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Note di copertina:
Serse Cosmi e' nato a Ponte San Giovanni il 5 maggio 1958. Laureato all'Isef di
Perugia, ha iniziato la carriera di allenatore nel settore giovanile della Ponte
San Giovanni e dell'Ellera. Dal 1990 al 1995 ha allenato la Pontevecchio
portandola dalla Prima Categoria al Campionato Nazionale Dilettanti. Dal 1995
al
2000, con 2 promozioni, ha riportato l'Arezzo in C1. Da 2 stagioni guida il
Perugia in serie A. Ha vinto il Seminatore d'argento nel 1998 e la Panchina
d'argento nel 2000.
Enzo Bucchioni, 48 anni, giornalista professionista dal 1976, vive e lavora a
Firenze. Ha guidato le redazioni sportive del "Resto del Carlino", del "Giorno"
e della "Nazione". Attualmente e' inviato speciale del Gruppo Monti-Riffeser e
collabora al Tg3 Rai della Toscana.
Introduzione:
C'e' chi comincia a fare l'allenatore sulla panchina del Real Madrid e chi su
quella del Bar Bruna di Ponte San Giovanni. Serse Cosmi e' partito da lontano,
la sua strada e' sempre andata in salita, ma e' solo sulle salite che sudi,
soffri, piangi e incontri la vita. Questa e' la storia di un uomo che si e'
fatto da solo usando armi come sensibilita' e intelligenza, genuinita' e
coerenza, rispetto dei valori e delle persone, lavoro e tenacia. Cosmi oggi e'
un personaggio famoso, allena in serie A ma e' rimasto se stesso, e questa e'
l'impresa piu' difficile. Lui e' sempre il figlio di Antonio detto "Pajetta", il
fiumarolo del Tevere. e' sempre la mascotte della Pontevecchio, il bambino che
fabbricava striscioni e bandiere per tifare Perugia. e' il maestro di attivita'
motorie nelle scuole elementari e l'istruttore di nuoto. E' l'accompagnatore di
ragazzini nei centri estivi e il "personal trainer" in palestra. Dei suoi vecchi
mestieri dice: "Ho ancora tutto dentro, sono fatto a strati che si sono
sovrapposti e sedimentati". Serse Cosmi e' l'emblema di un calcio diverso, piu'
vicino al cuore che ai soldi, fatto di quella passione forte che lui ha
conosciuto e imposto come allenatore nel Torneo dei bar, nei campionati
giovanili e dei dilettanti della Pontevecchio fino ai professionisti
dell'Arezzo. Con la passione e la determinazione ha vinto tanto, ricetta che
funziona anche in serie A. Lo accompagnano ancora le cose imparate su quel
campo
polveroso in riva al Tevere dove e' cresciuto e diventato uomo, dove ha
affondato le radici del suo successo.
Inseguendo Coppi
Mio padre si chiamava Antonio e la morte la conosceva bene. Durante e dopo
la
guerra, ne aveva tirati fuori tanti dal fondo del Tevere. Giovani e vecchi. Ma
quella era una morte diversa, non riusciva a prenderla, come faceva di solito,
con quelle sue grandi mani allenate dalla corrente, abituate alla fatica. Gli
sfuggiva. Aveva voglia la radio a raccontare che la bicicletta di Serse Coppi si
era infilata dentro una rotaia del tram, che il corridore aveva sbattuto la
testa su un marciapiede di Torino. Che non c'era piu' niente da fare... Storie.
Non si puo' morire in bicicletta. Non puo' morire cosi' il fratello di Fausto
Coppi. Erano giorni che non dormiva e alla Iole, mia madre, ripeteva che era
colpa di quel primo caldo di luglio. Balle. Aveva qualcosa dentro che gli
risucchiava i pensieri, come fa la corrente del fiume con un pezzo di legno. Gli
faceva un certo effetto scoprire che il dolore di Coppi era il suo dolore. Anche
questo, forse, voleva dire essere Coppiano. E non un Coppiano qualsiasi. Era da
battaglia, mio padre. Da scommesse, da discussioni, dentro e fuori dai bar. Il
ciclismo era la sua fede, Coppi il suo Dio. Una fede e un Dio da sbattere in
faccia al mondo e soprattutto in faccia ai Bartaliani. Un giorno, con la vernice
scrisse la sua sfida sulla fiancata della sua Ape grigia: "Solo Coppi temo".
Ora, invece, per la prima volta si ritrovava a temere per Coppi e non si sentiva
a suo agio. Troppo drammatica quella vicenda, troppo forte quel dolore. Cosa
non
avrebbe dato, in quei giorni, per essere vicino a Fausto. Battergli una pacca
sulle spalle come aveva fatto sullo Stelvio e dirgli un semplice "coraggio". Ma
stavolta era impossibile andar via, come tante altre volte, per seguire le
corse. Mia madre era incinta, non poteva lasciarla sola dietro il banco della
bottega di alimentari. Pero' qualcosa doveva pur fare, non gli piaceva stare con
le mani in mano, non sapeva starci, soprattutto quando c'erano delle disgrazie
e
della gente da aiutare, da consolare. Era 1 con il cuore grande e qualcosa,
comunque, gli venne in mente: scrisse una lettera a Fausto. E non le solite,
banali condoglianze. Chi ha conosciuto mio padre sa che non era capace di
gesti banali: "Caro Fausto, presto avro' un figlio e lo chiamero' Serse, come
tuo fratello. In memoria di tuo fratello". Una promessa che veniva da dentro,
contro la quale era inutile mettersi a discutere. E mia madre su quel nome non
discusse. Raccontano che Fausto, tornando dal Tour, trovo' quella delicata e
particolarissima lettera che arrivava da Ponte San Giovanni di Perugia e pianse
di una commozione genuina. Poi rispose di getto, ringrazio'. Poche righe su un
biglietto da visita. Quel biglietto firmato "Fausto Coppi" e' stato per anni la
cosa piu' preziosa che mio padre teneva in casa. Ne era geloso, lo custodiva
come una reliquia. Orgoglioso, me l'ha fatto vedere diverse volte, e credo che
ogni tanto lo rileggesse di nascosto. Ma quando il figlio nasce, chiamarlo Serse
proprio non si puo'. Quel figlio sono le mie sorelle Annarita e Guglielma, 2
gemelline. Pazienza. I miei genitori si capivano al volo, basto' 1 sguardo per
una nuova promessa. Per una prossima volta. E la prossima volta e' arrivata il 5
maggio 1958: sono io. Ecco perche' mi chiamo Serse. Un nome che mi piace,
come
mi piacevano tutte quelle storie di corridori che mi raccontava mio padre.
Andava matto per il ciclismo. La bicicletta era la sua vita, mi portava spesso a
vedere le corse. Ero piccolissimo, eppure in mente ho ancora i colori delle
maglie. Mi mettevano allegria. Un anno, una tappa del Giro d'Italia parti'
proprio da Ponte San Giovanni, quasi davanti alla mia casa. Sicuramente c'era
lo
zampino del babbo, ma e' solo una supposizione. Ricordo tutto di quella
mattina.
Le biciclette erano grandi, i raggi delle ruote luccicavano al sole. I corridori
alla partenza mi sembravano enormi. Qualcuno di loro mi prese in braccio, mi
tiro' su. Da 1 a un altro, da un altro a un altro ancora, sono passato fra le
mani di tutto il gruppo. Non so di chi fossero quelle mani, se di Adorni,
Gimondi, Motta o Merckx. So soltanto che per mio padre quello e' stato un
giorno
di grande felicita'. Ma ricordo anche un giorno di grande rabbia e di grande
delusione. Avevamo comprato da poco una Fiat 850 di colore blu che a quei
tempi
era un macchinone. Sicuramente lo era per noi, per la mia famiglia. Era targata
"77423", un numero che ogni tanto mi torna in mente e non so perche'. So
benissimo, invece, con quanta gioia partimmo da Ponte San Giovanni per quel
giro
d'Italia che doveva essere una vacanza per noi e un esame per la macchina. Era
l'estate del 1966, avevo 8 anni. Era carica la 850, anche sul tetto. La mamma
davanti, io e le mie sorelle sul sedile dietro, sicuramente eccitati. Forse
emozionati. Non sapevamo esattamente dove stavamo andando, ma, in quei
tempi di
"boom" economico e di illusioni, il bello era andare. Comunque. Il babbo pero'
lo sapeva benissimo dove voleva portarci. Era dal giorno in cui era morto
Fausto
Coppi che aveva voglia di andare nel cimitero di Castellania, a portare un
fiore. E, forse, un pezzo della sua gioventu'. Da Perugia al Piemonte non
ricordo come ando'. Forse ho dormito. Ma quel cimitero non lo dimentichero'
mai.
Quella e' stata una delle giornate piu' sconvolgenti che ho vissuto accanto a
mio padre. Le tombe di Fausto e di Serse erano ricoperte di erbe selvatiche.
Ciuffi piu' alti di me. Le anfore rovesciate, il marmo sporco, pieno di terra e
di sassi che si confondevano con la terra e i sassi portati li' dalle montagne
che raccontano le imprese di Fausto, dal Galibier al Puy de Dome, dal Ventoux
allo Stelvio. Vandali, incuria, abbandono: c'era di tutto in quel cimitero. E
c'era il niente attorno a Coppi. L'espressione di mio padre era quella di un
uomo vinto, battuto. Non l'avevo mai visto cosi'. Poi la delusione divento'
rabbia, e sul viso non gli avevo mai visto neanche quella rabbia. Coppi aveva
rappresentato tanto per lui, era davvero un pezzo della sua vita. Vedere quelle
tombe abbandonate era un po' come vedere i suoi ricordi calpestati. E tutto
succedeva davanti a me, a quel figlio che lui aveva voluto chiamare Serse. Un
dolore doppio. Quasi senza bisogno di dirlo, tirammo fuori dalla macchina tutto
quello che c'era di utile e ci mettemmo a pulire. Ci sembro' la cosa piu'
naturale da fare, l'unica. Siamo stati una mattinata intera a strappare erbacce,
a liberare il marmo dalla terra. Ma neanche con i nostri fiori quel posto ha
ritrovato la dignita'. Da Castellania a Torino viaggiammo per un paio d'ore e
mio padre si sfogo'. Contro tutti e tutto. Piu' che dai parenti, era deluso dal
mondo del ciclismo, da quelli che avevano sfruttato Coppi e i suoi successi.
Quelli che avevano vissuto e guadagnato all'ombra del suo nome e l'avevano
abbandonato cosi' in fretta. Non ho mai piu' incontrato una persona tanto
colpita da un fatto che non lo riguardava direttamente. In fondo quella non era
la tomba di un famigliare. Mio padre, pero', era cosi', capace di grandi
passioni. Ha vissuto di passioni. E anche quella volta, come molte altre volte,
prese carta e penna e scrisse quello che pensava, quello che aveva dentro.
"Vicino a Perugia, in un paese che si chiama Ripa, e' stata murata una lapide
che ricorda le imprese di Coppi. Non c'e' giorno senza che sotto quella lapide
non ci siano fiori freschi, e siamo a 700 chilometri di distanza dalla tomba",
scrisse fra l'altro in quella lettera piena di indignazione, ma anche di
sentimento, pubblicata dalla "Gazzetta dello Sport" e che fece scoppiare un
caso. Quando e' morto, nel portafoglio di mio padre abbiamo trovato 2 cose: il
ritaglio di quella "Gazzetta" e il biglietto dei Mondiali di Lugano del 1953.
Coppi vinse davanti ai suoi occhi. Tante volte me l'ha raccontata quella corsa,
e anche se sono nato 5 anni dopo sono convinto di avere visto anch'io Fausto
Coppi diventare campione del mondo. Quel giorno a Lugano non c'ero, ma
c'ero. Mi
sono chiesto piu' volte se a mio padre sarebbe piaciuto vedere suo figlio
correre in bicicletta. Diventare corridore come Serse, o, magari, come Fausto.
Forse si', ma non me lo ha mai chiesto, non mi ha mai forzato. Se il desiderio
c'era, e' rimasto un suo segreto. Del resto amava tutti gli sport e aveva una
grande sensibilita': ha capito in fretta qual era la mia passione. E la mia
strada. A 5 anni ero gia' talmente innamorato del pallone che misi in croce
tutta la famiglia per avere la divisa della Pontevecchio, la squadra del mio
paese. Ero orgoglioso di quei pantaloncini bianchi, di quella maglia a righe
rosse e verdi: mi sembrava di essere un calciatore vero. Dentro ero gia' un
calciatore. I trenini e le macchinine per me non esistevano: solo quella divisa
era la mia felicita'. Ci volevo andare anche a letto, ricordo le bizze, le
lacrime. Poi diventai la mascotte della squadra e da quel giorno non ho piu'
smesso di stringere il pallone fra le mani.
L'inno al pallone
Era rosso come il fuoco, quel camion maledetto. Le gomme alte come una
montagna
da scalare, sporco di terra e di fango, faceva ancora piu' paura. Quel camion
l'ho odiato tanto: s'e' portato via il mio primo pallone vero. Un pallone di
cuoio "numero 5", proprio uguale a quello dei giocatori, regalo per la
promozione dalla prima alla seconda elementare. Non l'ho rivisto piu', 1 come
quello. Dentro quel pallone s'era nascosto il mio sogno di diventare, un giorno,
un calciatore di serie A, e quando e' scoppiato, schiacciato dalle ruote del
Mostro, forse e' svanito il mio sogno. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, il
rumore del pallone che muore mi ferisce. Un colpo sordo ha squarciato il cuoio
e
la mia gioia di bambino. Quando le ruote, dopo averlo fatto prigioniero senza
una frenata, lo hanno lasciato libero sull'asfalto, era mezzo morto e mezzo
vivo. L'ho preso in braccio e stretto come facevo con i gatti. Non ho pianto e
forse e' stato peggio cosi'. Non ho in testa le parole di quel giorno. Le ho
rimosse. Sicuramente qualcuno di casa mi ha detto: "Non ti preoccupare, lo
ricompriamo". Sono certo che l'hanno detto. Sicuramente qualcuno dei miei
amici
Il tacco di Dio
Un gol di tacco in 1 spareggio per andare in Ci o lo segna Dio o lo segna il
destino. L'ha segnato Roberto Balducci, 1 dei miei ragazzi della Pontevecchio,
1 di quelli che avrei portato in qualsiasi squadra. Balducci era stato il regalo
del presidente Mariano Fondacci per la promozione nell'Interregionale.
Fondacci
sapeva quanto stimassi i numeri 10, i fantasisti. Aveva visto quel ragazzo della
Tiberis, gli piaceva e l'aveva comprato. Per quei tempi e per quelle categorie
costo' 1 sproposito: 40 milioni. "L'ho preso perche' sono sicuro che attorno a
lui costruirai una grande squadra", mi disse il presidente. Qualche anno dopo
attorno a Balducci avrei costruito l'Arezzo. Il 14 giugno 1998, Balducci, spalle
alla porta, devio' una palla che arrivava da calcio d'angolo come avevo visto
fare in televisione solo a Bettega. Quel giorno a Pistoia l'Arezzo vinse lo
spareggio, 2a1 dopo i supplementari, e conquisto' la Ci. Ce l'avevo fatta, avevo
riportato gli amaranto nella categoria dalla quale erano scomparsi per il
fallimento. E quella domenica a Pistoia, con un caldo da far sciogliere il
ghiaccio e il cuore, avevo centrato l'ultima delle mie profezie e l'ultima delle
mie promozioni: 5 in 8 anni da allenatore, partendo dalla Prima Categoria. Non
so se era sudore o se erano lacrime quelle che mi rigavano il viso quando
correvo come un pazzo sull'erba con una bandiera in mano, tra i tifosi che
avevano invaso e portavano tutti in trionfo. La mia corsa fini' sotto la curva
amaranto. C'era un mare di folla che ondeggiava, 8mila persone che urlavano
felici la loro gioia, 1 spettacolo che mi strinse la gola. Per l'emozione mi
mancava l'aria. Non ho gridato "Terra...terra", ma da qualche parte ero
arrivato. Mi sono buttato in ginocchio. Qualcosa avevo scoperto anch'io: cosa
vuol dire vincere con una grande squadra e una grande societa'; cosa vuol dire
allenare nei professionisti. Ci sono stato tanto inginocchiato davanti a quella
curva, a quella gente. Con le braccia larghe al cielo, a salutare, ringraziare,
godere di quei momenti di felicita' collettiva. A sentire il mio nome urlato al
vento, a Dio, agli uomini. Quelli della C2 sono stati anni molto duri ma
fondamentali per la mia crescita. 2 campionati intensi che mi hanno fatto
maturare in fretta. Nei primi mesi dopo la promozione dall'Interregionale ero
un
po' a disagio, piu' come persona che come allenatore. Quei ragazzi che avevano
portato l'Arezzo in C2 con tanti sacrifici e un buon calcio io li avrei
confermati tutti. Avevo questa concezione romantica del calcio, alla
Pontevecchio avevo fatto cosi'. E invece furono ceduti perche' cosi' imponeva il
professionismo. Ho faticato a adattarmi ai procuratori e ai contratti, al
mercato sempre aperto e ai giocatori con la valigia. Con una squadra tutta
nuova
che faticavo a sentire mia, faticarono a venire anche i risultati. Qualcuno
comincio' a dubitare, sentivo i dirigenti perplessi: "Forse Cosmi non ha
l'esperienza. Non e' da serie C". Forse.
Ho rischiato l'esonero quel primo anno, ma ero sereno. Soprattutto dopo una
sconfitta interna, quando alcuni tifosi mi aspettarono fuori dallo stadio per
darmi la loro solidarieta' e dirmi che comunque sarei rimasto sempre nei loro
cuori. Quelle parole valevano un campionato vinto. Ma poi arrivarono anche le
vittorie sul campo. Tante, belle: battemmo pure la Ternana di Del Neri che era
in testa alla classifica. Conquistammo il quarto posto nei play-off, un
risultato insperato, inatteso. E Serse Cosmi fini' in trionfo, sulle spalle dei
tifosi. Belle sensazioni. Del resto ero talmente inserito nella citta' che ormai
ero un aretino ad honorem. Avevo l'impressione di vivere una nuova vita, ma
sentivo anche il bisogno di ritrovare le mie radici e me stesso. Mi sentivo
strapazzato dai continui spostamenti da Arezzo a Perugia e da Perugia ad
Arezzo,
passavo troppe ore in macchina. Decisi allora di prendere in affitto una casa in
campagna, che mi riportasse UM po' all'infanzia. Al mio mondo. La scelsi
sull'Arno, in un punto dove il fiume formava un'ansa e sembrava il mio Tevere.
Dove poter risentire il rumore della corrente, l'odore del muschio,
quell'umidita' che ti sale dentro le narici e ti fa sentire piu' vivo. Quel
posto un po' incantato si chiama Giovi, e' un borgo medioevale con le case di
pietra una sopra l'altra. Quasi finto. Anna e Roberto mi hanno affittato un
pezzo della loro casa e in pratica adottato. Per me e' stato come
rimpossessarmi
della liberta'. Arrivavo in macchina li' davanti, mi aspettava il silenzio. Mi
sedevo in giardino e mi facevo accarezzare dalla brezza. E poi la sera le
straordinarie cene a casa di Anna e Roberto, fatte di cose semplici e naturali.
Di grandi bevute e di grandi parlate, a volte allargate a qualche giocatore e
alle sue energie giovanili. Sono stato bene. In quel periodo ho riscoperto anche
il gusto della lettura, del libro portato a letto la sera e tenuto fra le mani
quasi sino all'alba. Quell'inverno nevico' e quel posto divento' ancora piu'
magico. L'ho lasciato solo perche' sentivo troppa nostalgia della Rosy e dei
bambini, non mi bastava piu' vederli 2 o 3 volte la settimana, li volevo con me
tutte le sere anche se la distanza tra Arezzo e Perugia cominciava ad allungarsi
all'infinito. Ma prima di andar via da quella casa ho fatto una promessa: "Vi
portero' in serie B". Eravamo sulla buona strada. Il secondo anno di C2 e'
finito a Pistoia con quel gol di tacco e quella gioia senza confini. Ma prima
c'erano state tensioni, rischi d'esonero, cadute e risalite, come in tutti i
miei campionati piu' belli. Di quegli anni un giocatore mi e' rimasto nel cuore
per le sue qualita' tecniche, ma soprattutto di uomo: Bobo Pilleddu. Poche ore
prima di una partita decisiva con il Teramo aveva perso il figlio che doveva
ancora nascere. Non sapevo come comportarmi, ero preoccupato e triste per il
suo
dolore. Quando ho incrociato il suo sguardo nel corridoio degli spogliatoi ho
capito cosa significava per lui quella domenica: ha segnato e trascinato la
squadra. Come tante altre volte, piu' di tante altre volte. I giocatori li
vorrei tutti cosi', con un grande carattere, la voglia di saltare sopra gli
ostacoli sempre piu' alti del pallone e della vita. E l'ostacolo degli spareggi
ci sembrava altissimo. Ma visto che eravamo una squadra diversa, con un
allenatore diverso, tutti sempre controcorrente, invece di stare a cuocere nella
tensione aspettando i play-off decidemmo di farci cuocere dal sole e dal mare.
Siamo stati una settimana a Procchio, all'Isola d'Elba. Abbiamo fatto il bagno,
giocato a tennis, preso la tintarella. Roba che se ci fosse stata un'ispezione
del colonnello Blatter e dei benpensanti del pallone saremmo stati radiati da
tutte le categorie. E invece dopo quella settimana le energie le abbiamo
ritrovate tutte sul campo di Teramo prima e di Pistoia poi. Ci hanno portato in
CI. E con noi c'era una citta' intera. Quella domenica da Arezzo verso Pistoia
sono partiti treni speciali, centinaia di autobus, chilometri di macchine
private con le bandiere al vento. Mentre la Rosy mi raccontava tutta
l'eccitazione che c'era, tutto quello che stava succedendo in citta' nelle ore
prima dello spareggio con lo Spezia e noi eravamo rintanati in un albergo di
Pescia, mi sono tornate alla mente tutte le trasferte che ho fatto da tifoso del
Perugia, con la speranza nel cuore. Con quella voglia di far festa, di stare
insieme. Quei colori che ti uniscono e ti fanno sentire piu' forte. Tutte
cose che l'Arezzo aveva perduto e io, in qualche modo, gli stavo restituendo.
Era quella, in fondo, la mia soddisfazione piu' grande: portare la gioia e dare
il sorriso senza essere dei santi o dei maghi. Semplicemente uomini.
Un febbraio a 40 gradi
Era il 4 febbraio 2000 e quel giorno ha cambiato la mia vita. Piu' o meno come
un colpo di vento fa girare la pagina di un libro: niente e' piu' stato uguale a
prima. Era un venerdi' pomeriggio, ricordo anche l'ora, il minuto, il secondo.
Alla domanda: "Se la sente di allenare il Perugia?", a folle velocita' nella mia
testa e' partito un nastro che non ha piu' smesso di girare. In un attimo ho
rivisto 30 anni della mia vita: dalla 500 con le bandiere rosse al vento agli
amici della curva. Il Santa Giuliana, l'allenatore Mazzetti, la morte di Curi,
la maglia di Delle Vedove, i gol di Paolo Rossi, lo spareggio di Foggia, tutto
mi passava davanti agli occhi. E quel nastro non smetteva piu' di girare, avanti
e indietro. Avanti e indietro. Alla fine c'ero sempre io, Serse Cosmi, seduto in
panchina, allenatore del Perugia. Del mio Perugia, del Perugia di mio padre, di
quella squadra che ci aveva fatto esultare, soffrire, emozionare e piangere
come
nessun'altra mai. Mi sembrava impossibile. Un sogno era poco, mi stava
accadendo
qualcosa di piu', qualcosa che probabilmente non esiste. E invece era tutto
semplicemente vero.
"Si', me la sento", risposi con un filo di voce a quel ragazzo seduto davanti a
me che doveva essere qualcosa di piu' di un angelo, forse qualcosa piu' di Dio.
Che era semplicemente Alessandro Gaucci. Mi aveva fatto chiamare il giorno
prima. Dopo l'allenamento stavo tornando in auto da Arezzo a Perugia, quando
mi
arriva sul cellulare la telefonata di Gianluca Dominici, un amico di Alessandro.
Appuntamento alla Galex, un'industria di abbigliamento sportivo alle porte di
Perugia dove "G-" sta per Gaucci, "Alex" per Alessandro. La conoscevo bene.
Era
stata sponsor della mia Pontevecchio, adesso lo era dell'Arezzo. E alla Galex mi
conoscevano bene. La mia passione per il calcio si allarga alle cose del calcio,
dai palloni alle maglie. Mi piacciono le divise di una volta, forse perche' mi
ricordano un mondo che non c'e' piu'. Impazzisco per le maglie aperte davanti,
con i laccetti e un bel collo ampio. Quando allenavo la Pontevecchio avevo fatto
rifare proprio dalla Galex le divise bicolori, a strisce larghe rosse e verdi.
Non sono 1 stilista, ma le maglie dell'Arezzo le ho disegnate direttamente io.
E, devo dire, hanno avuto un grande successo anche tra i tifosi. Erano di un
colore particolare, un amaranto un po' diverso dal solito con un bordino
girocollo, sul petto lo stemma dilatato sullo stile delle maglie scozzesi. C'ero
stato spesso in ditta a controllare il lavoro e poi a caricare la macchina di
palloni e di ricambi per la squadra. Quel venerdi' pomeriggio gli impiegati mi
salutarono come al solito, come fossi li' per ritirare 1 stock di maglie. E
invece non sapevo neanch'io perche' Alessandro mi avesse convocato. Avevo
provato a immaginarlo, quella notte non avevo chiuso occhio. Il mio Arezzo
stava
giocando benissimo, da tempo sentivo girare voci, mi avevano detto della stima
dei Gaucci, ma non volevo illudermi. Dentro avevo una sensazione fortissima,
che
mi portava verso la panchina del Perugia, ma una delusione sarebbe stata
insopportabile. Cosi', come in una sorta di autodepistaggio, pensai a un'offerta
per la Viterbese, oppure per il Catania che Gaucci stava comprando proprio in
quei giorni. Mi presentai disorientato, faticavo a contenere una gioia immensa
che non aspettava altro che esplodere. Prima di entrare in ufficio la memoria
mi
fece l'ultimo assist. D'improvviso mi torno' alla mente un pranzo di 5 anni
prima proprio con Alessandro Gaucci, Ermanno Pieroni a quei tempi direttore
sportivo del Perugia, e Ciccio Graziani. Era il mio primo anno all'Arezzo,
andammo a chiedere l'attaccante Omar Martinetti che avevo avuto a Ponte San
Giovanni e conoscevo benissimo. Mentre Graziani parlava della difficolta' del
campionato Interregionale, Gaucci lo consolo': "Comunque sei partito bene, hai
preso un grande allenatore. Cosmi con la Pontevecchio ha fatto cose
incredibili".
Quelle parole che allora sembrarono di circostanza, 5 anni dopo diventarono
l'ultimo anello delle mie speranze. Altro che Catania e Viterbese, Gaucci mi
aveva chiamato per allenare il Perugia. Lo disse senza giri di parole, senza se
e ma: aveva gia' deciso. E non aveva nemmeno preso in considerazione l'ipotesi
che io non potessi accettare. Mi spiego' che il Perugia voleva cambiare rotta e
politica, l'intenzione era di dedicarsi ai giovani e alla scoperta di talenti
stranieri. Seppi dopo che proprio per questo era stato fatto un identikit
dell'allenatore ideale. Doveva essere sconosciuto, assolutamente fuori dal
grande giro della A e della B. Allenare il Perugia doveva essere l'occasione
della sua vita, qualcosa che lo portasse oltre la sua dimensione, un'impresa
alla quale dedicare tutto. Doveva anche essere vincente e con grande carattere,
ma disposto ad accettare tutti i programmi della societa'. Erano mesi che
dall'identikit dei Gaucci ero uscito io e che Alessandro stava seguendo il mio
lavoro, la mia vita. Sapeva tutto di me e del mio carattere. Sarebbe stato
interessante sapere anche cosa ne pensava Luciano Gaucci, se era contento o
no
di questa decisione: non volevo andare incontro a sorprese o ripensamenti.
Alessandro mi spiego' che non c'erano problemi perche' dall'anno seguente
sarebbe stato direttamente lui a guidare il Perugia. Ma che, ovviamente, il
padre era d'accordo su tutto, sia sulla nuova politica sia sul nome
dell'allenatore. Comunque prese il telefono e lo chiamo', con una
raccomandazione: di non mettermi a parlare di contratto e di ingaggio. Non lo
avrei mai fatto. Risposi: "Il mio contratto e' il Perugia, non quello che c'e'
scritto". Ci credevo davvero, ci credo ancora oggi.
Nel sentire direttamente la voce di Luciano Gaucci l'emozione sali' come un
ascensore dentro un grattacielo. Lo ringraziai, fui io a chiedergli se era
contento: la mia gioia era scontata. Fui felice anche quando Alessandro mi
disse
che avrei guadagnato soltanto 150 milioni netti, 20 in piu' di quelli che mi
dava l'Arezzo. Non ho mai pensato ai soldi e poi dentro quel contratto di un
anno era nascosta una grande fiducia: l'opzione per altri 4 anni. Quel colloquio
duro' un'ora e mezza: uscii con il pre-contratto in tasca. Per un po' uscii
anche di testa. Faticavo a respirare, avevo il cuore in gola. Nel piazzale
davanti alla Galex, restai parecchi minuti appoggiato alla macchina per farmi
schiaffeggiare dall'aria fredda di quella sera di febbraio. La gioia era
esplosa, ma certe sensazioni non riesco proprio a tradurle in parole. Andai
veloce verso casa, verso Ponte San Giovanni. Ero solo, la Rosy e i bambini erano
in montagna. Li avrei voluti intorno a me per contagiarli con la mia felicita'.
Avrei voluto fare di tutto, ma feci poco o niente. Ero paralizzato. Poi, nella
notte, il pensiero mi guido' verso i luoghi dove per me e' piu' facile vedere
l'orizzonte. Il Lido Tevere, il campo sportivo, i ricordi piu' veri. Avrei
voluto raccontare tutto a tutti, festeggiare, ma dovevo stare zitto con i miei
segreti. Parlai a lungo con mio padre. Ma con lui non c'e' gusto: e' l'autista
del mio destino e non c'e' verso di fargli una sorpresa.