Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Elettrotecnica
il modello dei campi e quello dei circuiti che è uno dei punti formativi di un corso di
Elettrotecnica.
Per questo motivo si è pensato di integrare il testo con alcune appendici che ne con-
sentono una duplice lettura, come diffusamente spiegato nell'introduzione.
Questa seconda edizione non è molto diversa dalla precedente; sono stati corretti alcu-
ni errori tipografici e si è cercato in qualche punto di migliorare l’esposizione degli
argomenti, in particolare nel capitolo sulla trasformata di Laplace. Inoltre si è deciso
di non accludere il software didattico al testo, essenzialmente perché, essendosi esso,
nel frattempo, ampliato notevolmente, si è preferito allegarlo ad una nuova pubblica-
zione specifica, di prossima edizione, che ne illustrasse il funzionamento in modo più
dettagliato, dal titolo “Laboratorio Virtuale di Elettrotecnica”.
Lo spirito complessivo che ci ha animato è stato quello di produrre un testo essenzial-
mente didattico; così in diversi punti sono proposti al lettore semplici esercizi che
hanno lo scopo di chiarire aspetti trattati nella teoria, o di introdurre problematiche
nuove. Nei paragrafi successivi le soluzioni di alcuni dei problemi proposti vengono
brevemente discusse; per altri si rimanda al testo di esercizi consigliato.
Ogni libro non è mai il frutto del lavoro di una persona sola: oltre a chi materialmen-
te lo scrive, in esso c’è il contributo di quanti hanno interagito con l’autore ed hanno
contribuito a creare l’ambiente culturale in cui egli si è formato. Da questo punto di
vista sono lieto di dover riconoscere il mio debito nei confronti del mio maestro,
Ferdinando Gasparini, e dei colleghi Oreste Greco e Scipione Bobbio. Giovanni
Miano ha contribuito in modo importante a definire la impostazione di alcune parti del
libro e Luigi Verolino ne ha impietosamente cercato gli errori nella prima edizione.
TAγB = F · dl γ . (2)
q
A
Il modello di Drude
Il fatto che alcuni materiali - che vengono appunto detti ohmici - sottostanno
alla legge di Ohm, ha un significato molto sottile che cercheremo di esaminare
sia pure solo qualitativamente. Dalla definizione di intensità di corrente risulta
evidente che la stessa è proporzionale alla velocità media dei portatori di cari-
ca. D’altra parte la differenza di potenziale, in quanto integrale del campo,
deve essere proporzionale alla forza esercitata sui portatori stessi; il campo
infatti è la forza per unità di carica. La legge di Ohm, dunque, afferma che la
velocità è proporzionale alla forza, in apparente contraddizione con le leggi
della dinamica che vogliono quest’ultima proporzionale all’accelerazione:
F = ma.
In effetti la contraddizione è solo apparente in quanto la legge di Newton
immagina il corpo, soggetto a forze, completamente libero di muoversi.
Evidentemente i portatori di carica in un conduttore ohmico non sono com-
pletamente liberi di muoversi! Il reticolo che costituisce il corpo materiale in
cui i portatori sono costretti a muoversi offre un qualche ostacolo al moto delle
cariche. La legge di Ohm, in effetti, ci consente di determinare quale tipo di
ostacolo. Supponiamo infatti che l’effetto complessivo delle cariche ferme,
costituenti il reticolo, sia equivalente ad un attrito e quindi proporzionale alla
velocità; la forza complessiva che agisce sulle cariche sarà allora F - k v, dato
che l’attrito si oppone all’azione del campo elettrico.
Se si raggiunge una condizione stazionaria, la velocità delle cariche sarà costan-
te, e la loro accelerazione, quindi, nulla. Avremo dunque:
F - k v = m a = 0,
e quindi F = kv, come prescritto dalla legge di Ohm. Questo modello della
conduzione nei conduttori ohmici, che va sotto il nome di modello di Drude,
e che abbiamo esposto solo in maniera qualitativa, può, in realta, essere
approfondito anche ad un livello quantitativo con buoni risultati. A noi inte-
ressava farne cenno soprattutto per sottolineare il fatto che la validità della
legge di Ohm richiede il verificarsi di una condizione abbastanza particolare.
Non stupisce quindi che tale legge non sia soddisfatta da tutti i materiali, e che
14 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
gli stessi materiali ohmici siano tali solo in determinate condizioni; per esem-
pio al variare della temperatura del corpo in esame la resistività del materiale
non si mantiene costante, come vedremo meglio nel seguito. Non meno impor-
tante, dal punto di vista applicativo, è il caso di quei materiali che non sotto-
stanno alla legge di Ohm e che quindi presentano una dipendenza non lineare
tra tensione e corrente. La moderna elettronica è tutta basata sul comporta-
mento di tali materiali.
Capitolo I
I bipoli
Fig.I.1
Ma erano possibili anche scelte diverse. Si supponga di
non conoscere a priori quale dei due morsetti A e B sia
quello effettivamente a potenziale maggiore, ma di
volere comunque indicare con un simbolo, per esem-
pio V*, per distinguerlo dal precedente, la differenza di
potenziale; non si potrà, evidentemente, che scegliere
arbitrariamente uno dei punti - B per esempio - e defi-
nire V* la differenza di potenziale tra B e A.
Supponiamo invece di mantenere invariata la scelta per
la corrente, e cioè definiamo I la corrente che entra da
A ed esce da B. Per quanto detto in precedenza si avrà:
V* = - RI (I.1)
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 17
La legge di Joule
Esercizi
Altri bipoli
Esercizi
Le reti elettriche
I1 + I2 + I2 +.......+ Ik = 0 (II.1)
V1 - V2 + V2 -V3 + V3 - V4 + ........ + Vk - V1 ,
nodo A) I + I1 + I4 = 0,
nodo B) I1 + I2 + I3 = 0,
nodo C) I2 + I5 - I8 = 0, (II.3)
nodo D) I3 - I4 + I7 + I8 = 0,
nodo E) I5 + I6 + I0 = 0,
Esercizi
o anche
Esercizi
Il teorema di Tellegen
Le proprietà di non-amplificazione
ponenti.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 61
sommatorie:
Esercizi
a) b)
Fig.III.1
È facile infatti trasformare un ramo del tipo descritto in
Fig.III.1a, con caratteristica
e viceversa.
Applicando, per esempio, al bipolo di Fig.III.1a il teo-
rema di Norton, si ottengono immediatamente la cor-
rente di corto circuito ai morsetti AB e la resistenza
equivalente vista dagli stessi morsetti per la rete resa
passiva.
Per trasformare dunque una caratteristica di lato del
tipo descritto dalla relazione III.14 in una del tipo
descritta dalla relazione III.15, basta porre I0k= E0k/Rk
ed Gk=1/Rk. Si osservi che allo stesso risultato si poteva
banalmente giungere dividendo l'equazione III.14 per
Rk e risolvendo rispetto ad Ik. Quest'ultima osservazio-
ne evidenzia, in realtà, un problema: esistono due casi
limiti in cui la trasformazione non è possibile ed i teo-
remi di equivalenza non consentono di passare da un
ramo con generatore ideale di f.e.m. ad un ramo con
72 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
za.
In maniera del tutto simile si può dimostrare la forma
duale del teorema di sostituzione: se in un rete lineare
si sostituisce ad un ramo interessato dalla corrente I un
generatore di corrente che fornisce la stessa corrente,
nulla cambia nella restante parte della rete. Dalle due
forme enunciate del teorema di sostituzione discendo-
no immediatamente le seguenti conseguenze: se due
punti di una rete lineare sono allo stesso potenziale essi
possono essere collegati con un bipolo corto circuito
senza modificare in alcun modo il funzionamento della
rete stessa. E ancora: se in un ramo di una rete lineare
non circola corrente, tale ramo può essere sostituito
con un bipolo circuito aperto senza modificare in alcun
modo il funzionamento della rete.
Le due conseguenze appaiono subito evidenti se si con-
sidera che un generatore di f.e.m. ideale di tensione
nulla equivale ad un bipolo corto circuito e che un
generatore ideale di corrente che eroghi una corrente
nulla equivale ad un bipolo circuito aperto.
Facendo uso di questi risultati si vede facilmente che
un ramo di una rete in cui sia presente un solo genera-
tore ideale di f.e.m. può essere facilmente eliminato
modificando la rete, come è mostrato nelle immagini a
lato.
Infatti, in tale rete modificata, i punti C,D ed F sono
allo stesso potenziale per costruzione; ne consegue che
essi possono essere cortocircuitati, così come è mostra-
to nella successiva immagine. È evidente, a questo
punto, che la rete così ottenuta è equivalente a quella di
partenza, perché i tre generatori ideali di egual f.e.m. in
parallelo possono essere sostituiti con un solo genera-
tore.
Analogo è il caso del generatore ideale di corrente
senza una conduttanza in parallelo.
Dalla rete mostrata in alto nella immagine qui a lato si
passa facilmente a quella mostrata in basso nella stessa
74 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
a) b)
Fig.III.2
dove si è posto:
Esercizi
Esercizi
L’ n-polo
Grs″ 0. (IV.2)
Fig.IV.1
Si avrà:
E quindi:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 93
dove si è posto:
Fig.IV.2
In questo caso si avrà:
94 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Dove si è posto:
Esercizi
L’N-bipolo o N-porte
per la matrice R, e:
dei parametri R e G.
È evidente che per “sintetizzare” un doppio bipolo si
avrà bisogno di almeno tre bipoli resistori; infatti tre
sono i parametri indipendenti che determinano la
matrice delle R o delle G di un doppio-bipolo. D’altra
parte tre bipoli resistori possono essere collegati in due
fondamentali modi diversi: a stella (o a T, in questo
caso) o a triangolo (o anche a p greco, Π, per la caratte-
ristica forma dello schema elettrico).
È facile ricavare i parametri R e G nei due casi del dop-
pio bipolo a T ed a Π. Nel primo caso si ha che:
e:
e:
102 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Esercizi
Abbiamo più volte ricordato che i generatori fin ora introdotti, di tensione e
di corrente, vengono detti ideali
per il fatto che essi forniscono ai
loro morsetti una tensione o una
corrente che non risente in alcun
modo del “carico” a cui essi vengo-
no connessi. Per questo motivo essi
vengono anche detti generatori
indipendenti. Abbiamo anche sot-
tolineato che in un generatore
“reale” è impossibile che ciò accada. In un generatore di tensione reale la
d.d.p. ai morsetti dipenderà dalla corrente erogata secondo una legge V=V(I)
del tipo di quella mostrata qualitativamente in
figura. Potremmo affermare, da questo punto di
vista, che il generatore reale è un generatore dipen-
dente. Questa osservazione fornisce lo spunto per
l'introduzione di una nuova classe di generatori
nei quali la tensione ai morsetti, se si tratta di
generatori di tensione, per esempio, è sì dipen-
dente, ma non dalla corrente che essi stessi eroga-
no, bensì da un'altra corrente circolante in altro
ramo della rete. Chiameremo tali generatori gene-
ratori pilotati ed useremo per essi i simboli
mostrati, a seconda che si tratti di generatori di tensione o di corrente. In effet-
ti non è necessario che la tensione di un generatore sia pilotata da una corren-
te: la grandezza che “pilota”, secondo una ben determinata legge, può anche
essere un'altra tensione che insiste su di un altro ramo della rete. In conclu-
sione siamo portati a definire quattro diversi tipi di generatori pilotati:
Fig. IV.3
110 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Si noti che la condizione R12 = R21 non è verificata: si tratta infatti di doppi
bipoli che contengono dei generatori, e quindi possono essere non reciproci.
I generatori pilotati sono estremamente utili per costruire circuiti equivalenti
di dispositivi più complessi, come, per esempio, i transistori. Anzi si può affer-
mare che l’esigenza di introdurre tali doppi bipoli nasce proprio dal bisogno
di rappresentare opportunamente il comportamento dei transistori nei loro
diversi modi di funzionamento.
Non rientrando tali dispositivi tra gli argomenti del nostro corso, avremo
poche opportunità di utilizzare i generatori pilotati; ciò nonostante ci è sem-
brato utile introdurli per inserirli nel quadro generale che stiamo costruendo.
Oltre tutto, i generatori pilotati non sono soltanto degli elementi ideali; è pos-
sibile, utilizzando dei dispositivi che prendono il nome di amplificatori opera-
zionali, realizzare delle concrete ottime approssimazioni di tali generatori.
Anche degli amlificato-
ri operazionali si può
introdurre un modello
idealizzato che è rap-
presentato in Fig.IV.4.
Fig.IV.4
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 111
Fig.IV.6
Se si accetta l’idealizzazione spinta di cui in precedenza (I- = I+ = 0 e A = ° ),
le relazioni di cui alle (IV.42) diventano:
rente erogata.
Fig.IV.10
Nel secondo caso le relazioni tra tensioni e correnti sono quelle che si avreb-
bero in un doppio bipolo resistivo; si noti che anche in questo caso puo’ non
essere verificata la condizione R12=R21 e quindi il doppio bipolo puo’ non
essere reciproco.
Fig.IV.11
Per il circuito di Fig.IV.12, invece, l’equazione alla maglia della porta di ingres-
so dell’amplificatore operazionale ci fornisce la relazione:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 115
Fig.IV.12
116 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Esercizi
dove:
e quindi:
I circuiti RC ed RL
cioè:
126 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
dove:
e quindi:
coincidenti.
Le osservazioni fatte portano a due ulteriori conclusio-
ni. In primo luogo, per individuare una sola soluzione
all'interno della famiglia di soluzioni, basta fissare il
valore che essa assume in un punto, diciamo x0. In
secondo luogo, poiché se è noto il valore in x0 sono noti
i valori di tutte le derivate nello stesso punto, è possi-
bile esprimere la soluzione cercata sotto forma di uno
sviluppo in serie di potenze di punto iniziale x0:
e, in generale:
In conclusione si ottiene:
cioè α = - a0.
Per determinare il valore di k basterà fissare il valore
della funzione in un punto.
L'equazione α + a0 = 0, prende il nome di equazione
caratteristica della equazione di partenza.
Proviamo ad applicare questa tecnica all'equazione
(V.15) del nostro circuito. In primo luogo l’equazione
caratteristica:
e quindi la soluzione è:
e quindi:
e quindi:
In conclusione si ha che:
Esercizi
Cioè:
dove i = C dvC/dt .
Per eliminare vC dalle due equazioni precedenti si può
derivare la prima. Si ottiene:
2
A seconda del valore del discriminate, Δ = (a1) -4a0, le
radici possono essere reali e distinte, reali e coinciden-
ti ed immaginarie coniugate; quest'ultima affermazione
è legata al fatto, che nel nostro caso, i coefficienti della
(V.40) sono, per ipotesi, reali. Qualche problema può
sorgere nel caso di radici coincidenti in quanto appa-
rentemente la tecnica utilizzata non sembra portarci
alla conoscenza di due soluzioni distinte, necessarie per
costruire l'integrale generale della (V.38). Faremo vede-
re, invece, che anche nel caso di radici coincidenti è
possibile costruire un'altra soluzione dell'equazione in
esame utilizzando un semplice ed intuitivo processo al
limite.
Partiamo dal caso in cui le radici siano distinte e ponia-
mo, per comodità, α1 = α ed α2= α + Δα. Osserviamo
che, in virtù della linearità dell'equazione, una qualsia-
si combinazione lineare di soluzioni è ancora una solu-
zione; tale sarà dunque anche la particolare combina-
zione lineare descritta dalla espressione seguente:
con radici:
si ha allora:
con
e quindi:
si trova facilmente:
144 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Esercizi
Infine, riordinando:
o anche:
Per V0 = E0, i(t) =0. Non c’è alcuna corrente nel cir-
cuito! Questi risultati ci inducono ad una descrizione
del fenomeno che, anche se poco formale, ha il pregio
di farne comprendere la sua reale natura. Il generatore
"vuole imporre" la sua tensione E0 sul condensatore;
quest’ultimo, d’altra parte, ha la sua V0 "da rispettare".
Ne consegue un conflitto tra le due esigenze. Il con-
densatore, però, è destinato a soccombere in quanto ha
a sua disposizione soltanto una energia limitata (C
V0/2), mentre il generatore ideale E0 può mettere in
gioco quanta energia desidera. L’unico caso in cui
148 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
e la soluzione:
Esercizi
Si ottiene:
si ha:
e:
si ottiene in definitiva:
e:
Esercizi
I regimi sinusoidali
V=RI;
per l'induttore, v=Ldi/dt si trasforma in:
V = j ωL I ;
per il condensatore, i C dv/dt si trasforma in:
I = j ωC V .
Si ha, quindi:
164 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
j ωt + α
I = Ee = E ej ωt + α -ϕ .
Z ejϕ Z
Esercizi
Ricordando che
- j = e- jπ 2 ,
In conclusione abbiamo:
vcp(t) = 2 Vc sen ωt + γ . (VI.11)
Dove
Vc = 1 E , (VI.12)
ωC 2
R2 + ωL - 1
ωC
e:
γ=η-ϕ-π2 . (VI.13)
αt
vc(t) = ke sen βt+ψ + 2Vcsen ωt+γ . (VI.16)
Esercizi
Bipolo induttore:
Bipolo condensatore:
Bipolo resistore:
174 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
a + jb + c + jd = a + c + j b + d ,
a + jb c + jd = ac - bd + j bc + ad ,
a + jb a + jb c - jd ac + bd + j bc - ad
= = ;
c + jd 2
c +d 2 c2 + d2
ed in quella polare:
a + jb = A ej ϕ , con A = a2 + b2 e tg ϕ = b ,
a
A ej ϕ B ej γ = A Bej ϕ+γ ,
A ej ϕ = A ej ϕ - γ .
B ej γ B
Così, per esempio, serie e parallelo di due bipoli porta-
no alle stesse formule utilizzate in continua.
Serie:
Y1 Y2
Z = Z1 + Z2 , Y= .
Y1 + Y2
Parallelo:
Z = Z1 Z2 , Y = Y1 + Y2 .
Z1 + Z2
Esercizi
con:
Re = R R0 .
R + R0
Il circuito risonante
Esercizi
fornito.
La semplice applicazione del teorema di reciprocità
induce a richiedere che: M12 = M21. Infatti M21 di1/dt
non è nient'altro che la tensione prodotta al secondario
per la presenza della corrente i1 al primario, e, vicever-
sa, M12 di2/dt la tensione prodotta al primario per la
presenza della corrente i2 al secondario. D'altra parte
allo stesso risultato si giunge anche in base a conside-
razioni energetiche, che ci aiuteranno a fare ulteriori
passi nella comprensione del comportamento di un tale
doppio bipolo. Infatti la potenza istantanea assorbita
(convenzioni dell'utilizzatore ad entrambe le porte) dal
doppio bipolo è:
di di
p = v1 i1 + v2 i2 = L1 i1 1 + M12 i1 2 +
dt dt
(VI.38)
+ M21 i2 di1 + L2 i2 di2 .
dt dt
Esercizi
I V1
I1 = - a2 + . (VI.47)
j ω L1
L'1 + L"1 = L1 ,
L'2 + L"2 = L2 , (VI.49)
L"1 L"2 = M2 .
Evidentemente, le tre equazioni (VI.49) definiscono i
quattro parametri L con un grado di libertà in quanto
le equazioni che li determinano sono solo tre. Esistono
dunque infinite scelte possibili per la scomposizione
descritta; per ottenerne una basterà fissare ad arbitrio
uno dei parametri ed ottenere gli altri dalle (VI.49).
Introduciamo ora le posizioni fatte nelle equazioni
(VI.44):
V1 = j ω L'1 I1 + j ω L"1 I1 + j ω M I2 ,
(VI.50)
V2 = j ω L'2 I2 + j ω M I1 + j ω L"2 I2 .
V1 = - a2 V2 = a2 Z. (VI.51)
I1 I2
Cioè il primario vede una impedenza a2 volte più gran-
de di quella su cui è chiuso il secondario. Questa osser-
vazione fornisce un metodo generale per eliminare gli
accoppiamenti mutui presenti in un circuito e ricon-
durre la rete ad una equivalente cosí come mostrato
nelle immagini a lato.
L'accoppiamento mutuo, e a maggior ragione il tra-
sformatore ideale, sono, evidentemente, trasparenti per
le potenze attive; infatti in tali doppi bipoli non sono
presenti elementi dissipativi e quindi la potenza attiva
alla porta primaria è eguale ed opposta a quella alla
porta secondaria - si ricordi che si è assunta una con-
venzione dell'utilizzatore ad entrambe le porte - di
modo che la potenza attiva totale assorbita dal doppio
bipolo è identicamente nulla.
Mentre però il trasformatore ideale è trasparente anche
per le potenze reattive - ed in generale per qualsiasi
tipo di potenza - l'accoppiamento mutuo invece assor-
be una certa potenza reattiva; si dimostri che tale
potenza può essere messa nella forma:
V21
Q = ω L1 I21 + . (VI.52)
2
ωM
L2
Esercizi
Il trasformatore
Esercizi
Esercizi
I sistemi trifasi
V12 = E1 - E2 ,
V23 = E2 - E3 , (VII.2)
V31 = E3 - E1 .
?W2@@6X?
W.M??I/X
7HfV/X?
@?f?V/X
@?gV/X?hg
3Lg?V/Xhg
V/X?gV/X?hf
?V/Xg?V/Xhf
V)X?gV/X?he
W2@@@@@@@@@@@@@@@@)?g?V/Xhe
?W.M V/X?h
?7H? ?N1?h
?@ @?h
?@ @?h
?3L? ?J5?h
?V/K W.Y?h
V4@@@@@@@@@@@@@@@@(?g?W.Yhe
W(Y?gW.Y?he
?W.Yg?W.Yhf
W.Y?gW.Y?hf
7Hg?W.Yhg
@?gW.Y?hg
@?f?W.Y
3LfW.Y?
V/K??O.Y
?V4@@0Y?
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 213
Esercizi
C = 1,1 µF.
I1 = E1 , I2 = E2 , I3 = E3 . (VII.5)
Z Z Z
[
p(t) = EI senωt sen ωt-ϕ +sen ωt- 2π sen ωt- 2π -ϕ +
3 3
3 3 ]
+ sen ωt- 4π sen ωt- 4π -ϕ = 3EIcosϕ +
[
+EI cos 2ωt-ϕ + cos 2ωt- 4π -ϕ + cos 2ωt- 2π -ϕ .
3 3 ]
Nella espressione della potenza istantanea si riconosce
ancora una termine costante ed un termine fluttuante,
come nel caso monofase. Questa volta però il termine
fluttuante è identicamente nullo. Se rappresentiamo
infatti i tre addendi di cui è composto in un piano dei
vettori - che questa volta però ruota con velocità 2ω -
vediamo subito che la spezzata che essi formano è chiu-
sa e quindi essi sono a somma nulla. Si conclude, dun-
que, che, nel caso di terna delle tensioni simmetrica e
terna delle correnti equilibrata, la sola potenza che si
trasferisce al carico è quella media:
3 EI cosϕ = 3VI cosϕ.
Sulla base delle nozioni introdotte possiamo a questo
punto mostrare un altro motivo di convenienza dell'u-
so di sistemi trifasi. Confrontiamo due sistemi di ali-
mentazione, l'uno monofase e l'altro trifase senza neu-
tro, che siano del tutto equivalenti per quello che con-
cerne l'utilizzatore, cioè il carico. Supponiamo che
detto carico, nel caso del sistema trifase, sia disposto a
triangolo come mostrato nello schema - ad un risultato
identico si giunge se lo si suppone a stella - e che sia
inoltre equilibrato. La potenza fornita a tale carico è:
P = 3VI cosϕ.
∑r Er -ZVO'O = 0 , (VII.12)
r
Esercizi
W1 + W2 + W3 = ∑ E''r · Ir , (VII.18)
r
e per il triangolo
Q - Q' = Pa tg ϕ - tg ϕ' = 3 V2 ω CT. (VII.22)
Esercizi
Vc = E1 1 - R ,
- j Xc R + j XL
R +
R + j XL - Xc
(VIII.3)
E1 - j Xc
IL = .
- j Xc R + j XL R + j XL - Xc
R +
R + j XL - Xc
Dove:
E1 = 100 5e - j 0,463 = 100 2 - j ,
(VIII.4)
E2 = 100 5e j 0,463 = 100 2 + j ,
1-j
Vc = E1 = 100 1 - j ,
2-j
(VIII.5)
j E1 1
IL = = - j 10 .
10 2 - j
e2 = R i2 + L diL ,
dt
L diL = R ic + vc,
dt
(VIII.8)
i2 = iL + ic,
ic = C dvc .
dt
Con alcuni semplici passaggi si ricava l'equazione risol-
230 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Esercizi
I segnali impulsivi
vc t = 1 - e- t RC . (VIII.20)
Dopo un tempo teoricamente infinito il condensatore
raggiunge la tensione di un volt, perché tale e la tensio-
ne del generatore in ingresso. Un ingresso di tale tipo
viene anche detto gradino unitario e rappresentato con
il simbolo U(t) o 1(t). Si avrà, quindi:
Ut =0 per t < 0 ,
(VIII.21)
Ut =1 per t > 0 .
Naturalmente potremo avere anche un gradino unita-
rio di corrente, se il generatore è di corrente e non di
tensione. Con i simboli U(t - t0) o 1(t - t0) indicheremo
invece un andamento identico al precedente ma trasla-
to nel tempo di un intervallo t0.
Supponiamo ora che il segnale in ingresso non sia un
gradino unitario ma che si annulli improvvisamente
dopo un certo intervallo di tempo ∆. Chiameremo un
tale segnale impulso rettangolare di ampiezza ∆ ed use-
remo per esso il simbolo P∆(t) o P∆(t - t0), a seconda
dell'istante iniziale. Osserviamo che, utilizzando il sim-
bolismo introdotto per la funzione a gradino possiamo,
definire l'impulso rettangolare alla seguente maniera:
P∆ t = U t - U t - t0 (VIII.22)
Quando nel circuito di carica del condensatore la ten-
sione del generatore si riduce a zero, il condensatore
comincia a scaricarsi attraverso lo stesso circuito - si
ricordi che un generatore ideale di tensione che eroga
una tensione nulla equivale ad un cortocircuito - con la
ben nota legge:
vc t = Vt 0 e- t - t 0 RC , (VIII.23)
dove Vt0 è la tensione raggiunta all'istante t0 dal con-
densatore nella sua carica precedente. L'andamento è
quello caratteristico descritto nella figura.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 235
Esercizi
L'integrale di convoluzione
∑ Ck P∆ t - τk ,
k
allora la risposta, a partire dallo stato zero, dovrà esse-
re del tipo:
∑ Ck h∆ t - τk .
k
Ne consegue che la risposta ad un ingresso del tipo
descritto dalla (VIII.30) deve potersi porre nella forma:
N
h∆ t - τk
u* t = ∑ e τk ∆. (VIII.33)
k=0 ∆
E questo, indipendentemente dal valore di ∆. Nel limi-
te in cui ∆ tende a zero la (VIII.30) tende alla (VIII.31),
che descrive il generico segnale in ingresso, e la
(VIII.33) tende a:
t
ut = e τ h t - τ dτ . (VIII.34)
0
Dove naturalmente la sommatoria di infiniti termini
infinitesimi si è tramutata in un integrale e la h(t) è la
risposta all'impulso.
A questo punto è necessario qualche commento sugli
estremi dell'integrale nella (VIII.34). L'integrando
infatti può contenere delle funzioni discontinue, in par-
ticolare delle funzioni impulsive che sono in grado di
fornire un contributo finito anche se integrate su di un
intervallo di ampiezza nullo; occorre dunque precisare,
per esempio, se come estremo inferiore intendiamo il
limite di t che tende a 0 da sinistra o da destra. È faci-
le rendersi conto che, solo se assumiamo come estremo
inferiore il limite di t che tende a zero da sinistra (0-) e
come estremo superiore il limite da destra (t+), è possi-
bile, con il formalismo di cui alla (VIII.34), tenere in
conto anche la presenza di eventuali impulsi presenti
in 0 ed in t, sia nel segnale in ingresso che nella rispo-
sta impulsiva. In ultima analisi la (VIII.34) va intesa:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 243
t+ε
u t = lim e τ h t - τ dτ , (VIII.35)
ε→ 0 -ε
o, con simbolismo più sintetico:
t+
ut = e τ h t - τ dτ . (VIII.36)
0-
L'integrale di cui alla (VIII.34) prende il nome di inte-
grale di convoluzione delle due funzioni e(t) ed h(t) e
gode di alcune proprietà notevoli sulle quali, però, non
ci soffermeremo. Esso fornisce la risposta di una rete
lineare, tempo invariante ed inizialmente a riposo
(stato zero) ad un qualsiasi ingresso e(t), a condizione
che si conosca la funzione h(t), cioè la risposta della
rete all'impulso. Questo risultato è in effetti del tutto
generale: la risposta di un sistema lineare ad una solle-
citazione impulsiva contiene tutte le informazioni
necessarie a caratterizzarne il suo funzionamento. A
questo punto il problema resta quello di calcolare h(t).
Abbiamo già mostrato come il calcolo della risposta
all'impulso di una rete si riduce al calcolo della risposta
al gradino e successiva derivazione; abbiamo anche
anticipato, però, che la derivazione va effettuata con
qualche accorgimento. Per illustrare il problema ritor-
niamo al circuito di carica del condensatore e suppo-
niamo di scegliere, come uscita, la corrente che in esso
circola invece della tensione ai suoi morsetti. Il calcolo
della risposta impulsiva si effettua derivando la risposta
al gradino e cioè:
icg t = 1 e- t RC. (VIII.37)
R
Si noti che allo stesso risultato, conoscendo già la ten-
sione prodotta da una sollecitazione impulsiva, si può
arrivare facendo uso della caratteristica del condensa-
tore:
244 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
dvcδ
icδ t = C = C d 1 e- t RC . (VIII.38)
dt dt RC
impulsiva.
Si noti infine che in presenza di generatori impulsivi
non è più possibile richiedere alle tensioni sui conden-
satori ed alle correnti negli induttori di avere un com-
portamento continuo nel passaggio da un regime ad un
altro. I generatori impulsivi, come è facile verificare
infatti, sono in grado di fornire una potenza infinita in
un intervallo di tempo virtualmente nullo; viene a cade-
re quindi l'ipotesi su cui avevamo fondato la necessità
della continuità delle variabili di stato.
Esercizi
iL t = 0 = 0; vc t = 0 = 0. (VIII.52)
dv + 2 v + 2 iL = e + de . (VIII.59)
dt dt
Tenendo conto della (VIII.58) e del fatto che per un
ingresso a gradino è
e t = 0+ = U t = 0+ = 1 ,
(VIII.60)
de = dU =0,
dt t = 0+ dt t = 0+
si ottiene:
dv =-1. (VIII.61)
dt t = O+
dove si è posto:
v0 t = e- t A ejt + B e- jt . (VIII.68)
Derivando una seconda volta:
d2 v = A + B δ(2)(t) + dU dv0 + U(t) d2 v0 =
dt2 dt dt dt2
(VIII.69)
2
= A+B δ (t) - A+B +j A-B δ t + U(t)d v0 .
(2)
dt2
Sostituendo tali espressioni nella (VIII.66), non si
avrebbero a primo membro impulsi di ordine 3 e non
sarebbe quindi possibile bilanciare l'impulso dello stes-
so ordine presente a secondo membro. Se ne conclude
che la soluzione della (VIII.66) deve essere del tipo:
h(t) = U(t) e- t Aejt + Be- jt + k δ t , (VIII.70)
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 255
Esercizi
vC(t) = 1 e- t RC.
C
iL(t) = R e- 2Rt L.
L
2
vL(t) = - 2 R e- 2Rt L + R δ(t).
L
260 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
PONTE 1
**** CIRCUIT DESCRIPTION
***********************************************************
* CIRCUITO RESISTIVO IN CONTINUA
R1 2 3 10
R2 2 4 2
R3 3 4 5
R4 3 0 5
R5 4 0 1
R6 1 2 2
V0 1 0 2
.END
***********************************************************
PONTE 1
**** SM ALL SIGNAL BIAS SOLUTION TEM PERATURE = 27.000 DEG C
***********************************************************
J OB CONCLUDED
TOTAL J OB TIM E .65
266 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
PONTE 2
* CIRCUITO RESISTIVO IN CONTINUA
R1 2 3 10
R2 2 4 2
R3 3 5 5
VA 5 4 0
R4 3 0 5
R5 4 0 1
R6 1 2 2
V0 1 0 2
.END
VA 5.551E- 17
V0 - 4.444E- 01
trice.
Si consideri ora, con riferimento al circuito mostrato a
lato, il seguente “file” di ingresso a PSpice:
AC 1
* PONTE IN C.A.
V0 1 0 AC 141.42
R1 1 2 5
L2 1 3 0.1
R3 3 0 10
C4 2 0 2E- 3
.AC LIN 1 15.91 15.91
.PRINT AC Vm(2) Vp(2) Vr (2) Vi(2)
.PRINT AC Vm(3) Vp(3) Vr (3) Vi(3)
.END
***********************************************************
***********************************************************
FREQ I(V0)
(* )- - - - - -
1.0000E- 02 1.0000E- 01 1.0000E+00 1.0000E+01 1.0000E+02
___________________ ________
1. 000E+03 1. 462E- 02 . * . . . .
1. 020E+03 1. 531E- 02 . * . . . .
1. 040E+03 1. 605E- 02 . * . . . .
1. 060E+03 1. 685E- 02 . * . . . .
1. 080E+03 1. 770E- 02 . * . . . .
1. 100E+03 1. 862E- 02 . * . . . .
1. 120E+03 1. 961E- 02 . * . . . .
1. 140E+03 2. 069E- 02 . * . . . .
1. 160E+03 2. 186E- 02 . * . . . .
1. 180E+03 2. 314E- 02 . * . . . .
1. 200E+03 2. 454E- 02 . * . . . .
1. 220E+03 2. 610E- 02 . * . . . .
1. 240E+03 2. 782E- 02 . * . . . .
1. 260E+03 2. 974E- 02 . * . . . .
1. 280E+03 3. 190E- 02 . * . . . .
1. 300E+03 3. 435E- 02 . * . . . .
1. 320E+03 3. 714E- 02 . * . . . .
1. 340E+03 4. 036E- 02 . * . . . .
1. 360E+03 4. 411E- 02 . * . . . .
1. 380E+03 4. 853E- 02 . * . . . .
1. 400E+03 5. 382E- 02 . * . . . .
1. 420E+03 6. 026E- 02 . * . . . .
1. 440E+03 6. 825E- 02 . * . . . .
1. 460E+03 7. 840E- 02 . * . . . .
1. 480E+03 9. 167E- 02 . * . . .
1. 500E+03 1. 096E- 01 . .* . . .
1. 520E+03 1. 346E- 01 . . * . . .
1. 540E+03 1. 705E- 01 . . * . . .
1. 560E+03 2. 201E- 01 . . * . . .
1. 580E+03 2. 707E- 01 . . * . . .
1. 600E+03 2. 759E- 01 . . * . . .
1. 620E+03 2. 301E- 01 . . * . . .
1. 640E+03 1. 806E- 01 . . * . . .
1. 660E+03 1. 439E- 01 . . * . . .
1. 680E+03 1. 183E- 01 . .* . . .
1. 700E+03 9. 993E- 02 . * . . .
1. 720E+03 8. 638E- 02 . * . . .
1. 740E+03 7. 603E- 02 . * . . . .
1. 760E+03 6. 790E- 02 . * . . . .
1. 780E+03 6. 136E- 02 . * . . . .
1. 800E+03 5. 600E- 02 . * . . . .
1. 820E+03 5. 152E- 02 . * . . . .
1. 840E+03 4. 773E- 02 . * . . . .
1. 860E+03 4. 448E- 02 . * . . . .
1. 880E+03 4. 167E- 02 . * . . . .
1. 900E+03 3. 921E- 02 . * . . . .
1. 920E+03 3. 703E- 02 . * . . . .
1. 940E+03 3. 510E- 02 . * . . . .
1. 960E+03 3. 338E- 02 . * . . . .
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
272 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Tr an 1
* CIRCUITO RC, CARICA DI C
V0 1 0 DC 10
R1 1 2 50
C3 2 0 1E- 3 IC=0
.TRAN 0.001 0.5 UIC
.PROBE
.END
Tr an 2
* CIRCUITO RC, CARICA DI C
V0 1 0 DC 10
R1 1 2 50
C3 2 0 1E- 3 IC=20
.TRAN 0.001 O.5 UIC
.PROBE
.END
Tr an 3
* CIRCUITO RLC, OSCILLAZIONI
V0 1 0 PWL(0 0 1e- 6 10 1000e- 6 10)
R1 1 2 20
L2 2 3 10M
C3 3 0 1E- 6
.TRAN 1e- 9 2e- 3
.PROBE
.END
Tr an 4
* RAM PA
V0 1 0 PWL(0 0 10 100 10.0001 0 100 0)
R1 1 2 1
C1 1 2 1
R2 2 3 1
L2 3 0 1
.TRAN 1e- 3 20
.PROBE
.END
TRAN 5
* Diodo
M ODEL DM OD D(Is=100u N=1 Xti=3 Eg=1.11 Fc=.5
Nr =2)
C1 2 0 1mF
R2 2 0 100
D1 1 2 DM OD
V0 1 0 SIN(0 10 50 0 0)
.PROBE
.TRAN 1u 0.05
.END
La trasformata di Laplace
La soluzione delle reti in regime dinamico può essere ricercata anche con un altro meto-
do che si basa sulle notevoli proprietà di una trasformazione, detta di Laplace. Il meto-
do ricalca quello utilizzato per il regime sinusoidale, ma è molto più generale.
Ricordiamo brevemente definizione e proprietà della trasformata di Laplace.
Consideriamo una funzione del tempo f(t) definita sull’intervallo (0,∞). La trasformata
di Laplace della funzione f(t) è definita dall’integrale:
∞
dove p è una variabile complessa. Il fatto che per l’estremo inferiore dell’integrazione
si sia utilizzato il simbolo 0- sta ad indicare che si prenderà in considerazione il limite
da sinistra dell’integrale. In questo modo se f(t) contiene nell’origine un impulso kδ(t)
esso contribuisce all’integrale; come abbiamo già visto, la presenza di impulsi nell’ori-
gine è indice del fatto che la rete non è, in generale, a riposo nell’istante iniziale. D’altra
parte l’integrale nella (X.1) è un integrale improprio, quindi anche l’estremo superiore
implica una operazione al limite. In altri termini la (X.1) va intesa come forma breve per:
T
Fp = lim f t e-ptdt.
T → ∞, ε→0
-ε
Partendo da quanto detto per introdurre il metodo dei fasori, proviamo ad analizzare
la trasformazione (X.1) con lo scopo di comprenderne meglio la sua struttura e quindi
282 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
le sue funzioni.
Come ricorderete l’obiettivo che ci proponevamo nell’introdurre il metodo dei fasori
era quello di trasformare l’insieme delle funzioni sinusoidali - soluzioni di regime delle
equazioni diffrenziali che governano i circuiti lineari quando il forzamento è appunto
sinusoidale - in un altro insieme nel quale le operazioni di calcolo fossero più agevoli.
In particolare era necessario che nell’insieme di arrivo fossero conservate le operazioni
di prodotto per una costante, somma e derivazione e che quest’ultima si riducesse ad
una operazione algebrica (prodotto per jω) in modo tale da trasformare le equazioni dif-
ferenziali di partenza in equazioni algebriche.
Il fatto che ogni elemento dell’insieme di partenza era individuato da tre parametri -
frequenza (o pulsazione), ampiezza (o valore efficace) e fase iniziale - ci portò ad indi-
viduare l’insieme delle funzioni complesse di variabile reale del tipo Aej(ωt+α) come un
possibile insieme di arrivo. In particolare, poi, volendosi limitare alle sole grandezze
sinusoidali della stessa frequenza, i parametri diventavano due e questo ci ha consenti-
to di ridurre l’insieme di arrivo a quello dei numeri complessi - caratterizzati appunto
da due valori, parte reale e coefficiente dell’immaginario.
Questa volta il problema è più arduo in quanto l’insieme di partenza e quello di tutte
le funzioni di una sola variabile reale a partire da un punto iniziale o almeno di una clas-
se abbastanza ampia di tali funzioni. Tale è infatti l’insieme delle possibili soluzioni delle
equazioni differenziali che governano la dinamica di un circuito a partire da un istante
iniziale t=0. Ogni elemento di un tale insieme di partenza è individuato da una infinità
di valori: tutti i valori che la specifica funzione f(t) assume tra 0 ed infinito. L’insieme di
arrivo dovrà avere la stessa dimensione e la trasformazione dovrà tenere conto di tutti i
valori della funzione di partenza f(t). Dovendosi poi conservare le operazioni di somma
e di prodotto per una costante è chiaro che dobbiamo pensare ad una operazione di
tipo lineare che per definizione gode di tali proprietà.
La (X.1) soddisfa queste condizioni in virtù delle proprietà della operazione di integra-
zione. Essa definisce effettivamente una trasformazione che, se l’integrazione a secondo
membro esiste (esamineremo tra breve questo aspetto), fa corrispondere a funzioni f(t)
dell’insieme di partenza funzioni F(p) dell’insieme di arrivo. Infatti a causa dell’inte-
grazione la variabile t scompare e quello che resta è solo funzione della variabile p.
Si noti il ruolo svolto dall’esponenziale e-pt: esso, da una parte, introduce la nuova
variabile p dalla quale dipendono le funzioni dell’insieme di arrivo della trasformazio-
ne e dall’altra gioca il ruolo di una sorta di funzione “peso” che in qualche modo con-
trassegna i singoli valori assunti dalla funzione f(t) in modo tale che di essi non si perda
memoria individuale nell’insieme di arrivo. Si noti anche che l’integrazione deve neces-
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 283
to della funzione integranda per t che tende all’infinito: in pratica c’è da aspettarsi che
per σ positivo è sufficientemente grande anche per funzioni f(t) che divergono per t che
tende all’infinito l’integrale della (X.1) esista.
Nonostante tutte le precauzioni prese non per tutte le funzioni f(t) definite in (0,∞) l’in-
tegrale di cui alla (X.1) esiste ed è finito. Ad esempio se consideriamo la funzione eαt,
la funzione integranda nella (X.1) è:
f t e-pt = e α- σ t e- jωt .
Se σ>α, l’integrale (X.1) esiste ed è finito, mentre se σ=α esso non esiste e se σ<α esso
2
è illimitato. Invece se consideriamo la funzione et , la funzione integranda è:
f t e-pt = e t - σ t e- jωt .
In questo caso non esiste alcun valore di σ, finito, per cui l’integrale (X.1) sia finito.
Ogni funzione f(t) definita sull’intervallo (0,∞), per la quale esiste un valore di σ tale
che l’integrale (X.1) esiste ed è finito, si dice trasformabile secondo Laplace. Come illu-
streremo, infatti, tra breve con alcuni esempi, basta che l’integrale esista e sia finito per
un qualsiasi valore di σ, perché la trasformata F(p) possa essere estesa a tutto il piano.
Il più piccolo valore di σ per cui ciò accade si dice ascissa di convergenza per l’integra-
le di Laplace ed il semipiano a destra di tale valore prende il nome di semipiano di con-
vergenza. Si mostra facilmente che ogni funzione f(t) per cui è verificata la condizione
f t ≤ M eσ0t
Per maggior chiarezza riesaminiamo il caso della funzione f(t)=eαt con α reale affron-
tato in precedenza. Abbiamo:
∞ ∞
α-p t e α-p t
F(p) = e dt = (X.7)
α-p 0 -
0-
Se α<Re{p}, si ottiene:
Fp =Lft = 1 . (X.8)
p-α
L’espressione (X.8) è stata ottenuta con il vincolo Re{p}>α; essa ha senso, però, in tutto
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 285
il piano complesso salvo che nel punto p=α dove “esplode” - si dice che F(p) ha un polo
in p=α.
Un caso particolarmente significativo è quello della funzione impulsiva: f(t)=δ(t).
Infatti, utilizzando la proprietà di campionamento dell’impulso, si ottiene:
∞
Lδt = δ t e-pt dt = 1. (X.9)
0-
Allo stesso risultato si giunge anche utilizzando la definizione dell’impulso δ(t) come
limite della funzione P∆(t)/∆ per ∆ che tende a zero.
Infine consideriamo la funzione gradino unitario: f(t)=U(t). Abbiamo facilmente:
∞
∞
F(p) = e- p t dt = -1p e- p t (X.10)
0-
0
Se Re{p}>0, si ha:
F(p) = L u t = 1p . (X.11)
Anche in questo caso la F(p) descritta dalla (X.11) può essere estesa a tutto il piano
complesso salvo che al punto p =0, dove “esplode” (in questo punto la funzione ha un
polo).
La trasformata di Laplace gode di alcune notevoli proprietà. In primo luogo la pro-
prietà di unicità: se la funzione f(t) definita in (0,∞) è trasformabile secondo Laplace,
allora la sua trasformata è unica. Questo risultato è immediato se si pensa a come la tra-
sformata è stata definita.
Per quanto riguarda il problema inverso, si può dimostrare il seguente teorema: se due
funzioni f e g hanno la stessa L -trasformata allora deve risultare:
∞
f t - g t dt = 0. (X.12)
0-
In generale, però, non sarà necessario fare ricorso a tale integrazione, salvo in casi ecce-
zionali, in quanto sarà, in generale, facile determinare l’antitrasformata utilizzando la
conoscenza di trasformate note e le proprietà della trasformazione. Nella tabella (X.I)
sono riportate alcune trasformate notevoli di frequente uso nella risoluzione di reti elet-
triche.
Il fatto che l’antitrasformata sia unica, come la trasformata, rende particolarmente inte-
ressante la trasformata di Laplace sul piano operativo. Infatti possiamo immaginare di
trasformare un problema nel dominio del tempo in quello corrispondente nel dominio
trasformato, risolverlo in questo dominio e poi ritornare nel dominio di partenza.
L’utilità di operare nel dominio trasformato è una immediata conseguenza delle pro-
prietà della trasformata di Laplace che abbiamo messo in luce nella introduzione e che
qui riassiumiamo in forma esplicita.
In primo luogo l’operazione di L -trasformata è un’operazione lineare; se, infatti, le tra-
sformate di due funzioni f1(t) ed f2(t) sono, rispettivamente, F1(p) ed F2(p), e se c1 e c2
sono due costanti arbitrarie, allora si ha:
dove F(p) è la trasformata della funzione f(t) ed f(0- ) è il suo valore in t=0-.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 287
Tabella X.I
funzione trasformata
δt 1
n
δ t pn
ut 1
p
tn 1
n! pn+1
e-αt 1
p+α
tn e-αt 1
n! p+α n+1
cos βt
p
2
p2 +β
β
sinβt
2
p2 +β
p+α
e-αt cos βt
2
p+α 2 +β
β
e-αt sin βt
2
p+α 2 +β
B-Aα Ap +B
Ae-αt cos βt + e-αt sin βt
β p+α 2 +β
2
A questo punto è chiaro come si può procedere. Una volta ottenuto il sistema di equa-
zioni differenziali risolvente per la dinamica di un circuito, lo si trasforma nel dominio
288 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
e per il condensatore:
i t = C dv
dt → Ip =pCVp -Cv0 .
-
(X.22)
i risultati ottenuti a livello formale nello studio delle reti in regime stazionario. D’altra
parte, come abbiamo visto in precedenza, ogni bipolo inizialmente non in riposo può
essere visto come un bipolo inizialmente nello stato zero, a patto di aggiungere oppor-
tuni generatori impulsivi che tengano conto delle condizioni iniziali. Queste considera-
zioni ci consentono di utilizzare il concetto di impedenza operatoriale anche nelle reti
inizialmente non allo stato zero.
Un esempio
Un esempio chiarirà meglio i diversi aspetti connessi all' applicazione di un tale meto-
do. La rete è descritta in figura. (X.1); il generatore di tensione fornisce una tensione
e(t)=10sen 4t; all’istante t=0 l’interruttore viene chiuso. In tale istante la tensione sul
condensatore è nulla, mentre nell’induttore è presente una corrente di 2A.
0,5 F vc
t=0
5Ω
5Ω 0,5 Ω 0,5 Ω
+
1H
e(t) iL i
Fig.X.1
Non essendo la rete inizialmente a riposo, possiamo ricondurla ad una rete allo stato
zero introducendo un generatore di tensione impulsiva pari a Φ0δ(t), con Φ0=Li(0-)=2
weber, così come mostrato in Fig.X.2.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 291
0,5 F vc
5Ω
5Ω 0,5 Ω 0,5 Ω
+
1H
e(t) U(t) iL
i
Φ0 δ (t)
+
Fig.X.2
La rete di impedenze operatoriali equivalente è mostrata in Fig.X.3, dove E1(p)=40/(p2
+ 16) ed E2(p)=2.
2/p
5 5
0,5 0,5
+
E 1 (p) p
I(p)
E 2 (p)
+
Fig,X.3
Essendo presenti due generatori, possiamo applicare la sovrapposizione degli effetti e
determinare la soluzione I(p) come somma delle soluzioni I1(p) ed I2(p) rispettivamen-
te delle due reti mostrate in Fig. X.4
292 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
2/p 2/p
5 5 5 5
E 2 (p)
+
Fig.X.4
Per la soluzione delle due reti in esame conviene effettuare una trasformazione triango-
lo stella del triangolo formato dalle impedenze 2/p, 0,5 e 0,5, rispettivamente, così come
mostrato in Fig.X.5.
I valori delle tre impedenze equivalenti si ricavano agevolmente applicando le classiche
formule della trasformazione triangolo-stella:
0,25 p
ZA = 1 , ZB = , Zc = 1 .
p+2 p+2 p+2
5 ZA Z C 5 5 ZA Z C 5
+ Z B+ p
Z B
E 1 (p) I1 (p) I 2 (p)
p
E 2 (p)
+
Fig.X.5
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 293
ZB + p E1 p
I1 p = ,
ZB + ZC + 5 + p ZB + p ZC + 5
5 + ZA +
ZB + p + ZC + 5
ZA + 5 E2 p
I2 p = - .
ZA + ZC + 10 ZA + 5 ZC + 5
p + ZB +
ZA + ZC + 10
Utilizzando i valori delle diverse impedenze e le espressioni delle trasformate delle ten-
sioni dei generatori, si ottiene:
p2 + 2,25p p+2
I1 p = 40 ,
p2 + 16 5 p + 11 2 p2 + 9,5 p + 11
p+2
I2 p = - 2 .
2 p2 + 9,5 p + 11
Considerando che le radici del polinomio di secondo grado al denominatore sono:
p = - 2, p = - 11/4,
tale polinomio può anche essere scritto nella forma:
2 p2 + 9,5 p + 11 = 2 p + 2 p + 11 .
4
È questa una proprietà notevole della trasformazione di Laplace: essa trasforma il pro-
dotto di convoluzione tra due funzioni del tempo in un prodotto ordinario tra le tra-
sformate delle rispettive funzioni. La relazione (X.22) esplicita ancora meglio le pro-
prietà della risposta all’impulso di una rete; la conoscenza di tale risposta, e quindi della
sua trasformata, consente di ricavare immediatamente la trasformata della risposta ad
un ingresso qualunque, mediante la semplice operazione di moltiplicazione per la fun-
zione H(p), che prende il nome di funzione di trasferimento della rete.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 295
Un metodo ibrido
A volte può essere conveniente utilizzare un metodo ibrido che sfrutta intelligentemen-
te le caratteristiche migliori delle diverse tecniche introdotte per la risoluzione dei cir-
cuiti in regime dinamico. Il metodo si basa sulle seguenti osservazioni: immaginiamo di
rendere passiva la rete che si vuole analizzare e di calcolare l’espressione della impe-
denza operatoriale vista da una coppia di morsetti della rete corrispondenti ad uno dei
bipoli a memoria. In altri termini immaginiamo che la rete sia in evoluzione libera sol-
lecitata da una condizione iniziale su uno solo dei suoi elementi con memoria.
Naturalmente, a secondo del tipo di elemento prescelto, condensatore o induttore, il
punto di vista da cui bisogna calcolare l’impedenza equivalente è diverso, come descrit-
to sinteticamente dai due schemi riportati in Fig.X.6.
Fig. X.6
L’impedenza equivalente così calcolata avrà la forma:
N(p)
Z(p) = ; (X.25)
D(p)
dove N(p) e D(p) sono due polinomi in p. Per quanto detto nei paragrafi precedenti è
evidente che le radici del denominatore D(p) individuano le costanti di tempo e le fre-
quenze caratteristiche del circuito: in altri termini sono le radici dell’equazione cratte-
ristica. Note tali radici è possibile scrivere immediatamente la soluzione dell’omogenea
nella forma (VIII).1 o (VIII.2). Se a questo punto si determina la soluzione di regime si
può scrivere la soluzione completa e quindi determinare le costanti contenute nell’inte-
grale generale dell’omogenea imponendo le condizioni iniziali. In altri termini, utiliz-
Appendici
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 299
Appendice 1
Richiami di Elettromagnetismo
e locale o differenziale:
ρ
∇⋅E = ,
ε0
∂B
∇×E = - ,
∂t (A1.2)
∇ ⋅ B = 0,
∂E
∇×B = µ0 J + ε0 .
∂t
300 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
F =qE +v × B (A1.3)
Cominciamo ora un esame più dettagliato delle equazioni introdotte partendo dalla
prima delle A1.1 e A1.2 che contribuisce, con le altre, a definire il campo elettroma-
gnetico:
302 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
ρ Q
E⋅ dS = dV = v . (A1.4)
ε0 ε0
S V
o, alternativamente:
ρ
∇⋅E = . (A1.5)
ε0
Il campo elettrico deve, dunque, in ogni punto soddisfare l’equazione integrale A1.4 o
differenziale A1.5.
Come abbiamo detto, la carica elettrica è quantizzabile; ci si aspetterebbe pertanto che
la sua distribuzione venga descritta dalla posizione di ogni singola carica nello spazio.
D’altra parte, se si assume un punto di vista macroscopico - dato che il valore della cari-
ca elementare e, ( e = 1.59 10-19 C ), e la dimensione spaziale che il suo supporto mate-
riale occupa, l’elettrone, sono tanto piccole rispetto alle cariche totali ed alle dimensio-
ni geometriche caratteristiche dei problemi che nella generalità dei casi ci troveremo ad
esaminare - si può ragionevolmente sostituire il concetto di carica elettrica q con quel-
lo di densità di carica ρ. La densità di carica è così definita: se dV è un elemento di volu-
me infinitesimo, la carica dq che esso contiene, anch’essa infinitesima, è pari a ρ dV,
dove ρ è una funzione scalare diversa da zero nelle regioni dello spazio in cui esistono
distribuzioni di cariche. Orbene l’equazione A1.5 ci dice che in ogni punto dello spazio
la divergenza del campo elettrico E, a meno della costante ε0, è pari al valore che la den-
sità di carica ρ assume nello stesso punto. La costante ε0 dipende dal mezzo materiale
presente nello spazio oltre che dal sistema di unità di misura adoperato. Nel caso del
vuoto e per il sistema SI, come si è già detto, ε0=8.856 10-12 Farad/metro.
Non vogliamo qui naturalmente dilungarci sulla definizione dell’operatore divergenza
di un vettore che diamo per già nota; ricordiamo solo che esso è il limite del rapporto
tra il flusso uscente del vettore attraverso una qualsiasi superficie chiusa S che conten-
ga il punto in cui si vuole calcolare la divergenza, ed il volume racchiuso da tale super-
ficie; il limite va inteso al tendere del volume a zero. In particolare in coordinate carte-
siane, la divergenza ha l'espressione:
∂Ex ∂Ey ∂Ez
∇⋅ E = + + .
∂x ∂y ∂z
In altri sistemùi di coordinate l’espressione della divergenza è diversa, mentre la sua
definizione intrinseca data in precedenza - come limite del rapporto tra flusso del vet-
tore attraverso una superficie chiusa che contiene il punto e volume racchiuso dalla
superficie stessa - resta sempre valida.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 303
Per quanto riguarda il flusso di un generico campo vettoriale attraverso una qualsiasi
superficie S, ricordiamo che esso si ottiene con le seguenti operazioni. Si sceglie un
verso per la normale positiva n in ogni punto della superficie, quindi per ogni elemen-
to di superficie dS si costruisce il vettore orientato n dS e lo si moltiplica scalarmente
per il valore assunto dal vettore E sull’elemento di superficie stesso. La somma di tutti
questi infiniti prodotti infinitesimi è un integrale e rappresenta appunto il flusso cerca-
to. È evidente che se si sceglie quale verso della normale quello opposto, il valore del
flusso cambia segno. In particolare per una superficie chiusa si parlerà di flusso uscen-
te o di flusso entrante nella superficie a seconda del verso scelto per la normale. Nella
A1.4, per esempio, si suppone di aver assunto per n il verso uscente e quindi si parlerà
di flusso uscente del vettore E.
Una osservazione, ancora una volta solo apparentemente banale, può essere utile: il
campo elettrico in un punto è il risultato dell’effetto di tutte le sorgenti esistenti e quin-
di di tutte le cariche nello spazio; ma la divergenza del campo elettrico in un punto è
pari al valore della densità di carica in quello stesso punto! Il campo elettrico e le sor-
genti si “adattano” in maniera tale che questa condizione sia sempre verificata. Un com-
mento analogo potrebbe essere fatto per ognuna delle altre equazioni. In effetti è pro-
prio per questa ragione che è possibile trattare i fenomeni elettromagnetici con il for-
malismo dei campi.
La A1.4 esprime le stesse proprietà della A1.5, ma in forma integrale. Qui Qv è la cari-
ca totale contenuta nel volume V racchiuso dalla superficie S, che può essere espressa
anche come integrale di volume della densità di carica. A primo membro c’è l’integrale
di superficie del campo E, che abbiamo già incontrato nella definizione della divergen-
za. Tale integrale, come si è detto viene anche chiamato flusso - termine preso in presti-
to dalla fluidodinamica, dato che se il campo è un campo di velocità v, l’integrale di
superficie rappresenta, a meno della densità di massa, la portata, cioè il flusso di fluido
che nell’unità di tempo attraversa la superficie. Nel caso dei fluidi è evidente che il flus-
so attraverso una superficie chiusa può essere diverso da zero soltanto se all’interno
della superficie chiusa sono contenute delle “sorgenti” o dei “pozzi” da cui il fluido
salta fuori o in cui scompare, (stiamo pensando, naturalmente, a fluidi incompressibili).
Per il campo elettrico dunque, in base alla (A1.5), esistono “punti sorgente” e “punti
pozzo” e sono appunto quei punti in cui sono distribuite le cariche.
La legge che abbiamo ora esaminato va sotto il nome di legge di Gauss, e ciò non per-
ché Gauss - matematico e geometra del XIX secolo - abbia avuto molto a che fare con
il contenuto fisico di tale legge, ma essenzialmente perché a Gauss viene attribuito un
teorema, che è poi quello che ci consente di passare agevolmente dalla espressione loca-
304 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
le A1.5 a quella integrale A1.4. Il teorema dice che il flusso di un vettore attraverso una
superficie chiusa è pari all’integrale di volume della sua divergenza esteso al volume rac-
chiuso dalla superficie. In formula:
E⋅ dS = ∇ ⋅ E dV. (A1.6)
SV V
Dalla forma integrale della legge di Gauss - la prima delle (A.1) - alla sua forma dif-
frenziale - la prima delle (A1.2) - si passa agevolmente utilizzando il teorema di Gauss
- la (A1.6). Si ha infatti:
ρ Q
E⋅ dS = ∇ ⋅ E dV = dV = v .
ε0 ε0
SV V V
È opportuno sottolineare che il teorema (matematica, quindi!) di Gauss non va confu-
so con la legge omonima A1.5 o A1.4 che ha invece un contenuto fisico ben preciso.
Infine vale la pena di ricordare che la legge di Gauss è del tutto (o quasi) equivalente
ad un’altra legge che prende il nome di legge di Coulomb e che è usualmente il punto
di partenza della descrizione dei fenomeni elettromagnetici. La legge di Coulomb affer-
ma che la forza di interazione tra due cariche puntiformi (cioè idealmente assunte occu-
pare un volume nullo nello spazio geometrico), ferme nel vuoto, è data dalla formula:
F= 1 q1 q2 r .
4πε0 r212
Dove q1 e q2 sono i valori delle due cariche puntiformi poste a distanza r12, 1/4π ε0 una
costante di proporzionalità che dipende dal sistema di unità di misura, ed r il vettore
che congiunge i punti dello spazio in cui si trovano le due cariche: se r va dalla posizio-
ne occupata dalla carica q1 alla carica q2 allora F è la forza che agisce sulla carica q2
dovuta alla carica q1, e viceversa.
La legge di Coulomb ci consente di sottolineare un aspetto caratteristico dell’interazio-
ne elettrica: la forza F tra due cariche puntiformi, e ferme nello spazio, non è mai nulla,
qualsiasi sia la distanza tra le cariche, purché finita. Si dice, pertanto, che l’interazione
coulombiana è a lunga distanza. Questa osservazione ci sarà utile per capire in seguito
il problema delle condizioni al contorno.
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 305
La legge di Faraday-Neumann.
B⋅ dS = 0, (A1.9)
S
oppure:
∇⋅B = 0 . (A1.10)
La A1.9, infatti, afferma che il flusso di B uscente (o entrante) da una superficie chiusa
è nullo per qualsiasi superficie purché, appunto, chiusa. Ricordando la definizione del-
l’operatore divergenza, si vede immediatamente che da tale affermazione discende -
complice il citato teorema di Gauss - che anche la divergenza di B deve essere identi-
camente nulla, come appunto stabilito dall’equazione locale equivalente A1.10. Un
campo che gode di tale proprietà si dice campo solenoidale o conservativo per il flusso,
ed in seguito diremo qualcosa di più sulle sue proprietà.1
1In effetti bisogna distinguere tra le due espressioni. Un campo vettoriale C, definito in una regione di spa-
zio V si dice solenoidale, se in ogni punto di V risulta ∇⋅ C = 0; se V è a connessione semplice allora si
avrà anche che per qualsiasi superficie chiusa S, appartenente a V, il flusso uscente, o entrante, dalla super-
fice risulterà nullo, e perciò il campo potrà dirsi anche conservativo per il flusso. Ricordiamo che un domi-
nio si dice a connessione superficiale semplice se una qualsiasi superficie chiusa contenuta in esso può
essere ridotta con continuità ad un punto senza uscire dal dominio stesso.
306 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
B⋅ dS = 0. (A1.11)
S
Scomponiamo ora il flusso uscente di
S 2γ B attraverso S in due parti, quella
Fig.A1.1 attraverso S1γ ed S2γ rispettivamente:
B⋅ dS = B⋅ dS 1γ + B⋅ dS 2γ = 0 . (A1.12)
S S1γ S2γ
B⋅ dS 2γ = - B⋅ dS ' 2γ . (A1.13)
S2γ S2γ
Dove evidentemente è dS'2γ = - dS2γ, ad indicare appunto la diversa scelta della orien-
tazione della normale. In conclusione dalla A1.11, A1.12 ed A1.13 si ottiene:
B⋅ dS 1γ = B⋅ dS ' 2γ . (A1.14)
S1γ S2γ
Cioè, per il campo B i flussi nello stesso verso attraverso le due superfici che hanno lo
stesso contorno γ sono eguali. Allora, dalla arbitrarietà delle superfici S1γ ed S2γ deriva
che, data una linea chiusa γ, è univocamente definito il flusso attraverso una qualsiasi
superficie che abbia γ come contorno. Ecco dunque spiegata l’arbitrarietà della scelta
della superficie Sγ nella A1.7. Si ricordi che ciò è vero solo per un campo conservativo
per il flusso o solenoidale in tutto lo spazio!
Torniamo ora all’esame della A1.7. A primo membro troviamo l’integrale di linea del
campo E lungo la linea chiusa γ. Ricordiamo che, analogamente a quanto fatto per il
flusso, l’integrale di linea si ottiene con le seguenti operazioni. Data una linea γ, non
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 307
necessariamente chiusa, si sceglie un verso positivo sulla stessa. In altri termini si orien-
ta la linea definendone in ogni punto il versore tangente t. Per ogni elemento di linea dl
si costruisce il vettore dl = t dl e lo si moltiplica scalarmente per il vettore E sull’ele-
mento di linea. La somma degli “infiniti prodotti infinitesimi” così ottenuti è l’integra-
le di linea cercato. Per le linee chiuse si parla di circuitazione del vettore E lungo la linea
γ. Anche in questo caso una diversa orientazione della linea porta ad un risultato oppo-
sto:
E⋅ dl = - E⋅ dl '
γ γ
con dl = - dl'. A questo punto è chiaro che la legge di Faraday, espressa dalla A1.7, pre-
suppone una relazione tra la scelta della normale positiva per il calcolo del flusso e la
scelta del verso positivo sulla linea γ, altrimenti il segno “meno” al secondo membro
non avrebbe un preciso significato. Infatti la A1.7 presuppone che la normale positiva
scelta su Sγ “veda” l’orientazione positiva su γ in verso antiorario (convenzione della
terna levogira). Si tratta di una scelta del tutto arbitraria che però, una volta fatta, con-
viene conservare per non creare confusione. La A1.7, dunque, afferma che la circuita-
zione del campo E lungo la linea chiusa γ è uguale alla derivata temporale del flusso di
B attraverso una superficie chiusa che si appoggi a γ, cambiata di segno; questo natu-
ralmente con le convenzioni specificate in precedenza.
Che la A1.8 esprima la stessa proprietà è forse meno evidente! A primo membro com-
pare l’operatore rotore. Esso ha la seguente definizione intrinseca: dato un punto nello
spazio, si consideri una delle infinite possibili rette passanti per tale punto e la si orien-
ti (versore n). Si consideri il piano ortogonale a tale retta orientata e su esso si scelga una
qualsiasi linea chiusa che contenga il punto in esame. Si calcoli la circuitazione del vet-
tore di cui si vuole il rotore e si faccia il limite del rapporto
A⋅ dl
γ
lim ,
S γ→ 0 Sγ
dove Sγ è l’area (piana) racchiusa dalla linea γ. Il limite va inteso al tendere di Sγ a zero.
Lo scalare così ottenuto è per definizione la componente del rotore, nel punto prescel-
to, lungo la direzione n. Che tale scalare possa essere considerato la componente di un
vettore sarebbe in realtà da dimostrare, ma noi lo daremo per acquisito! In particolare
le componenti di un rotore in coordinate cartesiane sono date da:
308 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
∂Az ∂Ay
∇×A x = - ;
∂y ∂z
∂Ax ∂AZ
∇×A y = - ;
∂z ∂x
∂Ay ∂Ax
∇×A z = - .
∂x ∂y
A⋅ dl = ∇ × A ⋅ dS γ (A1.15)
γ Sγ
E quindi dalla A1.7:
∂B ⋅
E⋅ dl = ∇× E ⋅ dS γ = - dS γ .
∂t
γ Sγ Sγ
volumetto è dato da dN=n(r) dV. Si consideri ora una superficie piana S nello spazio
interessata da questo moto di cariche e, per cominciare, supponiamo n(r) uniforme in
tutto lo spazio. Se vogliamo calcolare la quantità di carica che nell’intervallo di tempo
dt attraversa la superficie S, possiamo ragionare alla maniera seguente (vedi Fig.A1.2).
Costruiamo in primo luogo un cilindro con base sulla superficie considerata e superfi-
cie laterale la cui direttrice sia parallela a v e di lunghezza pari a vdt. Per costruzione
tutte le particelle che si trovano nel cilindro considerato, nel tempo dt, percorrendo lo
spazio vdt, si troveranno a passare attraverso la superficie S, mentre tutte le particelle al
di fuori del volume considerato o “mancheranno” la superficie S, oppure percorreran-
no uno spazio insufficiente ad incontrarla. Se ne deduce che il numero di particelle che
attraverseranno la superficie S nel tempo dt è pari al numero di particelle contenute nel
cilindro, cioè n S v dt cosβ, dove β è l’angolo fra la direzione di v e quella della norma-
le a S.
Dato che ogni particella porta la carica q, la carica totale che attraversa la superficie S
nel tempo dt sarà:
e nell’unità di tempo:
I = q n S v cosβ. (A1.19)
La carica che nell’unità di tempo attraversa una assegnata superficie prende il nome di
intensità della corrente elettrica, spesso semplicemente corrente elettrica, ed è misurata
in ampere (A) nel sistema SI.
Si noti che il segno di I dipende dal verso scelto per la normale su S, verso che a sua
volta è del tutto arbitrario. La corrente I avrà dunque segno positivo o negativo a secon-
da del verso scelto per la normale.
Se a questo punto definiamo un vettore J=qnv la A1.17 e la A1.18 possono essere
rispettivamente scritte:
più uniforme, e la superficie S non più piana. Basterà scomporre la superficie in tante
superfici dS - quindi per definizione trattabili come piane - e considerare per ogni inter-
vallo di velocità compreso tra v e v+dv una opportuna densità f(r,v,t) così definita:
preso un punto P nello spazio geometrico di coordinata r ed una velocità v (nello spa-
zio delle velocità!), il numero di particelle contenuto nel volumetto dr centrato intorno
a P ed aventi velocità comprese tra v e v+dv è dato da:
dN = f(r,v,t) dr dv.
dI = (J⋅ n) dS,
I= J ⋅ n dS
S
Come si vede, il concetto primario è quello di densità di corrente, mentre quello di
intensità di corrente è associato, oltre che ad un vettore densità di corrente, anche ad
una superficie S. Trattando i circuiti elettrici, si parla abitualmente di intensità di cor-
rente I senza precisare attraverso quale superficie passa il flusso di cariche; ciò è dovu-
to al fatto che tale superficie è univocamente definita dal percorso obbligato che le cari-
312 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
che hanno nel circuito e quindi è data per sottintesa. Sottolineiamo ancora che I non è
altro che il flusso di J attraverso una determinata superficie.
Abbiamo definito, dunque, il secondo tipo di sorgente del campo elettromagnetico. Ma
l’equazione A1.16, che per estensione chiameremo legge di Ampère generalizzata, intro-
duce anche una relazione tra i campi E e B analoga a quella introdotta dalla A1.7. A
svolgere un ruolo formalmente analogo a quello delle sorgenti J, compare il termine
ε0∂E/∂t, che, per analogia, chiameremo densità di corrente di spostamento. La costante
µ0 dipende ovviamente dal mezzo - vuoto nel nostro caso - e dalle unità di misura. Nel
sistema SI, come si è già detto, essa assume il valore:
µ0 = 4 π 10-7 henry/m.
la carica contenuta nel volume in esame possa variare nel tempo, dato che tale carica è
appunto l’integrale di volume della densità di carica. Infatti se scriviamo la A1.22 alla
seguente maniera:
∂E
∇ ⋅ J = - ε0 ∇ ⋅ . (A1.23)
∂t
Utilizziamo la A1.6, dopo aver scambiato di posto nella A1.23 l’operatore nabla con
quello di derivata rispetto al tempo - il che è sempre possibile essendo, nelle nostre ipo-
tesi, le coordinate spaziali e temporali indipendenti - otteniamo:
∂ρ
∇⋅ J = - , (A1.24)
∂t
di il suo flusso è indipendente dalla superficie scelta, purché si appoggi sul contorno γ.
Infine notiamo che se il campo è stazionario, cioè le derivate temporali sono nulle, la
A1.16 si può scrivere
B ⋅ dl = µ0 I (A1.26)
γ
dove I è l'intensità della corrente, cioè il flusso nell’unità di tempo delle cariche, conca-
tenata con la linea chiusa γ. Si noti che si è usata una terminologia analoga a quella intro-
dotta per il flusso di B. La A1.26 è la legge di Ampère propriamente detta.
Abbiamo dunque individuato le sorgenti del campo nelle densità di cariche elettriche e
nelle densità di correnti elettriche, e fin qui abbiamo ragionato come se esse fossero
totalmente indipendenti dal campo che esse generano, cioè imposte dall’esterno da una
qualche forza che prescinde dai valori di E e B. Ma dato che, come sappiamo dalla legge
di Lorentz, i campi E e B possono agire sulle cariche elettriche modificandone posizio-
ne e velocità, conviene distinguere almeno due tipi di sorgente:
ρ = ρest + ρint
J = Jest + Jint
Mentre le prime sono imposte da cause “esterne” al campo, le seconde dipendono dal
campo. Così in generale ρint=ρint(E,B) e Jint = Jint(E,B).
Questa distinzione è il punto di partenza della trattazione del campo elettromagnetico
nei corpi materiali. In questo caso, infatti, il campo può essere visto come quello dovu-
to a sorgenti - le cariche esistenti nel corpo materiale e le correnti ad esse connesse -
immerse nel vuoto, le quali sono, in realtà, dipendenti dai valori del campo e la loro
distribuzione deve essere uno dei risultati della soluzione del problema. Si può far vede-
re che, sotto alcune ipotesi abbastanza restrittive, ma fortunatamente molto frequente-
mente ben verificate, il tutto può ricondursi ad equazioni molto simili a quelle del
vuoto. Vogliamo qui soltanto soffermarci su di un caso particolare nel quale le ρint sono
identicamente nulle, mentre la legge di dipendenza delle Jint si riduce alla semplice rela-
zione di proporzionalità:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 315
Jint = σ E (A1.27)
I materiali per cui la A1.27 risulta verificata prendono il nome di conduttori e σ viene
detta conducibilità elettrica del conduttore. Il suo inverso ρ=1/σ prende il nome di
resistività elettrica del materiale1. La resistività si misura in ohm m, o anche in ohm
• •
In effetti la A1.27 è sempre da ritenersi valida solo in via approssimata. Si pensi alla dif-
ficoltà di valutare il campo elettrico E effettivo in ogni punto di un corpo materiale che
contiene un enorme numero di cariche elettriche. Del resto solo nel vuoto le equazioni
di Maxwell conservano quel loro aspetto di rigoroso sistema che non ammette devian-
ze. Non appena si cerca di addomesticarle per adattarle ai mezzi materiali, si va incon-
tro a numerose difficoltà, e si è costretti a ragionare su opportune grandezze medie. In
ogni caso, fortunatamente, la relazione A1.27 risulta ben verificata in numerosi mate-
riali. Cerchiamo di approfondire il suo significato.
Come si è visto, per definizione, J è proporzionale alla velocità delle cariche (natural-
mente “pesata” attraverso la loro densità ed entità). D’altra parte il campo elettrico -
vedi la legge di Lorentz - è proporzionale alla forza. Ne consegue che la A1.27 presup-
pone una proporzionalità tra la forza e la velocità, in apparente contrasto con le leggi
della meccanica che richiedono, invece, proporzionalità tra forza ed accelerazione. La
contraddizione è solo apparente in quanto la legge F = ma presuppone che la particel-
la di massa m sia libera di muoversi, non soggetta ad altri vincoli. Se ammettiamo inve-
ce che la particella sia soggetta, oltre che alla forza F, ad una qualche forma di attrito,
di “resistenza” del mezzo in cui si muove, e che tale forza di attrito possa ritenersi pro-
porzionale alla velocità v, la legge della dinamica di Newton, andrà più opportunamen-
te scritta:
F - kv = ma.
F = kv,
e quindi la proporzionalità della forza alla velocità. È quanto appunto accade, in media,
316 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
nei conduttori che soddisfano la relazione A1.27, che prende il nome di legge di Ohm
alle grandezze specifiche, o legge di Ohm in forma locale, per distinguerla da quella in
forma integrale che esamineremo tra breve. I materiali conduttori sono generalmente
dei metalli la cui struttura interna possiamo immaginare costituita da un reticolo bloc-
cato, formato da ioni che si mantengono gli uni con gli altri e che mantengono ancora
bloccati buona parte degli elettroni orbitanti loro intorno, ed una nube di elettroni,
quelli più tenuemente legati agli ioni stessi, relativamente libera di muoversi all’interno
del materiale. Nel loro moto all’interno del materiale gli elettroni liberi interagiscono tra
di loro e con gli ioni bloccati. Essi, come si dice, collidono con il reticolo (logica esten-
sione del concetto di collisione tra corpi rigidi della meccanica). Se l’effetto complessi-
vo di questa interazione è appunto tale da produrre una forza di attrito del tipo kv, si
riesce a giustificare la legge di Ohm in forma locale. Il ragionamento solo descrittivo e
qualitativo qui svolto può essere sviluppato in maniera molto più rigorosa fino ad un
riscontro numerico addirittura sorprendente. È il cosiddetto modello di Drude della
conduzione elettrica. Quel che ci preme sottolineare è che la validità della legge di Ohm
è legata al fatto che la “resistenza” offerta al moto delle cariche dal materiale è assimi-
labile ad una forza di attrito del tipo kv. Non può sorprendere, dunque, che tale legge
abbia, in realtà, un limitato campo di validità - per esempio, per effetto della tempera-
tura del corpo, k non può più ritenersi costante - ed è verificata solo da una determi-
nata categoria di materiali. Pure questi materiali sono alla base, come è noto, di tutte le
applicazioni tecniche di rilievo dell’elettromagnetismo. È vero anche, però, che i mate-
riali che non rispettano la legge di Ohm hanno una analoga importanza tecnologica
nella moderna elettronica.
Le condizioni al contorno
Riscriviamo ora le equazioni di Maxwell in forma locale tenendo conto delle conside-
razioni fatte:
ρ
∇ ⋅ E = est ,
ε0
∂B
∇×E = - ,
∂t (A1.28)
∇ ⋅ B = 0,
∂E
∇×B = µ0 σE + Jest + ε0 .
∂t
Entro i limiti di validità delle ipotesi fatte, le equazioni così scritte possono avere la
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 317
seguente lettura: i campi E ed B sono prodotti da opportune sorgenti esterne che sono
le densità di carica e le densità di corrente. Vi sono però anche termini di interazione
tra i campi E e B e tali termini sono - ∂B/∂t che compare nell’equazione di Faraday-
Neumann, e σ E ed ε0 ∂E/∂t che compaiono nella legge di Ampère generalizzata. Un
modo legittimo, ma certamente arbitrario, di vedere tali termini di interazione, è quel-
lo di assimilarli a sorgenti dei campi. Naturalmente, essendo questi termini dipendenti
dai valori dei campi, tale modo di vedere le cose è solo formale. Lo useremo, infatti, solo
per scopi classificatori. Ma non basta, occorre in genere tenere in conto un altro tipo di
“sorgente” di campo. Se ricordiamo infatti l’osservazione sottolineata in precedenza,
sulla natura “a lunga distanza” del campo coulombiano, ci convinciamo facilmente che,
a rigore, si dovrebbero affrontare solo problemi che coinvolgono tutto lo spazio, fino
all’infinito. Si pensi infatti di volere risolvere un problema di campo elettromagnetico
nella porzione di spazio racchiusa da una superficie S. Anche se le sorgenti del campo
nella regione sono note, non possiamo limitare la nostra attenzione ad esse. Altre sor-
genti, all’esterno della regione in esame, avranno anch'esse il loro effetto all’interno di
essa. A rigore dunque, bisognerebbe sempre conoscere la distribuzione delle sorgenti in
tutto lo spazio e non soltanto in una regione limitata. Ma una proprietà sottolineata in
precedenza ci fa intuire che è possibile una alternativa. Infatti è ragionevole pensare che
l’interazione tra lo spazio interno e lo spazio esterno alla regione in esame avvenga attra-
verso i valori che i campi assumono sulla superficie di separazione. Ma dato che, se sono
noti i valori dei campi, non occorre conoscere la distribuzione delle sorgenti, è imme-
diato pensare che l’azione dello spazio esterno su quello interno possa essere ricondot-
to a delle opportune condizioni al contorno, che tali campi debbono soddisfare sulla
regione di separazione. In pratica un problema in un volume limitato potrà essere risol-
to a condizione di considerare, oltre alle sorgenti esistenti nel volume stesso, quelle rap-
presentate dalle condizioni al contorno, riflesso dell’azione delle sorgenti al di fuori del
volume in esame. Tutto ciò può essere rigorosamente dimostrato utilizzando teoremi
matematici (teoremi di Green) e la struttura delle equazioni stesse.
Le equazioni di Maxwell, anche nella forma A1.28, non sono di semplice soluzione, se
non in casi molto particolari. Si tratta di equazioni differenziali alle derivate parziali,
dipendenti anche dal tempo, e dalla struttura solo apparentemente semplice. Appare
logico, quindi, porsi il problema di individuare al loro interno regimi particolari in cui
il problema in qualche modo possa semplificarsi. La prima evidente semplificazione
318 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
consiste nel porsi nelle condizioni in cui almeno uno dei tre tipi di sorgente, che abbia-
mo formalmente individuato in precedenza, può essere eliminato. È questo il caso in cui
tutte le grandezze non dipendono dal tempo e si suppone di essere nel vuoto in assen-
za di corpi conduttori. In tali condizioni tutti i termini di interazione tra i campi E e B
si annullano e le equazioni per il campo elettrico e per il campo magnetico si separano
in due sistemi distinti. Per il campo elettrico:
ρ
∇ ⋅ E = est ,
ε0 (A1.29)
∇×E = 0.
E=-∇ V (A1.32)
no tutte le rette passanti per un punto. Per ognuna di esse, opportunamente orientata,
si definisca una coordinata l e si consideri la derivata dV/dl , o meglio il modulo di essa;
per una determinata direzione tale modulo assumerà il suo valore massimo. È imme-
diato verificare che ciò accade per la direzione ortogonale alla superficie di livello
V=cost passante per il punto dato. Orbene il gradiente di V nel punto in esame è un
vettore il cui modulo è pari al massimo del modulo di dV/dl, la cui direzione è quella
in cui tale massimo viene assunto ed il verso è quello che va nel senso dei valori crescenti
di V. In coordinate cartesiane risulta:
∂V ∂V ∂V
∇ V= x + y + z.
∂x ∂y ∂z
∇ × (∇ V) = 0 .
P E ⋅ dl - E ⋅ dl ' = 0,
0
γ1 γ2
Fig.A1.3 dove dl’ = - dl. Se ne conclude, in base all’arbi-
320 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
trarietà di γ, γ1 ed γ2, che per un campo a rotore nullo, l’integrale di linea tra due punti
P e P0 non dipende dal percorso di integrazione, ma solo dai punti estremi. Se fissiamo
il punto P0 una volta per tutte, l’integrale di linea tra P0 ed un qualsiasi punto P, nel
verso che va da P0 a P, sarà una funzione scalare del solo punto P che potremo chiamare
ψ(P). Applicando lo stesso ragionamento ad un punto P distante un tratto infinitesimo
ds da P0, avremo:
E⋅ ds = dψ
e se ds = dl è nella direzione e verso di E si ha:
Edl = dψ
o anche E = dψ/dl.
A questo punto basta porre V = - ψ e ritrovare la posizione A1.32. La ragione del segno
meno è nel fatto che si vuole che il campo vada dai punti a potenziale maggiore a quel-
li a potenziale minore e non viceversa; il gradiente invece presenterebbe un andamento
opposto. Riassumendo, abbiamo fatto vedere che un campo a rotore nullo può sempre
mettersi sotto forma di un gradiente di una funzione potenziale col segno cambiato.
Inoltre abbiamo anche mostrato che in un campo irrotazionale l’integrale di linea tra
due punti è indipendente dal percorso di integrazione e può essere messo sotto forma
di differenza dei valori assunti dalla funzione potenziale nei due punti estremi:
B
E ⋅ dl = V A - V B .
A
Val la pena di osservare a questo punto che per il campo elettrico in condizioni non sta-
tiche tutto questo non è più vero. La presenza di un campo magnetico variabile nel
tempo fa sì che l’integrale di linea tra due punti A e B non è indipendente dal percor-
so, come si vede chiaramente dalla (A1.7). Non si potrà dunque a rigore parlare di dif-
ferenza di potenziale per un tale campo, e, se γ1 e γ2 sono due linee che vanno dal punto
A al punto B, si avrà:
E ⋅ dl - E ⋅ dl' = E ⋅ dl + E ⋅ dl =
γ1 γ2 γ1 γ2
∂B
= E ⋅ dl = - ⋅ dS ,
∂t
γ Sγ
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 321
dove come al solito dl e dl’ sono gli elementi di linea lungo γ2 rispettivamente nel verso
da A a B e viceversa. Converrà dunque indicare con un altro termine l’integrale di linea
del campo E quando esso non è indipendente dal percorso: si parla di tensione elettri-
ca tra i punti A e B lungo la linea γ e si conserva anche nel simbolo, TAγB , indicazione
della dipendenza dalla particolare linea scelta.
Per quanto riguarda il modello della magnetostatica ci limiteremo ad alcune osserva-
zioni.
In primo luogo il nome magnetostatica è leggermente improprio. Essendo comunque
presenti delle correnti e quindi delle cariche in movimento, è più opportuno chiamarlo
modello del campo magnetico stazionario; d’altra parte la terminologia ha radici storiche
che non vale la pena di sradicare. In effetti il modello della magnetostatica, storica-
mente, è quello che descrive il campo magnetico generato da magneti permanenti - le
familiari calamite - e da ciò prende il suo nome.
In secondo luogo, le uniche sorgenti che compaiono, a parte naturalmente quelle nasco-
ste nelle condizioni al contorno, sono le densità di corrente Jest. Le cariche elettriche
nel regime stazionario non contribuiscono come tali alla produzione di un campo
magnetico, ma solo in quanto cariche in movimento.
Facciamo, ora, un piccolo passo avanti ed introduciamo nel nostro modello anche mezzi
conduttori. Si tratterà di aggiungere nelle equazioni del campo magnetico un termine
del tipo σE. Si avrà, dunque:
∇ ⋅ B = 0,
(A1.33)
∇×B = µ0 σE + Jest .
Le equazioni della magnetostatica e quelle dell’elettrostatica non sono più, a questo
punto, indipendenti; il termine σE le lega tra di loro. Ma si tratta evidentemente di un
legame che non introduce particolari difficoltà. Infatti, le equazioni del campo elettrico
non sono cambiate; il campo elettrico è ancora irrotazionale e discende quindi da un
potenziale scalare V. Si può immaginare dunque di risolvere in primo luogo il proble-
ma di elettrostatica, ed, una volta noto il termine σE, risolvere quello della magneto-
statica considerando tale termine, ormai noto, alla stessa stregua di una densità di cor-
rente imposta dall’esterno.
Le equazioni A1.30 ed A1.33, accoppiate attraverso il termine σE, possono essere guar-
date anche da un altro punto di vista. Si supponga, per semplicità, ρest e Jest entrambe
nulle, e si ammetta di essere essenzialmente interessati alla determinazione del campo
del vettore densità di corrente J, piuttosto che alla determinazione del campo magneti-
co da essa prodotto. Le equazioni che interessano sono allora:
322 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
∇ ⋅ J = 0,
∇×E = 0, (A1.34)
J = σ E.
Utilizzando la terza delle A1.34 nella prima, si ottiene:
∇ ⋅ J = ∇ ⋅ σE = σ∇⋅ E + E⋅ ∇σ = 0. (A1.35)
Il bipolo resistore
Dove con il simbolo I = J S abbiamo indicato l'intensità della corrente, cioè il flusso di
J attraverso una generica sezione del conduttore; il verso positivo della normale alla
sezione, che è indispensabile scegliere per poter parlare di flusso, è stato assunto con-
corde a quello scelto sulla linea γ per calcolare la tensione.
Il fattore R = ρ l /S prende il nome di
A resistenza del tratto di conduttore e la
A1.37 è la legge di Ohm alle grandez-
ze globali. Nel caso più generale.pos-
siamo considerare un corpo di forma
generica e conducibilità σ e supporre
che esso sia attraversato da un flusso
di cariche (densità di corrente), che
partono tutte e arrivano tutte, in due
B
punti diversi, A e B, della sua super-
ficie. Non domandiamoci, per ora,
Fig.III.5 chi porta le cariche nel punto di
324 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
ingresso e chi le preleva dal punto di uscita. Sia I la corrente totale che entra in A. La
corrente che esce da B, in virtù della solenoidalità di J in regime stazionario (∂ρ/∂t = 0),
è ancora I se è vero che A e B sono gli unici punti di contatto del nostro corpo con l’e-
sterno.
Infatti se calcoliamo il flusso uscente di J attraverso la superficie che contorna il corpo
in esame, avremo che in ogni punto, eccetto A e B, i prodotti J⋅dS sono nulli, in quan-
to per le ipotesi fatte, la componente normale di J al contorno è nulla; nei punti A e B,
invece abbiamo un contributo finito al flusso di J, e cioè una corrente, che possiamo
indicare con I ed I’ rispettivamente. Evidentemente, nel caso idealizzato che stiamo trat-
tando assumiamo l’esistenza di una densità di corrente J infinita nei soli punti A e B in
modo tale da avere un contributo finito alla intensità della corrente in tali punti attra-
verso sezioni idealmente nulle. Le due correnti nei punti A e B debbono, dunque, esse-
re uguali per la solenoidalità di J. Per conoscere l’effettiva distribuzione del campo di
densità di corrente J all’interno del corpo bisognerebbe entrare più nel dettaglio della
geometria del problema e risolvere le equazioni del campo di corrente stazionario nel
volume considerato. Certamente però la soluzione presenterà la caratteristica di avere
tutte le linee del campo J che si raccolgono nei due punti A e B. Applichiamo ora lo
stesso procedimento, utilizzato in precedenza per il conduttore cilindrico con corrente
uniforme, ai tubi di flusso del campo J. Per ogni tubo di flusso elementare di sezione
trasversale ∆Sk, che corre lungo una generica linea γk da A a B, abbiamo:
perché lungo un tubo di flusso l'intensità della corrente ∆Ik = Jk ∆Sk è per definizione
costante, e può quindi essere portata fuori del segno di integrale. Si avrà dunque:
TAγkB
= η dl ,
∆Ik ∆Sk
Aγ kB
O, anche:
La presenza dei due termini ∂B/∂t e ∂E/∂t complica notevolmente il problema, sia per-
chè introduce un legame tra i due campi, sia perchè, rendendo rotazionale E e non sole-
noidale J, non ci consente, a rigore, di parlare di bipoli.
Non potendosi più introdurre una funzione potenziale per E, infatti, le tensioni non
sono più esprimibili come differenze di potenziale e l’integrale di E lungo una linea γ
dipende in generale dalla linea γ stessa e non solo dai due punti estremi. Sembrerebbe
quindi, e così è in effetti, che la seconda legge di Kirchhoff, cada in difetto.
E ancora, dato che il flusso di J attraverso una superficie chiusa non è nullo, ma pari al
flusso di ε0∂E/∂t, anche la prima legge di Kirchhoff viene a cadere in difetto.
La domanda che ci poniamo a questo punto è la seguente: si possono individuare con-
dizioni in cui sia ancora possibile, questa volta però solo in via approssimata, utilizzare
la definizione di bipolo anche in regime non stazionario? La risposta è affermativa e per
comprenderne le ragioni occorre approfondire quanto stiamo chiedendo.
Con riferimento alla figura A2.1, osserviamo
che l'integrale di linea del campo elettrico E,
tra i morsetti A e B di un sistema a due mor-
setti, lungo due distinte linee γ1 e γ2, differi-
sce per la derivata del flusso del campo B
attraverso una superficie S che si appoggi al
contorno costituito dall'unione delle due
linee.
Dove γ è una qualsiasi linea che va da A a B sviluppandosi tutta all'esterno del sistema,
e Sγ è una superficie che si appoggia su di una linea ottenuta chiudendo γ con una linea
che va da A a B e che giace sulla superficie S che delimita il sistema.
Analogamente, per la non solenoidalità del campo di densità di corrente, la corrente
entrante in un morsetto differisce da quella uscente per il termine legato alla variazione
del flusso della densità di corrente di spostamento:
Anche in questo caso si potrà parlare di bipolo se è possibile trascurare tale contributo
rispetto alla corrente entrante o uscente da uno dei morsetti.
In conclusione, affinchè, in regime dinamico, un sistema possa essere trattato, sia pure
con una certa approssimazione, come un bipolo, occorre che siano verificate le seguen-
ti condizioni:
rabili rispetto ad altri e per trovare le relative soluzioni approssimate. Tale tecnica pre-
vede tre passi successivi: analisi dimensionale delle equazioni che descrivono il model-
lo, riduzione in scala delle variabili dipendenti ed indipendenti, e perturbazione.
Cominciamo dal primo passo. È buona norma, quando si intende valutare il peso rela-
tivo dei diversi termini di una equazione, mettere l’equazione stessa in forma adimen-
sionale. Questo è in realtà, a sua volta, il primo passo di una metodologia che va sotto
il nome di analisi dimensionale, leggermente caduta in disgrazia, ma a torto, con l’av-
vento dei moderni mezzi di calcolo.
Cosa esattamente intendiamo con questa terminologia è semplice a dirsi. Ogni equa-
zione che abbia un qualche senso fisico mette a confronto termini che hanno la stessa
dimensione, termini cioè misurati nella stessa combinazione di determinate unità di
misura. Se scriviamo ad esempio
A + B + C = D + E + F ......,
vorrà dire che A, B, ecc. hanno tutti le stesse dimensioni, altrimenti non avrebbe senso
sommarli o confrontarli. Il semplice artificio di dividere l’intera equazione per uno dei
suoi termini, per esempio F, ci fornisce un’altra equazione, equivalente alla prima, nella
quale però compaiono solo termini adimensionali, cioè numeri puri.
È evidente dunque che ogni relazione che abbia un senso quantitativo deve potersi
ricondurre ad una forma adimensionale. Il procedimento però non è univoco. Infatti
ogni termine sommato nell’equazione formale di cui stiamo discutendo, potrà essere a
sua volta combinazione di termini con altre dimensioni. Una maniera particolarmente
significativa di rendere adimensionale una equazione è quella di dividere ogni grandez-
za che in essa compaia esplicitamente, per una grandezza della stessa dimensione presa
come riferimento. In tal modo nell’equazione risultante compaiono soltanto variabili,
dipendenti o indipendenti che siano, adimensionali e particolari combinazioni (prodot-
ti o rapporti) delle grandezze di riferimento, anche esse adimensionali. A tali combina-
zioni si dà il nome di prodotti adimensionali.
Sorge subito una domanda: perchè in ogni prodotto adimensionale, presente nella
equazione, compare una determinata combinazione delle grandezze di riferimento e
non altre? La risposta a questa domanda è spesso l’inizio di una più approfondita com-
prensione del significato dell’equazione in esame. Senza dilungarci su questo tema1, che
1Al riguardo si può consultare: C.C.Lin e L.A.Segel: Mathematics Applied to Deterministic Problems in
the Natural Sciences, Macmillan Publishing Co., Inc.,New York, 1974, e H.L.Langhaar: Dimensional
Analysis and Theory of Models, John Wiley & Sons, Inc., London, 1951.
332 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Si è usato il simbolo P per indicare la densità di carica, per ragioni che saranno subito
chiare. Naturalmente la densità di corrente è, in generale, somma di un termine dovu-
to alle correnti impresse Jext, ed un termine di corrente di conduzione σE, che rispetta
la legge di Ohm. Vi sono dunque regioni dello spazio occupato da conduttori di con-
ducibilità σ = 1/ρ.
Le variabili dipendenti che compaiono nelle equazioni, sono E, B, P,J e le variabili
indipendenti r e t, la prima nascosta dal simbolismo del operatore ∇.
Indichiamo con E, B, P, J, L e T le rispettivamente grandezze (scalari) di riferi-
mento:
L = riferimento per le lunghezze,
T = riferimento per i tempi,
E = riferimento per il campo elettrico,
B = riferimento per il campo magnetico,
J = riferimento per la densità di corrente,
P = riferimento per la densità di carica,
Le equazioni di Maxwell riscritte nelle nuove variabili, tenendo conto che ∂/∂t = (1/T ) ∂/∂τ e
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 333
dove ∇r è il gradiente rispetto alla variabile r, mentre ∇x è quello rispetto alla variabile
x. I prodotti adimensionali che si sono naturalmente posti in evidenza sono appunto α,
β, γ e λ.
Si noti che in j sono comprese sia le correnti impresse che quelle ohmiche.
Nel seguito, a volte, ometteremo il simbolo x sotto il nabla, sottintendendo che, se le
variabili sono espresse con lettere minuscole, l’operatore ∇ opera sullo spazio x=r/L e
non sullo spazio r.
Nei parametri adimensionali α e β compare la grandeza che, come è noto,
rappresenta la velocità di propagazione dei fenomeni elettromagnetici, e quindi anche
della luce, nel vuoto.
Va sottolineato che, fino ad ora, non è stato necessario dare un particolare significato
fisico alle grandezze di riferimento L, T etc. Esse possono assumere qualsiasi valore,
purché naturalmente abbiano le dimensioni richieste.
Si osservi che il tempo di riferimento T compare esclusivamente nella combinazione
che abbiamo indicato con il simbolo β e che in tale parametro compare, a numeratore,
la lunghezza di riferimento L. La chiave del discorso che vogliamo sviluppare è rac-
chiusa proprio in questa particolare caratteristica della struttura delle equazioni di
Maxwell.
Fin qui la pura adimensionalizzazione. Torniamo ora al discorso iniziale e precisamente
ai limiti di validità delle approssimazioni che ci eravamo proposti di verificare. Se met-
334 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
L’ordine di grandezza della derivata è, quindi, ω volte quello della funzione. Se ponia-
mo quindi T=1/ ω (per coerenza bisognerebbe porre T = 2≠/ω, ma è evidente che si
tratterebbe di una inutile complicazione) l’ordine di grandezza della derivata rispetto a
τ e lo stesso di quello della funzione derivata:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 335
Fig. A2.4
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 337
Fig. A2.5
Questo discorso “ingenuo” serve semplicemente a confermare l’idea, già intuibile fin
dalla analisi dimensionale, che per sistemi di dimensioni sufficientemente piccole non
sorgono problemi: anche a frequenze piuttosto elevate essi possono comportarsi come
bipoli.
È questo il punto che interessava evidenziare in prima battuta, ma, naturalmente, non
è sufficiente. In combinazione con il parametro β, infatti compare sempre anche il para-
metro α; nulla ci dice che α resti invariato al variare di β. L’analisi del comportamento
di α richiede un esame più dettagliato della struttura specifica del sistema all’interno
della sfera di raggio L. Per ora abbiamo solo evidenziato questo rapporto tra dimen-
sione del bipolo e lunghezza d’onda caratteristica della dinamica λc=cT, rapporto che
è arbitro della validità dell’approssimazione circuitale. Proviamo a metter un po’ di
numeri nelle formule. Come è noto c = 3x108 m/s quindi, anche per frequenze dell’or-
dine del MHz, λc=3.102=300 m! Ciò fa comprendere i motivi della bontà dell’appros-
simazione circuitale anche per frequenze piuttosto elevate.
338 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Per approfondire l'analisi del regime lentamente variabile, o quasi stazionario, dobbia-
mo ora necessariamente prendere in considerazione anche il parametro α. Al variare di
β, infatti, non è detto che esso resti invariato: tutto dipende da come sono stati scelti i
campi di riferimento E, J e B. Per analizzare questo aspetto supponiamo di variare
β esclusivamente modificando T, o se si vuole la frequenza f=1/T. Al variare di f, in un
sistema geometricamente ed elettricamente definito, i campi elettrici e magnetici varia-
no, non fosse altro perché variano i termini di interazione ∂B/∂t ed ∂E/∂t. Variano quin-
di anche E e B e, di conseguenza, α. Dobbiamo dunque assumere che tale parametro
sia funzione di β. A questo punto entra in gioco il terzo passo della metodologia: la per-
turbazione.
Dato che, infatti, la nostra attenzione è rivolta al campo dei parametri in cui β è picco-
lo, possiamo immaginare di sviluppare i campi caratteristici E, B e J in serie di poten-
ze di β.
dove evidentemente E 0,J 0e B 0 sono i campi quadratici medi che si ottengono nel regi-
me limite che si raggiunge per β = 0, cioè T = ° , che d’ora in poi chiameremo regime
limite stazionario.
Con riferimento all’andamento di α, possiamo distinguere essenzialmente tre casi:
E 0 ↑ 0; B 0 ↑ 0
dove, naturalmente:
Vediamo che, al tendere di β a zero, la prima delle diseguaglianze può essere soddisfat-
ta, mentre, in generale, la seconda non lo è.
Sostituendo ancora la dipendenza di α da β nelle equazioni di Maxwell in forma adi-
mensionale (solo in quelle che contengono il parametro α, naturalmente), si ottiene:
340 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Dove:
Sono le equazioni caratteristiche del modello che va sotto il nome di modello del campo
Quasi Stazionario Elettrico (Q.S.E.). In tale modello il campo E, nel limite in cui β tende
a zero e trascurando termini che vanno a zero come β2, può ancora essere considerato
irrotazionale e fatto discendere da un potenziale; inoltre le equazioni del campo elettri-
co possono essere risolte indipendentemente da quelle del campo magnetico, ed il ter-
mine ∂E/∂τ , una volta trovato E, può essere trattato come un termine “sorgente”, noto,
per il campo magnetico.
Cerchiamo ora di esaminare più a fondo le caratteristiche fisiche di un sistema nel quale
le approssimazioni descritte siano valide. In primo luogo, affinchè il campo magnetico
caratteristico, al tendere di beta a zero, sia nullo, deve, evidentemente, essere nulla, nel
regime stazionario, anche la densità di corrente caratteristica.
Ciò implica che nel regime stazionario, all’interno del sistema che stiamo considerando,
deve essere impedito il passaggio della corrente. Deve esserci, quindi, una regione carat-
terizzata dalla presenza di un dielettrico perfetto, interposta tra i due morsetti* . Il
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 341
Fig. A2.6
Non si tratta ancora, però, di un bipolo, nel senso prima descritto, in quanto la secon-
da diseguaglianza non è soddisfatta; si potrà, dunque per un tale sistema parlare di ten-
sione indipendente dal percorso di integrazione, ma non è assicurato, per qualsiasi
superficie, che la somma delle correnti entranti sia eguale a quella uscente. Basta pen-
sare per esempio ad una superficie che passi nella zona occupata dal dielettrico. Se però
ci limitiamo a considerare esclusivamente superfici che tagliano entrambi i conduttori
di accesso al sistema - se, in altri termini, consideriamo soltanto superfici tutte esterne
ad una superficie che delimita l’intero sistema in esame, e che ne caratterizza la sua
dimensione complessiva - allora è possibile fare in modo che anche la seconda disegua-
glianza sia soddisfatta. Considerando, infatti, l’equazione di continuità per la densità di
corrente, o, se si vuole, la terza equazione di Maxwell, si vede immediatamente che il
flusso del vettore J attraverso una tale superficie, e quindi anche la somma di tutte le
correnti entranti nel sistema, può essere diverso da zero solo se all’interno della super-
ficie stessa si verifica una variazione della carica totale contenuta; in particolare, quin-
di, la carica totale contenuta deve essere diversa da zero perché la corrente entrante sia
diversa da quella uscente.
342 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
I ∝ ∂E/∂t ∝ dV/dt,
ovvero:
dove, naturalmente:
Dove, naturalmente:
Compare ancora un termine in β2, che, se trascurato, porta al modello del campo Quasi
Stazionario Magnetico (Q.S.M.). In forma non adimensionale, si ottiene:
344 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
con J = Jest + σ E, in generale. Se dunque è presente la sola corrente esterna Jest, si avrà,
anche questa volta, che le equazioni del campo elettrico e quelle del campo magnetico
sono separate. Sarà possibile, almeno in linea di principio, risolvere prima quelle del
campo magnetico e, successivamente utilizzare il termine ∂B/∂τ come un termine “sor-
gente”, noto, nelle equazioni del campo elettrico.
Possiamo, anche questa volta, esaminare più a fondo la natura di un sistema fisico in cui
tale modello possa essere ritenuto valido. Perché α vada come l’inverso di β occorre,
abbiamo visto, che sia nullo il corrispondente campo elettrico nel caso statico, e diver-
so da zero quello magnetico.
Ne consegue che nel sistema in esame deve essere presente una corrente anche in regi-
me stazionario e quindi, al suo interno, deve esistere un percorso, tra un morsetto e l’
altro, che si sviluppa tutto in materiale conduttore. Ma c’è di più: dato che il campo
elettrostatico deve essere nullo, il conduttore interessato da corrente deve essere per-
fetto.
Fig. A2.7
È chiaro, a questo punto che il sistema “ricorda” un induttore, come schematicamente
rappresentato in Fig. A2.7; ma dal nostro punto di vista esso non può essere ancora
considerato un bipolo. Infatti mentre la condizione sulle correnti è certamente verifica-
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 345
ta, non lo è in generale quella sulle tensioni. Sviluppando infatti l’integrale di linea del
campo lungo una linea chiusa - che si chiuda, appunto, all’interno, lungo il conduttore
- si ha che il contributo, dovuto al tratto interno della linea, è nullo, a causa della pre-
senza del materiale conduttore, e, quindi, la circuitazione coincide con la tensione ai
morsetti che è, a sua volta, pari alla derivata del flusso concatenato dalla linea chiusa.
Tale flusso, però, dipende dalla scelta della linea nel suo tratto esterno.
D’altra parte, immaginiamo di suddividere la superfi-
cie che si appoggia sulla linea chiusa in due distinte
parti, in maniera tale che una delle parti, quella che
chiameremo esterna, si appoggi sul tratto esterno
della linea γ e su di una linea che giace sulla superficie
che delimita il nostro sistema, così come mostrato in
Fig. A2.8.
Con questa suddivisione potremo distinguere due
contributi alla derivata del flusso.
dove, naturalmente:
È quello che possiamo a buon diritto chiamare modello del campo Quasi Stazionario
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 347
di Corrente (Q.S.C.). Anche se le sue equazioni coincidono con quelle del campo sta-
zionario di corrente, si ricordi che in questo caso i campi non sono costanti nel tempo.
L’elemento nuovo che si presenta, quando α resta finito al tendere di β a zero, è la pre-
senza di un mezzo a conducibilità finita. Infatti, come abbiamo già detto, in questo caso
debbono essere non nulli tutti i campi nel limite stazionario:
Il fatto che J 0 sia diverso da zero, implica la presenza di un conduttore; d’altra parte,
la presenza di un campo elettrico anche nel limite stazionario, richiede che tale con-
duttore sia “non perfetto”.
È evidente, a questo punto, che l’analisi non può più spingersi oltre, e non può essere
chiarita la natura fisica del sistema che consenta le approssimazioni descritte, se non si
identifica un opportuno modello per la conduzione all’interno del sistema stesso. Sarà
tale modello che determinerà la caratteristica del bipolo in esame.
Supponiamo, per esempio, di poter ritenere adeguato un modello di conduzione di tipo
ohmico:
J = σ E.
Inserendo tale relazione nelle equazioni di Maxwell in forma adimensionale, e nel limi-
te in cui β tende a 0 ed α ad α0, si ottiene:
348 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
dove
ν = µ0Lσ c,
Per cui:
Fig. A2.9
o anche:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 349
ν >> α02β.
τm = µ0σ a2 << T.
In pratica, se il tempo caratteristico τm, che prende il nome di tempo di diffusione del
campo magnetico attraverso la dimensione trasversale del conduttore, è trascurabile
rispetto al tempo caratteristico del fenomeno in esame, allora è possibile ritenere prati-
camente nullo il rotore del campo elettrico ed assumere, anche all’interno del materia-
le conduttore, un modello Quasi Stazionario di Corrente. Si noti che la condizione tro-
vata può anche essere espressa, introducendo lo spessore di penetrazione,
nella forma:
V∝E∝J∝I;
In altri termini V= RI (sarebbe opportuno in tal caso scrivere v(t) = R i(t), per ricorda-
re che le grandezze tensione e corrente sono, in generale, variabili nel tempo), ed il siste-
ma in esame è un resistore ideale, come mostrato in Fig. A2.10.
Si possono, naturalmente, studiare anche tutte le altre possibili combinazioni dei diver-
si comportamenti all’interno del conduttore ed all’esterno di esso, rispettivamente.
Senza dilungarci sull’argomento, consideriamo solo il caso, peraltro molto importante
sul piano pratico, in cui all’interno del conduttore sia da ritenersi valido un modello
Q.S.C., mentre all’esterno non sia legittimo trascurare il termine ∂B/∂t, e quindi si
renda necessario un modello Q.S.M..
350 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Fig. A2.10
In tale caso, utilizzando ancora la scomposizione dei flussi concatenati precedentemen-
te descritta, avremo:
Nella ipotesi di poter trascurare, anche in questo caso, il contributo dovuto al flusso
esterno, la tensione ai morsetti è somma di due termini: il primo, essendo proporziona-
le al campo E nel conduttore - dove si è supposto valido un modello Q.S.C. -, attraver-
so il legame imposto dalla legge di Ohm alle grandezze specifiche, è proporzionale alla
corrente totale I; il secondo, che dipende dalla derivata del flusso, risulta invece pro-
porzionale a dB/dt e, quindi, a dI/dt, perché all’esterno del conduttore si è supposto
valido un modello Q.S.M. In conclusione:
Appendice 3
I generatori
Senza pretendere di superare i limiti che ci siamo posti, in questo paragrafo cerchere-
mo di analizzare in maggior dettaglio la natura di quei bipoli che abbiamo detto attivi,
o bipoli generatori. In regime stazionario l'elemento caratterizzante un bipolo attivo
consiste nel fatto che esso, pur avendo assunto una convenzione dell'utilizzatore, può
in alcune condizioni di funzionamento assorbire una potenza negativa. Implicitamente
ciò significa che in determinate condizioni le cariche positive possono andare dai punti
a potenziale inferiore a quelli a potenziale superiore; contro le forze del campo stazio-
nario E. Perché ciò accada è necessario che nel bipolo agisca un'altra forza, di natura
diversa, che potremmo immaginare discendere anche essa da un campo elettromotore
Em, di modo che si possa immaginare che la forza totale è dovuta ad un campo totale:
Et = E + Em.
Facciamo vedere, in primo luogo, che, anche in regime stazionario, un tale campo elet-
tromotore non può essere irrotazionale. Consideriamo infatti un tubo di flusso del
campo di corrente J di sezione ΔS e supponiamo, per assurdo, che esso si sviluppi tutto
in una regione dello spazio occupata da un materiale caratterizzato da una resistività ρ.
Se anche il campo elettromotore fosse irrotazionale o conservativo per il lavoro, si
avrebbe:
con:
352 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Et = ρ J .
Il lavoro compiuto dal campo per portare JΔS cariche nell’unità di tempo lungo la linea
chiusa, attorno alla quale il tubo si sviluppa, è:
E + Em = 0.
re a vuoto non è costante nel tempo, se cioè supponiamo che il campo elettrico E sia in
grado di seguire istantaneamente le variazioni del campo elettromotore Em, le conside-
razioni sviluppate in precedenza restano ancora valide. Avremo così un generatore idea-
le che invece di fornire una tensione costante ai suoi morsetti indipendentemente dalla
corrente che eroga, fornirà una tensione variabile nel tempo con una legge che non
verrà in alcun modo modificata dalla corrente che istante per istante il generatore stes-
so si troverà ad erogare. L’idealità sta, in pratica, nell’aver ipotizzato di poter vedere un
fenomeno dinamico che si sviluppa nel tempo come una successione di stati di equili-
brio statico, istante per istante; è quella che generalmente viene detta ipotesi di adiaba-
ticità.
È interessante vedere come sia possibile immaginare di realizzare un tale generatore di
tensione variabile anche senza far appello a fenomeni che esulino dal campo dell’elet-
tromagnetismo; ciò ci riporterà anche alla nostra scelta di privilegiare i regimi sinusoi-
dali.
Consideriamo una spira sottile di materiale conduttore che si muove in un campo
magnetico costante nel tempo. Ogni carica in essa presente è soggetta alla forza qv x B
se v è la velocità della carica stessa. Questa forza pur essendo di natura elettromagneti-
ca non è dovuta al campo elettrico irrotazionale E, e può essere trattata come una forza
dovuta ad un campo elettromotore Em= v x B. Consideriamo la forza elettromotrice
(f.e.m.) da essa prodotta:
Scomponendo la velocità v della carica in una componente parallela alla spira - paralle-
la a dl quindi - ed una u eguale alla velocità stessa della spira, e considerando che la
componente lungo dl non dà contributo alla f.e.m. essendo il suo prodotto vettoriale
con B ortogonale a dl stesso, si ottiene:
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 355
Fig.A3.3
o anche:
dove:
e quindi:
Immaginiamo ora un sistema in cui la situazione descritta sia limitata ad una regione
dello spazio: una spira rettangolare, per esempio, che ruoti con velocità angolare ω
uniforme in una regione interessata da un campo magnetico costante nel tempo.
Fig.A3.4
Supponiamo ancora che, attraverso un sistema di contatti striscianti del tipo mostrato
schematicamente in Fig.A3.4, si riesca a collegare le estremità della spira a due morset-
ti A e B fermi. In queste condizioni tra i detti morsetti si presenterà una forza elettro-
motrice, o tensione a vuoto, pari a:
cioè una tensione a vuoto di tipo sinusoidale. Questo è il principio fondamentale di fun-
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 357
Appendice 4
Il flusso Φi di cui alla suddivisione descritta nella figura A2.8, è il flusso del campo
magnetico attraverso la superficie che si appoggia sulla linea che abbiamo detta inter-
na. Nel caso di un solo avvolgimento, il campo magnetico è prodotto dalla corrente che
attraversa l'avvolgimento stesso; ne consegue, in presenza di mezzi lineari, la propor-
zionalità tra flusso e corrente che ci ha consentito di definire il coefficiente di autoin-
duzione L. Se però il campo magnetico B è prodotto anche da altre sorgenti, bisognerà
tenerne conto nel calcolo del flusso concatenato ed esso non sarà più proporzionale alla
corrente che circola nell'avvolgimento.Si supponga, per esempio, che in prossimità del
primo avvolgimento se ne trovi un altro, di modo che alcune delle linee del campo pro-
dotte dalla corrente nel secondo avvolgimento si concatenano anche con il primo, così
come è mostrato in figura A4.1.
360 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Φ11 = flusso concatenato con il primo circuito, prodotto dalla corrente nello
stesso primo circuito;
Φ22 = flusso concatenato con il secondo circuito, prodotto dalla corrente nello
stesso secondo circuito;
Φ21 = flusso concatenato con il secondo circuito, ma prodotto dalla corrente
nel primo circuito;
Φ12 = flusso concatenato con il primo circuito, ma prodotto dalla corrente nel
secondo circuito.
Fig.A4.2
Infatti il segno del flusso di mutua induzione dipende sia dalla convenzione scelta per
il primo circuito che da quella per il secondo; quindi, anche se per il calcolo del flusso
si conviene di scegliere sempre come verso positivo della normale quello che vede il
Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica 361
verso positivo della circuitazione in senso antiorario (terna levogira), resta ancora un
grado di libertà nella scelta delle due normali relative ai due circuiti, così come è
mostrato in figura A4.2.
Il flusso totale concatenato con ognuno dei due avvolgimenti è dato dalla somma dei
due contributi:
Nelle stesse ipotesi descritte nell'appendice A2, dalle A4.1, derivando, si ottengono le
tensioni ai morsetti dei due avvolgimenti:
Le A4.2 sono le relazioni caratteristiche del doppio bipolo accoppiamento mutuo già
introdotte nel capitolo VI. In quella stessa sede abbiamo dimostrato che necessaria-
mente deve essere: M21 = M12 = M.
Le linee del campo B, prodotto da un avvolgimento, che non si concatenano con l'altro
sono, evidentemente, non produttive ai fini dell'accoppiamento mutuo tra i due circui-
ti. Si dice che esse danno luogo ad un flusso disperso, concetto che cercheremo ora di
definire in modo più rigoroso.
Osserviamo in primo luogo che, per consentire il migliore accoppiamento fra i due cir-
cuiti, occorre che essi siano a distanza ravvicinata o che, potendo, le linee del campo
prodotto da uno dei due avvolgimenti siano in qualche modo incanalate verso l'altro.
Ciò è in realtà possibile utilizzando opportuni materiali (ferromagnetici), le cui pro-
prietà, però, non possiamo in questa sede analizzare. Basti dire che, in pratica, tali mate-
riali si comportano per le linee del campo B alla stessa maniera in cui possiamo imma-
ginare facciano i materiali conduttori per le linee del campo di densità di corrente J. In
ultima analisi, un accoppiamento mutuo può immaginarsi realizzato con due avvolgi-
menti di spire, molto ravvicinate, avvolti su di un supporto materiale che ha il compito
di guidare le linee del campo B. In queste condizioni è abbastanza facile comprendere
che se Φ è il flusso concatenato con N spire di tale tipo, esso sarà praticamente uguale
ad N volte il flusso che si concatena con una sola spira, immaginata virtualmente chiu-
362 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
sa. In ogni caso è sempre possibile definire un flusso medio Φm=Φ/N, il cui valore, per
quanto detto, sarà molto prossimo al flusso concatenato con ogni singola spira.
Considerando l'insieme dei due avvolgimenti, di N1 ed N2 rispettivamente, potremo
definire i seguenti flussi medi:
Se tutte le linee del campo prodotte dalla corrente i1 si concatenano con il secondo
avvolgimento, si dovrà avere: Φ21m = Φ11m. Analogamente, se ciò accade per il campo
prodotto da i2 sul primo avvolgimento, si avrà: Φ12m = Φ22m. Se entrambe queste rela-
zioni sono soddisfatte, si dice che i due avvolgimenti costituiscono un accoppiamento
perfetto. È facile verificare che in tal caso deve aversi: M = L1 L2, relazione già trovata
per altra via nel capitolo IV.
Se invece tale condizione non è verificata, si potranno definire dei flussi dispersi prima-
ri e secondari:
La loro entità è misura del grado di accoppiamento dei circuiti. È facile verificare che:
Prefazione I
Introduzione 1
Capitolo primo
I bipoli 15
Le leggi di Joule 17
Esercizi 23
Altri bipoli 23
Esercizi 31
Capitolo secondo
Le reti elettriche 33
La prima legge di Kirchhoff 34
La seconda legge di Kirchhoff 35
366 Luciano De Menna Corso di Elettrotecnica
Capitolo terzo
Il teorema di Tellegen 53
Le proprietà di non amplificazione 56
Sovrapposizione degli effetti 57
Generatori equivalenti di tensione e di corrente 61
Reciprocità nelle reti elettriche 66
Esercizi 67
Metodi sistematici per la risoluzione delle reti 68
Esercizi 76
I resistori nella loro realizzazione concreta 78
Il proporzionamento dei conduttori 82
Gli strumenti di misura visti come bipoli 84
Esercizi 86
Capitolo quarto
L'n-polo 87
Esercizi 97
L'N-bipolo o N-porte 97
Esercizi 107
I generatori dipendenti o pilotati
e gli amplificatori operazionali 108
Esercizi 116
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
Appendice 1
Appendice 2
Appendice 3
I generatori 351
Appendice 4