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La gran parte di noi concorda sul fatto che avere una polmonite, un'ulcera, uno scompenso
ormonale siano condizioni da evitare, costituiscano sempre un danno per la nostra esistenza e la
nostra persona. Questo accordo generalizzato non esiste invece per le malattie mentali. Non tutti
considerano la tristezza, l'ansia, la mania o anche le allucinazioni come condizioni da evitare
sempre, come danni. Anzi taluni giudicano queste condizioni come un elemento essenziale nella
vita umana. Alcune culture e certe epoche storiche hanno addirittura elevato a virtù certi tratti di
temperamento che noi oggi riteniamo patologici.
Questa vistosa differenza tra la considerazione dei disturbi somatici e la percezione dei disordini
psichiatrici mette in rilievo il ruolo fondamentale dei valori e della cultura nelle concettualizzazioni
della psichiatria, in particolar modo sulla nosologia e sulla definizione delle soglie di intervento.
Indipendentemente dalla alterazioni fini a livello neurobiologico che le nuove potenti tecnologie di
indagine riscontrano in occorrenza ai distrubi psichiatrici, le condizioni psichiatriche rimangono
inestricabilmente legate alle dimensioni normative e culturali, sotto un duplice rispetto: 1) a livello
dei fattori psicosociali (modellati sulle rappresentazioni culturali) che intervenendo sul sistema
nervoso concorrono ad innescare i processi patogenetici e a dare forma ai sintomi; 2) a livello delle
descrizioni nosografiche, indicando via via i limiti del comportamento ritenuto normale, la
deviazione e la norma e quindi il territorio di indagine e spiegazione da assegnare alla psichiatria.
In questo senso lo psichiatra è tenuto a considerare costantemente le variabili etiche e culturali che
caratterizzano l'epoca e l'ambiente in cui lavora, per comprendere meglio e trattare più
efficacemente la natura complessa della condizione che il paziente gli rappresenta attraverso i
sintomi.