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Nel libro del 1924 sulla Idea della ragion di Stato nella storia mo-
derna, Friedrich Meinecke, condividendo lo scetticismo weberiano nei
confronti della «fossilizzazione» della società razionalizzata dal capita-
lismo moderno, si chiedeva se, in ultima istanza, la razionalizzazione e
la tecnicizzazione crescente della vita moderna non espongano l’uomo
al pericolo di essere privato della sua più intima umanità e di trasfor-
marlo in una macchina senza anima, traducendo il crescente successo
di impostazioni utilitariste e funzionaliste in un inaridimento della sor-
gente della vita spirituale del singolo individuo1.
Come è noto, questa posizione ha attirato su di lui le critiche di
Carl Schmitt che ha visto nella concezione meineckiana della storia
una forma di estetismo tragico sospeso tra i poli contrapposti della
volontà di potenza e dell’etica, lasciando da ultimo senza risposta la
questione del quis judicabit?, ossia della norma che deve regolare l’a-
gire umano2. Dal canto suo, recensendo quattro anni prima la schmit-
tiana Politische Romantik, Meinecke aveva rinfacciato a Schmitt una
sorta di vichiana «eterogenesi dei fini», ossia di non essere lui stesso
immune da una certa «versalità romantica» e di fare quindi, inconsa-
pevolmente, gioco di sponda proprio con quel «romanticismo» tanto
vigorosamente osteggiato3.
1
Cfr. F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, tr. it. di D. Scolari, 2
voll., Vallecchi, Firenze 1997 (I ed. 1942). Per una ricostruzione della concezione meineckiana
qui evocata si veda R. vom Bruch, Ein Gelehrtenleben zwischen Bismarck und Adenauer, in G.
Boch - D. Schönpflug (eds.), Friedrich Meinecke in seiner Zeit. Studien zu Leben und Werk, Franz
Steiner, München 2006, pp. 9-20.
2
Cfr. C. Schmitt, Zu Friedrich Meineckes «Idee der Staatsräson», in «Archiv für Sozialwis-
senschaft und Sozialpolitik» LVI (1926), pp. 226-234, tr. it. L’idea di Ragion di Stato di Friedrich
Meinecke, in «Il pensiero politico» XXXIII, 1(2000), pp. 110-116.
3
Cfr. F. Meinecke, Rezension zu: Carl Schmitt, Politische Romantik, in «Das neue
Deutschland» 7(1918/1919), p. 404.
4
Cfr. L. v. Ranke, Le epoche della storia moderna, tr. it. di G. Valera, a cura di F. Tessitore - F.
Pugliese Carratelli, Bibliopolis, Napoli 1984, p. 104.
5
Id., Geschichte der romanischen und germanischen Völker von 1494 bis 1514, in Id.,
Sämmtliche Werke, Duncker & Humblot, Leipzig 1890, voll. 33-34, p. VII.
6
Cfr. F. Meinecke, Aforismi e schizzi sulla storia, tr. it. di G. Cassandro, Esi, Napoli s.d. [ma
1962], p. 107.
7
Cfr. Id., Schleiermachers Individualitätsgedanke, in Id., Zur Theorie und Philosophie der
Geschichte (Werke, Bd. 4), hrsg. v. E. Kessel, Köhler, Stuttgart 1959, pp. 341-357.
Nello scritto del 1814 Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung
und Rechtswissenschaft, destinato a diventare il manifesto della scuola
storica del diritto e della sua convinzione che l’inizio del secolo dician-
novesimo fosse l’età vocata per le codificazioni, Savigny afferma che
il diritto civile possiede già, in tutte le civiltà e culture, un carattere
determinato, peculiare al popolo, come la sua lingua, i suoi costumi, la
sua costituzione. Il diritto deriva dunque prima dai costumi e dalla fede
del popolo, e solo in un secondo momento dalla giurisprudenza; premi-
nenti sono sempre forze interiori, tacitamente operose, e mai il singolo
arbitrio di un legislatore10.
Ora, nell’idea del Volksgeist savignyano riecheggiano certamen-
te elementi di una «metafisica della storia e della società»11 tipica di
8
Su questa tendenza a enfatizzare il principio di individualità nel dibattito giuridico-politico
si vedano le istruttive note di C. Cesa, Popolo, nazione e Stato nel Romanticismo tedesco, in Id.,
Le astuzie della ragione. Ideologie e filosofie della storia nel XIX secolo, Aragno, Torino 2008,
pp. 47-74.
9
E. Troeltsch, L’essenza del mondo moderno, a cura di G. Cantillo, Bibliopolis, Napoli 1977,
p. 110.
10
Cfr. F.C. v. Savigny, La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurispruden-
za, in A.F.J. Thibaut - F.C. v. Savigny, La polemica sulla codificazione, a cura di G. Marini, Esi,
Napoli 1982, pp. 93-197.
11
L’espressione è di Rüdiger Safranski, che così commenta: «Dopo il 1800 si rafforza nei
romantici la tendenza a parlare in funzione del collettivo. [...] Si scopre il potere creativo della sto-
ria, che opera “per forze sue, interne, silenziose, e non per l’arbitrio di un legislatore” (Savigny).
«l’attenzione sul fatto che nel comportamento umano esistevano ed erano in-
dividuabili [...] opere d’arte o forme politiche o sociali o consuetudini di intere
comunità aventi certi modelli comuni che appartengono al comportamento non
di individui, ma di gruppi»14.
La romantica metafisica dell’infinito diventa metafisica della storia e della società, degli spiriti
popolari e della nazione, e per il singolo diventa sempre più difficile sottrarsi alla suggestione
del “noi”. Fra i singoli e la grande trascendenza (Dio, l’infinito) s’insinua sotto specie di storia e
società una specie di trascendenza intermedia. Prima c’era un Dio della storia, ora è la stessa storia
a diventare Dio. Brilla d’un nuovo, mitico splendore, e conferisce senso e importanza. Il che com-
porta conseguenze anche per la percezione della società, che ora più che un progetto o il prodotto
del proprio operare appare piuttosto come un contenitore a sé» (R. Safranski, Il romanticismo, tr.
it. di U. Gandini, Longanesi, Milano 2011, pp. 164-165).
12
Su questo peculiare lemma cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi
storici, Marietti, Casale Monferrato (Al) 1986.
13
Cfr. G. Ghia, Lessing. Le linee curve della storia tra Provvidenza e teodicea, in «Humani-
tas» LXIV 1(2009), pp. 31-46.
14
I. Berlin, L’età romantica. Alle origini del pensiero politico moderno, a cura di H. Hardy,
tr. it. di G. Bernardi, Bompiani, Milano 2009, p. 356.
15
Cfr. in specifico W. v. Humboldt, La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Laterza,
Roma-Bari 20003, pp. 75 ss.
16
Cfr. G. Moretto, Umanità e religione tra Schleiermacher e Wilhelm von Humboldt, in Id.,
Filosofia e religione nell’età di Goethe, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 155-193; si veda anche G.
Ghia, Religione e libertà. Le «affinità elettive» di Schleiermacher e Lessing, in «Humanitas» LXV
4(2010), pp. 640-650.
17
P. Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, a cura di G. Giannini,
Liguori, Napoli 2006, p. 519. Cfr. anche G. Moretto, Introduzione a F. Schleiermacher, Etica ed
ermeneutica, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 54-55.
18
Cfr. D. Reetz, Staatslehre mit “politischer Tendenz”? Schleiermachers Politik-Vorlesung
des Sommersemester 1817, in «Zeitschrift für Neuere Theologiegeschichte/Journal for the History
of Modern Theology» 7(2010), pp. 205-250.
19
«Solo nella conciliazione di questa antitesi [scil. principio di autorità dello Stato e del
diritto positivo vs. principio di individualità] sta la vera vita cosciente dello Stato. In esso legge
e attività esistono solo in reciproco rapporto; non si ha Stato se l’attività non rinvia alla legge e
questa non influisce su quella» (F. Schleiermacher, Etica ed ermeneutica, cit., p. 138).
20
«Lo Stato moderno non è più [per Schleiermacher] come la pólis platonica e aristotelica
l’unica comunità in cui l’individuo può trovare la sua felicità: accanto a quella politica sono sorte
comunità specifiche per le esigenze “simbolizzanti”, spirituali e culturali. Queste ultime comunità,
fra l’altro, pur se connesse a fattori determinati e propri a una singola nazione, come la lingua,
tendono, per propria essenza, verso un’universalità superiore a qualsiasi barriera nazionale (così
è per la Chiesa cristiana, come per la comunità scientifica): esse contribuiscono, dunque, da un
lato a consolidare una nazione, dall’altro ad aprirla, in modo non egoistico e conflittuale, verso le
altre. Per questi motivi lo Stato moderno deve svolgere attività di sostegno alle forze spirituali e
culturali del proprio popolo, ma tale sostegno deve farsi sentire solo per l’ambito dell’organizza-
zione esterna, lasciando alle comunità specifiche, quella religiosa e quella scientifica, il compito
di promuovere liberamente, dal loro interno, le rispettive forze spirituali e culturali» (O. Brino,
Introduzione a Schleiermacher, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 109).
21
G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, Dritte Auflage, Siebenter Neudruck, Wissenschaftli-
che Buchgesellschaft, Darmstadt 1960, p. 408.
22
Si pensi solo, a titolo di esempio, al monumentale Staatsrecht des deutschen Reiches
(1876-1882) di Paul Laband o a Über öffentliche Rechte (1852) e ai Grundzüge eines Systems des
deutschen Staatsrechts (1865) di Karl Friedrich von Gerber. Per un inquadramento complessivo
del contesto giuspubblicistico e giuspolitico in cui Jellinek si muove si veda J. Kersten, Georg
Jellinek und die klassische Staatslehre, Mohr, Tübingen 2000: schematicamente, si può affermare
che se nelle scuole germaniche si afferma il principio autoritario, Jellinek appare più prossimo
all’impostazione delle scuole latino-mediterranee che enfatizzano piuttosto la questione delle tu-
tele di garanzia del cittadino.
23
Cfr. H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico esposti a partire
dalla dottrina della proposizione giuridica, a cura di A. Carrino, Esi, Napoli 1991.
24
Sul punto cfr. D. Quaglioni, Sovranità e autolimitazione (Rileggendo la «Dottrina generale
del diritto dello Stato» di G. Jellinek), in M. Basciu (ed.), Crisi e metamorfosi della sovranità,
Giuffrè, Milano 1996, pp. 271-282.
25
Cfr. D. de Rougemont, L’attitude fédéraliste (1947) ora in edizione quadrilingue (francese,
tedesca, italiana e inglese) presso le Editions G. d’Encre, L’Aubier, Montézillon (Suisse) 2012.
26
Circa il rapporto di Jellinek con il federalismo è da tenere presente la sua reazione alla presa
di posizione di Gustav Schmoller (nel 1907) nel dibattito sulla possibilità di parlamentarizzazione
Ciò che Jellinek sviluppa fin dal principio della sua riflessione gius-
pubblicistica e filosofico-politica è l’elaborazione di un «personalismo
giuridico» le cui origini vengono individuate nella «visione vetero-ger-
in Germania. Schmoller, dalle colonne della rivista viennese «Neue Freie Presse», aveva sostenuto
che il modello tedesco del Beamtenstaat fosse la forma di organizzazione più alta di qualsivoglia
altro sistema parlamentare. Ora, Jellinek dalle colonne dello «Heidelberger Tageblatt» replica a
questa tesi sostenendo che pensare di conciliare una struttura federale e un sistema parlamentare a
struttura rappresentativa mediante l’istituzione del Bundesrat, la camera alta dei 25 Stati federali
sancita dalla Reichsverfassung bismarckiana del 1871, è una procedura assolutamente bizzarra.
Il Bundesrat infatti è, ai suoi occhi, una delle istituzioni politiche «più strane» (merkwürdigste)
in quanto è sottratto a qualunque potere di controllo da parte sia del Bundestag sia dell’opinio-
ne pubblica popolare. Cfr. S. Amato, Centralismo e federalismo nel Kaiserreich guglielmino. Il
Gesetsentwurf di Jellinek sulla responsabilità del cancelliere imperiale, in L. Campos Boralevi
(ed.), Challenging Centralism. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo, Firenze
University Press, Firenze 2011, pp. 193-202.
27
Cfr. G. Jellinek, Lehre von den Staatenverbindungen, reprint Ausgabe 1882, Scientia, Aa-
len 1976, spec. pp. 266 ss. Sul punto si vedano le osservazioni di G. Stella, Stato e sovranità
nella dottrina pura del diritto, Aracne, Roma 2000, spec. pp. 5-20 (L’Europa e il problema della
sovranità).
28
G. Jellinek, Die sozialethische Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, Reprographi-
scher Nachdruck der Ausgabe Wien 1878, Georg Olms, Hildesheim 1967, p. 16.
manica, mai spentasi del tutto, di una priorità del diritto individuale che
lo Stato non crea, ma si limita a riconoscere»29. A ben vedere, il perso-
nalismo giuridico jellinekiano appare la risposta filosofico-politica al
problema del rapporto tra volontà collettiva del popolo e fondazione
dei diritti individuali di libertà: nella allocuzione tenuta il 22 novembre
1907 all’università di Heidelberg e intitolata Der Kampf des alten mit
dem neuen Recht, Jellinek sottolinea che è dalla situazione complessiva
di un popolo che
«si generano il suo diritto, la sua lingua, i suoi costumi, la sua costituzione.
Non è l’arbitrio umano a determinare le condizioni culturali che prospettano
tali esiti della vita complessiva del popolo. Esse si sviluppano in base a leggi
in esso innate, leggi che sono nel contempo necessarie e libere, e libere nel
senso che non provengono dall’esterno, ma scaturiscono dalla più alta natura
del popolo stesso»30.
29
Id., Allgemeine Staatslehre, cit., p. 411. L’essenza del «personalismo giuridico» conduce
da ultimo, secondo la ricostruzione offertane dal suo principale interprete contemporaneo, a una
sostanziale identificazione tra persona e diritto: «la persona, essendo la forza da cui sgorga la vita
in tutte le sue manifestazioni, raccoglie in sé la realtà, la fonte stessa di tutte le realtà umane; ed
essendo l’apparizione dell’eterno e del divino nella realtà empirica, l’affermazione dell’infinito
voluta dal soggetto dal proprio slancio di amore, raccoglie in sé l’indeclinabile necessità della
destinazione morale della vita e insomma la fonte stessa di tutte le necessità morali, della verità e
dei valori della vita» (G. Capograssi, Il diritto secondo Rosmini, in Id., Attualità e inattualità di
Rosmini, a cura di V. Lattanzi, CISR, Roma-Stresa 2001, p. 30).
30
G. Jellinek, Ausgewählte Schriften und Reden, hrsg. v. W. Jellinek, Bd. 1, Häring, Berlin
1911, p. 392.
34
Cfr. sul punto F.W. Graf, Le radici religiose della razionalità moderna. La teoria dei diritti
umani di Georg Jellinek nel suo influsso su Max Weber e Ernst Troeltsch, in F. Ghia - G. Ghia
(eds.), Sociologia della religione in Germania, «Humanitas» LXIX, 6(2004), pp. 1155-1186.
35
G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 408.
36
Cfr. Max Weber Gesamtausgabe, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1990 ss., II/6, pp.
180 e 189-190. Alla proposta di Jellinek Weber risponde, tra l’altro, nei termini seguenti: «La cosa
potrebbe interessarmi, se venisse fondato un Istituto – il nome di per sé è indifferente – “per una
teoria generale dello Stato e della società” (o qualcosa del genere), nel quale, oltre naturalmente
alla dottrina giuridica (del tutto ineludibile), venisse però anche trattata, come finalità primaria,
proprio la “dottrina sociale”».
37
Questa l’espressione che si legge p. es. in G. Jellinek, Die Entstehung der modernen Staat-
sidee, in Id., Ausgewählte Schriften und Reden, Neudruck der Ausgabe Berlin 1911, Scientia,
Aalen 1970, Bd. 2, p. 50.
38
Cfr. G. Hübinger, Staatstheorie und Politik als Wissenschaft im Kaiserreich: Georg Jel-
linek, Otto Hintze, Max Weber, in H. Maier - U. Matz - K. Sontheimer - P.-L. Weinacht, Politik,
Philosophie, Praxis. Festschrift für Wilhelm Hennis zum 65. Geburtstag, Klett-Cotta, Stuttgart
1988, pp. 143-161.
dello Stato: tale fine, peraltro, consiste nella tutela dell’altra e residua parte
di diritti innati»39.
I diritti umani sono dunque nel loro nucleo diritti innati di libertà,
di espressione religiosa e di uguaglianza. La libertà religiosa e l’ugua-
glianza non fanno parte, tuttavia, del fine per il quale gli uomini si orga-
nizzano in società esplicando un agire politico. Esse sono, piuttosto, il
presupposto di un tale agire politico, ciò da cui un tale agire è, nella sua
radice ultima, mosso. La loro sede non è l’agone politico, bensì l’invio-
labile coscienza del singolo, ossia la sua interiorità. Un’interiorità che,
per il fatto di costituirsi come il locus revelationis del divino, fornisce
al singolo tutti gli strumenti sia per percepirsi come uomo intrinseca-
mente libero al cospetto di ogni legge eteronomamente fissata, sia per
rappresentarsi come ontologicamente uguale agli altri uomini in nome
39
G. Jellinek, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, a cura di G. Bongiovan-
ni, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 48.
40
Ibi, p. 49.
Da qui, la conclusione:
«Questi esempi dovrebbero essere sufficienti per respingere, una volta per tut-
te, l’idea secondo cui Rousseau voglia conferire alla libertà del singolo una
sfera di intangibilità dai confini immutabili. La libertà, in senso rousseauviano,
consiste nella partecipazione allo Stato e si pone, dunque, in contrasto con la
libertà naturale, che è libertà dallo Stato. Essa è liberté civile, che conferisce
un potere irrinunciabile, ma non assicura alcun irrinunciabile diritto naturale.
In breve, è libertà in senso democratico, ma non in senso liberale»46.
45
G. Jellinek, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cit., p. 8. In particolare,
Jellinek si riferisce qui al seguente passaggio del Contrat social: «Vi è dunque una professione
di fede puramente civile della quale spetta al sovrano fissare gli articoli, non precisamente come
dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza dei quali sarebbe impossibile esse-
re buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a crederli; egli può bandire dallo
Stato chiunque non li creda; può bandirlo non come empio, ma come insocievole, come incapace
di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e immolare in caso di bisogno la sua vita al suo dove-
re» (J.-J. Rousseau, Du contract social; ou, Principes du droit politique in Id., Oeuvres complètes,
Bibliotheque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1966, vol. III, p. 468). Si confronti anche questo
celebre passo della Lettre à Voltaire del 18 agosto 1756: «Vorrei dunque che ci fosse in ogni Stato
un codice morale o una sorta di professione di fede civile che contenesse, in senso positivo, le
massime sociali che ciascuno sarebbe tenuto ad ammettere e, in senso negativo, le massime fana-
tiche che si sarebbe tenuti a rigettare, non come empie, ma come sediziose» (ibi, vol. IV, p. 1073).
46
G. Jellinek, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cit., p. 8. Per un inqua-
dramento della nozione di democrazia in Rousseau si veda R. Gatti, Rousseau. Il male e la politica,
Studium, Roma 2012.
47
Cfr. H. Taine, Les origines de la France contemporaine. L’ancien régime, Hachette, Paris
1876, su cui è da vedere A. Codazzi, Hippolyte Taine e il progetto filosofico di una storiografia
scientifica, La Nuova Italia, Firenze 1985, pp. 106-183.
48
G. Jellinek, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cit., p. 9.
49
Questo principio troverà poi la sua definitiva applicazione nella Dichiarazione dei diritti
redatta da Thomas Jefferson e approvata all’unanimità dal Parlamento della Virginia il 12 giugno
1766, della quale mette conto riportare l’articolo 16: «Che la religione, o il dovere che noi abbia-
mo verso il Creatore e il modo di adempirlo, può soltanto essere regolata dalla ragione e dalla
convinzione, non dalla forza o dalla violenza; e che quindi tutti gli uomini hanno ugual diritto
al libero esercizio della religione, secondo i dettati della loro coscienza; e che è mutuo dovere di
tutti il praticare la pazienza, l’amore e la carità gli uni verso gli altri» (cit. da F. Ruffini, La libertà
religiosa. Storia dell’idea, Introduzione di A.C. Jemolo, Feltrinelli, Milano 19922 [rist. ed. Torino
1901], p. 176).
50
Su questo punto mi permetto di rimandare a F. Ghia, La fondazione religiosa della libertà
tra uguaglianza e diritti umani. La presenza di Georg Jellinek nell’etica sociale di Max Weber, in
«Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto» 2(1999), pp. 253-284.
ABSTRACT
51
Polemizzando con Émile Boutmy proprio su questo punto (La Déclaration des droits de
l’homme et du citoyen et M. Jellinek, in «Annales de Sciences Politiques» XVII [1902], pp. 415-
443) Jellinek rimarca che se Boutmy «elogia Rousseau come antesignano dei diritti di libertà, lo
fa avendo in mente non il Contrat social come Rousseau lo scrisse, ma come egli stesso avrebbe
voluto scriverlo» (G. Jellinek, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cit., p. 78,
nota 14).