, un transfert,
una riattivazione dello stesso potere che impone, costringe, espelle.
Così, l'ospedale psichiatrico è sì il luogo istituzionale in cui e attra-
verso cui avviene l'espulsione del folle; ma, al contempo e mediante il gio-
co stesso di questa espulsione, è un luogo di costituzione e ricostituzione b
di una razionalità che si instaura autoritariamente nel quadro dei rappor-
ti di potere all'interno dell'ospedale e che sarà riassorbita all'esterno del-
l'ospedale sotto forma di discorso scientifico. Esso circolerà all'esterno
come sapere sulla follia, e la sua condizione di possibilità affinché sia
davvero razionale è l'ospedalec. All'interno dell'ospedale, il folle è il bersa-
glio di un certo rapporto di autorità che si articolerà in decisioni, ordini,
discipline ecc. Questo rapporto di autorità si fonda su un certo potere,
che è politico nella sua trama ultima, ma si giustifica e si articolare anche
a partire da una serie di cosiddette condizioni di razionalità. Tale rappor-
to, che si esercita in permanenza sul folle all'interno dell'ospedale, per il
modo stesso in cui il discorso e il personaggio del medico funzionano nel-
la comunità scientifica e nella società, è riconvertito in elementi di infor-
mazione razionale che saranno reinvestiti nei rapporti di potere caratteri-
stici della società. Ciò che è sorveglianza, in termini di rapporti di potere
all'interno dell'ospedale, diventerà osservazione scientifica nel discorso
del medico, proprio perché il medico da una parte occupa una posizione
di potere all'interno dell'ospedale e, dall'altra, funziona come colui che fa
e ha diritto di fare un discorso scientifico all'esterno dell'ospedale. Ciò
a Il manoscritto (fol. 4) aggiunge: “o messa a morte”.
b Il manoscritto (fol. 4) aggiunge: “permanente”.
c Manoscritto (foll. 4-5):
“Il rapporto di potere (ragione-follia) che regna nell'internamento si sposta e si capovol-
ge – fuori dall'internamento – in un rapporto di oggetto: la malattia mentale si costitui-
sce come oggetto di un sapere razionale. E a partire da questo rapporto, la non-follia
può rafforzare il suo potere sulla follia”.
che era classificazione, consegna, in termini di rapporto di autorità den-
tro l'ospedale, sarà riconvertito in diagnosi o in prognosi, in nosografia,
nel linguaggio del medico che, una volta all'esterno dell'ospedale, funzio-
nerà come soggetto di un discorso scientifico.
In questo modo si vede come un rapporto politico che struttura tutta
la vita di un ospedale psichiatrico viene riconvertito in discorso di razio-
nalità, a partire da cui, appunto, l'autorità politica – che rende possibile il
funzionamento dell'ospedale – si troverà rafforzata. Si ha al tempo stesso
un transfert dall'interno dell'ospedale verso l'esterno e il rovesciamento di
un rapporto di potere in una relazione di sapere. Il malato all'interno del-
l'ospedale appare sì come il bersaglio del rapporto di potere politico, ma
poi diventa l'oggetto di un sapere, di un discorso scientifico in un sistema
di razionalità generale, che viene rafforzato da questo stesso fatto: infatti
la razionalità ha così acquisito il potere di conoscere non solo ciò che ac-
cade in natura, nell'uomo, ma anche che cosa accade nei folli. Vi è una
sorta di transfert e di ingestione che fa pensare proprio a ciò che Lévi-
Strauss chiama antropofagia: un processo di ingestione a scopo di rinfor-
zoa.
L'oggetto laterale e costante del corso sarà quindi una critica a que-
sta nozione di esclusione o, più precisamente, la sua elaborazione secon-
do delle dimensioni che permettono al tempo stesso di scomporla nei
suoi elementi costitutivi e di ritrovare i rapporti di potere che la sottendo-
no e la rendono possibile.
Allo stesso modo, forse, bisognerebbe fare la critica di una nozione
che ha avuto una fortuna collegata: la nozione di trasgressione7. Per un
a Il manoscritto (fol. 5) aggiunge:
“Ma questa antropofagia appare solo a condizione di spostare l'analisi; di non restare al
livello generale dell'esclusione; e di individuare le tattiche di potere sottostanti”.
7 Cfr. M. Foucault, “Préface à la transgression” (in “Critique”, n. 195-196: Hommage à
G. Bataille, agosto-settembre 1963, pp. 751-769), in DE, n. 13, ed. 1994, vol. I, pp. 233-
250; ed. 2001, vol. I, pp. 261-278; trad. it. di C. Milanese, “Prefazione alla
trasgressione”, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 55-72. La “trasgressione”
è una nozione di cui Foucault aveva già fatto ampio uso; cfr. “Un problème m'intéresse
depuis longtemps, c'est celui du système penal” (intervista con J. Hafsia, in “La Presse
de Tunisie”, 12 agosto 1971, p. 5), in DE, n. 95, ed. 1994, vol. II, p. 206; ed. 2001, vol. I,
certo periodo, essa ha giocato [un ruolo] più o meno comparabile a
[quello della nozione] di esclusione. Anch'essa ha consentito una sorta di
inversione critica, importante nella misura in cui ha permesso di disegna-
re nozioni come quella di anomalia, di colpa, di legge. Ha autorizzato un
rovesciamento dal negativo al positivo, dal positivo al negativo. Ha per-
messo di ordinare tutte queste nozioni non più a partire da quella, mag-
giore, di legge, ma da quella di limitea 8.
Tuttavia credo che le nozioni di esclusione e di trasgressione devono
essere considerate ora come degli strumenti che hanno avuto una loro im-
portanza storica: per un certo periodo sono state degli operatori di inver-
sione critica nel campo della rappresentazione giuridica, politica e mora-
le; ma questi operatori continuano a essere ordinati a partire dal sistema
generale delle rappresentazioni contro le quali erano rivolti. Mi sembra
p. 1074; trad. it. di R. Nencini, “Un problema mi interessa da molto tempo, quello del
sistema penale”, in L'emergenza delle prigioni, cit., p. 54: “E allora la mia preoccupa-
zione è il problema della trasgressione della legge e della repressione dell'illegalità”.
a Il manoscritto (fol. 6) aggiunge:
“Parlare di trasgressione non significa designare il passaggio dal lecito all'illecito (al di
là dell'interdetto): significa designare il passaggio al limite, oltre il limite, il passaggio a
ciò che è senza regola, e quindi senza rappresentazione”
8 Questa nozione di “limite” si rifà al lavoro di Georges Bataille sull'esperienza limite; cfr.
“Prefazione alla trasgressione”, cit., pp. 58-61 (commentando l'opera di Bataille, Fou-
cault scrive che “il limite e la trasgressione devono l'uno all'altra la densità del loro esse-
re”, ivi, p. 59). D'altronde, ha scritto che la Somme athéologique di Bataille “ha fatto
entrare il pensiero nel gioco – nel gioco arrischiato – del limite, dell'estremo, della som-
mità, del trasgressivo” (M. Foucault, “Présentation” [in Georges Bataille, Œuvres com-
plètes, Gallimard-NRF, Paris 1970, vol. I: Premiers écrits, 1922-1940, pp. 5-6, qui p. 5],
in DE, n. 74, ed. 1994, vol. II, p. 25; ed. 2001, vol. I, p. 893). Foucault riconosceva aper -
tamente l'influenza di Bataille: “punto di riferimento del mio cammino”; “penso a scrit-
tori come Blanchot, come Artaud, come Bataille, che per molti della mia generazione
sono stati, credo, importantissimi” e che sollevavano, “in fondo, la questione dell'espe-
rienza limite. Si tratta di quelle forme di esperienza che, anziché essere considerate
come centrali ed essere valorizzate positivamente in una società, vengono considerate
come le esperienze limite, le esperienze frontiera a partire dalle quali è rimesso in que-
stione ciò che di solito è ritenuto accettabile” (“Entretien avec André Berten”, in M.
Foucault, Mal faire, dire vrai. Fonction de l'aveu en justice, a cura di F. Brion e B.E. Har-
court, Presses universitaires de Louvain, Louvain 2012, p. 238; trad. it. di V. Zini, “Inter-
vista di André Berten”, in Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia,
Einaudi, Torino 2013, p. 230). Già nel 1970 Foucault afferma: “Oggi lo sappiamo: Ba-
taille è uno degli scrittori più importanti del suo secolo” (“Présentation”, in G. Bataille,
Œuvres complètes, cit.).
che le direzioni che si ricavano dalle analisi condotte in termini di esclu-
sione e di trasgressione debbano essere percorse in dimensioni nuove, in
cui la questione non sarà più quella della legge, della regola, della rappre-
sentazione, ma del potere più che della legge, del sapere più che della rap-
presentazione.
***
9 Secondo Daniel Defert, molte persone tra il pubblico avevano capito male il titolo del
corso e inteso “La società primitiva” invece che “punitiva”.
10 Qualche mese dopo, Foucault proporrà una versione leggermente diversa dei “quattro
tipi possibili di punizione” nelle conferenze all'Università pontificia di Rio de Janeiro,
nel maggio 1973, intitolate “La vérité et les formes juridiques”, in DE, n. 139, ed. 1994,
vol. II, pp. 538-623, in particolare pp. 590-591; ed. 2001, vol. I, pp. 1406-1491, in parti-
colare pp. 1458-1459; trad. it. di A. Petrillo, “La verità e le forme giuridiche”, in Archi-
vio Foucault 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli,
Milano 1997, pp. 83-165, in particolare pp. 132-134 (esilio; esclusione sul posto; risarci-
mento attraverso lavori forzati; legge del taglione).
11 Cfr. C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, cit., p. 376: “Se un indigeno contravveniva alle leggi
della tribù era punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda e cavalli”.
pratiche rivoluzionarie – [quando si] incendi[a] il tetto della casa di chi si
vuole mettere al bandoa. Era una tattica usata soprattutto nella penalità
greca arcaicab 12.
2) Organizzare un riscatto, imporre una compensazione 13. In questa
tattica, la rottura della regola, l'infrazione provocheranno due effetti: [da
una parte,] emergerà qualcuno, un individuo o un gruppo, che si costitui-
rà come vittima del danno e, di conseguenza, potrà chiedere un risarci-
mento; [dall'altra,] la colpa creerà un certo numero di obblighi [per] colui
a Il manoscritto (fol. 8) aggiunge:
“in modo che non sia altro che una rovina visibile: si tratta di ricondurlo o di inseguirlo
fino alle frontiere; può anche significare esporlo o affidarlo al destino di un'imbarcazio-
ne (come qualcuno che non ha più una terra che gli appartenga, un luogo dove riparar-
si, un nutrimento o un sostegno a cui abbia diritto)”.
b Il manoscritto (fol. 8) aggiunge: “e fino all'età classica”.
12 Il riferimento all'esilio nella penalità greca arcaica rimanda alla tragedia di Sofocle,
Edipo re, che Foucault aveva già analizzato nelle sue prime lezioni al Collège de France
(cfr. Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France, 1970-1971 , a cura di D.
Defert, Gallimard-Seuil, Paris 2011, pp. 177-192; trad. it. di M. Nicoli e C. Troilo, Le-
zioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France, 1970-1971 , Feltrinelli, Milano
2015, pp. 199-216), come pure in una conferenza pronunciata alla State University of
New York di Buffalo nel marzo 1972 e poi alla Cornell University nell'ottobre 1972 (cfr.
“Il sapere di Edipo”, ivi, pp. 247-280). Nella sua “Nota del curatore” (ivi, pp. 300-302),
Daniel Defert osserva che nell'archivio di Foucault si possono ritrovare in totale sette di-
verse versioni dell'analisi dell'Edipo re. Foucault svilupperà una di queste sette versioni
quattro mesi dopo, nelle conferenze su “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 97-113;
ne riparlerà anche nel 1980, 1981 e 1983. Cfr M. Foucault, Mal fare, dir vero, cit., p. 74,
nota 1.
13 Le nozioni di riscatto e compensazione – nella fattispecie: di “risarcimento” – erano
state sviluppate nel corso del 1970-1971, nel contesto della pratica giudiziaria greca: cfr.
Lezioni sulla volontà di sapere, cit., lezione del 3 febbraio 1971, pp. 107-109. Temi ripre-
si in “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 115-116.
Riguardo il “diritto medievale” menzionato poco più avanti, il lettore ritroverà nelle
conferenze di Joseph Strayer la nozione di una giustizia penale che lega strettamente
l'ammenda e il prelievo delle imposte; cfr. J.R. Strayer, On the Medieval Origins of the
Modern State, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1970; trad. fr. di M. Clé-
ment, Les origines médiévales de l'État moderne, Payot, Paris 1979; trad. it. di A. Porro,
Le origini dello stato moderno, Celuc, Milano 1975, p. 79: “La connessione fra l'ammi-
nistrazione della giustizia e la riscossione delle rendite rimase stretta durante tutto il
Medio Evo. Anche quando apparvero nuclei specializzati di giudici, questi furono spes-
so utilizzati come esattori di rendite e gli antichi esattori di rendite […] continuarono a
tenere delle corti per trasgressioni di scarsa entità”. Cfr. anche, per quanto riguarda il
XVII secolo, “Théorie et institutions pénales”, quinta lezione (a proposito dell'apparato
fiscale come apparato di stato, fol. 10).
che è considerato l'autore dell'infrazione. Intorno all'infrazione, quindi,
non ci sarà un fenomeno di vuoto come nel primo caso, ma la costituzio-
ne di tutta una rete specifica di obblighi, comparabile a un debito da rim-
borsare o a un danno da ripararea. Chi ha contravvenuto alle regole si tro-
va forzatamente preso in un insieme di impegni che lo costringonob 14. È
una tattica diversa dalla precedente: nella prima, bisogna rompere tutti i
legami con l'individuo, tutti i legami con cui è trattenuto all'interno del
potere; qui, al contrario, si tratta di mettere chi infrange la regola all'in-
terno di una rete di obblighi moltiplicati, incrementati rispetto alla rete
tradizionale in cui si trova.
3) Marchiare: fare una cicatrice, lasciare un segno sul corpo, in bre-
ve, imporre a questo corpo una diminuzione virtuale o visibile, oppure,
se non si ha accesso al corpo reale dell'individuo, infliggere una ferita
simbolica a suo nome, umiliare la sua figura, intaccare il suo statuto. In
ogni caso, si tratta di lasciare sul corpo visibile o simbolico, fisico o so-
ciale, anatomico o statutario, qualcosa come una traccia. L'individuo che
avrà commesso l'infrazione sarà così marchiato da un elemento di memo-
ria o di riconoscimento. In questo sistema, l'infrazione non è più qualco-
sa che deve essere riscattato, compensato, riequilibrato e quindi, entro
certi limiti, cancellato; è al contrario ciò che deve essere sottolineato, che
deve sottrarsi all'oblio, che deve fissarsi in una specie di monumento, an-
che quando si tratta di una cicatrice, di un'amputazione, di qualcosa che
a Il manoscritto (fol. 9) aggiunge: “a volte a una vendetta da fermare, altre volte a una
guerra da prevenire attraverso una specie di riscatto, o a una libertà da riscuotere attra-
verso una compensazione”.
b Il manoscritto (foll. 9-10) aggiunge: “a meno che non fugga o non commetta un'altra in-
frazione. Questo sistema della compensazione e del riscatto sembra essere stato domi-
nante nelle società germaniche antiche”.
14 Cfr. C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, cit., p. 376: “Questa riparazione [da parte del colpe-
vole] faceva di quest'ultimo il debitore del gruppo, al quale egli doveva dimostrare la
sua riconoscenza con dei regali”.
È interessante notare il fatto che Foucault, nella sua esposizione orale, non sembra aver
utilizzato i passi del manoscritto che fanno riferimento alle società, ai costumi e alle
leggi germaniche antiche. Il corso tenuto nel 1972, “Théorie et institutions pénales”, era
incentrato sul diritto germanico.
riguarda la vergogna o l'infamia c; sono tutti i volti esposti alla gogna, le
mani mozzate dei ladri. In questo sistema, il corpo visibile o sociale deve
essere il blasone delle pene, e questo blasone rimanda a due cose: [da una
parte,] alla colpa, di cui deve costituire la traccia visibile e immediata-
mente riconoscibile: so che sei un ladro perché non hai più le mani; [dal-
l'altra,] al potere che ha imposto la pena e che attraverso questa pena ha
deposto sul corpo del suppliziato il marchio della sua sovranità. Nella ci-
catrice o nell'amputazione, non è visibile soltanto la colpa, ma il sovrano
stesso. Questa tattica della marchiatura è stata predominante in Occiden-
te dalla fine dell'alto Medioevo fino al XVIII secolo.
4) Rinchiudere. Tattica che pratichiamo qui da noi, la cui applicazio-
ne definitiva si situa a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Parleremo delle
condizioni politiche della reclusione intesa nella sua forma più generale e
degli effetti di sapere di questa reclusione.
18 La figura dell'homo sacer nel diritto arcaico, “questa figura di uomo che chiunque po-
teva uccidere senza commettere omicidio, ma che non poteva essere messo a morte nelle
forme prescritte dal rito”, sarà studiata da Giorgio Agamben nel suo Homo sacer. Il
potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. Questo testo di Agamben prende
come punto di partenza l'analisi del potere elaborata da Foucault negli anni ottanta e,
più precisamente, l'intersezione tra lo studio di come l'individuo si rende soggetto di un
controllo esteriore (lo studio delle tecnologie del sé) e lo studio delle tecniche di Stato
attraverso le quali la vita ea la popolazione diventano bersaglio e preoccupazione – al-
l'intersezione tra “tecniche di individualizzazione soggettive e procedure di totalizzazio-
ne oggettive” (ivi, p. 8), esattamente in “questo nascosto punto d'incrocio fra il modello
giuridico-istituzionale e il modello biopolitico del potere” (p. 9); punto d'incrocio che,
secondo Agamben, sarebbe rimasto in Foucault “singolarmente in ombra”, “un punto
cieco nel campo visivo” (pp. 8 e 9). In questo corso di Foucault, ed esattamente in que-
sto passo della lezione del 3 gennaio 1973 – cioè l'analisi del modo in cui le tattiche pu-
nitive (come la figura dell'homo sacer) funzionano nelle relazioni di potere, o attraverso
cui, come dirà Agamben, “il potere penetra nel corpo stesso dei soggetti e nelle loro for-
me di vita” (p. 7) – si potrebbe vedere un testo precursore dei lavori di quest'ultimo.
In un sistema di riscattoa la morte-castigo era in fondo la remissione
del debito: era il modo in cui un assassinio doveva essere ripagato. E la
prova migliore che fosse proprio questo consiste nel fatto che l'assassinio
poteva essere punito non con la morte del colpevole, ma di uno dei suoi
parenti. L'esecuzione doveva equivalere al rimborso del debito, e non al
castigo dell'individuo considerato colpevole19.
Nella pratica della marchiatura è facile vedere quanto la morte sia
un'operazione fisica specifica, un lavoro sul corpo, una maniera ritualiz-
zata di inscrivere i marchi del potere sul corpo dell'individuo, il suo statu-
to di colpevole, o di inscrivere perlomeno nel terrore dello spettatore la
memoria della colpa. Se dalla fine del Medioevo al XVIII secolo si vede
una varietà così abbondante di supplizi, è perché bisognerebbe tenere
conto di un'ampia serie di variabili: dello statuto del colpevole, per esem-
pio, per cui si ha la decapitazione, che è la morte marchiata dal sigillo del
nobile, e l'impiccagione, che è la morte che marchierà il contadino. C'è il
rogo per l'eretico, lo squartamento per i traditori, l'amputazione per i la-
dri, la lingua trafitta per i blasfemi ecc.20.
Si può ricordare una delle più straordinarie scene di morte per mar-
chiatura: la messa a morte di Damiens nel 1757 21. Damiens è condannato
prima di tutto a fare confessione pubblica, poi viene messo sulla ruota,
gli vengono rotti gli arti con una barra di ferro, è tanagliato al petto, sulle
piaghe si versa certa bollente, poi è squartato e gli vengono spezzate le
articolazioni, viene bruciato e le sue ceneri infine sono gettate al vento.
Tutto ciò ha funzionato, perfino nell'immaginazione del tempo, come la
definitiva messa in scena di questo alfabeto dei supplizi. Il sovrano era
stato offeso da un illuminato uscito dalla folla. A questo gesto, il potere
politico ha risposto con l'ostentazione più completa del suo blasone pe-
nale. Ha esibito le tracce più atroci e al tempo stesso più rituali del suo
“Le Nouvel Observateur”, n. 655, 30 maggio-6 giugno 1977, pp. 92-96, 101, 104, 112,
120, 125-126), in DE, n. 205, ed. 1994, vol. III, pp. 282-297; ed. 2001, vol. II, pp. 282-297;
trad. it. di R. Nencini, “L'angoscia di giudicare”, in L'emergenza delle prigioni, cit., pp.
195-210; Id., “Du bon usage du criminel” (in “Le Nouvel Observateur”, n. 722, 11 set-
tembre 1978, pp. 40-42), in DE, n. 240, ed. 1994, vol. III, pp. 657-662; ed. 2001, vol. II,
pp. 657-662; trad. it. di R. Nencini, “Sul buon uso del criminale”, in L'emergenza delle
prigioni, cit., pp. 221-225; Id., “Punir est la chose la plus difficile qui soit” (intervista di
A. Spire, in “Témoignage chrétien”, n. 1942, 28 settembre 1981, p. 30), in DE, n. 301,
ed. 1994, vol. IV, pp. 208-210; ed. 2001, vol. II, pp. 1027-1029; trad. it. di R. Nencini,
“Punire è la cosa più difficile che ci sia”, in L'emergenza delle prigioni, cit., pp. 262-264.
a Manoscritto (fol. 18): “quello delle operazioni, delle tattiche, delle strategie penali”.
me delle rappresentazioni giuridiche e morali che si ritiene supportino e
giustifichino tali pratiche penali; ma perché a partire da qui vorrei defini-
re i rapporti di potere effettivamente messi in atto attraverso queste tatti-
chea. In altre parole, vorrei affrontarle come strumenti di analisi dei rap-
porti di potere, e non come rivelatrici di un'ideologia. La penalità come
strumento di analisi del potere, ecco il tema di questo corso.
Questo vuol dire, in secondo luogo, che se è vero che il sistema delle
tattiche penali può essere pensato come strumento di analisi dei rapporti
di potere, l'elemento considerato come centrale sarà l'elemento della lotta
politica intorno al potere e contro di esso. Sta qui tutto il gioco di conflit-
ti, di lotte che ci sono tra il potere quale si esercita in una società e gli in-
dividui o i gruppi che in un modo o nell'altro cercano di sfuggire a questo
potere, che lo contestano localmente o globalmente, che contravvengono
ai suoi ordini e ai suoi regolamenti. Non voglio dire che considero assolu-
tamente equivalenti la cosiddetta delinquenza comune e la delinquenza
politica. Voglio dire che, per fare l'analisi di un sistema penale, ciò che
dev'essere subito messo in risalto è la natura delle lotte che, in una socie-
tà, si svolgono intorno al potere.
Di conseguenza, al centro di tutte queste analisi della penalità dovrà
essere collocata la nozione di guerra civile23. La guerra civile, mi pare, è
una nozione filosoficamente, politicamente, storicamente molto mal ela-
borata. E lo è per svariate ragioni. Mi sembra che nascondere, negare la
guerra civile, affermare che la guerra civile non esiste sia uno dei primi
a Manoscritto (foll. 19-20):
“Vale a dire che in questa analisi saranno messe in primo piano le forme di lotta tra il
potere politico, quale si esercita in una società, e coloro – individui o gruppi – che cer-
cano di sfuggire a questo potere, che lo contestano localmente o globalmente, che con-
travvengono al suo ordine o ai suoi regolamenti.
Il testo che segue non figura nel manoscritto, che però contiene quattro pagine di ap-
punti (trascritte infra, […]) riguardanti le conseguenze metodologiche che implica que-
sta scelta teorica, e le diverse impasse del funzionalismo sociologico.
23 Foucault proseguirà questa analisi negli anni seguenti, in particolare nel suo corso del
1976, “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France , a cura di M. Bertani e
A. Fontana, Gallimard-Seuil, Paris 1997; trad. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana,
“Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, [lezione] del 4 febbraio 1976, p.
80.
assiomi dell'esercizio del potere. Questo assioma ha avuto immense riper-
cussioni teoriche perché, che ci riferiamo a Hobbes o a Rousseau, in ogni
caso vediamo che la guerra civile non è mai considerata come qualcosa di
positivo, di centrale, in grado di servire [in sé] da punto di partenza per
un'analisi. O si parla della guerra di tutti contro tutti come ciò che esiste
prima del patto sociale, e allora non è più guerra civile ma guerra natura-
le; quindi, a partire dal momento in cui c'è un contratto, la guerra civile
non può che essere il prolungamento mostruoso della guerra di tutti con-
tro tutti in una struttura sociale che normalmente dovrebbe essere co-
mandata dal patto. Oppure, al contrario, si concepisce la guerra civile
come nient'altro che l'effetto in qualche modo retroattivo di una guerra
esterna sulla città stessa, il riflusso della guerra al di qua delle frontiere: si
tratta quindi della proiezione mostruosa della guerra esterna sullo Stato.
Nella prima come nella seconda analisi, la guerra civile è l'accidente, l'a-
nomalia, quel che bisogna evitare nella misura stessa in cui è una mo-
struosità teoretico-pratica.
Ora vorrei proseguire l'analisi considerando invece che la guerra civi-
le è la condizione permanente a partire dalla quale si possono e si devono
comprendere un certo numero di tattiche di lotta, tra cui la penalità è ap-
punto un esempio privilegiato. La guerra civile è la matrice di tutte le lot-
te di potere, di tutte le strategie di potere e, di conseguenza, anche la ma-
trice di tutte le lotte intorno e contro il potere. È la matrice generale che
permetterà di comprendere la messa in atto e il funzionamento di una
strategia particolare della penalità: la reclusione. Ciò che vorrei cercare di
mostrare è questo gioco, nella società del XIX secolo, tra una guerra civi-
le permanente e le tattiche opposte del poterea 24.
a Quattro pagine di appunti in fondo al manoscritto (foll. 20-23), non utilizzati nella le-
zione, riportano:
“Sarà dunque messa in primo piano la lotta contro, o con, o per il potere. Ciò implica,
come conseguenza metodologica, che bisogna togliere via il funzionalismo sociologico.
Affrancarsi dall'idea
– che è la società intera, massicciamente, in un consenso oscuro che reagisce al crimine
o alla colpa;
– che questa reazione prende forma nelle regole, nelle leggi, nelle consuetudini che defi-
niscono la penalità; e
– che il potere mette in atto in maniera più o meno regolare (e al prezzo di un certo nu-
mero di distorsioni, di abusi, o di favoritismi) questa penalità.
Raschiare via questo funzionalismo significa porsi al centro della pratica penale, non
delle reazioni sociali, ma delle lotte di potere.
Raschiare via questo funzionalismo sociologico significa anche far vedere come si è for-
mato; come, all'inizio del XIX secolo, è avvenuto un trasferimento molto curioso di re-
sponsabilità al termine del quale
– la società è apparsa come ciò che produceva il crimine (secondo un certo numero di
costanti statistiche e di leggi sociologiche);
– la società è apparsa come ciò che veniva ferito, leso, danneggiato dall'infrazione. La
società produce il suo stesso male, suscita il suo stesso nemico;
– la società è apparsa come ciò che esigeva dal potere il castigo dei crimini in ragione di
grandi opzioni morali.
Questo trasferimento di responsabilità ha mascherato il fatto che non era la società a
essere in questione nel crimine, o in gioco nella sua repressione, bensì il potere.
Al livello della teoria penale, ciò si è tradotto nell'idea che è la società a essere interessa-
ta per prima alla punizione, la quale deve avere una funzione di protezione per la socie-
tà (Beccaria, Bentham).
Al livello della pratica, ciò si è tradotto nella generalizzazione della giuria: non è il pote-
re, non sono i rappresentanti del potere che devono dire se la società è stata lesa, ma
essa stessa.
Al livello della speculazione, ciò si è tradotto nella costituzione di una sociologia della
criminalità o della delinquenza, cioè nella ricerca dei meccanismi sociali che sottendono
sia la criminalità che le esigenze della sua repressione.
Questo mascheramento dei rapporti di potere sotto i meccanismi sociali è uno dei feno-
meni caratteristici del modo in cui si è esercitato il potere nel capitalismo industriale.
Prendiamo due scene, come simbolo di questo mascheramento:
– quella in cui la folla assiste all'esecuzione di un colpevole: alla manifestazione, cioè,
dei segni del potere. Essa si accalca intorno al patibolo per vedere l'esposizione e il sup-
plizio;
– quella in cui l'esecuzione avviene di notte, di nascosto, ma in cui l'esercizio del potere
si maschera sotto un'indagine di opinione.
Si potrebbe far vedere allo stesso modo come il passaggio dal supplizio alla reclusione
corrisponda a questo scivolamento del rapporto di potere al meccanismo sociale”.
24 Sul funzionalismo sociologico, cfr. anche Sorvegliare e punire, cit., in particolare la cri-
tica a Durkheim a p. 26.
Lezione del 10 gennaio 1973
tion en France, suivi d'un appendice sur les colonies pénales et de notes statistiques , H.
Fournier Jeune, Paris 1833, terza edizione comprendente il “Rapport de M. de Tocque-
ville sur le projet de loi de Réforme des prisons...”, Librairie de Charles Gosselin, Paris
1845. Cfr. A. Krebs, “Julius, Nikolaus Heinrich”, in Neue Deutsche Biographie, vol. X,
1974, pp. 656-658.
Foucault riprenderà questo estratto del testo di Julius e lo svilupperà in Sorvegliare e
punire, nel capitolo “Il panoptismo”, dove scriverà: “Pochi anni dopo Bentham, Julius
redigeva il certificato di nascita di questa società [disciplinare]” ( ivi, p. 235). A questo
proposito, Foucault aggiungerà: “Bentham nella sua prima versione del Panopticon ave-
va immaginato anche una sorveglianza acustica, per mezzo di tubi conducenti dalle cel-
le alla torre centrale. […] Julius tentò di mettere a punto un sistema d'ascolto dissimme-
trico (Leçons sur les prisons, trad. fr. 1831, p. 18)” (ivi, p. 220, nota 2); cfr. anche “La ve-
rità e le forme giuridiche”, cit., pp. 149-150.
3 N.H. Julius, Leçons sur les prisons, cit., pp. 384-385. È interessante rintracciare una del-
le due fonti (Julius e Bentham) di una delle due origini (la prigione e l'ospedale) dell'in-
teresse di Foucault verso il panoptismo e la sorveglianza generalizzata. Avrebbe scoper-
to l'idea del panoptismo all'epoca dei suoi lavori sull'origine della medicina clinica e sul-
lo sguardo medico; cfr. M. Foucault, “L'œil du pouvoir”, (intervista con J.-P. Barou e
M. Perrot, in Le Panoptique, a cura di J.-P. Barou, Pierre Belfond, Paris 1977, p. 9), in
DE, n. 195, ed. 1994, vol. III, pp. 190-207; ed. 2001, vol. II, pp. 190-207, in particolare p.
190; trad. it. “L'occhio del potere. Conservazione con Michel Foucault”, in J. Bentham,
Panopticon ovvero la casa d'ispezione, Marsilio, Venezia 1983, in particolare pp. 7-8.
Bruno Fortier, architetto, insegnante e responsabile della Biblioteca di architettura, gli
avrebbe fatto avere i progetti architettonici e le piante per un ospedale circolare all'Hô-
tel-Dieu risalente agli anni intorno 1770 – piante a stella che saranno studiate nel semi-
nario di Foucault al Collège de France nel 1973-1974 sulla “storia dell'istituzione e del-
l'architettura ospedaliere nel XVIII secolo” (Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège
de France, 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Gallimard-Seuil, Paris 2003, “Résumé du
cours”, p. 352; trad. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France,
1973-1974, Feltrinelli, Milano 2004, “Riassunto del corso”; p. 296); il seminario darà
luogo a una pubblicazione: B. Barret-Kriegel, A. Thalamy, F. Beguin, B. Fortier, Les ma-
chines à guérir. Aux origines de l'hôpital moderne, Pierre Mardaga, Bruxelles 1979.
Come dimostrano i documenti di Fortier, i progetti per un “immenso ospedale a raggi”
che permetterebbe “una sorveglianza costante e assoluta” erano assai precedenti al Pa-
nopticon di Bentham (cfr. ivi, p. 48). Su Bentham e il Panopticon, cfr. infra, […]. Fou-
cault di fatto rintraccerà i primi modelli di “questa visibilità isolante” nei dormitori
della Scuola militare di Parigi nel 1751 (cfr. “L'occhio del potere”, cit., p. 8). Qui, con
Ora, è precisamente questo che avviene nell'epoca moderna: il rove-
sciamento dello spettacolo in sorveglianza4. Si sta inventando, dice Julius,
non solo un'architettura, un urbanesimo, ma tutta una disposizione dello
spirito in generale, per cui ormai gli uomini saranno offerti in spettacolo
a un piccolo numero di persone, al limite a un unico uomo destinato a
sorvegliarli. Lo spettacolo viene rovesciato in sorveglianza, il cerchio che i
cittadini facevano intorno a uno spettacolo, tutto viene capovolto. Ci
sarà una scrittura completamente diversa in cui gli uomini disposti gli uni
accanto agli altri in uno spazio piatto saranno sorvegliati dall'alto da
qualcuno che sarà una specie di occhio universale: “Ai tempi moderni
[…], all'influenza sempre crescente dello Stato, e al suo intervento di
giorno in giorno più profondo, in tutti i dettagli e in tutte le relazioni del-
la vita sociale, viene riservato l'aumento e il perfezionamento delle garan-
zie, utilizzando e dirigendo verso questo grande fine la costruzione e la
distribuzione di edifici destinati a sorvegliare nello stesso momento una
grande moltitudine di uomini”5.
Come si vede, Julius attribuisce questa specie di capovolgimento del-
lo spettacolo in sorveglianza alla costituzione e alla crescita dello Stato
come istanza di sorveglianza, che permette di controllare, di osservare e
di intervenire in tutti i dettagli delle relazioni della vita sociale. Dicendo
questo, Julius non fa altro che trascrivere nel registro che gli è proprio ciò
Julius, siamo nel contesto della penalità, di cui Foucault dirà: “In seguito, studiando i
problemi di penalità, mi sono accorto che tutti i grandi progetti di ristrutturazione delle
prigioni (di datazione più tarda, peraltro, dalla prima metà del XIX secolo) riprendeva-
no lo stesso tema [della totale visibilità dei corpi], ma, questa volta, sotto il segno quasi
sempre rievocato di Bentham. Non c'erano quasi testi, progetti concernenti le prigioni
in cui non si ritrovasse il 'marchingegno' di Bentham. Cioè il 'panopticon'” (ibid.).
4 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 236. Per quanto riguarda i riferimenti di
Foucault allo “spettacolo”, cfr. G. Debord, La société du spectacle, Buchet/Castel, Paris
1967; trad. it. di P. Salvadori, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano
2001. Si potrebbe anche leggere qui una critica a Guy Debord, che aveva posto la nozio-
ne di spettacolo al centro del concetto di modernità: secondo Foucault, Julius sottolinea
che lo spettacolo proviene dall'antichità, mentre ciò che caratterizza il moderno non è
l'apparizione dello spettacolo, ma piuttosto l'eclissarsi dello spettacolo, il rovesciamento
in sorveglianza. Il passo di Julius citato prima articolerebbe precisamente questa critica.
5 N.H. Julius, Leçons sur les prisons, cit., p. 385.
che ha detto o fatto dire Napoleone stesso, dato che nell'introduzione al
Codice di istruzione criminale si può leggere: “Potete giudicare come nes-
suna parte dell'Impero sia priva di sorveglianza; come nessun crimine,
nessun delitto, nessuna infrazione resti senza un seguito e come l'occhio
del genio che sa tutto animare abbracci l'insieme di questa vasta macchi-
na, senza che neppure il minimo dettaglio possa sfuggirgli” 6. E, parlando
della precisa funzione del procuratore, il testo continua: il procuratore è
“l'occhio del procuratore generale, così come il procuratore generale è
l'occhio del governo. Attraverso il risultato di una comunicazione attiva e
fedele del procuratore imperiale con il procuratore generale, e del procu-
ratore generale con il ministro di Sua Maestà, si possono conoscere gli
abusi che si insinuano nelle istituzioni, la mollezza che si impadronisce
delle persone, la noncuranza che si può perdonare a un privato, ma che è
un vizio in un magistrato; e, se si supponesse che ci fosse un rilassamento,
una debolezza o uno sviamento nelle comunicazioni dei procuratori ge-
nerali e imperiali, il male farebbe immensi progressi prima di esplodere;
allora, senza che avvenisse alcuna crisi, ci si troverebbe di colpo in un for-
6 J.-B. Treilhard, “Motifs du livre Ier, chapitres I à VIII, du Code d'instruction criminelle,
présentés au corps législatif par MM. Treilhard, Réal et Faure, Conseillers d'tat. Séean-
ce du 7 novembre 1808”, in Code d'instruction criminelle, édition conforme à l'édition
originale du Bulletin de lois, Le Prieur, Paris 1811, pp. 5-32, qui p. 20. Foucault ripren-
derà questo passo nel suo ragionamento sul panoptismo, in Sorvegliare e punire, cit., p.
237; cfr. anche “La verità e le forme giuridiche”, cit., p. 150. La presentazione dei motivi
del Codice di istruzione criminale è generalmente attribuita a Jean-Baptiste, conte Trei-
lhard (1742-1810), che partecipò alla redazione del codice. Giurista e uomo politico,
Treilhard fu anche presidente degli Stati generali, presidente dell'Assemblea nazionale
costituente, presidente della Convenzione nazionale (all'epoca del processo a Luigi
XVI), membro del Comitato di salute pubblica, presidente del Consiglio dei Cinquecen-
to e membro del Direttorio. Cfr. Jean Treilhard, Jean-Baptiste Treilhard, ministre pléni-
potentiaire de la République au Congrès de Rastadt, Éd. Gaillon, Paris 1939. Foucault
riparlerà di Treilhard in alcune interviste; cfr. “À propos de l'enfermement pénitentiaire”
(intervista con A. Krywin e F. Ringelheim, “Pro Justitia. Revue politique de droit”, vol.
I, n. 3-4: La prison, ottobre 1973, pp. 5-14), in DE, n. 127, ed. 1994, vol. II, p. 437; ed.
2001, vol. I, p. 1305; trad. it. di R. Nencini, “A proposito della reclusione penitenziaria”,
in L'emergenza delle prigioni, cit., p. 130 (dove ha un ruolo importante: Treilhard sim-
bolizza l'espansione del panoptismo da una forma architettonica a una forma di gover-
no: “Treilhard presenta il potere politico come una specie di Panopticon realizzato nelle
istituzioni”); cfr. anche Sorvegliare e punire, cit., pp. 153, 237, 254.
te stato di languore e prossimi alla decrepitezza” 7. La teoria della sorve-
glianza generale che Julius elabora riflette quindi esattamente ciò che
l'amministrazione imperiale formulò nel 1808.
Il quarto elemento è quello della reclusione, della carcerazione, di cui
Julius parla verso la fine del suo testo sulla sorveglianza: “L'utilità di que-
sto pensiero fondamentale”, cioè la sorveglianza, “è ancora più grande
nel caso delle prigioni”8.
Abbiamo dunque quattro punti per orientare la nostra analisi: la
guerra costante, universale, all'interno della società; un sistema penale
che non è né universale né univoco, ma è fatto dagli uni per gli altri; la
struttura della sorveglianza universale; e il sistema della reclusione.
***
In primo luogo, mi sembra ci sia una certa tradizione della teoria po-
litica che rende equivalenti, fa comunicare in maniera diretta, organica,
la guerra civile e la guerra di tutti contro tutti. Questa tradizione trova in
Hobbes una delle figure più caratteristichea. Sia nel caso in cui ci si riferi-
13 Hobbes attribuisce la seconda causa della guerra di tutti contro tutti alla “diffidenza”
(ibid.), dopo aver discusso della “diffidenza reciproca” ( ibid.). Nel manoscritto, Fou-
cault aveva inizialmente scritto méfiance, ma poi cambia l'espressione in défiance (fol.
4).
a Dattiloscritto (p. 25): “del suo potere”.
14 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 205.
15 Ivi, cap. XVII, p. 275 (trad. modificata).
b Manoscritto (fol. 4): “Questo stato di guerra essenziale all'individuo è in un rapporto di
così, vuol dire che gli individui non scamperanno alla guerra solo per il
fatto di essere uniti in gruppo; sarebbe necessario ben più di un gruppo.
Hobbes dice che le famiglie non contano, la famiglia non impedisce che
all'interno della sua cerchia continui a infuriare la guerra di tutti contro
tutti: “In tutti i luoghi in cui gli uomini hanno vissuto in piccole famiglie,
rubare e saccheggiarsi l'un l'altro è stato un mestiere” 16. E non sarebbe
sufficiente passare da un piccolo gruppo a uno grande per scongiurare la
guerra: anche quando gli uomini si riuniscono in un gruppo numeroso,
“tuttavia, se le sue azioni sono dirette dai giudizi particolari e dagli appe-
titi particolari di ognuno dei suoi appartenenti, [esso] non può aspettarsi
con questo nessuna difesa e nessuna protezione, né contro un nemico co-
mune né contro i torti degli altri appartenenti” 17. Non è quindi dall'effet-
to di gruppo, da una sorta di interesse transitorio e reciproco che gli uo-
mini possono giungere a qualcosa come la fine della guerra”a.
Soltanto l'ordine civile, cioè la comparsa di un sovrano, farà cessare
la guerra di tutti contro tutti. È necessario che sia avvenuto il processo
per cui tutti i poteri di tutti gli individui sono trasferiti a uno solo o a
un'assemblea, e tutte le volontà ridotte a una sola 18. La guerra di tutti
contro tutti cessa solo nel momento in cui il sovrano è effettivamente co-
stituito grazie a questo transfert di potere. Se invece il potere si attenua, o
si disgrega, allora a poco a poco si ritorna allo stato di guerra: “Non esi-
ste più protezione per i sudditi che rimangono leali, allora lo stato è DIS-
SOLTO e ognuno è libero di proteggere se stesso a propria totale discre-
zione”19.
esclusione reciproca con la società civile. Dovunque non ci sia società civile, c'è guerra
di tutti contro tutti. I piccoli gruppi non si comportano in maniera diversa dagli indivi-
dui […]”.
16 Ivi, p. 277.
17 Ibid.
a Il manoscritto (fol. 5) aggiunge: “ma all'instaurazione di un ordine di tipo nuovo”.
18 Foucault, nel manoscritto (fol. 5), cita questo passaggio: “E questo ordine civile può es-
sere stabilito e insieme mantenuto soltanto da un potere, cioè trasferendo il potere degli
individui, 'tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a una assemblea di uomi-
ni, che possa ridurre tutte le loro volontà […] a un'unica volontà'” (ivi, pp. 281-283).
19 Ivi, cap. XXIX, p. 543.
Quindi la guerra civile è, in certo modo, lo stato terminale della dis-
soluzione del sovrano, così come la guerra di tutti contro tutti è lo stato
iniziale a partire da cui il sovrano può costituirsi. Finché esiste un sovra-
no, non c'è la guerra di tutti contro tutti e la guerra civile non può che
riapparire a fine corsa, quando il sovrano sparisce.
a Manoscritto (fol. 6): “il 'popolo minuto': quelli che saranno i sanculotti”.
b Manoscritto (fol. 7):
“su degli elementi, dei segni, degli strumenti di potere; essa ricostituisce o fa nascere un
potere nella misura stessa in cui ne intacca un altro. Moltiplica il potere: dà al potere un
doppio, un riflesso (in una sorta di simmetria pericolosa) o al contrario dà origine a un
potere completamente diverso”.
c Manoscritto (fol. 7), note a margine:
“1. Si appropria di questi frammenti (sommosse di piazza)
2. Ne inverte il meccanismo (giustizia)
3. Ne riattiva le forme antiche
4. Ne attiva i simboli
5. Ne realizza il mito”.
ra di tutti contro tutti, ma al contrario per riattivarli. Prendiamo [per
esempio] le sommosse di piazza del XVIII secolo 20: quando si scatena
un'insurrezione a causa della scarsità dei cereali e quindi per l'aumento
del loro prezzo e di quello del pane, ciò che avviene non è il ritorno a
un'appropriazione indistinta e violenta da parte degli individui di tutto
quanto potevano effettivamente prendersi. Queste sommosse obbedisco-
no a uno schema quasi costante. Si tratta dell'appropriazione, da parte di
un certo numero di persone, non direttamente del grano, ma delle forme,
dei processi, dei riti del potere. In Inghilterra, i rivoltosi riattivano i vecchi
regolamenti della fine del XVI secolo, in base ai quali il grano non poteva
essere venduto al mercato ai grossi acquirenti prima di essere stato offer-
to ai piccoli acquirenti, che compravano al loro prezzo la quantità di cui
avevano bisogno per vivere. Questa priorità data ai piccoli acquirenti era
una forma normale stabilita dalla monarchia inglese alla fine del XVI se-
colo21. La sommossa consisteva nel riprendersi questo potere e riattivarlo.
20 Il dattiloscritto (p. 29) indica questo riferimento: “(cfr. Thompson, su 'Past and
Present', 1971)”. Foucault allude qui al celebre articolo dello storico marxista inglese,
Edward P. Thompson, che era appena stato pubblicato: The Moral Economy of the En-
glish Crowd in the Eighteenth Century, in “Past and Present”, n. 50, febbraio 1971, pp.
76-136. Secondo Daniel Defert, Foucault aveva una conoscenza approfondita dei lavori
di Thompson, in particolare di The Making of the English Working Class , Victor Gol-
lancz, London 1963; trad. it. di B. Maffi, Rivoluzione industriale e classe operaia in In-
ghilterra, il Saggiatore, Milano 1969 (sugli artigiani e la classe operaia inglese tra il
1780 e il 1832). Riguardo a questi temi, Foucault si basava anche sul lavoro di Paul Bois,
in particolare: Paysans de l'Ouest. Des structures économiques et sociales aux options
politiques depuis l'époque révolutionnaire dans la Sarthe, Mouton, Le Mans 1960; trad.
it. di L. Accati, Contadini dell'ovest. Le radici sociali della mentalità controrivoluziona-
ria, Rosenberg & Sellier, Torino 1975.
21 Foucault svilupperà la questione della polizia dei cereali come prototipo della discipli-
na nel contesto francese: cfr. Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de Fran-
ce, 1977-1978, a cura di M. Senellart, Gallimard-Seuil, Paris 2004; trad. it. di P. Napoli,
Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) , Feltrinelli,
Milano 2005, lezione del 18 gennaio 1978, pp. 32-48; lezione del 29 marzo 1978, in par-
ticolare pp. 229-239; lezione del 5 aprile 1978, in particolare pp. 242-249. La polizia dei
cereali descritta da Foucault (ivi, pp. 34-35), “questa grande polizia sovra-regolamenta-
tiva” (ivi, p. 257), diverrà sinonimo o illustrazione della disciplina e antonimo della “si-
curezza”. Descrivendo i regolamenti della polizia dei cereali raccolti da Delamare e Fré-
minville, Foucault dirà: “Siamo nel mondo del regolamento, nel mondo della
disciplina” (ivi, p. 247), e nel manoscritto del corso aggiungerà: “E infatti i grandi trat-
tati pratici di polizia sono delle raccolte di regolamenti” (ivi, p. 247, nota *).
Allo stesso modo, le ispezioni sui cereali effettuate presso i fornai, i mu-
gnai e nelle fattorie, che avrebbero dovuto essere compito degli agenti del
potere, ma che essi non garantivano per una serie di ragioni legate ai rap-
porti tra potere politico e interessi economici, venivano fatte dalla gente
stessa durante le sommosse. Un movimento rivoltoso, quindi, non consi-
ste soltanto nel distruggere gli elementi del potere, quanto nell'impadro-
nirsene e nel farli funzionare.
Si potrebbe anche dire – secondo punto – che, nelle insurrezioni, que-
sti rapporti di potere non vengono solo riattivati, ma rovesciati, vale a
dire che si esercitano in un'altra direzione. I massacri di settembre duran-
te la Rivoluzione francese sono stati, infatti, una specie di giustizia rove-
sciata, vale a dire la ricostituzione di un tribunale.
Terzo punto: vi è lo schema della riattivazione, poiché si protestava
contro l'inerzia del supposto tribunale rivoluzionario che si era stabilito
poche settimane prima. Lo si rovescia, perché davanti a questo tribunale
popolare si fanno passare coloro che, per determinazione politica, erano
destinati a sfuggire al tribunale. Quindi, si faranno passare a giudizio tut-
ti coloro che erano in prigione proprio per sfuggire al tribunale rivoluzio-
nario: aristocratici, preti. Vi è dunque uno schema di appropriazione, di
riattivazione e di inversione del rapporto di potere.
Quarto punto: in questi fenomeni di insurrezione si potrebbe trovare
anche qualcosa che potremmo chiamare l'effettuazione, l'attivazione dei
simboli stessi del potere. Come nel caso della rivolta contadina dei Piedi
scalzi22, che ha coinvolto tutta la Normandia e si è data i segni espliciti
22 La rivolta dei “Piedi scalzi” (“Nu-pieds”, o a volte “Va-nu-pieds”) scoppiò durante l'e-
state del 1639 in Normandia. Foucault aveva dedicato a questa rivolta sei lezioni del
corso sulle “teorie e istituzioni penali”. Essa fu una rivolta contro il sistema fiscale e
amministrativo, innescata dall'instaurazione della gabella – tassa sul sale – sotto Luigi
XIII in diverse regioni della provincia, e fu duramente repressa nel 1640; cfr. B. Porch-
nev, Les soulèvements populaires en France de 1623 à 1648 , SEVPEN, Paris 1963, pp.
303-502 (ried. Flammarion, Paris 1972); trad. it. di Rigotti (dell'ed. Flammarion), Lotte
contadine e urbane nel grand siècle, Jaca Book, Milano 1998, pp. 55-147. Foucault af-
fronterà la delinquenza contadina e l'illegalismo popolare in Sorvegliare e punire, cit.,
p. 92, dove indicherà come testi di riferimento: Q. Festy, Les délits ruraux et leur répres-
sion sous la Révolution et le Consulat. Étude d'histoire économique, Librairie M. Riviè-
del potere più legittimo, con un sigillo, uno stendardo, dei simboli propri,
rifacendosi addirittura alla monarchia legittima.
In certi casi – quinto punto – vi era perfino la realizzazione di un
mito del potere. In alcune occasioni, infatti, la guerra civile si svolge in
modo essenzialmente collettivo, senza centralizzazione, senza l'organizza-
zione di un potere unico. Spesso vediamo questi movimenti che effettua-
no [la loro stessa] centralizzazione politica al livello del mito a. Così, i Pie-
di scalzi, movimento senza un comando unico, spontaneo, pur essendosi
trasmesso di villaggio in villaggio, si erano inventati un capo, un'organiz-
zazione puramente miticab, che però, in quanto mito, ha funzionato al-
l'interno del movimento popolare: Jean Nu-pieds, circondato dai suoi
consiglieri, questo capo mitico di cui gli iniziatori reali del movimento si
facevano passare per rappresentanti23. Possiamo osservare uno schema
identico nel movimento luddistac, all'inizio del XIX secolo, in cui si ritro-
va la stessa realizzazione del mito del potere 24. È un movimento sviluppa-
re, Paris 1956; M. Agulhon, La vie sociale en Provence intérieure au lendemain de la Re-
volution, Société des études robespierristes, Paris 1970; Y.-M. Bercé, Croquants et Nu-
pieds. Les soulèvements paysans en France du XVIe au XIXe siècle, Gallimard, Paris
1974, p. 161. Per una pubblicazione più recente, cfr. J.-L. Ménard, La révolte des Nu-
pieds en Normandie au XVIIe siècle, Éd. Dittmar, Paris 2005.
a Dattiloscritto (p. 31): “la centralizzazione politica del loro stesso movimento”.
b Il manoscritto (fol. 7) aggiunge: “che si dà un 'quasi-re' con stendardo, sigillo, generali,
decreti:
– sia altro Re,
– sia servitore del Re”.
23 L'esistenza del “generale Jean Nu-Pieds”, nome con cui venivano firmati numerosi or-
dini inviati in Normandia, è stata oggetto di numerosi dibattiti sull'affidabilità di fonti
contraddittorie. Boris Porchnev, passando in rassegna diverse ipotesi, conclude: “Non
abbiamo prove sufficienti per affermare che Jean Nu-Pieds fosse un personaggio imma-
ginario”. Reale o immaginario che fosse, è associato a un timbro – due piedi scalzi so-
pra una falce – e a un luogo di residenza, accanto alle mura della città di Avranches.
Cfr. B. Porchnev, Les soulévements populaires en France de 1623 à 1648 , cit., pp. 320-
327.
c Manoscritto (fol. 7): “Es[empio] dei luddisti: due operai travestiti da donna che si pre-
sentano come le due spose del 'mitico' John Ludd”.
24 La rivolta “luddista” ha preso la forma di un movimento che tra il 1811 e il 1813 di-
struggeva i macchinari dell'industria tessile – soprattutto i telai – nelle Midlands, nello
Yorkshire e nel Lancashire. Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe opera-
ia in Inghilterra, cit.,; E.J. Hobsbawm, Les briseurs de machine, in “Revue d'histoire
moderne et contemporaine”, vol. LIII-LIV bis, supplemento 2006, pp. 13-28. Sugli scrit-
tosi nella congiunzione tra il mondo operaio e il mondo contadino, nel
momento in cui si stava costituendo una classe operaia. Ora, lungo tutto
questo movimento si ritrova il mito di un personaggio, Ludd, che sarebbe
stato il capo, il potere centralizzato del movimento, mito che ha avuto
una funzione organizzatrice molto precisa25. Vi è come la messa in scena
di un potere vacante, di un potere mitico che ha attraversato e al tempo
stesso ha lavorato tutto questo discorso.
Quindi la guerra civile non può essere considerata in nessun caso
come qualcosa di esterno al poterea, che sarebbe interrotto da esso, ma
come una matrice all'interno della quale operano gli elementi del potere,
si riattivano, si dissociano, ma nel senso in cui delle parti si staccano le
une dalle altre, senza tuttavia perdere la loro funzione, in cui il potere si
rielabora, riprende in forma mitica delle forme antiche. Non si dà guerra
civile senza lavoro del potere, lavoro sul potere.
In terzo luogo, si potrebbe dire che c'è almeno una zona in cui è pos-
sibile riconoscere un'antitesi tra il potere e la guerra civile: è il livello del
potere stabilito, che è appunto ciò che rigetta al di fuori di sé ogni guerra
civile. La guerra civile è proprio ciò che lo minaccia dall'esterno b. In real-
tà, si potrebbe far vedere al contrario che la guerra civile è ciò che osses-
siona il potere, lo ossessiona non nel senso di una paura, ma nella misura
in cui la guerra civile abita, attraversa, anima, investe il potere da ogni
ti del movimento luddista, cfr. K. Binfield (a cura di), Writings of the Luddities, Johns
Hopkins University Press, Baltimore (Md.) 2004.
25 L'unità del movimento luddista si è definita in gran parte con la rivendicazione comu-
ne, in regioni differenti, della figura del “generale Ludd” – a volte qualificato anche
come re o capitano –, verosimilmente ispirata a un'espressione regionale per designare
un distruttore di macchine, in riferimento a un uomo di nome Ned Ludd che nel 1779
avrebbe sfasciato un telaio del suo datore di lavoro a Leicester. Cfr. K. Navickas, The
Search for “General Ludd”: The Mythology of Luddism, in “Social History”, n. 3, vol.
XXX, 2005, pp. 281-295; P. Minard, Le retour de Ned Ludd. Le luddisme et ses inter-
prétations, in “Revue d'histoire moderne et contemporaine”, n. 1, vol. LIV, gennaio-
marzo 2007, pp. 242-257.
a Manoscritto (fol. 7): “La guerra civile non è né anteriore né esteriore al potere”.
b Il manoscritto (fol. 8) inizia il paragrafo in questo modo: “Non è antitetica a ogni pote-
re stabilito? Ciò che lo minaccia? Il suo pauroso antagonista? Ciò che rischia di capitar-
gli dall'esterno come un pericolo assoluto?”.
parte. Ne abbiamo i segni precisi sotto forma di questa sorveglianza, di
questa minaccia, di questo possesso della forza armata, insomma di tutti
gli strumenti di coercizione che il potere effettivamente stabilito detiene
per esercitarla. L'esercizio quotidiano del potere deve poter essere consi-
derato come una guerra civile: esercitare il potere è in certo modo prati-
care la guerra civile, e tutti questi strumenti, queste tattiche che si posso-
no individuare, queste alleanze devono essere analizzabili in termini di
guerra civilea.
Per un'analisi della penalità è importante rendersi conto che il potere
non è ciò che sopprime la guerra civile, ma ciò che la pratica e la conti-
nua. E se è vero che la guerra esterna è il prolungamento della politica,
bisogna dire, viceversa, che la politica è la continuazione della guerra ci-
vile26. Di conseguenza, bisogna rifiutare l'immagine [proposta da] Hob-
bes che, con l'apparizione dell'esercizio del [potere] sovrano, espelleva la
guerra dallo spazio di [quest'ultimo]b.
***
[Ora vorrei passare dal tenore della nozione di guerra civile allo] sta-
tuto del criminale. A partire dal XVIII secolo, si formula l'idea che il cri-
a Il manoscritto (fol. 8) aggiunge: “anche sotto forma di alleanze tra gruppi al potere, o
tra beneficiari del potere”.
26 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 184; Id., “Bisogna difendere la società”,
cit., [lezione] del 7 gennaio 1976, p. 22 e [lezione] del 21 gennaio 1976, p. 54.
b Foucault riassume qui un lungo passaggio del manoscritto (foll. 8-9) che dice:
L'immagine di Hobbes (la guerra, espulsa dalla società civile, regna soltanto alle fron-
tiere come una spada rivolta contro i nemici dello Stato) va rifiutata.
Anche la guerra civile è condotta intorno al potere (e ai suoi strumenti), contro di esso,
per sfuggirgli o rovesciarlo o confiscarlo; per servirsi di esso, per assoggettarlo meglio e
renderlo più utilizzabile, per stabilire così un dominio il cui potere politico non è altro
che un aspetto o uno strumento.
Per il momento lasciare da parte due problemi:
– potere/Stato;
– guerra civile/l[otta] di classe.
Cosa significa il progetto: analizzare la penalità, non
– sotto il segno della guerra di tutti contro tutti, ma
– sotto il segno della guerra civile”.
mine non sia semplicemente una colpa, questa categoria di colpe che im-
plicano un danno per l'altro, e sia invece ciò che nuoce alla società, vale a
dire un gesto con cui l'individuo, rompendo il patto sociale che lo lega
agli altri, entra in guerra contro la sua stessa società. Il crimine è un atto
che riattiva in modo senz'altro provvisorio e istantaneo la guerra di tutti
contro tutti, cioè di uno contro tutti. Il criminale è il nemico sociale a e di
colpo la punizione non più essere né il risarcimento del danno causato al-
l'altro, né il castigo della colpa, ma una misura di protezione, di contro-
guerra che la società assume nei suoi confronti27. Si può fare riferimento
ai teorici del XVIII secolo nei quali vediamo effettuarsi il riequilibrio del-
la nozione di crimine intorno a quella di ostilità sociale. Da cui la nozio-
ne di una pena che va misurata non sull'importanza della colpa o del
danno, ma su quel che è utile per la società. Per essa è importante che i
suoi nemici siano padroneggiati, che non si moltiplichino. Bisogna quindi
impadronirsene, impedire loro di nuocere. È quanto si trova in Beccaria 28,
ma anche in Paley, in Inghilterra, che scriveva: “Se l'impunità del delin-
quente non fosse pericolosa per la società, non ci sarebbe ragione di puni-
29 W. Paley, “Of Crimes and Punishments”, libro VI, cap. IX, in The Principles of Moral
and Political Philosophy, R. Faulder, London 1785, p. 526: “What would it be to the ma-
gistrate that offences went altogether unpunished, if the impunity of the offenders were
followed by no danger or prejudice to the commonwealth?”. William Paley (1743-1805),
teologo britannico, era un pensatore utilitarista della penalità, molto vicino alle tesi di
Beccaria e precursore di Bentham in ambito penale. Paley era noto soprattutto come
autore delle “prove storiche a favore della cristianità” (A View of the Evidence of Chri-
stianity, London 1794), e di una Teologia naturale / Natural Theology (London 1802;
trad. it. Roma 1808), che sviluppa un'analogia del mondo come orologio, necessaria-
mente regolato da un orologiaio (watchmaker). Nel manoscritto (fol. 11), accanto al
nome di Paley, Foucault aggiunge: “(rigorista); probabile allusione all'inflessibile esigen-
za che la pena sia misurata secondo il metro della sua utilità per la società, dottrina che
Leon Radzinowicz ha chiamato “dottrina della massima severità”; cfr. L. Radzinowicz,
A History of English Criminal Law and its Administration from 1750 , vol. I: The Mo-
vement for Reform, Stevens & Sons, London 1948, p. 231: “The Doctrine of Maximum
Severity”.
a Il manoscritto (fol. 11) aggiunge:
“Tema che si ritrova modellato in tutta la teoria penale [fino al] XX secolo. È vero che
questo tema del crimine come rottura del patto, del criminale come [colui che è] in
guerra con la società, nemico sociale, è stato trascritto nel vocabolario di una teoria po-
litica più o meno derivata da Hobbes. Diciamo comunque che l'enunciato del crimine
come attacco contro la società civile nella sua interezza è derivabile da una certa teoria
politica del patto sociale”.
30 Cfr. supra […].
castigo in nome del sovrano, perché a partire dal Medioevo il sovrano
non appare più semplicemente sulla scena della giustizia come il giusti-
ziere supremo, colui al quale, in ultima istanza, si può fare appello, ma
come il responsabile dell'ordine, la cui autorità è stata lesa dal disordine
o dal crimine e che, in quanto sovrano leso, può costituirsi come accusa-
tore31. Così, nella pratica penale, per molto tempo il sovrano, sostituen-
dosi al singolo avversario del criminale, si metteva di fronte a lui. E in
nome dell'ordine e della pace che si supponeva facesse regnare, dichiara
che il criminale l'ha offeso proprio perché si è posto in uno stato di guer-
ra “selvaggia” con un individuo attaccandolo indipendentemente dalle
leggia.
Vi sono quindi due processi che, a un certo livello dell'analisi, posso-
no essere intesi come indipendenti l'uno dall'altro: in primo luogo, un
processo di derivazione teorica, che conduce da una concezione à la Hob-
bes della guerra di tutti contro tutti, dal patto sociale alla guerra civile e
infine al crimine; in secondo luogo, un processo di derivazione istituzio-
nale, più antico (dal XVI al XVIII secolo), che parte dal controllo del po-
tere monarchico sulle controversie giudiziarie e porta all'istituzionalizza-
zione di alcuni personaggi e di un certo numero di regole di diritto che fa-
ranno risultare il criminale come il nemico del sovrano della societàb.
C'è inoltre una [sorta] di “elemento” – il crimine-ostilità sociale, il
criminale-nemico pubblico – che non è né un elemento teorico né un ele-
mento istituzionale o pratico, bensì l'elemento che scambia, che connette
queste due serie, una delle quali conduce all'idea che il criminale è in
31 Cfr. J.R. Strayer, Le origini dello stato moderno, cit., pp. 78-81. Nel manoscritto (fol.
12) Foucault aggiunge: “il fatto che l'imposizione e l'esecuzione della pena non siano
più assicurate o controllate dalla parte lesa, ma soltanto dall'autorità statale”. Sulla no-
zione di sovranità che in quest'epoca appare strettamente associata all'esecuzione della
giustizia, cfr. J.R. Strayer, Le origini dello stato moderno, cit., pp. 85-92 e 99-101.
a Il manoscritto (fol. 12) aggiunge: “Dichiarerà quindi una guerra pubblica e insieme giu-
diziaria, sotto forma di un'azione pubblica di giustizia”.
b Il manoscritto (fol. 13) aggiunge:
“Due derivazioni che finiscono per incontrarsi in un punto significativo. E la loro con-
giunzione definisce un 'elemento' che non è né puramente istituzionale né puramente
teorico”.
guerra con la società, l'altra che conduce alla confisca della giustizia pe-
nale da parte del potere monarchico. Questo elemento svolge la funzione
di scambiatore tra le due serie e sarà la chiave di volta di numerosi effetti,
alcuni dei quali teorici, altri pratici, altri epistemologici, per l'intero arco
del XIX secolo. Dalla fine del XVIII secolo, infatti, viene impiantata tut-
ta una serie di istituzioni che per l'appunto istituiranno il personaggio del
criminale come nemico sociale e lo definiranno come tale nella pratica a:
le istituzioni della procura, dell'istruzione, del procedimento, l'organizza-
zione di una polizia giudiziaria, che permetteranno all'azione pubblica di
mettersi in moto a buon diritto; la giuria, per esempio, esisteva già in In-
ghilterra, ma inizialmente era il diritto di essere giudicati dai propri pari,
mentre la giuria che vediamo funzionare nel XIX secolo è l'istituzione che
contraddistingue il diritto che ha la società di giudicare da sé (o attraver-
so i suoi rappresentanti) chi si è messo in posizione di conflitto con essa.
Essere giudicati da una giuria non vuole più dire essere giudicati dai pro-
pri parib, ma essere giudicati in nome della società dai suoi rappresentan-
ti.
C'è anche tutta una serie di effetti di sapere concentrati intorno al-
l'apparizione del criminale come individuo “in rottura con la società” c, ir-
riducibile alle leggi e alle norme generali. A partire da questa connessio-
ne, quindi, vediamo costituirsi la possibilitàd di una presa psicopatologi-
a Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “Così si disegna la possibile presa sulla penalità di di-
scorsi come quelli della psicopatologia, psichiatria, psicologia della devianza”.
b Manoscritto (fol. 15): “Inversamente (e in correlazione a questo), analisi della produzio-
ne da parte di una società di individui che per essa sono al tempo stesso stranieri e ne-
mici”.
c Il manoscritto (fol. 15) aggiunge:
“Il crimine malattia sociale, attraverso cui la società si scompone, crea proprio ciò che
si oppone a essa, che l'attaccherà. O al contrario il livello della criminalità può essere
analizzato come ciò che indica una soglia molto bassa dell'intollerabile: una sensibilità
molto acuta.
E, a partire da questi effetti epistemici, altri effetti pratici:
– terapia del reinserimento sociale;
– sorveglianza della delinquenza virtuale.
In breve, la costituzione di un intero campo epistemologico e pratico della
delinquenza”.
32 La menzione di una “soglia molto bassa dell'intollerabile” riecheggia le indagini riunite
sotto il titolo Intolerable del Groupe d'information sur les prisons, di cui Foucault nel
1971 fu uno dei cofondatori. Cfr. P. Artières, L. Quéro, M. Zancarini-Fournel (a cura
di), Le Groupe d'information sur les prisons. Archives d'une lutte, 1970-1972 , Institut
Mémoires de l'édition contemporaine/IMEC, Paris 2003; M. Foucault, “Io scorgo l'in-
tollerabile”, cit., pp. 51-52.
come dicevo, è ciò che la classe al potere vuole che proprio coloro ai quali
ha apparentemente trasferito la funzione di giudicare o di castigare met-
tano in atto, nei loro gesti o nella loro coscienza. Voglio fare l'analisi cri-
tica di questa sociologizzazione del criminale come nemico sociale, i cui
effetti comandano a tutt'oggi la pratica penale, la psicopatologia della
delinquenza e la sociologia della criminalitàa.
1 Bon-Albert Briois de Beaumetz (1759-1801) viene eletto deputato agli Stati generali nel
1789 dalla nobiltà di Artois. È di centro-sinistra e reclama l'abolizione della tortura an-
teriore al procedimento giudiziario. È noto per aver tentato di frenare la violenza rivolu-
zionaria; cfr. J. Tulard, J.-F. Fayard, A. Fierro, Histoire et Dictionnaire de la Révolution
française, 1789-1799, Robert Laffont, Paris 1987, p. 571; trad. it. di F. Vasarri e S. Blasio,
Dizionario storico della Rivoluzione francese, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 400-
401. Beaumetz fa parte del comitato incaricato dall'Assemblea costituente di proporre
“un progetto di dichiarazione su alcuni cambiamenti provvisori nell'ordinanza crimina-
le”, e sottopone un rapporto alla Costituente il 29 settembre 1789. Cfr. “Archives parla-
mentaires de 1787 à 1860. Recueil complet des débats législatifs et politiques des Cham-
bres françaises”, prima serie (1789-1799), Librairie administrative de Paul Dupont, Paris
1877, vol. IX (dal 16 settembre 1789 all'11 novembre 1789), pp. 213-217.
2 B.-A. Briois de Beaumetz, in “Archives parlamentaires 1787-1860”, cit., vol. IX, p. 214,
col. 2.
Viene quindi designato il procuratore in quanto magistrato dell'interesse
comune. L'antica pratica penale viene così reinterpretata secondo i termi-
ni di Beccaria.
Come è avvenuta questa “apparizione” del criminale in quanto nemi-
co sociale? Vorrei cominciare individuano le prime manifestazioni di que-
sto tema per poi vedere qual è stato l'insieme dei processi politici ed eco-
nomici che hanno finito per fissare a un certo livello il criminale come ne-
mico sociale, e cosa nasconde questa operazione che consiste nel descri-
vere, nel giudicare e anche nell'escludere il criminale come nemico pubbli-
coa.
***
3 Foucault aveva analizzato il pensiero fisiocratico in Les mots et les choses, Gallimard,
Paris 1966; trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, pp. 209-
211 (paragrafo “La formazione del valore”) e pp. 276-277 (sulla nozione di scarsità).
Aveva anche studiato, nel pensiero fisiocratico, il ruolo della popolazione come fattore
di ricchezza, cfr. Storia della follia, cit., pp. 579-584. In Sicurezza, territorio, popolazio-
ne, cit., in particolare pp. 36-48, 60-69, 247-262, Foucault si soffermerà nuovamente sui
fisiocrati, le cui idee si imporranno nella predisposizione dei dispositivi di “sicurezza”;
cfr. ivi, p. 36: “Le vicende che hanno dato luogo ai grandi editti e alle dichiarazioni uffi-
ciali degli anni 1754-1764 trovano sì un sostegno nei fisiocrati e nella loro teoria, ma ri-
flettono più in profondità una fase di grande cambiamento nelle tecniche di governo, e
sono in particolare un aspetto della predisposizione di quelli che chiamerò i dispositivi
di sicurezza”. Vedi anche l'analisi del neoliberalismo in Naissance de la biopolitique.
Cours au Collège de France, 1978-1979, a cura di M. Senellart, Gallimard-Seuil, Paris
2004; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de
France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 56-58, 63-68, 238-242. I fisiocrati, co-
nosciuti anche come primi “economisti”, formavano un gruppo di pensatori a favore del
libero scambio, della libertà di commercio dei cereali e più in generale del liberalismo
economico. Il loro nome, simbolo del loro fondamento ideologico, è un neologismo che
esprime l'idea di un regno (-crate) dell'ordine naturale (fisio). Proviene dalla raccolta cu-
rata da Pierre-Samuel du Pont de Nemours nel 1786, Physiocratie ou Constitution natu-
relle du gouvernement le plus avantageux au genre humain, Merlin, Leyde-Paris 1768.
François Quesnay (1694-1774), chirurgo di corte e medico di Madame de Pompadour,
diede vita al movimento nel 1756, con i suoi primi scritti sull'economia – due voci nel-
l'ENcyclopédie (“Fittavoli” nel 1756 e “Grani” nel 1757) – e scrisse sulle questioni di
economia politica fino al 1767, anno in cui pubblicò Dispotismo della Cina. Cfr. F.
Quesnay, Œuvres économiques complètes et autres textes, a cura di C. Théré, L. Char-
les e J.-C. Perrot, Institut national d'études démographiques/INED, Paris 2005, 2 voll.;
trad. it. a cura di R. Zangheri, Scritti economici, Forni, Bologna 1966, 2 voll., e più re-
centemente L'economia politica scienza delle società , trad. it. di G. Longhitano, Liguo-
ri, Napoli 2010, 2 voll. Il gruppo comprendeva altri membri illustri, in particolare: Vic-
tor Riqueti, marchese di Mirabeau (1715-1789), autore di L'ami des hommes, ou traité
de la population, [s.e.], Avignon 1756; trad. it. di G. Ramirez, L'amico degli uomini ov-
vero Trattato della popolazione, G.A. Pezzana, Venezia 1784; Guillaume-François Le
Trosne (1728-1780), giurista e autore, come si vedrà, del Mémoire sur les vagabonds et
sur les mendiants, P.G. Simon, Paris 1764; Pierre-Paul Le Mercier de La Rivière (1719-
1801), intendente della Martinica e autore di L'ordre naturel et essentiel des sociétés po-
litiques, Desaint, Paris 1767; e Pierre-Samuel du Pont de Nemours (1739-1817), uomo
la posizione del delinquente rispetto alla produzione che lo definisce
come nemico pubblico.
Un modello di questo genere di analisi è fornito dal testo di Le Tro-
sne, Mémoire sur les vagabonds et sur les mendiants, [pubblicato nel]
17644. Il vagabondaggio risulta essere la categoria fondamentale della de-
linquenza, il punto di partenza, per così dire psicologico, della delinquen-
za – Le Trosne non intende dire che si comincia a girovagare e che questo
vagabondaggio conduce a poco a poco al furto, poi al crimine, ma che il
vagabondaggio è l'elemento a partire dal quale gli altri crimini si specifi-
cheranno. È la matrice generale del crimine, che contiene in sostanza tut-
te le altre forme di delinquenza, non a titolo di virtualità, ma come ele-
menti che la costituiscono e la compongono. Ora, questa tesi si oppone a
due tipi di analisi tradizionalmente rintracciabili in quell'epoca.
In primo luogo a un'analisi che pretende che l'ozio sia il padre di tutti
i vizi e quindi di tutti i crimini 5. L'ozio è il tratto psicologico o la colpa da
d'affari, economista e successivamente diplomatico americano, curatore di diverse opere
di fisiocrati e curatore della loro rivista, “Éphémérides du citoyen, ou Bibliothèque rai-
sonnée des sciences morales et politiques”. Du Pont de Nemours illustra con chiarezza
il pensiero fisiocratico nella sua prefazione “Sur les économistes”, in Œuvres de Mr.
Turgot, Ministre d'État, Précédées et accompagnées de Mémoires et de Notes sur sa
Vie, son Administration et ses Ouvrages, a cura di P.-S. du Pont de Nemours, impr. De-
lance, Paris 1808, 3 voll. L'opera di riferimento sui fisiocrati è quella di G. Weulersse, Le
mouvement physiocratique en France de 1756 à 1770, Félix Alcan, Paris 1910, 2 voll. Per
un'analisi più recente, cfr. B.E. Harcourt, The Illusion of Free Markets, Harvard Univer-
sity Press, Cambridge (Mass.) 2011, pp. 78-102.
4 G.-F. Le Trosne, Mémoire sur les vagabonds et sur les mendiants, cit. Nel 1753 Le Tro-
sne si installa come avvocato del re presso il tribunale di presidio di Orléans. Dal 1763
al 1767 scrive numerosi opuscoli sull'agricoltura e sul commercio, soprattutto per la ri-
vista già citata “Éphémérides du citoyen”. Nel 1764, insieme alla pubblicazione del suo
Mémoire, pubblica il Discours sur l'état actuel de la magistrature et sur les causes de sa
décadence, [s.e., s.l.] 1764, in cui sostiene con forza la libertà di esportazione; l'anno se-
guente redige un testo a sostegno di La liberté du commerce des grains toujours utile &
jamais nuisible, [s.e.], Paris 1765. In Sorvegliare e punire (cit., p. 96) Foucault lo identifi-
ca come “questo fisiocrate che fu consigliere al tribunale di presidio di Orléans”, e nella
stessa opera (pp. 84, 89, 92, 96), dove menziona, oltre al Mémoire, anche un'altra pub-
blicazione di Le Trosne, Vues sur la justice criminelle (Debure Frères, Paris 1777), scrive
“In Le Trosne, come in tanti altri dello stesso periodo, la lotta per la delimitazione del
potere di punire si articola direttamente sull'esigenza di sottomettere l'illegalismo popo-
lare a un controllo più stretto e più costante (Sorvegliare e punire, cit., p. 96).
5 Questo tema era già stato stabilito, e perfino consacrato in un proverbio dell'epoca. Cfr.
cui derivano tutte le altre forme di deviazione o di crimine. Mentre qui il
vagabondaggio non è qualcosa come una colpa o una propensione psico-
logica, in realtà è l'insieme dei vagabondi, cioè un tipo di esistenza comu-
ne, un gruppo sociale che si presenta come una contro-società, a differen-
za dell'ozio che, nella psicologia degli individui, era qualcosa di simile a
un peccato individualea.
In secondo luogo, presentando il vagabondaggio come matrice gene-
rale della delinquenza, Le Trosne si oppone a tutte quelle analisi che fan-
no della mendicità l'elemento essenziale che era opportuno punire. Nella
legislazione francese, il vagabondaggio non era punito come tale; il vaga-
bondo competeva al sistema penale solo per il gesto con cui chiedeva la
propria sussistenza ad altri senza lavorare. Ora, per Le Trosne, a essere
essenzialmente punibile è il vagabondaggio; si entrava nel mondo della
delinquenza già solo per il fatto di spostarsi, di non essere fissati a un ter-
ritorio, di non essere riconducibili a un lavoro. Il crimine ha inizio quan-
do si è senza uno stato civile, cioè una localizzazione geografica b all'inter-
no di una determinata comunità, quando si è “senza investitura”, secon-
do il termine che riprende l'autore cambiandone il senso 6. Prima, infatti,
nel vecchio diritto non avere un'“investitura” non significava essere senza
legami con una comunità fissa e stabilita, come in Le Trosne, ma il fatto
di non avere nessuno che potesse fornire una garanzia, fare da garante da-
vanti alla giustizia. In che modo, dunque, il fatto di girovagare, di non
avere un'investitura territoriale può costituire un crimine contro l'econo-
mia?
Le Trosne analizza proprio le conseguenze economiche di questi per-
petui spostamenti. [Innanzitutto,] quando ci si sposta, si provoca nelle re-
gioni più povere una mancanza di manodopera che avrà come effetto
Dictionnaire de l'Académie française, L-Z, Paris 1765, vol. II, p. 171 (“L'ozio è il padre
di tutti i vizi”).
a Manoscritto (fol. 3): “Non è più un peccato che scatena tutti gli altri, è una micro-so-
cietà”.
b Il manoscritto (fol. 3) aggiunge l'espressione: “ancoraggio geografico”.
6 Cfr. G.-F. Le Trosne, Mémoire sur les vagabonds et sur les mendiants, cit., p. 18 (“crimi-
ni commessi da Vagabondi & Persone senza investitura”) e p. 42, nota 1.
l'aumento dei salari, al punto che una regione già poco produttiva si tro-
verà ulteriormente gravata per i produttori dai salari elevati; alla povertà
si aggiungeranno [l'aumento] dei prezzi e la non-concorrenza e, di conse-
guenza, un impoverimento ancora maggiore. [In secondo luogo,] i vaga-
bondi, lasciando il luogo in cui erano una forza lavoro virtuale, fanno di-
minuire la produzione e impediscono una certa produttività. [Inoltre,] a
partire dal momento in cui si spostano evitano tutte le imposte personali
(tributi, corvée), che all'improvviso dovranno essere ripartite su un nume-
ro più esiguo di persone, dato che bisogna raggiungere comunque un to-
tale fisso; l'aumento delle imposte personali farà ulteriormente diminuire
la parte di reddito che di norma potrebbe essere capitalizzata per far frut-
tare la terra. [Infine, poiché sono] persone che non si sposano e abbando-
nano i loro figli naturali alla sorte, dove passano fanno proliferare una
popolazione oziosa – la quale preleverà la sua parte sul consumo globale.
Se si considerano i primi tre effetti del vagabondaggio, si vede che il vaga-
bondo non è più, come nel Medioevo, colui che preleva una parte dei
consumi senza lavorare. Non è tanto colui che incide sulla massa globale
dei beni di consumo, quanto sui meccanismi della produzione e lo fa a li-
velli diversi: sul numero di lavoratori, sulla quantità di lavoro fornito e
sulla quantità di denaro che ritorna alla terra per farla fruttare. Il vaga-
bondo è dunque qualcuno che perturba la produzione, non è solo un
consumatore sterile. E viene perciò a trovarsi in una posizione di ostilità
costitutiva rispetto ai normali meccanismi della produzione.
In questa funzione anti-produttiva, come mai i vagabondi non sono
semplicemente eliminati o reimmessi di forza nel processo produttivo? A
questo riguardo, Le Trosne scarta la tesi secondo cui dove non c'è lavoro
ci sono poveri che mendicano e sono costretti a cambiare luogo; secondo
lui, infatti, non si diventa vagabondi perché manca il lavoro. Se è vero che
in un certo numero di casi non ci sono abbastanza mezzi di sussistenza,
per contro ciò che non manca mai è la possibilità di lavorare: c'è sempre
lavoro a sufficienza per ognuno, anche quando non c'è abbastanza sussi-
stenza per tutti. Per i fisiocrati, la generosità della terra è quella del lavoro
che essa fornisce, perché solo quando sarà stata lavorata produrrà a suffi-
cienza; la prima offerta della terra è il lavoro. Il vagabondo, quindi, non è
tanto colui che non arriva alla sussistenza e che per questo motivo viene
sospinto via, ma colui che di sua spontanea volontà rifiuta l'offerta di la-
voro che la terra ci fa così generosamente. Non è il disoccupato costretto
a esserlo suo malgrado che, poco a poco, mendica e si sposta, è colui che
si rifiuta di lavorare. C'è dunque un'identità primaria e fondamentale tra
lo spostamento e il rifiuto del lavoro: è in questo che consiste il crimine
del vagabondo per i fisiocrati.
Ma allora come mai la società non lo costringe? Per spiegarlo, Le
Trosne prende le distanze dalla critica mossa, tra il XVII secolo e l'inizio
del XVIII, ai ricchi e alle persone caritatevoli, [a coloro] che fanno dona-
zioni; all'epoca l'incremento del vagabondi era imputato a questa specie
di colpa economica che consiste nel donare una parte del consumo possi-
bile senza esigere in cambio una parte di lavoro necessario; adesso, inve-
ce, se i vagabondi sussistono e si moltiplicano, non è perché a loro si
dona qualcosa, ma perché se ne impadroniscono. Stabiliscono un rappor-
to di potere selvaggio, esterno alla legge, con le persone della società civi-
le in mezzo alle quali vivono. Le Trosne allora analizza le modalità con
cui si stabiliscono questi rapporti violenti, a cui corrispondono forme
specifiche di crimine, di delinquenza. Quando arrivano in un villaggio,
per prima cosa [i vagabondi] si installano e si appropriano dei raccolti,
degli animali, dando luogo a quella forma di delinquenza che è il furto;
[una volta] esaurite queste risorse spontanee, entrano nelle case e si fan-
no dare dell'altro minacciando di incendiare, di uccidere; con queste ri-
sorse possono perfino commerciare, mettersi a girare di villaggio in vil-
laggio per rivendere quel che si sono accaparrati; con questo surplus fan-
no festa; si procurano anche del denaro su indicazione di donne e bambi-
ni, se necessario persino con la violenza. In questo modo dalla prima ra-
pina passano all'incendio o al criminea.
a Manoscritto (foll. 5-6):
“Analisi del comportamento vagabondo:
1. appropriarsi spontaneamente;
Per caratterizzare la posizione del delinquente rispetto alla società vi
è qui una sorta di accoppiamento rifiuto del lavoro-violenza che, per la
verità, non deve più essere occultato dalla coppia disoccupazione-doman-
da. Nelle analisi del XVII secolo si partiva dalla disoccupazione per spie-
gare la mendicità e la delinquenza; per i fisiocrati, non è più questa cop-
pia che organizza l'insieme. Se i criminali appaiono come nemici sociali, è
per il potere violento che esercitano sulla popolazione per la loro posizio-
ne nel processo di produzione come rifiuto del lavoro. Le Trosne scrive:
“Essi sono insetti voraci che infestano [la campagna] e la impestano, che
divorano giornalmente la sussistenza dei Coltivatori. Fuor di metafora,
sono truppe nemiche disseminate sulla superficie del territorio, dove vivo-
no a loro discrezione come in un paese conquistato, e che prelevano veri e
propri contributi a titolo di elemosina. Nei paesi più poveri questi contri-
buti eguagliano o superano le imposte”7. “Vivono in mezzo alla società
senza esserne membri; ci vivono nella condizione in cui sarebbero gli uo-
mini se non ci fosse né legge, né polizia, né autorità; nella condizione che
si suppone esistesse prima che si stabilissero le Società civili, ma che, pur
senza essere mai esistita per un popolo intero, per una singolare contrad-
dizione si trova realizzata in mezzo a una Società civilizzata” 8. Il modello
della guerra di tutti contro tutti serve qui da principio per l'analisi della
delinquenza.
Perché la società civilea appare disarmata davanti a questa popolazio-
ne nemica? Se in mezzo alla legge ci sono uomini al di fuori della legge,
come mai la società civile non reagisce? Le Trosne spiega che, se gli uomi-
ni sono disarmati davanti a questa popolazione allo stato di natura, è
proprio perché appartengono alla società civile; le persone che hanno
13 Ivi, p. 59.
14 Cfr. ivi, p. 63: “SI chiameranno a raccolta gli Abitanti di una o più parrocchie, ciascuna
delle quali sarà tenuta a fornire un uomo, e si circonderanno i boschi per fare una bat-
tuta e una ricerca accurata. Per il Governo sarebbe facile ripulire in pochi giorni la cam-
pagna dai Vagabondi”. Cfr. ivi, p. 2: “In terzo luogo, stabiliremo l'unico mezzo per sop-
primere i Vagabondi”. Nel manoscritto (fol. 7) l'espressione “l'unico mezzo” è ripetuta
due volte e sottolineata.
a Il manoscritto (fol. 7) sintetizza: “Uccidere tutto ciò che si muove”.
b Il manoscritto (fol. 7) sintetizza: “Utopia. Politica-finzione”.
naturali, che prelevano con la forza i beni di sussistenza, che puniscono,
che fanno festa, sono anche i monaci itineranti, i nobili, gli agenti fiscali.
Voglio dire che questo testo è sorprendente: vi si trova al tempo stesso
una totale esattezza storica riguardo ai costumi dei vagabondi e di altri
personaggi, ma è anche la descrizione di una controsocietà, quella della
società feudale, di cui la borghesia voleva sbarazzarsi. Se lo si legge in
questo modo, il testo si tinge di una violenza inaudita: cos'altro è questa
regola di autodifesa contadina se non una sorta di appello all'insurrezio-
ne? Quindi il testo da una parte dice che cosa effettivamente accadrà nel
XIX secolo, e dall'altra, in forma cifrata, fa una critica reale dei residui
della feudalità nella società del XVIII secolo: tutti devono appartenere
allo Statoa.
Questo testo mette quindi in simmetria rispetto al sistema produttivo
costituito dalla terra, i lavoratori, i proprietari e i vagabondi, da una par-
te, e i resti della feudalità, dall'altra. Ci sono quindi due maniere di op-
porsi alla società: esercitare un certo potere che ostacola la produzione e
rifiutarsi di produrre, esercitando così un contropotere che si oppone alla
produzione ma in altra forma. Il vagabondo e il feudale costituiscono due
istanze di antiproduzione, nemiche della società. Vediamo qui attuarsi
un'assimilazione che sarà fondamentale. Infatti, a partire dal momento in
cui la società si definisce come il sistema dei rapporti degli individui che
rendono possibile la produzione, permettendo di massimizzarla, si dispo-
ne di un criterio che consente di designare il nemico della società: ogni
a Manoscritto (fol. 8): “Bisogna prenderlo come un pamphlet in codice il cui deciframen-
to farebbe svanire il significato apparente?”.
persona ostile o contraria alla regola di massimalizzazione della produ-
zioneb 15 16.
***
b Il manoscritto contiene diverse pagine (foll. 10-14) che Foucault pare non aver ripreso a
lezione:
“Qualche segnale di questo affioramento nella teoria giuridica;
• M[uyart] de Vouglans (Institutes au droit criminel, 1757) [vedi infra nota 15]
Definizione tradizionale del crimine: 'Il crimine è un atto difeso dalla legge con cui si
causa un pregiudizio a un terzo attraverso il dolo o la colpa'.
– 'pregiudizio', 'danno': nozioni centrali (e non per infrazione, rottura dell'autorità);
– 'terzo': specificato come privato o pubblico, ma pubblico entra nella categoria di terzo
[fol. 10] e vale in un certo numero di casi (scandalo, disordine), che esistono in quanto
tali o vanno ad aggiungersi come circostanze a un altro pregiudizio che colpisce un indi-
viduo.
Da cui l'idea che il crimine sia creatore di obbligo:
– mentre nell'ordine del diritto civile non c'è obbligo se non per consenso esplicito e for-
mulato.
– nell'ordine criminale è l'atto a essere creatore di obbligo.
[A margine:] Questo permette di ritrascriverlo in certa misura nel vocabolario del pec-
cato, del riscatto, della punizione.
Idea strana per noi o che ormai si ritrova soltanto nelle formulazioni morali: 'pagare il
proprio debito'; ma a cui si oppone tutta la problematica del XVIII secolo. Questa pra-
tica non stabilisce:
– qual è la natura e la forma dell'obbligo creato dal crimine,
– ma: in quale sistema di obblighi sono preso, quale contratto ho dovuto stipulare, af-
finché mi si possa legittimamente punire quando ho infranto una legge. [fol. 11]
Nel pensiero classico, il crimine è un quasi-contratto; ha comunque degli effetti analo-
ghi al contratto. Nel pensiero moderno, la punizione si fonda su un contratto ideale.
In ogni caso, la formulazione degli Institutes rappresenta la condizione antica del pen-
siero giuridico. Ora, nelle Leggi criminali nel loro ordine naturale (1780) [vedi infra,
nota 16] è possibile individuare un'altra trama discorsiva. Il crimine non è più definito
soltanto attraverso il pregiudizio ma attraverso l'infrazione. O ancora la legge sembra
operare a due livelli: da una parte, proibisce o ordina questa o quella cosa, e dall'altra
proibisce che le si rechi offesa.
Essa, in quanto legge, è sempre l'oggetto di un'interdizione: qualcosa che non deve esse-
re trasgredito, violato, disprezzato.
Essa implica al tempo stesso una coercizione riferita all'esterno e una coercizione auto-
riferita.
Si sarebbero potuti mostrare altri segni dell'emergere del criminale
come nemico sociale nella teoria giuridica, nella letteratura ecc. Mettia-
mo per esempio in serie con lo scritto di Le Trosne due testi letterari: Gil
Blas17 e Il castello dei Pirenei18. All'inizio del XVIII secolo, infatti, c'è tut-
ta una serie di romanzi sullo spostamento all'interno della società. Così,
Gil Blas è una specie di rappresentazione della mobilità sociale, dello
'Essa non tende soltanto a proibire, ma anche a vendicare il disprezzo fatto della sua au-
torità, mediante il castigo di coloro che ardiscono violare i suoi divieti' ([ Leggi criminali
nel loro ordine naturale,] p. LXXIII). [fol. 12]
La coercizione con riferimento esterno deriva dal pregiudizio. (Un'azione è difesa pro-
prio perché non deve essere pregiudizievole.)
La coercizione autoriferita alla legge stessa deriva dalla sovranità. Se la legge può puni-
re per il solo fatto di essere stata violata, è in virtù del diritto che possiede il Principe 'di
far eseguire la sua legge'.
L'Imperium, la sovranità che abita intrinsecamente la legge.
Abbiamo qui la formulazione teorica dell'azione civile che raddoppia l'azione privata.
Ma sempre nelle Leggi criminali c'è una terza formulazione che ricorda Beccaria:
Il crimine è ciò che provoca disordine nella società
– sia quando attacca la società soltanto,
– sia quando attacca la società e insieme uno dei suoi membri,
– sia quando attacca soltanto uno dei suoi membri senza attaccare la società in genera-
le.
Anche se non è attaccata, la società è in disordine. [fol. 13]
Con la conseguenza che la punizione ha due fini:
– risarcire per quanto possibile il privato;
– mettere il criminale (ma anche coloro che potrebbero imitarlo) in condizione di non
nuocere.
Rispetto alla prima formulazione, la società ha finito per occupare il posto del terzo
leso (di cui si dice che può essere un individuo o il pubblico). L'emergere del criminale
avversario della società si decifra in questi diversi testi che si sovrappongono e si aggro-
vigliano attraverso una stessa opera” (fol. 14).
15 Cfr. infra, […].
16 Cfr. [P.-F. Muyart de Vouglans], Les loix criminelles de France, dans leur ordre naturel.
Dédiées au Roi, par M. Muyart de Vouglans, Conseiller au Grand-Conseil , Merigot le
Jeune, Paris 1780; trad. it. Le leggi criminali nel loro ordine naturale, Buccinelli, Milano
1813, 4 voll.
17 A.-R. Lesage, L'histoire de Gil Blas de Santillane, 1715-1735, 12 voll.; trad. it. di E.
Timbaldi Abruzzese, Storia di Gil Blas di Santillana, Utet, Torino 1981, 2 voll. Il ro-
manzo di Lesage narra le avventure irregolari del giovane studente divenuto valletto e
domestico attraverso tutti gli strati della società, e secondo Jules Romains rappresenta
“l'ultimo capolavoro del cosiddetto romanzo 'picaresco'” (J. Romains, Lesage et le ro-
man moderne, in “The French Review”, n. 2, vol. XXI, dicembre 1947, pp. 97-99, qui p.
spostamento nella società e delle sue connessioni con la delinquenza. Gil
Blas è lo spostamento geografico ma anche [la mobilità] attraverso gli
strati della società19. Ora, nel corso di questi spostamenti, Gil Blas incon-
tra la delinquenza a ogni piè sospinto, ma una delinquenza del tutto par-
ticolare, perché è sempre graduale, va per piccoli aggiustamenti successivi
e senza soluzione di continuità dall'adulterio al furto, al guadagno illecito
97). La figura di Gil Blas simbolizzerà, per Foucault, un'antica forma di illegalismo e di
delinquenza più avventuriera, in contrasto con la professionalizzazione e la formazione
disciplinare più caratteristica della “filiera” delinquente nell'ambiente carcerario a par-
tire dal XIX secolo. In Sorvegliare e punire (cit., pp. 331-332), per esempio, Foucault de-
scriverà questo “spazio dell'avventura che Gil Blas, Sheppard o Mandrin percorrevano
minuziosamente, ciascuno a suo modo” come uno “spazio incerto che era per la crimi-
nalità un luogo di formazione e una regione di rifugio [in cui] si incontravano in andiri-
vieni rischiosi, la povertà, il vagabondaggio, l'innocenza perseguitata, l'astuzia, la lotta
contro i potenti, il rifiuto degli obblighi e delle leggi, il crimine organizzato”. Gil Blas
rappresenta “l'uomo dei vecchi illegalismi” (ivi, p. 312). Sulla “letteratura del crimine”
(“riscrittura estetica” e “letteratura poliziesca”), cfr. ivi, pp. 75 e 316.
18 A. Radcliffe, Les visions du château des Pyrénées, trad. fr. di G. Garnier e Mme Zim-
mermann [basata sull']edizione stampata a Londra presso G. & J. Robinson nel 1803,
Lecointe et Durey, Paris 1821, 4 voll.; nuova ed., trad. fr. di Y. Tessier, BIEN, Paris 1946;
trad. it. Le visioni del castello dei Pirenei, Salani, Firenze 1925. Ann Radcliffe (1764-
1823), scrittrice inglese, fu considerata una dei pionieri del romanzo gotico, genere let-
terario che utilizza il sovrannaturale e il macabro, di cui un esempio famoso e successi-
vo è Frankenstein (1818) di Mary Shelley. Le opere più note di Ann Radcliffe compren-
dono The Romance of the Forest, T. Hookham & Carpenter, London 1791, 3 voll.; The
Mysteries of Udolpho, G. & J. Robinson, London 1794, 4 voll; trad. it. di V. Sanna, I
misteri di Udolpho, Rizzoli, Milano 2013; e The Italian, or the Confessional of the
Black Penitents, printed for T. Cadell Jun, and W. Davies (Successors to Mr. Caddell) in
the Strand, London 1797, 3 voll.; trad. it. di A. Gallenzi, L'italiano, ovvero Il confessio-
nale dei penitenti neri, Frassinelli, Milano 1995. Le visioni del castello dei Pirenei, ro-
manzo apocrifo, secondo Foucault simbolizza una certa paura che “ha ossessionato la
seconda metà del XVIII secolo: lo spazio scuro, la cortina di oscurità che fa da ostacolo
all'intera visibilità delle cose, delle persone, delle verità” (M. Foucault, “L'occhio del
potere”, cit., p. 16).
Il pittore surrealista René Magritte condivideva con Foucault un certo fascino per Il ca-
stello dei Pirenei, che ha rappresentato in olio su tela nel 1959. A proposito di questo
quadro, Magritte scriverà che “Il castello dei Pirenei […] avrà il carattere di un'appari-
zione, che forse Ann Radcliffe avrebbe amato, se il suo libro Il castello dei Pirenei ci per-
mette di sapere davvero ciò che amava” (lettera di Magritte a Torczyner, 20 aprile 1959,
in H. Torczyner, L'ami Magritte. Correspondance et souvenirs, Fonds Mercador, Anvers
1992, p. 118). Foucault si rivolgerà a Harry Torczyner, avvocato internazionale e rappre-
sentante di Magritte negli Stati Uniti, per vedere la tela, che infine riuscirà ad ammirare
nel 1975 in una visita a Torczyner durante un viaggio a New York.
fino al brigantaggio su vasta scala – nei paesaggi che Gil Blas attraversa si
mescolano tuttia. Essa circonda con una sorta di cono d'ombra, di nebbia
di possibilità, ogni professione, ogni statuto sociale. Non esiste dignità
che non comporti il suo possibile margine di delinquenza: c'è la delin-
quenza relativa al locandiere, quella del medico, quella del nobile, quella
del magistrato ecc. Ognuno ha il suo margine di delinquenza in cui è pre-
so, intrappolato o che è al contrario la sua risorsa, la sua possibilità.
Ogni personaggio è quindi perfettamente reversibile: onestà da un certo
punto di vista, disonestà dall'altro, e in questo senso il personaggio del
domestico o del segretario è del tutto tipico di questa reversibilità del per-
sonaggio delinquente-non-delinquente. Il domestico che ruba al suo pa-
drone è un ladro encomiabile nella misura in cui, se in un certo senso
ruba, dà però del denaro, che sarebbe stato utilizzato per fini malvagi, a
persone che ne hanno bisogno. È l'uomo dai margini incerti, lo scambia-
tore tipo tra la delinquenza e la non-delinquenza, sia per quanto [riguar-
da] l'onestà finanziaria che per la sessualità. È questa la delinquenza che
È interessante notare qui che una delle maggiori mostre di Magritte a New York, presso
la galleria Sidney Janis nel 1954, aveva come titolo: “Le parole e le cose”. Dopo la pub-
blicazione del libro di Foucault nel 1966, Magritte gli rivolse “alcune riflessioni relative
alla lettura che sto facendo del suo libro Le parole e le cose” (lettera del 23 maggio
1966, in M. Foucault, Ceci n'est pas une pipe, Fata Morgana, Montpellier 1973, p. 83),
in DE, n. 53, ed. 1994, vol. I, pp. 635-650; ed. 2001, vol. I, pp. 663-678; trad. it. di R.
Rossi, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988, p. 89.
19 Ritroviamo qui alcune riflessioni sviluppate da Louis Chevalier nella sua analisi dell'e-
voluzione della rappresentazione della criminalità nell'opera di Balzac: “Come per tutti
coloro che descrivono la delinquenza alla vecchia maniera, la società del delitto è una
società chiusa, col suo proletariato e la sua aristocrazia, la sua basse e haute pègre” (L.
Chevalier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié
du XIXe siècle, Perrin, Paris 2002 [1a ed. Plon, Paris 1958], p. 55; trad. it. di S. Brilli Cat-
tarini, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale , Laterza,
Roma-Bari 1976, p. 81). In ogni caso, aggiunge, in romanzi tardivi come La cugina Bet-
ta: “La criminalità […], anche se incidentalmente e spesso senza alcun nesso col resto
dell'opera, non è più descritta come esclusivo appannaggio di quei colossi del delitto cui
Balzac dedica tutta la sua attenzione, bensì come un'emanazione delle classi popolari
nel loro insieme; non più come un fatto eccezionale, insomma, ma come un fenomeno
generale e genuinamente sociale” (ivi, p. 96).
a Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “Dal donnaiolo al galeotto; continuità, rapidità di
passaggio”.
corre lungo tutta la società, che ne segue in certo modo le nervature, che
scorre dall'alto in basso e ne è il gioco stessoa.
Passiamo alla fine del XVIII secolo, ai romanzi del terrore, [come
quelli di] Ann Radcliffe20. La criminalità, a quel punto, ha cambiato for-
ma e aspetto: non è più qualcosa di continuo, di graduale, di ambiguo;
non è più la virtualità che ognuno si porta con sé; non è intricata nei rap-
a Il manoscritto comprende altri due fogli (foll. 19 e 20) che Foucault tralascia nella lezio-
ne del 17 gennaio 1973.
“Molti altri fatti potrebbero dare testimonianza dell'apparizione – o della costituzione –
del criminale come nemico. Per esempio: nelle pratiche penali, il passaggio da una de-
portazione (che ha essenzialmente la forma del bando) alla colonia penitenziaria.
America ≠ Botany Bay
Ma dobbiamo interrogarci non tanto sull'insieme di elementi che segnala questa appari-
zione, quanto sul loro statuto. E nella misura in cui questa apparizione servirà da punto
di partenza, e [in cui] è essa stessa da analizzare.
– Sotto questa sociologizzazione del crimine, sotto questa presentazione del criminale
come nemico della società, dietro a questa reinterpretazione delle forme della penalità
nei termini di una meccanica o di una reazione sociale, sotto questo emergere della so-
cietà (e non più soltanto del sovrano o del potere politico) come personaggio essenziale
sulla scena giudiziaria, che cosa accade?
– Sotto la costituzione di un sapere della criminalità che non pone più la vecchia do-
manda dell'indagine “chi ha fatto cosa?” ma la nuova domanda: “cos'è necessario per
essere un criminale?”, “che cosa dev'essere una società affinché il crimine sia
possibile?”.
Domande che non si riferiscono più al fatto, ma alla natura e alla norma. Domande che
non dipendono più dalla pratica discorsiva dell' indagine, ma dalla pratica discorsiva
dell'esame.
Che cosa accade dietro a tutto ciò?
Che cos'è questo processo, o questo evento qualificato come “apparizione”, “emergen-
za”? Che cosa vuol dire affermare che il criminale appare come nemico pubblico, che il
crimine è definito come, funziona come, serve come rottura del legame sociale?
– Si tratta dell'allestimento di una rappresentazione dominante o di un sistema di rap-
presentazione dominante: il criminale sarebbe rappresentato come nemico?”.
Lezione del 24 gennaio 1973
***
35 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., cap. XX, pp. 49-50.
36 Ivi, cap. XXIII, p. 53.
37 Ivi, cap. XXII, p. 52.
a Il manoscritto (fol. 12) aggiunge, per quel che riguarda il riferimento a Brissot:
“Delitti pubblici:
crimini civili, politici → pene civili, pecuniarie, fiscali, lavoro
crimini religiosi → pene religiose
Delitti particolari
contro la vita → castighi corporali
contro la proprietà → castighi pecuniari e corporali
contro l'onore → pene morali”.
38 Questo schema si trova in J.P. Brissot de Warville, Théorie des loix criminelles, cit., vol.
I, p. 127: “Duplice scala corrispondente ai delitti e alle pene contro l'interesse generale”.
39 L.M. Le Peletier de Saint-Fargeau, Rapport sur le projet du Code pénal, cit., p. 322, col.
1.
40 Foucault qui si riferisce soprattutto all'opera di Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit.,
cap. XXII, p. 52, e di Brissot, Théorie des loix criminelles, cit., vol. I, p. 147.
il taglione, ma che permetterà alla società di ricevere un risarcimento; [è]
il patto di ricostituzione dell'individuo in quanto appartenente alla socie-
tà; è la riedizione imposta del contratto sociale fra il criminale e la socie-
tà. Questa pena ha il vantaggio di essere graduale e di suscitare terrore
più che timore. Quando si pensa alla schiavitù, ci si rappresenta “tutti i
momenti infelici della schiavitù” in un istante41 e, sintetizzandoli così nel-
la propria immaginazione, è possibile rappresentarsi “tutta la somma dei
momenti infelici”42 della vita dello schiavo, mentre questo “è dall'infelici-
tà del momento presente distratto dalla futura”a 43.
le): 'Mentre i porti vi presentano dei lavori che richiedono un gran numero di braccia,
mentre vi restano lande immense da dissodare, mentre avete canali da aprire e paludi da
bonificare'” (J.A. Brillat-Savarin, Suite de la discussion sur le Code pénal et adoption du
principe de la peine des travaux forcés, 2 giugno 1791, in “Archives parlamentaires 1787-
1860”, prima serie, cit., vol. XXVI, p. 712, col. 1).
44 Foucault, nel manoscritto (fol. 15), dà questo riferimento: “Cfr. il testo di Chabroud
[citato supra, nota 18] come critica al progetto di Le Peletier”. Cfr. “Archives parlamen-
taires 1787-1860”, prima serie, cit., vol. XXVI, p. 618, col. 1.
a Manoscritto (foll. 15-16):
“Rispetto al carattere immediato e collettivo dell'infamia, al carattere graduato e neces-
sariamente misurato del taglione, al carattere utilitaristico e riformatore dei L[avori]
P[ubblici] F[orzati], la prigione presenta un carattere astratto, generale, monotono, rigi-
do. 'Perdita della libertà' (come la perdita del bene a cui tutti tengono, e che tutti possie-
dono)”.
è affatto di ordine giuridico o punitivo: la forma salariale. Proprio come
il salario retribuisce il tempo durante il quale la forza lavoro è stata com-
prata da qualcuno, la pena risponde all'infrazione non in termini di risar-
cimento o di aggiustamento esatto, ma in termini di quantità di tempo di
libertà.
Il sistema delle punizioni fa apparire come sanzione del crimine la
forma-prigione che non è derivabile dalla teoria ed è imparentata con la
forma-salario: così come si eroga un salario per un tempo di lavoro, al-
l'opposto si preleva un tempo di libertà come prezzo per un'infrazione 45.
Essendo il tempo l'unico bene che si possiede, lo si compra per il lavoro o
lo si preleva per un'infrazione. Il salario serve a retribuire il tempo di la-
voro, il tempo di libertà servirà a pagare per l'infrazione.
C'è qualcosa qui che instrada verso una serie di problemi, senza che
ci sia la soluzione. Non voglio dire che il salario ha imposto la propria
forma, che è stato il modello socioeconomico ripreso nella pratica pena-
le. Nulla nella storia delle istituzioni o nei testi permette di dire che sia
stato questo modello a essere trasferito all'interno del sistema penale. Vo-
glio dire soltanto che la forma-prigione e la forma-salario sono due for-
me storicamente gemelle, anche se non è ancora possibile dire con esat-
tezza quali siano i loro rapporti.
Ma questo accostamento non è una semplice metafora, come indica-
no alcuni elementi. Innanzitutto, la continuità, [nei] sistemi penali del
XIX secolo, tra la pena dell'ammenda e la pena della prigione, e la loro
sovrapposizione: quando uno non è in grado di pagare un'ammenda, va
in prigione. Laddove l'ammenda appare per il surrogato della giornata di
lavoro, la prigione rappresenta l'equivalente di una certa quantità di de-
naro. [In secondo luogo,] si vede apparire tutta un'ideologia della pena
come debito, che riattiva le vecchie nozioni del diritto germanico che il
cristianesimo e il diritto classico avevano cancellato. Ora, nella teoria
non c'è niente di più lontano che questo principio della pena come debi-
to; tutto indica, invece, che la pena sia una precauzione e una difesa so-
45 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., pp. 234-235.
cialea. La riapparizione del pagamento del debito per cancellare il crimine
deriva in realtà dall'interpretazione delle forme salario e prigione.
[Infine], vi è una curiosa prossimità e allo stesso tempo un'opposizione
tra lavoro e prigioneb: in un certo senso, la prigione è molto simile a qual-
cosa come un salario, ma allo stesso tempo è il suo opposto. Da cui la
sensazione che la prigione debba essere come un lavoro gratuito che il
prigioniero offre alla società in sostituzione di un salario, e che essa dun-
que esclude il salario effettivo. Da cui la tendenza a organizzare la prigio-
ne come una fabbrica e al contempo l'impossibilità ideologica e istituzio-
nale di ammettere che il prigioniero possa ricevere un salario durante la
sua permanenza in prigione, in quanto essa fa le veci di un salario che
egli versa alla società.
Così, l'introduzione all'interno della prigione dei princìpi generali
che reggono l'economia e la politica del lavoro [all'esterno] è antinomica
rispetto a tutto ciò che è stato fino a quel momento il funzionamento del
sistema penale. Quel che vediamo apparire, attraversa queste due forme,
è l'introduzione del tempo nel sistema del potere capitalista e nel sistema
della penalità46. Nel sistema della penalità: per la prima volta nella storia
dei sistemi penali, non si punisce più tramite il corpo o i beni, ma tramite
il tempo di vita. Il tempo che resta da vivere: è di questo che si approprie-
rà la società per punire l'individuo. Il tempo si scambia con il potere. [E]
dietro la forma-salario, la forma di potere messa in atto dalla società ca-
pitalista ha essenzialmente l'obiettivo di esercitarsi sul tempo degli uomi-
a Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “ma la 'verità' è proprio in questi discorsi 'ideologici'”.
b Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “analogia e irriducibilità”.
46 Il ruolo centrale, nell'analisi del potere disciplinare, del controllo del tempo, della vita e
del corpo dell'individuo, sarà ripreso in “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 158-
159; in Il potere psichiatrico, cit., pp. 54-56; poi in Sorvegliare e punire, cit., terza parte,
cap. I: “I corpi docili”, pp. 148-185. La concezione del tempo, in Sorvegliare e punire,
sarà congiunta alle riflessioni relative alla “durata” delle pene, e in questo contesto Fou-
cault noterà che coloro che si erano opposti alla pena di morte – castigo di breve durata
– prevedevano molto spesso delle pene definitive; cfr. ivi, p. 117, nota 1, che rinvia a:
“J.P. Brissot de Warville, Théorie des loix criminelles, 1781, pp. 29-30; C.E. Dufriche de
Valazé, Des lois pénales, 1784, p. 344” (Foucault osserva: “prigione perpetua per coloro
che vengono giudicati 'irrimediabilmente cattivi'”).
ni: l'organizzazione del tempo operaio [nell']officina, la distribuzione e il
calcolo di questo tempo nel salario, il controllo del tempo libero, della
vita operaia, il risparmio, le pensioni, ecc 47. Il modo in cui il potere ha in-
quadrato il tempo per poterlo controllare da cima a fondo ha reso possi-
bile, storicamente e [in termini di] rapporti di potere, l'esistenza della for-
ma-salario. È stata necessaria questa presa di potere globale sul tempo a.
Così, ciò che ci permette di analizzare in un colpo solo il regime punitivo
dei delitti e il regime disciplinare del lavoro è il rapporto tra il tempo di
vita e il potere politico: la repressione del tempo e per mezzo del tempo è
b Nel manoscritto seguono quattro fogli numerati da 20 a 23 (vedi i temi simili nella le-
zione seguente del 31 gennaio):
“Obiezioni – Il 'modello' religioso che collegherebbe la prigione al peccato
Distinguere
(a) La carcerazione ecclesiastica. La prigione come pena canonica. E che di fatto tende
a scomparire. (Per esempio in Francia, legge del 1629.)
La carcerazione canonica è scomparsa quando si stabilisce definitivamente la carcera-
zione penale.
(b) L'organizzazione monastica. È stata spesso evocata; […] qui si tratta della trasposi-
zione, nella vita monastica, di regole e forme di vita di una certa reclusione di lavoro, di
origine laica. [fol. 20]
Si potrebbe dire invece che il sistema monastico ha trasferito nelle sue pratiche punitive
una forma esogena.
– La disposizione in celle: chi ha permesso di utilizzare come tale l'architettura delle pri-
gioni? In realtà si tratta piuttosto dell'inserimento del modello protestante, quacchero,
organizzato intorno all'esame di coscienza, del ripiegamento su di sé, del dialogo con
Dio.
La cella del convento trasformata in cella di prigione non le ha imposto la sua forma di
vita, la sua etica, la sua concezione di penitenza. La cella del convento divenuta cella di
prigione si definisce nel punto di incrocio tra una morale di vita (di ispirazione essen-
zialmente protestante) e un nuovo spazio di reclusione.
La cella penitenziaria è il luogo della coscienza calvinista, quacchera, inserito in un'ar-
chitettura gotica attraverso la tattica dell'internamento. [fol. 21]
Con i quaccheri si trova la teoria della punizione tramite la reclusione coatta.
Storia che risale a W[illiam] Penn: il suo tentativo di costruire un codice penale senza
pena di morte. Gli inglesi lo impediscono.
– All'Indipendenza, attenuazione della pena di morte; e organizzazione di una penalità
in cui la morte è limitata (omicidio, incendio e tradimento), in cui la carcerazione figura
accanto ai lavori pubblici, alla flagellazione e alla mutilazione.
– Nel [17]90, soppressione dei lavori pubblici per lo scandalo.
Avvio di un sistema in cui la punizione è la reclusione: perdita della libertà, rottura dei
contatti con il mondo esterno; e isolamento, almeno per un periodo, in celle da otto
piedi per sei, alimentazione a base di mais; niente letture.
Si tratta, secondo L[a] R[ochefoucauld-]Liancourt:
– 'di indurre i prigionieri all'oblio di tutte le loro vecchie abitudini';
– di indurre 'un cambiamento […] di alimentazione' che, 'rinnovando interamente il
sangue, addolcendolo, rinfrescandolo, infiacchisca l'anima e la disponga alla dolcezza
che porta al pentimento'. [fol. 22]
'In questo abbandono […] dell'essere vivente, esso è [più] incline a scendere in se stesso,
a riflettere sulle colpe di cui sente così amaramente la pena'.
E dopo questo ritorno su di sé, in cui scopre la profondità della sua caduta, può ricevere
le parole di esortazione.
'Gli ispettori […] parlano con [i detenuti], cercano di conoscerli, li esortano, li consola-
no, infondono loro coraggio, li riconciliano con se stessi. Queste conversazioni non
sono frequenti, perché avrebbero meno effetto; i loro volti sono sempre sereni, mai ri-
denti'.
Rispetto, freddezza, tristezza e calma.
Se c'è un modello religioso della prigione, è proprio nella teologia o nella morale calvi-
nista, e non nell'istituzione monastica.
Insistere su questo perché permette di limitare in maniera molto circoscritta un'analisi
storica attraverso il modello, il suo trasferimento o la sua riattivazione.
Se questo modello con un'origine così lontana, così estranea nel suo spirito a gran parte
dell'Europa, ha potuto divenire universale nella società del XIX secolo, non è affatto
[per] la sua forza intrinseca” [fol. 23].
48 Cfr. infra, lezione del 31 gennaio, […], note 18 e 21.
Lezione del 31 gennaio 1973
a Il manoscritto (fol. 1) riporta la lista già menzionata nella lezione precedente: “infamia;
taglione; schiavitù”.
si vede in Le Peletier de Saint-Fargeau a 1. quest'altra cosa è la forma-pri-
gione.
Avevo cercato di far vedere che la forma-prigione poteva essere acco-
stata alla forma-salario, come l'introduzione di una certa quantità di
tempo in un sistema di equivalenze: salario in cambio di un certo tempo
di lavoro, prigione in cambio di una certa colpa. Avevo sottolineato que-
sta parentela, ma senza dire che a essere trasferito nella penalità era il
modello del salario. Avevo detto soltanto che la stessa forma si ritrova nel
salario e nella prigione: da una parte, il tempo di vita diventa una mate-
ria scambiabile; dall'altra, è la misura del tempo che permette la quantifi-
cazione dello scambio, attraverso la relazione stabilita sia tra una quanti-
tà di lavoro e una quantità di moneta, sia tra una quantità di tempo e la
gravità della colpa. Questa forma rinvia a quel fenomeno essenziale che è
l'introduzione della quantità di tempo come misura, non solo come misu-
ra economica nel sistema capitalista, ma anche come misura morale. Die-
tro a questa introduzione, affinché la quantità di tempo possa diventare
materia e misura di scambio, ci vuole una presa di potere sul tempo, [non
come] astrazione ideologica, ma come estrazione reale del tempo a parti-
re dalla vita degli uomini: condizione reale di possibilità del funziona-
mento del sistema del salario e del sistema della reclusione.
Vi è qui un processo reale che bisogna analizzare a partire dai rap-
porti di potere che assicurano questa estrazione reale del tempo. È a que-
sto livello di potere che prigione e salario comunicano. Non perché il sa-
a Il manoscritto (foll. 1-2) precisa:
“Esempio: Le Peletier [de] Saint-Fargeau, nel 1791, pone il principio delle punizioni cen-
trate intorno al taglione (con interventi laterali da altri modelli). In realtà, propone una
reclusione.
Altro esempio: Howard, Blackstone, Fothergill verso il 1799 – e quel che di fatto è avve-
nuto in Inghilterra.
La derivabilità non si realizza. Intervento laterale. Qualcos'altro si sostituisce”.
1 Il discorso di Le Peletier de Saint-Fargeau a cui Foucault si riferisce è contenuto nel suo
Rapport sur le projet du Code pénal all'Assemblea nazionale, 23 maggio 1791, in “Ar-
chives parlamentaires 1787-1860”, prima serie, cit., vol. XXVI (dal 12 maggio al 5 giu-
gno 1791), pp. 319-345, qui p. 322, col. 1; passaggio menzionato nel “Riassunto del cor-
so”, infra, […]. Il riferimento a Blackstone, Howard e Fothergill rinvia al loro progetto
di legge, la quale venne promulgata nel 1779 (cfr. supra […]).
lario sarebbe servito alla prigione come modello rappresentativo, ma per-
ché prigione e salario si ricollegano, ciascuno al suo livello e a suo modo,
a questo apparato di potere che assicura l'estrazione reale del tempo e che
introduce quest'ultimo in un sistema di scambi e di misure. Il problema
sta proprio nel ritrovare questo apparato di potere, e nel vedere come la
forma-prigione abbia potuto effettivamente inscriversi e diventare uno
strumento nei rapporti di potere. Fino a oggi, si studiavano le trame delle
possibili derivazioni: per esempio, in che modo, all'interno del sistema
penale teorico e pratico, le idee e le istituzioni si innestano le une sulle al-
tre. Ora si tratta di ritrovare quali sono i rapporti di potere che hanno
reso possibile l'emergenza storica di qualcosa come la prigione. Dopo
un'analisi di tipo archeologico, si tratta di fare un'analisi di tipo dinasti-
co, genealogico, basata sulle filiazioni a partire dai rapporti di potere 2.
2 Questo brano offre una giustapposizione significativa del metodo archeologico rispetto
al metodo genealogico (studio delle filiazioni). Foucault qui usa ancora i termini “ge-
nealogico” e “dinastico” come equivalenti; cfr. “Théories et institutions pénales”, lezio-
ne tredicesima. Il metodo archeologico era stato elaborato qualche anno prima in L'ar-
chéologie du savoir (Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bogliolo, Archeologia del sa-
pere, Rizzoli, Milano 1969). Siamo a un punto di cerniera in cui Foucault sviluppa il
metodo genealogico che aveva già evocato e annunciato nella sua lezione inaugurale al
Collège de France nel 1970, L'ordine del discorso (cit.), e che applicherà due anni dopo
questo corso sulla “società punitiva” in Sorvegliare e punire (cit.). Il primo metodo si
fonda sullo studio delle derivazioni; si veda questo esempio: “L'insieme penale, caratte-
rizzato dall'interdetto e dalla sanzione, dalla legge [e che] […] porta con sé una certa
teoria dell'infrazione come atto di ostilità verso la società […] si deduce, in maniera ar-
cheologicamente corretta, dall'istituzionalizzazione statale della giustizia, che fa in
modo che a partire dal Medioevo ci sia una pratica della giustizia ordinata in base all'e-
sercizio del potere politico sovrano” (lezione del 7 febbraio, infra […]). Il secondo si
fonda su un'analisi degli effetti produttivi dei rapporti di potere. Qui la questione ge-
nealogica è chiaramente enunciata (supra […]): “Quali sono i rapporti di potere che
hanno reso possibile l'emergenza storica di qualcosa come la prigione?”.
Foucault riprende la distinzione tra “archeologia” e “dinastica” in un'intervista con S.
Hasumi nel settembre 1972, “De l'archéologie à la dynastique”, in DE, n. 119, ed. 1994,
vol. II, p. 406; ed. 2001, vol. I, p. 1274; trad. it. di A. Petrillo, “Dall'archeologia alla di-
nastica”, in Archivio Foucault 2, cit., p. 72: “Cambio di livello: dopo aver analizzato i
tipi di discorso, cerco di vedere come essi abbiano potuto formarsi storicamente e su
quali realtà storiche si articolano. Ciò che chiamo l''archeologia del sapere' è precisa-
mente il reperimento e la descrizione di questi tipi di discorso, e ciò che chiamo la 'dina-
stica del sapere' è il rapporto che esiste tra questi grandi tipi di discorso che si possono
osservare in una cultura e le condizioni storiche, le condizioni economiche, le condizio-
ni politiche della loro comparsa e della loro formazione. Così Le parole e le cose è di-
***
ventato L'archeologia del sapere, e quello che sono ora in procinto di intraprendere si si-
tua al livello della dinastica del sapere”; analisi che prosegue in Sorvegliare e punire,
cit., p. 26: “Obiettivo di questo libro: […] una genealogia dell'attuale complesso scienti-
fico-giudiziario dove il potere di punire trova le sue basi, riceve le sue giustificazioni e le
sue regole, estende i suoi effetti e maschera la sua esorbitante singolarità”.
L'anno seguente Foucault continuerà a sviluppare questo contrasto nel corso del 1973-
1974, Il potere psichiatrico. Operando un ritorno critico sulla Storia della follia, Fou-
cault elabora qui ciò che si potrebbe chiamare una genealogia del sapere o del discorso
– uno studio del modo in cui le relazioni di potere danno origine a delle pratiche discor-
sive: “L'analisi discorsiva del potere, rispetto a quella che io chiamo l'archeologia, a un
livello – evitando il termine 'fondamentale', che non mi piace molto –, a un livello, si
può dire, che permetterebbe di cogliere la pratica discorsiva nel punto stesso in cui essa
[…] si forma” (Il potere psichiatrico, cit., lezione del 7 novembre 1973, p. 25). Cfr. an-
che: M. Foucault, “La verità e le forme giuridiche”, cit., p. 98 e Id., “La Vèrité et les for-
mes juridiques”, cit., ed. 1994, pp. 643-644; ed. 2001, pp. 1511-1512 (“Table ronde”);
Id., “Dialogue sur le pouvoir” (intervista con gli studenti di Los Angeles, registrazione:
maggio 1975, in S. Wade [a cura di], Chez Foucault, trad. ingl. di F. Durand-Bogaert,
Circabook, Los Angeles 1978, pp. 4-22), in DE, n. 221, ed. 1994, vol. III, pp. 468-469;
ed. 2001, vol. II, pp. 468-469; trad. it. di O. Marzocca, “Dialogo sul potere”, in Biopoli-
tica e liberalismo, Medusa, Milano 2001, pp. 48-49; Id., “Bisogna difendere la società”,
cit., [lezione] del 7 gennaio 1976, p. 18: “La genealogia sarebbe dunque, rispetto al pro-
getto di una iscrizione dei saperi nella gerarchia del potere proprio della scienza, una
specie di tentativo per liberare dall'assoggettamento i saperi storici e per renderli liberi”;
Id., “Structuralisme et post-structuralisme” (intervista con J. Raulet, in “Telus”, n. 55,
vol. XVI, primavera 1983, pp. 195-211), in DE, n. 330, ed. 1994, vol. IV, p. 443; ed. 2001,
vol. II, p. 1262; trad. it. di M. Bertani, “Strutturalismo e post-strutturalismo”, in Il di-
scorso, la storia, la verità, cit., p. 315.
Per una discussione più recente, cfr. A. Davidson, “On epistemology and archeology:
From Canguilhem to Foucault”, in The Emergence of Sexuality: Historical Epistemolo-
gy and the Formation of Concepts, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004,
pp. 192-206; trad. it. di G. Lucchesini e P. Savoia, “Epistemologia e archeologia: da Can-
guilhem a Foucault”, in L'emergenza della sessualità. Epistemologia storica e formazio-
ne dei concetti, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 249-266.
Vorrei cominciare l'analisi a partire da un'obiezionea: non è azzarda-
to dire che la prigione sorge bruscamente all'interno del sistema penale
verso la fine del XVIII secolo, mentre si vive in una società che conosce la
clausura monastica, una forma-convento presente da secoli? Non sarebbe
più ragionevole vedere se fosse possibile rintracciare la genealogia della
forma-prigione a partire da una certa forma di comunità conventuale? In
Francia, infatti, le prigioni sono state collocate nei conventi: la detenzio-
ne carceraria in celle ha trovato nello spazio conventuale il suo punto di
fissazione.
Ma questa filiazione si scontra con un'obiezione di ordine generale:
non bisogna dimenticare qual è stata la funzione della clausura monasti-
ca. A che livello avviene, infatti, la permeabilità? In questo caso, non si
tratta di impedire a qualcuno di accedere al mondo esterno, di uscire, ma
di proteggere i luoghi, i corpi, le anime dal mondo esterno: la clausura
chiude l'interno di fronte a tutti i possibili assalti dall'esterno; fa parte di
quei luoghi sacri in cui non si può entrare in nessun modo. La clausura,
quindi, non rinchiude la libertà di qualcuno all'interno di un luogo da cui
non può uscire e rispetto a cui l'esterno sarebbe inaccessibile; essa defini-
sce un luogo interno protetto, che deve diventare inaccessibile dall'ester-
no. È il mondo che è tenuto all'esterno, non l'individuo all'interno. È il
mondo a essere chiuso fuori. C'è dunque un'eterogeneità essenziale tra la
reclusione punitiva e la clausura monastica3. Certo, il ritiro è legato al
a Manoscritto (fol. 3): “Il problema si chiarirà studiando due obiezioni: la reclusione reli-
giosa e la reclusione politica”.
3 Questa osservazione potrebbe essere letta come una critica all'opera di Erving Goffman
sulle cosiddette “istituzioni totali” (total institutions), tra cui Goffman aveva incluso i
monasteri, i conventi e i chiostri, insomma le istituzioni religiose, che qualificava come
“stabilimenti progettati come ritiri dal mondo” (E. Goffman, Asylums: Essays on the
Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, Doubleday, New York 1961;
trad. fr. di L. e C. Lainé, Asiles. Études sur la condition sociale des malades mentaux et
autres reclus, presentazione di R. Castel, Minuit, Paris 1968, p. 47; trad. it. di F. Basaglia
e F. Ongaro Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della
violenza, Einaudi, Torino 2003, p. 35, trad. modificata). Secondo Daniel Defert, la pra-
tica del Gip aveva portato a un rifiuto teorico delle analisi di Goffman all'interno del
gruppo. Qui l'analisi di Foucault sulla natura dei rapporti tra interno ed esterno – tema
centrale in Goffman – sembra indicare un dibattito intorno a questi temi; cfr. anche in-
peccato; ma anche quando è motivato dal peccato non è una punizione in
sé. Esso appare come la condizione della penitenza, del rimorso, come il
luogo adatto per la sua solitudine sacralizzata, che permette ai castighi
(digiuno, flagellazione ecc.) di diventare atti di penitenza e all'individuo
di riconciliarsi con Dio. Ciò che il ritiro assicura non è la penitenza in sé,
ma il fatto che i castighi autoimposti avranno effettivamente valore di pe-
nitenza per il riscatto dell'anima e la riconciliazione dell'uomo, per cui il
segno del vero pentimento risiede nell'amore stesso per il ritiro.
E se da un certo momento in poi diventa ricorrente il tema del ritiro
cristiano riguardo alle prigioni, ciò avviene molto più tardi, nel XIX se-
colo, quando il tema cristiano riappare sostenuto e codificato dal tema
medico dell'isolamento terapeutico e [dal tema] sociologico della rottura
con l'ambiente criminale4. Ma è un recupero successivo che si innesta su
fra, “Nota del curatore” […].
4 Riguardo al tema medico dell'isolamento terapeutico, in Storia della follia, cit., parte
III, cap. 4: “Nascita del manicomio”, Foucault rintraccia l'origine dell'internamento psi-
chiatrico nella teoria del “trattamento morale” degli alienati, sviluppata in Francia da
Philippe Pinel (1745-1826) e in seguito da Jean-Étienne Esquirol (1772-1840), e la colle-
ga alle pratiche quacchere. È sulla base di princìpi analoghi che nel 1796, nei pressi di
York in Inghilterra, il quacchero William Tuke (732-1822) fonda il Ritiro, dove gli alie-
nati vivono isolati dal mondo esterno e secondo princìpi religiosi. Come nota Foucault,
Tuke sosteneva che: “Incoraggiare l'influsso dei princìpi religiosi sullo spirito dell'insen-
sato ha una grande importanza come metodo di cura” (Samuel Tuke [1784-1857], De-
scription of the Retreat, an Institution near York for Insane Persons, York 1813, p. 121,
citato da Foucault nella Storia della follia, cit., p. 670). Foucault commenta nel dettaglio
il Ritiro (ivi, pp. 657-681), “aspetto complementare” (p. 681) delle pratiche di Pinel.
Riguardo al tema sociologico della rottura con l'ambiente criminale, si potrebbe far ri-
ferimento ai dibattiti relativi alla legge sulla reclusione in celle del 1875, in cui si ritrova
una sintesi della teoria sociologica dell'ambiente sociale (cfr. Gabriel Tarde, La crimi-
nalità comparata [1886]; Le leggi dell'imitazione [1890]) e della nozione cristiana di
espiazione attraverso il ritiro spirituale in cella. I dibattiti relativi alla legge sulla reclu-
sione in celle individuali nel 1875 presentano il cellularisme, sulla scia delle teorie socio-
logiche della degenerescenza sociale, come mezzo per ostacolare il contagio criminale.
All'Assemblea nazionale il visconte d'Haussonville difende la sua proposta di legge inse-
rendola nella prospettiva della correzione morale della Francia: “Il nostro progetto pro-
viene da una preoccupazione analoga. La commissione [la commissione d'inchiesta par-
lamentare relativa agli istituti penitenziari, presieduta dal visconte d'Haussonville] ha
tratto ispirazione da un pensiero elevato, morale e cristiano” (seduta del 20 maggio
1875, “Annales de l'Assemblée nationale”, citato in R. Badinter, La prison républicaine
(1871-1914), Fayard, Paris 1992, p. 68). Foucault riprenderà questo parallelo con la di-
mensione morale del ritiro cristiano: “Solo nella sua cella, il detenuto è messo di fronte
una codificazione medica e sociologica della prigione, perché in origine la
prigione non compare nella direttrice dell'istituzione monastica come suo
sbocco ultimoa. È vero che in certa misura la Chiesa ha praticato una re-
clusione punitiva – ma in che misura precisamente? In realtà soltanto in
tre casi particolari. In primo luogo, come tutto il sistema penale dell'epo-
ca, ha praticato la reclusione non punitiva, cioè come pegno, per esempio
prima di portare qualcuno a giudizio, durante la reclusione inquisitoriale
o prima di consegnarlo alla giustizia temporale 5. In secondo luogo, tro-
viamo una reclusione punitiva, ma solo quando bisogna sottrarre gli ec-
clesiastici alla giustizia temporale; quindi la reclusione è sì una pena ca-
nonica, che si trova nelle diverse versioni del diritto canonico, ma è una
pena che è regredita molto dalla fine del Medioevo, e in Francia la reclu-
sione canonica diventa proibita per la Chiesa nel 1629 6. Nel terzo caso,
a se stesso; nel silenzio delle sue passioni e del mondo che lo circonda, egli si inoltra
nella sua coscienza, la interroga e sente risvegliarsi il sentimento morale che non perisce
mai interamente nel cuore dell'uomo” (Sorvegliare e punire, cit., p. 260, dove cita il
“Journal des économistes”, n. 2, 1842).
a Il manoscritto (fol. 5) aggiunge: “Non parlare di un modello monastico della prigione”.
5 Utilizzata molto presto dalla Chiesa, la pratica della detenzione preventiva ha un forte
sviluppo con l'instaurazione dell'Inquisizione nel XII secolo, che funziona in stretto rap-
porto con il potere secolare. Oltre a essere una misura di sicurezza, essa diventa quindi
uno strumento di pressione privilegiato per ottenere le confessioni. Su questo tema, cfr.
J. Giraud, Histoire de l'Inquisition au Moyen Age, A. Picard, Paris 1935-1938, 2 voll.,;
J.-G. Petit, N. Castan, C. Faugeron, M. Pierre, A. Zysberg, Histoire des galères, bagnes
et prisons. Introduction à l'histoire pénale de la France , prefazione di M. Perrot, Privat,
Toulouse 1991, pp. 26-28; J.B. Given, Dans l'ombre de la prison. La prison de l'Inquisi-
tion dans la société languedocienne, in I. Heullant-Donat, J. Claustre, É. Lusset (a cura
di), Enfermements. Le cloître et la prison (Vie-XVIIIe siècle), Publications de la Sorbon-
ne, Paris 2011, pp. 305-320. Inoltre, dal momento che la Chiesa si rifiutava di versare
sangue, quando un tribunale ecclesiastico pronunciava una pena capitale, i condannati
venivano consegnati al braccio secolare: cfr. J.-G. Petit et al., Histoire des galères, cit., p.
27.
6 Il ruolo delle giurisdizioni cattoliche non smette di diminuire a partire dal XVI secolo,
man mano che la loro competenza è rivendicata dalla giustizia regia; cfr. B. Garnot, Ju-
stice et société en France aux XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, Éd. Ophrys, Gap-Paris 2000,
p. 120. Il 20 luglio 1629, con l'editto di grazia di Nîmes, detto “pace di Alès”, Luigi XIII
determina la fine delle rivolte confermando il rispetto della religione protestante, garan-
tito dall'editto di Nantes (1598). L'editto restaura anche la libertà del culto cattolico
nelle regioni in cui predominano i protestanti e regola l'organizzazione della Chiesa. In
particolare sembra escludere la presenza – e a fortiori la reclusione – di laici nei mona-
steri, così come dei religiosi che non si conformano ai princìpi che regolano la loro vita
troviamo una reclusione religiosa e punitiva quando degli ecclesiastici o
dei laici saranno rinchiusi a livello punitivo in istituti come i conventi 7. È
il caso delle lettres de cachet, per esempio8. Ma vediamo comunque che la
reclusione punitiva non può essere considerata come una pratica genera-
le; per gli ecclesiastici è esistita solo nel Medioevo e, a parte loro, i prigio-
nieri venivano rinchiusi dal potere laico. Quindi non penso che si possa
all'interno di un ordine: “Ordiniamo tuttavia che in tutti i monasteri delle città rimesse
alla nostra obbedienza non potranno essere inseriti o stabiliti altr[i] religiosi oltre a
quelli che vivono nell'esatta osservanza della loro Regola, secondo le lettere che otter-
ranno da noi” (C. Bergeal, A. Durrleman, Protestantisme et libertés en France au XVIIe
siècle. De l'édit de Nantes à sa révocation 1598-1685 , La Cause, Carrières-sous-Poissy
2001, p. 71). Cfr AA.VV., Journal de France et des Français. Chronologie politique, cul-
turelle et religieuse de Clovis à 2000, Gallimard, Paris 2001; F.-O. Touati (a cura di),
voce “Règle”, in Vocabulaire historique du Moyen Âge, La Boutique de l'Histoire, Paris
2000 (1995, 1997).
7 Attestata a partire dal IV secolo (cfr. É. Lusset, Entre les murs. L'enfermement punitif
des religieux criminels au sein du cloître (XIIe-XVe siècle), in I. Heullant-Donat, J. Clau-
stre, É. Lusset [a cura di], Enfermements, cit., pp. 153-167), la reclusione punitiva presso
gli istituti monastici si sviluppa a partire dal VI secolo (cfr. J. Hillner, L'enfermement
monastique au Vie siècle, ivi, pp. 39-56, in particolare pp. 40-42), sia per i laici sia per i
religiosi, e si generalizza nel XII secolo con la costituzione degli ordini religiosi. Questa
reclusione, che varia da pochi giorni all'ergastolo, sanziona offese diverse a seconda dei
periodi e delle regioni. Si possono citare i seguenti casi: mancata confessione dei peccati
(cfr. J.-G. Petit et al., Histoire des galères, bagnes et prisons, cit., p. 26), disobbedienza
al potere secolare (cfr. P. Hatlie, The Monks and Monasteries of Constantinople, ca.
350-850, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 165, citato di J. Hillner, L'en-
fermement monastique, cit., p. 41) o la perpetrazione di “gravi crimini” (cfr. C. Vogel,
Les sanctions infligées aux laïques et aux clercs par les conciles gallo-romains et méro-
vingiens, in “Revue de droit canonique”, vol. II, 1952, pp. 186-188; A. Lefebvre-Teillard,
Les officialités à la veille du concile de Trente, “Revue internationale de droit comparé”,
n. 4, vol. XXV, 1973, p. 85, citato da V. Beaulande-Barraud, Prison pénale, prison péni-
tentielle dans les sentences d'officialité, in I. Heullant-Donat et al., Enfermements, cit.,
p. 290).
8 La reclusione di laici in comunità religiose, pratica eccezionale durante il Medioevo, è
stata utilizzata dal potere regio dalla fine del XVII secolo, soprattutto per la presenza di
istituti religiosi in tutto il regno. Secondo uno storico, “tra il 1778 e il 1784 queste
comunità [religiose] hanno rinchiuso il 30,9 per cento dei detenuti durante le lettres de
cachet” (C. Quétel, De par le Roy. Essai sur les lettres de cachet, Privat, Toulouse 1981,
pp. 174-175; cfr. Id., En maison de force au siècle des Lumières, in “Cahier des Annales
de Normandie”, n. 13, 1981, pp. 43-79). Studiando le lettres de cachet a Parigi, Frantz
Funck-Brentano stila una lista di “castelli, fortini, istituti religiosi e case private di
Parigi che ricevono dei pensionanti su ordine del re” nella seconda metà del XVIII
secolo; cfr. F. Funck-Brentano, Les lettres de cachet à Paris. Étude suivie d'une liste des
dire che la reclusione sia una laicizzazione di una pena cattolica. La pri-
gione non è il convento dell'era industriale9.
Detto questo, è comunque vero che la reclusione punitiva è nata ef-
fettivamente all'interno di ambienti religiosi, che però non sono solo
estranei alla forma monastica, ma anche del tutto opposti. La si trova in-
fatti, [in] forma nascente, in comunità non cattoliche come quelle dei dis-
senters protestanti anglosassoni, dal XVII secolo fino alla fine del
XVIII10. Prendo come esempio una di queste comunità che fu certamente
la più precoce, la più attenta nell'organizzazione di questa nuova forma
punitiva che è la prigione: la società dei quaccheri americani 11. Storica-
prisonniers de la Bastille (1659-1789), Imprimerie nationale, Paris 1903, pp. XXXVII-
XXXVIII. Tra i numerosi conventi, istituti religiosi e scuole cristiane, l'autore si
sofferma sul caso del convento dei Mathurines in rue des Postes: “Il regime dei
pensionanti era regolato dall'arcivescovo di Parigi. A lui competevano tutti i dettagli
dell'amministrazione interna. I detenuti vivevano in comune, uscivano in compagnia di
una suora portinaia, e la madre superiore riceveva in continuazione lettere scritte dai
mariti irritati per la libertà eccessiva concessa alle loro frivole spose” (ivi, p. XXXVII).
9 Sulla questione della laicizzazione della reclusione – dalla reclusione canonica alla re-
clusione penale – cfr. A. Porteau-Bitker, L'emprisonnement dans le droit laïque au
Moyen Âge, in “Revue historique de droit français et étranger”, n. 46, 1968, pp. 211-245
e 389-428; J. Leclercq, Le cloître est-il une prison?, in “Revue d'ascétique et de
mystique”, n. 188, vol. 47, ottobre-dicembre 1971, pp. 407-420.
10 Dissenters è un termine generico che designa i fedeli che operano una secessione da una
determinata Chiesa. Designa, più precisamente, le comunità protestanti formatesi in
opposizione alla dottrina e al potere della Chiesa anglicana. Cfr. B.R. White, The En-
glish Separatist Tradition: From the Marian Martyrs to the Pilgrim Fathers, Oxford
University Press, London 1971; M.R: Watts, The Dissenters, Clarendon Press, Oxford
1978, 2 voll.
11 La Società religiosa degli Amici (Society of Friends) si è formata tra il 1640 e il 1650,
soprattutto sotto l'influenza di George Fox (1624-1691); i suoi affiliati, i quaccheri, han-
no subìto diverse persecuzioni in Inghilterra durante la seconda metà del XVII secolo,
almeno fino al Toleration Act del 1689. Molti di loro, all'epoca, sono emigrati nella pro-
vincia di Pennsylvania, fondata nel 1681 dal quacchero William Penn. Cfr. W.C. Braith-
waite, The Beginnings of Quakerism, Macmillan and Col., London 1912; Id., The Se-
cond Period of Quakerism, Macmillan and Co., London 1919; H.H. Brinton, Friends
for 300 Years: The History and Beliefs of the Society of Friends since George Fox Star-
ted the Quaker Movement, Harper, New York 1952; P. Brodin, Les Quakers en Améri-
que du Nord: au XVIIe siècle et au début du XVIIIe, Dervy-Livres, Paris 1985. Foucault
aveva già studiato la storia dei quaccheri, il pensiero e gli scritti di Samuel Tuke, George
Fox e la Società degli Amici, nel contesto della nascita del manicomio; cfr. Storia della
follia, cit., pp. 657-681; tema ripreso in “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 128-
129 e sgg., e naturalmente in Sorvegliare e punire.
mente, le comunità dissidenti sono ostili al sistema penale inglese per di-
verse ragioni, e principalmente per ragioni di fatto: devono evitare che il
potere anglicano faccia presa sul loro sistema di moralità; ogni gruppo
deve darsi allora la propria legge e la relativa sanzione, cioè un sistema di
punizioni.
Per essere più precisi, a partire dal XVII secolo [fino alla fine del
XVIII], il Codice penale inglese è di un estremo rigore – in connessione
con i movimenti rivoluzionari che hanno luogo in quest'epoca –, al punto
che la pena di morte sanziona circa duecento casi di infrazione. Ora, al-
cune di queste comunità erano contrarie alla pena di morte. Inoltre,
quando i quaccheri si sono insediati in America, hanno voluto sfuggire al
sistema penale inglese ed elaborare un nuovo codice penale in cui la pena
di morte non doveva figurare. Si sono scontrati con il rifiuto degli ammi-
nistratori inglesi, conducendo una lotta sorda con l'amministrazione in-
glese fino all'Indipendenza. All'epoca dell'indipendenza della Pennsylva-
nia, la prima misura fu quella di limitare la pena di morte e di predispor-
re una nuova varietà punitiva in cui, oltre alle mutilazioni, alla flagella-
zione, ai lavori pubblici, rientrasse la prigione. Nel 1790 la pena di morte
è applicata soltanto in uno o due casi, mentre la pena fondamentale di-
venta la prigionea 12.
a Il manoscritto (fol. 7) aggiunge: “Poi, nel '90, soppressione dei lavori pubblici che sono
rimpiazzati dalla prigione”.
12 Nonostante il tentativo di Michel Le Peletier de Saint-Fargeau di abolire la pena di
morte, il Codice penale francese, adottato nel 1791 dall'Assemblea costituente, prevede
che essa possa essere comminata per sanzionare “trentaquattro crimini di natura politi-
ca oltre all'assassinio, l'avvelenamento, il parricidio e l'incendio” (J.-L. Halpérin, Hi-
stoire des droits en Europe de 1750 à nos jours, Flammarion, Paris 2004, p. 62). Contra-
riamente a quanto afferma Foucault, il Codice penale del 1791 prevede una “condanna
ai ferri”, disposizione centrale del suo arsenale repressivo, che secondo la definizione
dell'articolo 6 consisteva in: “Lavori forzati, a beneficio dello Stato, sia all'interno delle
case penali, sia nei porti e negli arsenali, sia per l'estrazione nelle miniere, sia per il risa-
namento delle paludi, sia infine per tutte le altre opere che richiedono fatica e che, su
domanda dei dipartimenti, potranno essere determinati dal corpo legislativo e sostituiti
con i lavori forzati nei bagni penali” (citato in P. Lascoumes, P. Poncela, P. Leonël, Au
nom de l'ordre. Une histoire politique du code pénal , Hachette, Paris 1989, p. 357). Dal
1792 questa condanna ai ferri è sostituita dai lavori forzati nei bagni penali; cfr. P. La-
scoumes et al., Au nom de l'ordre, cit., pp. 67-69; J.-L. Halpérin, Histoire des droits en
Così, se è vero che la forma-prigione non può essere derivata dalle
teorie penali di Beccaria, Brissot ecc., come istituzione e pratica, essa è
derivabile invece dalla concezione quacchera della religione, della morale
e del potere. Per i quaccheri, infatti, il potere politico nel suo funziona-
mento normale non dovrebbe avere altro fine né altra ragion d'essere se
non esercitare delle distinzioni morali: il potere è adeguato alla sua au-
tentica vocazione solo a patto di non essere altro che una forza coercitiva
e morale. Il potere deve essere morale ma, a eccezione di questa morale
del potere, ogni politica va bandita. Come dice Burroughs, il governo
deve “punire e sopprimere i malvagi”, deve essere grato e offrire delle ri-
compense “ a chi ha fatto del bene”; deve “proteggere la persona e i beni
degli uomini contro la violenza e i misfatti dei cattivi”13. La nozione fon-
damentale che giustifica il potere è quella di male a: soltanto perché c'è il
male e ci sono i malvagi, il potere si giustifica sopprimendoli e, al limite,
una volta soppressi i malvagi, deve sopprimersi anch'esso; resta così sol-
tanto la comunità dei giusti, che possono comunicare tra loro e fare
spontaneamente del bene insieme. Il carattere centrale del male b relativo
Europe, cit.
13 Nel manoscritto Foucault indica questo riferimento: “Burroughs (Works, pp. 247-
248)”. Cfr. E. Burroughs, The Memorable Works of a Son of Thunder and Consola-
tion: Namely That True Prophet, and Faithful Servant of God, and Sufferer for the Te-
stimony of Jesus, Edward Burroughs, Who Dyed a Prisoner for the Word of God in the
City of London, the Fourteenth of the Twelth Moneth, 1662, Ellis Hookes, London
1672, cap. X (“Concerning Governours, and Governments, and Subjection to them, this
testimony I give to the World [1657]”), p. 247: “Governours, Rulers, and Magistrates
[…] such as be a terrour to all evil in their Government, and that fears God and hates
covetousness, and delights in Equity, in Justice, and true Judgment, and gives diligent
heed to try the cause of the poor, and will judge justly, without respect of men, who ju-
stifies the good, and gives praise to the Well-doer; such Government and Governours we
reverence, where Sin and Iniquity is kept under, Drunkenness, Swearing, Murther,
Quarrelling, and all the ways and works of the flesh are terrified, and a Well-doer prai-
sed and justified; this Government of men reaches to the witness of God in every man,
and that answers to the justice and righteousness of all such Governours and Govern-
ment, and these witness that they are God”. Edward Burroughs (1634-1663) fu uno dei
fondatori del movimento quacchero; cfr. P. Brodin, Les Quaker en Amérique du Nord,
cit.
a Manoscritto (fol. 7): “Concezione morale del potere”. Nota a margine: “È l'esistenza
del male che fonda il potere”.
b Il manoscritto (fol. 7) aggiunge: “carattere essenziale della nozione di evil (evil men,
all'organizzazione politica è uno dei fondamenti della concezione quac-
chera della politica. Ora, abbiamo qui una definizione del crimine, del-
l'infrazione, che è opposta a quella che si può trovare in Beccaria o in
Brissot; nei riformatori, il problema era distinguere [chiaramente] l'infra-
zione dalla colpa e definire l'infrazione in rapporto alla società, qualun-
que fosse la legge della religione o la legge naturale imposta all'uomo;
l'infrazione, quindi, non può sovrapporsi alla colpa o al peccato, non è
un'infrazione morale ma un'infrazione contro la legge così come è formu-
lata dal sovrano e giustificata dall'utilità sociale 14. Per i quaccheri, invece,
punibile è innanzitutto il male così come è definito moralmente e religio-
samente.
Il problema che si pone quindi è questo: se è vero che il male esiste ed
è necessario un potere per tentare di riassorbirlo, con che diritto il potere
umano può ambire a un compito così smisurato come sopprimere il
male? Non è Dio stesso, che ha lasciato che il male si compisse, a doverlo
sopprimere? Se è vero che il male è universale, è ugualmente vero che le
vie della salvezza sono sempre, in ogni momento, aperte. Nessuno è dan-
nato a propri. Come dice Fox, “l'oceano di notte e di morte” è universale,
ma anche “l'oceano di luce e di amore” è universale e prevarrà 15; “ogni
uomo è illuminato [e] ho visto la luce divina brillare in ciascuno” 16. Per
evil doers)”.
14 M. Foucault, “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 131-133, in particolare p. 132:
“Una legge penale deve semplicemente rappresentare ciò che è utile alla società”.
15 George Fox (1624-1691, fondatore della Società degli Amici), An Autobiography, a cura
di R.M. Jones, Ferris and Leach, Philadelphia (Penn.) 1904, p. 87: “I saw, also, that there
was an ocean of darkness and death; but an infinite ocean of light and love, which flo-
wed over the ocean of darkness. In that also I saw the infinite love of God, and I had
great openings”; e p. 88: “For I had been brought through the very ocean of darkness
and death, and through and over the power of Satan, by the eternal, glorious power of
Christ”.
16 Ivi, p. 101: “Now the Lord God opened to me by His invisible power that every man
was enlightened by the divine Light of Christ, and I saw it shine through all”. Foucault
cita questo passaggio anche in Sorvegliare e punire, e lo collega direttamente alla com-
parsa della prigione nel New England: “'Ogni uomo – diceva Fox – è illuminato dalla
luce divina e io l'ho vista brillare attraverso ogni uomo'. È nella discendenza dei quac-
cheri e di Walnut Street che furono organizzate, a partire dal 1820, le prigioni di Penn-
sylvania, Pittsburg, poi Cherry Hill” (Sorvegliare e punire, cit., p. 260, nota 4).
cui Dio non si è allontanato da nessuno, ognuno può ritrovarlo; e, se il
bene è presente in ognuno, spetta a tutti assumersi il compito di far ri-
splendere e brillare questa luce. Il rapporto con Dio non ha quindi biso-
gno di essere mediato da oggetti e riti. La pietà non attiene a luoghi sa-
cralizzati o a momenti privilegiati; in ogni momento e in ogni luogo, im-
merso nella solitudine o in mezzo alla comunità, l'uomo può incontrare
Dio. Per cogliere questa luce in se stessi, ci vogliono due condizioni: la
rettitudine di uno spirito non turbato dalle passioni e dalle immagini del
mondo, e quindi il ritiro. Ma ognuno può essere aiutato a trovare la luce
che è in lui; da cui l'importanza della solitudine, del ritiro, ma anche del
dialogo, dell'insegnamento, della ricerca in comunea.
Si può far derivare allora da qui l'organizzazione della prigione di Fi-
ladelfia17, la cui descrizione si trova in un testo di La Rochefocauld-Lian-
court, Des prisons de Philadelphie (1796). È infatti una società di quac-
cheri che, dal 1780-1790, si fa [carico] dell'organizzazione e dell'ammini-
strazione della penalità in Pennsylvania. Ecco quali sono i princìpi, se-
condo La Rochefoucauld: bisogna “far dimenticare ai prigionieri tutte le
loro vecchie abitudini”18, cancellare in loro tutte le antiche passioni, le
dò la Scuola nazionale superiore delle arti e dei mestieri a Châlons. Monarchico, nel
1792 La Rochefoucauld-Liancourt emigra prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti
dove scrive questo libro sulle prigioni. Al ritorno in Francia, nel 1799, entra in politica,
diventa membro della Società della morale cristiana, a favore dell'abolizione della schia-
vitù, e partecipa a una commissione d'inchiesta sulle prigioni.
19 Ivi, p. 14. Cfr. anche supra […].
20 Ibid.
21 Ivi, p. 27.
a Il manoscritto (fol. 10) aggiunge:
“A questo regime corrisponde la creazione della prigione di Walnut Street. [L'organizza-
zione prevede] celle che si aprono ognuna su un piccolo giardino; [una] corte centrale
che permette la sorveglianza; [e] lavoro individuale per ogni prigioniero”.
e il crimine, la pena e la penitenza? Come spiegare l'emergere del termine
penitenziario per designare un'istituzione che sarà utilizzata da un siste-
ma penale per le sue punizioni? Siamo di fronte a un'eterogeneità: da una
parte, abbiamo un principio giudiziario, che è quello di una pena come
conseguenza dell'infrazione e per proteggere la società e, dall'altra, il
principio morale di una pena che sarebbe il processo di penitenza deri-
vante da una colpa. Questo determina un certo numero di conseguenze.
Innanzitutto, si avrà il primo vero innesto della morale cristiana nel
sistema della giustizia criminale, perché finora la giustizia criminale nel
mondo cristiano non era stata cristianizzata. Mi sembra che il cristianesi-
mo e il sistema penale siano sempre stati impermeabili l'uno all'altro. Al-
l'epoca in cui il crimine si definisce tramite la controversia e il problema è
appunto la liquidazione della vertenza e il risarcimento dell'infrazione, si
tratta di un sistema penale che non è omogeneo in sé al sistema cristiano.
In un'epoca successiva, alla fine del Medioevo, in cui si vede apparire il
sovrano come colui che è sempre offeso assieme alla vittima del contra-
sto, c'è una pratica del diritto criminale che ritorna alla concezione roma-
na del crimen maiestatis e non una penetrazione del diritto da parte del
cristianesimo22. Il vero processo che ha portato dal diritto germanico del
risarcimento delle controversie al diritto del XVII secolo non è un proces-
so di cristianizzazione: è il problema del prelievo fiscale lungo l'intera
22 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., pp. 51-53. Il delitto di maestà, che diventerà delitto di
lesa maestà, nella Repubblica romana designa ogni attacco ai magistrati del popolo ro-
mano, poi, durante l'impero e soprattutto con lo sviluppo del culto imperiale sotto Ti-
berio, la nozione sanziona anche l'empietà contro l'imperatore. Caduta in disuso all'ini-
zio del Medioevo, la nozione di crimen maiestatis è reinvestita dal potere regio con la ri-
scoperta del diritto romano, ma mantiene una certa vaghezza. Alla fine del Medioevo
subisce un significativo ampliamento, caratterizzato dalla sua depersonalizzazione: “È
lo statuto del re a essere in causa e non la persona stessa del sovrano che bisogna pro-
teggere tramite una definizione estensiva di lesa maestà” (J. Hoareau-Dodineau, Dieu et
le Roi. La répression du blasphème et de l'injure au roi à la fin du Moyen Âge , Presses
universitaires de Limoges, Limoges 2002, pp. 169-211, in particolare p. 205). Cfr. Y.
Thomas, L'Institution de la Majesté, in “Revue du synthèse”, n. 3-4, 1991, pp. 331-386;
J. Chiffoleau, “Sur le crime de majesté médiéval”, in AA.VV., Genèse de l'État moderne
en Méditerranée. Approches historique et anthropologique des pratiques et des repré-
sentations, École française de Rome, Roma 1993, pp. 183-213.
procedura penale che ha determinato un certo numero di trasformazioni,
come la quasi-statalizzazione della giustizia in Francia, senza che il cri-
stianesimo abbia avuto nulla da dire in merito23. L'antico diritto germani-
co è stato fiscalizzatoa.
D'altronde, non si vede perché la Chiesa in quanto tale avrebbe dovu-
to cercare di confiscare per sé la giustizia laica, visto che aveva le proprie
istanze di controllo, i propri meccanismi di repressione e di punizione, le
proprie procedure fiscali. Il suo interesse, sia come istituzione sia come
unità ideologica, escludeva il tentativo di fondersi all'interno dei meccani-
smi della punizione laica, di confondere in una stessa punizione le pene
giudiziarie e le pene religiose. Questa confusione avviene invece nel XVIII
secolo, in un cosiddetto momento di decristianizzazione. E questo primo
innesto della morale cristiana sulla pratica giudiziaria non si attua a livel-
lo dei princìpi. Non è grazie a una penetrazione ideologica che la coscien-
za cristiana fa irruzione nel sistema penale. È b dal basso, all'ultimo stadio
del processo penale: la prigione, la punizione. Se la coscienza cristiana
penetrerà in esso, lo farà attraverso l'invasione del penitenziario nel pena-
le e nel giuridico nella sua interezza. La confusione, mai avvenuta, ma
sempre sul punto di realizzarsi, tra il crimine e il peccato ha il suo luogo
di possibilità nella prigionec. Si è prodotta così questa colpevolizzazione
del crimine i cui effetti si fanno sentire in altri ambiti: psichiatria, crimi-
nologia.
In secondo luogo, se è vero che la prigione funziona proprio a partire
dal modello della Pennsylvania, il problema della conoscenza del prigio-
niero in quanto tale diventa un problema centrale. In questo sistema, la
funzione della prigione, infatti, non è di assicurare in maniera pura e
semplice che la pena abbia avuto luogo e sia stata comminata fino in fon-
23 Cfr. J.R. Strayer, Le origini dello stato moderno, cit., pp. 79-80.
a Manoscritto (fol. 11), a margine: “Fiscalizzazione della giustizia criminale piuttosto che
una cristianizzazione del diritto germanico o romano”.
b Il manoscritto (fol. 11) aggiunge: “la sua strana localizzazione”. A margine: “La risalita
del penitenziario a partire dalla base”.
c Manoscritto (fol. 11): “Si spiega così la disposizione in celle della prigione”.
do, ma allo stesso tempo di raddoppiare tutto lo svolgimento della pena
con una sorveglianza che riguarda non solo il suo compimento, ma le tra-
sformazioni interiori del prigioniero lungo la durata della pena. La pena
non è più soltanto un atto che si compie, è un processo che si svolge e di
cui bisogna controllare gli effetti su colui che ne è l'oggetto: “Il constable
[poliziotto] che scorta il prigioniero, fa agli ispettori un breve resoconto
del crimine, delle circostanze aggravanti o attenuanti, del processo, degli
eventuali delitti o crimini di cui era stato accusato in passato, infine del
carattere di quest'uomo per com'era conosciuto nel periodo precedente
della sua vita. Questo resoconto, inviato dalla corte che ha emesso il giu-
dizio, pone gli ispettori nella condizione di farsi una prima opinione del
nuovo prigioniero, e della sorveglianza più o meno attenta che richiede24.
In questo programma della conoscenza che bisogna farsi del prigio-
niero, del criminale come oggetto di sapere, spicca un certo numero di
elementi che avranno una grande importanza storica: la necessità di un
casellario, di un dossier giudiziario, di una biografia, di un'osservazione
del carattere dell'uomo, di ispettori con compiti di sorveglianza, vale a
dire il controllo penale e la sorveglianza della trasformazione medica e
religiosa. Questa istituzione apre quindi tutto un campo di saperi possibi-
li. Ora, è proprio in quest'epoca che compare la struttura ospedaliera che
dà luogo allo spazio istituzionale in cui l'uomo sarà conosciuto in quanto
corpo. Ed è sempre in quest'epoca che nascono al tempo stesso i fonda-
menti di quella che diventerà la scienza anatomofisiologica dell'uomo e di
qualcosa come la psicopatologia, la criminologia e la sociologia: l'ospe-
dale è per il corpo quello che la prigione è per l'anima.
In terzo luogo, infine, vediamo come è possibile comprendere la pre-
senza rilevante dell'uomo religioso all'interno della prigione. Che la reli-
gione accompagni la pena è infatti un fenomeno nuovo. La pena diventa
penitenza e il sistema penale si va cristianizzando. È un fenomeno nuovo
perché non si tratta più della posizione del prete di fronte alla pena di
25 Cfr. N.H. Julius, Leçons sur les prisons, cit. Nel manoscritto (fol. 13) Foucault fa riferi-
mento, oltre a Julius, anche a “Charles Lucas”; cfr. supra […].
tutte le istituzioni penali dal punto di vista [della] scienza penitenziaria.
Allora il problema è di sapere come questo piccolo modello, nato dall'al-
tra parte dell'Atlantico, abbia potuto ritrovarsi più o meno negli stessi
anni nel mondo europeo. Qual è lo sfondo economico, politico e sociale
che ha reso possibile l'emergenza del penitenziario e questa ricristianizza-
zione progressiva del criminea?
Ho insistito sul fatto che la prigione era nata nell'elemento del peni-
a
***
a Il manoscritto (fol. 5) fa riferimento alla “Proclamation Society” e alla “Society for the
Suppression of Vice (che arrivò a contare 600 membri)”.
10 Cfr. soprattutto: Society for the Suppression of Vice, The Constable's Assistant: Being
a Compendium of the Duties and Powers of Constables and Other Police Officers, 1808
(edizioni ampliate: 18183, 18314); cfr. M. Foucault, “La verità e le forme giuridiche”,
cit., pp. 139-140.
b Il manoscritto (fol. 6) aggiunge:
“– dopo le grandi sommosse economiche, religiose, politiche di fine secolo (Gordon
Riots)
– e per combattere l'influsso giacobino”.
11 Nel mese di giugno 1780, a Londra scoppiarono i Gordon Riots, dopo il rigetto da par -
te della Camera dei comuni di una petizione che si opponeva alle concessioni accordate
ai cattolici, e in particolare alla loro ammissione in Parlamento. Nei giorni successivi si
ebbero numerosi atti di violenza, diretti essenzialmente contro i ricchi cattolici e i rap-
presentanti del potere. Le autorità londinesi di Wilkes, in conflitto con il potere regio,
intervennero solo tardivamente, quando i rivoltosi attaccarono la Banca d'Inghilterra. Il
nome delle sommosse deriva da Lord George Gordon, presidente dell'Associazione pro-
1780 gli abitanti dei quartieri di Londra si organizzano in pattuglie e assi-
curano sorveglianza e ordine morale; il reclutamento avviene essenzial-
mente tra i notabili e l'alta borghesia a 12. In parallelo c'è tutta una lettera-
tura che incoraggia queste società. Va notato che, vent'anni dopo, questi
notabili troveranno una formula completamente diversa: utilizzare pro-
prio la gente più povera per svolgere questi compiti; avranno così inventa-
to la polizia.
Infine, in quarto luogo, gruppi a carattere essenzialmente economi-
co: una sorta di polizia privata incaricata di sorvegliare il patrimonio
borghese nelle forme nuove in cui esso si trova esposto in pieno periodo
di sviluppo economico (magazzini, docks, strade). Così, alla fine del
XVIII secolo, le compagnie di navigazione creano a Londra una specie di
polizia di sorveglianza del porto.
A cosa reagisce questa proliferazione di società di ordine morale? È
un periodo di sviluppo economico, quindi innanzitutto di spostamento
della popolazione. Lo sviluppo economico sconvolge le vecchie organiz-
zazioni territoriali – borghi, tribunali di pace, parrocchie – svuotandole
della loro popolazione. Mentre all'opposto, in alcune grandi città, gruppi
di individui non organizzati si riversano in centri urbani che non possono
testante, che rimise la petizione alla Camera, e alle cui arringhe è stata imputata una
grave responsabilità nell'esplosione di violenza. Cfr. E.P. Thompson, Rivoluzione indu-
striale e classe operaia in Inghilterra, cit., vol. I, pp. 71-72; G. Rudé, The Gordon Riots:
A Study of the Rioters and their Victims, in “Transactions of the Royal Historical So-
ciety”, quinta serie, n. 6, 1956, pp. 3-114; C. Hibbert, King Mob: The Story of Lord
George Gordon and the Riots of 1780, Sutton Publishing, Stroud 2004 [1958]. Foucault
menzionerà di nuovo i Gordon Riots in Sorvegliare e punire, cit., p. 15.
a Il manoscritto (fol. 6) indica alcuni esempi:
“– Dopo i Gordon Riots (1780) gli abitanti ['principals'] di St. Leonard si organizzano
in pattuglie di 10-14 persone. Chiedono di essere armati. Il governo incoraggia tutte le
'persons of note';
– City Association, Horse and Men. Light Horse Volunt[eer]s, London Military Foot
Association, London Artillery Company;
– Hanway (in un libro del 1775 riedito nel 1780) propone milizie di 23 persone, ' opulent
and of the community'”.
12 Cfr. J. Hanway, The Defects of Police. The Cause of Immorality and the Continual
Robberies Committed: Particularly in and about the Metropolis, J. Dodsley, London
1775 (citato in Sorvegliare e punire, cit., pp. 134 e 139).
inquadrarli all'interno delle proprie organizzazioni né assimilarli. Ma ol-
tre allo spostamento degli uomini, allo stesso tempo c'è anche il fatto che
la ricchezza si è fissata in altri modi: il capitale è stato investito sempre
più in macchine e in scorte. La divisone del lavoro fa sì che la circolazione
di grandi quantità di merci, in stadi successivi di elaborazione e trasfor-
mazione, porti a localizzarle in punti sempre più concentrati – depositi,
docks – e così, nel momento stesso in cui il modo di produzione capitali-
stico si sviluppa, il capitale si trova esposto a una serie di rischi molto
meno controllabili di prima. Il capitale, infatti, si espone non solo al bri-
gantaggio, al saccheggio, come in precedenza, ma al quotidiano depreda-
mento da parte di persone che vivono grazie a esso, in contatto con esso a.
Il depredamento da parte di chi manipola questa ricchezza esposta in
modi nuovi, a causa della divisione del lavoro e dell'ampliamento dei
mercati e delle scorte, è una delle ragioni per cui bisognerà instaurare un
altro ordine, un'altra maniera di controllare le popolazioni e di impedire
la pratica del trasferimento della proprietà. Il problema è quello dell'in-
quadramento morale delle popolazioni: bisogna riformare i loro costumi
in modo da ridurre i rischi assunti dal patrimonio borghese.
Il regime inglese, però, non sembra offrire tali garanzie. A causa del-
la debolezza del potere centrale, da una parte c'è una microterritorialità
degli organismi giudiziari e degli strumenti della penalità, che non posso-
no spostarsi per seguire i movimenti della ricchezza, e dall'altra un codice
penale di estremo rigoreb, istituito nel XVII secolo quando il potere regio
cerca di recuperare il proprio prestigio aumentando la severità delle leggi,
e che, funzionando secondo il principio del tutto o niente, è totalmente
inadatto e sfugge anche a coloro che vogliono servirsene 13. Così, le giuri-
della religione: tutto il resto è un puro e semplice inganno. È orribile chiamarli 'lavora-
tori un tempo felici'” (corsivo nel testo).
16 A. Boadman, “On Population”, “Essay XXV”, in Georgical Essays, a cura di A. Hun-
ter, T. Wilson e R. Spence, York 1804, vol. V, pp. 394-404, qui p. 398: “The difficulty is,
how to prevail upon a people, who have been long accustomed to a life of idleness, ex-
travagance, and dissipation, to overcome its allurements, and to lead with steadiness
and perseverance a life of temperance, moderation, and virtue. This, indeed, is difficult,
but absolutely necessary”.
a Dattiloscritto (p. 89): “in gruppi come i quaccheri, i metodisti”. Visto il contesto, che si
riferisce alle associazioni di sicurezza in Inghilterra, e non solo ai gruppi religiosi prece-
denti, citiamo il manoscritto (fol. 9).
religiosa ma quasi una dissidenza penale, giudiziaria. Ora, alla fine del
XVIII secolo, l'obiettivo di queste società si modifica, nello stesso mo-
mento in cui cambia il loro reclutamento sociale: si attivano affinché ven-
gano sanciti nuovi decreti, nuove leggi, per far intervenire il potere giudi-
ziario come talea. Esse intervengono come gruppi di pressione sul potere,
e non più [in quanto] gruppi di autodifesa rispetto al potere.
Infine, al livello del loro oggetto: all'inizio del secolo, esse si propone-
vano fondamentalmente di controllare gli elementi emarginati, disturba-
ti, agitati, vagabondi ecc.; alla fine, l'oggetto designato su cui bisogna
esercitare il controllo morale sono le “classi inferiori” in quanto tali. Leg-
giamo per intero la frase di Burke: “Pazienza, laboriosità, fatica, frugalità
e rispetto della religione, ecco cosa bisogna insegnare”, è questo che “si
deve raccomandare ai poveri che faticano”17. All'inizio del secolo non si
parlava che di poveri, di coloro che non lavoravano (oziosi, disoccupati);
ora, si tratta della classe operaia che si sta formando. E nel 1804 il vesco-
vo Watson, predicando davanti alla “Società per la soppressione del vi-
zio”, diceva: “Le leggi sono buone; ma sono sempre eluse dalle lower
classes; mentre le higher classes le considerano meno di zero (for
nought)”18. Ora, tra queste classi c'è una differenza, nel senso che Watson
a Il manoscritto (fol. 10) aggiunge due esempi: “ottenere una legge sulla domenica” e “ot-
tenere l'organizzazione di una polizia dei docks”.
17 E. Burke, Pensieri sulla scarsità, cit., p. 28. Foucault gioca sulle parole di Burke, che
aveva scritto questo passaggio precisamente contro il linguaggio “dei poveri che fatica-
no”. All'epoca, nel 1795, in un periodo di carestia, Burke era impegnato in un dibattito
con William Pitt sul ruolo del governo e degli intellettuali – e più precisamente sul lin-
guaggio degli intellettuali e degli uomini politici – nei confronti dei lavoratori. Il para-
grafo di Burke sulla pazienza, il lavoro e la frugalità comincia proprio con una confuta-
zione del linguaggio “dei poveri che faticano”: “Non c'è nulla di più basso e malvagio
dell'ipocrita linguaggio politico: 'i poveri che faticano'. Lasciamo che la compassione
venga dimostrata con i fatti – e più sono meglio è – e ciascuno lo faccia secondo le pro-
prie capacità, ma senza compiangere le condizioni dei poveri. Il compianto non arreca
sollievo alla loro situazione di miseria; è solo un insulto alla loro scarsa capacità di ca-
pire” (ivi, pp. 27-28; corsivo nel testo). Lo storico marxista inglese E.P. Thompson, nel
1963, ha messo a confronto le osservazioni di Burke con i lavori di Patrick Colquhoun,
in particolare quelli che riguardano l'analisi della questione della delinquenza e delle so-
cietà per la soppressione del vizio; cfr. E.P. Thompson, “Le roccaforti di Satana”, in La
classe operaia inglese, cit., vol. I, pp. 57-58.
18 R. Watson, “Sermon VII. Let us not be weary in well-doing”, in Miscellaneous Tracts
si augura che anche le classi superiori osservino le leggi; non perché le
leggi siano generali, ma perché, siccome le leggi sono rivolte essenzial-
mente alle classi inferiori, il fatto che le classi superiori le rispettino costi-
tuisce, attraverso l'esempio, lo strumento grazie a cui si potrà farle osser-
vare anche a quelle inferiori19. L'obbedienza dei Grandi non è un fine in se
stessoa; la loro immoralità non è un problema in sé – rischia di diventarlo
nella misura in cui il loro esempio finisce per essere un pretesto per le lo-
wer classes per non osservare le leggi20. E in un discorso pubblico della
“Società per la soppressione del vizio”, nel 1802, le cose sono ancora più
chiare: si tratta non solo di controllare moralmente le classi inferiori e la-
voratrici, ma di controllarle politicamente, in funzione dei rischi di rivol-
taa 21.
on Religious, Political, and Agricultural Subjects, 2 voll., T. Cadell and W. Davies, Lon-
don 1815, qui vol. I, p. 537: “The laws are good: but they are eluded by the lower clas-
ses, and set at nought by the higher”. Richard Watson (1737-1816), vescovo di Llandaff,
pronuncerà questo sermone rivolto alla “Società per la soppressione del vizio” presso la
chiesa parrocchiale; cfr. Id., “A sermon preached before the Society of the Suppression
of Vice, in the Parish Church of St. George, Hanover Square, on Thursday the 3 rd of
May 1804; to which are added the Plan of the society, a summary of its proceedings,
and a list of its members”, T. Woodfall, London 1804; cfr. anche M. Foucault, “La veri-
tà e le forme giuridiche”, cit., p. 142.
19 Cfr. R. Watson, “Sermon VII”, cit., pp. 537-538: “I would be ashamed to recommend
from this place the Suppression of Vice amongst some, if I did not recommend it's sup-
pression amongst all; being sensible that the good example of their superiors would be
of more efficacy in suppressing the Vices of the lower orders, than the very best execu-
tion of the very best laws even can be”.
a Il manoscritto (fol. 10) aggiunge: “è uno strumento per far obbedire gli inferiori”.
20 Cfr. ivi, pp. 539-540: “The suppression of Vice, though it may through your perserve-
rance, when assisted by others who shall concur with you, be very extensive; yet it is not
the only good which will be derived from your Association. The very circumstances of
near a thousand persons becoming, 'in the midst of a crooked and perverse generation,
shining lights', to conduct men […] – to conduct such unhappy, comfortless, benighted
travellers into the narrow path which leads to Heaven; this is of itself a proof that Reli-
gion has not yet left the land”.
a Il manoscritto (foll. 10-11) sviluppa questo passaggio in forma di citazione: “In un di-
scorso pubblico della Società per la soppressione del vizio (1802): 'Tutti i problemi di se-
dizione, o tutte le questioni politiche dovrebbero essere scoperti dalla vigilanza della So-
cietà; essa ne informerà i magistrati o gli agenti del governo il cui ruolo è di prendere
atto delle offese contro lo Stato'”.
21 Society for the Suppression of Vice, “Part the first, of an address to the public, from
the Society for the Suppression of Vice, instituted, in London, 1802: setting forth, with
Abbiamo quindi un doppio movimento: da una parte, attraverso
questi gruppi di controllo e di sorveglianza, una congiunzione di morale
e penale. Ora, nella teoria del diritto criminale che appare alla fine del
XVIII secolo con Beccaria e Bentham, tra la colpa e l'infrazione si crea
una rottura. Tutti i teorici del diritto penale separano le due cose: secon-
do loro, le leggi non devono punire la condotta morale delle persone, esse
riguardano soltanto l'utilità della società e non la moralità degli indivi-
dui. Ma nella stessa epoca nasce tutta questa pratica di sorveglianza
spontanea organizzata da alcuni gruppi e, in definitiva, da una classe sul-
l'altra, tutta una sorveglianza che tenta di rimoralizzare la penalità inve-
stendola di una specie di atmosfera morale, e che cerca, in breve, di met-
tere in continuità il controllo e la repressione [di ordine] morale da una
parte, e la sanzione penale dall'altra. Si assiste, dunque, a una moralizza-
zione del sistema penale, a dispetto della sua pratica e del suo discorso.
Tutto questo movimento permette alla penalità di diffondersi ampiamen-
te nel quotidiano. Dall'altra parte, e allo stesso tempo, vi è un secondo
movimento, molto importante, attraverso cui l'esigenza di moralizzazio-
ne si sposta verso lo Stato: un movimento di statalizzazione. Sono le clas-
si più elevate, in quanto controllano il potere, a essere portatrici di tale
esigenza, mentre le classi lavoratrici e inferiori diventano il punto in cui si
applica questa moralizzazione della penalità. Allo Stato si richiede di di-
ventarea lo strumento di moralizzazione di queste classi.
In breve, avviene una moralizzazione della penalità; una distribuzio-
ne delle classi da una parte e dall'altra di questa moralità penale; e una
statalizzazione degli strumenti di quest'ultima. Un esempio di questo mo-
vimento è dato dal personaggio di Colquhoun22, perché attraverso la sua
a list of the members, the utility and necessity of such an institution, and its claim to
public support”, printed for the Society, London 1803, p. 58, nota *: “All cases of sedi-
tion, or others of a political nature, should such occasionally be disclosed by their vigi-
lance, tehy will transmit to the Magistrates, or to the officers of government, whose pe-
culiar duty it is, to take cognizance of offences committed against the state”.
a Il manoscritto (fol. 12) aggiunge: “(attraverso le leggi che delibera, o la polizia che fon-
da)”.
22 Patrick Colquhoun (1745-1820), in collaborazione con Jeremy Bentham, fondò la Tha-
opera vediamo inscriversi ciò che determinerà la morale occidentale –
purtroppo quando si insegna la morale, quando si fa la storia della mora-
le, si spiegano sempre i Fondamenti della metafisica dei costumi23 e non si
legge questo personaggio fondamentale per la nostra moralità. Inventore
della polizia inglese, questo mercante di Glasgow vi fa ritorno dopo un
soggiorno in Virginia, e diventa presidente della Camera di commercio;
poi si installa a Londra, dove nel 1792 alcune società di navigazione gli
chiedono di risolvere il problema della sorveglianza dei docks e della pro-
tezione del patrimonio borghese. [È un] problema essenziale, [come si
vede nel caso del] fratello di Bentham24; per comprendere il sistema di
moralità di una società, bisogna porre la domanda: dove sta la ricchezza?
La storia della morale deve ordinarsi interamente in base alla domanda
sulla localizzazione e lo spostamento della ricchezza.
Nel 1795 Colquhoun scrive A Treatise on the Police of the Metropo-
lis25, in cui si trovano teorizzati e sistematizzati i princìpi che guidano
queste societàa. Il primo principio è che il fondamento di un sistema pe-
nale debba essere la moralità. Nella stessa epoca in cui Beccaria, Brissot
ecc.b dicono che non c'è alcun rapporto tra la morale e la legge, Colqu-
houn scrive: “Nulla contribuisce di più a depravare lo spirito del popolo
che la poca considerazione che le leggi mostrano per la moralità; inflig-
mes River Police, la prima polizia regolare in Inghilterra, incaricata di proteggere i beni
dei commercianti del porto di Londra sul Tamigi. È considerato quindi come uno degli
inventori della polizia moderna in Inghilterra, per aver posto i fondamenti di quella che,
trent'anni dopo, sotto l'impulso di Robert Peel, diverrà la nuova polizia di Londra. Col-
quhoun è l'autore del testo del 1797 su cui Foucault si basa qui, A Treatise on the Police
of the Metropolis, H. Fry, London 1797.
23 I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785).
24 Cfr. supra […].
25 P. Colquhoun, Traité sur la police de Londres, contenant le détail des crimes et délits
qui se commettent dans cette capitale, et indiquant les moyen de le prévenir, tradotto
dalla stessa edizione inglese da L.C.D.B. Léopold Collin, Paris 1807, 2 voll. Non sembra
che Foucault sia ritornato sull'aspetto morale dell'opera di Colquhoun in Sorvegliare e
punire, sebbene la citi in diversi punti (cfr. pp. 94, 128, 315).
a Il manoscritto (fol. 12) precisa che Colquhoun è “legato alle sette religiose” e “incarica-
to a titolo semiprivato della polizia dei docks, che egli riorganizza completamente”.
b Il manoscritto (fol. 13) aggiunge qui il nome di Bentham: “Opposizione diretta con Bec-
caria, Bentham”.
gendo pene più severe a coloro che commettono quelli che si possono
chiamare crimini politici e crimini contro la proprietà rispetto a coloro
che offendono la religione o la virtù” 26. E nel momento stesso in cui Col-
quhoun contraddice la teoria del diritto penale, ne rovescia le proposizio-
ni, perché aggiunge che la legge sarà utile alla società solo nella misura in
cui prenderà in considerazione la moralità c 27. Mentre Beccaria dice che la
legge non ha a che fare con la morale nella misura in cui essa non riguar-
da che l'interesse della società, Colquhoun afferma che la legge ha a che
fare con l'interesse sociale nella misura in cui sanziona la moralità:
“Quando si è rinunciato alle virtù particolari, si è facilmente portati a
violare la fedeltà verso il sovrano” 28; “Le leggi sono armate contro i pote-
ri della ribellione, ma non forniscono gli strumenti per opporsi ai suoi
princìpi”29.
Secondo principio: se la legge deve occuparsi innanzitutto della mo-
ralità e se questa è essenziale alla salvezza dello Stato e all'esercizio della
sua sovranità, ci vuole un'istanza che sorvegli non l'applicazione delle leg-
gi, ma in primo luogo la moralità dei cittadini. Le leggi sono allora ciò
che dà a tali organismi di sorveglianza la possibilità di intervenire e di
agire al livello della moralitàa: “Dovunque ci sarà una buona polizia, si
vedrà regnare l'ordine e la sicurezza; senza di essa, ci si deve aspettare sol-
tanto confusione, disordine, violenza e crimine” 30. È necessario “un prin-
26 P. Colquhoun, Traité sur la police de Londres, cit., vol. II, pp. 44-45.
c Il manoscritto (foll. 13-14) dice: “il principio secondo cui il controllo della moralità è
ancora la migliore protezione possibile per lo Stato”.
27 Cfr. ibid.: “L'unico mezzo, quindi, per assicurare la pace della società e prevenire crimi-
ni più gravi è di indurre, attraverso punizioni più leggere, all'osservanza dei doveri reli-
giosi e morali; in caso contrario, le leggi si limiteranno a essere deboli protettrici dello
stato, delle persone e delle proprietà”.
28 Ivi, p. 49. Nel manoscritto (fol. 13) Foucault menziona un'altra citazione, che non è poi
ripresa durante la lezione: “L'uomo la cui morale è pura è sempre un soggetto irrepren-
sibile in tutti i regimi, e raramente si sono visti criminali di stato che abbiano vissuto
per molto tempo senza essere puniti per delle offese particolari” (ivi, p. 47).
29 Ivi, p. 48.
a Manoscritto (fol. 14): “È necessario un organismo di Stato per controllare la moralità.
Ed è la polizia”.
30 Ivi, p. 300.
cipio attivo capace di concentrare e di riunire l'intera polizia b della capi-
tale e del regno, e di ridurne l'amministrazione generale a un sistema me-
ticoloso, attraverso l'istituzione di un'agenzia superiore composta da per-
sone capaci, intelligenti e infaticabili”31.
Terzo principio: questa agenzia avrà come bersaglio le lower classes.
“Ogni qual volta che gli operai si raduneranno in gran numero in uno
stesso luogo, ci saranno necessariamente molti cattivi soggetti, che con la
loro condotta turbolenta, essendo più facile tramare e complottare grazie
a questa adunanza in spazi ristretti […], potranno nuocere alla cosa pub-
blica”32. Complotti politici, concentrazione di operai nelle fabbriche, nel-
le città operaie: ci sono tutti i temi della polizia del XIX secolo. Come ag-
giunge Colquhoun, la polizia “è una scienza assolutamente nuova nell'e-
conomia politica”33.
Da ciò possiamo trarre una serie di [conclusioni]. In primo luogo,
siamo di fronte a un processo di sovracodificazione etico-penale che av-
viene nel corso del XVIII secolo. I suoi agenti sono gruppi più o meno
spontanei, che però, sviluppandosi poco alla volta e accostandosi alle
classi superiori, e quindi al potere, finiscono per trasmettere allo Stato
stesso e a un organismo specifico – la polizia – il compito di esercitare
tutto un insieme di controlli sulla vita quotidiana. Lo Stato diventa per-
ciò l'agente essenziale della moralità, della sorveglianza e del controllo
etico-giuridico. In secondo luogo, si possono intuire i legami tra questi
movimenti e lo sviluppo del capitalismoa; la progressiva applicazione di
questo controllo esclusivamente alle classi inferiori e, in definitiva, agli
operai; i legami tra questo processo e la lotta contro le nuove forme di de-
predamento collegate ai nuovi rischi assunti dalla ricchezza che si sta ca-
b Secondo il dattiloscritto (p. 94), Foucault dice: “la sorveglianza” invece che “la polizia”,
che è il termine usato nel manoscritto (fol. 14) e nella traduzione citata.
31 Ivi, p. 32 (corsivo nell'originale).
32 Ivi, p. 300 (seguito della nota 1 a p. 298).
33 Ivi, p. 299 (seguito della nota 1 a p. 298).
a Il manoscritto (fol. 16) aggiunge: “più precisamente la predisposizione degli strumenti
politici del capitalismo”.
pitalizzandob. In terzo luogo, bisogna inoltre osservare che, dietro alle in-
terdizioni propriamente legali, si assiste allo sviluppo di tutto un gioco di
costrizioni quotidiane che riguardano i comportamenti, i costumi, le abi-
tudini, e che hanno come effetto non di sanzionare qualcosa come un'in-
frazione, ma di agire positivamente sugli individui, di trasformarli moral-
mente, di ottenere una correzione. Quindi, ciò che si predispone non è
soltanto un controllo etico-giuridico, un controllo statalizzato a vantag-
gio di una classe, ma è qualcosa come l'elemento del coercitivo. Abbiamo
a che fare con una coercizione diversa dalla sanzione penale, è quotidia-
na, riguarda i modi d'essere e tenta di conseguire una certa correzione de-
gli individui. Il coercitivo è ciò che stabilisce una connessione tra morale
e penalità. Ha di mira non solo le infrazioni degli individui, ma la loro
natura, il loro carattere. E deve usare come strumento una sorveglianza
permanente e fondamentalec. Ora, il coercitivo è molto vicino e omoge-
neo a ciò che ho chiamato il penitenziario. Il penitenziario, che si costrui-
sce attraverso le prigioni, in fondo è come il prolungamento, la sanzione
“naturale” [tramite il] coercitivo. Quando questo incontra il suo limite e
deve passare dalla pedagogia alla punizione, produce il penitenziario che
riprende le funzioni del coercitivo, ma facendole agire all'interno di un si-
stema punitivo che è la prigioned. La prigione è il luogo in cui i princìpi
generali della coercizione, le forme, le tesi e le condizioni di quest'ultima
sono concentrati a uso di coloro che hanno cercato di sfuggire alla coerci-
zione. Essa è il raddoppiamento in forma penitenziaria del sistema della
coercizione.
Si può così iniziare a rispondere alla domanda: in che modo la pri-
gione, con il suo orizzonte penitenziario e nata in una comunità religiosa
così singolare e localizzata, ha potuto avere [una tale] diffusione e assu-
mere l'ampiezza istituzionale che le è riconosciuta? La condizione di ac-
b Il manoscritto aggiunge (fol. 16): “tutto ciò lo prova a sufficienza. Ma bisognerà analiz-
zarlo più da vicino”.
c Manoscritto (fol. 16): “permanente e totale”.
d Manoscritto (fol. 17): “Il passaggio dal coercitivo al suo regime di punizione produce il
penitenziario”.
cettabilità della prigionea è proprio il coercitivo. Se la prigione, con le sue
particolarità geografiche e religiose, ha potuto inserirsi nel sistema pena-
le, è perché il capitalismo, nel predisporre le sue forme specifiche di pote-
re politico, ha utilizzato la coercizione. Ci sono dunque due insiemi: l'in-
sieme penale, caratterizzato dall'interdetto e dalla sanzione, dalla legge; e
l'insieme punitivo, caratterizzato dal sistema coercitivo penitenziario. Il
primo insieme porta con sé una certa teoria dell'infrazione come atto di
ostilità verso la società; il secondo porta con sé la pratica della reclusio-
ne. Il primo insieme si deduce, in maniera archeologicamente corretta,
dall'istituzionalizzazione statale della giustizia, che fa in modo che a par-
tire dal Medioevo ci sia una pratica della giustizia ordinata secondo l'e-
sercizio del potere politico sovrano: ciò comporta delle procedure di in-
quisizione, l'intervento di un personaggio come il procuratore ecc. Da
tutto questo insieme pratico è derivata una teoria dell'infrazione come
atto di ostilità verso il sovrano. L'altro insieme si forma in un movimento
di sviluppo non dello Stato stesso, ma del modo di produzione capitalisti-
co; in questo secondo sistema, il modo di produzione si dà gli strumenti
di un potere politicob, ma anche di un potere morale. Il problema, genea-
logico quindi, è di sapere come questi due insiemi, di origine diversa, si
siano congiunti e abbiano funzionato all'interno di un'unica tattica34.
In quarto luogo, all'interno di alcuni gruppi si è realizzata la connes-
sione tra punitivo e penalea. Sono stati questi gruppib non conformisti e
religiosi ad aver imposto tale connessione allo Stato, dall'interno, esigen-
do che lo Stato la garantisse. Essi si proponevano di moralizzare la socie-
tà, senza far conto sullo Statoc, oppure con il suo aiuto qualora avesse ac-
cettato. Così, mentre cercavano di moralizzare la società, è successo che
a Il manoscritto (fol. 17) aggiunge: “(e del sistema penitenziario collegato a essa)”.
b Il manoscritto (fol. 17) aggiunge: “nuovo”.
34 Sulla giustapposizione dell'archeologia e della genealogia, cfr. supra […].
a Manoscritto (fol. 18): “Importanza di questi gruppi attraverso i quali si è operata la
connessione tra punitivo e penale, tra coercitivo e proibito, tra penitenza e sanzione”.
b Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “(perlomeno in Inghilterra)”.
c Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “o almeno sul sovrano”.
di fatto hanno statalizzato la morale, facendo diventare lo Stato l'agente
principale della moralizzazione.
***
Esiste una specie di simmetria storica tra la dissidenza del XVIII se-
colo e il movimento attuale di “dissidenza morale” in Europa e negli Stati
Uniti. In un certo senso, i [movimenti] che lottano per il diritto all'abor-
to, alla costituzione di gruppi sessuali diversi dalla famiglia, all'impro-
duttivitàd – cioè tutti quelli che lottano per la decolpevolizzazione delle
infrazioni penali e contro l'attuale funzionamento del sistema penale –
fanno un lavoro simmetrico a quello svolto nel XVIII secolo dagli agenti
della dissidenza religiosa, che si proponevano il compito di associare mo-
rale, produzione capitalista e apparato di Stato 35. I gruppi attuali hanno
la funzione di disfare tutto ciò. In questo si distinguono dai “non-confor-
misti”, cioè da coloro che, in nome della trasgressione, ignorano la legge
o preferiscono considerarla come inesistente. I primi hanno come punto
di attacco quel luogo che è l'intreccio tra una morale, una serie di rappor-
ti di potere specifici della società capitalista e gli strumenti di controllo
assicurato dallo Statoa. Lottare contro la coercizione non equivale a in-
frangere l'interdetto, una cosa non può sostituire l'altra. Praticare la tra-
sgressione significa rendere, per un istante, in un luogo, per una persona,
d Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “il diritto all'omosessualità” e “il diritto alla droga”.
35 In quanto membro del Gruppo di informazione sulla sanità, Foucault verrà coinvolto
nelle questioni del diritto all'aborto; cfr. “Convoqués à la PJ” (testo firmato da M. Fou-
cault, A. Landau e J.-Y. Petit, in “Le Nouvel Observateur”, n. 468, 29 ottobre-4 novem-
bre 1973, p. 53), in DE, n. 128, ed. 1994, vol. II, pp. 445-447; ed. 2001, vol. I, pp. 1313-
1315; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, “Convocati alla polizia giudiziaria”, in Discipli-
ne, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti, Genova-Milano 2008, pp. 17-20.
a Il manoscritto (fol. 19) aggiunge:
“Si tratta di disfare tutto ciò che i 'dissidenti' del XVIII secolo avevano annodato (mora-
le, difesa della produzione capitalista, controllo di Stato). Di sciogliere ciò attraverso
cui il modo di produzione capitalista si è organizzato in un sistema di potere”.
inesistente e impotente la legge36; entrare in dissidenzab significa attaccare
questa connessione, questa coercizione.
Pensiamo al manifesto dei medici che praticano l'aborto e alla rispo-
sta del ministro Foyer, che è stata quanto meno straordinaria: è del tutto
fuori luogo – ha detto – che il manifesto dei medici sia apparso in perio-
do elettorale, perché il problema dell'aborto è un problema di legislazione
e quindi deve essere affrontato con calma e ponderazione; dal momento
che è un problema di legislazione, non si può porlo in periodo elettora-
le37. Le cose stanno così, quindi: in un regime in cui i deputati non sono
altro che dei legislatori e vengono eletti, un ministro non vuole che il pro-
blema sia trattato da coloro che eleggono i legislatori. I deputati devono
essere eletti senza che i loro elettori abbiano posto loro questo problema.
Riguardo all'aborto, si mette in atto proprio una distanza morale: dicen-
do che potranno occuparsene soltanto i deputati eletti, ma non coloro
che li eleggono, il potere intende dire che l'aborto, in quanto problema
etico-giuridico, deve rimanere fuori dalla scelta esplicita degli individui,
fuori dalla stessa volontà della nazione. Mentre la Costituzione può esse-
ANNESSO
Il manoscritto della sesta lezione termina con cinque fogli non numerati, in cui si legge:
a Il manoscritto (fol. 1) ha come titolo: “La grande ascesa delle virtù in Inghilterra”, che
si collega alla lezione precedente.
golari, ma la classe dei lavoratori, e così, alla fine del XVIII secolo, le
cose si dispongono in modo tale che il controllo si eserciti globalmente
da parte di una classe sociale sull'altraa.
***
a Il manoscritto (fol. 5) riporta la seguente lista relativa alla “situazione del XVIII
secolo”:
“a. feudalizzazione e appropriazione privata della giustizia attraverso la venalità delle
cariche;
b. alleanza tra questa giustizia feudalizzata e gli altri strati della popolazione contro la
fiscalità di Stato;
g. movimenti popolari, di fronte a cui questa giustizia è impotente quando non è in
parte complice;
d. intolleranza generale della popolazione; intervento armato; conseguenza reiterata di
questa 'giustizia armata';
e. messa a punto della tecnica: prelievo/reclusione”.
1 Cfr. M. Foucault, “Théorie et institutions pénales”, cit., sesta lezione, foll. 18-19 (nel
XVII secolo viene messo in atto “il prelievo sulla popolazione pericolosa”: “Sottrarre, o
minacciare di sottrarre una parte della popolazione non ha gli inconvenienti economici
dell'invasione”); settima lezione, fol. 2.
2 Cfr. M. Foucault, “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 142-143.
b Il manoscritto (fol. 4) aggiunge: “Con il luogotenente generale di polizia. Polizia a ca-
vallo. Capo della polizia a cavallo”. A margine: “sorveglianza generale; interventismo”.
stare a metà tra il giudiziario e il non-giudiziario; da una parte, i luogote-
nenti di polizia e gli intendenti hanno il diritto di intervenire, almeno su
alcune questioni, al posto dell'apparato giudiziario ordinario e di prende-
re un certo numero di decisioni propriamente giudiziarie per conto e al
posto del sistema giudiziario: per esempio, l'ufficiale, l'intendente di poli-
zia hanno il diritto di agire per vie giudiziarie nei casi di vagabondaggio.
Dall'altra parte, i luogotenenti, gli intendenti hanno poteri paragiudiziari
[perché], pur senza osservare alcuna forma di giustizia e senza prendere
vere e proprie decisioni giudiziarie, hanno il diritto di applicare delle mi-
sure amministrative: estradizione, bando, reclusione a. Questo sistema è
durato relativamente a lungo e ha avuto un accertato successo visto che
alcuni, tra cui Colquhoun, volevano venisse adottato in Inghilterra. Inol-
tre, questo sistema, malgrado la destrutturazione generale durante la Ri-
voluzione, è stato grosso modo rimesso in funzione molto presto, già dal
Termidoro. Meno costoso dell'intervento armato e più discreto, esso re-
sta comunque pesante. È infatti uno strumento di prelievo fiscale esteso a
tutte le classi sociali. Ed è inoltre un apparato che priva del loro potere
giudiziario, e dunque politico, tutta una serie di persone, in particolare
gli elementi della feudalità sopravvissuti e i parlamentarib.
Ma allora perché questo sistema è stato così tollerato? La sua forza e
la sua sottigliezza derivavano dal fatto che, a dispetto delle apparenze,
era un sistema a doppia entrata. Mi sembra infatti che, affinché un appa-
rato di Stato repressivo possa effettivamente funzionare, deve essere tolle-
***
Nella storiografia del XIX secolo, la lettre de cachet passa per essere
il simbolo di un potere autocratico, arbitrario 4: è la presenza stessa del re
e del suo potere fin dentro la vita quotidiana degli individui; attraverso di
essa i segni della monarchia penetrano l'esistenza quotidiana degli uomi-
ni. Ora, mi sembra che queste lettere abbiano una funzione del tutto di-
versa e non circolino dall'alto verso il basso. Qual è infatti il meccanismo
amministrativoa della lettre de cachet? Si tratta di una decisione del re che
riguarda un caso individuale, e dunque non può avere valore universale. E
3 Foucault si interessò molto presto alle lettres de cachet e, più in generale, agli archivi
dell'internamento dell'Ospedale generale e della Bastiglia, a partire dalla fine degli anni
cinquanta, mentre scriveva Storia della follia, cit., pp. 222-224 e 594. I temi ripresi in
questa lezione risalgono a quell'epoca: la lettre de cachet come “pratica popolare”, “ri-
chiesta dal basso”, che riflette quindi “un processo che va dal basso verso l'alto” e non è
un esercizio di potere monarchico arbitrario; nove anni dopo, descriverà “la straordina-
ria bellezza di questi testi” (estratto sonoro dai “Lundis de l'histoire” sulle lettres de ca-
chet con Arlette Farge, Michelle Perrot, André Béjin e Michel Foucault, 1982,
http://michel-foucault-archives.org/La-vie-des-hommes-infames). Cfr. Le désordre des
familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille , con una presentazione di A. Farge
e M. Foucault (Gallimard, Paris 1982), in cui questi temi saranno sviluppati e documen-
tati; cfr. p. 10: “Ora la lettura di questi incartamenti ci ha messo sulle tracce non tanto
della collera del sovrano, quanto delle passioni del popolo minuto, al centro delle quali
troviamo le relazioni familiari – mariti e mogli, genitori e figli”. Questo centro di inte-
resse si inscrive nel quadro più ampio del lavori d'archivio: la documentazione raccolta
su Pierre Rivière nel 1973; il progetto di un'“antologia dell'esistenza” su “La vie des
hommes infames” nel 1977 (in “Les Cahiers du chemin”, n. 29, 15 gennaio 1977, pp. 12-
29), in DE, n. 198, ed. 1994, vol. III, pp. 237-253; ed. 2001, vol. II, pp. 237-253; trad. it.
di A. Petrillo, “La vita degli uomini infami”, in Archivio Foucault 2, cit., pp. 245-262; la
collana “Les vies parallèles”, creata nel 1978 presso le edizioni Gallimard, in cui usci-
ranno le memorie di Herculine Barbin, personaggio all'epoca accusato di “ermafroditi-
smo maschile” (Herculine Barbin, dite Alexina B; trad. it. di B. Schisa, Herculine Bar-
bin detta Alexina B. Una strana confessione, Einaudi, Torino 2007); come pure, nel
1979, i manoscritti crittografici (BnF) di Henry Legrand, Le cercle amoureux, tradotto e
presentato da Jean-Paul Dumont e Paul-Ursin Dumont.
4 Foucault riprenderà questa analisi in Sorvegliare e punire, cit., pp. 233-234.
a Manoscritto (fol. 8): “il loro meccanismo se non 'giudiziario', perlomeno amministrati-
vo”.
se si tralascia un numero limitato di lettere inviate personalmente dal re e
per sua iniziativa allo scopo di sbarazzarsi di personaggi ritenuti perico-
losi, la maggior parte è sollecitata dagli individui, dalle famiglie, dai
gruppi religiosi, dai notabili, dagli uomini di legge (notai ecc.), dalle cor-
porazioni. Spesso, quindi, è da un livello basso della scala sociale che
partono alcune lettere: azzeccagarbugli, gente di campagna, commercian-
ti, artigiani. La si richiede all'intendente se si abita in provincia, al luogo-
tenente di polizia se si vive a Parigi. Viene inoltrata attraverso la media-
zione di vicedelegati. Senza bisogno di avvertire la Casa Reale, in genere
luogotenente e intendente avviano un'indagine sulla situazione di chi la
richiedea all'interno del suo ambiente. La decisione viene elaborata, quin-
di, al livello di una certa opinione popolare; una volta conclusa l'indagine
e se è confermata la legittimità della domanda, [allora] essi si rivolgono
alla Casa Reale che concede la sua firmab.
[In termini di] circuito amministrativo, quindi, la lettera è un proces-
so che nasce ed è autentificato dal basso. L'unica cosa che si richiede c è un
atto di potere, che in una monarchia così centralizzata non può che veni-
re dall'alto e portare il marchio del re. Si richiede l'intervento di un potere
sovrano per servirsene in via provvisoria, per ottenere che il potere arrivi
fino al richiedente e gli permetta, attraverso questa derivazione, di eserci-
tare, in nome del re, una specie di potere sovrano grazie al quale si può
[procedere all'] esilio, [alla] reclusione del vicino, del parente ecc. In certo
modo è un'appropriazione temporanea del potere regio con i suoi segni e
i suoi marchi al livello dei poteri locali, dei gruppi, degli individui. E l'in-
dizio che la lettre de cachet non sia qualcosa come l'espressione folgoran-
te del potere regio che attraversa la società e si abbatte su un individuo,
ma un processo circolare che va dal popolo al popolo, consiste nel fatto
a Il manoscritto (fol. 9) aggiunge: “dal vicedelegato che si informa presso le persone che
frequentano il supplicante (i suoi vicini, il curato, i notabili della zona, la
corporazione)”.
b Il manoscritto (fol. 9) aggiunge: “e la lettera (mai firmata davvero dal re in persona) è
inviata”.
c Manoscritto (fol. 10): “si chiede il marchio del re, come marchio di un potere, di una so-
vranità interamente presente nel re”.
che colui che richiede la lettera è generalmente lo stesso che paga il man-
tenimento di colui che è rinchiuso, quindi non il re; allo stesso modo, la
revoca di una lettera avviene raramente su iniziativa del re, ma grazie al-
l'intervento dell'intendente o del luogotenente che si preoccupano di con-
sultare chi l'ha richiesta. Così non c'è una decisione arbitraria del re per
rinchiudere e nemmeno per liberare.
Ora, a che riguardo si richiede una lettera, dal momento che essa
comporta una punizione? Essenzialmente nel caso di sanzioni laterali che
concernono determinati comportamenti che il Codice penale non defini-
sce come infrazioni, ma che i singoli, i micropoteri locali (parrocchie,
corporazioni ecc.) non possono ammettere: infedeltà coniugale, dissolu-
tezza, sperpero del patrimonio, vita irregolare, agitazione, vale a dire le
due grandi categorie del disordine e della violenza 5. Si tratta inoltre di
punire per vie paragiudiziarie dei casi che rientrano nella legge, ma ai
quali non è necessario applicare la pena: per esempio la stregoneria, che
pone così tanti problemi all'esercizio della giustizia, per cui la maggior
parte delle streghea è oggetto di lettres de cachet e rinchiusa. Ci sono infi-
ne dei casi che rientrano nelle lettere perché non esiste ancora una giuri-
sdizione o una giurisprudenza per regolarli. Così, anche i primi conflitti
di lavoro sono regolati dalle lettere. Appaiono verso il 1724-1725 con la
ripresa economica, e durante lo sciopero dei tipografi a Parigi: intorno al
5 Cfr. Storia della follia, cit., p. 222 (la famiglia, i vicini, l' entourage, il curato della par-
rocchia fanno domanda sulla base delle lagnanze o delle preoccupazioni per il disordi-
ne, lo scandalo, la follia, il crimine); “La vita degli uomini infami”, cit., p. 255 (le lettres
de cachet riguardano oscure storie di violenza e di disordine nelle famiglie): “Sposi bef-
fati o battuti, fortune dilapidate, conflitti d'interesse, giovani indocili, bricconate o be-
vute, e tutti i piccoli disordini della condotta”; l'inchiesta che seguiva “doveva stabilire
se una dissolutezza o un'ubriachezza, se una violenza o un libertinaggio meritassero
davvero l'internamento, e in quali condizioni, e per quanto tempo: compito della poli-
zia, che raccoglieva a questo fine testimonianze, spiate, e tutto quel mormorio dubbio
che si addensa attorno a ognuno”; A. Farge, M. Foucault, Le desordre des familles, cit.,
p. 9: “Abbiamo anche scoperto che, in molti casi, queste richieste erano formulate sulla
base di affari di famiglia e del tutto privati: conflitti minori tra genitori e figli, screzi
matrimoniali, cattiva condotta di un coniuge, disturbi in un ragazzo o in una ragazza”.
a Il manoscritto (fol. 10) precisa che la durezza della legge si applica tanto alle “strege”
quanto ai “sodomiti”.
1723 i mastri tipografi avevano preso l'abitudine di far venire dalla Ger-
mania degli operai pagati meno degli operai francesi, il che provocò uno
sciopero animato soprattutto da un giovane tipografo, Thouinet 6. Sono
gli stessi mastri tipografi che, violando le regole della giurisprudenza cor-
porativa, nel 1724 fanno appello al luogotenente di polizia per far rin-
chiudere Thouinet. Liberato piuttosto rapidamente, viene esiliato a qua-
ranta leghe da Parigi e allora domanda al luogotenente di ritornare a Pa-
rigi per poter esercitare il suo mestiere. Il luogotenente di polizia chiede il
parere dei mastri tipografi, che rifiutano di revocare la lettre de cachet.
Con le lettres vengono arrestati anche alcuni operai orologiai, catturati
all'estero, per impedire loro di espatriare.
La lettre de cachet, quindi, provenendo dal basso, serve ad assumere
il controllo di tutto ciò che il sistema penale tradizionale si lascia sfuggi-
re. Essa in pratica produce la reclusionea: otto lettere su dieci richiedono
questa punizione. Ora, la reclusione non avviene all'interno delle prigio-
ni, ma per metà negli istituti religiosi in gran parte destinati a questa fun-
zione, e in istituti laici, alcuni dei quali sono ospedali generali, case priva-
te o case di forza7. Vediamo qui la filiazione storica della clinica psichia-
trica. Infatti, le prime cliniche per malattie nervose, che si vedono compa-
rire alla fine del XVIII secolo, dal punto di vista geografico e istituzionale
6 In effetti Germain Martin, nel suo studio La grande industrie en France sous le règne de
Louis XV, Albert Fontemoing, Paris 1900, pp. 323-324, scrive: “Le lettres de cachet con-
tribuiranno a mantenere l'ordine. Qualche anno più tardi [dopo alcune suppliche analo-
ghe nel 1720], bisogna infierire contro Thouinet, garzone tipografo. Non è forse vero
che osa diminuire il salario? I padroni si rivolgono al Guardasigilli che chiede 'che que-
sto garzone stampatore sia arrestato, come esempio'. Viene incarcerato il 16 novembre,
e il 4 febbraio 1725 viene trasferito a quaranta leghe da Parigi, per sei mesi. Ma il rap-
presentante della libreria richiede che gli venga interdetto per sempre il soggiorno nella
capitale. Questo apprendista 'complottava' e 'distribuiva al pubblico libri molto
malvagi'”. Martin cita: “Arch. de la Bastille, 10858” e Franz Funck-Brentano, La que-
stion ouvrière sous l'Ancien Régime d'après les dossiers provenant des prisonniers par
lettres de cachet, Paris 1802, pp. 2 sgg. (il nome “Thouinet”, tuttavia, non compare in F.
Funck-Brentano, Les lettres de cachet à Paris. Étude suivie d'une liste des prisonniers de
la Bastille (1659-1789), Imprimerie nationale, Paris 1903).
a Il manoscritto (fol. 11) aggiunge: “(a volte anche il trasferimento, o l'interdizione di an-
dare in un luogo)”.
7 Cfr. supra […].
sono collegate a questi istituti. Inoltre, la reclusione qui non funziona
come una pena: non sanziona una colpa e la sua durata non è fissata in
anticipo; deve durare fino a quando non si produce un certo cambiamen-
to nell'individuo, finché egli non abbia manifestato il suo pentimento e
cambiato le proprie predisposizioni. D'altronde è questa la giustificazio-
ne fornita da chi richiede la lettera, e anche l'internato, nella richiesta di
revoca, invoca la correzione che è avvenuta in luia.
Si tratta dell'abbozzo di quello che sarà un cambiamento fondamen-
tale. La pena, infatti, nell'economia classica del sistema penale ha proprio
lo scopo di cambiare qualcosa, ma dove e in che cosa? Di cambiare qual-
cosa nelle predisposizioni degli altri, attraverso l'esempio. È su coloro che
non hanno ancora commesso il crimine che la pena, nel sistema classico,
deve produrre i suoi effetti. La funzione preventiva della pena si basa es-
senzialmente sugli altri, per mezzo dell'esempio. Qui, invece, nasce l'idea
di un internamento che deve agire fintanto che non saranno cambiate le
predisposizioni, non degli altri, ma di colui che ha commesso la colpa.
Questo nuovo orientamento del sistema punitivo si discosta dal meccani-
smo del sistema penale. Attraverso di esso passerà tutta la moralizzazio-
ne, la psicologizzazione della pena nel XIX secolo.
Quindi, con la lettre de cachet a esprimersi non è tanto l'intervento
di un potere assoluto, ma un certo consenso morale che risiede nelle fa-
miglie, nelle comunità locali. Da qui deriva il carattere polimorfo, ambi-
guo di ciò che è al tempo stesso rifiutato e condannato da questi consen-
si, che fanno in modo che le lettere designino e rigettino in una grande
confusione ed eterogeneità tutta una categoria di individui: gli agitati, i
malati, chi ha commesso una colpa. Ecco, per esempio, una lettera del
luogotenente di polizia indirizzata al ministro della Casa Reale, risalente
alla fine del XVIII secolo: “Ieri hanno condotto allo Châtelet la moglie di
***
a Il manoscritto (fol. 3) aggiunge: “nel caso di una contestazione e se una delle due parti
richiede una verifica”.
b Il manoscritto (fol. 3) aggiunge: “i quali spesso non sapevano leggere e non avevano
strumenti di misura”.
c Il manoscritto (fol. 3) aggiunge: “evitavano la marcatura, valutavano insieme la qualità,
la quantità, il prezzo”.
In secondo luogo, è un illegalismo sistematico, nella misura in cui è
quasi un modo di funzionamento della società intera. L'illegalismo popo-
lare, infatti, va in coppia con quello dei commercianti, l'illegalismo degli
affari. Di fronte a esso c'è anche l'illegalismo dei privilegiati che sfuggono
alla legge per statuto, per tolleranza, per eccezione. Tra questo illegali-
smo privilegiato e l'illegalismo popolare esiste un certo numero di rap-
porti, alcuni dei quali sono in antagonismo. L'illegalismo popolare, infat-
ti, diminuisce in proporzione la rendita feudale o, indirettamente, i prelie-
vi dello Stato. Ma d'altra parte questo antagonismo non è radicale e trova
alcuni accomodamenti. Così, durante una parte del XVII secolo, né la
nobiltà né i grandi possidenti hanno fatto molte pressioni affinché i loro
diritti fossero effettivamente rispettati. Preferivano ottenere direttamente
dalla Corte determinati privilegi: esenzione dalle imposte, vitalizi, van-
taggi materiali ecc. Il loro illegalismo compensava e si adattava così all'il-
legalismo di coloro di cui erano i signori. Questo reintroduceva nuove
contraddizioni su un altro livello poiché, per far sì che lo Stato potesse
pagare queste rendite e accordare questi vantaggi, bisognava che i diritti
non entrassero in un cortocircuito eccessivo al livello delle entrate dello
Stato.
Nel XVII secolo ci sono dunque tre tipi di illegalismo che giocano gli
uni contro gli altri: popolare, affarista, privilegiato. A cui bisogna ag-
giungerne un quarto, che fa funzionare il sistema: quello del potere a. I
rappresentanti diretti del potere – intendenti, vicedelegati, luogotenenti
di polizia – sono stati spesso percepiti come gli agenti del potere arbitra-
rio, ma di fatto, più che gli agenti dell'arbitrio o della rigida legalità, era-
no gli arbitri dell'illegalismo. Così, nelle innumerevoli condanne di arti-
giani, spesso accadeva che i rappresentanti del potere regio intervenissero
per ridurre le ammendeb. Bois cita il caso di ammende di cento lire ridot-
a Il manoscritto (fol. 5) aggiunge: “sempre che questo termine abbia senso in una monar-
chia assoluta senza istanza legislativa in senso proprio”.
b Il manoscritto (fol. 5) aggiunge: “in funzione degli interessi, delle pressioni, dei rischi di
agitazioni”.
te a una lira o a qualche soldo6. Il potere, quindi, interveniva come rego-
latore di questi illegalismi, che giocavano gli uni con gli altria.
In terzo luogo [questo illegalismo] è al tempo stesso economico e po-
liticob. Certo, quando una legge viene aggirata, quando si stabilisce una
relazione di mercato che sfugge al sistema regolamentare, si potrebbe dire
che non vi è nulla di politico, che si tratta solo di un gioco di interessi
economici. Cionondimeno ogni volta che si cortocircuita una legge, che
si viola un regolamento, a essere attaccate non sono tanto le cose ma il
prelievo su di esse, l'operazione di potere che si esercita su di esse, l'istan-
za regolamentare. Per cui tra l'illegalismo propriamente economico e la
violazione quasi politica dell'autorità del potere c'è un continuum, e nel-
l'illegalismo popolare del XVIII secolo è difficile discernere tra i due c. Si
possono comunque vedere le due estremità. C'è un momento, infatti, in
cui questo illegalismo ricade in quella che è propriamente la delinquenza
comune: la carcerazione per ammenda conduce al contrabbando, al vaga-
bondaggio, alla mendicità ecc. Al polo opposto, questo illegalismo incli-
na verso la lotta più propriamente politica quando assume forme colletti-
ve contro misure nuove [legate] al danno economico: è il caso dello scio-
pero delle imposte, il saccheggio delle riscossioni, la sedizione 7. Dietro a
tutto questo, la borghesia occupa una posizione ambigua: sostiene queste
lotte anti-legali nella misura in cui la favoriscono, le scarica quando rica-
dono nella criminalità del diritto comune o quando prendono la forma di
18 Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., [lezione] del 14 gennaio 1976, pp.
34-36, e in particolare p. 36: “La borghesia se ne infischia completamente dei delinquen-
ti, della loro punizione o del loro reinserimento, che economicamente non ha molta im-
portanza, ma si interessa invece all'insieme dei meccanismi con cui il delinquente è con-
trollato, seguito, punito, riformato. Un insieme da cui deriva, per la borghesia, un inte-
resse che funziona all'interno del sistema economico-politico generale”.
delle sue proprietà era quella di ricondurre in prigione chi ne fosse uscito.
Il grande circolo della recidività è stato immediatamente percepito e rico-
nosciuto; bisognava infatti stabilire un circuito chiuso della delinquenza
affinché essa si distaccasse dal grande substrato dell'illegalismo popolare.
Così, la reclusione di qualcuno deve essere intesa in due sensi: la prigione
è dove si rinchiudono i delinquenti, ma è anche il sistema con cui si rin-
chiuderà la delinquenza come una specie di fenomeno sociale autonomo,
preso in se stesso. L'altro mezzo consiste nel mettere in concorrenza tra
loro i delinquenti e coloro che non lo sono. Per questo motivo il lavoro
nelle prigioni è stato presentato come qualcosa che faceva concorrenza al
lavoro operaio. Nelle prigioni del XIX secolo, le condizioni materiali in
cui si trovavano i detenuti non erano peggiori delle condizioni abitative e
di sussistenza degli operai: anche questa specie di concorrenza nella mise-
ria è stata uno dei fattori della spaccatura. Infine, il mezzo principale è
stato sviluppare rapporti di ostilità reale tra delinquenti e non-delinquen-
ti. Da cui derivano il fatto di aver privilegiato i delinquenti nel recluta-
mento della polizia e il fatto che l'esercito, da Napoleone in poi, è stato
un mezzo per assorbire la delinquenza nella società e per servirsi di colo-
ro che avevano rifiutato l'etica del lavoro che si cercava di inculcare negli
operai, contro gli operai stessi durante gli scioperi e le rivolte politiche.
Prigione, colonie, esercito, poliziaa: sono stati altrettanti mezzi per
spezzare l'illegalismo popolare e impedire che le sue tecniche fossero ap-
plicate alla società borghese. Certo, questi mezzi non hanno assorbito
completamente l'illegalismo economico (distruzione delle macchine), so-
ciale (costituzione di associazioni), civile (rifiuto del matrimonio) b, politi-
co (sommosse). Ecco perché il problema dell'illegalismo resta comunque
all'ordine del giorno nella storia della classe operaia nel XIX secolo, ma
questa storia è diversa da quella del XVIII secolo. Nel XVIII secolo esso
funziona assieme all'illegalismo borghese in un rapporto complesso; nel
XIX secolo, invece, l'illegalismo operaio è il grande bersaglio di tutto il
a Manoscritto (fol. 17): “Prigione, colonie, esercito, polizia: rifiuto dell'etica del lavoro”.
b Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “illegalismo morale”.
sistema repressivo della borghesia. E si può dire che la forza dell'ideologia
anarchica è legata alla persistenza e al rigore di questa coscienza e di que-
sta pratica illegaliste nella classe operaia – persistenza e rigore che né la
legalità parlamentare né la legalità sindacale riusciranno a riassorbire.
Lezione del 28 febbraio 1973
1 Cfr. M. Foucault, “A proposito della reclusione penitenziaria”, cit., p. 129: “Sotto l' an-
cien régime, la ricchezza era essenzialmente terriera e monetaria. […] Ma nel momento
in cui la ricchezza borghese è stata impiegata su così gran scala in un'economia di tipo
industriale, cioè direttamente impiegata in officine, utensili, macchinari, materie prime,
stock, e tutto questo è stato affidato alle mani della classe operaia, la borghesia ha lette-
ralmente messo la sua fortuna tra le mani dei ceti popolari”.
a Il manoscritto (fol. 2) aggiunge:
“e [perché] a questa ricchezza così distribuita nello spazio, gli operai hanno applicato
delle forme di illegalismo derivanti dall'illegalismo antico. Porto di Londra: le tecniche
del contrabbando che attaccavano i diritti, i canoni, le imposte, insomma i prelievi del
potere, ora attaccano la materialità del patrimonio borghese. Colquhoun, testi sul con-
trabbando”.
b Nel manoscritto (fol. 2), questo passaggio, presentato sotto forma di una replica della
borghesia, finisce con: “Andate e fate penitenza”.
2 P. Colquhoun, Traité sur la police de Londre, cit., vol. II, p. 165 (corsivo nell'originale).
con la fortuna borghese è la legge di proprietà: “Questo non è tuo”. A
dire il vero, questo strato di popolazione è molto circoscritto se compara-
to all'insieme demografico del XVIII secolo. Ora, è possibile spiegare un
fenomeno tanto generale come il costituirsi di una nuova penalità a parti-
re dal solo esempio di questo embrione di classe operaia? Non significa
attribuire a una “grande paura”, quella che in effetti si diffonderà nel
XIX secolo, un processo che in realtà è avvenuto nel XVIII secolo?
Farò allora riferimento a un esempio di illegalismo rurale e in esergo
a questa analisi metterò un testo che compare in un opuscolo anonimo:
“Il contadino è un animale cattivo, astuto, una bestia feroce, civilizzata
solo a metà; non ha né cuore, né probità, né onore; molto spesso si lasce-
rebbe trascinare dalla ferocia, se gli altri due stati non si abbattessero
spietatamente su di lui impedendogli di eseguire il crimine che vorrebbe
commettere”3.
***
a
Nella sua forma rurale, l'illegalismo popolare subisce la stessa tra-
sformazione dell'illegalismo urbano. Nel XVIII secolo era un elemento
funzionale della vita contadina. Tutta una serie di tolleranze permetteva-
no la sussistenza della frangia più povera: campi a maggese, terreni incol-
ti, beni comuni costituivano, dentro lo spazio contadino, delle sacche di
illegalità. Anche il contrabbando dei prodotti sotto monopolio (sale, ta-
bacco) aveva i suoi punti di appoggio all'interno della società contadina.
3 Nel manoscritto, Foucault si riferisce a un “opuscolo anonimo, seconda metà del XVIII
secolo. Francia del Sud” (fol. 4) che (il dattiloscritto lo menziona, p. 132) è “citato da
Agulhon, La vie sociale en Provence, 1970”. Maurice Agulhon, in La vie sociale en Pro-
vence intérieure au lendemain de la Révolution, (cit., […]), p. 180), cita questo passo; lo
attribuisce a “un anonimo [di Arles] […] nel 1752”, e ne precisa l'origine: “In un mano-
scritto della biblioteca di Arles, citato da G. Valran, Misère et charité en Provence au
XVIIIe siècle, p. 29”. In quest'opera, Misère et charité en Provence au XVIIIe siècle. Essai
d'histoire sociale, Arthur Rousseau, Paris 1899, Gaston Valran attribuisce questo passo
a “un testimone oculare e anonimo, un borghese (presumibilmente), perché è animato
da un forte risentimento contro la nobiltà e contro la classe contadina” (p. 28).
a Manoscritto (fol. 5), titolo della sezione: “Il depredamento contadino”.
L'illegalismo rurale, peraltro, comunicava e si appoggiava a quello dei
proprietari. Ora, nella seconda metà del XVIII secolo, si profila una sorta
di cambiamento di fronte, effetto di un lento processo che consiste innan-
zitutto in una pressione demografica crescente; poi, a partire dal 1730, in
un aumento delle rendite fondiarie che fa della terra un bene economica-
mente interessante; [e] infine in una forte richiesta di terre per investi-
mento. Con la Rivoluzione si arriva quindi all'abolizione dei diritti feuda-
li, ai grandi trasferimenti di proprietà. Alla fine del XVIII secolo la pro-
prietà terriera cade sotto il regime del contratto semplice. Ma proprio nel
momento in cui, con il trionfo del contratto, scompare tutta la vecchia
armatura dei diritti feudali e la terra rientra nel sistema puramente con-
trattuale della proprietà, essa diventa sempre meno accessibile alla massa
contadina, poiché è oggetto di compravendite più o meno massicce, e
questo nuovo sistema di appropriazione giuridica spoglia e pauperizza
ancora di più i giornalieri e piccoli proprietari che fino a quel momento
potevano vivere grazie a queste sacche di illegalità. Il nuovo regime di
proprietà, infatti, fa scomparire i diritti comunitari, i terreni incolti, e
tende a uno sfruttamento più intensivo delle terre.
L'esempioa più significativo è lo sfruttamento dei boschi, che d'ora in
poi procede a un ritmo più serrato. Il bosco, fin qui luogo di rifiuto e di
sopravvivenza, diventa proprietà coltivabile e quindi sorvegliata b. Certo, a
differenza della ricchezza industriale, la proprietà terriera non cambia lo-
calizzazione; tuttavia lo spazio rurale si modifica, poiché, man mano che
la proprietà entra nel regime del contratto, si moltiplicano gli strumenti
a Il manoscritto (fol. 6) menziona in primo luogo l'esempio della “scomparsa dei campi a
maggese”.
b Il manoscritto (foll. 6-7) sviluppa questo passaggio:
“Il nuovo metodo di sfruttamento dei boschi: più intensivo a causa dei nuovi bisogni; in-
stallazione di vetrerie e fucine al limitare o all'interno dei boschi. Il vecchio bosco (al rit-
mo dello sfruttamento secolare), luogo di rifugio, di tolleranza, di sopravvivenza non
solo per gli emarginati ma anche per gli abitanti più poveri (che lo usano come pascolo,
per prendere la legna, per cacciare), tende a diventare proprietà coltivabile e sorvegliata.
A cui vanno aggiunti i fenomeni più direttamente collegati alla Rivoluzione: l'aumento
dei prezzi dei prodotti agricoli (che favoriscono soltanto i contadini più agiati che li ven-
dono); la diffidenza verso la moneta svalutata (che provoca l'accaparramento)”.
che assicurano la sua protezione: divieto di passaggio, recinzioni ecc. In-
somma, tutto lo spazio di transito, di sopravvivenza precaria che era lo
spazio rurale viene sconvolto, il che rende tutti gli illegalismi rurali im-
possibili e intollerabili. Si comprende allora perché l'entrata della ricchez-
za borghese nel sistema giuridico del contratto provochi come una fortis-
sima impennata nell'illegalismo. Sono le grandi ondate del vagabondag-
gio di fine XVIII secolo, l'intensificazione dei vecchi illegalismi contadini,
le sommosse per il grano, le tassazioni spontanee a [beneficio] dei conta-
dini più poveri ecc. Sono anche le pratiche più vecchie dell'illegalismo po-
polare che negli anni precedenti la Rivoluzione vengono riattivate. Sono
inoltre i tentativi per continuare a sfruttare gli antichi diritti consuetudi-
nari, le vecchie tolleranze, nonostante la nuova legislazione. La Rivolu-
zione è stata agitata da queste microstorie. L'esplosione di illegalismo a 4
non era altro che la reazione spontanea a nuove forme giuridiche che ren-
devano impossibili i vecchi illegalismi e in certo modo, anche qui, mette-
vano la proprietà terriera in un corpo a corpo con chi ne era escluso e su
di essa non aveva più nemmeno i diritti tollerati della vita comunitaria o
dell'illegalismo accettato. Questa pratica dell'illegalismo contadino ha
animato la Rivoluzione (come dimostrano gli episodi della Vandea e del
5 Forse Foucault fa qui riferimento alla repressione militare del brigantaggio descritta da
Agulhon, (ibid.), ma la giustapposizione con la Vandea fa pensare di più all'insurrezio-
ne federalista. Dopo il colpo di forza giacobino contro i girondini alla Convenzione del
2 giugno 1793, numerose amministrazioni dipartimentali in cui i girondini erano ben
radicati si opposero a Parigi. In particolare nel Midi, Lione, Marsiglia, Bordeaux e To-
lone divennero i centri di un tentativo di riconquista del potere. I giacobini e i rappre-
sentanti della Convenzione furono scacciati e a volte messi a morte. Lione, Marsiglia e
successivamente Tolone saranno riprese dagli eserciti rivoluzionari, dando luogo a san-
guinose repressioni. L'articolo 3 del decreto del 12 ottobre 1793 afferma: “La città di
Lione sarà distrutta. Tutto ciò che fu abitato dal ricco sarà demolito”. Nell'assedio di
Tolone si assisterà per la prima volta al genio militare di Napoleone Bonaparte, all'epo-
ca giovane ufficiale di artiglieria. Cfr. H. Wallon, La Révolution du 31 mai et le fédera-
lisme en 1793, Hachette & C.ie, Paris 1886, 2 voll.; Riffaterre, Le Mouvement antijaco-
bin et antiparisien à Lyon et dans le Rhône-et-Loire en 1793, A. Rey, Lyon 1912 e 1928,
2 voll.
6 Questo passo è citato in La vie sociale en Provence intérieure, cit., p. 182. Maurice Agu-
lhon ne descrive il contesto: “Nella primavera del 1789 la lotta tra i diversi 'stati' è spes-
so segnalata nelle lettere dell'intendente a Villedeuil e a Necker – 27 e 30 marzo”. Agu-
lhon indica come fonte gli Archivi dipartimentali delle Bocche del Rodano, 4110. Cfr.
M. Cubells, Les horizons de la liberté. Naissance de la Révolution en Provence (1787-
1789), Édisud, Aix 1987, pp. 92-109.
7 Nel manoscritto (fol. 9), Foucault fa riferimento a un “opuscolo anonimo. Anno III
(poco prima del voto sul decreto del 20 messidoro, che completava il Codice rurale del
[17]91”. Questo testo è estratto da un opuscolo di 12 pagine di F.L. Lamartine, Mémoi-
re sur une question d'agriculture et d'économie politique, relative à la cotisation des
priairies artificielles et aux moyens de pourvoir à leur conservation (Desay, Dijon, mar-
re”, si dice: “Una volta troppa avidità rendeva di certo alcuni agricoltori
invisi alla classe meno agiata; oggi vediamo alcuni uomini di questa clas-
se meno agiata che cercano di appropriarsi di ciò che appartiene ai colti-
vatori. I torti del passato non giustificano quelli di oggi”8.
È evidente, quindi, che il contratto, come il salario, ridistribuisce il
gioco della legge, dell'illegalismo, dell'individuo e del corpo stesso della
ricchezza. Penso che l'analisi della penalità, se effettuata correttamente,
cioè se messa in rapporto con l'illegalismo, deve costantemente tenere
conto dei quattro elementi che sono davvero in gioco in questa parte del-
la lotta per l'illegalismo: la legge, la pratica illegale, l'individuo, il corpo
della ricchezza. Il contratto ridistribuisce il gioco tra questi elementi, ma
in maniera più ambigua del salario. Dopotutto, infatti, la plebe urbana è
stata costretta al salariato, in questo nuovo gioco che si instaura tra gli
individui e il corpo della ricchezza, essi vi sono stati costretti; al contra-
rio, il contratto come forma giuridica della proprietà rurale da una parte
provoca una serie di costrizioni, ma al tempo stesso è desiderabile, nella
misura in cui libera dalle gabelle e dagli obblighi antichi, spoglia la pro-
prietà da tutte le costrizioni feudali ed è per questo motivo che il contrat-
to come via d'accesso alla proprietà è desiderato dalla classe contadina.
Ma allo stesso tempo immette nel mondo rurale delle difficoltà, dei ri-
schi, delle reazioni di difesa, dei calcoli che richiamano un nuovo illegali-
smo contadino, il quale si svilupperà in questo nuovo mondo del contrat-
to. E assumerà due forme: un illegalismo contro il contratto, cioè contro
la proprietà, che praticherà il puro e semplice depredamento dei beni, dei
raccolti; [e] un illegalismo che investirà il contratto dall'interno e cerche-
rà di rovesciarlo: si entra così nel mondo della contestazione e della con-
troversia.
zo 1793), in L'esprit des journaux français et étrangers, Valade, Paris 1795, vol. V, set-
tembre-ottobre 1795, pp. 119-120.
8 Cfr. H.-A. Tessier, Annales de l'agriculture française, contenant des observations et des
mémoires sur l'agriculture en général, 4 voll., Huzard, Paris 1797, Anno VI, vol. I, p.
371.
Ciò comporta che, mentre l'illegalismo urbano cadrà inevitabilmente
sotto i colpi della penalità, l'illegalismo contadino sarà in larga parte in-
vestito all'interno del diritto civile, non senza provocare difficoltà e soffe-
renze. Balzac ha descritto le sofferenze derivanti dai contratti di matrimo-
nio e di commercio9. Bisognerebbe inoltre descrivere le sofferenze dovute
al contratto contadino che ricadono sulla proprietà contadina e la inve-
stono. In realtà ne abbiamo una descrizione, per esempio da Pierre Riviè-
re, che partendo dalla sua esperienza di piccolo contadino normanno, ha
raccontato le sofferenze [connesse a] questo contratto 10: per sfuggire alla
coscrizione, [suo padre] si è sposato ed è entrato nel contratto di matri-
monio, ma questo contratto, di per sé illegale perché era un modo per ag-
girare la legge, si è rivelato una trappolaa.
***
9 Cfr. H. de Balzac, Il contratto di matrimonio (1835), Eugénie Grandet (1834) e gli altri
testi raccolti nelle “Scene della vita in provincia” di La commedia umana. Nella lezione
del 7 marzo (infra […]), Foucault affronterà il tema delle classi pericolose e lavoratrici –
tema centrale nello storico Louis Chevalier, autore di Classi lavoratrici e classi pericolo-
se: Parigi nella rivoluzione industriale, cit. […]. È interessante notare il modo in cui
Chevalier tratta l'opera di Balzac e confrontarlo con questa analisi di Foucault; cfr. L.
Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., pp. 85-99.
10 Cfr. Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère. Un cas de parri-
cide au XIXe siècle, presentato da M. Foucault, Gallimard, Paris 1973, pp. 73-148; trad.
it. di A. Fontana e P. Pasquino, Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia so-
rella e mio fratello... Un caso di parricidio nel XIX secolo, Einaudi, Torino 1976, pp. 53-
114 (“La memoria”).
a Il manoscritto (fol. 13) aggiunge:
“Pierre Rivière: contratto-illegalità (per evitare l'esercito); contratto incastrato dall'in-
terno da un mucchio di illegalismi; contratto di cui non ci si può liberare, o che non si
può restituire tramite l'omicidio. Tutta una precipitazione di piccoli illegalismi contrat-
tuali, nel più grande dei crimini”.
cano tramite un altro illegalismo, quello dell'esercito. I grandi eserciti di
fine XVIII secolo sono un costante focolaio di rinnovo e di comunicazio-
ne degli illegalismi, sebbene servano comunque da freno perché assorbo-
no tutti coloro che si sono messi in condizioni di illegalità, o reprimono
le forme più estreme di illegalismo11. Ma giocano ancora di più un ruolo
di accelerazione, nella misura in cui assicurano l'impunità a chi diventa
soldato, instillano in coloro che sono passati dai loro ranghi una certa
abitudine al saccheggio e al vagabondaggio, e infine provocano una mol-
teplicità di illegalismi, come il rifiuto della coscrizione che si diffonde a
partire dall'anno II. Servono inoltre da luogo di scambio tra l'illegalismo
rurale e urbano, perché con i loro spostamenti di popolazione ridistribui-
scono i contadini nelle città e la plebe urbana nelle campagne, attraverso
il sistema delle diserzioni. È anche il problema dell'Inghilterra, come dice
Colquhoun nel suo Treatise on the Police: “È vero che nei primi tre anni
della guerra attuale molti criminali, nullafacenti, gente che vive nel disor-
dine, sono stati impiegati nel servizio di terra e di mare […] per quanto
non sia necessario prendere delle precauzioni prima del ritorno della
pace”12.
In secondo luogo, vorrei insistere su un punto da cui si possono cer-
care di capire i problemi che ho posto. Generalmente si considera l'illega-
lismo prerivoluzionario la conseguenza di una serie di crisi del potere,
delle istituzioni, della legalità: le vecchie legalità erano state superate dal-
la spinta economica e, prima di lasciare posto alla nuova legalità, ci sa-
rebbe stata questa grande esplosione di illegalismo. In realtà vorrei far ve-
dere che la nascita della società industriale non ha sovvertito solo l'ordine
delle legalità, ma tutto questo sistema di illegalismi al contempo tradizio-
nali e consolidati, grazie ai quali riuscivano a sopravvivere masse conside-
revoli di popolazione. Alla fine del XVIII secolo gli illegalismi minacciati
dalle nuove forme della società sono entrati in rivolta. L'illegalismo, quin-
di, non è soltanto la forma estrema e popolare della spinta rivoluzionaria,
13 Esiste una storiografia abbondante e contraddittoria sulle cause di questa rivolta, che
sembra dipendere dalle speranze deluse delle regioni povere, in cui i contadini, fatican-
do a sopportare il peso delle imposte, non disponevano dei mezzi necessari per benefi-
ciare della vendita dei beni nazionali; dall'arruolamento di volontari nell'esercito; così
come dalla sostituzione del clero renitente in una regione molto cattolica. Cfr. É. Gabo-
ry, Les guerres de Vandée, Robert Laffont, Paris 2009 [1912-1913]; L. Dubreuil, Histoire
des insurrections de l'Ouest, Rieder, Paris 1929-1930, 2 voll.; G. Walter, La guerre de
Vandée, Plon, Paris 1953; C. Tilly, La Vandée. Révolution et contre-révolution, Fayard,
Paris 1970; trad. it. di S. Lombardini, La Vandea, Rosenberg & Sellier, Torino 1976 (ed.
orig. The Vandée, Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 1964).
a Il manoscritto (fol. 17) aggiunge: “L'esempio inverso:”.
b Il manoscritto (fol. 17) indica con un'aggiunta tra le righe che questa vasta operazione
della borghesia, che “andrà studiata”, “è programmata in un'operazione ideologica esi-
stente”.
le, e tutta una pratica di correzione che lo considera non tanto un nemico
quanto qualcuno su cui è possibile agire, che si può trasformare moral-
mente e correggere. La connessione tra la definizione giuridico-penale del
trasgressore come nemico sociale e la definizione del “correzionario”
come individuo da trasformare avviene in una serie di discorsi che rendo-
no accettabile a livello teorico e discorsivo la grande edificazione del si-
stema penitenziario del XIX secolo. Questa connessione consiste, in pri-
mo luogo, nell'affermare che ogni illegalismo riguarda in modo priorita-
rio, se non esclusivo, una sola classe sociale, quella dei lavoratori; nel di-
chiarare, inoltre, che questo illegalismo appartiene a questa classe nella
misura in cui essa non è davvero integrata nella società; e nel dire, infine,
che questo rifiuto del patto sociale specifico della classe inferiore è una
sorta di delinquenza primaria, selvaggia, tipica di uno strato di popola-
zione che non si è ancora distaccato dall'istinto e dalla vita naturale: sono
i nemici del corpo stesso della ricchezzaa.
Questa caratterizzazione della classe dei lavoratori come oggetto pri-
vilegiato della trasformazione penitenziaria per l'integrazione in un patto
sociale costituisce il giunto ideologico, pre-istituzionale, che renderà ac-
cettabile tutta l'organizzazione del sistema penale e penitenziario. Si può
fare riferimento a diversi testi. Il primo [risale al] 1772: un testo in cui gli
agenti della riscossione (Ferme générale) scrivono all'intendente dell'Al-
vernia per lamentarsi dell'indulgenza dei giudici di Clermont nei confron-
ti dei contrabbandieri: “Essi [i giudici di Clermont] devono considerare i
contrabbandieri di sale non tanto come degli intrusi che hanno cercato di
spartirsi una parte degli introiti della riscossione, ma come dei perturba-
tori della quiete pubblica”14. Vale a dire che i magistrati vedono in essi de-
gli intrusi che, nel sistema di prelievo feudale, si accaparravano una parte
a Il manoscritto (fol. 18) aggiunge: “Ci sono ancora dei selvaggi tra noi. Ribaltare l'illega-
lismo in delinquenza, la libertà sociale in pericolo sociale”.
14 Inventaire sommaire des Archives départementales antérieures à 1790, Puy-de-Dôme: C
1516 à C 2817, archivisti Michel Cohendy e Gilbert Joseph Rouchon, vol. II, Imprimerie
et lithographie G. Mont-Louis, Clermont-Ferrand 1898, serie C (Intendenza dell'Alver-
nia), C 1660 (Fascicolo), 769-779 (“Contrabbandieri”).
di quanto veniva prelevato sulla ricchezza, degli esattori supplementari
insomma, che in questo senso non sono da trattare come dei criminali:
sono soltanto dei riscuotitori illegali di imposte. Bisognerebbe trattarli,
invece, come dei perturbatori della quiete pubblica, vale a dire dei delin-
quenti che mettono in pericolo la società nel suo complesso. Il program-
ma è questo: trasformare l'intruso nel sistema di prelievo feudale in nemi-
co sociale. Nel 1768, per tagliare gli appoggi che il contrabbandiere Mon-
tagne aveva tra il popolo, gli agenti della riscossione dell'Alvernia si pro-
pongono di stampare un foglio volante falso dove raccontare i suoi pseu-
do-misfatti allo scopo di trasformare l'immagine del contrabbandiere, po-
sitiva tra i contadini, nell'immagine negativa del criminale: “Abbiamo
pubblicato queste notizie, gli abbiamo attribuito alcuni furti la cui verità,
a dire il vero, è alquanto incerta; abbiamo rappresentato Montagne come
una bestia feroce, a cui bisognerebbe dare la caccia. Dal momento che le
teste dell'Alvernia sono calde di natura, questa idea ha attecchito e in di-
versi hanno risposto che se Montagne dovesse passare sulle loro terre, lo
ucciderebbero come un animale selvaggio e pericoloso” a 15. Ancora una
volta siamo di fronte alla trasformazione del personaggio che è già il de-
linquente mostruoso con cui avranno a che fare la penalità, la criminolo-
gia, la psichiatria del XIX secolo. Questa conversione è il risultato di una
strategia perfettamente concordata.
Trent'anni più tardi, nel 1798, in un rapporto sul brigantaggio nel
Midi appaiono gli effetti di questa operazione: “Considerando gli assassi-
nî e i misfatti ai quali nessuna notte aveva ancora prestato le sue ombre,
misfatti la cui narrazione spaventerà tutti i paesi di ogni secolo; conside-
randoli come dei cannibali che la natura si vergogna di aver inserito nella
classe degli umani […]”16. [Compaiono anche in] un testo di Target,
a Manoscritto (fol. 18): “Nel 1768: Bollettino di propaganda contro Montagne”.
15 Foucault menzionerà questo episodio in Sorvegliare e punire, cit., p. 72, in cui darà
come riferimento: “Archivi del Puy-de-Dôme, citato in M. Juillard, Le brigandage et la
contrebande en Haute-Auvergne au XVIIIe siècle, Imprimerie moderne, Aurillac 1937, p.
24”.
16 Archivi dipartimentali, Decreto del 26 vendemmiaio anno VIII, serie L, foll. 49-51 sgg.,
citato in abate Maurel, Le brigandage dans le Basses-Alpes, P. Ruat, Marseille 1899,
uomo di legge nell'Ancien régime, incaricato di elaborare, tra il 1802 e il
1804, il primo progetto di codice penale, poi ripreso nel 1808 17. Nella sua
presentazione si trova esplicitamente formulata la maggior parte delle ef-
fettive operazioni che la legislazione penale metterà in atto successiva-
mente: “Supponete una grande regione la cui immensa popolazione è for-
mata, per così dire, da popoli diversi che hanno in comune soltanto l'au-
torità centrale, e che si suddivide in innumerevoli classi, alcune più illu-
minate, perfezionate dall'educazione, addolcite dalla socievolezza, nobili-
tate dai sentimenti morali; altre degradate dalla miseria, avvilite dal di-
sprezzo e invecchiate tra abitudini di vecchia data o crimini o colpe; ogni
giorno si vedrà il penoso contrasto tra le virtù più rispettabili e i vizi più
ignobili. Lì, accanto all'elevatezza del coraggio, della generosità, dell'eroi-
smo, si faranno notare con disgusto l'egoismo, l'insensibilità, l'abiezione e
l'atrocità stessa. Lì anime dure, rinsecchite, scontrose, prive di idee mora-
li, obbediranno soltanto alle loro rozze sensazioni; la pigrizia, la dissolu-
tezza, l'avidità, l'invidia appariranno come nemiche inconciliabili della
saggezza e del lavoro, dell'economia e della proprietà. Lì pulluleranno de-
litti e crimini di ogni specie, non tanto nella massa della nazione quanto
nella feccia di questa schiera estranea al carattere generale, che si è for-
mata accanto al vero popolo con la forza delle circostanze e delle abitudi-
ni accumulate nel corso dei secoli. Quasi sempre, per una nazione del ge-
nere, le pene devono essere commisurate alla natura di questa razza im-
bastardita, che è la fucina dei crimini, e la cui rigenerazione si lascia a
malapena intravedere anche dopo un lungo numero di anni del governo
più avveduto”18.
parte II, cap. II.
17 Foucault metterà Target nella categoria dei grandi “riformatori”, accanto a figure
come Beccaria, Servan e Duport. Nel manoscritto della lezione del 7 marzo ( infra […]),
descrive Target come “un giurista dell'Ancien régime, divenuto legislatore sotto l'impe-
ro” (fol. 1). Cfr. Sorvegliare e punire, cit., p. 81; cfr. anche pp. 87, 89, 101, 303.
18 Foucault ritornerà su alcune espressioni menzionate in questo passo su Target, e in
particolare sulla “razza imbastardita”, in Sorvegliare e punire, cit., p. 303 e come riferi-
mento (ivi, p. 101) indicherà: “G. Target, Observations sur le projet du Code pénal, in
J.-G. Locré, La législation de la France, tomo XXIX, pp. 7-8”. Cfr. M. Target, “Obser-
vations sur le Projet de Code criminel”, in J.-G. Locré, Législation civile, commerciale
In questo testo si nota innanzitutto l'assimilazione tra l'illegalista e il
nuovo personaggio del delinquente, che costituisce – con il suo seguito –
una popolazione straniera. In secondo luogo, una popolazione che è stra-
niera in quanto selvaggia: imbastardita e primitiva al tempo stesso, dege-
nerata e attaccata alla natura e agli istinti. Questo carattere di selvati-
chezza è determinato dall'immoralità: il selvaggio, portatore nella sua
primitività della morale allo stato puro, è scomparso, ora la selvatichezza
si manifesta con l'immoralità. In terzo luogo, rispetto a queste classi con-
trapposte, il potere politico è definito come un arbitro. La funzione del
potere si definisce in rapporto allo scontro fra le classi e per proteggere
una classe contro l'altra. Infine, l'idea di una rigenerazione di questa clas-
se primitiva e imbastardita tramite l'intervento del potere politico e la
sorveglianza costante permette di articolare la teoria del delinquente
come nemico sociale con la pratica della correzionea.
Se ho insistito su questo testo, sul carattere preliminare dell'operazio-
ne ideologica come condizione di accettabilità di alcune operazioni, è per
diverse ragionib. Innanzitutto è un testo di una straordinaria lucidità. Si è
sempre abituati a parlare della “stupidità” della borghesia, ma mi chiedo
se il tema della stupidità borghese non sia un tema per intellettuali c: quel-
li che si immaginano che i commercianti sono ottusi, gli uomini con i sol-
di siano cocciuti e gli uomini di potere ciechi. Contrariamente a questa
credenza, invece, la borghesia è di un'intelligenza notevole. La lucidità e
l'intelligenza di questa classe che ha conquistato e conservato il potere
nelle condizioni che sappiamo producono certo degli effetti di stupidità e
di accecamento, ma dove se non appunto nella massa degli intellettuali?
et criminelle, ou Commentaire et complément des Codes français, Société typographi-
que belge, Bruxelles 1837, vol. XV, pp. 2-16, in particolare p. 5; trad. it. a cura di G.
Cioffi, Legislazione civile, commerciale e criminale, ossia Commentario e compimento
dei codici francesi, Giuseppe Cioffi, Napoli 1843, vol. XV.
a Manoscritto (fol. 18), a margine: “L'articolazione nemico sociale-correzione”.
b Dopo l'ultima pagina numerata (fol. 18), il manoscritto contiene altri tre fogli non nu-
merati, il primo riporta l'indicazione: “App. l[ezione] n. 9”. La prima riga dice: “N.B.
Merita fermarsi su un testo come quello di Target: […]”.
c Senza la variazione di credenza presente nel dattiloscritto, il manoscritto riporta: “per
artisti, intellettuali, filosofi” (App. lezione n. 9, primo foglio).
Gli intellettuali si possono definire come coloro su cui l'intelligenza della
borghesia produce un effetto di accecamento e di stupidità a. Successiva-
mente, tutto ciò che accade in questa messa a punto del sistema penale è
stato detto: il principio di un'analisi in forma di ricerca del non-detto non
è forse la caratteristica di coloro che non sono capaci di vedere dove sta il
cinismo effettivo della classe al potere? Nessun bisogno del silenzio del
non-detto per farvi precipitare l'intelligenza, la profondità dell'interprete
che troverebbe quello che gli altri non hanno potuto dire. In realtà gli al-
tri hanno sempre detto [tutto]. Il problema, quindi, non è di andare a cer-
care nelle lacune di un testo la forza o l'effetto di un non-detto 19. Questo
implica, inoltre, che non si andrà mai a cercare questo detto, questo cini-
smo e questa intelligenza fra i testi di un autore, o dentro un'opera b. Se la
a Il manoscritto aggiunge:
“– Dal momento che [la borghesia] detiene il potere, può essere cinica.
– Lo sviluppo dello sfruttamento com[merciale] e dell'esercizio del potere crea sapere.
Chi lo nega è un buffone. Disconosce la serietà della lotta” (App. lezione n. 9, primo fo-
glio).
19 Può essere che, attraverso i suoi riferimenti al “non-detto”, Foucault alluda all'analisi
che, in “Du 'Capital' à la philosophie de Marx” (in L. Althusser, E. Balibar, R. Establet,
P. Macherey, J. Rancière, Lire le Capital, Maspero, Paris 1968 [1965], 2 voll.; trad. it. di
R. Rinaldi e V. Oskian, “Dal 'Capitale' alla Filosofia di Marx”, in A. Althusser, E. Bali-
bar, Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1968), Louis Althusser propone della lettura
fatta da Marx dell'opera di Adam Smith. Ispirata dalla psicoanalisi, la “lettura […]
'sintomale' […] scopre ciò che si cela nel testo che legge e contemporaneamente lo cor-
rela a un altro testo presente come assenza necessaria del primo” ( ivi, p. 29). “Solo dopo
Freud cominciamo a sospettare ciò che ascoltare, quindi parlare (e tacere), vuol dire; ciò
che questo 'vuol dire' del parlare e dell'ascoltare rivela sotto l'innocenza della parola e
dell'ascolto; la profondità di un secondo, del tutto diverso discorso, il discorso dell'in-
conscio” (ivi, p. 16; corsivo nel testo).
b Manoscritto:
“Non si tratta di un autore, di un'opera, di un testo. Al tema 'artistico' secondo cui la
borghesia è stupida, risponde il tema professorale per cui conta soltanto una cosa (cioè
l'autore, lo scrittore, l'opera, il testo), sono loro che ci dominano e fanno la nostra leg-
ge; sono loro che ci reclutano. Kant ci ha legati, Kierkegaard ci libererà. Queste nozioni
sono il prodotto di una 'scolarizzazione' del discorso; della fabbricazione di oggetti de-
stinati alla spiegazione scolastica. Non importa se ci si mette a un capo o all'altro della
serie, dalla parte dell'autore o dalla parte del testo, dalla parte dell'espressione o dell'e-
rudito, dalla parte della [psicologia] o dalla parte della retorica, in ogni caso la serie nel
suo complesso è un prodotto della scolarizzazione del discorso. Scolarizzazione che da
una parte permette di schivare tutti i discorsi esterni ai testi, e soprattutto di mascherare
il ruolo, la posizione, la funzione dei discorsi nelle strategie delle lotte” (App. lezione n.
borghesia sembra stupida, è perché cerchiamo le tracce della sua intelli-
genza o della sua stupidità in quella categoria di discorsi particolarmente
scolarizzati che si chiamano le opere degli autori, [i] testi. Tutte queste
categorie – autori, scrittori, opere, testi – sono ciò che la scolarizzazione
della società ha isolato rispetto alla massa attiva, strategica dei discorsi.
Un testo è un discorso che ha perso il suo contesto e la sua efficacia stra-
tegica. Un'opera è un discorso riconducibile da una parte a un autore e
dall'altra ai significati impliciti di un non-detto.
“La borghesia è stupida”, “le cose non vengono dette”, “l'importante
sono le opere” – queste tre proposizionia dominano l'analisi testuale che
bisogna abbandonare. Dire che le cose sono dette significa ammettere il
principio del cinismo della borghesia e misurare l'ampiezza del potere
contro cui si lotta. Ammettere che l'importante sono i discorsi vuol dire
ricollocare il discorso là dove effettivamente è possibile attaccarlo: non
nel suo senso, non per quello che non dice, ma a livello dell'operazione
che è avvenuta grazie a esso, vale a dire nella sua funzione strategica, allo
scopo di disfare quello che il discorso ha messo in piedi. Trascuriamo
Analogie tra Target e i quaccheri. (I) La paura all'inizio del XIX se-
colo: 1) legata ai nuovi modi di produzione; paura dell'operaio, del suo
desiderio, del suo corpo; 2) fondata nella realtà; 3) paura della classe la-
voratrice; 4) paura che “loro” non lavorino a sufficienza. Minaccia all'ap-
parato capitalista. Il sistema penale ha di mira il corpo, il desiderio, il bi-
sogno dell'operaio. Doppia esigenza: libero mercato e disciplina. Il libret-
to operaio. (II) Il dualismo penale: il doppio fronte della penalità. 1. Ri-
codificazione dei delitti e delle pene: omogenea, positiva, coercitiva, rap-
presentativa, efficace. 2. Integrazione di un condizionamento morale: cir-
costanze aggravanti e attenuanti; sorveglianza; case di correzione; riedu-
cazione. – Dualità diritto-correzione. La criminologia: discorso che assi-
cura la trascrizione di questa dualità. La monomania. – Simbiosi tra cri-
minologia e sistema penale.
Il testo di Target1 stabiliva il posto che aveva il potere politico tra due
classi, di cui una deteneva le virtù e i valori positivi, mentre l'altra era ca-
ratterizzata dai vizi che la animavano, dall'immoralità, dal fatto che era
considerata estranea al corpo stesso della società e formava, per così dire,
una sorta di nazione applicata dall'esterno sulla nazione reale. Ora, nel-
l'immagine del potere come arbitro abbiamo una specie di eco di ciò che
1 Cfr. supra, lezione del 28 febbraio, […].
si trovava nella teoria politica dei quaccheri, che presentavano lo Stato
come una sorta di istanza indispensabile per riassorbire e dominare il
male nella società, e metterlo al servizio del bene. In questo testo vedia-
mo delinearsi una suddivisione della società in due classi; un'imputazione
di dissidenza sociale per una delle due; un'accusa di debolezza morale nei
confronti della classe dissidente; e una paura sociale contro la quale l'au-
tore fa appello presso l'autorità statale, che dovrebbe controllare e correg-
gere questa immoralità.
***
non paura” (ivi, p. 10). Al contrario, “le classi povere e viziose sono sempre state e sem-
pre saranno il vivaio più produttivo di ogni sorta di malfattori; sono loro in particolare
che designeremo con l'appellativo di classi pericolose; perché, quand'anche il vizio non
sia accompagnato dalla perversione, per il fatto che nello stesso individuo si allea alla
povertà, è un giusto oggetto di timore per la società, è pericoloso (ivi, p. 11).
Louis Chevalier, nella sua opera Classi lavoratrici e classi pericolose (cit., […] p. 183),
vede nell'opera di Frégier, così come nell'inchiesta di Eugène Buret, De la misère des
classe laborieuses en Angleterre et en France: de la nature de la misère, de son existence,
de ses effets, de ses causes, pubblicata sempre nel 1840 (Paulin, Paris, 2 voll), il compi-
mento del “complesso passaggio dalle classi pericolose alle classi lavoratrici”. Chevalier
sottolinea infatti “l'incapacità di Frégier di tirarsi fuori da questa confusione fra classi
pericolose e classi lavoratrici, nonostante che l'argomento prescelto siano le classi peri-
colose” (Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., p. 184).
4 Foucault fa qui riferimento ai romanzi d'appendice di Eugène Sue (1804-1857), come
Les mystères de Paris, Gosselin, Paris 1843-1844, 4 voll.; trad. it. I misteri di Parigi, Riz-
zoli, Milano 2010, 2 voll.; Le juif errant, Paulin, Paris 1844-1845, 10 voll.; trad. it. L'e-
breo errante, Nerbini, Firenze 1950; Les mystères du peuple, ou Histoire d'une famille
de prolétaires à travers les âges, [s.e.], Paris 1849-1857, 16 voll.; trad. it. I misteri del po-
polo. Storia di una famiglia di proletari attraverso i secoli , Nerbini, Firenze 1927, 2 voll.
Su Eugène Sue e la sua opera I misteri del popolo, nel 1978 Foucault scriverà che i lettori
troveranno “tutto un côté Alexandre Dumas o Ponson du Terrail: oltre alle immagini
eclatanti e le scene immobili in piena luce, ci sono i percorsi sotterranei, gli episodi so-
bri, la morte e gli incontri, le avventure”, cfr. M. Foucault, “Eugène Sue que j'aime”
(“Les Nouvelles littéraires”, a. LVI, n. 2618, 12-19 gennaio 1978, p. 3), in DE, n. 224, ed.
1994, vol. III, pp. 500-502, qui p. 500; ed. 2001, vol. II, pp. 500-502, qui p. 500); cfr. an-
che Sorvegliare e punire, cit., p. 316. Sempre a proposito di quest'opera di Eugène Sue,
Foucault aggiungerà che le idee veicolate da questo testo “sono state essenziali per la
gestazione, a metà del XIX secolo, dei temi socialisti” (“Eugène Sue que j'aime”, cit., p.
502).
Anche qui, come nella lezione precedente (supra, lezione del 28 febbraio, […]) a propo-
sito di Balzac, ritroviamo un legame possibile con l'opera di Louis Chevalier, Classi la-
voratrici e classi pericolose, cit., in cui Chevalier ripercorre attraverso la letteratura, nel-
le opere di Balzac, Sue e Hugo, le trasformazioni e la metamorfosi del problema crimi-
nale in problema sociale. L'analisi dei Misteri di Parigi di Eugène Sue (ed. francese
1851, 2 voll.) è dunque centrale nel lavoro di Chevalier: a differenza delle descrizioni di
Balzac o di Hugo, “le opere di Sue non reggono altrettanto bene alla valutazione dello
storico dell'economia” (Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., p. 39). Chevalier scrive:
sità sono illimitate e i progetti più numerosi ancora dei bisogni; nel fer-
mento, si discutono sogni di organizzazione; nelle tenebre si preparano
vendette […]. Ma, sappiatelo bene, ci si comincia a stancare di attendere,
e se non si sta in guardia, l'anno prossimo, forse domani, scalata la vora-
gine, comparendo terribile sul limitare dell'abisso ormai varcato, il popo-
lo spaventoso, scrollando la rassegnazione come polvere immonda […],
respirando la vendetta inesorabile apparirà come l'angelo sterminatore,
tra i vostri ricchi palazzi e nelle vostre sontuose dimore”5.
Ma se questa analisi può essere applicata agli anni 1840-1845, non
mi sembra si attagli per l'inizio del secolo. In quel periodo la paura, rin-
tracciabile in coloro che fanno la legge e che accompagna il discorso che
“Possiamo considerare I misteri di Parigi come uno dei più importanti documenti in no-
stro possesso di una mentalità popolare che altrimenti non avremmo alcun modo né oc-
casione di conoscere; e questo […] per il suo successo, per il consenso espresso dal po-
polo a una descrizione che non lo concerneva, ma in cui ha voluto riconoscersi e che ha
gradualmente influenzato, attraverso una vera e propria pressione collettiva, fino a far-
ne il suo più fedele ritratto, trasformando questo libro delle classi pericolose nel libro
delle classi lavoratrici” (ivi, p. 519).
a Manoscritto (fol. 3):
“Come una mescolanza di paura fisica e politica. Irruzione del proletariato irsuto in
grado di terrorizzare i borghesi. Un gioco, un avatar della letteratura del terrore: lo
spettro del Castello di Otranto, il maledetto di Lewis, è rimpiazzato dal proletario”.
5 Il sermone qui evocato appare in [F.-A. Le Dreuille], “Discours prononcés aux réunions
des ouvriers de la Société de saint François-Xavier, à Paris et en province, par M. l'abbé
François-Auguste Le Dreuille, recueillis et publiés par M. l'abbé Faudet”, Presbytère de
Saint-Roch, Paris 1861; ripreso in J.-B. Duroselle, Les débuts du catholicisme social en
France (1822-1870), Puf, Paris 1951, p. 269; trad. it. di D. Tabet, Le origini del cattolice-
simo sociale in Francia (1822-1870), Cinque lune, Roma 1974, pp. 327-328. Secondo una
citazione che fa riferimento a un articolo della “Gazette de France” del 1845, questo
sermone, detto “Discorso di san Rocco”, fu pronunciato il 25 maggio 1845. L'abate Le
Dreuille risulta tra i principali oratori della Società di san Francesco Saverio, organizza-
zione cattolica operaia fondata verso il 1837, dedicata al miglioramento delle condizio-
ni di vita degli operai. Le Dreuille, che operava prima in veste laica, si fece prete nel
1845. Direttore di rivista, fondatore di centri di aggregazione e uffici di collocamento
per gli operai, Le Dreuille è uno dei pionieri del cattolicesimo sociale. Le sue opere e i
suoi discorsi sono oggetto di dibattiti sui media e nel governo; cfr. J.-B. Duroselle, Le
origini del cattolicesimo sociale in Francia, cit., pp. 319-331.
Nel manoscritto (fol. 3) Foucault aggiunge un riferimento al romanzo d'appendice di
Pierre Alexis de Ponson du Terrail, Rocambole. Questo romanzo, che risale agli anni
1857-1871, racconta le avventure di Rocambole, dalla sua gioventù nella delinquenza
alla sua maturità di giustiziere. Foucault accosterà Ponson du Terrail a Eugène Sue e ad
Alexandre Dumas in “Eugène Sue que j'aime”, cit., p. 500.
decide, è di un altro tipo. In primo luogo, è una paura legata non tanto al
processo di urbanizzazione quanto al nuovo modo di produzione – vale a
dire all'accumulazione del capitale che ora si trova investito visibilmente,
sotto forma di una materialità tangibile e accessibile, nelle scorte, nelle
macchine, nelle materie prime, nelle merci – [e] al salariato che mette l'o-
peraio, spogliato di ogni proprietà, a contatto con la ricchezza. La paura
è legata alla presenza fisica del corpo dell'operaio, del suo desiderio, al
corpo stesso della ricchezza. In secondo luogo, questa paura non è fanta-
smatica, ma perfettamente fondata: esponendosi, la ricchezza borghese
assume nuovi rischi, che vanno dall'erosione quotidiana del furto fino alle
grandi distruzioni collettive delle macchine. Il pericolo rappresentato dal-
la classe operaia al limite della miseria non è fantasmatico. In terzo luo-
go, questa paura inizialmente non si rivolge alle categorie marginali, ai li-
miti della città e della legge: nei primi anni del XIX secolo non si temono
tanto gli sfaccendati e i mendicanti, ma coloro che lavorano e sono a con-
tato con questa ricchezza. Questa classe è pericolosa nella misura in cui
lavora6, ed è soltanto come effetto di tutta una procedura di selezione in
cui il sistema penale sarà un elemento dominante che verso il 1840 si ve-
drà comparire una serie di discorsi, che al tempo stesso sono l'effetto del-
la separazione e hanno la funzione di rilanciarla. Così, il testo-finzione di
Frégier elabora la categoria di classe pericolosa7. Prima di questa separa-
zione, la classe pericolosa è la classe lavoratrice 8. [Lo testimonia, per
6 Dopo questa frase, nel manoscritto (fol. 4) Foucault aggiunge la seguente indicazione:
“(Testo di Taxil)”. Léo Taxil (1854-1907) fu un libero pensatore anticlericale e antimas-
sonico. Dopo aver pubblicato numerosi libelli in cui il libero pensiero si mescolava con
il libertinaggio pornografico, nel 1885 divenne celebre per la sua falsa conversione al
cattolicesimo che ingannò perfino papa Leone XIII. Tutta la sua opera è rivolta alla de-
nuncia del clero e della massoneria.
7 H.-A. Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes , cit. La
designazione di questo come un “testo-finzione”, da parte di Foucault, sembra squalifi-
care il valore descrittivo del mémoire, che si presenta come “un'opera di amministrazio-
ne e di morale” (ivi, p. 2) e pretende di avere una grande ambizione empirica (cfr. la de-
scrizione delle fonti, ivi, pp. 4-5). Chevalier sottolinea anche le debolezze della docu-
mentazione quantitativa, ma annovera l'opera tra le “indagini sociali” ( Classi lavoratri-
ci e classi pericolose, cit., p. 176).
8 Con questa giustapposizione, Foucault sembra distaccarsi dalla tesi difesa dal suo colle-
esempio,] il testo di un medico che nel 1830 descrive le classi sociali di
Brest: quella che possiede “la delicatezza del pensiero e l'elevazione dell'a-
nima”; quella degli “operai intelligenti e abili, che sono calmi, pacifici,
concilianti”; quella dei proletari, “di un'estensione immensa in propor-
zione che, salvo qualche meritevole eccezione, possiede tutta la profonda
ignoranza, la superstizione, le abitudini ignobili, la depravazione dei co-
stumi dei figli delle foreste. La sua trivialità, la sua rozzezza, la sua im-
prevedibilità, il suo prodigarsi, tra gioie burlesche e orge, non si possono
esprimere. Le sue dimore sono vecchie catapecchie e soffitte esposte ai
quattro venti, sporche, in rovina, anguste, in cui giorno dopo giorno vive
ammassata e pullula in una vergognosa nudità, insultando il pudore col
proprio cinismo e condannando alla commiserazione pubblica o all'ospi-
zio civile migliaia di vittime della propria dissolutezza o corruzione” 9. In
ga al Collège de France Louis Chevalier (1911-2001), storico e demografo, nella sua
opera Classi lavoratrici e classi pericolose, cit. Chevalier infatti criticava il quadro dise-
gnato dai sociologi, di “una città e una società in cui tutti i problemi – compreso quello
del riposo – si riassumerebbero in un unico problema, quello del lavoro” ( ivi, p. 27). A
questo approccio, Chevalier oppone quelle che chiama le “basi biologiche della storia
sociale”, cioè “l'influenza delle caratteristiche fisiche delle popolazioni su quei diversi
aspetti della vita individuale e collettiva non conoscendo i quali è impossibile descrivere
una società” (ivi, p. 565). Mobilitando lo studio dei romanzi assieme a quello dei dati
statistici, Chevalier presenta le trasformazioni della realtà e delle rappresentazioni del
crimine e della povertà nella Parigi di inizio secolo come la conseguenza del “volume e
[del] ritmo dell'aumento della popolazione dei grandi agglomerati urbani” (ivi, p. 209).
In Chevalier ritroviamo tematiche e fonti simili a quelle di cui si avvale Foucault, ma os-
servate da un angolo teorico e con strumenti metodologici del tutto divergenti. La diver-
genza del percorso intellettuale dei due studiosi è raddoppiata anche dalla posizione
molto diversa in campo politico. Storico conservatore e vicino al potere, che consiglia –
in veste di consigliere del prefetto della Senna – e istruisce – in veste di professore del-
l'Institute politique di Parigi e dell'École nationale d'administration –, Chevalier ha a
lungo difeso delle politiche ispirate alla sua visione dell'unità necessaria tra territorio e
popolazione, facendosi promotore, ad esempio, di politiche di popolamento invece che
di apertura all'immigrazione per risolvere i problemi di manodopera.
9 Non è stato possibile ritrovare questo testo scritto da un medico di Brest nel 1830. Tut-
tavia si può consultare l'opera dei due medici Auge Guépin e Eugène Bonamy, Nantes
au XIXe siècle. Statistique topographique, industrielle et morale (riedizione preceduta
da De l'observation de la ville comme corps social di P. Le Pichon e A. Supiot, Universi-
té de Nantes, Nantes 1981, http://archive.org/details/nantesauxixesi00guuoft), che de-
scrive in particolare la popolazione di Nantes, classificandola in otto classi, tra cui quel-
la degli “operai agiati” e degli “operai poveri” (pp. 455-492), fornendo persino i dettagli
delle loro abitudini e della loro “igiene fisica e morale”.
quarto luogo, questa paura non è rivolta solo alle grandi mostruosità,
alle agitazioni politiche; il cuore del pericolo viene prima dell'illegalismo,
è qualcosa che non è nemmeno ancora un'infrazione. Pericoloso è l'ope-
raio che non lavora abbastanza, che è pigro, si ubriaca, ovvero tutto ciò
attraverso cui l'operaio pratica l'illegalismo, e questa volta non sul corpo
della ricchezza dei padroni, ma sul suo stesso corpo, su quella forza lavo-
ro di cui il padrone si considera il proprietario, perché l'ha acquistata con
il salario ed è un dovere dell'operaio offrirla sul libero mercato.
Di conseguenza, tutto ciò che può intaccare non solo il capitale accu-
mulato dalla ricchezza borghese, ma il corpo stesso dell'operaio in quan-
to forza lavoro, tutto ciò che può sottrarla all'uso da parte del capitale
sarà considerato un illegalismo infralegale, la grande immoralità su cui il
capitalismo cercherà di fare presa: un illegalismo che non è un'infrazione
della legge, ma un modo di derubare la condizione del profitto. Ed ecco
che tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX vediamo comparire alcu-
ne singolari formulazioni che consistono nel dire che un operaio pigro è
uno che “deruba”a. Deruba quel che deve al padrone, quel che potrebbe
guadagnare per la sua famiglia. L'immoralità operaia è costituita da tutto
ciò con cui l'operaio aggira la legge del mercato dell'impiego, che il capi-
talismo vuole costituire.
La paura borghese sociale e quotidiana come agisce all'inizio del
XIX secolo – all'epoca dell'organizzazione dei sistemi penali – ha il suo
punto di applicazione non tanto nelle classi emarginate e pericolose, ma
nella classe dei lavoratori in quanto focolaio permanente e quotidiano di
immoralità. Che sia sotto forma di rapporto tra il corpo dell'operaio e la
***
15 L'espressione “rappresentante della società”, che non compare nel Codice penale, con
ogni probabilità è un riferimento all'espressione dottrinale usata all'epoca (e ancora
oggi) nei trattati di diritto criminale per designare il procuratore.
a Manoscritto (fol. 11):
“[una] legge specifica a una società; inevitabilmente applicata con il minore intervento
da parte del giudice; la legge non rappresenta una legge naturale, religiosa o morale, ma
soltanto l'utilità sociale”.
b Il manoscritto (fol. 12) aggiunge: “[sull']ubriachezza”.
domicilio fisso e nello spostarsi senza documenti, senza che nessuno pos-
sa fare da garante. Ci sono oltre degli elementi che indicano la messa in
atto di un controllo morale, tutta una serie di misure che tengono conto
della moralità stessa dell'individuo.
Di conseguenza, se il Codice proibisce di punire in nome della legge
morale, lascia la possibilità di punire secondo la moralità, che è quindi
una modulazione legale della legge: la recidiva è una circostanza aggra-
vante. L'introduzione delle circostanze attenuanti funzionerà da modula-
zione moralizzatrice del sistema penale16. E, al di là del Codice penale, se
guardiamo il modo in cui devono funzionare le pene, ci accorgiamo che
hanno un obiettivo completamente diverso rispetto alle pene del XVIII
secolo, o da come i teorici del XVIII secolo volevano che fossero. Becca-
ria, per esempio, dice che il loro unico obiettivo è di impedire i crimini,
ovvero che la pena deve essere tale da impedire ad altri di commettere il
crimine: è il suo valore di esempio, il suo effetto dissuasivo che deve misu-
rare la pena17. Nel XIX secolo, [invece,] la pena si propone di agire sul-
l'individuo stesso e di correggerlo, il suo valore dissuasivo non è altro che
un corollario. Infine, il Codice di istruzione criminale prevede la creazio-
ne di istituzioni parapenali con funzione moralizzatrice: tutti i sistemi che
affiancano la sanzione, la sorveglianza che deve accompagnare una serie
di pene, le case di correzione, di rieducazione.
Vi è quindi una sorta di dualità, essenziale al sistema penale nel suo
insieme: da una parte, lo sviluppo della teoria di Beccaria, un discorso
della penalità pura che conosce soltanto la positività della legge e non
l'immoralità del crimine, l'universalità delle legge e non la moralizzazione
degli individui, l'inevitabilità della legge e non la correzione degli indivi-
a Il manoscritto (fol. 13) aggiunge: “un quaccherismo rampante (una ricerca, una pretesa
di trasformare, di correggere, di migliorare, di rigenerare, di individualizzare)”.
b Manoscritto (fol. 13): “psico-sociologico”.
c Manoscritto (fol. 14), a margine: “giuridico-psicologica”.
d Manoscritto (fol. 14), a margine: “psicologico-giudiziaria”.
18 Foucault svilupperà questo tema in una conferenza del 1978, “L'évolution de la notion
d''individu dangereux' dans la psychiatrie légale du XIXe siècle” (in “Déviance et Socié-
té”, n. 4, vol. 5, 1981, pp. 403-422), in DE, n. 220, ed. 1994, vol. III, pp. 443-464; ed.
2001, vol. II, pp. 443-464; trad. it. di S. Loriga, “L'evoluzionel della nozione di 'indivi-
duo pericoloso' nella psichiatria legale del XIX secolo”, in Archivio Foucault 3, cit., pp.
43-63, e anche in Mal fare, dir vero, cit., lezione del 20 maggio 1981, pp. 191 sgg.
che era l'individuo al momento del crimine 19 – perché, se è vero che la pu-
nizione è una guarigione, può estinguersi soltanto con l'assicurazione che
si è raggiunta la guarigione, da cui l'idea della gradualità delle pene in
funzione del “progresso” dell'integrazione socialea.
***
21 Il Sindacato della magistratura, creato nel giugno del 1968, pur non essendo una conse-
guenza diretta del Maggio '68 (la decisione di fondarlo risaliva infatti a gennaio), era
un'organizzazione insieme professionale e militante molto attenta al problema della cri-
minalità borghese e sostenne alcuni obiettivi del Gip e di Foucault. I “giudici rossi” del
Sindacato della magistratura, secondo l'espressione di “Paris Match” del 1975, coniuga-
vano la “preoccupazione per la rivalutazione e la difesa della professione con ambizioni
più militanti e meno direttamente corporativiste, di apertura e sostegno alle mobilita-
zioni sindacali, soprattutto nel mondo del lavoro”. Cfr. L. Israël, Un droit de gauche?
Rénovation des pratiques professionnelles et nouvelles formes de militantisme des juri-
stes engagés dans les années 1970, in “Sociétés contemporaines”, n. 73, 2009, p. 59; cfr.
anche L. Joinet, Critiques du jugement. Propos recueillis par Olivier Doubre et Stany
Grelet, in “Vacarme”, n. 29, 2004, http://www.vacarme.org/article1370.html. Louis Joi-
net, uno dei pionieri del Sindacato della magistratura, riferisce di aver partecipato alla
fondazione del Gip insieme a Foucault. Nel 1973 e poi nel 1977 lo invitò a intervenire al
seminario del Sindacato a Goutelas; cfr. M. Foucault, La redéfinition du judiciable. In-
tervention au séminaire du Syndacat de la Magistrature, 1977, in “Vacarme”, n. 29,
2004; trad. it. di A.L. Carbone e A. Inzerillo, “La ridefinizione del giudiziabile”, in La
strategia dell'accerchiamento, cit., pp. 37-50. Nel 1977 il Sindacato si impegnò soprat-
tutto contro l'estradizione di Klaus Croissant, ex avvocato della “banda Baader” –
un'altra lotta in cui Foucault avrà un ruolo di primo piano; cfr. M. Foucault, “Va-t-on
extrader Klaus Croissant?” (in “Le Nouvel Observateur”, n. 679, 14-20 novembre 1977),
in DE, n. 210, ed. 1994, vol. III, pp. 62-63; ed. 2001, vol. II, pp. 62-63; trad. it. di A.L.
Carbone e A. Inzerillo, “Klaus Croissant sarà estradato?”, in La strategia dell'accer-
chiamento, cit., pp. 51-59; cfr. anche L. Israël, Défendre le défenseur de l'ennemi public.
L'affaire Croissant, in “Le Mouvement social”, n. 240, 2012-13, pp. 67-84.
a Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “Per quanto paradossale possa essere, l'applicazione
rigorosa del codice è più sovversiva della correzione da parte della criminologia”.
Lezione del 14 marzo 1973
légale”, prima serie, n. 36, pp. 16-46, e n. 37, pp. 83-111, in particolare pp. 84-85, Jean-
Baptiste Baillière, Paris 1847.
a Manoscritto (fol. 3): “dell'irregolarità del tempo, della mobilità nello spazio, della fre-
nesia del corpo”.
5 M. Chevalier, De l'industrie manufacturière en France, Jules Renouard et C.ie, Paris
1841, p. 38. Louis Reybaud, nel suo libro Économistes modernes (Lévy Frères, Paris
1862), dedica un capitolo a Michel Chevalier (pp. 172-243).
6 Ivi, p. 39.
7 Ivi, pp. 39-40 (“indipendenza assoluta!” – secondo il testo originale).
e fissare dall'apparato di produzione. Ora, se ci può essere una storia del-
la pigrizia, è perché essa non è la posta in gioco delle medesime lotte se-
condo i diversi rapporti di produzione all'interno dei quali funziona come
forza perturbatrice. C'è una forma di pigrizia classica, nel XVII-XVIII se-
colo, che è definita dal termine ozio. Esso è riconosciuto e controllato a
due livelli: [da una parte,] subisce una pressione locale, quasi individuale
– quella del mastro-artigiano, che fa lavorare il più possibile il suo aiu-
tante. [Dall'altra parte,] a livello statale, in una forma di economia domi-
nata a lungo dai temi mercantilisti, con l'obbligo di mettere tutti al lavoro
per aumentare al massimo la produzione, avvalendosi della polizia e degli
intendenti. Tra queste due pressioni della cellula artigianale e della poli-
zia di Stato, l'ozio dispone di un'ampia area per manifestarsi. Nel XIX se-
colo la pigrizia avrà un'altra forma: innanzitutto perché ci sarà bisogno di
oziosi congiunturali: i disoccupati. Quindi vedremo presto scomparire
l'accusa di ozio rivolta alla classe lavoratrice. Mentre invece, al momento
della nascita dei centri industriali, delle fabbriche, l'oggetto del controllo
e della pressione sono tutti questi rifiuti del lavoro che prendono una for-
ma più o meno collettiva e organizzata, fino a quella degli scioperi.
Questo illegalismoa della dissipazione ha dunque una specificità che
ora bisogna precisare. In primo luogo, i rapporti tra l'illegalismo della
dissipazione e l'illegalismo del depredamento: uno dei grandi problemi
della morale, della polizia, di tutti gli strumenti di controllo del XIX se-
colo, sarà di separare questi illegalismi e fare del depredamento qualcosa
che riguarda una penalità severa, come nel caso di un delitto, da cui dis-
sociare l'illegalismo dolce, quotidiano, permanente, della dissipazione.
Ma, allo stesso tempo, questo apparato che tenta di opporre il ladro al
pigro mostra come si passa dall'uno all'altro. Di fatto, dietro a questo
a Manoscritto (fol. 5):
“Tali illegalismi che vertono sull'economia delle forze lavoro, e che possiamo mettere
sotto l'etichetta non più di ozio ma di dissipazione, sono dunque nuovi
• nella forma
• nella diffusione
• negli effetti
• nella lotta che si scatena intorno a essi”.
sforzo di rottura e di raccordo, c'è una realtà che è ben diversa e comples-
sa. Da una parte, un rafforzamento reciproco di questi illegalismi: più le
masse sono dissipate, mobili, meno sono fissate in punti precisi dell'appa-
rato di produzione, e più sono tentate di passare al depredamento. Al
contrario, più hanno la tendenza a depredare, più tenderanno a condurre
una vita irregolare, per sfuggire alle sanzioni, e a cadere nel nomadismo a.
Ma, dall'altra parte, nel momento in cui si cerca di dominare uno di que-
sti illegalismi, si finisce per rafforzare l'altro; infatti, tutti i pesanti con-
trolli con cui si cerca di sorvegliare le popolazione, di frenare il depreda-
mento, comportano un'accelerazione del processo di mobilità8. Viceversa,
i mezzi usati per controllare l'illegalismo della dissipazione portano a raf-
forzare il depredamento, soprattutto il mezzo usato per fissare gli operai
al loro luogo di lavoro, per fare in modo che lavorino quando e dove si
decide – cioè con un tasso salariale più basso possibile e una retribuzione
settimanale, in modo che l'operaio abbia in tasca meno denaro possibile.
Spingendolo verso l'indigenza, lo si fissa al suo lavoro, ma allo stesso
tempo gli si indica la possibilità di depredare come maniera per sfuggire
alla miseria. Quindi i due illegalismi si rafforzano a vicenda, fino al mo-
mento in cui, verso la metà del XIX secolo, si troverà un altro mezzo per
controllare l'illegalismo della dissipazioneb.
15 Nel manoscritto (fol. 12) Foucault menziona: la “legge sull'ubriachezza” (legge del 23
gennaio 1873 che sanzionava l'ubriachezza in pubblico) e “il carattere delittuoso del no-
madismo” (articolo 270 del Codice penale del 1810).
16 Questa pratica è descritta da Louis-René Villermé nella sua opera Tableau de l'état
physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de
soie, Études et documentations internationales, Paris 1989 [ed. orig. Jules Renouard et
Cie Librairies, Paris 1840], p. 391. A proposito degli strumenti adottati per combattere
l'ubriachezza degli operai, Villermé scrive: “Ma ho visto di meglio a Sedan. In questa
città ho appreso, non senza sorpresa e soddisfazione, che i capi delle prime case, e la
maggior parte degli altri, si associavano e si accordavano tra loro per reprimere l'ubria-
chezza […], ed erano così abili e fortunati da riuscirci. Il mezzo che usavano consisteva
nel prevenire, nella misura del possibile, la disoccupazione, nel conservare gli impieghi
per i lavoratori che si ammalavano, insomma nel trattare bene coloro di cui erano sod-
disfati, nel tenerseli stretti, ma anche nel non ammettere mai un ubriaco nelle loro offi-
cine, nel mandare via e non riprendere più gli uomini visti ubriachi, e nel punire con la
stessa pena l'assenza dal lavoro il lunedì. […] Gli operai sanno molto bene quanto devo-
no ai loro capi per un servizio del genere, e si dimostrano riconoscenti. Sono stati pro-
prio loro a informarmi sulle buone azioni dei produttori, e ho potuto così convincermi
del buon influsso che hanno questi ultimi nella prevenzione delle cattive abitudini”
(ibid.). Anche Paul Leroy-Beaulieu, in État moral et intellectuel des populations ouvriè-
ed era stato riassunto solo col giuramento di non ubriacarsi più. Dal
1818 in poi, il controllo avviene anche attraverso il risparmio 17: il libretto
di risparmio funziona come un inquadramento morale, un gioco di ri-
compense e di punizioni perpetue per il modo di vivere degli individui.
Dal 1803 gli operai che non avevano un libretto di lavoro in cui venivano
segnati i nomi dei loro successivi datori di lavoro erano arrestati per va-
gabondaggio; ma dal 1810 un accordo di fatto con la polizia stabiliva che
un operaio senza libretto non dovesse essere arrestato se possedeva un li-
bretto di cassa di risparmio. In quanto garanzia di moralità, esso permet-
teva all'operaio di sfuggire ai vari controlli di polizia; allo stesso modo,
l'assunzione preferenziale degli operai con un libretto di cassa di rispar-
mio era una pratica padronale diffusa. All'interno dei meccanismi econo-
mici, si vede quindi insinuarsi tutta una serie di giochi di ricompense e di
punizioni, un gioco di penalità che è infragiudiziario.
Ora, questo sistema punitivo extragiudiziario ha come caratteristica
primaria il fatto di non dipendere dalla pesante macchina penale, con il
suo sistema binario; perché tutto questo gioco punitivo fa sì che nessuno
res (Guillaumin et Cie, Paris 1868), cita più volte Sedan come esempio di città in cui
sono messe in atto misure capaci di elevare lo stato morale degli operai: “Ovunque ve-
diamo gli operai sobri, a Sedan, a Guebwiller, troviamo l'iniziativa intelligente degli in-
dustriali” (p. 74). (Jacqueline Lalouette, alla fine del XX secolo, osserva che nessuna
statistica ha ancora permesso di stabilire il consumo di alcol in base alla classe sociale;
cfr. J. Lalouette, Alcoolisme et classe ouvrière en France aux alentours de 1900 , in “Ca-
hiers d'histoire”, n. 1, vol. XLII, 1997, http://ch.revues.org/index11.html.)
17 Nel manoscritto, dopo “risparmio” Foucault aggiunge: “Bruno” (fol. 13) probabilmen-
te in riferimento al personaggio fittizio inventato da Pierre Édouard Lemontey in
Moyen sûr et agréable de s'enrichir, ou, les Trois Visites de M. Bruno, Hacquart, Paris
1818, e ripreso in Suite à la brochure de M. P.-E. Lemontey, intitulée Moyen sûr et
agréable de s'enrichir, ou Quatre Nouvelles Visites de M. Bruno. Conseils aux hommes
de tous les rangs et de toutes les classes, et surtout aux pères de famille, aux capitali-
stes, aux propriétaires, aux rentiers, aux artistes, aux salariés, etc., Renard, Paris 1825.
Monsier Bruno, ebanista ritiratosi dal commercio, cerca di insegnare ad alcuni operai i
vantaggi del risparmio. Pierre Édouard Lemontey fu presidente dell'Assemblea legislati-
va nel 1791, e in seguito, di ritorno da Lione, prese parte all'insurrezione a favore dei gi-
rondini e si esiliò in Svizzera dopo la vittoria dei repubblicani. Tornato nelle grazie du-
rante l'Impero e la Restaurazione, nel 1819 fu eletto all'Académie française, e morì nel
1826; cfr. Dr Robinet, A. Robert, J. Le Chaplain, Dictionnaire historique et biographi-
que de la Révolution et de l'Empire 1789-1815, Charles Hérissey, Évreux 1898.
sia effettivamente condannato, non fa ricadere nessuno fuori dalla legge,
nella delinquenza. Si tratta di un gioco che avverte, minaccia, [esercita]
una sorta di pressione costante. È un sistema graduale, continuo, cumu-
lativo: tutti questi piccoli avvertimenti, tutte queste piccole punizioni alla
fine si sommano e vengono annotate, sia nella memoria dei datori di la-
voro sia sui libretti, e così, accumulandosi, tutto ciò tende a una soglia,
esercita sull'individuo una pressione crescente, fino al momento in cui, ri-
scontrando difficoltà sempre maggiori a trovare lavoro, egli cade nella de-
linquenza. La delinquenza diventerà la soglia, fissata in anticipo e in cer-
to modo naturale, di questa serie di piccole pressioni che si esercitano
lungo tutta l'esistenza individuale. Per esempio, questo meccanismo puni-
tivo extrapenale nel caso del libretto funziona così: a partire dal decreto
di applicazione risalente al vendemmiaio anno XI, un operaio deve la-
sciare il suo padrone con un libretto in cui egli abbia annotato il lavoro, il
salario, le date di inizio e fine18. Ora, ben presto i padroni avevano preso
l'abitudine di scrivere sui libretti il loro apprezzamento per l'operaio. Nel
1809, [con] una circolare, il ministro degli Interni, Montalivet, ricorda ai
prefetti che i padroni non hanno il diritto di scrivere annotazioni negati-
ve, ma soltanto le condizioni di impiego, e aggiunge: dal momento che è
comunque permesso inserire annotazioni elogiative, tutti capiranno che
l'assenza di annotazioni elogiative equivarrà a un'annotazione negativa 19.
Le condizioni di impiego sono quindi legate alla presenza o all'assenza di
tali annotazioni; inoltre l'indebitamento [dell']operaio lo obbliga a chie-
***
simo verrà affrontato l'esame come forma di potere-sapere legato ai sistemi di control-
lo, di esclusione e di punizione tipici delle società industriali”; “Teorie e istituzioni pe-
nali”, lezione tredicesima [bis], foll 4-10; Lezioni sulla volontà di sapere, cit., lezione del
3 febbraio 1971, pp. 100-106. Sarà ripresa e sviluppata anche negli anni successivi. Cfr.
“La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 99-113 (nell'Edipo re di Sofocle), pp. 120-131
(nell'alto Medioevo); Sorvegliare e punire, cit., pp. 22-23 e 244-247; Mal fare, dir vero,
cit., lezione del 28 aprile 1981, pp. 48 sgg. Per un'analisi molto simile del ruolo dell'inda-
gine nel diritto medievale, cfr. J.R. Strayer, Le origini dello stato moderno, cit. […], pp.
88-89 (descrizione dell'emergere del giurato come metodo di quasi-indagine – indagine
fondata non sulla testimonianza ma sulla conoscenza dei vicini in qualità di “buoni cit-
tadini”).
22 La nozione di “esame” gioca un ruolo importante nel pensiero di Foucault. Questa no-
zione sarà sviluppata in “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 136-138 (nel contesto
del panopticon); Il potere psichiatrico, cit., lezione del 21 novembre 1973, p. 61; e in
Sorvegliare e punire, cit., pp. 202-212 (“L'esame”) e pp. 245-247.
a Il manoscritto (fol 15) aggiunge: “(con l'indagine dell'istruzione e la prova
dell'udienza)”.
tidiano, complesso, profondo che moralizza il giudiziario come mai pri-
ma d'ora. In breve, è una società che a questa attività permanente di pu-
nizione collega un'attività connessa di sapere e di registrazionea.
La coppia sorvegliare-punire si instaura come rapporto di potere in-
dispensabile alla fissazione degli individui all'apparato di produzione,
alla costituzione delle forze produttive, e caratterizza la società che pos-
siamo chiamare disciplinare23. Abbiamo qui un mezzo di coercizione etica
e politica necessaria affinché il corpo, il tempo, la vita, gli uomini siano
integrati, in forma di lavoro, nel gioco delle forze produttive. Resterà an-
a Manoscritto (fol. 15): “lasciare da parte questa nuova forma di sapere. Ricordare che vi-
viamo in una società punitiva ed esaminatrice, disciplinare”.
23 Il concetto di potere disciplinare, che si distingue sia dal potere di sovranità, sia dal
bio-potere (il quale appare con La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P.
Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, e “Bisogna difen-
dere la società”, cit., [lezione] del 17 marzo 1976), sia dai dispositivi di sicurezza (che
diverranno importanti nel 1978-1979 con Sicurezza, territorio e popolazione, cit., e Na-
scita della biopolitica, cit.), costituirà uno degli assi più importanti del pensiero di Fou-
cault tra il 1973 e il 1980.
L'ipotesi di un potere disciplinare, intimamente legato all'insieme delle pratiche di con-
trollo, di sorveglianza e di punizione, sarà sviluppata non solo nell'ultima lezione di
questo corso, il 28 marzo 1973, ma nelle conferenze e nelle lezioni dell'anno dopo; cfr.
“La verità e le forme giuridiche”, cit., p. 131 (descrizione della società disciplinare); Il
potere psichiatrico, cit., lezione del 21 novembre 1973, pp. 48-67, in particolare p. 48:
“L'ipotesi che vorrei avanzare è che esiste, nella nostra società, qualcosa che potremmo
definire un potere disciplinare. Con tale espressione mi riferisco, semplicemente, a una
certa forma, in qualche modo terminale, capillare, del potere, un ultimo snodo, una de-
terminata modalità attraverso la quale il potere politico – i poteri in generale – arriva-
no, come ultima soglia della loro azione, a toccare i corpi, a far presa su di essi, a regi-
strare i gesti, i comportamenti, le abitudini, le parole”; cfr. anche Gli anormali, cit., le-
zione del 15 gennaio 1975, pp. 47-52 (sviluppo del modello dell'incasellamento della cit-
tà appestata versus il modello dell'esclusione del lebbroso; nella nota 11 di p. 56 viene
indicato che Foucault mette in questione la sua analisi delle forme di tattica punitiva
sviluppata il 3 gennaio 1973, ma – come indica Foucault stesso nella lezione del 3 gen-
naio, alle pp. 14-18 – sembrerebbe piuttosto che critichi retrospettivamente il suo uso
precedente della nozione di esclusione); “Bisogna difendere la società”, [lezione] del 25
febbraio 1976, pp. 159-163 (ricapitolazione del potere disciplinare) e del 17 marzo 1976,
pp. 215-227 (confronto tra la disciplina e la sicurezza); Sicurezza, territorio e popola-
mento, cit., lezione dell'11 gennaio 1978, pp. 15-31 (confronto approfondito tra i poteri
giuridico, disciplinare e di sicurezza). La nozione di potere di sovranità è ben sviluppata
in Il potere psichiatrico, cit., pp. 50-54; i dispositivi di sicurezza, in Sicurezza, territorio,
popolazione, cit., lezione del 18 gennaio 1978, pp. 45-48, e lezione del 1° febbraio 1978,
pp. 87-89.
cora un passo da fare: come sarà possibile questa sorveglianza-
punizione? Con quali strumenti il sistema disciplinare che si mette in atto
ha potuto effettivamente essere assicuratoa?
quella delle congregazioni religiose” (p. 199). Sul regime e sui regolamenti di Jujurieux,
cfr. anche: J. Simon, L'ouvrière, Librairie de L. Hachette & Cie, Paris 18919 [1861], pp.
56 sgg.; M. Cristal, De l'éducation professionnelle des filles, in “Revue contemporaine”,
vol. XLVIII, a. XIV, seconda serie, tomo 48, 15 novembre 1865, Librairie Dentu, Paris
1865, pp. 32,62, in particolare pp. 42 sgg. Alcuni mesi dopo Foucault riprenderà lo stes-
so esempio nelle conferenze di Rio, “La verità e le forme giuridiche” (cit., p. 151), in
questa forma: “Vi proporrò un indovinello. Presenterò il regolamento di un'istituzione
che è realmente esistita negli anni tra il 1840 e il 1845 in Francia, all'inizio del periodo
che sto analizzando. Fornirò il regolamento senza dire se si tratta di una fabbrica, di
una prigione, di un ospedale psichiatrico, di un convento, di una scuola o di una caser-
ma: bisogna indovinare di quale istituzione si tratta” (p. 151); e anche in Sorvegliare e
punire (cit.), in cui lo presenta come un'estensione di questa “grande trama carceraria”
che si estende dalla prigione agli orfanotrofi, agli stabilimenti per apprendisti fino, “più
lontano ancora, [alle] officine-convento, come quelle della Sauvagère poi di Tarare e di
Jujurieux (dove gli operai entrano verso l'età di tredici anni, vivono rinchiusi per anni e
non escono che accompagnati; non ricevono salario, ma maturano delle somme, modi-
ficate da prime di buona condotta e di zelo, che ricevono all'uscita)” (p. 329). Per una
descrizione degli alloggi operai costruiti a Lille, Foucault cita ( ivi, p. 330, nota 1) un
passo da “Houzé de l'Aulnay, Des logements ouvriers à Lille, 1863, pp. 13-15”. Le nozio-
ni di regolarizzazione e di impiego del tempo, che saranno sviluppate in questa lezione,
emergeranno come temi principali nell'introduzione e nello sviluppo di Sorvegliare e
punire, cit., pp. 8-9 e 162-165.
2 Capitolo V del regolamento di Jujurieux, citato in J. Simon, L'ouvrière, cit., pp. 56-57, e
in “Revue contemporaine”, cit., p. 43. Lo stesso passo si trova anche nel modello anoni-
mo del “Regime e regolamento della tessitura della seta”, in L. Reybaud, Études sur le
régime des manufactures, cit., p. 344.
3 Nel manoscritto Foucault ritrascrive un passo che prende direttamente da Études sur le
régime des manufactures, cit., p. 201: “'La chiesa parrocchiale avrebbe potuto essere un
luogo di contatto col mondo; così all'interno dello stabilimento è stata consacrata una
cappella, in cui i fedeli che vivono all'esterno non sono ammessi'”.
caricato anche dell'intendenza della casa e della supervisione negli opifi-
ci4. Il denaro guadagnato viene trattenuto fino all'uscita 5. Nel caso in cui
qualcuno di sesso opposto a quello dei pensionanti per ragioni di servizio
dovesse essere chiamato all'interno dello stabilimento, il regolamento
dice che dovrà essere scelto “con estrema cura e dovrà restare soltanto per
un soggiorno brevissimo; è imposto loro il silenzio, pena l'espulsione” 6. I
princìpi generali dell'organizzazione sono che ciascun ospite non sia mai
solo, che bisogna evitare la mescolanza e che vi deve regnare costante-
mente lo stesso spirito7.
Non si tratta di un modello di regolamento di un istituto detentivo
del XVII secolo, ma del regolamento di una fabbrica di tessitura della
seta a Jujuriex nell'Ain nel 1840a. In un certo senso, è un'utopia, è l'istitu-
zionalizzazione della fabbrica-caserma-conventob: una fabbrica senza sa-
lario, in cui il tempo dell'operaio è acquistato dal padrone, senza nessun
resto, in cui il corpo dell'operaio è letteralmente incatenato all'apparato
di produzione. È l'Icaria dei padroni. Ora, queste utopie sono state relati-
vamente numerose e, se è vero che sono scomparse piuttosto rapidamen-
te, verso il 1860-1870, ne sono esistite in gran numero: verso il 1860, nel
4 Ibid.: “Quando le operaie escono, e solo in casi specifici, una sorella le accompagna;
esse vanno a passeggio soltanto con la guida delle sorelle”.
5 Nel manoscritto (fol. 2) Foucault osserva: “Niente salario. Soltanto delle somme (da 40
a 80 franchi all'anno) trattenute fino all'uscita; con un sistema di premi se il lavoro è fat-
to bene”. Cfr. L. Reybaud, Études sur le régime des manufactures, cit., p. 203: “Al posto
del salario, esse ricevono una somma che varia dagli 80 ai 150 franchi all'anno, a secon-
da della natura del lavoro e dei livelli di apprendistato. Alla buona confezione del lavoro
sono inoltre associati dei premi, che si distribuiscono in base a una classifica che viene
stilata ogni mese”; e p. 204 (riguardo allo stabilimento di Tarare, si dice che le somme
variano da 40 a 100 franchi all'anno; i premi, da 1 franco a 50 centesimi al mese).
6 Ivi, p. 201.
7 Cfr. ibid.: “Il sequestro è quindi tanto assoluto quanto possibile, e il tempo si divide tra
il lavoro e gli esercizi di pietà, accompagnati da qualche distrazione”.
a Manoscritto (foll. 3-4):
“Questo è il regolamento di quale istituzione? Non importa. Uomo o donna; prigione;
pensionato; scuola; istituto di correzione; ospedale psichiatrico; orfanotrofio; laborato-
rio per ragazze pentite. Casa chiusa. Caserma. E tuttavia non è né una ricostruzione né
un idealtipo. È uno stabilimento effettivamente esistito – la fabbrica di seterie di Juju-
rieux. Perché citare questo esempio che è un caso limite?”.
b Manoscritto (fol. 4): “La fabbrica-convento, la fabbrica-prigione”.
Midi, lavorano in queste stesse condizioni quarantamila operaie 8. Rey-
baud descrive anche una fabbrica di tessuti di lana di Villeneuvette, che
forniva soprattutto indumenti per l'esercito: “La municipalità è comple-
tamente rinchiusa nella fabbrica. La vita civile e la vita lavorativa vi si
confondono. La chiesa e il palazzo comunale, come le manifatture e gli
alloggi degli operai, costituiscono una proprietà privata che si fonda su
un regime quasi militare. Dei bastioni merlati fanno da mura di cinta; si
batte la diana e la sera il ponte levatoio viene alzato” 9. Il regolamento è
rigido: sono esclusi tutti i nomadi; i rientri devono avvenire a orari fissi;
tutto ciò che è in gioco ed ebbrezza è bandito. L'unica locanda della città
chiude alle 21; nel caso in cui una seduzione non venisse riparata col ma-
trimonio, l'operaio era subito considerato un delinquente e dequalificato,
e se rifiutava di sposarsi veniva costretto all'esilio 10. Il rapporto conclude-
va: “Queste classi lavoratrici, così indocili al giogo, come sono arrivate
qui? […] La causa sta in uno strumento di governo che agiva sugli operai
a loro insaputa, lusingava la loro vanità e disarmava il loro desiderio”11.
È quindi un fenomeno di grande ampiezza. Nella prima metà del
XIX secolo ha avuto luogo tutto un processo di reclusione, di incaserma-
mento della classe operaia e, per mezzo dell'apparato di produzione, in
tutta una serie di istituzioni non produttive, come ad esempio le istituzio-
ni pedagogiche: asili, collegi, orfanotrofi; le istituzioni terapeutiche: ospi-
8 Nel manoscritto Foucault fa i seguenti esempi: “Tarare, Séauve, Bourg-Argental e La
Sauvagère” (fol. 4), e aggiunge (foll. 4-5): “tessitura – In Svizzera 'L'operaia è una vera e
propria pensionante; è alloggiata, nutrita e vestita; entra in una grande famiglia, dove
non le mancano nemmeno le cure'; 'Le operaie hanno il diritto di uscire per visitare i pa-
renti che vivono nei dintorni. Somme da 50 a 100 franchi'. // L'episodio della giovane
con lo sguardo ardito (scheda Reybaud). // Esistono fabbriche simili per gli uomini. // In
Francia, Villeneuvette. In America, Lowell”. Le indicazioni riguardanti Tarare, gli altri
luoghi menzionati e la Svizzera provengono da L. Reybaud, Études sur le régime des
manufactures, cit., pp. 197 sgg. Louis Reybaud (1799-1879), membro dell'Institut de
France, aveva personalmente “visitato tre di questi stabilimenti: Jujurieux nell'Ain, Ta-
rare nel Rodano, La Séauve nell'Alta Loira” (ivi, p. 197) e aveva studiato gli altri: Bourg-
Argental, La Sauvagère ecc.
9 L. Reybaud, La laine. Nouvelle Série des études sur le régime des manufactures , Michel
Lévy Frères, Paris 1867, p. 111.
10 Ivi, p. 127.
11 Ivi, pp. 127-128.
zi, manicomi. In via provvisoria, si potrebbero mettere tutte queste istitu-
zioni sotto il segno della reclusione. A queste istituzioni reali si potrebbe-
ro aggiungere tutti i vari progetti e utopie di reclusione a: per esempio,
Marquet-Vasselot12, direttore della prigione di Loos, immaginò una città-
rifugio per i delinquenti e gli indigenti di un'intera regione della Francia b;
o il sogno di Villeneuve-Bargemont che, intorno al problema del matri-
monio e delle nascite nella classe operaia, diceva: “Verrà sicuramente un
giorno […] in cui i governi saranno spinti, per forza di cose e per un mag-
giore sviluppo dell'illuminismo e della libertà ad autorizzare” – sul mo-
dello dei monaci e dei preti – “la formazione di nuove associazioni di la-
voro e carità composte da celibi, che non cercheranno più l'opulenza ma
l'utilità, e il cui scopo, allo stato attuale della civiltà, si conformerà ai
nuovi bisogni della società13.
È tuttavia un'attività di ricerca che attraversa questa produzione di
utopie. Ricerche architettoniche: per risolvere il problema della costruzio-
ne di uno stabilimento che assicuri il massimo grado di sorveglianza; ar-
chitettura del teatro rovesciata14, in cui bisogna fare in modo che il mag-
a Il manoscritto (fol. 5) presenta questi esempi come “tutta una serie di istituzioni miste,
al tempo stesso produttive e repressive: 'colonie' agricole; produttive e pedagogiche: opi-
fici, ricoveri per bambini”.
12 Nel manoscritto (fol. 6) Foucault fa riferimento all'opera di L.-A.-A. Marquet-Vasselot,
La ville du refuge. Rêve philantropique, Ladvocat, Paris 1832. Marquet-Vasselot fu di-
rettore della centrale di detenzione di Loos a Lille. Foucault ritornerà su quest'opera in
Sorvegliare e punire (cit., p. 268) e anche sulla funzione di direttore penitenziario del
suo autore (pp. 255, 263, 277, 278).
b Riguardo a questa serie di sogni e di utopie, il manoscritto (fol. 6) aggiunge che “hanno
le seguenti caratteristiche.
1) rappresentare delle analogie rispetto alla società data; queste utopie devono assicura-
re delle funzioni esistenti nell'attuale società;
2) rappresentare dei sistemi di dominio. Memorizzare alcune categorie.
Utopie del servizio e della servitù. Si sogna la schiavitù – enclave di schiavi”.
13 A. de Villeneuve-Bargemont, Économie politique chrétienne, ou Recherches sur la na-
ture et les causes du paupérisme, en France ou en Europe, et sur les moyens de le soula-
ger et de le prévenir, cit., […] vol. I, p. 236.
14 Molto probabilmente è un'allusione al principio di sorveglianza universale elaborato
nelle Lezioni sulle prigioni di Julius (cfr. supra, lezione del 10 gennaio […]) e al Panop-
ticon di Bentham (cfr. supra, lezione del 24 gennaio […]). È interessante notare che il
sociologo americano Philip Smith, nella sua critica a Foucault (Punishment and Cultu-
re, University of Chicago Press, Chicago 2008, pp. 106-107), suggerisce che Bentham
gior numero possibile di individui possa trovarsi sotto lo sguardo e la sor-
veglianza del minor numero di persone (cfr. le ricerche di Baltard padre 15.
Ricerche “micro-sociologiche”a ante litteram: sugli schemi di dipendenza,
di autorità, di sorveglianza in un gruppo limitato. Così, la colonia agrico-
la di Mettray16, fondata verso il 1841, è un modello di questa ricerca: il
gruppo di coloni veniva diviso in piccole famiglie, con una doppia autori-
tà, una esterna, del sorvegliante, e l'altra, emanazione del proprio gruppo
e nelle mani di uno dei ragazzi considerato come il fratello maggiore.
***
a
Il problema è di sapere qual è lo statuto di queste curiose istituzioni,
alcune delle quali sono scomparse, come le fabbriche-conventi, mentre al-
tre si sono conservate e sono proliferate, come le prigioni. Ci si può in ef-
fetti domandare in che misura questa reclusione possa essere considerata
aveva forse preso ispirazione dal modello del teatro, piuttosto che dal maniero; trenta-
cinque anni prima, ritroviamo qui il possibile legame con il teatro. Cfr. anche infra […].
15 L.-P. Baltard, Architectonographie des prisons, ou Parallèle des divers systèmes de di-
stribution dont les prisons sont susceptibles, selon le nombre et la nature de leur popu-
lation, l'étendue et la forme des terrains, [l'autore,] Paris 1829. Baltard sarà citato in
Sorvegliare e punire a p. 256.
a Manoscritto (fol. 6): “ricerche 'micro-sociologiche': il massimo di autorità. Studio sulla
trasmissione degli ordini; le forme di raggruppamento e di isolamento degli individui”.
16 Foucault svilupperà un'analisi di Mettray in Il potere psichiatrico, cit., lezione del 28
novembre 1973, p. 90, e in Sorvegliare e punire, cit., pp. 324-328. La colonia di Mettray
fu fondata nei pressi di Tours dal magistrato Frédéric-Auguste Demetz (1796-1873). Per
alcuni riferimenti contemporanei: cfr. F.-A. Demetz, Fondation d'une colonie agricole
de jeunes détenus à Mettray, B. Duprat, Paris 1839; [É. Ducpetiaux,] Colonies agricoles,
écoles rurales et écoles de réforme pour les indigents, les mendiants et les vagabonds et
spécialement pour les enfants... en Suisse, en Allemagne, en France, en Angleterre, dans
les Pays-Bas et en Belgique. Rapport adressé à M. Tesch, Ministre de la Justice, par Ed.
Ducpetiaux, impr. T. Lesigne, Bruxelles 1851, pp. 50-65; F.-A. Demetz, La colonie de
Mettray, De Hennuyer, Batignolles 1856; Id., Notice sur la colonie agricole de Mettray,
Ladevèze, Tours 1861. Jean Genet descriverà la sua esperienza a Mettray tra il 1926 e il
1929 in Miracle de la rose, Marc Barbezat-L'Arbalète, Paris 1946; trad. it. di D. Gibelli,
Miracolo della rosa, il Saggiatore, Milano 2006. Per uno studio più recente, cfr. L. Forli-
vesi, G.-F. Pottier, S. Chassat, Éduquer et punir. La colonie agricole et pénitentiaire de
Mettray (1839-1937), Presses universitaires de Rennes, Rennes 2005.
a Manoscritto (fol. 7), titoli delle sezioni: “Analisi di queste istituzioni”. “A: Reclusione-
sequestro”.
come l'eredità dell'internamento del XVII-XVIII secolo, vale a dire dei
controlli più o meno diffusi, organizzati dallo Stato, e del grande interna-
mento classico17. Una cosa è certa: tutti hanno coscienza della prolifera-
zione di queste istituzioni. Così, in Habitations ouvrières et agricoles,
pubblicato nel 1855, Muller scrive: “Seguiamo il lavoratore dai suoi primi
giorni d'infanzia fino ai terribili anni della vecchiaia, quando la natura ri-
duce le sue braccia all'impotenza. Accanto a ciascuno dei suoi bisogni, è
stata creata un'istituzione che se ne fa carico […]. Per l'infanzia, ecco i
nidi e gli asili, che permettono alla madre di frequentare la manifattura
[…]. Per l'età matura, […] la beneficenza dello Stato ha sopperito con gli
ospedali alle vecchie risorse della carità monastica […]. [E recentemente,
è stata inventata] l'organizzazione del soccorso a domicilio […]. Il lavora-
tore poteva rischiare di dissipare, sulla spinta della speculazione, i pochi
fondi penosamente accumulati con la fatica e lo sforzo. Per proteggerlo
da questo pericolo, sono state immaginate le casse di risparmio. La soffe-
renza e la malattia minacciavano i giorni della sua vecchiaia; i nostri pa-
dri, tramite gli ospizi, hanno pensato di attenuare l'imprevisto: noi fac-
ciamo di più, facilitiamo la previdenza attraverso le casse pensionistiche
individuali. Infine bisognava migliorare le abitazioni dei lavoratori” 18 – ed
è per questo che si sono create le città operaie. Si è quindi consapevoli
dell'inquadramento costante dell'individuo, dalla nascita alla morte, da
parte delle istituzioni.
In questo testo è possibile rintracciare le differenze fondamentali tra
l'internamento dell'età classica e quello a cui assistiamo nel XIX secolo.
Nell'età classica, il controllo e la fissazione degli individui erano ottenuti
innanzitutto con la loro appartenenza a delle caste, a delle comunità, a
dei gruppi, come i comitati, le corporazioni, le compagnie, i corpi profes-
sionali. L'individuo, appartenendo a un determinato corpo sociale, era
quindi preso in un insieme di regole che comandavano ed eventualmente
sanzionavano il suo comportamento; e, dall'altra parte, attraverso il
17 Cfr. M. Foucault, Storia della follia, cit., pp. 113-157: “Il grande internamento”.
18 É. Muller, Habitations ouvrières et agricoles. Cités, bains et lavoirs, sociétés alimentai-
res, Librairie scientifique-industrielle et agricole de Lacroix-Comon, Paris 1856, pp. 6-7.
gruppo stesso, veniva catturato all'interno di un'istanza di sorveglianza
che non era diversa dal gruppo in questione. In altre parole, il gruppo con
le sue regole, con la sorveglianza che esercitava, era una sorta di istanza
endogena di controllo. A partire dal XIX secolo, invece, gli individui
sono per così dire controllati dall'esterno, attraverso degli apparati con
cui non fanno corpo. Alla nascita, sono sistemati in un asilo nido; duran-
te l'infanzia mandati a scuola; lavorano negli opifici; durante la loro vita
dipendono da un ufficio di beneficenza; possono depositare i loro guada-
gni in una cassa di risparmio; finiscono all'ospizio. In breve, per tutta la
vita le persone intrattengono una molteplicità di legami con una molte-
plicità di istituzioni, nessuna delle quali le rappresenta perfettamente,
nessuna delle quali le costituisce come gruppo: facendo dei depositi in
una cassa di risparmio, frequentando una scuola, non si costituisce un
gruppo, mentre nell'età classica il controllo e la sorveglianza erano orga-
nizzati proprio all'interno e in base all'appartenenza a un gruppo come
una corporazione ecc. Quindi gli individui ora sono fissati dall'esterno,
per così dire, a questi apparati che hanno una specificità istituzionale ri-
spetto a coloro per i quali sono approntati, che hanno una localizzazione
spaziale ecc.
In breve, ora si vedono emergere dei “corpi” assolutamente nuovi
nello spazio sociale, corpi diversi da come li si intendeva in passato quan-
do si parlava delle corporazioni e dei comitati. Non sono corpi sociali,
cioè corpi di appartenenza, quelli che compaiono assieme a istituzioni
come gli asili, le casse di risparmio o di previdenza, le prigioni. Non sono
nemmeno corpi che funzionano come una macchina, cioè corpi produt-
tori, benché ci siano dei legami tra lo sviluppo della meccanizzazione e
questi corpi nuovi. Sono corpi la cui funzione è di essere dei moltiplicato-
ri di potere, delle zone in cui il potere è più concentrato, più intenso. A
un certo livello, queste istituzioni non sono altro che semplici collega-
menti del potere esercitato da una classe sull'altra; ma se si osserva più da
vicino il loro funzionamento, ci si accorge che costituiscono una vera e
propria rottura, che nello spazio e nella sfera d'influenza di queste istitu-
zioni regna una sorta di potere concentrato, nuovo nella sua forza e quasi
autonomo: il potere del padrone sulla fabbrica, quello del capomastro
sulla manifattura. Questo potere non è soltanto derivato e agente nella
trama delle gerarchie di potere che vanno dal basso verso l'alto. Di fatto,
c'è un'istanza di potere più o meno controllata poiché il capomastro o il
padrone, con una serie di misure – basta un certo numero di licenziamen-
ti, di note negative –, possono far cadere l'operaio sotto i colpi della giu-
stizia penale.
L'esempio più evidente della discontinuità, della riconcentrazione,
della reintensificazione del potere all'interno di queste zone, è la prigione.
In origine, essa non doveva essere altro che un luogo in cui veniva appli-
cato solo ciò che è più legale delle istituzioni, vale a dire le decisioni di
giustizia. Di fatto, invece, la prigione è tutt'altro che un luogo in cui si ap-
plicano delle decisioni di giustizia prese altrove, dai tribunali. Funziona
come se detenesse non solo un proprio potere, ma anche una propria giu-
stizia. Nel 1819, quindi, Decazes poteva scrivere che “bisognerebbe pro-
prio che nelle prigioni regni la legge”19 e nel 1836 Béranger definiva così il
ruolo del direttore di prigione: “Il direttore di prigione è un vero e pro-
prio magistrato chiamato a regnare nell'istituto come un sovrano” 20.
Queste istanze di sovra-potere non sono quindi né corpi di apparte-
nenza né corpi macchinici, ma corpi dinastici. D'altronde, la percezione
19 Cfr. supra […].
20 Pierre Jean de Béranger (1780-1857), chansonnier e poeta francese molto popolare all'e-
poca, ebbe un ruolo politico nell'opposizione liberale alla Restaurazione, alleandosi an-
che con i bonapartisti. I suoi scritti gli costarono numerose condanne a pene detentive,
in particolare nella prigione di Sainte-Pélagie nel 1821 e a La Force nel 1829. Amico di
Adolphe Thiers, Béranger si mantenne comunque a distanza dal potere politico dopo la
Rivoluzione del 1830. Nella sua abbondante corrispondenza con molteplici personalità
politiche, letterarie e artistiche della prima metà del XIX secolo ( Correspondance de
Béranger, raccolta da P. Boiteau, Perrotin, Paris 1860, 4 voll.), Béranger si mostra parti-
colarmente sensibile alla sorte riservata ai prigionieri politici. Nel 1836, in particolare,
scrive diverse lettere a Adolphe Thiers sulle condizioni di detenzione di un prigioniero
politico, Ulysse Trélat; cfr. D. Halévy, Lettres inédites de Béranger et de Lamartine à
Thiers, in “Revue d'histoire littéraire de la France”, a. XXIV, n. 1, 1917, pp. 133-143.
Ma la frase citata da Foucault non si trova in questa corrispondenza. (Una ricerca per
parole-chiave nella quasi totalità dell'opera di Béranger non ha permesso di identificare
la fonte di questa citazione.)
che se ne aveva all'epoca andava proprio in questo senso. La reazione dei
lavoratori, per come la possiamo percepire attraverso la stampa operaia,
parla di un ritorno al feudalesimo: la fabbrica è designata come una roc-
caforte, l'operaio si percepisce come il servo di un signore-padrone, gli
istituti di correzione sono delle nuove Bastigliea. E questa percezione della
società non è semplicemente la trasposizione di un vecchio schema rima-
sto nella memoria popolare; è la percezione di un qualcosa di preciso:
nella società capitalista che si instaura, esattamente come nella società
feudale, esistono delle zone di potere non del tutto integrate all'apparato
di Stato, non del tutto controllate da esso, nella cui territorialità regna un
controllo molto lasco, ma un potere che è un'eccedenza di potere rispetto
a una società comandata soltanto su base gerarchica. La percezione del
potere capitalista come la rinascita di un seme feudale nella società era
così forte nella classe operaia che Reybaud stesso, in un rapporto del
1865 sulla condizione degli operai della lana, parlando della fabbrica fon-
data da Patrol, scrive: “Si è sviluppata una sorta di feudalesimo del tutto
arbitrario”21.
Questa è la prima differenza: le istanze di controllo, invece di essere
immanenti al corpo sociale, sono spostate in qualche modo verso l'ester-
no e sono assicurate da un certo numero di ambiti, di istituzioni di sovra-
potere22. Una seconda trasformazione rispetto rispetto al vecchio sistema
è, in un certo modo, l'opposto della prima. Nel XVIII secolo, accanto
alla sorveglianza endogena al gruppo stesso, abbiamo il grande sistema
***
b
Bisognerebbe sapere a che cosa è servito precisamente questo seque-
stro, perché c'è stato bisogno di questi supplementi di potere per fissare
gli individui agli apparati sociali, pedagogici, produttivi ecc. La prima
cosa da sottolineare è che, tra questi apparati di sequestro, è vero che il
più visibile – la fabbrica-convento – è scomparso assai presto, verso il
1870c; ma nel momento stesso in cui scompare e, a dire il vero, per tutta
la sua esistenza, dal 1830 al 1870, questo apparato è preceduto, sostenuto
da forme duttili e diffuse di sequestro. Non credo che, per analizzare la
funzione di sequestro nella società capitalista, bisogna limitarsi alle for-
me spazialmente isolate del sequestro; le casse di risparmio, di previden-
za, per tornare all'esempio di Muller, sono istanze di controllo tanto
quanto gli asili e gli ospizi23. Questa funzione di sequestro va quindi rin-
tracciata non solo negli istituti isolati dal punto di vista geografico e ar-
chitettonico, ma anche in tutte quelle istanze diffuse che, intorno a essi o
al loro posto, assicurano il controllo. Erano tre le funzioni principali del
sequestro nella società capitalista.
a Manoscritto (fol. 12): “Non è un apparato di Stato, è un apparato preso nel nodo stata-
le. Un sistema intrastatale”.
b Manoscritto (fol. 13), titolo della sezione: “B: Le funzioni di sequestro”.
c Il manoscritto (fol. 13) aggiunge:
“per ragioni economiche (troppo rigide) [e] politiche. Ma in realtà molte delle sue fun-
zioni sono state riprese, ed erano state anticipate peraltro da tutta una serie di istituzio-
ni più diffuse, ma anche più sottili e più adatte: il libretto, la cassa di risparmio, le casse
di previdenza, le città operaie”.
23 É. Muller, Habitations ouvrières et agricoles, cit.
a
La prima funzione appare molto chiaramente nel regolamento di Ju-
jurieux: l'acquisizione totale del tempo da parte del datore di lavoro.
Quest'ultimo, infatti, non acquista soltanto degli individui, ma una mas-
sa di tempo che controlla da un capo all'altro. Ed è ciò che all'inizio del
XIX secolo caratterizza la politica del capitalismo, il quale ha bisogno di
una massa di disoccupati per influire sui salari, e non del pieno impiego
degli individui; ha invece bisogno del pieno impiego del tempo, in modo
da far sì che un certo numero di individui non sia impiegato – e infatti
non era inusuale un orario di lavoro di dodici o quindici ore. Ora si è sco-
perto il valore, non più del pieno impiego del tempo, ma del pieno impie-
go degli individui; il pieno controllo del tempo è assicurato per mezzo de-
gli svaghi, degli spettacoli, del consumo, il che finisce per ricostituire il
pieno impiego del tempo che nel XIX secolo è stata una delle prime pre-
occupazioni del capitalismo.
Tutte queste istituzioni di sequestro si caratterizzano per il fatto che
in esse gli individui sono costantemente occupati in attività sia produtti-
ve, sia puramente disciplinari, sia di svago. Il controllo del tempo è uno
dei punti fondamentali di questo sovra-potere che il capitalismo organiz-
za attraverso il sistema stataleb. Anche al di fuori delle istituzioni di se-
questro concentrato, collegio, fabbrica-prigione, casa di correzione –
dove l'impiego del tempo costituisce un elemento essenziale […] –, il con-
trollo, la gestione, l'organizzazione della vita degli individui [rappresen-
tano] una delle cose fondamentali istituite all'inizio del XIX secolo. Si è
dovuto controllare il ritmo con cui la gente voleva lavorare. Quando gli
individui erano pagati a giornata, si è dovuto fare in modo che non si
congedassero quando volevano. Si sono dovuti mettere al bando la festa,
l'assenteismo, il gioco e soprattutto la lotteria per il suo cattivo rapporto
con il tempo, perché era un modo di attendere il denaro, non quello della
continuità del lavoro, bensì quello della discontinuità della sorte. Si è do-
vuto indurre l'operaio ad arginare il caso nella sua esistenza: malattia, di-
a Manoscritto (fol. 14), titolo della sezione: “Il sequestro del tempo”.
b Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “ma senza localizzarlo in un apparato di Stato”.
soccupazionea. Si è dovuto insegnargli quella qualità chiamata previden-
za, renderlo responsabile di se stesso fino alla morte, mettendogli a di-
sposizione delle casse di risparmio. Ora, tutto questo, che nella letteratu-
ra dell'epoca è presentato come apprendimento di qualità morali, signifi-
ca in definitiva l'integrazione della vita operaia al tempo di produzione,
da una parte, e al tempo del risparmio, dall'altra. Il tempo della vita, che
poteva essere scandito dallo svago, dal piacere, dalla fortuna, dalla festa,
ha dovuto essere omogeneizzato per essere integrato a un tempo che non
è più quello dell'esistenza degli individui, dei loro piaceri, dei loro deside-
ri e del loro corpo, ma quello della continuità della produzione, del pro-
fittob 24. Si è dovuto gestire e assoggettare il tempo dell'esistenza degli uo-
mini a questo sistema temporale del ciclo di produzionec.
È questa la prima funzione del sequestro: assoggettare il tempo della
vita al tempo della produzione. Se il problema della società feudale era
quello di localizzare gli individui, di fissarli a una terra su cui poter eser-
citare la propria sovranità e prelevare una rendita, il problema della so-
cietà capitalista non è tanto di fissare localmente gli individui, ma di
prenderli in un ingranaggio temporale che faccia in modo che la loro vita
b Il manoscritto (fol. 17) riporta due esempi: “l'ubriachezza tra gli operai [e] la famiglia”.
I due fogli seguenti (foll. 18 e 19) sono mancanti. Il foglio 20 inizia così: “Impedire che
si costituisca un collettivo reale; sostituendovi con la forza un 'universale morale'. Una
'Normalità', qualcosa come un habitus e un consensus sociale. Apparato per fabbricare
la società come finzione, come norma, come realtà”. Il resto del foglio 20 e il seguente
(non numerato, tra il fol. 20 e il fol. 21) sono completamente barrati. Trattano della fa-
miglia e della sessualità nella classe operaia, e in particolare della costituzione “di grup-
pi monosessuali, imponendo la norma dell'eterosessualità”, dell' “atteggiamento della
classe operaia nei confronti della famiglia e dell'omosessualità”, e della “penetrazione
dell'ideologia borghese della famiglia” nella classe operaia.
26 L.-R. Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvriers employés dans le ma-
nufactures de coton, de laine et de soie, cit., ed. 1840, vol. I, p. 292. Nel suggerire un in-
teressante parallelo tra la vita e l'opera, questa descrizione sarà ripresa alcuni anni dopo
da Édouard Ducpetiaux in un libro su un argomento analogo: De la condition physique
et morale des jeunes ouvriers et des moyens de l'améliorer, Meline, Cans et C.ie, Bruxel-
les 1843, vol. I, p. 326.
27 Estratto dell'ordinanza del comune di Amiens del 27 agosto 1821, riprodotto in L.-R.
Villermé, Tableau de l'état physique et moral des ouvrières, cit., pp. 292-293, nota 1
(l'aggiunta tra parentesi quadre è di Foucault).
La questione è sapere a che cosa serve questa specie di supplemento
di controllo esercitato a partire dall'istituzione di sequestro e indipenden-
temente dalla sua funzione principale e visibile. Di fatto un'istituzione di
sequestro isola alcuni individui dal resto della popolazione. In questo
modo si assume due rischi: da una parte, quello di formare una popola-
zione estranea, irriducibile agli altri, avvantaggiata o svantaggiata rispet-
to a essi; dall'altra, di costituire, all'interno del sequestro, un gruppo che
diventerà una [sorta] di forza collettiva facendo leva sulle forme di esi-
stenza specifiche che assume. Di conseguenza, bisogna trovare un espe-
diente affinché, da una parte, la popolazione sequestrata si ricongiunga
in un modo o nell'altro alle forme collettive di esistenza della società, e
dall'altra disporre di uno strumento di sorveglianza che impedisca il co-
stituirsi, all'interno del sequestro, di una specie di contro-forza, di con-
tro-collettività, che potrebbe minacciare l'istituzione stessa.
Prendiamo l'esempio della sessualità nei collegi. Si va in collegio per
imparare a leggere, a scrivere, a conoscere le buone maniere. Come mai,
allora, una delle basi essenziali di tutta la regolamentazione dei collegi
nel XIX secolo si fonda sulla “repressione” sessuale? In realtà, il termine
“repressione” mi sembra più scomodo che esatto, perché ci sono due ele-
menti in questa restrizione della sessualità all'interno del collegio. Innan-
zitutto impedire rigorosamente l'eterosessualità: la monosessualità dell'i-
stituzione rende materialmente impossibile i rapporti eterosessuali; ma,
in aggiunta a ciò, c'è qualcosa di tutt'altro tipo: l'interdizione dell'omo-
sessualità, che non è più dell'ordine dell'impedimento perché, al contra-
rio, l'interdizione presuppone e può davvero funzionare solo a condizione
che, in certa misura, un'omosessualità latente sia effettivamente pratica-
ta, e praticata in modo tale da essere il pretesto, in ogni istante, di un in-
tervento del potere, del giudizio, della sanzione. Questo pretesto deve
quindi permettere a un sovracontrollo di esercitarsi sugli individui, i qua-
li, fin nella loro vita corporea, affettiva, privata, possono essere sottopo-
sti a qualcosa come un controllo, una sorveglianza costante.
Ora, a partire da questo doppio sistema di impedimento dell'etero-
sessualità e di interdizione dell'omosessualità, che caratterizza i collegi, si
diffonde una certa immagine della società in cui l'eterosessualità è per-
messa come ricompensa e in cui si ritiene che l'omosessualità non esista o
costituisca un fenomeno marginale, così anormale da riguardare soltanto
un numero esiguo di individui. Alla fine, l'interdizione della sessualità nei
collegi serve, da una parte, a stabilire una norma interna, e dunque a per-
mettere a un potere di fare presa, e dall'altra a diffondere una norma
esterna: quest'ultima presenta un'immagine fittizia della società, un'im-
magine che ha la funzione di fornire, al tempo stesso, agli individui una
certa concezione della società in cui vivono e [ai collegiali] a un certo mo-
dello di comportamento che assumeranno [nella società in cui vivranno] b.
Così, a partire da questo doppio sistema, si crea una certa finzione socia-
le che serve da norma e permette l'esercizio dei poteri all'interno dell'isti-
tuzione e, alla fine, la proiezione di qualcosa che deve diventare la realtà
stessa della società, in cui l'eterosessualità è permessa e l'omosessualità
cesserà di esistere.
L'istituzione di sequestro, in un caso come questo, ha la funzione di
fabbricare il socialec. Tra le classi in cui funzionano questi sistemi di se-
questro e lo Stato a cui si appoggiano, questi sistemi hanno la funzione,
tra l'altro, di costituire un'immagine della società, una norma sociale. Le
istituzioni di sequestro fabbricano qualcosa che è al tempo stesso inter-
detto, norma, e che deve diventare realtà: sono istituzioni di normalizza-
zione28.
[bis], foll. 1-6, Foucault svilupperà il tema della confessione come forma di discorsività
inerente alla soggettività in La volontà di sapere, cit., pp. 54 sgg. Cfr. anche: Du gouver-
nement des vivants. Cours au Collège de France, 1979-1980 , a cura di M. Senellart, Gal-
limard-Seuil, Paris 2012, p. 80 e passim; trad. it. di D. Borca e P.A. Rovatti, Del governo
dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014, pp. 89-90 e
passim; Sorvegliare e punire, cit., pp. 47-48, 74-75, 104; e il suo studio sulla funzione
della confessione in giustizia, Mal fare, dir vero, cit.
b Il manoscritto (fol. 22) aggiunge: “Inoltre i rapporti di polizia: categorizzazione; aned-
doti”.
a Manoscritto (fol. 23):
“essa si ordina in base a una certa normatività che gioca un duplice ruolo
– di presentarsi come un fatto sociale collettivo, contro cui non si può fare nulla, e
– di funzionare come una regola in nome della quale si punisce e si ricompensa a secon-
da che essa sia, se non esaustivamente prodotta, almeno rilanciata e riattivata senza fine
scritto in funzione del suo scarto possibile o reale rispetto a qualcosa che
è definito non più come il bene, la perfezione, la virtù, ma come la nor-
malità. Questa norma, di cui all'epoca si sa bene che non è necessaria-
mente la media, è in qualche modo non una nozione, ma una condizione
di esercizio di questa discorsività all'interno della quale sono presi gli in-
dividui sotto sequestro. Essere sotto sequestro significa essere presi all'in-
terno di una discorsività che è insieme ininterrotta nel tempo, formulata
dall'esterno da un'autorità e ordinata necessariamente in base a ciò che è
normale e anormaleb.
ANNESSO
Il manoscritto della dodicesima lezione del corso contiene altri sei fogli non numerati, segui-
ti da altri tre intitolati “Conclusione”, anch'essi senza numero di pagina, che sono un abbozzo,
tratto da questa lezione, della seconda parte della quinta conferenza che Foucault pronuncerà a
Rio pochi mesi dopo (cfr. “La verità e le forme giuridiche”, cit., pp. 153-164). Questa è la trascri-
zione dei nove fogli:
30 In seguito Gilles Deleuze ha voluto opporre alla “sorveglianza” secondo Foucault l'idea
di una “società di controllo” che sarebbe la nostra; cfr. G. Deleuze, “Post-scriptum sur
les sociétés de contrôle”, in Pourparlers 1972-1990, Minuit, Paris 1990, 20032, pp. 240-
247; trad. it. di S. Verdicchio, “Postscritto sulle società di controllo”, in Pourparler
1972-1990, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 234-241; Id., “Qu'est-ce qu'un dispositif?”, in
Deux régimes de fous, Minuit, Paris 2003, pp. 316-325, in particolare p. 323; trad. it. di
A. Grillo, “Che cos'è un dispositivo?”, in Due regimi di folli, Einaudi, Torino 2010, pp.
279-287, in particolare p. 285. Qui Foucault precisa chiaramente la differenza che intro-
duce fra i due concetti.
3. Situazione rispetto allo Stato
– in Inghilterra il controllo era extrastatale;
– in Francia era decisamente [statale]. Qui ci sarà una rete intrastatale.
A cosa servono queste istituzioni:
1a funzione: Il controllo del tempo
Nel sistema feudale, il controllo degli individui era legato alla loro loca-
lizzazione:
• si registra un certo luogo
un certo proprietario
un certo sovrano.
Nella società industriale, è il tempo degli individui a essere controllato:
– il tempo deve essere messo sul mercato;
– deve essere trasformato in tempo di lavoro.
Da cui deriva, nelle forme “compatte”, il tempo acquisito una volta per
tutte:
• il gruppo
• il modello monastico.
Nelle forme diffuse:
• la festa
• il risparmio (fare in modo che egli possa lavorare dopo la di
soccupazione; che non muoia di fame. Ma che non utilizzi i
suoi risparmi per non lavorare).
In breve, si tratta di trasformare il tempo in oggetto di salario. Farlo en-
trare nello scambio salariale.
2a funzione
Il sequestro non solo controlla il tempo degli individui, ma impone tutta
una serie di controlli annessi:
• pulizia
• ubriachezza
• sessualità.
Sono controlli del corpo. Andrebbe fatta tutta una storia dei controlli del
corpo:
– il corpo superficie di inscrizione dei supplizi;
– il corpo elemento di un addestramento.
Si tratta di trasformare il corpo in forza lavoro, così come si trattava di
trasformare la vita in forza lavoro.
3o carattere: istituire un particolare tipo di potere
– potere economico: dare un salario o chiederne uno;
– potere “politico” di dare ordini, di fare regolamenti;
– potere giudiziario di ricompensare, di punire, di portare
davanti a un'istanza di giudizio;
– potere di estrarre sapere: sia a partire dalla pratica
sia a partire dagli individui;
sapere che, ridistribuendosi nelle altre forme di potere, permette di razio-
nalizzarle: eco[nomico]; pol[itico]; giudiziario.
Potere moltiplicato, potere accumulato: “sovra-potere”.
Ma allo stesso tempo: “sotto-potere”,
al di sotto delle grandi strutture statali.
Ha la funzione globale di articolare il tempo, il corpo, la vita degli uomini
con il processo della produzione e con i meccanismi del sovra-profitto.
Sotto-potere che conduce al sovra-profitto; ma con margini di incertezza,
di sfasatura.
Conclusione.
1. La prigione: forma concentrata di questo sotto-potere isomorfo a tutto
il panoptismo sociale.
2. L'essenza concreta dell'uomo è il lavoro: di fatto l'uomo è legato al lavo-
ro, a livello della sua vita e del suo corpo, solo da un rapporto di potere.
3. Il potere non è una maniera di riaffermare i rapporti di produzione, ma
di costituirli.
4. Dei saperi normalizzanti, nella forma dell'esame, che funzionano
– non solo a livello dell'espressione dei rapporti di produzio-
ne,
– non solo a livello delle forze produttive,
ma a livello dell'organizzazione stessa dei rapporti di produ-
zione.
Si era visto un sapere che nasceva dallo spostamento delle forme di prelie-
vo feudale.
Si vede un sapere che nasce dai rapporti di potere inerenti alla costituzio-
ne dei rapporti di produzione.
Di questo panoptismo, alcuni [contemporanei erano coscienti].
Julius • lo spettacolo
• la comunità sociale
• il sacrificio
• la sorveglianza
• gli individui
•lo Stato.
Le sue diverse manifestazioni.
Storia di tutta l'istituzione giudiziaria.
Treilhard. Presentazione del Codice penale.
Analizzarlo dal basso, piuttosto, e nelle sue forme sorde, insidiose, quoti-
diane.
Lezione del 28 marzo 1973
3 Nel manoscritto, Foucault aggiunge questa frase (fol. 2): “Ora questa forma architetto-
nica è al tempo stesso una forma sociale generale, che supera ampiamente la prigione.
Bisogna dire: agorà-logos // prigione-sorveglianza?”. Tuttavia, il tema della sorveglianza
sociale e della società punitiva, tema centrale del corso, poi trattato in Sorvegliare e pu-
nire (vedi, per esempio, pp. 212, 226, 228), nella ricezione dell'opera ha attirata molto
poco l'attenzione dei lettori, focalizzata sul panoptismo come descrizione di una forma
penitenziaria più che di una forma sociale, in altre parole sul tema della prigione, piut-
tosto che su quello, più generale, della società punitiva. Come invece conferma Daniel
Defert, nella concezione di Foucault Sorvegliare e punire si inscriveva nella continuità di
questo corso intorno a una questione che riguarda la società.
a Il manoscritto (fol. 3) aggiunge: “Questa forma a stella è una forma del sapere-potere”.
l'immagine assolutista della testa che comanda al corpo che sovrasta: è la
forma capitale del potere così come figura sul frontespizio del Leviatano4.
Infine, ci sarà l'immagine moderna del centro da cui si irradia lo sguardo
che sorveglia e controlla, in cui sfocia una serie di flussi di sapere e da cui
parte tutto un flusso di decisioni: è la forma centrale del potere a. Mi è
sembrato che, per comprendere a fondo l'istituzione della prigione, si do-
vesse studiarla in questo scenario, cioè non tanto a partire dalle teorie pe-
nali o dalle concezioni del diritto, e nemmeno a partire da una sociologia
storica della delinquenza, ma ponendo la domanda: qual è il sistema di
potere in cui funziona la prigione?
***
in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere
e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se
esso viene preso in un sistema di assoggettamento (in cui il bisogno è anche uno stru-
mento politico accuratamente preordinato, calcolato e utilizzato): il corpo diviene forza
utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato”; cfr.
anche ivi, pp. 158, 240-241.
a Manoscritto (fol. 13): “come forma immediata e concreta dell'esistenza umana”.
8 Questione ripresa nel maggio 1973 in “La verità e le forme giuridiche”, cit., p. 162:
“Vorrei mostrare che il lavoro non è assolutamente l'essenza dell'uomo o l'esistenza del-
l'uomo nella sua forma concreta. […] È necessaria l'operazione o la sintesi operata da
un potere politico perché possa apparire che l'essenza dell'uomo è il lavoro”.
a Manoscritto (fol. 14): “lavoro continuo”.
b Manoscritto (fol. 14): “Il colpo di genio”.
c Il manoscritto (fol. 14) aggiunge: “apparentemente alquanto svalorizzata”.
zata e utilizzata, invece, per agganciare gli individui agli apparati sociali;
sarà specificata secondo tutta una serie di apparati che vanno dalla fab-
brica-prigione alla prigione, passando per i ricoveri, le scuole, le case di
correzione. Tutto questo vecchio sistema dell'internamento, riutilizzato a
tal fine, permetterà il sequestro, il quale costituisce effettivamente i modi
di produzioned.
In quarto luogo, lo schema dell'ideologiae secondo cui il potere può
produrre, nell'ordine della conoscenza, solo degli effetti ideologici, vale a
dire che il potere o funziona in maniera muta attraverso la violenza, o in
maniera discorsiva ed esplicita attraverso l'ideologia f. Ma il potere non è
preso in questa alternativa: o esercitarsi in maniera pura e semplice impo-
nendosi con la violenzag, o nascondersih, farsi accettare facendo il discor-
so esplicito dell'ideologia9. Di fatto, ogni punto in cui si esercita un pote-
re è al tempo stesso un luogo di formazione non di ideologia ma di sape-
re; e, viceversa, ogni sapere stabilito permette e assicura l'esercizio di un
potere. In altre parole, non bisogna opporre quel che si fa a quel che si
dice, il mutismo della forza alla loquacità a dell'ideologia. Bisogna far ve-
dere come il sapere e il potere siano effettivamente legati uno all'altro,
certamente non nella forma di un'identità – il sapere è il potere, o l'oppo-
sto –, ma in maniera assolutamente specifica e secondo un gioco com-
plesso.
Prendiamo l'esempio della sorveglianza amministrativa delle popola-
zioni, ovvero una delle necessità di ogni potere. Nel XVII-XVIII secolo la
sorveglianza amministrativa è una delle funzioni del potere, garantita da
d Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “Disfare o non disfare un tipo di potere è quindi es-
senziale all'esistenza stessa di un modo di produzione”.
e Manoscritto (fol. 15): “quello della produzione ideologica”.
f Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “Ha bisogno di un'ideologia. E fabbrica ideologia”.
g Manoscritto (fol. 15): “la minaccia, la violenza, il terrore”.
h Il manoscritto (fol. 15) aggiunge: “giustificarsi”.
9 Contrapponendo coercitivo a ideologico, è evidente che Foucault si sta rivolgendo ad
Althusser in merito al suo articolo del 1970 (cfr. supra, nota 6 e infra, “Nota del curato-
re” […]).
a Manoscritto (fol. 15): “e all'eloquenza (persino alla persuasione) del discorso ideologi-
co”.
una serie di persone: intendenti, apparato di polizia, ecc. Ora, questo po-
tere, con i suoi strumenti specifici, dà luogo a un certo numero di saperi.
1) Un sapere di gestione: coloro che gestiscono l'apparato di Stato,
sia direttamente per conto del potere politico, sia indirettamente attraver-
so un sistema di riscossioni, formano nello stesso momento un certo sa-
pere che essi accumulano e utilizzano. Per cui, dopo alcune indagini, san-
no come bisogna tassare, calcolare le imposte, chi può pagarle, su chi ap-
plicare una sorveglianza speciale perché paghi le tasse, su quali prodotti
applicare i dazi doganalib.
2) A margine di questo sapere di gestione, si vede comparire un sape-
re di indagine: ci sono delle persone che, in generale, non sono diretta-
mente legate all'apparato di Stato né incaricate di gestirlo, ma che fanno
delle indagini sulla ricchezza di una nazione, sul movimento demografico
di una regione, sulle tecniche artigianali impiegate in una certa zona, sul-
le condizioni di salute delle popolazioni. Di tali indagini, almeno in origi-
ne nate su iniziativa privata, dalla seconda metà del XVIII secolo rico-
mincia a occuparsi lo Stato. Così, la Società reale di medicina, fondata
nel 1776, codificherà e tornerà a farsi carico di queste indagini sulle con-
dizioni di salute10; analogamente le indagini sulle tecniche artigianali nel
11 Potrebbe trattarsi delle Camere di commercio, come pure, a partire dal Consolato, del-
la Camera di consultazione delle arti e manifatture, “composta dai principali manifat-
turieri incaricati di comunicare al governo i bisogni dell'industria” (A. Chéruel, Dic-
tionnaire historique des institutions, mœurs et coutumes de la France, prima parte, Li-
braire Hachette et C.ie, Paris 1899, p. 123). Questo giustificherebbe l'uso del verbo “ri-
tornare”, dato che queste istituzioni, fondate ufficialmente nel 1701, furono soppresse
dalla Rivoluzione nel 191 e ristabilite nel 1802 con il compito di “presentare dei suggeri-
menti sui mezzi per aumentare la prosperità del commercio, far conoscere al governo le
cause che ne frenano il progresso, indicare le risorse che è possibile procurarsi” (Decreto
del 3 nevoso anno XI/24 dicembre 1802, citato da B. Magliulo, Les Chambres de com-
merce et d'industrie, Puf, Paris 1980, p. 31). Il ministro degli Interni Chaptal spiegò i
motivi della loro rifondazione in questi termini: “L'azione del governo sul commercio
può essere chiarita soltanto con la descrizione fedele della condizione e dei bisogni del
commercio in ogni luogo della Repubblica” (citato ivi, p. 32). Tuttavia la nozione di in-
dagine, e a a fortiori l'indagine sulle tecniche artigianali, non sembra essere tra le sue di-
rette competenze. Per una bibliografia estensiva sull'argomento, cfr. E. Pendleton Her-
ring, Chambres de Commerce: Their Legal Status and Political Significance , in “The
American Political Science Review”, n. 3, vol. XXV, agosto 1931, pp. 691-692; cfr. anche
A. Conquet, Napoléon [III] et les chambres de commerce, Apcci, [s.l.] 1978.
12 Foucault si riferisce all'indagine di Chaptal anche in Sorvegliare e punire, cit., p. 255:
“Già nel 1801 (quando si trattò di fare il prospetto di ciò che si poteva utilizzare per im-
piantare in Francia l'apparato carcerario)”.
13 Foucault nel manoscritto stila una lista che include: “Rivoluzione; Consolato; Impero”
(fol. 16). Cfr. la lista delle indagini in Sorvegliare e punire, cit., p. 255: “Quella di Deca-
zes, nel 1819, il libro di Villermé, pubblicato nel 1820, il rapporto sugli stabilimenti cen-
trali, redatto da Martignac nel 1829, le inchieste condotte negli Stati Uniti da Beaumont
de Tocqueville nel 1831, da Demetz e Blouet nel 1835, i questioniari indirizzati da Mon-
talivet ai direttori di centrali e ai consigli generali nel periodo in cui è al culmine il di-
battito sull'isolamento dei detenuti”.
agente di costituzione del sapere. Ogni agente a deve informare sugli effet-
ti dell'ordine dato dal potere, e quindi sulle correzioni da apportare a tale
azione. I prefetti, i procuratori generali, i funzionari di polizia, ecc., dalla
fine fine del XVIII secolo, legati all'obbligo fondamentale del rapporto.
Entriamo nell'era del rapporto come forma delle relazioni tra sapere e po-
tere. Certo, non è qualcosa che è stato inventato nel XVIII secolo, ma
quelle che nel XVII secolo erano soltanto azioni episodiche, per esempio
nelle relazioni tra intendenti e ministri, diventano sistematiche; l'invio di
un certo sapere da parte di ciascun agente del potere al proprio superiore
si istituzionalizza, diventa un fenomeno essenziale.
Collegata a questa instaurazione dell'invio del sapere al punto d'ori-
gine del potere, c'è l'applicazione di tutta una serie di strumenti specifici,
di astrazione, di generalizzazione, di valutazione quantitativa. È possibile
rendersene conto confrontando più strati di documenti. I rapporti fatti
da Sartine14, uno degli ultimi luogotenenti di polizia dell'Ancien régime: il
modo in cui sorveglia la popolazione, il genere di informazioni che passa
al ministro, che sono puntuali, individuali. I rapporti di Fouché 15, che
sono già una specie di sintesi e di integrazione non più soltanto di un cer-
to numero di eventi puntuali, ma di quella che è ritenuta essere la situa-
18 Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707), noto soprattutto per il suo ruolo essenziale
di commissario generale delle fortificazioni, a partire dal 1695 mandò al re diversi me-
moriali che sviluppavano “l'idea di ridurre le numerose tasse allora esistenti e di sosti-
tuirle con la capitazione. La capitazione aveva lo scopo di prelevare un canone della
qundicesima parte sul clero, sulle retribuzioni, i salari e le pensioni di tutti gli ufficiali
civili e militari del regno, della Casa Reale, delle truppe di terra e di mare, 'senza trala-
sciare nessuno di coloro che potevano versarlo'” (G. Michel, A. Liesse, Vauban écono-
miste, E. Plon, Nourrit et Cie, Paris 1891, p. 17). Costretto dalla malattia a ritirarsi dalle
funzioni militari, Vauban venne nominato maresciallo di Francia nel 1703 e perse pro-
gressivamente il favore del re. L'opera in cui esponeva il suo progetto, La dîme royale, fu
pubblicata senza autorizzazione nel 1707 e fu presto oggetto di un'interdizione. Vauban
morì poche settimane dopo. Il libro si apre con una giustificazione delle intenzioni del-
l'autore: “In tutta fede affermo che non è stata la voglia di convincere, né di accrescere
la mia reputazione, che mi hanno fatto intraprendere quest'Opera. Non sono né un let-
terato, né un esperto di Finanze, e non mi esporrei cercando gloria e vantaggi con qual-
cosa che non rientra nella mia professione” (Vauban, La dîme royale, introduzione di E.
Le Roy Ladurie, Imprimerie nationale, Paris 1992 [1897], p. 57). Cfr. anche A. Rebel-
liau, Vauban [pubblicato da Jacques Lovie,] Club des libraires de France, Paris 1962.
19 François Quesnay (cfr. supra […]), per il suo statuto di chirurgo del re e medico di Ma-
dame de Pompadour, e la sua decisione di risiedere nel mezzanino del castello di Ver-
sailles allo scopo di incoraggiare le visite dei personaggi influenti, esercitava lui stesso
una certa influenza sulla corte. Molti lo accusarono di avere delle mire politiche; cfr. G.
Weulersse, Le mouvement physiocratique en France de 1756 à 1770, cit. [..], vol. II, pp.
tanto un sapere gestionale di chi è al potere. La teoria economica non na-
sce all'interno dell'apparato di potere. Il caso più evidente è quello del
medico che, a partire dal XIX secolo, in qualità di maestro del normale e
del patologico, esercita un certo potere non solo sul suo cliente, ma sui
gruppi, sulla società. Allo stesso modo, lo psichiatra ha, in quanto tale,
un potere istituzionalizzato dalla legge del 1838 che, facendo di lui un
esperto da consultare per ogni misura di internamento, dà al
[medico-]psichiatra e al sapere psichiatrico in quanto sapere un certo po-
tere20.
A questo punto bisogna rispondere a un'obiezione: parlare di strate-
gia, di calcolo, di sconfitta, di vittoria, non significa far sparire ogni opa-
cità dal campo sociale? In un certo senso sì. Credo, in effetti, che sia faci-
le conferire al campo sociale una certa opacità, se nel campo sociale
prendiamo in considerazione soltanto la produzione e il desiderio, l'eco-
nomia e l'inconscio; in realtà c'è tutto un margine trasparente all'analisi
che è possibile scoprire studiando le strategie di potere. Là dove i sociolo-
gi non vedono che un sistema muto o inconscio di regole, là dove gli epi-
stemologi non vedono che degli effetti ideologici malamente controllati,
mi pare sia possibile individuare delle strategie di potere perfettamente
calcolate e padroneggiate. Il sistema penale ne è un esempio privilegiato.
È chiaro che si pone il problema del sistema penale in termini di econo-
626-682.
20 Foucault descrive e analizza la legge del 1838 in: Il potere psichiatrico, cit., lezione del 5
dicembre 1973, pp. 94-97; Gli anormali, cit., lezione del 12 febbraio 1975, pp. 128-138.
A margine del manoscritto (fol. 17), Foucault sembra aver aggiunto “Castel”, sicura-
mente in riferimento ai lavori di Robert Castel sulla storia della psichiatria; cfr. R. Ca-
stel, Le traitement moral. Thérapeutique mentale et contrôle social au XIXe siècle, in
“Topique”, n. 2, 1970, pp. 109-129. In Il potere psichiatrico, cit., p. 92, nota * (che ri-
manda al manoscritto del corso), Foucault si riferisce esplicitamente al libro di Castel
uscito nel 1973, Le psychanalysme (Maspero, Paris; trad. it. di L. Fontana, Lo psicanali-
smo, Einaudi, Torino 1975), di cui dice: “È un libro radicale perché, per la prima volta,
la psicoanalisi viene specificata solo all'interno della pratica e del potere psichiatrico”
(ivi, p. 346, nota 41). E l'anno seguente, in Sorvegliare e punire, cit., p. 27, nota 1:
“Ugualmente, avrei dovuto anche citare, in molte pagine, Psychanalysme di R. Castel”.
Cfr. anche, dello stesso autore, il libro uscito nel 1976, L'ordre psychiatrique. L'âge d'or
de l'aliénisme, Minuit, Paris; trad. it. di G. Procacci, L'ordine psichiatrico. L'epoca d'oro
dell'alienismo, Feltrinelli, Milano 1980.
mia, sembra opaco e perfino oscuro, perché nessuna analisi del ruolo eco-
nomico della prigione, della popolazione emarginata da questo sistema
penale, può giustificare la sua esistenza 21. In termini di ideologia, non
solo è opaco, ma completamente confuso, talmente questo sistema è sta-
to ricoperto dai diversi temi ideologici a. Ponendo invece il problema in
termini di potere e di come il potere è stato effettivamente esercitato al-
l'interno di una società, mi sembra che il sistema penale in larga misura si
chiarisca. Questo non significa che il campo sociale sia trasparente nella
sua integralità, ma che non bisogna assumere delle opacità troppo facili.
***
questo genere non sorgono direttamente dall'abitudine, bensì in modo obliquo” / “rea-
sonings of this kind arise not directly from the habit, but in an oblique manner” (ibid.;
corsivo nell'originale). In un altro punto, Hume parla anche di una “via obliqua e artifi-
ciale” / “oblique and artificial manner” (p. 227 / p. 104). In questi casi, consideriamo
consapevolmente la supposizione secondo cui il futuro assomiglierà al passato, ed è
questa considerazione a produrre la credenza. Essa è dunque prodotta come un artificio
umano, che è “sufficientemente giustificat[a] dall'abitudine” / “has establish'd itself by a
sufficient custom” (p. 227 / p. 105). Per maggiori precisazioni, cfr. D. Owen, Hume's
Reason, Oxford University Press, Oxford 1999, cap. 7, pp. 147-174.
23 Foucault fa due esempi nel manoscritto: “Intervista di [M.] Bruno; Traité d'économie
sociale” (fol. 22). Su Monsieur Bruno, cfr. supra […]. E fa inoltre riferimento qui all'o-
pera del dottor Ange Guépin (1805-1873), Traité d'économie sociale, De Lacombe, Paris
1833. Medico filantropo e teorico di un socialismo di ispirazione saintsimoniana e fou-
rierista, nel XIX secolo Ange Guépin ebbe un ruolo centrale nella vita politica di Nan-
tes. In particolare, si dedicò a sondare la miseria degli operai di Nantes, proponendo
delle soluzioni per combatterla; cfr. A. Guépin, E. Bonamy, Nantes au XIXe siècle, cit.,
[…]. Nel suo Traité d'économie politique (pp. 82-83), partendo dall'esempio degli ope-
rai stampatori, il dottor Guépin sviluppava l'idea di associazioni industriali che permet-
tessero, fra l'altro, di condividere i rischi di incidente o di inattività, come pure il costo
delle pensioni, allo scopo di consentire agli operai stessi di acquistare le stamperie; cfr.
J. Maitron (a cura di), Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français. Pre-
mière partie: 1789-1864. De la Révolution française à la fondation de la Première Inter-
nationale, 3 voll., Les Éditions ouvrières, Paris 1965, vol. II, pp. 309-311.
data come qualcosa di positivo, che va acquisito. Ora, in questa posizio-
ne, non ha affatto lo stesso rapporto con il contratto che aveva nel XVIII
secolo: nel XVIII secolo si decapita la tradizione attraverso la critica del-
l'abitudine, in modo da far posto al contratto che vi si sostituisce, [men-
tre] nel XIX secolo l'abitudine è concepita come complementare al con-
tratto. Nel pensiero politico del XIX secolo, il contratto è la forma giuri-
dica con cui i possidenti stringono dei legami tra loro. È la forma giuridi-
ca che garantisce la proprietà di ciascuno. È ciò che dà una forma giuridi-
ca allo scambio. Infine, è ciò con cui gli individui stringono delle alleanze
a partire dalla loro proprietà. In altre parole, è il legame tra gli individui
e la loro proprietà, o il legame degli individui tra loro attraverso la loro
proprietà. L'abitudine, invece, è ciò attraverso cui gli individui sono legati
non alla loro proprietà – perché questo è il ruolo del contratto –, ma al-
l'apparato di produzione. È ciò attraverso cui i non possidenti saranno le-
gati a un apparato che non possiedono; ciò attraverso cui sono legati gli
uni agli altri in un'appartenenza che si suppone non sia un'appartenenza
di classe, ma un'appartenenza alla società intera. L'abitudine non è quin-
di ciò attraverso cui si è legati a un partner al livello della proprietà, ma
ciò attraverso cui si è legati a un ordine delle cose, a un ordine del tempo
e a un ordine politico. L'abitudine è il complemento del contratto per co-
loro che non sono legati dalla proprietà.
Possiamo allora spiegare come l'apparato di sequestro riesce effetti-
vamente a fissare gli individui all'apparato di produzione: li fissa forman-
do delle abitudini tramite un gioco di coercizioni e punizioni, di appren-
dimenti e castighi. Fabbrica un tessuto di abitudini mediante il quale si
definisce l'appartenenza sociale degli individui a una società. Fabbrica
qualcosa come una norma; la norma è lo strumento con cui gli individui
sono legati agli apparati di produzione. Mentre l'internamento classico
gettava gli individui fuori dalle norme, perché rinchiudendo i poveri, i va-
gabondi, i folli, fabbricava, nascondeva e a volte faceva vedere dei mostri,
il sequestro moderno fabbrica una normaa e la sua funzione è quella di
a Il manoscritto (fol. 24) aggiunge: “Il suo medium è la normalizzazione”.
produrre dei normali24. La serie che caratterizza la società moderna è
dunque questa: costituzione della forza lavoro-apparato di sequestro-fun-
zione permanente di normalizzazioneb.
* Pubblicato in Annuaire du Collège de France, 73e année, Histoire des systèmes de pen-
sée, année 1972-1973, 1973, pp. 255-267. Ripreso in Dits et écrits, 1954-1988, 4 voll., a
cura di D. Defert e F. Ewald, in collaborazione con J. Lagrange, Gallimard, Paris 1994,
n. 131, vol. II, pp. 456-470; ried. 2001, vol. I, pp. 1324-1338.
del riscatto (società germaniche), società della marchiatura (società occi-
dentali alla fine del Medioevo) e società che rinchiudono (la nostra?).
La nostra solo a partire dalla fine del XVIII secolo. Perché una cosa è
certa: la detenzione, la carcerazione non fanno parte del sistema penale
europeo prima delle grandi riforme avvenute tra il 1780 e il 1820. I giuri-
sti del XVIII secolo su questo punto sono unanimi: “La prigione non è
considerata come una pena, secondo il nostro diritto civile […], benché i
Principi, per ragioni di Stato, siano talvolta indotti a infliggere questa
pena, si tratta di eccessi di autorità, laddove la Giustizia ordinaria non fa
uso di condanne di questo tipo” (F. Serpillon, Code criminel, 1767)1. Ma
si può già dire che una simile insistenza nel rifiutare ogni carattere penale
della carcerazione indica una crescente incertezza. In ogni caso, le reclu-
sioni che si praticano nel XVII e XVIII secolo restano ai margini del siste-
ma penale, benché non se ne discostino troppo e non smettano di avere
dei tratti in comune:
– reclusione-pegno, praticata dalla giustizia durante l'istruttoria di
un fatto criminale, dal creditore fino al rimborso del debito, o dal potere
regio se teme un nemico. Non si tratta di punire una colpa ma di tutelarsi
nei confronti di una persona;
– reclusione-sostituto, che si impone a qualcuno che non rientra nella
giustizia criminale (sia a causa della natura delle sue colpe, che apparten-
gono semplicemente all'ordine della moralità o della condotta; sia per un
privilegio di statuto: i tribunali ecclesiastici, che dal 1629 non hanno più
diritto di comminare delle pene detentive in senso stretto, possono ordi-
nare al colpevole di ritirarsi in un convento; la lettre de cachet è spesso un
mezzo in mano al privilegiato per sfuggire alla giustizia criminale; le don-
ne sono mandate nelle case di forza per colpe che gli uomini espiano nelle
galere).
Bisogna notare che (a parte quest'ultimo caso) la detenzione-sostitu-
to è in generale caratterizzata dal fatto che non viene decisa dal potere
1 F. Serpillon, Code criminel, ou Commentaire sur l'ordonnance de 1670, Périsse, Lyon
1767, vol. II, parte III, titolo XXV: “Des sentences, jugements et arrêts”, art. XIII, § 33,
p. 1095.
giudiziario; la sua durata non è fissata in via definitiva e dipende da un
termine ipotetico: la correzione. Punizione più che pena.
Ma circa cinquant'anni dopo i grandi monumenti del diritto crimina-
le classico (Serpillon, Jousse2, Muyart de Vouglans3), la prigione è diven-
tata la forma generale della penalità.
Nel 1831, in un intervento alla Camera, Rémusat aveva detto: “Qual
è il sistema penale ammesso dalla nuova legge? La carcerazione in ogni
sua forma. Confrontate, infatti, le quattro pene principali che permango-
no nel Codice penale. I lavori forzati […] sono una forma di carcerazio-
ne. Il bagno penale è una prigione all'aria aperta. La detenzione, la reclu-
sione, la carcerazione correzionale non sono in fondo che nomi diversi di
un solo e medesimo castigo”4. E Van Meenen, aprendo il II Congresso pe-
nitenziario a Bruxelles, ricordava i tempi della sua giovinezza in cui la
terra era ancora coperta “di ruote, di forche, di patiboli e di gogne”, con
“scheletri orribilmente deformati”5. Tutto avviene come se la prigione,
punizione parapenale, alla fine del XVIII secolo avesse fatto il suo ingres-
so nella penalità e ne avesse occupato ben presto tutto lo spazio. Di que-
sta invasione subito trionfante, il Codice penale austriaco, redatto sotto
Giuseppe II, offre la testimonianza più manifesta.
L'organizzazione di una penalità detentiva non è soltanto recente: è
enigmatica.
Già nel momento in cui veniva progettata, subiva critiche violente.
Critiche formulate sulla base dei princìpi fondamentali. Ma formulate
anche sulla base di tutte le disfunzioni che la prigione poteva provocare
nel sistema penale e nella società in generale.
2 D. Jousse, Traité de la justice criminelle en France, Debure, Paris 1771, 4 voll.
3 P.-F. Muyart de Vouglans, Institutes au droit criminel, ou Principes généraux en ces ma-
tières, Le Breton, Paris 1757.
4 C. de Rémusat, Discussion du projet de loi relatif à des réformes dans la législation pé-
nale, Camera dei deputati, 1° dicembre 1831, in “Archives parlamentaires del 1787 à
1860. Recueil complet des débats législatifs et politiques des Chambres françaises”, se-
conda serie, Paul Dupont, Paris 1889, vol. LXXII, p. 185, col. 2.
5 P.-F. Van Meenen (presidente della Corte di cassazione di Bruxelles), “Discours d'ouver-
ture du Iie Congrès international pénitentiaire” (20-23 settembre 1847, Bruxelles), in
Débats du Congrès pénitentiaire de Bruxelles, Deltombe, Bruxelles 1847, p. 20.
1) La prigione impedisce al potere giudiziario di controllare e di veri-
ficare l'applicazione delle pene. La legge non penetra nelle prigioni, dice-
va Decazes nel 1819.
2) La prigione, mescolando tra loro condannati insieme diversi e iso-
lati, costituisce una comunità omogenea di criminali che diventano soli-
dali nella reclusione e lo restano anche una volta usciti. La prigione fab-
brica un vero e proprio esercito di nemici interni.
3) Dando ai condannati un riparo, cibo, vestiti e spesso lavoro, la pri-
gione riserva ai condannati una sorte che è a volte migliore di quella degli
operai. Non solo non può avere un effetto dissuasivo, ma invita alla de-
linquenza.
4) Dalla prigione escono persone condannate definitivamente alla
criminalità a causa delle loro abitudini e dell'infamia da cui sono segnate.
Fin da subito, quindi, la prigione è denunciata come uno strumento
che sta a i margini della giustizia e fabbrica coloro che questa giustizia in-
vierà o reinvierà in prigione. Il circolo carcerario è chiaramente denuncia-
to a partire dal 1815-1830. A queste critiche sono state date successiva-
mente tre risposte:
– immaginare un'alternativa alla prigione che ne mantenga gli effetti
positivi (segregare i criminali, escluderli dal circuito sociale) e ne cancelli
le conseguenze pericolose (la loro rimessa in circolazione). A questo sco-
po si ripristina il vecchio sistema della deportazione che i britannici ave-
vano interrotto durante la Guerra d'indipendenza e ripreso dopo il 1790
in direzione dell'Australia. Le grandi discussioni su Botany Bay avvengo-
no in Francia intorno al 1824-1830. Di fatto, la deportazione-colonizza-
zione non sostituirà mai la reclusione; all'epoca delle grandi conquiste
coloniali, essa svolgerà un ruolo complesso nei circuiti di controllo della
delinquenza. Tutto un insieme costituito dai gruppi di coloni più o meno
volontari – i reggimenti coloniali, i battaglioni d'Africa, la Legione stra-
niera, la Cayenna – nel corso del XIX secolo funzionerà in correlazione
con una penalità che resterà essenzialmente carceraria;
– riformare il sistema interno della prigione, in modo che smetta di
fabbricare questo esercito di pericoli interni. È questo l'obiettivo che in
tutta Europa è stato designato come la “riforma penitenziaria”. Come ri-
ferimenti cronologici, si possono prendere le Lezioni sulle prigioni di Ju-
lius (1828)6, da una parte, e il Congresso di Bruxelles del 1847, dall'altra.
Questa riforma contiene tre aspetti principali: isolamento completo o
parziale dei detenuti all'interno delle prigioni (discussioni sui sistemi di
Auburn e della Pennsylvania); moralizzazione dei condannati attraverso il
lavoro, l'istruzione, la religione, le ricompense, le riduzioni di pena; svi-
luppo delle istituzioni parapenali di prevenzione, di recupero o di con-
trollo. Ma queste riforme, alle quali le rivoluzioni del 1848 hanno messo
fine, non hanno modificato per nulla le disfunzioni della prigione denun-
ciate nel periodo precedente;
– dare finalmente uno statuto antropologico al circolo carcerario; so-
stituire al vecchio progetto di Julius e di Charles Lucas 7 (cioè fondare una
“scienza delle prigioni” capace di fornire i princìpi architettonici, ammi-
nistrativi, pedagogici di un'istituzione che ha il compito di “correggere”)
una “scienza dei criminali” che possa caratterizzarli nella loro specificità
e definire adeguate modalità di reazione sociale. La classe dei delinquen-
ti, a cui il circuito carcerario affidava almeno una parte della sua autono-
mia, e di cui assicurava al tempo stesso l'isolamento e la detenzione, ap-
pare ora come una deviazione psicosociologica. Deviazione che dipende
da un discorso “scientifico” (dove si concentrano analisi psicopatologi-
che, psichiatriche, psicoanalitiche, sociologiche); deviazione che spinge a
chiedersi se la prigione costituisca una risposta o un trattamento adegua-
to.
6 N.H. Julius, Vorlesungen über die Gefängnisskunde..., Stuhr, Berlin 1828, 2 voll.; trad.
fr. di H. Lagarmitte, Leçons sur les prisons, présentées en forme de cours au public de
Berlin en l'année 1827, F.G. Levrault, Paris 1831, vol. I.
7 C. Lucas, De la réforme des prisons, ou De la théorie de l'emprisonnement, de ses prin-
cipes, de ses moyens et de ses conditions pratiques, Legrand et Bergounioux, Paris 1836-
1838, 3 voll.
Ciò che all'inizio del XIX secolo, con altre parole, si rimproverava
alla prigione (la creazione di una popolazione “marginale” di “delin-
quenti”) ora viene visto come una fatalità. Non soltanto lo si accetta
come un fatto, ma lo si assume come un dato originario. L'effetto “delin-
quenza” prodotto dalla prigione diventa problema della delinquenza a
cui la prigione deve fornire una risposta adeguata. Rovesciamento crimi-
nologico del circuito carcerario.
***
9 J.P. Brissot de Warville, Théorie des loix criminelles, 2 voll., [s.e.], Berlin 1781, vol. I,
cap. II, sezione, II, p. 187.
ingiurie personali e contrarie all'onore devono essere pecuniarie”. Lo si
trova anche sotto forma di un “taglione morale”: punire il crimine non
rovesciandone gli effetti, ma rivolgendosi verso le origini e i vizi che ne
sono la causa10. Le Peletier de Saint-Fargeau proponeva all'Assemblea na-
zionale (23 maggio 1791): il dolore fisico per punire i crimini il cui princi-
pio è l'atrocità; il lavoro di fatica per punire i crimini il cui principio è
l'indolenza; l'infamia per punire i crimini ispirati da un'anima “abietta e
degradata”11;
– infine, terzo modello, la riduzione in schiavitù a vantaggio della so-
cietà. Una pena di questo tipo può essere graduata, nell'intensità e nella
durata, in base al danno causato alla collettività. Essa si ricollega alla
colpa per mezzo di questo interesse danneggiato. Beccaria, a proposito
dei ladri: “La pena più opportuna sarà […] la schiavitù per un tempo del-
le opere e della persona alla comune società, per risarcirla colla propria e
perfetta dipendenza dell'ingiusto dispotismo usurpato sul patto
sociale”12. Brissot: “Cosa sostituire alla pena di morte […]? La schiavitù
che mette il colpevole fuori dalla condizione di nuocere alla società, il la-
voro che lo rende utile, il dolore prolungato e permanente che spaventa
chi sarebbe tentato di imitarlo”13.
Certo, in tutti questi progetti, la prigione figura spesso come una del-
le pene possibili: sia come condizione del lavoro forzato, sia come pena
del taglione per coloro che hanno attentato alla libertà degli altri. Ma
essa non appare come la forma generale della penalità, né come la condi-
zione di una trasformazione psicologica e morale del delinquente.
Soltanto nei primi anni del XIX secolo i teorici accorderanno alla
prigione questo ruolo. “La carcerazione è la pena per eccellenza nelle so-
10 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Einaudi, Torino 2007 [1764], cap. XX, pp. 49-50;
cap. XXIII, p. 53; cap. XXII, p. 52.
11 L.-M. Le Peletier de Saint-Fargeau, Rapport sur le projet du Code pénal, Assemblea
nazionale, 23 maggio 1791, in “Archives parlamentaires de 1787 à 1860. Recueil complet
des débats législatifs et politiques des Chambres françaises”, prima serie, Paul Dupont,
Paris 1887, vol. XXVI, p. 322, col. 1.
12 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., cap. XXII, p. 52.
13 J.P. Brissot de Warville, Théorie des loix criminelles, cit., vol. I, p. 147.
cietà civilizzate. La sua tendenza è morale quando è accompagnata dal-
l'obbligo del lavoro” (P. Rossi, 1829)14. Ma in quest'epoca la prigione sarà
già lo strumento principale della penalità. La prigione, luogo di emenda-
mento, è la reinterpretazione di una pratica di reclusione che si era diffu-
sa negli anni precedenti.
***
La pratica della prigione non era quindi implicata nella teoria pena-
le. È nata altrove e si è formata per altre ragioni. Si è imposta in certo
modo all'esterno alla teoria penale, che si troverà obbligata a giustificarla
a posteriori, come Livingston, per esempio, quando nel 1820 dirà che la
pena detentiva ha il quadruplice vantaggio di potersi dividere in tanti gra-
di di gravità quanti sono quelli dei delitti; di impedire la recidività; di
permettere la correzione; di essere sufficientemente dolce perché i giurati
non esitino ad applicarla e perché il popolo non si rivolti contro la leg-
ge15.
Per comprendere il funzionamento reale della prigione sotto la sua
apparente disfunzione, e il suo profondo successo sotto i fallimenti di su-
perficie, bisogna certamente risalire a quelle istanze di controllo parape-
nali in cui essa rientrava, come si è visto, nel XVII e soprattutto nel XVIII
secolo.
In queste istanze, la reclusione gioca un ruolo che comporta tre ca-
ratteri distinti:
– interviene nella distribuzione spaziale degli individui attraverso la
detenzione temporanea dei mendicanti e dei vagabondi. È vero che alcune
ordinanze (dalla fine del XVII secolo e per tutto il XVIII) li condannava-
no ai lavori forzati, almeno nei casi di recidività, ma la reclusione resta
14 P.L. Rossi, Traité de droit pénal, libro III, cap. VIII: “De l'eprisonnement”, A. Sautelet,
Paris 1829, p. 169.
15 E. Livingston, Introductory Report to the System of Penal Law Prepared for the State
of Louisiana, La Nouvelle-Orléans 1820 / Rapport fait à l'Assemblée générale de l'État
de la Louisiane sur le projet d'un code pénal, impr. B. Levy, La Nouvelle-Orléans 1822.
comunque la punizione più frequente. Se li si rinchiude, tuttavia, non è
tanto per fissarli lì dove sono trattenuti, ma per spostarli: per vietare che
entrino nelle città, per rispedirli nelle campagne, o anche per impedire
loro di aggirarsi in una regione, per costringerli ad andare dove possono
trovare un lavoro. È un modo perlomeno negativo di controllare la loro
ubicazione rispetto all'apparato di produzione agricola o manifatturiera;
un modo di agire sul flusso di popolazione tenendo conto al tempo stesso
delle necessità della produzione e del mercato del lavoro;
– la reclusione interviene anche al livello della condotta degli indivi-
dui. Sanziona a livello infrapenale alcuni modi di vivere, dei tipi di di-
scorso, dei progetti o delle intenzioni politiche, dei comportamenti ses-
suali, il rifiuto dell'autorità, le offese all'opinione pubblica, le violenze
ecc. In breve, non interviene tanto in nome della legge ma in nome del-
l'ordine e della regolarità. L'irregolare, l'agitato, il pericoloso e l'infame
sono l'oggetto della reclusione. Mentre la penalità subisce l'infrazione, la
reclusione sanziona il disordine;
– infine, se è vero che la reclusione è nelle mani del potere politico
che sfugge totalmente o in parte al controllo della giustizia costituita (in
Francia, è quasi sempre decisa dal re, dai ministri, dagli intendenti, dai
sottodelegati), non necessariamente è lo strumento dell'arbitrio e dell'as-
solutismo. Lo studio delle lettres de cachet (del loro funzionamento e del-
la loro motivazione) mostra che nella stragrande maggioranza dei casi
erano sollecitate dai padri di famiglia, dai notabili minori, da comunità
locali, religiose, professionali contro individui che secondo loro provoca-
vano fastidio e disordine. La lettre de cachet sale dal basso verso l'alto
(sotto forma di richiesta) prima di ridiscendere l'apparato del potere sot-
to forma di un ordine munito di sigillo reale. È lo strumento di un con-
trollo locale e per così dire capillare.
Si potrebbe fare un'analisi dello stesso tipo a proposito delle società
che nascono in Inghilterra a partire dalla fine del XVII secolo. Spesso ani-
mate da “dissidenti”, si propongono di denunciare, escludere, far sanzio-
nare degli individui per condotte devianti, rifiuto del lavoro, disordini
quotidiani. Tra questa forma di controllo e quella assicurata dalla lettre
de cachet, le differenze sono chiaramente enormi. La più evidente è che le
società inglesi (almeno nella prima parte del XVIII secolo) sono indipen-
denti da ogni apparato statale; sono inoltre composte da gente del popo-
lo e in generale attaccano l'immoralità dei ricchi e potenti; infine, il rigo-
rismo di cui danno prova nei confronti dei loro membri è senza dubbio
un modo per sottrarli a una giustizia penale estremamente rigorosa (la le-
gislazione penale inglese, “caos sanguinario”, prevedeva la pena capitale
per un numero di casi assai maggiore rispetto a tutti gli altri codici euro-
pei). In Francia, invece, le forme di controllo erano strettamente legate a
un apparato statale che aveva organizzato la prima grande polizia d'Euro-
pa, che l'Austria di Giuseppe II e in seguito l'Inghilterra cercarono di imi-
tare. A proposito dell'Inghilterra, bisogna notare che, negli ultimi anni
del XVIII secolo (essenzialmente dopo i Gordon Riots, e all'epoca dei
grandi movimenti popolari più o meno contemporanei alla Rivoluzione
francese), apparvero nuove società di moralizzazione, con una composi-
zione molto più aristocratica (alcune erano dotate di un equipaggiamen-
to militare): esse richiedevano l'intervento del potere regio, la creazione di
una nuova legislazione e l'organizzazione di una polizia. L'opera e il per-
sonaggio di Colquhoun sono al centro di questo processo.
Ciò che ha trasformato la penalità alla svolta del secolo è l'adegua-
mento del sistema giudiziario a un meccanismo di sorveglianza e di con-
trollo; è la loro integrazione comune in un apparato di Stato centralizza-
to; ma è anche la creazione e lo sviluppo di tutta una serie di istituzioni
(parapenali e a volte non penali) che dovevano servire da punto d'appog-
gio, da avamposto o da forme ridotte all'apparato principale. Un sistema
generale di sorveglianza-reclusione penetra in tutto lo spessore della so-
cietà, e assume le forme che vanno dalle grandi prigioni costruite sul mo-
dello del Panopticon fino alle società di patronato, e trovano i loro punti
di applicazione non solo nei delinquenti, ma nei bambini abbandonati,
negli orfani, negli apprendisti, nei liceali, negli operai ecc. In un passo
delle Lezioni sulle prigioni Julius opponeva le civiltà dello spettacolo (ci-
viltà del sacrificio e del rituale in cui si offre a tutti lo spettacolo di un
evento unico e in cui la forma architettonica principale è il teatro) alle ci-
viltà della sorveglianza (in cui bisogna assicurare a qualcuno un controllo
ininterrotto sul maggior numero di persone; forma architettonica privile-
giata: la prigione). E aggiungeva che la società europea che aveva sostitui-
to lo Stato alla religione offriva il primo esempio di una civiltà della sor-
veglianza16.
Il XIX secolo ha fondato l'era del panoptismo.
***
***
sta con J. Hafsia, in “La Presse de Tunisie”, 12 agosto 1971, p. 3), in DE, n. 95, ed. 1994,
vol. II, p. 206; ed. 2001, vol. I, p. 1074; trad. it. di R. Nencini, “Un problema mi interessa
da molto tempo, quello del sistema penale”, in L'emergenza delle prigioni, cit., pp. 54-
55; F. Brion, B.E. Harcourt, “Nota del curatore”, in M. Foucault, Mal fare, dir vero,
cit., pp. 261-267.
10 Lezione del 28 marzo 1973, supra […]; cfr. lezione del 31 gennaio 1973, supra […]: “Da
dove viene allora questa forma?”.
11 M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere, cit., p. 14.
12 M. Foucault, “Théorie et institutions pénales”, cit., p. 392/p. 1260.
all'interno di una società – il modo in cui preleva il sapere di cui ha biso-
gno per esercitarsi e in cui, a partire da questo sapere, distribuirà ordini e
prescrizioni”13. Foucault esporrà lo schema completo di questo progetto
di ricerca nelle sue conferenze all'Università cattolica pontificia di Rio de
Janeiro alcuni mesi dopo, alla fine di maggio 1973. Inoltre,, nel 1975,
pubblica Sorvegliare e punire, che alla luce dei suoi primi corsi al Collège
de France può essere letto – o riletto – come un caso di studio della forma
giuridica dell'esame nel XIX secolo, in quanto produzione di una verità
scientifica e giuridica del soggetto nella società industriale 14. La questione
al centro di Sorvegliare e punire – perché la reclusione? o più esattamente:
“Perche l'esercizio fisico della punizione (e che non è il supplizio) si sosti-
tuì, con la prigione che ne è il supporto istituzionale, al gioco sociale dei
segni di punizione e alla loquace festa che li faceva circolare?” 15 – deve es-
sere colta in questa prospettiva: in questione non c'è semplicemente il
predominio di un'istituzione o di un tipo di potere, ma più esattamente la
produzione di una verità e di un sapere attraverso l'intera società. In altre
parole, il corso del 1973 elabora il modo in cui si è imposta e generalizza-
ta la carcerazione come tattica punitiva, offrendoci così la possibilità di
una rilettura di Sorvegliare e punire non più solo in termini di potere, ma
in continuità con i problemi della verità.
Il corso del 1973 rappresenta anche una rottura rispetto ad alcune
analisi precedenti – che sviluppavano in particolare le nozioni di repres-
sione, esclusione e trasgressione – e una svolta verso l'esplorazione delle
funzioni produttive della penalità. Foucault inizia a procedere in questa
direzione alcuni mesi prima, nell'aprile 1972, quando visita la prigione di
Attica nello Stato di New York – e fa la “tremenda” esperienza, come
16 M. Foucault, “À propos de la prison d'Attica” (intervista con J.K. Simon; trad. fr. di F.
Durant-Bogaert, in “Telos”, n. 19, primavera 1974, pp. 154-161), in DE, n. 137, ed.
1994, vol. II, p. 526; ed. 2001, vol. I, p. 1394; trad. it. di R. Nencini, “A proposito della
prigione di Attica”, in L'emergenza delle prigioni, cit., p. 143.
17 Ivi, p. 145.
18 Sorvegliare e punire, cit., p. 28.
19 Lezione del 7 febbraio 1973, supra […] (manoscritto, fol. 3).
La tesi è radicale e politicamente impegnata. Fa capire come il corso
del 1973 coroni uno dei periodi più attivi della militanza di Foucault, in
particolare nell'ambito della penalità e della prigione – e che lui avverte
come un periodo repressivo in Francia. “Oggi, per ragioni che non com-
prendo ancora molto bene,” segnala Foucault, “si ritorna a una sorta di
reclusione generale, indifferenziata”20. Alcuni mesi prima aveva appoggia-
to senza riserve i detenuti in rivolta in numerose prigioni e carceri preven-
tive di tutta la Francia – tra cui la centrale Ney di Toul nel dicembre 1971,
il carcere preventive Charles-III di Nancy il 15 gennaio 1972, le prigioni di
Nîmes, Amiens, Loos, Fleury-Mérogis21. Dopo la rivolta di Toul, in una
conferenza stampa congiunta del Gip e del Comitato Verità Toul, il 5
gennaio 1972, Foucault dichiara che “quel che è accaduto a Toul è l'inizio
di un nuovo processo: l'inizio di una lotta politica contro l'intero sistema
penitenziario da parte dello strato sociale che ne è la prima vittima” 22.
Due settimane dopo, il 18 gennaio, assieme a Deleuze, Sartre e a una qua-
rantina di persone, Foucault organizza un sit-in al ministero di Giusti-
zia23. Si moltiplicano le manifestazioni, le conferenze stampa, le inchieste
– per esempio, quelle intitolate Intolérable – e gli opuscoli del Gip, come
pure i bollettini della nuova agenzia di stampa Libération/Apl, i dibattiti
su “Le Monde” e su altre testate24. Di ritorno dalla visita alla prigione di
Attica – in cui sette mesi prima una rivolta generale dei detenuti era sfo-
20 M. Foucault, “La grande reclusione”, cit., p. 78.
21 Cfr. La révolte de la prison de Nancy, 15 janvier 1972. Documents et propos de Michel
Foucault, Jean-Paul Sartre et de militants du Groupe d'information sur les prisons, Le
Point du jour, Paris 2013. Foucault diede il suo appoggio incondizionato tanto ai prigio-
nieri politici quanto ai detenuti comuni, senza fare distinzioni. Ponendo come premessa
la nozione di “guerra civile”, la stessa distinzione – tra prigioniero politico e comune –
perdeva ogni significato. È un elemento importante, teorico e insieme pratico, dell'inter-
vento di Foucault. Cfr. M. Foucault, “Sur la justice populaire. Débats avec les maos”
(intervista con Gilles e Victor, 5 febbraio 1972, in “Les Temps modernes”, . 310 bis, pp.
355-366), in DE, n. 108, ed. 1994, vol. II, pp. 340-369; ed. 2001, vol. I, pp. 1208-1237;
trad. it. di G. Procacci e P. Pasquino, “Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti”,
in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 71-106.
22 La révolte de la prison de Nancy. 15 janvier 1972 , cit., p. 19 (riproduzione della pagina
manoscritta).
23 Cfr. D. Defert, “Chronologie”, cit., p. 40/p. 54.
24 Cfr. ibid.; La révolte de la prison de Nancy. 15 janvier 1972, cit.
ciata in un'azione militare e nella morte di ventinove prigionieri e dieci
guardie –, Foucault indica già la “funzione di eliminazione di massa [a
cui] adempie la prigione americana”25, laddove l'espressione “carcerazio-
ne di massa” (mass incarceration) inizierà a diffondersi negli Stati Uniti
solo vent'anni più tardi. A partire dal 1973 il numero dei detenuti nelle
prigioni americane in effetti esplode e ben presto coinvolge “più di un mi-
lione di prigionieri”26, come annunciato da Foucault. (Oggi supera i 2,2
milioni.) Con una certa preveggenza, Foucault descrive la nuova “concen-
trazione radicale”27 che si sviluppa negli Stati Uniti, e adotta anche in
questo caso una posizione alquanto netta: “Soltanto con l'azione colletti-
va, l'organizzazione politica, la ribellione, i detenuti potranno sfuggire a
questo sistema di dressage”, dice lasciando Attica. “Le prigioni america-
ne sembrano poter essere, con minore sforzo delle prigioni europee, dei
luoghi d'azione politica”28. Coinvolti a distanza in questa lotta, Foucault
e il Gip diffondono un pamphlet dopo la morte – o meglio l'“assassinio”,
per usare le loro parole – di George Jackson, membro del Black Panther
Party, detenuto a San Quentin in California, ucciso dalle guardie durante
una rivolta nel settore di sicurezza della prigione il 21 agosto 1971 29. Fou-
cault pone l'attenzione su “un'enorme organizzazione carceraria” esisten-
te anche in Francia, dove “grosso modo trecentomila persone passano
dalle prigioni o vi ritornano”30. In ragione di questi fatti, in un'intervista
uscita nel marzo 1972 Foucault dichiara: “Se mi occupo del Gip, è pro-
prio perché preferisco un lavoro effettivo alle chiacchiere universitarie e
alla compilazione di libri. Oggi scrivere un seguito della mia Storia della
1. IL CONTESTO INTELLETTUALE
Rio de Janeiro, 21-25 maggio 1973, in “Cardenas da PUC”, n. 16, giugno 1974, pp. 5-
133; trad. portoghese di J.W. Prado Jr.), in DE, n. 139, ed. 1994, vol. II, p. 570; ed. 2001,
vol. I, p. 1438; trad. it. di S. Pandolfi, “La verità e le forme giuridiche”, in Archivio Fou-
cault 2. 1971-1977, Feltrinelli, Milano 1997, p. 113.
35 M. Foucault, “Les intellectuels et le pouvoir” (intervista con Gilles Deleuze, “L'Arc”, n.
49: Gilles Deleuze, 1972, pp. 3-10), in DE, n. 106, ed. 1994, vol. II, p. 308; ed. 2001, vol.
I, p. 1176; trad. it. di A. Fontana, P. Pasquino e G. Procacci, “Gli intellettuali e il
potere”, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1968-1984 , Einaudi, Torino 2001,
pp. 120-121.
36 D. Defert, “Chronologie”, cit., p. 42/p. 57.
37 M. Foucault, “La grande reclusione”, cit., p. 77.
una nuova maniera di concettualizzare il potere e anche a identificare una
nuova forma di potere, che avrà di mira non solo Hobbes, ma implicita-
mente lo stesso Althusser. A livello esplicito l'intervento di Foucault è ri-
volto a Hobbes: è una critica dell'analisi hobbesiana della guerra civile
che la sussume sotto la nozione di guerra di tutti contro tutti. Lo sforzo
teorico consiste nel reintegrare la nozione di guerra civile all'interno del
Commonwealth. Per Foucault, la guerra civile non è il compimento della
condizione politica e non ci immerge nuovamente in uno stato di natura;
essa non è semplicemente un'esemplificazione della condizione originale
della guerra di tutti contro tutti. La guerra civile non si oppone al potere
politico, lo costituisce e lo ricostituisce: è “una matrice all'interno della
quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano” 38. Essa
è la condizione quasi permanente di collettività e di comunità che si co-
stituiscono e si ricostituiscono. Perciò, è il potere stesso che deve essere
analizzato attraversa il prisma della guerra civile: “È importante rendersi
conto che il potere non è ciò che sopprime la guerra civile, ma ciò che la
pratica e la continua”39. E, quindi, dichiara Foucault il 10 gennaio 1973:
“Bisogna rifiutare l'immagine [proposta da] Hobbes che, con l'apparizio-
ne dell'esercizio del [potere] sovrano, espelleva la guerra dallo spazio di
[quest'ultimo]”40.
Ma questa analisi del potere ha implicitamente di mira Althusser, il
quale nel 1970 aveva pubblicato le sue note di ricerca intitolate “Ideologia
e apparati ideologici di Stato”. L'intervento di Foucault nel 1973 può es-
sere letto come una replica molto affilata a questa preoccupazione di Al-
thusser: la divisione tutta althusseriana tra un potere di Stato che si espri-
me attraverso la violenza e la coercizione, da una parte, e un potere di
Stato che agisce attraverso l'ideologia, dall'altra 41. La tesi secondo la qua-
38 Lezione del 10 gennaio 1973, supra […].
39 Ivi, […].
40 Ibid.
41 Cfr. L. Althusser, Idéologie et appareils idéologiques d'État. (Note pour une recherche),
in “La Pensée. Revue du rationalisme moderne”, n. 151, giugno 1970, pp. 3-38, reidito
in Id., Positions, Éditions Sociales, Paris 1976, pp. 79-137; trad. it. a cura di C. Mancina,
“Ideologia e apparati ideologici di Stato”, in Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1981,
le l'analisi della penalità o del carcerario si situerebbe interamente, o qasi,
dalla parte di un'analisi dell'apparato repressivo di Stato 42 – senza biso-
gno degli strumenti di un'analisi degli apparati ideologici, secondo una
biforcazione che Foucault stesso rifiuta – servirà a Foucault come costan-
te termine di opposizione teorica. Certo, Althusser esprime una spiccata
sensibilità per la dimensione soggettiva dell'ideologia, per l'importanza
dell'assoggettamento per mezzo dell'interpellazione del soggetto attraver-
so le forme ideologiche – temi ai quali Foucault si interessava già all'epo-
ca dei suoi primi lavori sulla follia e sull'Antropologia di Kant, e su cui ri-
tornerà negli ultimi corsi. Tuttavia, le formule “apparato di Stato” e “ap-
parati ideologici” non offrono veramente la possibilità di pensare la pe-
nalità o la prigione al di fuori della repressione statale, vale a dire, secon-
do Althusser, al di fuori dell'ambito “dei 'cattivi soggetti', che provocano
all'occasione l'intervento di questo o quel distaccamento dell'apparato
(repressivo) di Stato”43.
Nelle lezioni Foucault non menziona mai Althusser, ma si rivolge co-
munque a lui: “Non credo che il potere possa essere descritto in maniera
adeguata come qualcosa che sarebbe localizzato negli apparati di Stato. E
non basta nemmeno dire che gli apparati di Stato sono la posta in gioco
di una lotta, interna o esterna. Mi sembra piuttosto che l'apparato di Sta-
to sia una forma concentrata, o comunque una struttura d'appoggio, di
un sistema di potere che va ben oltre e più in profondità” 44. Al modello
dell'apparato di Stato, Foucault oppone una concezione più fluida: per
pp. 65-123.
42 Cfr. ivi, p. 80: “Nella teoria marxista, l'apparato di Stato (AS) comprende: il governo,
l'amministrazione, l'esercito, la polizia, i tribunali, le prigioni ecc., che costituiscono
quel che noi chiameremo ormai l'apparato repressivo di Stato”; ivi, p. 87: “L'Apparato
di Stato […] assicura con la repressione (dalla forza fisica più brutale ai semplici ordini
e divieti amministrativi, alla censura palese o tacita ecc.) le condizioni politiche dell'e-
sercizio degli apparati ideologici di Stato”.
43 L. Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”, cit., p. 118.
44 Lezione del 28 marzo 1973, supra […]. Foucault ne trarrà la conseguenza: “Questo fa s'
che, in pratica, né il controllo né la distruzione dell'apparato di Stato siano sufficienti a
trasformare o a far scomparire un certo tipo di potere, quello in cui ha funzionato”
(ibid.).
esempio, un sequestro di iniziativa privata (come la fabbrica-convento di
Jujurieux) che non dipende direttamente dallo Stato ma che rimanda al-
l'apparato di Stato, o “semmai [a] dei relais-moltiplicatori di potere al-
l'interno di una società in cui la struttura statale resta la condizione di
funzionamento di queste istituzioni”45. Nel manoscritto Foucault, come
se parlasse direttamente ad Althusser, osserva: “Non è un apparato di
Stato, è un apparato preso nel nodo statale. Un sistema intrastatale” 46.
Nel loro insieme, queste opposizioni a Hobbes e ad Althusser produ-
cono, nella Società punitiva, una nuova teorizzazione del potere. Non è
possibile comprendere il potere se lo si pensa localizzato nello Stato, pos-
seduto o subordinato a un modo di produzione, e certamente non come
un'ideologia47. Il potere deve essere pensato come fattore costitutivo. Do-
minando il tempo, il potere crea dei soggetti che si piegano all'industria-
lizzazione e al capitalismo; in questo senso le relazioni di potere discipli-
nare sono di fatto elementi costitutivi del capitalismo, e non semplici
strumenti o pura coercizione. Ciò implica necessariamente che la questio-
ne del potere attraversi la società intera – o, come Foucault spiegherà
l'anno dopo in Il potere psichiatrico (1974), “Ciò che, da un punto di vi-
sta metodologico, implica che si lasci da parte il problema dello Stato,
degli apparati di Stato, e che si faccia a meno della nozione psicosociolo-
gica di autorità”48.
49 Questa espressione di Clausewitz all'epoca era molto in voga tra i militanti maoisti, se-
condo Daniel Defert, e ciò potrebbe inquadrare l'interesse che Foucault aveva per questa
seconda dimensione.
50 Lezione del 10 gennaio 1973, supra […]. Cfr. Sorvegliare e punire, cit., p. 184; M. Fou-
cault, “Il faut defendre la société”. Cours au Collège de France, 1975-1976 , a cura di M.
Bertani e A. Fontana, Gallimard-Seuil, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana,
“Bisogna difendere la societa”, Feltrinelli, Milano 1998, [lezione] del 7 gennaio 1976,
pp. 22-23 e [lezione] del 21 gennaio, p. 47.
51 E. Goffman, Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other In-
mates, Doubleday, New York 1961, p. 4; trad. it. di F. Basaglia e F. Ongaro Basaglia,
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza , Einaudi, To-
rino 2003, qui p. 34.
mano. Lo studio etnografico di Goffman permette di sviluppare “un'in-
terpretazione sociologica della struttura del sé” 52, e l'attenzione nei ri-
guardi dei pazienti delle istituzioni totali fornisce gli strumenti per descri-
vere le forme di “mortificazione del sé” 53 – tutti temi molto foucaultiani.
Anche Goffman attribuisce un ruolo importante alla disciplina in questi
istituti – precisa addirittura che l'impiego del tempo è “tightly scheduled”
(programmato nel dettaglio)54 e descrive con accuratezza il ruolo della
“sorveglianza” in queste istituzioni, dove “si tenderà a puntualizzare l'in-
frazione dell'uno contrapponendola all'evidente zelo dell'altro che, per
questo, verrà costantemente messo in evidenza”55. Goffman inoltre de-
scrive e studia minuziosamente il controllo del tempo: il modo in cui il
tempo è messo a profitto per “disculturare” il detenuto e per assicurare la
sua “morte civile” rispetto al mondo esterno 56. “Si tratta di un tempo”,
scrive Goffman, “messo tra parentesi, da coloro che lo hanno vissuto [ are
doing time], con un intendimento costante e consapevole, difficilmente
riscontrabile nel mondo esterno”57. Inoltre, l'analisi fatta da Foucault del
rapporto di forza all'interno delle istituzioni, tra detenuti e sorveglianti,
presenta dei parallelismi con i processi descritti da Goffman tra “reclusi e
guardiani”58.
Ma benché ci siano numerosi parallelismi, le loro analisi del rappor-
to tra le istituzioni – totali o meno – sono radicalmente differenti. Per
74 Si potrebbe forse anche cogliere un avvio di dialogo con Thompson, l'anno precedente,
in “Teorie e istituzioni penali”; ma nel 1972 Foucault è molto più interessato ai lavori
dello storico sovietico Boris Porchnev, che traeva le sue fonti dagli archivi del fondo Sé-
guier a Leningrado e che, in uno studio approfondito pubblicato in russo nel 1948, in-
terpreta le rivolte popolari del XVII secolo in Francia attraverso il prisma della lotta di
classe. Cfr. B. Porchnev, Les soulèvements populaires en France de 1623 à 1648, SEV-
PEN, Paris 1963; ried. Flammarion, Paris 1972; trad. it. di F. Rigotti, Lotte contadine e
urbane nel grand siècle, Jaca Book, Milano 1976.
75 Cfr. E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, Victor Gollancz, Lon-
don 1963, pp. 59-71; trad. it. di B. Maffi, Rivoluzione industriale e classe operaia in In-
ghilterra., il Saggiatore, Milano 1969, vol. I, pp. 60-71; Id., The Moral Economy of the
English Crowd in the Eighteenth Century, in “Past and Present”, n. 50, febbraio 1971,
pp. 76-79, in particolare pp. 78-79: “La rivolta per la sussistenza (food riot) nel XVIII
secolo in Inghilterra era una forma molto complessa di azione popolare diretta, discipli-
nata, mossa da obiettivi chiari […]. Si fondava su una solida concezione tradizionale
delle norme e degli obblighi sociali, delle funzioni economiche specifiche dei vari com-
ponenti della comunità che, presi nel loro insieme, promossero ciò che si potrebbe defi-
nire come l'economia morale dei poveri”; cfr. anche G. Rudé, The Crowd in History: A
Study of Popular Disturbances in France and England, 1730-1848, Wiley, New York
1964.
XVIII secolo, un'opposizione concertata, politica e morale, alla nascita
del laissez-faire. Questo spiegherebbe, per esempio, il movimento luddi-
sta: “La nascita del luddismo va individuata nel punto critico dell'abroga-
zione delle leggi paternalistiche e dell'imposizione dell'economia del lais-
sez-faire alla (e contro la) volontà e coscienza dei lavoratori” 76. Nello
stesso tempo, la repressione degli eventi sediziosi darà luogo a tutto un
sanguinoso sistema penale e repressivo. Il sistema penitenziario sarebbe
quindi il prodotto della repressione; e lo sviluppo economico della secon-
da metà del XVIII secolo sarebbe avvenuto “all'ombra” di questo sistema
repressivo – non come effetto produttivo della repressione, né per mezzo
di una forma comune di potere: “La fioritura del commercio, il moto di
recinzione, i primordi della rivoluzione industriale”, sostiene Thompson,
“tutto ciò avvenne all'ombra della forca”77.
Foucault si era avvicinato alla tesi di Thompson 78, ma nel febbraio
1973 ne prende distanza – e qui lo si può immaginare in dialogo diretto
con Thompson sul rapporto tra la resistenza popolare e la repressione.
Alla domanda: “Perché lo Stato stesso è diventato il grande
'penitenziario'?”, Foucault osserva: “Per un periodo ho creduto che si po-
tesse risolvere [il problema] in poche parole”79 – “poche parole” verosi-
milmente molto vicine alla repressione della “plebe sediziosa” secondo
Thompson80. “Ma”, dice Foucault, “non sono sicuro di aver impiegato a
76 E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra , cit., vol. II, p.
97.
77 Ivi, vol. I, p. 62. La questione della severità delle pene e del ricorso alla pena di morte in
Inghilterra nel XVIII secolo darà luogo ad ampi dibattiti tra gli storici. Cfr. D. Hay,
“Property, authority and the criminal law”, in D. Hay, P. Linebaugh, E.P. Thompson, Al-
bion's Fatal Tree: Crime and Society in Eighteenth Century England , Doubleday-Pan-
theon Books, New York 1975; J.H. Langbein, Albion's Fatal Flaws, in “Past and
Present”, n. 98, vol. I, 1983, pp. 96-120; ried. in D. Sugarman (a cura di), Law in Histo-
ry: Histories of Law and Society, New York University Press, New York 1996, vol. I.
78 Lezione del 10 gennaio 1973, supra […]: “Un movimento rivoltoso non consiste tanto
nel distruggere gli elementi del potere, quanto nell'impadronirsene e nel farli funziona-
re”.
79 Lezione del 21 febbraio 1973, supra […].
80 Foucault spiega queste “due parole” nel modo seguente: “Alla crescita del capitalismo
corrispondeva tutta una serie di movimenti di sedizione popolare, ai quali il potere della
borghesia avrebbe risposto con un nuovo sistema giudiziario e penitenziario” (ibid.).
ragione il termine 'plebe sediziosa'. Mi sembra infatti che il meccanismo
che ha portato alla formazione di questo sistema punitivo sia in un certo
senso più profondo e più grande di quello del semplice controllo della
plebe sediziosa”81. Per Foucault, quindi, la società punitiva non avrebbe
origine dalla paura e dalla reazione repressiva ai movimenti popolari del
XVIII secolo. La dinamica non si ridurrebbe al trittico: cambiamento del-
l'economia politica-economia morale di resistenza-repressione da parte
della classe dominante. Foucault invece svilupperà la sua tesi sull'“illega-
lismo popolare” – fenomeno che giudicherà “più profondo e più costan-
te” e “di cui la sedizione rappresenta solo un caso particolare” 82. Tema
chiave del corso, la teoria degli illegalismi 83, nella prospettiva foucaultia-
na del 1973, sostituisce la base di un'economia politica che diverrà centra-
le nel suo approccio al sistema penale e che sarà sviluppata nei mesi suc-
cessivi, e infine in Sorvegliare e punire.
In ragione di questo dialogo silenzioso con Thompson, come pure
con Althusser, il corso del 1973 ha dei riflessi più marxisteggianti rispetto
agli altri scritti di Foucault, benché formuli delle chiare linee di demarca-
zione tra lui e Marx, forse le più chiare che abbia indicato. Foucault svi-
luppa un'economia politica, una cronistoria del capitalismo, sulla base di
una lotta che a volte assomiglia a una lotta di classe – ed è ciò che rende il
testo marxisteggiante –, ma che in fondo è una lotta molto diversa: una
guerra civile generalizzata contro il “criminale-nemico sociale”, la quale
produce un potere disciplinare che attraversa tutta la società e trasforma
il tempo della vita in forza produttiva. Il corso del 1973 si legge come una
sfida ai grandi testi sulla storia del capitalismo. A chi pensa che la morale
non sia indispensabile al capitalismo, Foucault sembra dire: non c'era
nulla di naturale nel plusvalore né nel “lavoro necessario”; ci sono volute
una quantità di battaglie morali contro le classi operaie, una quantità di
battaglie etiche a tutti i livelli, affinché la borghesia divenisse la padrona
81 Ibid.
82 Ibid. Cfr F. Gros, Foucault et “la société punitive”, in “Pouvoirs”, n. 136, 2010-14, pp.
5-14, in particolare pp. 10-11.
83 Cfr. infra […].
degli illegalismi. Da questo punto di vista, il corso del 1973 articola un
rapporto con Marx meglio di qualunque commento e propone un'analisi
dei rapporti tra morale ed economia che rimette in causa L'etica prote-
stante e lo spirito del capitalismo di Max Weber.
2. LA STRUTTURA DELL'ARGOMENTAZIONE
84 Cfr. lezione del 3 gennaio 1973, supra […]; cfr. anche lezione del 14 febbraio 1973, su-
pra […].
contro la sedizione nel XVII secolo, una reazione alla “plebe sediziosa”:
“Tutte le grandi fasi di evoluzione del sistema penale, del sistema repres-
sivo, sono dei modi di rispondere a forme di lotta popolare” 85, aveva af-
fermato Foucault nelle sue lezioni del 1972. È esattamente ciò che motiva
la tesi centrale di quel corso: “La coppia sistema penale-delinquenza è un
effetto della coppia sistema repressivo-[sistema] sedizioso. Un effetto nel
senso che è un prodotto, una condizione di mantenimento, uno sposta-
mento e una occultazione”86. Nel 1973, invece, fin dalla prima lezione,
Foucault si orienta verso l'aspetto produttivo del penale. Affronta innan-
zitutto il funzionamento positivo delle trasgressioni: “Non si può com-
prendere il funzionamento di un sistema penale, di un sistema di leggi e
divieti, se non ci si interroga sul funzionamento positivo degli
illegalismi”87.
Questo rappresenta un doppio distanziamento rispetto alla sociolo-
gia tradizionale, che Foucault chiama “la sociologia durkheimiana” 85.
Primo distanziamento: mentre la sociologia tradizionale poneva la que-
stione di sapere come la società poteva creare coesione morale – questio-
ne a cui Durkheim risponde, in parte, con la condanna di chi infrange la
legge –, Foucault aveva iniziato a esplorare le diverse forme di esclusione.
Da qui “Teorie e istituzioni penali” e l'analisi dei diversi modi di repres-
sione – contro i Piedi scalzi, il movimento luddista ecc. Ma nel 1973 c'è
una seconda partenza, più radicale: non focalizzarsi più sulla repressione
o l'esclusione. “La prigione è un'organizzazione troppo complessa per ri-
durla a delle funzioni puramente negative di esclusione”89. L'analisi si
riorganizza e si concentra sugli effetti positivi di un sistema penale speci-
fico, vale a dire non sul funzionamento della società in termini generali, o
sulla coesione morale al livello più basso, ma sulla società capitalista mo-
85 M. Foucault, “Théories et institutions pénales. Cours au Collège de France, 1971-
1972”, settima lezione, manoscritto fol. 2 [p. 68]; cfr. Id., “Sulla giustizia popolare. Di-
battito con i maoisti”, cit., [supra, nota 16], pp. 83-84.
86 M. Foucault, “Théories et institutions pénales”, manoscritto cit., fol. 3 [p. 8].
87 Lezione del 21 febbraio 1973, supra […].
85 M. Foucault, “A proposito della prigione di Attica”, cit., [supra, nota 16], p. 145.
89 Ibid.
derna e, più profondamente, sull'“esercizio e il mantenimento del
potere”90 in una società di questo tipo. In altre parole, si tratta di esplora-
re gli effetti di potere dei diversi sistemi penali, in modo da non rilevare
soltanto un addolcimento delle pene, o una loro individualizzazione a
prescindere dalle relazioni di potere, ma in modo da distinguere chiara-
mente i processi costitutivi delle relazioni di potere specifiche di un perio-
do e di una forma di organizzazione economica. Tema che sarà ripreso
nel 197591. Questa svolta, di cui si notano i primi segnali già dopo la sua
visita alla prigione di Attica nel 197292, susciterà una delle principali as-
serzioni di Sorvegliare e punire: “Bisogna smettere di descrivere sempre
gli effetti del potere in termini negativi: 'esclude', 'reprime', 'respinge',
'censura', 'astrae', 'maschera', 'nasconde'. In effetti il potere produce; pro-
duce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L'individuo e la
conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione”93.
97 Ivi […].
98 Citato supra, nota 95. Cfr. lezione del 21 febbraio 1973, supra […].
99 Lezione del 28 febbraio 1973, supra […].
100 Cfr. lezione del 21 febbraio 1973, supra […]; cfr. anche M. Foucault, “La grande reclu-
sione”, cit., p. 76; Id., “Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti”, cit., p. 92.
dissipazione che prenderà “la forma dell'assenteismo, dei ritardi, della pi-
grizia, delle feste, della dissolutezza, del nomadismo”101. La tolleranza
verso gli illegalismi popolari “era diventat[a] letteralmente impossibile;
effettivamente è stato necessario sottoporre a un regime di sorveglianza
tutti gli strati popolari”102. Alla fine del XVIII secolo la borghesia si im-
padronirà dell'apparato amministrativo e poliziesco e lo trasformerà “in
apparato giudiziario incaricato di liberarla dall'illegalismo popolare.
Quando prenderà il potere, la borghesia metterà mano a questo appara-
to, amalgamato al sistema generale degli illegalismi, e lo incaricherà di
far applicare la sua legalità”103. È quindi l'accumulazione delle ricchezze
materiali che motiva un movimento verso la sorveglianza, il controllo
permanente, l'esame. Il risultato è il “penitenziario” 104, nozione che rap-
presenta, come spiega Frédéric Gros, “l'idea di una reclusione che sanzio-
na non tanto l'infrazione di una legge ma l'irregolarità del comportamen-
to”105. Foucault lo dice: “Così, questo elemento del penitenziario, che a
mio avviso funzionava nella rete del non-legale, sarà preso in carico e in-
tegrato al sistema della giustizia, esattamente nel momento in cui la bor-
ghesia non potrà più tollerare l'illegalismo popolare” 106. In congiunzione
con un movimento di moralizzazione dei lavoratori (ne riparleremo tra
poco), il penitenziario diventa “uno strumento politico di controllo e di
conservazione dei rapporti di produzione”107. È quindi la necessità da
parte della borghesia di padroneggiare gli illegalismi popolari a motivare
la creazione di un nuovo sistema punitivo.
108 Ibid.
109 Lezione del 28 febbraio 1973, supra […].
110 Cfr. M. Foucault, “A proposito della prigione di Attica”, cit., p. 145: “Che ruolo gio-
chino [le procedure di punizione] nel conflitto di classe”.
111 Cfr. il dibattito Chomsky-Foucault, “Justice contre pouvoir”, registrato nel novembre
2011 alla Scuola superiore di tecnologia di Eindhoven (Paesi Bassi); estratti pubblicati su
“Le Monde diplomatique”, agosto 2007, www.mondediplomatique.fr/2007/08/A/15053.
112 Lezione del 21 marzo 1973, supra […].
provvisorie”113. Il modello della guerra civile deve sostituire quello fonda-
to sull'esistenza di una classe dominante.
Ma al di là di questi due interventi, il corso del 1973 opera altri spo-
stamenti importanti rispetto a Marx e alla corrente althusseriana che al-
l'epoca dominava l'interpretazione di Marx in Francia.
119 Ivi, p. 64 (corsivo nell'originale). È importante misurare in particolare “da quale inizio
contingente (rispetto alla sua nascita) dovette partire, e quale gigantesca cappa di illu-
sione dovette attraversare prima ancora di poterla percepire ” (ivi, p. 65, corsivo nell'ori-
ginale).
120 Ivi, p. 65 (corsivo nell'originale).
121 L. Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”, cit. [ supra, nota 41], p. 95
(corsivo mio).
122 Lezione del 24 gennaio 1973, supra […].
zione politica data”123. Ancora una volta, Foucault non menziona esplici-
tamente Althusser, ma il significativo parallelismo tra il suo neologismo e
la giustapposizione dei testi sui furti di legna costituisce un chiaro indi-
zio.
Foucault si schiera così dalla parte di Deleuze e Guattari – o vicever-
sa – i quali nell'Anti-Edipo, del 1972, dichiarano: “Il concetto di ideolo-
gia è un concetto esecrabile che nasconde i veri problemi, sempre relativi
all'organizzazione”124. Deleuze all'epoca era, per Foucault, uno dei rari
pensatori che riuscivano a guardare oltre la vecchia filosofia trascenden-
tale125. Deleuze e Guattari seguiranno questo itinerario in direzione del
desiderio: “Mai Reich è pensatore così grande come quando rifiuta di in-
vocare un misconoscimento o un'illusione delle masse per spiegare il fa-
scismo, e reclama una spiegazione tramite il desiderio, in termini di desi-
derio: no, le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fasci-
smo in tal momento, in tali circostanze, ed è questo che occorre spiegare,
la perversione del desiderio gregario”126. Nel 1973 Foucault si avvicinerà
in parte a loro127. Ma si orienterà anche in un'altra direzione, non si limi-
terà a spostare la questione dell'ideologia o a distinguersi da Althusser:
“Sposterò l'analisi e sposterò il bersaglio dalla teoria e dalla pratica pena-
li al rapporto tra queste e la tattica effettiva della punizione in quell'epo-
ca”128. In questo modo, “si può allora constatare un fenomeno significati-
vo: nell'epoca in cui, all'interno dell'istituzione penale, si formula e si
mette in pratica il principio del criminale-nemico sociale, appare una
nuova tattica punitiva: l'imprigionamento”129. Quindi, la carcerazione
deve essere compresa a partire dallo studio delle strategie, delle tattiche,
123 Ibid.
124 G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo, cit., p. 395.
125 Cfr. “Michel Foucault explique son dernier livre” (intervista con J.-J. Brochier, in
“Magazine littéraire”, n. 28, aprile-maggio 1969, pp. 23-25), in DE, n. 66, ed. 1994, vol.
I, p. 775; ed. 2001, vol. I, p. 803.
126 G. Deleuze, F. Guattari, L'anti-Edipo, cit., p. 32.
127 Cfr. lezione del 14 febbraio 1973, supra […] (sull'origine dell'“attuale teoria del desi-
derio”).
128 Lezione del 24 gennaio 1973, supra […].
129 Ivi […].
delle relazioni di forza, e non come semplice derivazione: “Non possiamo
far derivare il sistema di carcerazione da una sorta di modello teorico che
sarebbe mutuato dalla teoria penale del criminale-nemico sociale” 130. Ma
piuttosto a partire dal “gioco di potere che vi si trova realizzato” 131.
Secondo spostamento rispetto a Marx, o meglio, a un certo marxi-
smo universitario: bisogna ripensare il soggetto e ciò che lo caratterizza.
Foucault prende di mira, in particolare, la teoria attribuibile a Marx 132,
secondo la quale il lavoro sarebbe l'essenza concreta dell'uomo e l'espro-
priazione del frutto del suo lavoro starebbe all'origine dell'alienazione.
Per Foucault si tratta di un mito: il lavoro non è assolutamente l'essenza
dell'uomo, è fabbricato come essenza, il che implica una concezione del
potere del tutto differente. La critica del lavoro come essenza dell'uomo
sarà sviluppata anche a Rio, ma è già in gran parte presente nel corso del
1973: “È falso dire, come alcuni famosi post-hegeliani, che l'esistenza
concreta dell'uomo è il lavoro. Il tempo e la vita dell'uomo non sono lavo-
ro per natura, bensì piacere, discontinuità, festa, riposo, bisogno, attimi,
caso, violenza ecc. Ora, è proprio questa energia esplosiva che bisogna
trasformare in una forza lavoro continua e continuamente offerta sul
mercato”133. Foucault svilupperà questo tema a Rio argomentando che la
teoria secondo cui il lavoro è l'essenza concreta dell'uomo è a sua volta il
prodotto di alcune pratiche strettamente legate ai rapporti di produzione
capitalisti134. Queste pratiche, sostiene Foucault, sono quelle che rendono
docili i corpi dei lavoratori, e si riferisce a esse come a un “sotto-potere”,
130 Ivi […].
131 Ivi […].
132 Sebbene Foucault non vi faccia alcun riferimento, accenniamo qui ai Manoscritti eco-
nomico-filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1949, in cui Marx de-
finisce l'essenza e la specificità dell'uomo attraverso la differenza fondamentale rispetto
all'animale: mentre l'uomo è capace di fornire un lavoro libero e produttivo, le funzioni
animali consistono nel “mangiare, bere e procreare”. L'alienazione del lavoro, dunque,
quando diventa un semplice mezzo di sopravvivenza, riduce l'uomo alla condizione ani-
male: “Ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diventa animale”. Cfr. R.L.
Tucker, Philosophy and Myth in Karl Marx / Philosophie et mythe chez Karl Marx ,
trad. fr. di M. Matignon, Payot, Paris 1963.
133 Lezione del 28 marzo 1973, supra […].
134 Cfr. M. Foucault, “La verità e le forme giuridiche”, cit., p. 163.
“un insieme di tecniche politiche, di tecniche di potere, mediante le quali
[…] il corpo e il tempo degli uomini diventano tempo di lavoro e forza la-
voro, e possono effettivamente essere utilizzati per trasformarsi in plu-
sprofitto”, come “una trama di potere politico microscopico, capillare” 135
– in opposizione a “un apparato di Stato” o una “classe al potere” 136.
La teoria di Marx sull'accumulazione del capitale, attraverso la gri-
glia di lettura di Foucault, dipende da queste tecniche disciplinari (an-
ch'esse strettamente legate alla produzione capitalista) destinate a model-
lare dei “corpi produttori”137. Foucault svilupperà questa idea due anni
dopo, in Sorvegliare e punire, in cui, citando proprio Il Capitale di Marx
(vol. I, cap. XIII), sosterrà che le rivoluzioni economiche che hanno reso
possibile l'accumulazione del capitale nel corso del XIX secolo sono in-
dissociabili dalla produzione di questi corpi docili – che lui designa come
“i metodi per gestire l'accumulazione degli uomini” 138. Questi metodi
sono appunto le tecniche disciplinari che stanno al centro di Sorvegliare e
punire: “Gli impieghi del tempo, l'addestramento collettivo, le esercita-
zioni, la sorveglianza globale e dettagliata insieme”139; tecniche che hanno
sostituito le pratiche più tradizionali e rituali della violenza e della poten-
za. Per Foucault, questi metodi sono importanti per la produzione capita-
lista e lo sfruttamento del plusvalore tanto quanto gli stessi mezzi di pro-
duzione. “I due processi, accumulazione degli uomini e accumulazione
del capitale, non possono venir separati […]. Le mutazioni tecnologiche
dell'apparato di produzione, la divisione del lavoro e l'elaborazione di
procedimenti disciplinari hanno mantenuto un insieme di rapporti molto
stretti”140.
135 Ibid.
136 Ibid.
137 Lezione del 21 marzo 1973, supra […].
138 Sorvegliare e punire, cit., p. 240.
139 Ivi, p. 239.
140 Ivi, pp. 240-241. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., lezione del 28 novembre
1973, p. 76.
Questo capovolgimento produce – terzo e ultimo spostamento – una
concezione del potere molto diversa. Il potere del capitalista non garanti-
sce semplicemente un modo di produzione; altrettanto essenziale per il
capitalismo è la presa di potere sul tempo. Il potere non è dunque conce-
pibile come uno strumento, come qualcosa che si possiede, né come un
apparato ideologico, ma deve essere pensato come un fattore primario e
costitutivo141. Ancora una volta, Foucault sembra in parte sviluppare la
propria concezione del potere in dialogo con Althusser. Innanzitutto, bi-
sogna rifiutare l'idea che il potere sia qualcosa che si possiede; anche qui
si potrebbe intravedere un'allusione ad Althusser, che nel 1970, sul tema
del potere dello Stato, aveva scritto: “Tutte le lotte politiche delle classi
ruotano intorno allo Stato. Intendiamo dire: intorno al possesso, cioè
alla presa e alla conservazione, del potere di Stato da parte di una certa
classe o di un'alleanza di classi o frazioni di classi” 142. Inoltre, va rifiutata
la caratterizzazione del potere sia come violenza sia come ideologia; e an-
che qui si potrebbe scorgere un riferimento ai lavori di Althusser sugli ap-
parati ideologici di Stato, dove sviluppa una distinzione – con ulteriore
specificazioni, certamente, ma comunque una distinzione – tra “l'appara-
to repressivo di Stato [che] 'funziona con la violenza'” e “gli apparati
ideologici di Stato [che] funzionano 'con l'ideologia'”143.
e. La società panottica
“Dove volevo arrivare? […] all'analisi di una forma di potere che avevo chiamato puniti-
vo, ma preferirei dire disciplinare” (lezione del 28 marzo 1973, supra […]).
181 Cfr. lezione del 10 gennaio 1973, supra […], e lezione del 24 gennaio 1973, supra […].
182 Lezione del 28 marzo 1973, supra […].
183 Lezione del 24 gennaio 1973, supra […].
184 “Riassunto del corso”, supra […].
185 Ivi […].
186 Cfr. G. Debord, La société du spectacle, Buchet/Chastel, Paris 1967; trad. it. di P. Sal-
vadori, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2001.
colo, la società contemporanea è retta dal suo contrario, la sorveglianza.
Così Foucault dichiara: “È precisamente questo che avviene nell'epoca
moderna: il rovesciamento dello spettacolo in sorveglianza”187.
3. LA COPPIA SORVEGLIARE-PUNIRE
220, ed. 1994, vol. III, pp. 443-464; ed. 2001, vol. II, pp. 443-464; trad. it. di S. Loriga,
“L'evoluzione della nozione di 'individuo pericoloso' nella psichiatria legale del XIX se-
colo”, in Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-64; vedi anche Mal fare,
dir vero, cit., lezione del 30 maggio 1981, pp. 191-225, in particolare p. 223. La nozione
di pericolosità non è certo assente dal corso del 1973 (cfr. supra, lezione del 3 gennaio
1973 […]; lezione del 7 febbraio 1973 […], e del 14 febbraio […]; lezione del 7 marzo
1973 […]), ma non è centrale.
205 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., pp. 282-323.
206 Sulla nozione di normalizzazione in La società punitiva, cfr. lezione del 21 marzo
1973, supra […]; e lezione del 28 marzo 1973, supra […].
207 “Riassunto del corso”, supra […].
incroci, nei giardini, ai bordi delle strade vengono rifatte o dei ponti che
vengono costruiti, nei laboratori aperti a tutti, nel fondo delle miniere
che si vanno a visitare; mille piccoli teatri di castighi” con “cartelli, ber-
retti, affissi, manifesti, simboli, testi letti o stampati” 208. Si potrebbe rav-
visare, inoltre, una lieve differenza nel rapporto tra i grandi riformatori e
il sistema penitenziario del XIX secolo – come se si fosse introdotto un
piccolo dubbio riguardo alla loro totale incompatibilità. Nella descrizio-
ne che Foucault fa dei riformatori, nel 1975, si può sentire quasi una pic-
cola eco del potere disciplinare: “Una tendenza verso una giustizia più
sottile e più acuta, verso un più stretto controllo di polizia del corpo so-
ciale”209; “il riassetto del potere di punire, secondo modalità che lo renda-
no più regolare, più efficace, più costante e meglio dettagliato nei suoi ef-
fetti”210; “fare della punizione e della repressione degli illegalismi una
funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta la società; non punire
meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per
punire con maggiore universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in
profondità, il potere di punire”211. Si evocherà quindi la disciplina del
XIX secolo. Non si tratta di una revisione radicale 212, ma si nota un ap-
prezzamento leggermente diverso dei riformatori del XVIII secolo.
Inoltre, in Sorvegliare e punire, Hobbes e Clausewitz213 sono essen-
zialmente spariti – e la nozione di guerra civile tende a sfumare, benché
Foucault riprenda questo tema nel corso del 1975-1976, “Bisogna difen-
dere la società”214. La guerra civile, nozione così operativa nell'analisi del
1973, riguardo al testo di Le Trosne, per esempio, o nella stessa logica dei
CONCLUSIONE
Secondo Daniel Defert, Foucault scriveva i suoi libri i tre tappe 218.
Nella prima, stendeva un intero manoscritto che poi buttava via dicendo
di aver scritto semplicemente ciò che pensava su un argomento in manie-
ra spontanea, prima di aver fatto delle indagini d'archivio. Nella seconda,
219 Si tratta di Sorvegliare e punire; cfr. D. Defert, “Chronologie”, cit., p. 42/p. 56. Fou-
cault ne aveva parlato a Jalila Hafsia nell'agosto 1971: “Se sarò ancora vivo e non sarò
stato imprigionato, potrà scrivere il libro...” (“Un problema m'interessa da molto tem-
po, quello del sistema penale”, cit. [supra, nota 9], p. 57).
220 Cfr. D. Defert, “Chronologie”, cit., p. 43/p. 58.
chivi dei corsi – registrazioni e dattiloscritti – al Collège de France, tra cui
nove cassette etichettate “1973”. Questi archivi furono conservati al Col-
lège de France nel fondo Michel Foucault. Tuttavia, le registrazioni del
corso del 1973 sono state a un certo punto cancellate per registrare, sullo
stesso nastro magnetico, il corso del 1974. Questa scoperta è stata fatta
prima da un ricercatore americano, Richard A. Lynch, che depositò nel
dossier al Collège de France un memorandum datato 12 gennaio 1999; e
in seguito verificata anche da un altro ricercatore, Márcio Alves Da Fon-
seca, che lasciò un altro memorandum nel fondo Michel Foucault il 31
gennaio 2000. Approfondite ricerche effettuate nel settembre 2010 confer-
marono che al Collège de France non esiste alcuna registrazione delle le-
zioni del 1973. Tutti gli sforzi per ritrovare qualche copia di queste regi-
strazioni sono stati vani221. A oggi, dunque, non esistono tracce audio
della Società punitiva.
Il testo è stato stabilito, quindi, a partire dalla trascrizione effettuata
da Jacqueline Germé nel 1973, probabilmente corretta da Foucault, e ba-
sata sulle registrazioni effettuate da Gilbert Burlet e oggi perdute. Il testo
è stato verificato integralmente e corretto in base agli appunti manoscritti
di Foucault. I passaggi importanti del manoscritto che non erano identici
al dattiloscritto, come pure le aggiunte rispetto al dattiloscritto, sono in-
dicati nelle note a piè di pagina. Mancando le registrazioni, non abbiamo
sempre riprodotto i corsivi adottati nel dattiloscritto, eccetto quando la
parola o l'espressione era sottolineata anche nel manoscritto; viceversa,
abbiamo riportato i corsivi del manoscritto anche quando non figurava-
no sul dattiloscritto, pensando che il manoscritto – redatto da Foucault
stesso – fosse necessariamente più fedele al parlato. Abbiamo anche taci-
tamente aggiunto le virgolette presenti nel manoscritto.
221 Gilbert Burlet ha fornito un grande contributo alla ricerca di queste cassette, e lo rin-
grazio infinitamente. Per maggiori informazioni sui suoi contributi e su quelli di Jac-
queline Germé nell'ambito foucaultiano, cfr. D. Defert, “Nota del curatore”, in F. Fou-
cault, Lezioni sulla volontà di sapere, cit., p. 306, nota 63.
Desidero ringraziare Daniel Defert e François Ewald, i membri del
comitato editoriale, Henri-Paul Fruchard, Frédéric Gros e Michel Senel-
lart, così come Corentin Durand.