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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI


Corso di Laurea Magistrale in Culture moderne comparate

UNIVERSITE SAVOIE MONT BLANC


FACULTE DE LETTRES LANGUES ET SCIENCES HUMAINES
Master Langues, littératures et civilisations étrangères

Tesi di Laurea
Mémoire de Master

I racconti di Curzio Malaparte


Letteratura italiana contemporanea

Relatrice:
Chiar.ma Prof.ssa
Beatrice MANETTI

Candidata:
Beatrice BAGLIVO

Anno Accademico 2014/2015


Indice
Introduzione ..................................................................................................................... 3
1. Questioni editoriali ...................................................................................................... 7
1.1 Tra giornalismo e letteratura ................................................................................. 7
1.2 Gli inizi del Malaparte narratore ......................................................................... 13
1.3 «Una passeggiata meravigliosa».......................................................................... 23
1.4 Progetti inconclusi, riedizioni, studi ..................................................................... 42
2. Diverse tipologie di racconti ...................................................................................... 47
2.1 L’invenzione .......................................................................................................... 49
2.2 L'autobiografia ..................................................................................................... 61
2.3 La storia ................................................................................................................ 72
2.4 I bozzetti ................................................................................................................ 82
2.5 Il mito .................................................................................................................... 88
3. Un genere ibrido ........................................................................................................ 92
3.1 Fra tradizione e innovazione ................................................................................ 92
3.2 Una forma privilegiata ....................................................................................... 102
Appendici ..................................................................................................................... 111
A. Cronologia dei racconti e degli articoli di Curzio Malaparte apparsi sulla terza
pagina della «Stampa» e del «Corriere della Sera» tra il 1928 e il 1940................ 111
B. Riproduzioni dei cinque articoli pubblicati sulla «Stampa» nel 1928 ................. 124
Bibliografia .................................................................................................................. 129

2
Introduzione
Questo lavoro si propone di analizzare la produzione breve di Curzio Malaparte
negli anni Trenta, un corpus di sessanta racconti contenuti in quattro raccolte: Sodoma e
Gomorra, Fughe in prigione, Sangue e Donna come me. L'analisi di tali racconti ci
sembra necessaria in virtù del fatto che essi rappresentano la prima tappa del percorso
letterario malapartiano, e tuttavia la critica ha finora riservato loro scarsissima
attenzione. Prendere in seria considerazione i testi dimenticati di uno degli autori più
significativi del Novecento italiano ci sembra un modo per contribuire ad attribuirgli il
ruolo che merita nel panorama letterario europeo. I pochi e troppe volte sbrigativi
giudizi critici sull'opera letteraria dello scrittore sono una delle ragioni che ci hanno
spinto ad affrontare uno studio sistematico della sua prima produzione, con l'obiettivo di
dimostrare che, a differenza di ciò che generalmente si crede, questa rappresenta nel suo
percorso un'esperienza fondamentale.
Prima di descrivere il lavoro, s'impone una breve nota sulla difficoltà di
reperimento dei materiali necessari a uno studio scientificamente fondato. Una delle
sorelle dell'autore, Edda Ronchi Suckert, dopo la morte di Malaparte ha trascritto e
pubblicato in dodici volumi diecimila pagine di carte inedite, tra cui lettere, articoli,
bozze, frammenti e varianti delle opere più note. Questo materiale, trascritto con
devozione ma senza grande scrupolo filologico, dovrebbe essere confrontato con i
documenti originali (300 faldoni contenenti manoscritti, dattiloscritti, ritagli di giornale,
lettere e documenti privati), conservati presso la Biblioteca di Via Senato a Milano. Dal
2009 l'Archivio Malaparte aveva cominciato ad essere inventariato, ma dal 2014 è stato
posto sotto sequestro - poiché pesa sul suo proprietario, Marcello Dell'Utri, una
condanna giudiziaria - e risulta a tutt’oggi inaccessibile. Come nota Maurizio Serra,
«siamo solo ai primi passi di un'edizione scientifica degli scritti di Malaparte»1: i
ricercatori che si accingono a inoltrarsi nell'universo malapartiano sono dunque
obbligati a fare i conti con due diversi tipi di difficoltà: da un lato quella di accedere
direttamente ai documenti originali, dall'altro la quasi totale assenza di studi scientifici
in quest'ambito.

1
M. Serra, Malaparte. Vite e leggende, Venezia, Marsilio, 2012, p. 33.

3
*

Per quanto riguarda il nostro lavoro, esso è strutturato in tre capitoli. Nella prima
parte, a carattere prevalentemente storico-biografico, sono ripercorse e contestualizzate
la genesi e l’iter editoriale delle quattro raccolte nell'arco di tempo che va dal 1928 al
1940. Questo decennio rappresenta un periodo particolarmente ricco di esperienze per lo
scrittore che, dopo il licenziamento dalla «Stampa» e l'assunzione al «Corriere della
Sera», vive un periodo difficile a ridosso del suo confino a Lipari, e, dopo la
liberazione, una stagione particolarmente creativa che coincide, tra le altre cose, con
l'avvio della rivista «Prospettive. Il capitolo si pone come obiettivo quello di mettere in
luce come l'avvio della carriera del narratore Malaparte sia indissolubilmente legato alla
dimensione giornalistica. Come confida in una biografia del 1946, egli è «vittima della
terza pagina, cioè della pagina letteraria dei giornali»2 e tutte le sue raccolte sono infatti
composte, almeno in parte, da racconti precedentemente pubblicati sui due suddetti
quotidiani.
Grazie alla consultazione dell'Archivio storico della «Stampa», abbiamo potuto
verificare che proprio in questi anni Malaparte pubblica i suoi primi articoli a carattere
letterario, raccolti nel 1931 in Sodoma e Gomorra, mentre il raffronto tra i materiali
contenuti nei primi cinque volumi curati dalla sorella Edda e i carteggi inediti tra
Malaparte e la direzione del «Corriere» - conservati all'Archivio storico del quotidiano -
ci ha permesso di ricostruire le vicende editoriali riguardanti le altre tre raccolte. Fughe
in prigione, Sangue e Donna come me sono pubblicate rispettivamente nel 1936, nel
1937 e nel 1940: avvalendoci di un successivo confronto con le pubblicazioni del
«Corriere» di quegli anni, abbiamo potuto stilare una cronologia completa degli articoli
e dei racconti pubblicati fino al 1940. L'analisi delle questioni editoriali ci ha permesso
di riscontrare la presenza di racconti inediti e le modifiche apportate dall’autore ai
racconti già usciti sul giornale in vista della pubblicazione in volume; per ognuna delle
raccolte, inoltre, abbiamo dedicato una sezione alla ricezione critica, dalla quale emerge
come il grande entusiasmo con cui vengono originariamente accolte è sostituito da
un'accoglienza meno calorosa da parte dei critici successivi. Nell'ultimo paragrafo
abbiamo invece descritto brevemente le altre raccolte che Malaparte aveva intenzione di
2
C. Malaparte, Memoriale 1946, in Id., Malaparte II, a cura di E. R. Suckert, Firenze, Ponte alle Grazie,
1992, pp. 306-307.

4
pubblicare negli anni Trenta, ma che vedranno la luce più tardi, nonché le edizioni
successive dei racconti e lo stato attuale degli studi letterari malapartiani.
Partendo dal presupposto che manca, all'interno delle quattro raccolte prese in
esame, una vera e propria continuità tematica, nella seconda parte del lavoro abbiamo
individuato cinque differenti tipologie narrative: ampi insiemi che contengono testi
anche molto diversi fra loro, ma che possiedono una caratteristica comune, ovvero
possono essere situati nell'ambito dell'invenzione, dell'autobiografia, della storia, del
bozzetto o del mito. Tali tipologie, derivanti da una sistematizzazione assolutamente
personale, non sono da intendersi come dei sistemi del tutto separati tra loro, ma come
gruppi comunicanti attraverso intersezioni e punti d’incrocio; precisiamo che è questo
soltanto uno dei modi possibili per analizzare il corpus dei racconti, adeguato tuttavia, a
nostro avviso, a rendere conto in modo chiaro dei punti cardine dell'ispirazione narrativa
malapartiana.
Attraverso un'approfondita analisi testuale di un campione di racconti per ogni
tipologia emerge come, benché non si possa prescindere dall'eterogeneità di ciascuna,
queste posseggano diversi tratti comuni. In ogni macro-categoria l’interesse dell’autore
è di solito ben definito e si delineano, nell'accumulo di ispirazioni, alcuni elementi
fondamentali della tecnica narrativa e dello stile malapartiano: si riflettono nei suoi testi
da un lato l'interesse per il realismo magico e il surrealismo, il gusto per la sorpresa,
spesso anche scioccante, violenta e perturbante, dall'altro la passione per le figure e le
situazioni marginali all'interno della storia. Si aggiungono inoltre la passione per la
descrizione, ora lirica ora realistica, e un tono sempre distaccato, in bilico tra patetismo
e ironia. Malaparte tende inoltre a conferire al proprio personaggio una posizione
privilegiata per via del proprio ruolo di narratore e protagonista delle vicende che vive:
l'autobiografismo è sempre presente e, sopra tutto il resto, svetta il gusto per la
narrazione, che può rendere degno di nota, mescolando realtà e invenzione, ogni tipo di
spunto. L'analisi permette dunque a nostro avviso di rintracciare molti elementi che
ritornano nella prosa romanzesca: ragione che ci spinge a considerare l'esperienza
narrativa malapartiana di questi anni un vero e proprio laboratorio prima del definitivo
approdo al romanzo.
Una delle caratteristiche più evidenti della prosa romanzesca malapartiana è la
discontinuità, che ci sembra derivare proprio dall'esperienza della forma breve:

5
nell'ultimo capitolo affrontiamo infatti alcune questioni formali per tentare di collocare
Malaparte nel panorama letterario italiano. Una prima ricognizione generica, che tiene
conto delle definizioni introdotte dai teorici del genere - Pirandello, Ejchenbaum,
Lukács e Luperini - è volta a confermare l'appartenenza a pieno titolo della produzione
breve malapartiana alla tradizione del racconto moderno, e non semplicemente, come
alcuni critici degli anni Trenta hanno sostenuto, a quella della prosa d'arte. Dopo un
esame degli elementi tradizionali e quelli innovativi, rispetto al genere, abbiamo infine
esaminato come la brevità di questa forma, che per Malaparte è privilegiata, agisca negli
anni Quaranta sul romanzo. A partire dall’analisi del capolavoro del 1944, Kaputt,
abbiamo messo in rilievo gli elementi che ci spingono a ritenere che il romanzo nasca in
quanto diretta prosecuzione del racconto. La forma breve esercita un'influenza di tipo
disgregante: l'impianto romanzesco, privo di trama unitaria, risulta infatti costituito da
piccoli nuclei narrativi autonomi. Ricostruendo l'itinerario che ha condotto l'autore fino
ai romanzi della maturità, abbiamo inteso dimostrare come, differenza di ciò che
generalmente si crede, si tratti di un percorso di maturazione senza cesure, non solo sul
piano tematico ma anche su quello formale. Queste prime esperienze contengono già
tutti gli ingredienti fondamentali della scrittura malapartiana e vanno dunque
considerate il terreno fertile dove i grandi romanzi affondano le loro radici.

6
1. Questioni editoriali

1.1 Tra giornalismo e letteratura

Il rapporto tra letteratura e giornalismo rappresenta, come sottolinea Luigi


Martellini nell’unico lavoro ad oggi interamente dedicato ai racconti di Malaparte, «un
punto non ancora chiarito ed estremamente controverso»3 della sua produzione. Dal
momento che fu proprio sulle pagine dei giornali che Malaparte sperimentò anche la
scrittura narrativa, i due ambiti sono intrecciati per la loro stessa natura e non possono
essere considerati separatamente. Essendo dunque la nascita di Malaparte narratore
profondamente legata alla sua esperienza giornalistica, la sua produzione breve non può
essere analizzata senza prima considerare lo spazio in cui egli mosse i suoi primi passi.
Curzio Malaparte, nato Kurt Erich Suckert a Prato nel 1898 - da padre tedesco e
madre lombarda, ultimo di cinque figli - dimostrò fin da molto giovane una passione per
il giornalismo che lo condusse a collaborare lungo tutto il corso della sua vita con
testate giornalistiche di varia importanza. Dopo la primissima esperienza del
«Bacchino», giornale socio-politico e satirico da lui fondato al Liceo insieme ad alcuni
compagni, abbandonò la scuola e si arruolò a diciassette anni nella Legione garibaldina
e poi nella Brigata delle Alpi, scrivendo fin dal 1915 dei resoconti di trincea che
vennero pubblicati sul settimanale pratese «La Patria» e sul foglio militare «Giornale
del Soldato italiano in Francia», oltreché delle poesie patriottiche che apparvero su «Il
resto del Carlino», «La perseveranza» e «La Nazione»4.
Decorato per i suoi meriti militari e svolte attività diplomatiche in Polonia alla
fine della guerra, Malaparte si trasferì a Roma nel 1920. Nella capitale riprese servizio
al Ministero della guerra, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e fondò la rivista
«Oceanica», principale mezzo di diffusione dell’Oceanismo, che nelle intenzioni

3
L. Martellini, Malaparte narratore, in Id., Nel labirinto delle scritture, Roma, Salerno, 1996, p. 119.
4
La guerra rappresentò per Malaparte un serbatoio di esperienze al quale avrebbe attinto anche per molti
dei suoi scritti successivi. Come vedremo, fu nominato Comandante della Brigata nel 1917, partecipò alla
battaglia del Col di Lana guadagnandosi una lesione polmonare che gli avrebbe arrecato gravi problemi
durante tutto il resto della vita, assistette inoltre alla disfatta di Caporetto e al massacro di Bligny. Di
ritorno dalla guerra insieme alla Brigata a Saint-Hubert, in Belgio, fu incaricato di redigere la storia
ufficiale del Corpo di spedizione italiano. Con i commilitoni fu inviato in Renania: lì, trasformatosi
rapidamente da soldato a diplomatico, si fece assegnare alla delegazione italiana al Consiglio superiore di
guerra e partì per Parigi; da dove, terminata la conferenza di pace, fu nominato addetto alla Legione
d’Italia e inviato a Varsavia.

7
avrebbe dovuto essere «il più moderno movimento artistico-filosofico d’Europa»5, e del
quale in realtà Malaparte fu inventore e unico sostenitore. Sono gli anni in cui egli,
continuando a cercare la propria posizione e il proprio ruolo nella società, cominciò a
mostrare il temperamento estroso di un dandy «che sotto sotto se ne [infischiava]
altamente dei cenacoli e delle teorie d’avanguardia. Ciò che [voleva era] conquistare il
grande pubblico. […] Politicamente, [brancolava] nel buio»6. Nel 1921 pubblicò Viva
Caporetto!7, opera in cui dimostrò per la prima volta che le proprie capacità espressive
si basavano soprattutto su quella che Giuseppe Panella ha chiamato «l’estetica dello
choc»8, ovvero il bisogno di stupire a tutti i costi 9. Dal momento che il giornalismo e la
polemica continuavano a entusiasmarlo molto più della vita accademica, nel 1922
abbandonò l’università e cominciò a vivere di collaborazioni giornalistiche. Scrisse
molto e, per farsi conoscere, su più testate possibile. Collaborò infatti con «Il Mondo»
dell’antifascista Giovanni Amendola, ma anche con giornali allineati al regime quali «Il
Mattino», «Il Tempo» e «La Nazione»10. S’iscrisse al Fascio di Firenze, ma ciò non gli
impedì di collaborare con «Energie nuove» e «Rivoluzione liberale», diretti da Piero
Gobetti, che gli pubblicò anche, nel 1925, Italia Barbara, dove ancora una volta era
evidente che la sua volontà di stupire il lettore «con asserzioni brillanti e fantasiose»11
andava a scapito della verità e della «logica dell’esposizione»12. Dal 1924 al 1928,
diresse il quindicinale da lui fondato, «La Conquista dello Stato», che gli valse una
discreta notorietà nei circoli fascisti poiché vi sosteneva lo squadrismo provinciale
«come l’unico e genuino interprete e difensore dello spirito rivoluzionario del
fascismo»13. Nel 1924, collaborando all’«Italiano» di Longanesi e al «Selvaggio» di
Maccari, aderì inoltre al movimento strapaesano, che esaltava l’Italia rurale e il ritorno
alla tradizione, ma soltanto due anni dopo se ne allontanò suscitando le ire di tutti i

5
C. Malaparte, in Id., Malaparte I, a cura di E. R. Suckert, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 189.
6
M. Serra, Malaparte, cit., p. 85.
7
Ripubblicato con il titolo La rivolta dei santi maledetti, Roma, Casa Editrice Rassegna Internazionale,
1923.
8
G. Panella, L'estetica dello choc. La scrittura di Curzio Malaparte tra esperimenti narrativi e poesia,
Firenze, Clinamen, 2014.
9
Malaparte vi sosteneva in effetti una tesi decisamente provocante: Caporetto non sarebbe stata un
“semplice” errore dovuto a cattiva condotta militare, ma una vera e propria rivolta sociale.
10
Risalgono inoltre al 1922 Le nozze degli Eunuchi, Roma, Casa Editrice Rassegna Internazionale1922 e
altri saggi che si caratterizzano per una certa virulenza, come L’Europa vivente: teoria del Sindacalismo
nazionale, Firenze, La Voce, 1923.
11
M. Serra, Malaparte, cit., p. 117.
12
Ibidem.
13
V. Castronovo, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 99.

8
seguaci di Strapaese, «gli irriducibili della prima ora»14, facendosi promotore di
Stracittà, che propugnava invece un’apertura culturale alle moderne tendenze dell’arte e
della letteratura. Simbolo dello spirito stracittadino fu «Novecento. Cahiers d’Italie et
d’Europe», rivista che diresse, tra il 1926 e il 1929, insieme a Massimo Bontempelli.
Pubblicata in francese perché non se ne potesse travisare il carattere internazionale,
«900» fu «un prodotto di raffinata bibliofilia […] impreziosito da disegni e riproduzioni
Di Picasso, Campigli, Rosai e dei principali pittori surrealisti. La rivista aprì le porte ai
più bei nomi della letteratura internazionale senza apparenti distinzioni ideologiche»15.
Nel 1926 e 1927, Malaparte fu inoltre direttore della «Voce» di Prezzolini e capo-
redattore della «Fiera Letteraria».
Nel 1928, dopo essere stato nominato caporedattore del «Mattino» di Napoli e
condirettore della «Fiera Letteraria», Malaparte cominciò con «La Stampa» una
collaborazione che lo condusse nel 1929 alla direzione del giornale. Se fino a quel
momento era stato principalmente giornalista e polemista, sulla «Stampa» cimentò per
la prima volta le proprie doti di narratore: fu proprio sulla terza pagina del quotidiano
torinese che pubblicò per la prima volta degli articoli a carattere letterario. Certo
sarebbe stato difficile pubblicare articoli del tutto slegati dall’attualità, ma,
probabilmente per evitare di attirarsi critiche in quel momento così fortunato della sua
carriera, preferì dedicarsi a temi che fossero il meno compromettenti possibile.
Possiamo dunque affermare che il passaggio dal giornalismo alla letteratura fu per
Malaparte soprattutto una scelta di comodo, ma che, proprio perché continuò a
pubblicare articoli sulla pagina che i giornali consacravano alla cultura almeno fino alla
fine degli anni Trenta16, quella che era nata come necessità si trasformò in passione.
Questa manovra di sicurezza escogitata dallo scrittore non fu tuttavia sufficiente.
Malaparte poté infatti vantare a soli trentun anni la nomina a direttore - voluta niente
meno che dal senatore Agnelli, che riconosceva in lui «il più brillante scrittore su cui
[potesse] contare il fascismo»17 - di una delle testate nazionali più importanti, ma non a
lungo, poiché venne licenziato dopo soli tre anni di attività all’interno del quotidiano

14
M. Serra, Malaparte, cit., p. 122.
15
Ivi, p. 124.
16
Nell’Albero vivo, raccolta del 1969 in cui Falqui riunì molti degli articoli di terza pagina di Malaparte
che non erano mai apparsi in volume, alcuni sono datati al 1954.
17
V. Castronovo, N. Tranfaglia, La stampa italiana, cit., p. 99.

9
«per ragioni di natura privata»18. Nel frattempo però, il primo settembre del 1929, un
grande amico di Malaparte, Aldo Borelli, aveva assunto la direzione del «Corriere della
Sera». Ex corrispondente di guerra per «Il Mattino» e direttore de «La Nazione» dal
1924, Borelli era uno dei fondatori del Sindacato fascista dei giornalisti: la sua elezione
a direttore del quotidiano milanese, proposta da Turati, fu varata personalmente da
Mussolini. Se alle richieste di collaborazione che Malaparte avanzava già dal 1931,
Borelli rispondeva di trovarsi nell’impossibilità di assumere nuovo personale a causa
della «valanga di collaboratori»19, fin dal settembre del 1932 lo rassicurava che entro la
fine del mese avrebbe disposto le pratiche per il suo accesso al «Corriere»20: mantenne
la parola data e il 15 ottobre del 1932 fece firmare a Malaparte il contratto che lo
avrebbe legato al giornale per i successivi undici anni. L’amicizia con Borelli si rivelò
preziosa per Malaparte anche in un altro momento cruciale della sua vita, ovvero
durante gli anni del confino a Lipari. Arrestato e condannato a un confino di cinque anni
nell’ottobre del 1933 a causa di un contrasto con Italo Balbo, Malaparte dovette
interrompere la propria collaborazione con il giornale. Fu soltanto grazie
all’intercessione di Borelli presso Raffaello Mauri e Galeazzo Ciano, se egli poté
riprendere già nel luglio dell’anno seguente a scrivere articoli per la terza pagina del
«Corriere» con lo pseudonimo di Candido. Liberato con tre anni e mezzo di anticipo nel
giugno del 1935, tornò a firmare i suoi articoli col proprio nome dalla fine dello stesso
anno. La sua carriera all’interno del «Corriere» durò fino al luglio 1943 - anno in cui,
dopo la caduta del fascismo, Borelli fu costretto ad allontanarsi dal giornale – ed è
interessante notare come in tutti quegli anni Malaparte scrisse quasi esclusivamente
articoli a carattere letterario. Negli anni della collaborazione con il «Corriere», una delle
clausole del contratto gli imponeva l’esclusività della firma, ma ciò non gli impedì, nel
1939, di pubblicare per altri due settimanali importanti quali l’«Oggi» di Rizzoli e

18
Ivi, p. 120. Guerri e Serra notano che non sono realistiche le voci secondo cui Agnelli, volendo impedire
la relazione sorta tra Malaparte e la nuora Virginia, avrebbe chiesto a Mussolini di allontanarlo dal
giornale alla fine del gennaio 1931. La relazione tra Virginia Agnelli e Malaparte iniziò infatti nel 1935,
quando la nuora del Senatore era ormai vedova e quando egli stesso si era ormai separato da un'altra
nobildonna piemontese, detta Flaminia, il cui vero nome non è mai stato rivelato né da Malaparte né dai
biografi. Il vero motivo del licenziamento risiede probabilmente in alcune rivalità interne al giornale, in
particolare tra Malaparte e Giuseppe Colli, e tra Malaparte e Agnelli, che si stancò presto di avere un
subordinato così indipendente. Il fatto che venne liquidato con una somma abbastanza alta fu
probabilmente all'origine dei pettegolezzi riguardanti Virginia Agnelli.
19
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 27 maggio 1931, in fascicolo 661c, Archivio Corriere della Sera
(d’ora in poi 661c, AC).
20
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 22 settembre 1932, in 661c, AC.

10
«Tempo» di Alberto Mondadori (con i quali avrebbe continuato a lavorare negli anni
successivi), suscitando le ire di un Borelli solitamente accondiscendente.
Ricordiamo infine che fin dal 1931, Malaparte collaborava con delle riviste
straniere quali «Les Nouvelles littéraire» e «Yale Review», mentre nel 1937 ne aveva
fondata egli stesso una a carattere letterario, «Prospettive». La pubblicazione di questi
eleganti fascicoli monografici consentiva di dissimulare l’interesse per la politica per
non perdere il consenso del regime. Collaborarono alla rivista tra i più importanti
intellettuali e scrittori italiani dell’epoca, tanto che Guerri la definisce «una delle
produzioni culturali più vitali e interessanti nate durante il ventennio fascista»21. Questi
furono soltanto gli inizi d’una carriera giornalistica che Malaparte avrebbe portato
avanti fino alla fine dei suoi giorni, nel 195722.
Perché, in un secondo momento, Malaparte decise di riunire i suoi migliori articoli
in un volume è molto semplice. In quegli anni in cui la firma di uno scrittore di terza
pagina costituiva il maggior indice di prestigio di un giornale, si era presto diffusa tra i
giornalisti-letterati l’abitudine di riunire i propri elzeviri in raccolte, onde evitare che i
propri testi andassero a perdersi. Prima di Malaparte, avevano già raccolto i propri
articoli in volume autori come Pirandello, Deledda, Cecchi, Barilli, Papini,
D’Annunzio, Comisso, Alvaro e altri. Sulla natura di questo tipo di prosa nacque infatti
un vero e proprio dibattito che vide opporsi da un lato i sostenitori di questa produzione
in quanto genere a sé stante e rappresentativo di un’epoca, indicato attraverso l’etichetta
di “capitolo”, dall’altro i detrattori, per i quali questo tipo di produzione ibrida non
poteva che rappresentare una soluzione parziale ai problemi della moderna letteratura.
Uno dei principali animatori del dibattito fu Enrico Falqui, che si occupò nel 1938 di
riunire i capitoli a suo avviso più significativi in un’antologia nella quale inserì anche
due racconti di Malaparte, il quale a sua volta cercò di screditare in tutti i modi Falqui e
la sua estetica dei capitoli; ma torneremo su questo punto nella terza parte del nostro
lavoro.
Malaparte scrisse tra il 1928 e il 1940 un numero di articoli a carattere letterario

21
G. B. Guerri, L’arcitaliano. Vita di Curzio Malparte, Milano, Bompiani, 2008, p.183
22
Ci sembra inoltre significativo ricordare che nel frattempo Malaparte non aveva interrotto la propria
carriera di saggista e polemista; lo dimostrano le opere pubblicate tra il 1930 e il 1932, alcune delle quali,
pubblicate prima all’estero che in Italia, avevano contribuito ad aumentare la sua fame internazionale:
Intelligenza di Lenin, Milano, Treves, 1930; I custodi del disordine, Torino, Buratti, 1931; Vita di Pizzo-
di-Ferro detto Italo Balbo, Roma, Libreria del Littorio, 1931; Techniquedu coup d’état, Parigi, Grasset,
1931; Le bonhommeLénine, Parigi, Grasset, 1932.

11
che è difficile quantificare. Quello che sappiamo è che, all’infuori di pochi racconti del
tutto inediti, le quattro raccolte dello scrittore sono costituite per la maggior parte da
articoli pubblicati per la prima volta nelle terze pagine di due dei giornali per i quali egli
lavorò in questi anni: «La Stampa» e il «Corriere della Sera». Affidò la pubblicazione
dei volumi a tre diversi editori, i fratelli Treves (Milano), Enrico Vallecchi (Firenze) e
Alberto Mondadori (Milano). Non potendo pubblicare tutti i propri articoli, effettuò una
scelta ben precisa che rispondeva a criteri che esamineremo successivamente. Come
vedremo, nella ripubblicazione modificò a volte qualche titolo, altre tagliò alcune parti
di articoli diversi e le riunì un nuovo racconto, spesso lasciò invariati titoli e contenuti.
Degli otto racconti della prima raccolta, Sodoma e Gomorra, edita da Treves nel
1931, cinque erano precedentemente usciti su «La Stampa». Per ciò che riguarda i
ventisette racconti della seconda raccolta, Fughe in prigione (Vallecchi, 1936), i tredici
della quarta, Donna come me (Mondadori, 1940) e dell'ultima, Sangue (Vallecchi,
1937), essi erano già comparsi, salvo alcuni inediti, sul «Corriere della Sera». Nella
tabella presentata nell’appendice A, i racconti e gli articoli pubblicati sulla «Stampa» e
sul «Corriere» tra il 1928 e il 1940 sono elencati in ordine cronologico secondo la data
della prima apparizione.

12
1.2 Gli inizi del Malaparte narratore

Se è certo che Malaparte subentrò ad Andrea Torre alla direzione della «Stampa»
l’11 febbraio del 1929, non altrettanto chiara appare la data d’inizio dell’effettiva
collaborazione dello scrittore con il quotidiano torinese. Fin dall'inizio del 1928 gli
articoli di suo pugno sono infatti numerosi e le pagine del giornale di quell’anno parlano
chiaro: Malaparte firma ben cinque articoli a carattere letterario tra gennaio e
settembre23, tre dei quali verranno raccolti in Sodoma e Gomorra nel 1931. Di questa
collaborazione, tuttavia, non conosciamo purtroppo nessun dettaglio: i primi registri
cartacei conservati all’Archivio della «Stampa» sono posteriori al 1932, mentre tutte le
biografie malapartiane menzionano per il 1928 solo la nomina dello scrittore a
caporedattore del «Mattino» di Napoli24. Un brano del Memoriale 1946 rappresenta la
sola testimonianza autobiografica disponibile su questo periodo:

Rimasi quattro mesi al «Mattino», e in tutto quel tempo non scrissi che qualche
capo di cronaca sul disservizio tranviario, due o tre corsivi contro il Circolo dei
giornalisti […] e un corsivo dal titolo I leoni vegetariani […]. Questo è tutto ciò
che scrissi nel «Mattino» di Napoli, nei quattro mesi che vi trascorsi come capo
redattore. Con molta meraviglia e con grande dispetto di molti, se non di tutti,
avevo fatto una buona prova […]. Così divenni Direttore della Stampa, l’11
febbraio 1929, il giorno stesso della firma dei Patti del Laterano. […] Per tutto il
tempo che sono stato alla «Stampa» ho sempre evitato di scrivere articoli politici
[…]. Quando scrivevo, il che accadeva molto raramente, mi occupavo di questioni
letterarie o di cultura, o scrivevo novelle, racconti di viaggio, recensioni di libri.
Ricordo il mio articolo sul libro di Stresemann, Goethe e Napoleone, che pubblicai
in occasione della morte di Stresemann […]. Ricordo anche il lungo racconto che
pubblicai ne «La Stampa» dopo il mio ritorno dalla Russia, Donna rossa, e la lunga
novella che scrissi durante il mio viaggio in Egitto e in Terrasanta, e che occupò
tutta la terza pagina del giornale. Questi racconti sono riuniti nel mio libro del
1931, Sodoma e Gomorra, di cui ho già parlato poc’anzi, dove si possono leggere
tutti gli articoli da me pubblicati ne la «Stampa» eccetto alcuni (recensioni, ritratti
letterari ecc.) che appariranno nel mio prossimo libro Ritratti.25

23
Gli articoli datati 1928, che sono riprodotti in appendice, sono: La Maddalena di Carlsbourg (24
gennaio), Il martellatore della vecchia Inghilterra (23 febbraio), Il sabba strapaesano (16 marzo), Il moro
di Comacchio (14 aprile), Donna + rosso e nero (12 settembre).
24
Si leggano a questo proposito le Notizie bibliografiche riportate da G. Grana in Malaparte, Firenze, Il
Castoro, 1968, pp. 161-165; il capitolo 9 dell’Arcitaliano di G. B. Guerri, cit., pp. 117-131; il capitolo 2.2
di V. Castronovo, N. Tranfaglia, La stampa italiana, cit., pp. 96-102; il capitolo 2.4 di M. Serra,
Malaparte, cit., pp. 143-161.
25
C. Malaparte, Memoriale 1946, in Malaparte II, a cura di E. Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle Grazie
1992, pp. 304-307. Maurizio Serra definisce il Memoriale 1946, che fu ritrovato - insieme ad altri

13
Guerri, nel suo L’Arcitaliano dà notizia precisa dei quattro mesi - dal settembre al
dicembre 1928 - che lo scrittore trascorse al «Mattino»26, ma sembra ignorare il fatto
che nello stesso mese in cui Malaparte veniva assunto al quotidiano napoletano usciva
sulla «Stampa» un articolo - l'ultimo di quell'anno – a sua firma. D’altro canto abbiamo
visto come, per quanto riguarda l’inizio della collaborazione con «La Stampa»,
Malaparte stesso tendesse a ignorare il 1928 e a riferirsi al 1929, con la data-simbolo dei
Patti Lateranensi. Si tratti di omissione volontaria o involontaria, gli archivi del giornale
sono la prova inconfutabile del fatto che non considerare il 1928 sarebbe un grave
errore. Quali siano le ragioni di quest'omissione, possiamo solo ipotizzarlo: dal
momento che Malaparte firmava gli articoli sulla «Stampa» col suo nome, è
improbabile che avesse qualche ragione per nascondere la propria collaborazione;
altrettanto poco plausibile pare tuttavia che si tratti di una svista - difficile dimenticare
un anno di collaborazione che precede la nomina a direttore di un quotidiano così
importante. L’unico motivo che ci sembrerebbe giustificare un'omissione volontaria
potrebbe essere il fatto che, così facendo, Malaparte poteva vantare di essere stato
assunto a Torino da Giovanni Agnelli sulla sola base della fiducia guadagnatasi durante i
pochi mesi della sua collaborazione con il «Mattino».
Se, inoltre, non possiamo verificare cosa Malaparte avesse scritto «poc’anzi» a
proposito del suo libro del 1931, è importante tenere conto del fatto che egli dichiara di
avervi inserito «tutti gli articoli» pubblicati sulla «Stampa» salvo alcune «recensioni,
ritratti letterari ecc.» che, se la data del Memoriale è corretta, avrebbero dovuto
comporre nel 1946 una nuova raccolta. Questo passaggio ci sembra significativo per
due motivi: innanzi tutto perché dimostra il valore che Malaparte attribuiva ai propri
scritti di quegli anni, che avrebbe voluto ripubblicare ancora nel ’46, dopo aver già

materiali inediti - alla morte di Malaparte dalla sorella Edda, per molti aspetti «un tessuto di menzogne»
(Malaparte, cit., p. 177). Lo scrittore tendeva infatti a ritoccare i suoi testi, e quindi la sua immagine, in
funzione della stagione politica in corso. Le informazioni che contiene questo brano, tuttavia, proprio
perché non riguardano la vita politica, sono con tutta probabilità attendibili (anche se per certi aspetti,
come vedremo, imprecise), e si rivelano molto preziose per il nostro studio. Dei «leoni vegetariani»
Malaparte parla anche in un articolo uscito su «La Stampa» il 1° maggio 1929, riferendosi proprio
all’articolo pubblicato precedentemente sul «Mattino».
26
«Nel settembre del 1928 il segretario del partito Augusto Turati, molto amico di Malaparte, lo fece
assumere come caporedattore al “Mattino” di Napoli, al quale Malaparte collaborava già da qualche anno.
[…] A Napoli comunque rimase solo quattro mesi, scrivendo qualche articolo di fondo di stretta
ortodossia fascista e scarso interesse»; in nota Guerri aggiunge: «Nei numeri del 6-7, 23-24, 25-26
ottobre; 4-5, 22-23 novembre; 16-17, 22-24 dicembre 1928» (G. B. Guerri, L’arcitaliano, cit., p. 117 e p.
300).

14
affidato alla stampa, nel 1944, Kaputt; in secondo luogo perché mette in luce una
seconda omissione: come abbiamo visto, durante la sua collaborazione con «La
Stampa» egli scrisse ben più dei cinque racconti che vengono ripubblicati nella raccolta
Sodoma e Gomorra. Ne furono esclusi alcuni che, per affinità di genere, avrebbero
potuto esservi affiancati27, mentre Malaparte vi inserì tre prose che non erano mai
comparse sul giornale: lo scrittore effettuò dunque per questa sua prima raccolta una
scelta ben precisa, che analizzeremo nella seconda parte di questo lavoro.
Il Memoriale è utile anche per riallacciarci al discorso accennato in precedenza,
riguardante il passaggio di Malaparte dal giornalismo alla narrativa. Lo scrittore spiega
che, durante la sua direzione della «Stampa», evitò sempre di scrivere articoli politici:
sembrerebbe quindi, anche dalla sua stessa testimonianza, che il suo dedicarsi alla
letteratura sia stato quasi una rinuncia piuttosto che una scelta appassionata. Durante gli
anni della sua collaborazione con «La Stampa», Malaparte si occupò in parte di
questioni sociali, come i grandi scioperi operai in Francia e in Belgio o la realizzazione
del primo piano quinquennale in Russia28, ma scrisse anche degli elzeviri su questioni
letterarie e culturali. Tali elzeviri hanno lunghezza variabile - dalle due colonne e mezzo
alle sei - e sono tendenzialmente cronache storiche, racconti inventati o prose
allegorico-satiriche, ambientati ora in luoghi esotici ora nella nostra penisola, al centro
dei quali troviamo sovente il personaggio di Malaparte. L'autore definisce queste
produzioni «novelle» e «racconti di viaggio», che sono termini che discuteremo più
avanti, ma che - possiamo dire per il momento - ben rappresentano non solo la maggior
parte dei testi di Sodoma e Gomorra, ma una parte consistente della produzione di
questi anni. Pur essendo la raccolta molto eterogenea e discontinua, possiamo
intravedere alcuni elementi che ritornano e ritorneranno nelle successive raccolte, come
un autobiografismo più o meno celato, il gusto per l'invenzione e per il macabro, la
volontà di stupire, la passione per la cronaca storica, per le figure umane messe ai
margini, un'acutezza e un patetismo che si alternano a seconda del contesto.
Caratterizzano il volume in particolare due tipologie narrative: la cronaca storica e il
racconto d'invenzione.

27
Pensiamo, per esempio, a Il sabba strapaesano e Donna rossa + rosso e nero, il primo un inno a
Strapaese, il secondo un racconto ambientato nel casinò di Montecarlo.
28
Corrispondenze che egli definisce «di tono letterario e niente affatto informativo o politico» (C.
Malaparte, Memoriale 1946, in Malaparte II, cit., p. 306), e che tuttavia di fatto lo erano.

15
Tra le cronache storiche si possono annoverare tre racconti quali La Maddalena di
Carlsbourg, Donna rossa e La Madonna di Strapaese. Il primo, ambientato in Belgio -
nelle zone dove Malaparte aveva lavorato alla fine della guerra - è la storia di
Maddalena, che, costretta come molte altre ragazze a prostituirsi per fame durante
l’invasione tedesca del 1914, dopo l'armistizio non susciterà alcuna pietà nei suoi
concittadini per essersi disonorata e, nonostante il narratore-personaggio Malaparte tenti
di salvarla, verrà uccisa tra le peggiori umiliazioni. Donna rossa è ambientato invece in
Russia, dove un misterioso personaggio femminile di nome Tania cerca di nascondere la
propria identità al narratore Malaparte, fingendo di credere ancora negli stessi principi
in cui crede la nostalgica borghesia post-rivoluzionaria, mentre è in realtà una prostituta.
In una lettera del 17 aprile 1934, lo scrittore spiegava come Donna rossa non fosse un
racconto (il sottotitolo, infatti, recita Scene della vita d'ogni giorno nella Russia dei
Soviet) ma una «cronaca della vita quotidiana a Mosca»29. Nella Madonna di Strapaese,
infine, Malaparte ricostruisce in tono scanzonato le vicende di Viva Maria –
insurrezione napoleonica avvenuta ad Arezzo nel 1799 - evocando le apparizioni della
Madonna che si moltiplicarono in Toscana in quell'anno, tanto da far pensare che fosse
diventata la terra dei miracoli.
Tra i racconti d'invenzione troviamo invece La figlia del pastore di Börn, Storia
del cavaliere dell'albero, Il moro di Comacchio e Il martellatore della vecchia
Inghilterra. Nel primo, ambientato in Svezia, il pastore di Börn, pazzo di dolore per la
perdita della moglie Maria, immagina di continuare a vederla in sua figlia Anna, che
racconta la storia in prima persona. Quando lei s'innamora di Guda, il nuovo pastore
giunto a Börn, e lo sposa, il vecchio padre s'ingelosisce al punto di ucciderlo a
bastonate. Anche Storia del cavaliere dell'albero si conclude con una fine inattesa e
violenta: in questa satira antisemita ambientata in Palestina, infatti, un cristiano
rinnegato che vorrebbe convertirsi alla religione ebraica viene tradito e torturato dagli
ebrei. Il moro di Comacchio e Il martellatore della vecchia Inghilterra sono invece dei
racconti strapaesani che narrano le vicende di due personaggi molto particolari: nel
primo, un ugandese di nome Semba, arrivato in Europa per esplorarne i fiumi, viene
accolto dai comacchiesi come un eroe, mentre nel secondo l'invincibile pugile scozzese
Bob As, ormai ridotto a dar spettacolo nella piazza del mercato di Prato, decide di farla
29
C. Malaparte, lettera a B. Massenet del 17 aprile 1934, in Id., Malaparte III, a cura di E. Ronchi
Suckert, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, p. 408

16
finita buttandosi nel Bisenzio dopo la morte della sua piccola, fedele accompagnatrice.
L'ultimo racconto del libro, Sodoma e Gomorra, merita un discorso a parte perché
in qualche modo esula dalle due categorie di cui abbiamo parlato. In questo testo, che
apparve sulla «Stampa» in due puntate con il titolo Viaggio allegorico in Palestina,
Malaparte mescola infatti invenzione e attualità allo scopo di imbastire un racconto
satirico-allegorico. La prima puntata del Viaggio, che aveva come sottotitolo Le trombe
di Gerico, recava la seguente introduzione:

Durante un viaggio compiuto in Palestina e in Egitto, nella primavera scorsa, il


nostro Direttore ha avuto occasione di raccogliere, sulla vita di quei popoli, note e
impressioni personali e un abbondante materiale documentario, che gli hanno
servito a illustrare, poco dopo il suo ritorno in Italia, gli avvenimenti rivoluzionari
dell'Egitto e i retroscena della politica inglese in Palestina. Ai lettori della Stampa,
che hanno seguito gli articoli di Malaparte sulle ultime vicende di quei popoli,
diamo oggi il primo episodio di un Viaggio allegorico in Palestina, nel quale il
nostro Direttore descrive con originale fantasia le impressioni suscitate in lui dalla
visione dei passi della Bibbia e del Vangelo. Di questa visione «allegorica» non
sfuggirà ai lettori il chiaro senso dei riferimenti, dei sottintesi, e delle allusioni. Il
secondo episodio, che avrà titolo La statua di sale apparirà sulla Stampa di
martedì.

Incontrato per caso Voltaire a Gerico, nell’Osteria del buon samaritano, lo


scrittore decide di percorrere insieme al filosofo la strada verso Sodoma e Gomorra.
Durante questo viaggio, il razionalismo del filosofo francese sarà messo a dura prova
dall'incontro con due angeli ormai costretti a servire la Corona britannica. Come nota
Grana, «per capire lo spirito di questa strana invenzione satirica, bisogna legarla ad altre
prove successive»30, ovvero alla raccolta incompiuta di satire anti-inglesi L’inglese in
Paradiso, pubblicata nel 1960 da Vallecchi ma composta nel 1933-1934 durante un
soggiorno dello scrittore in Inghilterra. È interessante infine notare che il personaggio di
Voltaire era già presente nel romanzo che Malaparte aveva iniziato per Gobetti nel 1923,
Viaggio in inferno31, inconcluso e inedito, ma i cui materiali narrativi saranno ripresi in

30
G. Grana, Malaparte, cit., p. 47.
31
Di questo romanzo, una parte del quale è pubblicata in Malaparte I, cit., pp.684-751, parla Gobetti
stesso nel carteggio inedito conservato all'Archivio Gobetti. In una lettera del «principio del 1923»,
Gobetti scrive: «Caro Suckert, voglio che Viaggio in inferno sia il primo volume di una collezione d'arte
che comincio. Ne verrebbe anche a te grande onore», mentre in una lettera della fine del 1924: «Caro e
scelleratissimo amico, tu ti diverti a fare il giornalista e il Viaggio in inferno non va avanti». Con tutta
probabilità, il lavoro si fermò definitivamente nel 1925, come si ricava da un’altra lettera di Gobetti del
14 agosto dopo la quale se ne si perdono le tracce: «Se non mi dai entro ottobre Viaggio in inferno
terminato farò pubblica dichiarazione che tu sei diventato un rammollito petulante». Per le pagine su

17
diverse occasioni32. Anche qui troviamo un Voltaire sarcastico e sornione, che si
autodefinisce «il Machiavelli e il Bossuet del diciottesimo secolo»33 per difendersi dalle
accuse di eresia mossegli dall'oste e dai beoni della Taverna del buon consiglio.
Nel passaggio dal giornale al libro, i racconti, riuniti secondo un ordine diverso da
quello cronologico34, rimangono sostanzialmente invariati. Sono principalmente due i
racconti che vengono rielaborati: Donna rossa. Scene della vita d'ogni giorno nella
Russia dei Soviet e Viaggio allegorico in Palestina. Come abbiamo visto, Malaparte ne
abbrevia innanzi tutto i titoli, eliminando dal primo il sottotitolo e modificando il
secondo con un titolo a effetto che non per niente finirà col dare il nome all'intera
raccolta; in secondo luogo, li ritocca a livello tipografico eliminando i sopratitoli, in
modo che il testo risulti uniforme e senza interruzioni; non si rilevano invece né
significativi interventi stilistici né modifiche della trama35.
Per quanto riguarda le vicende editoriali, se escludiamo uno scambio epistolare

Voltaire, cfr. Malaparte I, cit., pp. 727-740.


32
Come vedremo, Malaparte attingerà a questo testo per alcuni dei racconti successivi, quali Toscana
immaginaria, Ode alla Sibilla Cumana, Terra come me, Ritratto di Pirrone.
33
C. Malaparte, in Malaparte I, cit., p. 731.
34
Nel libro troviamo, in sequenza, La Maddalena di Carlsbourg, La figlia del pastore di Börn, Donna
rossa, Storia del cavaliere dell'albero, Il moro di Comacchio, Il martellatore della vecchia Inghilterra, La
Madonna di Strapaese e Sodoma e Gomorra, mentre come vedremo l'ordine cronologico è un altro.
35
Confrontando i racconti apparsi sul giornale con la versione presente in C. Malaparte, Sodoma e
Gomorra, Roma, Lucarini, 1991, abbiamo riscontrato delle modifiche solo in tre racconti - se escludiamo
i numerosi refusi sfuggiti all'editore nella trascrizione di alcune parole. In La maddalena di Carlsbourg,
alla fine del secondo paragrafo, Malaparte sostituisce l'aggettivo «nemico», riferito al Belgio, con quello
più neutro di «straniero» (p. 3), mentre nell'ottavo paragrafo, per snellire una descrizione, ne elimina una
parte: «Parlava sorridendo, e quel sorriso triste e sospettoso illuminava <una bocca dalle labbra fini e
pallide, ingenua e dolorosa come> una bocca di bambina impaurita» (p. 5). Nel Martellatore, aggiunge
una frase che ha l'effetto di aumentare il patetismo della scena della morte della bambina: «Dietro al
carretto dell'ospedale, il poveraccio camminava a occhi chiusi, inciampando a ogni passo: quando la bara
fu calata nella fossa, si guardò intorno e incominciò a urlare, come se chiamasse qualcuno» (p. 74). In
Donna rossa, l'autore alleggerisce il terzo paragrafo - molto descrittivo - eliminando tendenzialmente
delle informazioni topografiche superflue, ma non soltanto: «Ecco la Dom Sovietow e, più in là, <ai lati
dell'imbocco della Balsciaiala (?) Nikizkaia, oggi via Herzen, che s'apre sulla destra della Mokhovaia,>
gli edifici dell'Università di Mosca. Ed ecco a sinistra, il Maneggio, l'immenso maneggio dove il trotto dei
cavalli, nei giorni della rivoluzione, s'era impigliato all'improvviso nei nastri delle mitragliatrici; <la porta
Trozkaia, una delle cinque porte del Kremlino, all'inizio della via Vosdvijenka, e, sempre a sinistra, in
faccia al Maneggio, dall'altra parte della Vosdvijenka, la sede del Komintern>. Tania m'aveva
accompagnato qualche giorno prima a visitare nella Vosdvijenka <gli Archivi Centrali della R.S.F.S.R.,
nel palazzo che un tempo era stato degli Strechniew e dei Narichkin,> il Museo Centrale dell'Esercito
Rosso e della Flotta, la casa dell'AtamanoRasumowski, oggi sede della Commmissione del Gosplan, la
chiesa del Monastero Krestovosdvijenski, e il palazzo a dodici piani del Mosselprom, orgoglio
dell'architettura bolscevica. Faceva caldo, quel giorno, e Tania era stanca: eravamo entrati in una
gelateria, affollata di studenti, d'impiegati, d'operai, di ragazze del popolo dai capelli stretti in un
fazzoletto rosso, e di signore dall'aria borghese, ridicole e tristi con quei cappellini, quelle sottane, quei
nastri così fuori tono, oramai, dopo dieci anni di rivoluzione, e così estranei al nuovo spirito e ai nuovi
costumi, così lontani nel tempo. <Il loro poeta non è Essenin, ma Guido Gozzano>» (p. 25).

18
con Aldo Borelli all’indomani della pubblicazione del libro, non disponiamo purtroppo
di carteggi relativi alla pubblicazione del volume, né con l’editore Treves né con altri
interlocutori. Per quel che riguarda le date di prima pubblicazione dei racconti sul
quotidiano torinese, ne abbiamo reperite cinque su otto: escono nel 1928 La Maddalena
(24 gennaio), Il martellatore (23 gennaio) e Il moro (14 aprile), mentre sono più tardi
Donna Rossa (12 gennaio 1930) e Sodoma e Gomorra (26 e 28 ottobre 1930). Di fronte
alla dichiarazione fatta da Malaparte nel Memoriale, secondo cui nel volume Sodoma e
Gomorra sarebbero stati raccolti tutti i suoi racconti usciti sulla «Stampa», potrebbe
sembrare frutto di una ricerca negligente il fatto di non aver trovato traccia, nel giornale,
degli altri tre che compongono la raccolta: La figlia del pastore di Börn, Storia del
Cavaliere dell'albero e La Madonna di Strapaese. In realtà, è verosimile che
l'imprecisione risieda in quanto scritto da Malaparte nel Memoriale, proprio perché,
come abbiamo visto, quell'autobiografia inconclusa è attendibile solo fino a un certo
punto. Se ciò non bastasse, riportiamo di seguito uno scambio tra l’autore e Borelli
all’indomani della pubblicazione di Sodoma e Gomorra, che è illuminante non solo
sotto questo punto di vista, ma anche perché ci aiuta a individuare la data della prima
pubblicazione della raccolta, non segnalata nella prima edizione, e a definire meglio la
natura dei racconti. Il 26 gennaio 1931 Malaparte scrive a Borelli:

Caro Borelli, è uscito il mio libro Sodoma e Gomorra. Tempo fa mi promettesti che
appena io avessi pubblicato un libro di letteratura mi avresti fatto fare la recensione
da Borgese. Sodoma e Gomorra è un libro puramente “letterario”. Dunque ci
siamo. Io sono a letto ammalato, ma domani mi alzo anche se cascasse il mondo.
Mi raccomando la recensione!36

La risposta di Borelli arriva il 29 gennaio:

Caro Curzio, ho ricevuto la tua lettera e so che in biblioteca è già arrivato il tuo
libro. Ne parlerò subito con Borgese e lo pregherò di fare l’articolo. Ad ogni modo
se Borgese che è molto impegnato non si sentisse di farlo presto, affiderò il tuo
libro a un altro critico.37

Incaricato della stesura dell’articolo fu alla fine Pancrazi e, una volta uscita la

36
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 26 gennaio 1931, in 661, AC.
37
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 9 febbraio 1931, in 661c, AC.

19
recensione, Malaparte se ne lamentò perché non era un elzeviro ma un semplice
articolo. Quel che ci interessa è che, a tale lamentela, Borelli obiettò che gli elzeviri
erano riservati ai libri completamente inediti, «mentre parte delle [...] novelle erano già
state pubblicate in altro volume»38. Se, verosimilmente, l’altro volume di cui parla
Borelli fosse stato in realtà il quotidiano torinese, questa lettera potrebbe essere la
conferma del fatto che vi fossero già stati pubblicati non tutti i racconti, ma solo alcuni.
La pubblicazione della prima raccolta di Malaparte a carattere «puramente
letterario», avvenuta dunque nei primi venticinque giorni del gennaio 1931, ottenne
giudizi generalmente positivi, anche se ne furono apprezzati in particolare Il
martellatore della vecchia Inghilterra e Il moro di Comacchio. Palmieri lodò nello
scrittore trentatreenne la «prosa disciplinatissima, ma non costruita»39, Consiglio la
«romantica passione per l’umanità dell’arte e degli ideali»40, Pancrazi l’impressione di
originalità data dalla «punta d’esotico»41 nell’atmosfera strapaesana, Bocelli il «senso
vigilatissimo delle proporzioni e delle prospettive»42 e Bonfantini «la sobrietà letteraria,
la chiara tendenza a liberarsi dalla maniera»43. Quello di Bonfantini fu forse l'unico
giudizio non del tutto entusiastico: egli notava infatti la «discontinuità d’impegno»44 di
Malaparte, ovvero la sua tendenza sporadica a «stancarsi per strada»45 e a inserire nella
narrazione elementi superflui «da brillantissimo giornalista»46.
Gli studiosi successivi furono invece più severi: Grana giudica la raccolta «nel
complesso poco convincente»47, in particolare rispetto a Le avventure di un capitano di
sventura, romanzo picaresco pubblicato da Malaparte nel 1927. Pur apprezzando la
terna dei racconti di ambiente italiano, che rappresenterebbero «le pagine salvabili della
raccolta, di scrittura più saporosa e colorita [che] sullo schema delle Le avventure di un
capitano di sventura, rinnovano il divertimento chiassoso della piazza, di una folla di
paese partecipe delle avventurose traversie di strani eroi popolari, giganteschi e possenti

38
A. Borelli, lettera a C. Malaparte dell’11 marzo 1931, in 661c, AC (corsivo nostro).
39
F. Palmieri, Il Malaparte, in «Il Resto del Carlino», 1 febbraio 1931, ora in Malaparte II, cit., p. 734.
40
A. Consiglio, Sodoma e Gomorra, in «La Tribuna», 3 marzo 1931, ivi, p. 742.
41
P. Pancrazi, Scrittori e giornalisti. Novelle di Malaparte, ora in «Corriere della Sera», 6 marzo 1931,
ivi, p. 745.
42
A. Bocelli, Racconti di Malaparte, ora in «L'Italia letteraria», 22 marzo 1931, ivi, p. 751.
43
M. Bonfantini, “Sodoma e Gomorra” di Curzio Malaparte, ora in «Pegaso», 6 maggio 1931, ivi, p.
761.
44
Ibidem.
45
Ibidem.
46
Ibidem.
47
G. Grana, Malaparte, cit., p. 45.

20
come eroi carolingi»48, il libro è a suo parere niente più che un insieme «di prove
sperimentali, disparate e assai ineguali, per ispirazione e impegno»49. Il critico aggiunge
che queste prose

possono riassumersi in un evidente calcolo di effetti crudeli o stravaganti, di


violenze attinte dalla realtà, forse anche da testimonianze personali, ma iscritte in
alone di convenzionale astrazione e svuotata di concretezza e verità, di ogni
risonanza autobiografica, per la povertà dei temi e per l'artificiosa intonazione
letteraria : una lucidità uniforme e manierata, tanto orecchiabile in un'aura classico-
estetizzante, quanto priva di carattere e individualità espressiva.50

Grana sottolinea dunque che la mancanza di unità tematica rende difficilmente


comprensibile la struttura della raccolta; tale struttura, infatti, può essere compresa e
accettata soltanto tenendo conto della destinazione originaria dei racconti: il giornale.
La critica è legittima, poiché la frammentazione e la discontinuità di Sodoma e Gomorra
sono innegabili, ma a nostro avviso rappresentano un elemento peculiare e non un
limite, poiché ci mostrano i racconti così come vennero scritti per la prima volta, senza
sforzi di sistematizzazione che avrebbero reso la raccolta meno autentica. Lo stile, nelle
sue punte più patetiche, può suonare artificioso, ma certo non è privo di carattere: a ben
vedere, infatti, questi testi sono già caratterizzati dalla stessa cifra che sarà tanto
apprezzata dal pubblico nei romanzi di tredici anni dopo.
Guerri, più indulgente di Grana, definisce Sodoma e Gomorra

una raccolta di racconti mediocremente riusciti ma interessantissimi perché a


cavallo fra i due tipi letterari di Malaparte: la letteratura strapaesana,
pseudopopolaresca, e quella allucinata, surreale che starà alla base delle sue opere
migliori: la prostituta linciata dalla folla, l’ecclesiastico pazzo, la prostituta
sovietica malata di borghesia, l’ebreo convertito che viene circonciso a forza sono
personaggi che starebbero benissimo in Kaputt o nella Pelle, ma che non hanno
ancora la forza espressiva dei due libri della sua maturità. Più felici sembrano i
racconti dove è ancora evidente l’impronta strapaesana, come quello
dell’esploratore negro che risale i fiumi della valle padana alla ricerca di terre
sconosciute.51

Il suo intervento ci sembra interessante perché, pur evidenziando l'immensa

48
Ivi, p. 46.
49
Ivi, p. 45.
50
Ivi, p. 46.
51
B. G. Guerri, L’Arcitaliano, cit., p.125.

21
distanza esistente tra questa produzione e quella degli anni Quaranta, tende a creare un
ponte, un collegamento tra le due stagioni, quella del racconto e quella del romanzo, in
una prospettiva che tenga conto di tutto il percorso del narratore Malaparte.
Per concludere, possiamo dire che questa prima raccolta è significativa proprio
perché caratterizzata da una notevole eterogeneità, che risulterà essere un elemento
fondamentale anche delle successive. In questa complessa varietà tematica possiamo
tuttavia individuare, più o meno intrecciati, alcuni nuclei che ritroveremo più tardi:
l'autobiografia, la storia, l'invenzione. È dunque proprio per questo insieme di ragioni
che consideriamo imprescindibile tenere conto, nel percorso di Malaparte narratore,
della fase rappresentata da Sodoma e Gomorra, una fase solo apparentemente
insignificante ma che rivela già invece le inclinazioni del grande romanziere.

22
1.3 «Una passeggiata meravigliosa»

La collaborazione di Malaparte con il «Corriere della Sera» è, a differenza di


quella con «La Stampa», documentata da una fitta corrispondenza tra lo scrittore e il
direttore del giornale, Aldo Borelli. Tale corrispondenza, in parte pubblicata nei volumi
curati da Edda Ronchi Suckert, in parte inedita e conservata nell’Archivio del
quotidiano, è un mezzo prezioso che ci consente di ricostruire il percorso professionale
dello scrittore negli anni che vanno dal 1932 al 1940.
Malaparte, trasferitosi a Parigi insieme alla compagna Flaminia dopo il
licenziamento dalla «Stampa», ebbe modo di consolidare la propria fama internazionale
grazie alla pubblicazione di Tecnica del colpo di Stato nel 1931: il libro, edito da
Grasset, ebbe rapidamente quasi trenta edizioni e fu tradotto nelle principali lingue
europee. Lo scrittore, ormai al centro della scena letteraria e politica, iniziò allora a
collaborare con alcune riviste francesi come «Les Nouvelles littéraires» e a lavorare
come consulente per Grasset. La sua collaborazione con il «Corriere della Sera» ebbe
inizio a partire dal 15 ottobre 1932, giorno in cui Borelli gli inviò la «lettera-
contratto»52:

Facendo seguito ai nostri accordi, resta inteso che sei autorizzato a inviare al
«Corriere della sera» da uno a due scritti al mese di letteratura estera o, previo
accordi con la Direzione, di impressioni da paesi esteri. Questi scritti possono
essere o elzeviri, nel quale caso dovranno essere inferiori alla colonna e mezza né
superare le due colonne a meno che non si tratti di servizi comandati, o quadretti,
nel quale caso possono anche superare le due colonne. Per evitare la trattazione di
argomenti che possono essere stati assegnati ad altri collaboratori, sarà bene che tu,
prima di scrivere, prenda accordi di volta in volta con la Direzione. [...] La
Direzione si riserva il diritto di restituirti gli articoli che a suo insindacabile
giudizio non ritenesse adatti al giornale. [...] Si intende che potrai continuare la
collaborazione alla «Fiera letteraria», ma non potrai collaborare ad altre
pubblicazioni senza il consenso scritto della Direzione del «Corriere»53.

Malaparte, dunque, sarebbe stato innanzi tutto vincolato, nella scrittura, da un


fattore di notevole importanza: soggetto dei suoi articoli avrebbero dovuto essere
esclusivamente la letteratura estera o le «impressioni» da paesi esteri; gli articoli
avrebbero dovuto rispettare una lunghezza ben determinata e ovviamente avrebbero
52
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 14 ottobre 1932, in 661c, AC.
53
Id., lettera a C. Malaparte del 15 ottobre 1932, in 661c, AC.

23
dovuto essere sottoposti al giudizio della direzione prima della pubblicazione.
Limitazione ultima, ma non meno importante, era l'esclusività della firma per tutta la
durata della collaborazione col giornale. Malaparte, dichiaratosi «completamente
d'accordo con tutte le clausole del contratto»54, inviò il suo primo articolo a Borelli
domenica 27 novembre 1932, concedendogli la piena libertà di tagliarlo nel caso in cui
fosse stato troppo lungo, dal momento che non sapeva ancora regolarsi «sulla
“capienza” delle colonne del “Corriere”»55. Il primo articolo dello scrittore, Ipocrisia di
Lawrence, fu pubblicato sul quotidiano milanese sabato 3 dicembre con un taglio di
«quattro o cinque righe in un sol punto, perché troppo ardito per un certo genere di
lettori»56: «un’inezia, ma trattandosi del primo articolo, [Borelli] non [voleva] allarmare
gli ultra puritani. [Ripeteva], però, che l’articolo [era] eccellente»57. A ottobre,
Malaparte propose a Borelli di scrivere i successivi articoli su alcuni personaggi inglesi
di spicco, come Aldous Huxley, «il più grande romanziere inglese vivente»58, e sul re
Edoardo VII, articoli che il direttore avrebbe accettato, a patto però di ricevere prima
«un altro elzeviro su qualsiasi tema, perché non [sembrasse] che [Malaparte si
specializzasse] esclusivamente su temi inglesi»59. Dall’inizio di gennaio alla fine di
giugno 1933, tuttavia, Malaparte si trasferì a Londra e durante la sua permanenza nel
Regno Unito lavorò a moltissimi articoli di argomento inglese: Miniera, il primo che
inviò al «Corriere», il 6 gennaio, riscosse un grande successo; Borelli stesso ne fu così
entusiasta da pubblicarlo senza tagli nonostante «superasse largamente le due
colonne»60. Nella seconda metà del mese, Borelli gli propose di scrivere degli articoli
sulla penetrazione delle «idee generali del fascismo [...] negli ambienti superiori
dell’Inghilterra»61, ma Malaparte rispose sbrigativamente:

Ti farei assai volentieri gli articoli che mi chiedi [...], sebbene ci sia molto poco da

54
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 15 ottobre 1932, in 661c, AC.
55
Ibidem. A dicembre, Malaparte dichiarava di non aver ancora «fatto l’occhio» per le colonne del
«Corriere», i cui caratteri risultavano «terribilmente diversi da quelli della “Stampa”» (cfr. lettera ad A.
Borelli del 15 dicembre 1932, in 661c, AC) e Borelli gli rispondeva che «per una colonna ci [volevano]
quattro cartelle delle [sue] scritte a macchina [...]. Per un elzeviro ci [volevano] sei cartelle; per un taglio
su tre colonne, da otto in su» (cfr. A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 23 dicembre 1932, in 661c, AC).
56
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 30 novembre 1932, in 661c, AC.
57
Ibidem.
58
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 15 ottobre 1932, in 661c, AC.
59
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 30 novembre 1932, in 661c, AC.
60
Id., lettera a C. Malaparte dell’11 gennaio 1933, in Malaparte III, cit., p. 164.
61
Id., lettera a C. Malaparte del 26 gennaio 1933, in Malaparte III, cit., p. 173.

24
dire in materia. [...] Ma non posso fare quanto mi chiedi per le seguenti ragioni: 1°
il mio contratto col «Corriere» esclude di proposito gli articoli più o meno politici,
e questo contratto mi piace; 2° io non intendo occuparmi mai più di politica. Mi
basta, per ora, la letteratura.62

Il direttore gli chiese allora di scrivere degli articoli sulla romanità in Francia,
altro suggerimento che Malaparte accolse in modo tiepido: l’idea gli piaceva, ma
essendo «un tema molto delicato»63 necessitava di istruzioni precise; in ogni caso,
aggiungeva, non sarebbe tornato in Francia tanto presto. Possiamo leggere quale fosse
la sua reale opinione a riguardo in una lettera che inviò, qualche giorno dopo aver scritto
a Borelli, allo storico francese Daniel Halévy, con il quale aveva stretto un profondo
legame di amicizia nel 1931 a Parigi:

Pour toute réponse à mon refus d'écrire des articles sur «la pénétration des idées
générales dans les hautes classes anglaises», le directeur du Corriere della sera,
mon ami Aldo Borelli, me demande une suite d'articles sur Jules César en France,
c'est-à-dire sur la conquête des Gaules... «Voilà un beau sujet littéraire», m’écrit - il
peut prévenir mon refus à m'occuper de politique. Mais tout ce qui concerne Jules
César est aujourd'hui un argument politique et touche, à la fois, à la politique
intérieure italienne et à la politique de Mussolini. Comme vous voyez, ils sont très
malins dans mon Pays. [...] Je commence à croire qu'il me sera très difficile de
demeurer à collaborateur du Corriere della sera.64

Lo scrittore finì con l’accettare, nonostante tutto, il progetto di Borelli 65, ma dalle
sue lettere, dopo l’aprile del 1933, comincia a trapelare una certa amarezza: «Scrivere
seduto a un tavolo per delle giornate intere, ti assicuro che certe volte è un supplizio,
tutto torna a galla, e il cuore diventa amaro. [...] La sola cosa che mi tenga ancora legato
al mio paese - oltre all’amore per il mio popolo - è il mio “Corriere”. Strana funzione
dei giornali e dell'amicizia dei loro direttori»66. La ragione del cattivo umore di
Malaparte dipendeva dal fatto che lo scrittore aveva sognato da sempre d’intraprendere
la carriera diplomatica, e aveva sperato - forse illuso da Mussolini stesso67 - che, dopo il

62
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 29 gennaio 1933, in Malaparte III, cit. p. 178.
63
Id., lettera ad A. Borelli del 7 febbraio 1933, in Malaparte III, cit. p. 189.
64
Id., lettera a D. Halévy del 10 febbraio 1933, in Malaparte III, cit. p. 190.
65
Lo testimonia una lettera di marzo in cui il direttore scrive a Malaparte: «Caro Curzio, rispondo
immediatamente alla tua lettera del 4 corrente accettando in pieno il tuo programma: vanno bene gli
articoli dalla Scozia, bene gli articoli dall'Irlanda, bene gli articoli della Provenza» (A. Borelli, lettera a C.
Malaparte non datata, in Malaparte III, cit., pp. 201-202).
66
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 2 aprile 1933, in Malaparte III, cit., p. 214.
67
Descrivendo un colloquio avuto con Mussolini prima della partenza per la Francia, Malaparte scrive a

25
successo di Tecnica del colpo di Stato, dove aveva innalzato il duce al di sopra tutti gli
altri rivoluzionari, gli sarebbe finalmente stato affidato un incarico di ambasciatore.
Erano anni che Malaparte pativa vedendosi sopravanzare nei luoghi del potere da
«reclute dell’ultima ora, pivelli e figli di papà alla Galeazzo Ciano, che non [avevano]
partecipato né alla guerra né alle scorribande degli squadristi»68. Poiché il momento del
suo riconoscimento continuava a tardare e lo scrittore si sentiva vittima di un
trattamento ingiusto, tentò di richiamare l’attenzione di Mussolini pubblicando su «Les
Nouvelles littéraires», il 25 marzo 1933, un articolo intitolato Guichardin, moraliste
méprisable, sulla traduzione francese dei Pensieri di Guicciardini, dove inserì «una
lunga digressione a proposito della ragion di Stato, che alludeva in modo trasparente a
Mussolini»69. Borelli gli spiegò che l’articolo era «dispiaciuto realmente a tutti»70, ai
suoi detrattori come ai suoi amici; tuttavia lo incoraggiava a lasciar perdere, a cercare
«di esser saggio e non fare il ragazzo bizzoso»71. Per salvarlo dall’imbarazzo di quella
che definiva una «gaffe»72, rinnovava inoltre l’invito a scrivere «elzeviri sulla romanità
in Inghilterra»73 e, per tranquillizzarlo, gli ripeteva la sua intenzione di organizzargli il
servizio in Francia di cui avevano già parlato, e successivamente un altro nel
Mediterraneo. Malaparte rispose con una lunga lettera: capiva perfettamente che il suo
articolo non avesse fatto piacere ai suoi «lettori altolocati. Ma che [poteva farci lui]?»74:

Quando in riviste direttamente e personalmente sovvenzionate dal Capo [...] escono


attacchi imbecilli contro di me, solo perché scrivo di Maurois, o perché sto a
Londra, o perché mi faccio fare una giubba di lana scozzese [...], o perché ho una
macchina con una targa straniera [...], protesto io forse? [...] Tu sai che tutto è
andato a monte, ufficialmente, nella questione del riconoscimento della mia lealtà.
[...] E invece di star tranquilli, hai visto che mi provocano. Roma fascista ha scritto
che debbo essere all'estero con una missione subdola!75

Borelli: «Quando sono stato da lui, non gli ho chiesto nulla. [...] È lui che è entrato di proposito nel
discorso dicendomi che [...] intendeva darmi una soddisfazione, passandomi in diplomazia» (lettera di C.
Malaparte ad A. Borelli del 2 settembre 1931, in Malaparte II, pp. 793-794.
68
M. Serra, Malaparte, cit., p. 129.
69
Ivi, p. 192.
70
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 6 aprile 1933, in Malaparte III, cit., p. 217.
71
Ibidem.
72
Ibidem.
73
Ibidem.
74
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli dell’8 aprile, in Malaparte III, cit., p. 218.
75
Ibidem.

26
Appare chiaro da queste poche righe che Malaparte era amareggiato poiché, oltre
a non aver ricevuto la nomina sperata, i giornali fascisti non lo trattavano con il rispetto
che si aspettava, ma alla fine accettò comunque di fare gli articoli sulla romanità
inglese. Propose tuttavia di «non trattare il soggetto dal solo punto di vista archeologico
o storico»76, ma di scriverli «alla moderna, modernizzando i fatti [...] [e condendo] il
tutto con della fantasia»77; chiese inoltre di essere mandato in Grecia, per il servizio nel
Mediterraneo a cui Borelli aveva fatto cenno: «Ti farei una modernizzazione dei miti,
divertentissima, ma non nel senso parodistico: nel senso letterario, umanistico»78.
Borelli, dopo averne parlato con l’Amministrazione, gli propose ufficialmente il viaggio
nel Mediterraneo, ma ecco che Malaparte tornò a rispondere con tono risentito:
«Immagino si tratterà di parlare degli italiani all'estero; delle colonie italiane a
Marsiglia, Tunisi, Alessandria d’Egitto ecc. Ora non mi occupo di fascismo e non me ne
occuperò più. [...] La mia collaborazione? Ho fatto due articoli sui Toscani e la Toscana.
Molto belli. Li vuoi?»79. Il giorno dopo, più calmo, aggiunse: «Ti ho scritto ieri l’altro
una lettera piena d’umor nero. Oggi ti mando questo articolo, che spero piacerà a te
toscano... immaginario»80. Il direttore pubblicò il 23 maggio l’articolo Toscana
immaginaria e, paziente, spiegò a Malaparte di non aver mai voluto fargli scrivere
«degli articoletti di varietà»81, ma «un vero e proprio servizio giornalistico di grande
importanza e di grande rilievo»82; Malaparte, che nel frattempo si era spostato in Scozia
e aveva iniziato a lavorare a una serie di articoli su argomenti scozzesi, ritrovato il
sangue freddo, ringraziò allora il direttore per la proposta, esprimendo il desiderio di
«cominciare dalla Provenza»83. Borelli colse la palla al balzo e lo spedì in Provenza,
ricordandogli anche di essere ancora in attesa dei cinque articoli promessi sulla romanità
in Scozia e in Inghilterra. Al rimprovero del direttore, Malaparte rispose, pacato:

Se non ti ho scritto sui Romani in Scozia, è perché [...] in Scozia, di romano, non
v’è traccia. In Inghilterra, invece i segni abbondano, alcuni molto interessanti.
Forse un giorno ne scriverò. Ma il mio sistema è di vedere, di lasciar passare del

76
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli dell’8 aprile 1933, in Malaparte III, cit., p. 219.
77
Ibidem.
78
Ivi, p. 220.
79
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 12 maggio 1933, in Malaparte III, cit., p. 234.
80
Id., lettera ad A. Borelli del 13 maggio 1933, in Malaparte III, cit., p. 235.
81
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 19 maggio 1933, in Malaparte III, cit., p. 235.
82
Ibidem.
83
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 4 giugno 1933, in Malaparte III, cit., p. 243.

27
tempo per l’incubazione e poi di scriverne. La Provenza la conosco benissimo, ci
ho fatto il militare, da garibaldino. Ho dormito 40 giorni nella torre Nord-Est del
palazzo dei Papi di Avignone. Andavamo al tiro a segno a Villeneuve dove i
Romani avevano un castello. Su Cesare nelle Gallie ti farò delle cose divertenti.84

Nella risposta sono evidenti tanto il tono rassegnato di Borelli nello spiegare che
aveva semplicemente sperato di ricevere qualcosa sul Vallo di Adriano e di Antonino,
quanto l’entusiasmo mostrato, per evitare di urtare lo scrittore, a proposito del progetto
sulla Provenza: quel servizio avrebbe preparato il terreno per «l’altro degli itinerari
cesariani in tutta la Gallia»85. Malaparte lasciò l’Inghilterra a fine giugno, «dopo un
soggiorno di più di sei mesi, [...] impinzato di materia eccellente, di cui [si sarebbe
servito] presto anche per il “Corriere”»86, e verso la fine di luglio, dopo essere passato a
Parigi per fare delle ricerche, partì dunque per la Provenza per compiere, come
d’accordo con Borelli, il viaggio sulle orme di Cesare, che durò fino a fine settembre e
che venne documentato con una serie di articoli inviati con grande solerzia. Malaparte
era ignaro, però, che le cose, per lui, in Italia, si stavano mettendo male: Italo Balbo, per
vendicarsi di essere stato calunniato dallo scrittore in alcune lettere inviate a Nello
Quilici, protetto dello stesso Balbo, lo aveva citato in giudizio al Tribunale per la Difesa
dello Stato per avere svolto attività antifascista all’estero. L'accusa era del tutto
infondata, e Mussolini lo sapeva, ma poiché detestava Balbo e voleva confinarlo in
Libia, sfruttò la situazione a proprio vantaggio: per accontentarlo, arrestò Malaparte il 7
ottobre 1933, giorno del suo ritorno in Italia, e lo fece rinchiudere a Regina Coeli; poi,
però, lo fece processare con un’accusa meno grave rispetto a quella mossa da Balbo, di
offese e calunnia contro un ministro. In questo modo Mussolini poté liberarsi di Balbo a
cuor leggero, dopo avergli dato il contentino che aspettava.
I due mesi trascorsi in prigione furono forse il periodo peggiore della vita di
Malaparte: tentò in ogni modo di scagionarsi dalle accuse, ma a nulla valsero le sue
preghiere, rivolte a chiunque sperava potesse aiutarlo. Il 30 novembre 1933 fu
condannato a cinque anni di confino. Giunto a Lipari accompagnato dalla madre,

84
Id., lettera ad A. Borelli del 23 giugno 1933, in Id., Malaparte IV, a cura E. R. Suckert, Firenze, Ponte
alle Grazie, 1992, p. 252.
85
Id., lettera ad A. Borelli del 29 giugno 1933, in Malaparte IV, p. 254.
86
Id., lettera ad A. Borelli del 30 giugno 1933, in Malaparte IV, p. 255. Sottolineiamo la presenza della
congiunzione «anche», che presuppone che Malaparte stesse lavorando a un altro progetto
sull’Inghilterra. Lo scrittore aveva in effetti in cantiere la stesura di un libro che venne pubblicato
postumo, L'inglese in Paradiso, per il quale rimandiamo all’ultimo paragrafo di questo capitolo.

28
scortato, ma senza manette, lo scrittore visse per sei mesi sull’isola sostanzialmente
libero: era libero di ricevere le visite della madre e di Flaminia, e fu libero, fin dal luglio
1934, di ricominciare a scrivere per il «Corriere». Nel giugno del 1934, infatti, aveva
chiesto a Borelli di riprendere la collaborazione, e il direttore si era immediatamente
rivolto a Galeazzo Ciano, che Malaparte aveva conosciuto negli anni Venti a Roma,
nella speranza che intercedesse presso il suocero. Mussolini, che non ce l’aveva affatto
con Malaparte, gli accordò il permesso con una sola limitazione, ovvero l’obbligo di
utilizzare uno pseudonimo. Lo scrittore rinnovò dunque l’impegno con il quotidiano
milanese firmandosi Candido fino al 13 novembre del 1935, quando venne autorizzato a
riutilizzare il proprio nome87. Dal 12 giugno 1935 Malaparte era infatti nuovamente
libero, a tutti gli effetti e con tre anni di anticipo: a riprova del fatto che Mussolini non
aveva nulla contro di lui, nel giugno del 1934 aveva concesso a Ciano che il prigioniero
fosse trasferito a Ischia, poi, da novembre, a Forte dei Marmi, e infine che fosse
prosciolto con atto di grazia. Verso la fine del 1935, a Forte dei Marmi, Malaparte, che
non era più legato a Flaminia, intraprese una nuova relazione con Virginia Agnelli,
relazione che visse come «un nuovo trionfo sulla sventura che per poco non lo [aveva]
annientato»88. La coppia avrebbe addirittura dovuto sposarsi nell’ottobre 193689, ma il
senatore Agnelli richiese l’intervento di Mussolini perché facesse in modo che
Malaparte rinunciasse alle nozze e al patrimonio di famiglia. Dopo qualche tentativo di
resistenza, quando fu chiaro che ufficializzare l’unione era un traguardo irraggiungibile,
nell’autunno del 1937 la relazione tra Malaparte e Virginia ebbe fine. Il termine
dell’inquieto periodo del confino e la prospettiva delle nozze con la nuora di Giovanni
Agnelli permisero a Malaparte, nonostante il peggioramento del suo stato di salute90, di
vivere un momento di notevole distensione e serenità. Nel novembre del 1934 scriveva
a Daniel Halévy che gli era tornata «la febbre del lavoro, il gusto della vita e della lotta
(della lotta letteraria, intendiamoci)»91: proprio in questo contesto si colloca infatti
l’inizio di una ripresa dell’attività creativa che nell’arco di due anni l’avrebbe condotto

87
«Caro Rizzini, il Direttore mi pregò di chiedere a S. E. Alfieri l’autorizzazione a che Malaparte
firmasse con il suo nome i suoi articoli. Tale autorizzazione è stata concessa. In tal senso ho scritto anche
a Malaparte» (R. Mauri, lettera a O. Rizzini del 13 novembre 1934, in 661c, AC).
88
M. Serra, Malaparte, cit., p. 238.
89
C. Malaparte, lettera a M. Halévy del 16 settembre 1936, in Malaparte III, cit., p.725.
90
Nel giugno del 1936 gli fu diagnosticata una fibro-sclerosi polmonare bilaterale (cfr. la lettera di C.
Malaparte ad A. Borelli del 24 giugno 1936, in Malaparte III, cit., p. 713).
91
C. Malaparte, lettera a D. Halévy del 15 novembre 1934, in Malaparte III, cit., p. 535.

29
alla pubblicazione di due raccolte, Fughe in prigione e Sangue, e alla fondazione della
rivista «Prospettive».
Malaparte progettava di raccogliere i suoi articoli migliori apparsi sul «Corriere»
fin dal luglio del 193592, ma la pubblicazione di Fughe in prigione93 avvenne tra il 23
febbraio 1936, data dell’articolo più tardo contenuto nella raccolta, e il 18 ottobre dello
stesso anno, giorno in cui apparve, sul «Bargello», la prima delle recensioni al volume,
firmata da Vittorini. Verosimilmente possiamo collocarne la pubblicazione tra metà
settembre e metà ottobre: scrivendo alla signora Halévy il 16 settembre 1936, Malaparte
si dichiarava infatti commosso per l’uscita, in quei giorni, del suo libro Fughe in
prigione94. Il notevole ritardo con cui il volume venne pubblicato dipese probabilmente
dal fatto che Malaparte lo aveva consegnato inizialmente a Treves 95, ma, per una
ragione che non conosciamo, la pubblicazione fu successivamente affidata a Vallecchi.
Alla vigilia dell’uscita, Malaparte non seppe nascondere la propria soddisfazione a
Bernard Grasset: «au point de vue littéraire, ma mésaventure m’a fait du bien. Il est
facile de comprendre pourquoi. […] Dans quelques jours l’éditeur Vallecchi, de
Florence, va faire paraître de moi: Fughe in prigione»96. Il libro ebbe una resa
modesta97, e quando, nell'aprile del 1937, Malaparte domandò a Vallecchi se non fosse
il caso di prepararne una seconda edizione, l’editore gli suggerì che sarebbe stato meglio
pubblicare un nuovo libro. Lo scrittore aveva intanto già proposto sia all’editore
fiorentino sia a Bompiani98 un nuovo progetto «a cui [teneva] molto»99: si trattava di un
volume «pieno di cose vive, drammatiche, interessantissime»100, che avrebbe contenuto
racconti, «di cui la maggior parte inediti […] tutti sul tema del sangue, delle reazioni,

92
Scriveva a Oreste Rizzini, caporedattore del «Corriere»: «Sto raccogliendo per Treves i miei articoli
apparsi nel “Corriere”, mi manca uno dei primi, credo il secondo, uscito nel 1932, per dicembre; se non
erro, è intitolato Nascita di un fiume. Potrei averne una copia?» (C. Malaparte, lettera a O. Rizzini del 29
luglio 1935, in 661c, AC).
93
Nel volume è riportato solo l’anno di pubblicazione, non il mese.
94
C. Malaparte, lettera a M. Halévy del 16 settembre 1936, in Malaparte III, p. 725.
95
Malaparte, che come abbiamo visto, aveva messo insieme per Treves «una raccolta di articoli apparsi
“Corriere”» nel luglio del 1935, gliel’aveva consegnata il 12 dicembre (C. Malaparte, lettera ad A. Borelli
del 12 dicembre 1935, in Malaparte III, cit., p. 665).
96
Id., lettera a B. Grasset, non datata, in Malaparte III, cit., p. 725.
97
M. Serra, Malaparte, cit., p. 248.
98
Come si evince da una lettera che Malaparte invia a V. Bompiani il 30 aprile 1937, in Malaparte IV,
cit., p. 69.
99
C. Malaparte, lettera a E. Vallecchi del 26 aprile 1937, in Malaparte IV, p. 64.
100
Ibidem.

30
morali, sentimentali che il sangue suscita negli uomini»101. Non conosciamo la risposta
di Bompiani, ma Vallecchi accettò la proposta ed iniziarono così i preparativi per
l’edizione di Sangue. Il 10 maggio lo scrittore aveva già spedito a Firenze il
manoscritto, fiducioso nel fatto che avrebbe avuto più successo della raccolta
precedente102. Vallecchi, incalzato dall’imperativo malapartiano «bisogna uscir presto,
presto, presto»103, fece del suo meglio per accontentarlo: il volume fu pubblicato nel
mese di giugno, presumibilmente prima del 19, giorno in cui Malaparte chiese
all’editore se avrebbe potuto portarne con sé a Roma la prima copia 104. Il 7 luglio ne
aveva già spedita una a Borelli105, mentre la prima recensione - di Arrigo Benedetti -
risale al 17 dello stesso mese.
Nel luglio del 1937 uscì anche il primo numero della rivista «Prospettive», la cui
direzione occupò la maggior parte del tempo e delle energie di Malaparte per i cinque
anni successivi. I sette numeri monografici della prima serie, pubblicata fino al
settembre del 1938, erano ricchi di illustrazioni e quasi privi di testo, venivano stampati
su elegante carta patinata e, soprattutto, avevano un contenuto propagandistico
fortemente allineato con la politica del regime. Malaparte si mise in una posizione
alquanto singolare, per essere uno che aveva deciso di non occuparsi più di fascismo.
Quello che ci interessa in questo contesto non è tuttavia giudicare la coerenza politica
dello scrittore, quanto comprendere i passaggi fondamentali della sua esperienza
letteraria in questi anni: ci preme dunque sottolineare che la pubblicazione della prima
serie servì allo scrittore per rientrare nelle grazie delle personalità italiane politicamente
eminenti e per ottenere il denaro necessario per avviarne una seconda che non ebbe più
nulla a che vedere con la prima. Edita dall’ottobre del 1939 (n. 8) al marzo del 1943 (nn.
38-39), la seconda serie di «Prospettive» era stampata su carta ruvida, aveva poche
illustrazioni, un prezzo più basso, un’uscita regolare e, infine, era dedicata
esclusivamente ad argomenti letterari. Non potendo analizzare la rivista in modo
dettagliato106, ci limitiamo a segnalare che il primo fascicolo del 1940 – che, forse per

101
Id., lettera a V. Bompiani del 30 aprile 1937, in Malaparte IV, cit., p. 69.
102
Id., lettera a E. Vallecchi del 10 maggio 1937, in Malaparte IV, cit., p. 69.
103
Id., lettera a E. Vallecchi del 28 maggio 1937, in Malaparte IV, cit., p. 83.
104
Id., lettera a E. Vallecchi del 19 giugno 1937 in Malaparte IV, cit., p. 88.
105
Id., lettera ad A. Borelli del 7 luglio 1937, in Malaparte IV, cit., p. 96.
106
Rimandiamo, per un’analisi approfondita di questa esperienza letteraria malapartiana, al volume di L.
Martellini Le «Prospettive» di Malaparte. Una rivista tra cultura fascista, europeismo e letteratura,
Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2014.

31
accentuare la frattura rispetto ai numeri precedenti, riprese dall’inizio la numerazione -
venne dedicato al surrealismo. Fin dalla metà del febbraio 1937 Malaparte aveva avuto
l’intenzione di scrivere un articolo sulle influenze dell’avanguardia francese in Italia,
«problema interessante e importante, per la presa che [...] comincia ad avere tra i
giovani [...]. Parlerò delle origini italiane del surrealismo [...], di cui il francese non è
che un riflesso intellettualistico. Su questo argomento vorrei scrivere un paio di articoli,
almeno. Vedrai che interesseranno moltissimo»107. Questo articolo, intitolato proprio Il
surrealismo e l’Italia, fu inviato a Borelli soltanto il 22 settembre 1937, e venne
pubblicato sul «Corriere della Sera» un mese dopo. Malaparte vi sosteneva
provocatoriamente che il surrealismo francese non fosse altro che una moda recente, un
espediente puramente intellettuale che consisteva nella trasformazione in stile «di ciò
che da noi è istinto e natura»108: la paternità del surrealismo era dunque indiscussamente
italiana. Questo assunto venne ripreso nell’articolo di apertura del numero di
«Prospettive» del 1940, che recava lo stesso titolo di quello del 1937. In Italia, tutta la
grande arte era sempre stata naturalmente surrealista, ovvero «non arte intesa [...] a
meravigliare, ma [...] a creare nuovamente la realtà, a inventarla, a interpretarla
magicamente, in opposizione alla logica»109. Questi interventi sono significativi perché
mostrano che il particolare interesse dell’autore per il surrealismo non si manifesta in
modo sporadico, ma è un tema costante nella sua riflessione di questi anni. La sua
originale interpretazione del surrealismo, emersa in un saggio proprio qualche mese
prima della pubblicazione di Sangue e rinnovatasi prima della pubblicazione di Donna
come me, si riflette in entrambe le raccolte, che ne recano l’impronta sperimentale e le
atmosfere.
Come abbiamo detto, Malaparte proseguì anche durante questi anni la
collaborazione con il «Corriere» e anzi, forte del proprio successo, pur sapendo che
sarebbe venuto meno al vincolo di esclusività garantito a Borelli nel 1932, cominciò nel
1939 a collaborare con altre due testate italiane di notevole importanza, «Oggi» di
Rizzoli e «Tempo» di Mondadori. Il venir meno alla parola data non gli arrecò
comunque nessun grosso danno: nonostante fosse riuscito a scatenare l’ira di Borelli,

107
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 17 febbraio 1937, in 662c, AC.
108
Id., Il surrealismo e l'Italia, in «Corriere della Sera», 12 ottobre 1937, ora in Malaparte IV, cit., p. 233
109
Id., Il surrealismo e l'Italia, in «Prospettive», 15 gennaio 1940, ora in E. Ronchi Suckert, Malaparte V,
Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, cit., p. 23.

32
poté continuare a scrivere su tutte e tre le testate e la collaborazione con Mondadori gli
fruttò, tra il marzo e il maggio 1940, la pubblicazione di Donna come me, l’ultima delle
sue raccolte di racconti apparsi sul «Corriere». Malaparte aveva inviato all’editore
milanese il manoscritto del volume, «completo e corretto in ogni sua parte»110, il 31
gennaio 1940, e il 1° marzo comunicava a Borelli che sarebbe stato a Milano per
quindici giorni per correggerne le bozze111: come segnalato nella prima edizione, il libro
fu pubblicato a maggio, e il 6 giugno apparve la prima recensione, firmata da Sibilla
Aleramo.
Le rare critiche da parte di Borelli agli articoli di Malaparte permise allo scrittore
di veder pubblicata sul «Corriere», integralmente o con qualche taglio, la gran parte dei
racconti che scrisse tra il 1932 e il 1940. Borelli, come abbiamo visto, tendeva infatti ad
essere incoraggiante e accondiscendente, rassicurava spesso lo scrittore sul successo dei
suoi articoli e, nei momenti in cui l’umore di Malaparte era più nero, ne elogiava le
capacità, talvolta ironizzando: «Vecchio Curzio, è inutile che tu mi chieda [...] se i tuoi
elzeviri mi piacciono o non mi piacciono, con l’aria del vecchio mistificatore che invece
sa benissimo che mi piacciono molto»112. Borelli fu sempre, quali che fossero le
difficoltà, «l'amico più devoto di Malaparte»113, disposto non solo a mediare con il
regime per salvarlo dalle situazioni spiacevoli, ma anche a dare corda ai suoi capricci: lo
scrittore, dunque, pur dipendendo necessariamente da disposizioni altrui, non fu mai
realmente costretto ad attenersi a rigide disposizioni. La scelta dei racconti da riunire in
volume fu dunque effettuata tra materiali che in origine erano stati sempre liberamente
elaborati. Dei circa centosessanta racconti che il «Corriere» gli pubblicò tra il novembre
del 1932 e il marzo del 1940, in ogni caso, solo cinquanta furono raccolti in volume:
Fughe in prigione, con i suoi ventisette racconti scritti tra il dicembre 1932 e il maggio
1936, è la raccolta più ampia, Sangue e Donna come me ne contengono invece tredici
ciascuna - quelli della prima vennero scritti tra il giugno 1936 e il giugno 1937, salvo
uno del settembre 1934, mentre quelli della seconda tra luglio 1937 e gennaio 1940,
tranne uno del febbraio 1937, già apparso in Sangue. Anche in questo caso lo scrittore
effettuò dunque una scelta che, ancora di più rispetto a quella fatta per Sodoma e

110
Id., lettera ad A. Mondadori del 31 gennaio 1940, in Malaparte V, cit., p. 48.
111
Id., lettera ad A. Borelli del 1 marzo 1940, in Malaparte V, cit., p. 79.
112
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 19 maggio 1933, in Malaparte III, cit., p. 236.
113
M. Serra, Malaparte, cit., p. 206.

33
Gomorra, gli permise di costruire una precisa immagine di sé, che analizzeremo in
seguito.
Datare i racconti, che all'interno delle raccolte non sono disposti secondo l’ordine
cronologico della prima apparizione sul «Corriere»114, ci ha permesso di verificare la
presenza di cinque inediti contenuti in Fughe in prigione e in Sangue. La passeggiata, il
racconto di apertura di Fughe in prigione, racconta del trasferimento a Lipari di un
prigioniero di nome Boz: nonostante la differenza dei nomi, l’autobiografismo è
esplicito, ed è chiaro che il racconto, scritto dopo l’arresto, non avrebbe potuto essere
pubblicato sul «Corriere», che imponeva a Malaparte l’uso di uno pseudonimo. La
corrispondenza conservata all’Archivio della Fondazione «Corriere della Sera» consente
invece di far luce sull’altro articolo inedito di Fughe in prigione, Uno scandalo a
Parigi, che fu inviato da Malaparte il 4 aprile 1935 e rifiutato il 29 da Borelli senza
grandi spiegazioni115. Per ciò che riguarda Sangue, la presenza di racconti inediti -
Madre che cerca il suo bambino, Morte delusa e Ippomatria - non stupisce poiché,
secondo quanto dichiarato da Malaparte a Vallecchi in una lettera del 26 aprile 1937, il
volume avrebbe dovuto contenerne addirittura «più della metà»116. Sospettiamo tuttavia
che Malaparte avesse provato a far pubblicare sul «Corriere» uno di questi testi e che
Borelli glielo avesse rifiutato: lo scrittore aveva infatti inviato un articolo intitolato
Madre che cerca il suo bambino il 28 febbraio 1937, ma il racconto, secondo quanto
risulta consultando i numeri del «Corriere» dei mesi successivi, non fu mai pubblicato.
Il 31 marzo 1937, Borelli scrive a Malaparte:

114
Rimandiamo all'appendice A per l’ordine cronologico, mentre riportiamo di seguito gli indici dei
volumi: 1) Fughe in prigione, Firenze, Vallecchi, 1936: La passeggiata, Sera nell'alta Scozia, Il porto,
Donna in riva al mare, Preghiera per una donna, Donna fra le tombe, Visita dell'angelo, Le due sorelle,
Morte di Ettore, la dolce ira funesta, Il giardino perduto, Ode alla Sibilla Cumana, La mamma in clinica,
Uno scandalo a Parigi, Miniera, Uomini in gonnella, i cervi, alte terre deserte, Nascita di un fiume,
Toscana immaginaria, Oggi si vola, Milziade, Sotto i ponti del Tamigi, Petrarca in camicia rossa,
Scoperta dell'America, FIne di una lunga giornata, Hotel Jules César; 2) Sangue, Firenze, Vallecchi,
1995: Primo sangue, primo amore, Giochi davanti all'inferno, Morte delusa, Angoscia di ragazzo,
Salutami Livorno, Città come me, Ippomatria, Fedra, Scirocco nell'isola, Madre che cerca il suo
bambino, Giugno malato, Un giorno felice; 3) Donna come me, Milano, Mondadori, 1958: Donna come
me, Quasi un delitto, L'albero vivo, La città incantata, Cane come me, Il mare ferito, Città come me,
Tramonto sul lago, Giorno come me, Paesaggio con bicicletta, Terra come me, Goethe e mio padre, Un
santo come me.
115
«[...] L’articolo Gli inglesi come angeli sarà pubblicato, Uno scandalo a Parigi no, e credo di fare un
piacere al giornale e a te. Nulla del tuo lavoro è andato perduto, tranne un articolo: percentuale che al
“Corriere” non è mai stata raggiunta da alcuno» (A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 29 aprile 1935, in
661c, AC).
116
C. Malaparte, lettera a E. Vallecchi del 26 aprile 1937, in Malaparte IV, cit., p. 64.

34
Per la prima volta dopo tanti anni sono costretto a restituirti un articolo. Lo faccio
con profondo dispiacere; ma so che tu comprenderai che non si tratta di un
capriccio, ma di un consiglio fraterno che ti do. Questa novella, o bozzetto, o
racconto, o articolo, come lo vuoi chiamare, è troppo cupo, triste, desolato. Il fatto
che una vicenda si è verificata anche nella realtà non è una ragione sufficiente per
farne materia di elzeviro. È un motivo disperato, malinconico, che non mi sento di
varare perché rasenta i limiti del sadismo. Ti prego di rileggerlo e ti convincerai
che ho ragione. Dopo il successo degli ultimi scritti, mi farebbe molta pena che i
lettori avessero un'impressione antipatica su uno degli scrittori che ha maggior
seguito. Lo faccio per te più che per il giornale, perché il giornale è un ente che può
sopportare molte cose, ma uno scrittore ne ha un colpo per lungo tempo.117

Il tema e il tono di Madre che cerca il suo bambino, breve spaccato sulla giornata
di una madre che non si rassegna all'idea della morte del proprio figlio, sono
effettivamente abbastanza cupi, e anche se non abbiamo altri elementi per affermare che
Borelli si riferisse proprio a questo racconto, ci sembra lecito ipotizzarlo.
Per ciò che riguarda i racconti che prima di apparire in raccolta furono pubblicati
sul «Corriere», possiamo dire che nella maggior parte dei casi la versione originale e
quella del volume coincidono. Anche in questo caso, come in quello di Sodoma e
Gomorra, la riedizione dei racconti comportò raramente un lavoro di rielaborazione dei
contenuti118, tranne per quanto riguarda alcuni racconti di Sangue119; più facilmente si
riscontrano, in alcuni testi, dei piccoli ritocchi a livello di stile, che comportarono ora
sostituzioni di parole, ora espunzioni o modifiche di fatto ininfluenti120. I titoli di alcuni

117
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 31 marzo 1937, Malaparte III, cit., p. 45.
118
Tendenzialmente Malaparte non ritocca i suoi racconti, ma vi sono due casi interessanti, Fedra e Cane
come me, in cui elimina i riferimenti a un periodo non meglio precisato di convalescenza successivo a una
lunga malattia, sostituendoli con riferimenti al periodo del confino a Lipari.
119
Su dieci racconti della raccolta apparsi precedentemente sul «Corriere», tre - Primo sangue, Città
come me, Un giorno felice - subirono notevoli variazioni: le aggiunte, come vedremo, concorrono a
raggiungere un’unità tematica e a creare una particolare atmosfera.
120
Confrontando i racconti apparsi sul «Corriere» con quelli riuniti nella prima edizione Fughe in
prigione, notiamo che uno dei racconti più ritoccati fu I cervi, dove alcuni periodi più scorrevoli ne
sostituiscono altri più complessi; quelli che non avevano altra funzione se non di reiterare un concetto
vennero eliminati. In altri racconti notiamo minime variazioni, come la sostituzione di «carta oliata» a
«carta velina» in Sera nell'alta Scozia (p. 45), «tramonto» a «crepuscolo in Morte di Ettore (p. 105),
«pioppi» a «tigli» in Nascita di un fiume (p. 200); o la rimozione di periodi contenenti riferimenti poco
rilevanti, come in Sera nell'alta Scozia o in Alte terre deserte; o ancora l’aggiunta di periodi che, pur non
cambiando il significato del testo, ne rafforzano il senso, come in Scoperta dell'America. In altri racconti,
come Donna fra le tombe e Le due sorelle, alcuni periodi vengono resi più musicali e lirici. In Donna fra
le tombe, inoltre, il nome della protagonista da Flaminia torna ad essere Lavinia, dopo che Malaparte
aveva richiesto espressamente a Rizzini di correggere la svista nell’edizione per il giornale: «Rileggendo
vecchi articoli, mi accorgo che la mia ideale interlocutrice è, di solito, chiamata Flaminia. Nella Valle dei
morti ho messo per errore Lavinia. Non potrebbe cambiare quel Lavinia in Flaminia? Che scocciatore,
dirà lei!» (C. Malaparte, lettera a O. Rizzini del 29 luglio 1935, in 661c, AC). Anche in Visita dell'angelo,
sul «Corriere» la protagonista è chiamata Flaminia e nel libro Lavinia. In Sangue e in Donna come me,
Malaparte effettua modifiche minime soltanto in Primo amore e Donna come me, e riscrive le ultime

35
racconti cambiarono nel passaggio dal giornale al volume121, e in un solo caso più
racconti subirono un accorpamento122. Per lo più furono dunque effettuate variazioni a
livello tipografico, che andarono a modificare la disposizione del testo con l'inserimento
o la rimozione delle interruzioni di paragrafo, o, in certi casi, dei sopratitoli.
Fughe in prigione è diviso in due parti, Racconti e memorie e Sentimenti e viaggi,
e in ciascuna delle due Malaparte raggruppa con lo stesso sottotitolo alcuni racconti
apparsi sul «Corriere» anche a distanza di anni, ma che condividono le medesime
atmosfere123. Se l’accorpamento ci sembra giustificato dal filo conduttore che
effettivamente accomuna i racconti, la bipartizione della raccolta risulta meno evidente
perché entrambe le parti contengono racconti appartenenti a tipologie diverse. I racconti
di carattere autobiografico riguardano in particolar modo l’infanzia dell'autore, salvo La
mamma in clinica, dedicato al ricovero della madre all'inizio del luglio 1935124, e la già
citata Passeggiata. Tra le cronache più o meno storiche ce ne sono di ambientate al
tempo della Grande Guerra, in una miniera nella Ruhr, e in un cinema parigino, durante
la prima proiezione di Sangue di un poeta di Jean Cocteau; troviamo poi dei resoconti di
viaggio in Scozia, Germania, Inghilterra, Toscana e Provenza; e, infine, alcune
rivisitazioni di episodi omerici. Introduce i racconti una breve prefazione in cui
Malaparte spiega che l’unica ragione che lo ha spinto a raccogliere le sue prose è la
volontà di mostrare, a chi lo avesse creduto mutato in peggio a causa della prigionia,
ch'egli si era invece fatto «più sereno, più chiaro, più umano, [ch'era] mutato in

righe di Quasi un delitto.


121
Di un gruppo di racconti che sul giornale vennero pubblicati con il titolo La Scozia a occhio nudo e un
sottotitolo, nel volume venne mantenuto soltanto il sottotitolo, in alcuni casi anche abbreviato, come I
cervi e il latino che diventa I cervi. Altri cambiamenti subirono La valle dei morti, che diventa Donna fra
le tombe, Scirocco nell'isola: Scirocco, Il sangue: Primo sangue, Quasi un sogno a Pompei: Quasi un
delitto; Un santo toscano: Un santo come me, La bicicletta: Paesaggio con bicicletta, Carne di terra:
Terra come me.
122
Il servizio sulla romanità in Provenza, apparso sul «Corriere» in sei puntate, venne ripubblicato
interamente - con la sola esclusione del secondo articolo - in Fughe in prigione. Hôtel Jules César appare
qui dunque con un paio di tagli e una brevissima aggiunta, come un unico resoconto di viaggio, senza i
titoli e i sopratitoli originali di ciascun articolo, e segnala le diverse tappe dell'itinerario tramite
interruzioni di paragrafo indicate con il nome della città in cui l’autore si trovava al momento della
stesura: Orange, Arles, Nîmes, Aix-en-Provence, Tarascona e di nuovo Arles.
123
Nella prima parte, oltre a sette racconti indipendenti, ne troviamo quattro in Quattro stagioni amorose
e due in Ettore e Achille; i racconti che nella seconda parte vengono raggruppati sono undici su tredici: tre
in Sentimento della Scozia, tre in Sentimento della Toscana, quattro in Guerra in Francia. Notiamo anche
che il titolo del racconto Il giardino perduto diventa sottotitolo di La morte e il bambino.
124
Si vedano a questo proposito le lettere inviate da Malaparte a Borelli il 9 e il 29 luglio 1935 e il 10
settembre dello stesso anno, contenute in 661c, AC.

36
meglio»125, e che ha incluso nel volume anche alcuni racconti precedenti il confino
proprio affinché si potesse misurare, «dal confronto, quanto bene [gli avessero] fatto
[quei] due anni di dolorosa, ma serena solitudine»126.
Nelle altre due raccolte, più brevi, Malaparte non tentò più particolari
raggruppamenti, ma entrambe hanno delle particolarità che ne caratterizzano l’impianto.
Ciò che caratterizza Sangue, per esempio, è lo sforzo di sistematizzazione tematica:
benché vi siano riuniti racconti molto diversi, sia autobiografici - sull'infanzia, la
giovinezza ma anche l’età adulta dell'autore - sia d’invenzione, sugli argomenti più
disparati, tutti e tredici hanno in comune il tema del sangue. In alcuni casi i racconti
vennero modificati appositamente per raggiungere omogeneità tematica: Primo sangue,
Città come me e Un giorno felice contengono massicce integrazioni proprio per questa
ragione. Benché in certi casi il sangue serva soltanto da spunto, e l’artificio risulti
dunque evidente, si può dire che Sangue sia una raccolta riuscita; ciò che risulta meno
riuscito è il tentativo di darle un tono moralistico. Nella prima edizione, infatti, l’autore
giustificò il tema del libro con una Confessione datata «Forte dei marmi, 1937», nella
quale pretendeva di aver riunito i racconti «per mostrare come si possa, attraverso le più
dolorose esperienze, giungere a una suprema, e libera, coscienza di sé, del proprio
popolo, e del proprio tempo»127. Egli vi sosteneva che la legge degli italiani, così come
la loro individualità, «è nelle loro vene»128: non esisterebbe dunque per loro nessuna
sostanza più preziosa del sangue, unica «forza misteriosa»129 di fronte alla quale la loro
coscienza morale si manifesti. Come sottolineò Carlo Bo in una recensione del 1937 - e
fu del suo stesso avviso la maggior parte dei critici contemporanei - «quella legge a cui
accenna l’autore [...] non dà la sensazione di sostenere l’architettura dei racconti»130. Il
libro non guadagna maggiore unità dalla prefazione, tuttavia essa venne mantenuta
identica anche nell'edizione del 1954, dove fu fatta precedere da un’altra introduzione,
intitolata Le tracce di sangue, che, non avendo pretese moralistiche, meglio corrisponde
al tono generale del libro. Qui Malaparte racconta di come le chiazze rosse del sangue

125
C. Malaparte, in Prefazione a Fughe in prigione, cit., p. 5.
126
Ibidem. Nell'Albero vivo, Falqui riporta la prefazione della seconda edizione di Fughe in prigione,
datata «Punta del Massullo, Capri, 1943», che nella sostanza non modificava quella del 1936, ma ribadiva
l’importanza dell’esperienza della prigionia (C. Malaparte, L’albero vivo, Firenze, Vallecchi, 1943).
127
C. Malaparte, Sangue, cit., p. 44.
128
Ivi, p. 42.
129
Ivi, p. 41.
130
C. Bo, Sangue, in «Il popolo di Trieste», 30 novembre 1937, ora in Malaparte IV, cit., p. 273.

37
lasciate sulla neve da un uomo a cui aveva sparato sul Col di Lana lo avevano condotto,
anni dopo, all’ospedale di Prato, al capezzale del fratello morente: «fino al letto di morte
di mio fratello, mi avevano guidato quelle lontane tracce di sangue. Tutta la vita avevo
speso [...] per ritrovare mio fratello, morto»131. Questo testo modifica la chiave di lettura
della raccolta, la cui caratteristica ci sembra essere, come evidenzia Giorgio Luti
nell’introduzione all’edizione del 1994, «la capacità del narratore di cogliere il lato
morboso e inquietante della parabola umana rappresentata nel suo elemento più
appariscente e più impressionante: il sangue come aspetto sacrificale, come documento
catartico di una sofferenza ancestrale»132.
Per ciò che riguarda Donna come me, infine, la raccolta è nuovamente molto
eterogenea, ma caratterizzata dalla presenza di sette particolari «fantasie» nelle quali
Malaparte crea degli «autoritratti trasferiti»133 in una realtà dove mira a specchiarsi e
riconoscersi. Tali autoritratti, che riprendono la forma e lo stile di uno di quelli già
comparsi in Sangue, Città come me, qui ripubblicato, sono intervallati da alcune
descrizioni e da racconti autobiografici sull’infanzia dello scrittore. Il volume è
introdotto da una citazione dai Canti di Maldoror di Lautréamont e da una dedica, che
hanno la funzione di situarlo esplicitamente nel segno del surrealismo, da cui Malaparte
era distante, ma del quale condivideva la volontà di reinventare e trasfigurare il reale. Il
tentativo di unificazione stilistica della raccolta fu apprezzato solo in parte: alcuni
lessero il surrealismo come un pretesto che si limitava alla presenza di «qualche testa
equina»134, altri lo deplorarono come un espediente consunto «per incutere
meraviglia»135, altri ancora ne apprezzarono la particolare interpretazione, che
«[sollecitava] la fantasia senza alterare la scrittura»136.
L'accoglienza riservata alle tre raccolte fu in genere positiva, ma non priva di
critiche. Fughe in prigione suscitò l’impressione di una maturazione dello scrittore,
tanto che la maggior parte dei critici pensò che dovesse essergli riconosciuta una
posizione di rilievo nella storia della letteratura italiana, poiché era stato in grado di
131
C. Malaparte, Sangue, cit., p. 36.
132
G. Luti, Introduzione a Sangue, cit., p. 14.
133
R. Franchi, Fantasie di Malaparte, in «Il Corriere padano», 15 agosto 1940, ora in Malaparte V, cit.,
p. 289.
134
L. Bigiaretti, Malaparte, in «Augustea», 15 settembre 1940, ora in Malaparte V, cit., p. 314.
135
B. Del Fabbro, Fantasia di Malaparte, in «La Sera», 10 novembre 1940, ora in Malaparte V, cit., p.
410.
136
A. Piccone Stella, Scrittori d'oggi: Malaparte, in «Il Messaggero», 4 gennaio 1941, ora in Malaparte
V, cit., p. 483.

38
colmare la distanza che si era creata tra D’Annunzio e gli scrittori successivi 137. Cecchi
scrisse che, «in un certo senso, Malaparte comincia a scrivere da Fughe in prigione. A
scrivere [...] non più come un manipolatore e giocoliere d’idee, ma come un artista»138,
Rossani e altri gli rimproverarono tuttavia un certo intellettualismo: «non neghiamo che
il Malaparte possa anche essere sincero [...], ma avvertiamo [...] subito come egli
difficilmente sappia mantenersi in quest'aura di confessione, che sarebbe davvero
efficace se non intervenisse quasi immediatamente in lui la coscienza del letterato che
sa vigilare dal di fuori, soppesare i sentimenti fino al punto da ottenere l’espressione
migliore, con una obiettività che va tutta a scapito dell'arte»139. Anche Sangue e Donna
come me vennero lodati, in particolare per la loro originalità, ma criticati per
l'intellettualismo. Assalli notò, per Sangue, che «la parola risulta nella pagina come
staccata dal contesto psicologico e narrativo»140, mentre Sacchetti scrisse che
«l’attitudine dello scrittore [...] non è [...] creativa nel senso del rivivere il fatto, ma
critica nel senso del giudicarlo»141. In Donna come me, Dessì riconobbe «molte pagine
veramente felici in mezzo a tante altre sostenute da un evidente sforzo retorico»142, e
Viscontini descrisse Malaparte «come uno di quei pittori che dipingono sempre
autoritratti, e si mettono davanti allo specchio nelle più strane acconciature [...] per non
ripetere all’infinito le medesime linee e gli stessi colori. E finiscono, in questi esercizi di
abilità, con l’affinare il loro stile più di quanto sia necessario e conveniente, ossia
perdendo l’interesse umano, la spontanea ispirazione di ciò che raffigurano»143.
Dello stesso avviso dei primi critici furono sostanzialmente anche gli studiosi
successivi. Gianni Grana sottolinea che il mutamento di cui parla lo scrittore nella
prefazione di Fughe in prigione è in realtà tutt’al più un progresso rispetto ai tentativi di
Sodoma e Gomorra, ma che l’esito degli esperimenti di questa stagione resta tuttavia
dubbio, in quanto frutto di una «poetica indecisa»144: «soluzioni liriche [...] sono
tutt’altro che rare in queste pagine, e anzi le caratterizzano stilisticamente, denunziando
la genesi intellettualistica e letteraria di “evasioni” che pure sono ispirate a una [...]
137
D. D'Orazio, Fughe in prigione di Curzio Malaparte, in «Il popolo di Trieste», 10 dicembre 1936, ora
in Malaparte III, pp. 662-663.
138
E. Cecchi, Fughe in prigione, in «Corriere della sera», 4 dicembre 1936, ora in Malaparte III, p. 744.
139
W. Rossani, Fughe in prigione, in «L'Assalto», 21 maggio 1937, ora in Malaparte IV, pp. 82.
140
F. Assalli, «Sangue» di Malaparte, in «Il Telegrafo», 7 agosto 1937, ora in Malaparte IV, pp. 151.
141
O. Sacchetti, Gioco del Malaparte, «Il Frontespizio», settembre 1937, ora in Malaparte IV, pp. 437.
142
G. Dessì, Donna come me, in «Primato», 15 luglio 1940, ora in Malaparte V, pp. 272.
143
G. Viscontini, «Donna come me», in «Oggi», 13 luglio 1940, ora in Malaparte V, p. 264.
144
G. Grana, Malaparte, cit., p. 59.

39
esperienza vissuta»145. Egli mette in luce la ricerca più meditata e personale dei racconti
di Sangue, ricerca letteraria che trova il suo punto di arrivo in Donna come me,
«esperienza-limite [...] di un cosciente formalismo [...], classicamente deterso, di cui [il
libro] raccoglie i suoi risultati più perfetti, e potremmo dire più puri»146. Anche Guerri
ritiene che Sangue e Donna come me, «di contenuto simile e uguale stile»147, siano «la
prova più raffinata e riuscita di Malaparte narratore. La purezza dello stile, la raffinata
tecnica narrativa, la felicità delle immagini fecero dimenticare la farraginosa freddezza
di Fughe in prigione»148. Serra, infine, definisce Donna come me «un momento di
felicità senza ritorno nella sua opera»149, «una sorta di autoterapia psicoanalitica»150 in
cui per una volta, l’unica, Malaparte parla di se stesso «senza deformare la realtà, senza
combatterla; accogliendola, limpida, così come si presenta ai suoi occhi, accettandola e
accettandosi per quel che è»151.
Dal nostro punto di vista, i tre volumi sono importanti perché ancora una volta,
nonostante i diversi tentativi di sistematizzazione, essi restano delle raccolte eterogenee,
prive di una continuità tematica che possa legare tra loro i racconti che contengono.
Proprio quella discontinuità è cifra essenziale della narrazione malapartiana e anticipa
infatti la grande stagione del romanzo. In tutti i volumi, ciascun racconto ha le proprie
peculiarità, obbedisce a differenti ispirazioni, più o meno originali, ma anche qui
ritornano le stesse tipologie individuate in Sodoma e Gomorra: l’autobiografia, il
racconto storico o d’invenzione, affiancati ora da resoconti di viaggio e da rivisitazioni
mitiche. Strapaese viene sostituito, ai tempi del «Corriere», da atteggiamenti influenzati
dall’esperienza europea, ma in alcuni racconti emerge ancora l’ambiente provinciale
della Toscana. Tornano inoltre lo stile inconfondibile della prima raccolta, sempre
distaccato, in bilico tra patetismo e ironia, e la stessa ostinata volontà di stupire, che si
accompagna spesso e volentieri con il gusto del macabro e dell’inquietante. Tutte e tre
le raccolte contengono racconti più o meno interessanti e rivelatori, ma è certo che,
come nota Luti nell’introduzione all’edizione di Sangue del 1995, il libro in cui
Malaparte dà forma concreta alle proprie inclinazioni è proprio quest’ultimo. Anche

145
Ivi, p. 51.
146
Ivi, p. 54.
147
G. B. Guerri, L'Arcitaliano, cit., p. 177.
148
Ibidem.
149
M. Serra, Malaparte, cit., p. 268.
150
Ivi, p. 267.
151
Ibidem.

40
Luti, però, tende ad assegnare, come la maggior parte dei critici, un ruolo di primo
piano all’ultima delle raccolte, Donna come me, definita «la prova più alta e
convincente della prosa d'arte malapartiana»152, che a nostro avviso non risulta invece
essere necessariamente il vertice della produzione degli anni Trenta. Come mette in luce
anche Panella, è a partire da Sangue che al centro degli interessi letterari di Malaparte ci
saranno «sempre e soltanto lui e il suo proposito di provocazione estetico-poetica, la sua
volontà di colpire all’epigastro chi legge e, nello stesso tempo, commuoverlo, scuoterlo,
farlo soffrire alla vista delle sofferenze altrui e riuscire a coinvolgerlo, facendolo
immedesimare, nella vicenda dolorosa di una civiltà – quella europea – che è ormai
giunta al suo punto di non ritorno»153. Dovendo attribuire un ruolo di rilievo a una delle
raccolte, la nostra scelta ricadrebbe senza dubbio su Sangue, se non altro per il fatto che
essa rappresenta il primo vero punto di svolta nella produzione di questi anni. Ci sembra
tuttavia più interessante tentare di analizzare i volumi in maniera olistica, tenendo conto
del sottile filo rosso che conduce in questo lungo decennio da una raccolta all’altra fino
ad arrivare ai romanzi, proprio per individuare in questo percorso lo sviluppo della
scrittura malapartiana. Giovanni Titta Rosa, in un commento a Donna come me, fu forse
il primo a notare come l’elemento inquietante, «che è certo nella natura [di Malaparte],
e di cui egli mostrerà sempre di compiacersi, forse per dar risalto al vero e naturale se
stesso»154, sia frutto dell’influenza del surrealismo, ma già si poteva notare «in certe
prose di Fughe in prigione e di Sangue, e in quel racconto di Sodoma e Gomorra, La
figlia del pastore di Börn, tessuto su un sottinteso psicanalitico»155: è proprio questa
traccia che ci proponiamo di indagare nella seconda parte di questo lavoro.

152
G. Luti, Introduzione a Sangue, cit., p. 17.
153
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 36.
154
G. Titta Rosa, Amor di Toscana, in «Il popolo di Roma», ora in Malaparte V, pp. 392-393.
155
Ibidem.

41
1.4 Progetti inconclusi, riedizioni, studi

Negli anni Trenta, Malaparte pubblicò in volume soltanto un terzo dei suoi scritti
apparsi sul «Corriere» e concepì, oltre alle quattro raccolte finora esaminate, anche altri
due progetti «letterari», che tuttavia videro la luce solo molto più tardi. Ci sembra
importante analizzare brevemente anche questa parte della produzione malapartiana
poiché è utile a fornire un quadro più completo del percorso dello scrittore.
Il primo dei casi da prendere in esame è Maledetti toscani. Come si evince da una
lettera inviata da Malaparte all'amico Armando Meoni il 14 aprile 1937, il libro avrebbe
dovuto essere pubblicato presso Vallecchi proprio in quel periodo156, ma alla fine dello
stesso mese lo scrittore, d’accordo con il suo editore, preferì accantonare il progetto per
dare la priorità a Sangue, che fu infatti pubblicato a maggio157. Maledetti toscani, che
Giuseppe Panella definisce «una collezione in chiave bozzettistica di abitudini, costumi,
storie tipiche e vicende più o meno personali»158 e che rappresenta «un ritorno tardivo (e
sovente scontato) alla stagione di Strapaese»159, venne dimenticato dal suo autore fino
all'anno prima della sua morte. Senza dubbio fu una scelta strategica quella di
posticipare la pubblicazione di Maledetti toscani a favore di Sangue: Malaparte aveva
bisogno in quegli anni d’imporsi all'attenzione della critica, e sapeva che con un libro
come Sangue ci sarebbe riuscito meglio che con qualunque altro titolo. Le ragioni che lo
spinsero a pubblicare Maledetti toscani nel 1956 furono invece di tipo utilitaristico:
come spiega Guerri, infatti, Malaparte nel 1955 aveva debuttato nel varietà con uno
spettacolo intitolato Sexophone, che fu un enorme fiasco: se fra tutti i libri che aveva in
preparazione, tutti «importanti e di grande impegno»160, optò proprio per quello sui
toscani, fu probabilmente perché aveva bisogno di rifarsi con un facile successo
economico. Ci si può spiegare infatti il successo spropositato che l’ultimo - e nel
contempo il meno originale - libro di Malaparte ottenne soltanto se si tiene conto del
fatto che il suo autore era ormai diventato «un vero e proprio personaggio»161: il
discorso contenuto nel volume è infatti di tipo meramente populista e popolare; di fatto,

156
C. Malaparte, lettera ad A. Meoni del 14 aprile 1937 a Meoni, in Malaparte IV, cit., p. 59.
157
E. Vallecchi, lettera a C. Malaparte del 26 aprile 1937, in Malaparte IV, cit., p. 68.
158
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 24.
159
Ibidem.
160
G. B. Guerri, L'Arcitaliano, cit,. p. 261.
161
Ivi, p. 262.

42
lo scrittore non fa altro che elogiare la «toscanità» come una caratteristica in grado di
differenziare i toscani dal resto degli italiani e che consisterebbe in un particolare senso
di libertà, d'irriverenza, di determinazione e d'ironia.
Un altro titolo al quale è necessario almeno accennare è L'Inglese in Paradiso, al
quale Malaparte fa riferimento in alcune lettere a partire dal 1933162, sino quindi dai
tempi del suo soggiorno nel Regno Unito. In una lettera a Bernard Grasset del maggio
1936, Malaparte descriveva il libro nei seguenti termini:

Au mois d’octobre vous aurez la traduction complète de mon livre sur L'anglais au
Paradis ou l'art de devenir Anglais […]. J'ai eu la première idée de ce livre en
1932, dans un petit restaurant belge du Boulevard Saint Germain: j'étais avec vous
et avec Mademoiselle Alice Turpin. Vous m'avez incité à l'écrire, vous m'avez
même donné quelques excellents conseils, quelques idées très intelligentes. Le livre
est prêt. Si j'ai retardé à le publier c'est que je ne voulais pas avoir l'air de profiter
de l'actualité. Mon bouquin est très, très amusant. Ce sera un livre snob, un livre
pour les snobs.163

L'Inglese in Paradiso, che, secondo quanto detto da Malaparte a Meoni in una


lettera del 19 dicembre 1935, avrebbe dovuto essere pubblicato da Treves164, fu edito
soltanto nel 1960 da Vallecchi, che aveva intrapreso alla morte dell’autore la ristampa
delle Opere complete, edite e inedite, affidandone la curatela, «secondo il desiderio,
precisamente espresso dall'Autore [...], al suo amico Enrico Falqui»165. Come spiega
Falqui in una Nota, l'opera è incompiuta e priva d’indicazioni circa il suo
completamento: il libro è dunque stato rimaneggiato da un curatore esterno, e non
possiamo verificare l'attendibilità delle scelte editoriali. Si tratta di un lavoro che ci è
giunto suddiviso in tre parti: la prima, Gli Inglesi a occhio nudo, contiene diciassette
articoli apparsi sul «Corriere», di cui cinque però già pubblicati in Fughe in prigione
alla fine del 1935; la seconda è una satira incompiuta intitolata Gesù non conosce
l'Arcivescovo di Canterbury, divisa in quattro parti numerate da I a IV; l'ultima, che dà
il titolo all'intero volume, è incompiuta anch'essa ed è composta da una serie di elzeviri

162
Cfr. per esempio, la lettera di C. Malaparte ad A. Borelli del 30 giugno 1933, in Malaparte IV, p. 255,
già citata nella nota 35 del precedente paragrafo, e la lettera dell’8 settembre 1933, in 661c, AC, in cui
l’autore,dopo aver espresso il desiderio di scrivere una serie di articoli sull’Inghilterra, aggiunge:
«L’Inghilterra interessa sempre il pubblico. E poi ho molto materiale che non utilizzo nel mio libro, e che
va benissimo per articoli».
163
Id., lettera a Bernard Grasset del 23 maggio 1936, in Malaparte III, cit., p. 705.
164
Cfr. la lettera di C. Malaparte ad A. Meoni del 19 dicembre 1935, in Malaparte III, cit., p. 670.
165
E. Falqui, Nota, in C. Malaparte, Racconti italiani, Firenze, Vallecchi, 1957, p. 373.

43
numerati da I a VI. Comunque sia, Giordano Bruno Guerri individua le ragioni del
ritardo nell’impossibilità per Malaparte di pubblicare in Italia dopo il 1934 - anno in cui
la polemica antibritannica fascista si acuì per via della questione etiope - un libro che,
«sotto il velo dell'ironia»166, non nascondeva sentimenti filobritannici, o quantomeno
una certa stima nei confronti degli inglesi. Quel che è significativo è che, se anche
Malaparte rinunciò a pubblicare questo volume di prose di argomento inglese, esso
rimase in cantiere per almeno cinque anni: ciò dimostra che il tema, già emerso in modi
diversi in Sodoma e Gomorra e in Fughe in prigione, rivestiva, all’epoca, un ruolo di
primo piano tra gli interessi dell'autore.

Ci preme spendere ancora qualche parola a proposito delle riedizioni dei racconti
degli anni Trenta. Mentre Malaparte era in vita, Fughe in prigione ebbe due riedizioni,
una nel 1943 e una nel 1954, Sangue ne ebbe una nel 1954 e Donna come me
ricomparve nel 1958, mentre Sodoma e Gomorra non venne ripubblicato. Racconti
italiani, il primo volume delle Opere complete, pubblicato nel 1957, all’indomani della
morte dell’autore, contiene una scelta di testi tratti da tutte e quattro le raccolte scritte e
curate da Malaparte. A quella prima raccolta postuma di racconti ne seguì, nel 1969, una
seconda: L'albero vivo. Il volume, diviso in quattro parti, include nelle prime tre i trenta
componimenti di Fughe in prigione, Sangue e Donna come me «non riportati e non
compresi»167 nei Racconti italiani e nell’Inglese in Paradiso; nell'ultima parte, invece,
«sono stati trascelti e ordinati cronologicamente quarantotto degli elzeviri dal 1928 al
1956»168. Il curatore avrebbe voluto selezionare anche altri elzeviri per delle
pubblicazioni successive, ma il progetto non andò in porto. Se dell’Albero vivo
prendiamo in esame soltanto i trentatré racconti degli anni 1932-1940 apparsi sul
«Corriere», notiamo che essi comprendono principalmente resoconti di viaggio,
recensioni letterarie, articoli storici o storico-letterari, mentre i racconti di fantasia
rappresentano soltanto circa un sesto del totale.
Nel 1971 Vallecchi ha pubblicato nelle Opere complete un volume contenente

166
G. B. Guerri, L'Arcitaliano, cit., p. 163.
167
Id., Nota bibliografica, in C. Malaparte, L'albero vivo, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 471-475.
168
Ibidem.

44
materiali inediti, Il ballo al Cremlino e altri inediti di romanzo, che si presenta come un
coacervo di materiali non ancora del tutto elaborati e di progetti di romanzi non portati a
termine. Tra molti incipit di romanzo figura un solo racconto completo, I cacciatori di
mosche. Il testo è significativo perché richiama l’ultimo capitolo di Kaputt, intitolato Le
mosche: se nel romanzo Malaparte descrive la perenne sconfitta degli uomini nella lotta
contro i fastidiosi insetti, qui una caccia alle mosche rappresenta il mestiere tipico della
civiltà europea in declino. Non avendo alcuna indicazione sulla data di composizione
del racconto, né sapendo se esso sia realmente terminato, non vi soffermeremo più a
lungo la nostra attenzione, ma ci sembra interessante tenere conto di questa
«ossessione» per l’insetto, che lo scrittore definisce nei Cacciatori di mosche come il
simbolo dell’Europa post-bellica.

Vorremmo concludere questa prima parte del nostro lavoro con una breve
ricognizione dello stato attuale degli studi malapartiani. Se non mancano opere
incentrate sulla vita di Malaparte169, biografie romanzate o testi sulla sua controversa
personalità politica, ve ne sono tuttavia poche che trattino in modo approfondito anche
la sua produzione, e ancora più esigui risultano i contributi esclusivamente dedicati alla
narrativa - in particolare a quella relativa agli anni presi in esame. Lo studioso più
importante del Malaparte narratore resta a tutt’oggi Luigi Martellini, che per Mondadori
ha curato due antologie: Il meglio dei racconti di Malaparte (1982), contenente quelli
riuniti in Fughe in prigione, Sangue, Donna come me e L'albero vivo, e Opere scelte
(2003), dove ha dedicato una sezione specifica alle prose degli anni Trenta, inserendovi
gli stessi racconti scelti per la raccolta precedente, con l'aggiunta dei Cacciatori di
mosche e di un altro racconto apparso nell'Albero vivo. Per la prima antologia,
Martellini ha scritto un’introduzione che ha successivamente ripreso e ampliato per le
Opere complete e per due saggi successivi170: il suo studio rappresenta una prima

169
I quattro biografi il cui contributo è fondamentale per la ricostruzione della vita dell'autore sono
Giuseppe Pardini, autore di una Biografia politica (Milano, Luni, 1998) e i già citati Gianni Grana (1968),
Giordano Bruno Guerri (2008) e Maurizio Serra (2011).
170
Cfr. L. Martellini, Nel labirinto delle scritture, Roma, Salerno 1996, pp. 113-169 e Id., I “Racconti” di
Curzio Malaparte, tra realismo e surrealismo, in “Italia magica”. Letteratura fantastica e surreale
dell’Ottocento e del Novecento, a cura di Giovanna Caltagirone e Sandro Maxia, Cagliari, AM&D, 2008,

45
sistematica ricognizione del materiale narrativo degli anni Trenta. Nel 2003, Emmanuel
Mattiato ha pubblicato una tesi di dottorato sugli scrittori-giornalisti del «Corriere della
Sera» durante la seconda guerra mondiale, la cui terza parte, interamente dedicata a
Malaparte, ha il pregio di tenere conto della dimensione ibrida della scrittura
malapartiana. Recentemente, ha contribuito all’arricchimento degli studi Giuseppe
Panella, con un volumetto nel quale, ripercorrendo brevemente le principali opere dello
scrittore, ne rintraccia l’elemento unificante in quella che definisce «la poetica dello
choc». Il lavoro di Panella, pur concentrandosi - per quel che riguarda la narrativa breve
- soltanto su Sangue, sarà quindi, insieme a quello di Martellini, un punto di riferimento
fondamentale per la nostra analisi.

pp. 704-717.

46
2 Diverse tipologie di racconti

Percorrendo il magmatico corpus dei racconti malapartiani degli anni Trenta,


abbiamo tentato di individuarne degli elementi di continuità: come si può desumere dal
precedente capitolo, l’impresa è tuttavia molto ardua. L’eterogeneità dei testi è un dato
di fatto con il quale bisogna fare i conti, e riunire l’intero insieme sotto un unico segno
significherebbe forzare e snaturare l’essenza di ciascuno di essi.
Alla fine del suo saggio del 1982, Luigi Martellini conclude scrivendo che
Malaparte

sembra aver riversato in questi racconti, come in un crogiuolo, tutto il suo


complesso mondo letterario: memoria e fantasia, riflessione e lirismo, allegoria e
surrealismo, romanticismo ed ermetismo, classicismo e naturalismo, simbolismo e
autobiografia, psicologia e psicanalisi, idillio e intellettualismo, evocazione e
magia, intuito e acutezza, reminescenza e cinismo, estemporaneità e stupore,
vivezza di stile e spirito d’osservazione. Un gigantesco cantiere o laboratorio di
prova dove sperimentare materiali e ingredienti diversissimi.171

Il critico individua il «“filo di Arianna” che unisce narrazioni così varie, […] che
dà unità alla mancanza di unità»172, in primo luogo nell’inquietudine, nella disperazione,
nella solitudine, nella malinconia e nel pessimismo dell’uomo Malaparte, in secondo
luogo nella poesia come creazione del mondo e, infine, nella morte come corruzione
della vita. Gli elementi individuati in questa riflessione come unificanti non possono
tuttavia, a nostro avviso, essere estesi all’intero arco della produzione degli anni Trenta:
ciascun elemento è peculiare di un certo numero di racconti, ma non di tutti.
Proponiamo, a partire da queste considerazioni, una suddivisone del corpus in
tipologie, gruppi ampi e contenenti testi anche molto diversi fra loro, nei quali però essi
sono accomunati da una delle seguenti caratteristiche: l’invenzione, l’autobiografia, la
storia, la descrizione o la rilettura di un mito. Queste macro-categorie non sono da
intendersi come dei sistemi del tutto separati tra loro, ma come insiemi comunicanti
attraverso intersezioni e punti d’incrocio: l’inclusione di un racconto, che contiene di
solito caratteristiche appartenenti a più tipologie, nell’una o nell’altra categoria dipende

171
L. Martellini, Introduzione a C. Malaparte, Il meglio dei racconti, a cura di L. Martellini,
Milano, Mondadori, 1982, p.19.
172
Ibidem.

47
dal prevalere di un elemento sugli altri. Tale sistematizzazione è del tutto personale e
non ha la pretesa di essere assoluta o definitiva, ma può essere uno strumento utile per
analizzare gli elementi chiave della produzione di questi anni senza arrendersi di fronte
alla sua eterogeneità.

48
2.1 L’invenzione

Nella categoria dell’invenzione figurano diciassette racconti, cinque dei quali


apparsi per la prima volta in Sodoma e Gomorra, uno in Fughe in prigione, quattro in
Sangue, sette in Donna come me: a legarli tra loro è la loro distanza, totale o parziale,
dall’esperienza vissuta dell’autore. Nella maggior parte dei racconti, come La figlia del
pastore di Börn, Storia del cavaliere dell’albero, Il Moro di Comacchio, Il Martellatore
della Vecchia Inghilterra, Madre che cerca il suo bambino, Un giorno felice e Il mare
ferito, Malaparte non compare mai né come personaggio né come narratore. In quattro
di essi, Sodoma e Gomorra, Visita dell'angelo, Primo amore e Quasi un delitto, egli è
narratore e protagonista delle vicende, ma queste hanno un tono allegorico, moralistico
o magico-onirico: nel primo, come abbiamo visto, egli viaggia in Palestina in
compagnia di Voltaire e di due angeli; nel secondo narra l'apparizione di un angelo; nel
terzo rivive un ricordo d’infanzia nel quale, preso da un furore inspiegabile, colpisce
alla testa con una pietra una ragazza che sta dormendo in un bosco; mentre nel quarto
racconta di una gita a Pompei durante la quale si perde nella città insieme a una
bambina. Pur essendo questi ultimi due racconti verosimili, abbiamo preferito non
inserirli tra i racconti autobiografici perché non contengono al loro interno alcun
riferimento a cose o a persone precisamente identificabili: nulla, al di fuori dell’io
narrante, può farci presupporre la realtà dell’evento narrato. Gli ultimi sei racconti
appartenenti a questa categoria sono le fantasie di Donna come me - Città, Donna,
Cane, Giorno, Terra e Santo come me173: come abbiamo visto, queste fantasie parlano
dell’autore in modo molto indiretto, costruendone un ritratto potenziale, ma pur sempre
inventato.
È fondamentale tenere conto del fatto che tutti i racconti appartenenti a questa
categoria, pur essendo d’invenzione, sono sempre mimetici, verosimili, vicini - quale
più quale meno - alla realtà quotidiana. Malaparte ama confondere e depistare il lettore
inserendo stralci di verità nei sogni ad occhi aperti che narra, e viceversa. Distinguere il
confine che separa la realtà dalla finzione non rappresenta certo una questione di
secondaria importanza nell’opera dell’autore, ma egli stesso, nella Pelle, liquida la
questione nei seguenti termini: quando Pierre Lyautey gli chiede che cosa ci sia di vero

173
Di cui Città come me precedentemente apparsa in Sangue.

49
nel suo ultimo romanzo, Kaputt, il generale Hamilton prende la parola al suo posto
affermando che «non ha alcuna importanza […] se quel che Malaparte racconta è vero,
o falso. La questione da porsi è un’altra: se quel ch’egli fa è arte, o no»174. Per lo
scrittore, quello che conta non è insomma creare una storia nella quale sia possibile
distinguere il vero dal falso, ma racchiuderla in un incantesimo che sappia ammaliare il
lettore, il più delle volte riuscendoci. Riteniamo che questo atteggiamento, tipico della
poetica malapartiana, possa essere ricondotto alla questione del realismo magico e del
surrealismo. Ciò che afferma Maria Emanuela Raffi parlando della rivista «900»,
ovvero che «un’atmosfera “surrealista” [vi] si respira dappertutto, ma in nessun luogo si
riesce a riconoscerne la fisionomia»175, può valere anche per i racconti, e quanto
aggiunto da Fabio Gambaro a proposito del realismo magico bontempelliano, che «solo
in apparenza rimanda alla prospettiva del movimento francese, collocandosi piuttosto
nell’area del fantasioso e del meraviglioso»176, può valere anche per Malaparte. Già i
suoi racconti, ancora prima dei romanzi, si situano dunque in una sfera realista e allo
stesso tempo onirico-magica, la quale, come vedremo, non si limita a comprendere
quelli d’invenzione, ma è uno di quei fili rossi che collega in più punti tutta la
produzione degli anni Trenta.
La maggior parte dei racconti d’invenzione, se escludiamo le sei fantasie, sono
accomunati anche da altre caratteristiche, quali il gusto del macabro, del violento e
dell’inquietante, che sono spesso legate alla volontà di stupire. Quanto al tono,
Malaparte mantiene sempre un certo contegno, un distacco dal materiale narrativo, e
alterna nei racconti ironia, lirismo e patetismo. Ne deduciamo dunque che anche
all’interno di una categoria sia impossibile ignorare l’eterogeneità della sua scrittura e
trovare dei caratteri unitari e del tutto unificanti. Riteniamo tuttavia che alcuni racconti
contengano un numero maggiore di elementi che caratterizzeranno i romanzi degli anni
Quaranta e per questo abbiamo scelto di analizzarli più da vicino.
Il primo racconto in cui si riescono a intravedere i meccanismi che
caratterizzeranno alcuni dei passi migliori di Kaputt è La figlia del pastore di Börn, che
si trova in Sodoma e Gomorra. Come abbiamo già detto, il testo descrive l’inquietante

174
C. Malaparte, La pelle, Milano, Adelphi, 2010, p. 284.
175
M. E. Raffi, André Breton e il surrealismo nella cultura italiana (1925-1950), Padova, CLEUP, 1986,
p. 32.
176
F. Gambaro, Il surrealismo, Milano, Bibliografica, 1996, p. 81.

50
parabola della psicosi del pastore di Börn dopo la morte della moglie Maria. Una
caratteristica importante del racconto è la narrazione in prima persona da parte di Anna,
la figlia del pastore: l’intradiegesi, utilizzata unicamente in questo racconto, ha un
effetto patetico che lo rende conforme ai canoni tradizionali. Negli altri racconti
d’invenzione essa è solitamente abbandonata a favore dell’extradiegesi, che consente
allo scrittore una maggiore elasticità rispetto alla materia narrativa; nei casi in cui
l’intradiegesi è mantenuta, però, è sempre la voce inconfondibile del personaggio
Malaparte a raccontare i fatti. Gli eventi del racconto si svolgono con un ritmo lento, su
un filo sottile sul quale i personaggi sono destinati a perdere l’equilibrio alla fine del
loro percorso: il testo è interamente immerso in una tensione sotterranea che sfocia nella
conclusione, l’efferato omicidio del nuovo pastore Guda da parte del padre di Anna.
Importante ci sembra notare che il momento dell’uccisione non viene descritto, ma solo
ricostruito successivamente: questa narrazione indiretta crea sì un effetto di sorpresa e
orrore, ma molto contenuto.
Il modello di questo racconto viene ripreso, esasperato ed estremizzato, in due
racconti di Sangue, Madre che cerca il suo bambino (inedito) e Un giorno felice (uscito
sul «Corriere della Sera» il 4 maggio 1937), nei quali gli atti imprevedibili e violenti
con cui si concludono entrambi vengono narrati in modo diretto e particolareggiato.
Abbandonata la narrazione intradiegetica, Malaparte descrive in terza persona sia la
disperazione della madre che ha perso il figlio ma continua a cercarlo ossessivamente
tra le asfittiche mura della propria casa, sia la giornata del cavalier Bonfante per le vie
di Roma (quest’ultimo racconto rappresenta tra l’altro, secondo Giorgio Luti, «il
massimo tentativo di uscire dallo spazio della memoria evocativa, verso il racconto in
terza persona»177). Se può già essere considerato violento l’atto conclusivo di Madre
che cerca il suo bambino, ovvero il morso da parte del cane al seno della donna che,
credendo di vedere nella bestia il figlio morto, tenta di allattarlo, la conclusione di Un
giorno felice rappresenta un atto di violenza senz’altro più inaudita: l’uccisione del
proprio gatto da parte del protagonista del racconto.
Quando Un giorno felice apparve sul «Corriere della Sera», esso non era altro che
la descrizione dell’inizio di una particolare giornata del cav. Bonfante (Demetrio nella
prima versione); in Sangue, invece, viene ampliato di diverse pagine e modificato in

177
G. Luti, Introduzione, in Sangue, cit., p. 12.

51
modo che la narrazione arrivi a coprire l’arco dell’intera giornata, «complicandone il
significato in una direzione di morbosa violenza destinata a sorprendere, o quantomeno
a spiazzare il lettore nei suoi esiti truculenti»178. La prima parte, che corrisponde a
quella apparsa sul «Corriere» e che resta sostanzialmente invariata, ha un tono
«ambiguamente polemico nei confronti del regime»179: il narratore racconta la
commozione del protagonista durante i festeggiamenti del sabato fascista di fronte alle
schiere dei Balilla e a quelle delle Camicie nere di ritorno dall’Africa. Pieno di ingenua
gioia, Bonfante decide, per festeggiare la nobiltà e bellezza del proprio paese, di andare
a mangiare in un’osteria. Fin dall’inizio del racconto, percepiamo in questo
personaggio, che, preciso e puntuale, non ha mai saltato un solo giorno di lavoro, una
vena di nevrosi, e la sensazione va crescendo nella seconda parte, facendo sì che la
tensione di fondo a poco a poco aumenti. Se Malaparte avesse voluto mantenere la
versione originale del racconto, esso avrebbe dovuto finire qui, senza che questa ancora
lieve tensione avesse modo di sfogarsi. In Sangue, tuttavia, il testo prosegue e lo
scrittore lavora proprio su quella tensione in modo da rendere il testo più ambiguo dal
punto di vista psicoanalitico. Nell’osteria, il cavaliere inizia a bere e a chiacchierare con
un operaio appena incontrato, attirando ben presto una piccola folla festante. Entusiasta,
con la lingua sciolta dal vino, Bonfante dapprima scherza felice, poi lentamente cambia
umore e perde presto il controllo di sé: si esalta, si piange addosso, cade per terra
attirandosi l’antipatia dell’oste. Nonostante gli operai cerchino di sostenerlo e
incoraggiarlo, Bonfante ha ormai perso il suo buonumore, si sente l’unico prigioniero e
infelice in mezzo a una schiera di uomini liberi e felici. Tutti si rendono conto a questo
punto che è ormai arrivato il momento di tornare a casa. Una volta giuntovi, il cavaliere
riesce a ritrovare un momento di pace sorseggiando il brodo preparatogli dalla
governante, ma quel confortante stato di benessere è ben presto interrotto dall’arrivo del
gatto, che, piantandogli ripetutamente le unghie nelle gambe, lo innervosisce al punto da
indurlo a commettere un atto violentissimo:

Afferrò il gatto per la gola, fece per scagliarlo contro il muro. Ma la bestia,
atterrita, gli ficcò gli artigli nel braccio, e miagolando con voce rauca si dibatteva
ferocemente, tentando di liberarsi dalla stretta che lo soffocava. Fosse il dolore,
fosse la cieca rabbia che si era impadronita di lui, il Cav. Bonfante strinse ancora di

178
Ivi, p. 13.
179
Ivi, p. 12.

52
più le dita intorno al collo dell’animale, e, agguantata con la mano sinistra una
forchetta, l’andava conficcando con selvaggia violenza nel corpo della bestia. Una
lotta mortale s’accese tra l’uomo e il gatto. Reso pazzo dal terrore, l’animale si
difendeva solcando di graffi il braccio e il viso dell’avversario, stracciandogli a
morsi i calzoni, la manica della giacca, la camicia, un orrendo miagolio usciva
dalle sue fauci schiumose. Gli occhi iniettati di sangue, la faccia lacerata dagli
artigli della bestia inferocita, il Cav. si accaniva con rabbia sul corpo della sua
vittima: un sibilo breve, affannoso, rompeva dalle sue labbra contorte in una
smorfia d’odio e di dolore. A un tratto, in uno strepito di stoviglie infrante e di
sedie rovesciate, l’uomo e la bestia rotolarono sotto la tavola. Con balzi violenti,
con soprassalti improvvisi, il gatto tentava di aggrapparsi al viso dell’avversario,
ma a poco a poco, dilaniato dalle punte della forchetta, strozzato dalla morsa di
quelle dita dure e secche, le forze gli vennero meno: finché il Cav. Bonfante,
afferrata una bottiglia, cominciò a martellargli selvaggiamente la testa.180

La governante, osservata la scena immobile per la paura, pensa che il cavaliere sia
impazzito, ma poi, guardando meglio, scopre di non averlo mai visto così sereno: tanto
sereno da assomigliare a «un bambino finalmente guarito da una pena segreta,
abbandonato a un sogno libero e felice»181. A proposito di tale conclusione, Martellini
suggerisce che Bonfante sembrerebbe «aver concluso la piatta e monotona esistenza
[…] con la morte felice nel sonno, scaricata ormai la sua antica nevrosi uccidendo
l’animale dentro di sé e quindi se stesso»182. Quel che è certo è che il cavalier Bonfante,
così come il pastore di Börn, sono due personaggi disturbati in modo più o meno grave,
più o meno evidente, che esternano il loro malessere per mezzo della violenza. Tenendo
conto del fatto che in Un giorno felice la violenza viene scaricata su un animale
innocente, ci sembra interessante a questo punto fare un salto in avanti e leggere un
breve estratto di Kaputt. Nel capitolo Gli uccelli, Malaparte riporta un colloquio avuto
in Serbia con un soldato delle SS, «un ragazzo di forse diciotto anni, biondo, dagli occhi
azzurri, dalle labbra rosse illuminate da un sorriso freddo e innocente»183, durante il
quale questo ragazzo dall’apparenza angelica gli aveva spiegato come avesse imparato
«à tuer les juifs»184, a uccidere gli ebrei:

le reclute dei Leibstandarte delle SS erano educate a sopportare senza batter ciglio
il dolore altrui. […] Una recluta delle SS non è degna di appartenere a un
Leibstandarte se non quando riesca a superare felicemente la prova del gatto. Le

180
C. Malaparte, Un giorno felice, in Sangue, cit., pp. 172-173.
181
Ivi, p. 174.
182
L. Martellini, Malaparte narratore, in Il labirinto delle scritture, cit., p. 157.
183
C. Malaparte, Kaputt, Milano, Adelphi, 2014, pp. 280.
184
Ibidem.

53
reclute debbono afferrare con la mano sinistra, per la pelle del dorso, in modo da
lasciargli libere le zampe per potersi difendere, un gatto vivo, e con la mano destra,
armata di un piccolo coltello, cavargli gli occhi.185

La descrizione agghiacciante di quest’atroce tecnica didattica, inaspettatamente


raccontata da Malaparte durante un convivio, richiama in qualche modo l’uccisione del
gatto del cavalier Bonfante. A ben vedere, infatti, l’unica differenza tra la crudeltà del
protagonista di Un giorno felice e il giovane soldato di Kaputt risiede nel fatto che, se
entrambi hanno ucciso senza battere ciglio una creatura innocente, il primo l’ha fatto
come in trance, «preso da un cieco furore»186, mentre il secondo ha commesso il gesto
con la consapevolezza che quello sarebbe stato solo il primo di una serie di atti ancora
più spietati. I due episodi non sono inoltre accomunati soltanto dal tema della crudeltà
dell’uomo di fronte all’innocenza animale, che risulterà come vedremo fondamentale
per l’impianto del romanzo del 1944, ma anche dalla tecnica con cui sono narrati. Se
pensiamo alla macabra minuzia con cui i due episodi vengono descritti, sembra che il
racconto rappresenti per Malaparte un vero banco di prova per sperimentare in che
modo e fino a che punto la scrittura sia in grado di veicolare uno choc. In Kaputt la
scrittura risulta più asciutta e incisiva rispetto alle prove degli anni Trenta; tuttavia il
meccanismo narrativo è già completamente assestato: Malaparte racconta in modo
impercettibilmente teso una vicenda che sembra rientrare nell’ordine del quotidiano e
che si conclude invece con uno scatto improvviso in grado di colpire il lettore dritto allo
stomaco. Come mette in luce Panella, tutti i racconti di Sangue «testimoniano non solo
della grande maestria verbale di Malaparte […] ma della sua capacità di colpire
l’attenzione dei suoi lettori mediante un uso calibrato e abilissimo della tecnica dello
choc visivo attraverso la rappresentazione di episodi scelti per colpire direttamente
l’immaginazione di chi legge e s’immedesima nella loro dinamica»187.
Prima di passare all’analisi del prossimo racconto, richiamiamo l’attenzione su un
ultimo punto di notevole interesse per quel che riguarda l’architettura del racconto,
ovvero la sovrapposizione di materiali narrativi scritti in momenti diversi e poi
giustapposti e accumulati fino a creare un prodotto completamente nuovo. Abbiamo
visto quanto il racconto sia stravolto nel passaggio dal giornale al volume grazie a una

185
Ibidem.
186
Id., Un giorno felice, in Sangue, cit., p. 172.
187
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 41.

54
consistente aggiunta capace di modificarne completamente il senso, ma, come evidenzia
Luti, questa ripresa di un determinato materiale a cui ne viene sovrapposto un altro di
nuova ispirazione non è la sola. Il critico evidenzia che anche nella seconda parte «sono
presenti alcuni spunti (l’osteria nella campagna romana, l’incontro con gli operai) che
compaiono in un altro articolo, Carattere dei romani, apparso sul «Corriere della Sera»
il 16 aprile 1937»188. Vedremo successivamente che questo modo di organizzare il
materiale narrativo a partire da piccoli nuclei sarà tipico anche della stagione del
romanzo.
Un altro racconto che contiene diversi elementi di continuità con i romanzi degli
anni Quaranta e sul quale vorremmo soffermarci è Quasi un delitto, apparso per la
prima volta sul «Corriere» il 15 agosto 1937, poi incluso in Donna come me. Questo
testo, in cui Malaparte è narratore e protagonista dei fatti narrati, ci sembra un perfetto
esempio di quella poetica del realismo magico di cui abbiamo precedentemente parlato.
La vicenda narrata si trova talmente in bilico tra realtà e fantasia da poter essere ritenuta
anche autobiografica, ma in mancanza di precisi riferimenti a fatti o personaggi ben
identificabili e per via della sua particolare atmosfera, abbiamo preferito ritenerla
d’invenzione. La trama sembra a prima vista estremamente lineare: Malaparte si trova
in gita a Pompei con una comitiva di amici e, verso sera, si perde nella città con una
bambina di nome Luisa. Alcuni elementi intervengono tuttavia a complicare il tessuto
narrativo: una volta soli, la bambina sembra diventare per Malaparte una guida
all’interno di un labirinto, avviando una ricerca della quale solo lei conosce l’obiettivo e
la strada per raggiungerlo. L’identità stessa di Luisa, inoltre, resta una questione
irrisolvibile: chi è questa bambina di cui non sappiamo nulla e di cui Malaparte
comunica soltanto il nome? Se in un primo tempo sembrerebbe essere la figlia di un
amico, Luisa diventa in seguito una presenza chimerica in grado di materializzarsi e
smaterializzarsi agli occhi di Malaparte.
Il racconto prende avvio con un incipit che detta fin da subito il tono
ambiguamente onirico del testo: «Non so come avvenne che ci smarrimmo. Il sole era
tramontato all’improvviso, il mare a poco a poco si oscurava, i fianchi del Vesuvio
imminente da purpurei si facevano azzurri: acquistando così una parvenza incerta e

188
G. Luti, Introduzione, in Sangue, cit., p. 12.

55
torbida, una strana trasparenza di vetro polveroso»189. Queste poche righe servono a
immergere il lettore, che si trova immediatamente trasportato dietro quel vetro
polveroso, in un’atmosfera indefinibile che andrà offuscandosi sempre di più. Malaparte
prosegue infatti insistendo su questo senso di smarrimento che scaturisce dal calore e
dall’aria pesante della labirintica città, che lo inducono addirittura a mettere in dubbio la
realtà che lo circonda: «Benché senza dubbio ci fossimo a un tratto fermati, dopo una
lunga corsa per le viuzze deserte, mi pareva di aver corso, mi pareva d’esserci fermati.
Più che un certezza immediata di quegli atti, era come un ricordo lontano, un sentimento
proprio del sogno»190, «“Guarda laggiù, guarda”, ripeté Luisa a voce bassa. Era il
ricordo di una voce più che una voce»191. Il protagonista, pur tentando di mettere a
fuoco ciò che la bambina gli indica con sicurezza, non riesce a scorgere nulla: un
sentimento di angoscia s’insinua a poco a poco nel suo animo. Tutto, intorno a lui, inizia
a farsi indistinto, anche la natura assume un aspetto anomalo e sembra trasformarsi nella
scena di un sogno: «un lieve bagliore roseo incoronava il cratere, pareva un respiro»192,
«il mio piede si posò sulla pietra senza far rumore, come se camminassi sull’erba»193.
Egli cerca di sottrarsi «a quella sorta di magia»194, ma finisce col perdere
definitivamente il senso del reale: «Mi sentivo a poco a poco invadere da un sentimento
strano: mi pareva d’esser rimasto solo, che Luisa fosse scomparsa […]. La sua presenza
fisica indugiava tuttavia intorno a me, nell’aria quieta, come un suono, un odore, un
colore disciolto in un’acqua limpida. La bambina m’era diventata all’improvviso nulla
più di un’immagine, di un ricordo»195. Da questo momento in poi, i contorni della realtà
si fanno sempre più sfumati: «Come avviene nei sogni, quando le persone e gli oggetti
ci sembrano vicini allo sguardo, ma subito si allontanano se allunghiamo la mano,
mutandosi in vane forme non appena tentiamo di afferrarli, io camminavo alla cieca, le
braccia protese, cercando di afferrar la bambina che camminava davanti, e subito Luisa
s’allontanava […]»196. La bambina, trasformatasi ormai quasi nell’ombra di una
bambina, si sposta intorno al narratore con movimenti impercettibili, inducendolo a

189
C. Malaparte, Quasi un delitto, in Donna come me, cit., p. 23.
190
Ibidem.
191
Ivi, p. 24.
192
Ibidem.
193
Ibidem.
194
Ibidem.
195
Ivi, p. 25.
196
Ivi, p. 26.

56
seguirla ora con la voce, ora prendendolo per il braccio. Malaparte, sbigottito, non osa
voltarsi a cercarla né può opporsi alla sua volontà: «Era come nel sogno, quando si è
spinti innanzi da una cieca forza, alla quale è impossibile resistere»197. Il Vesuvio,
intanto, come un gigantesco mago che troneggia sulla città, mormora «parole
segrete»198 tra le «labbra […] di carne»199 del suo cratere:

E tendendo l’orecchio, sforzandomi di percepire il suono di quella voce nel


mormorio confuso, mi ferì le narici un odore lento dapprima, poi amaro e violento.
Non potevo distinguere se fosse un suono o un odore. Poi, a poco a poco, riconobbi
in quell’odore e in quel mormorio il sentore nauseante di qualche materia in
decomposizione. Mi avanzai di qualche passo, e giunto sulla sponda di quel largo
fossato, che gira intorno alle mura fin sotto l’anfiteatro, vidi distesa su un mucchio
d’immondizie […] la carogna di un cane. Un odore dolce e orrendo saliva dal
profondo fossato. Sulle prime mi parve la carogna di un cane: ma guardando
meglio, mi accorsi che era il corpo di una bambina. La luce che pioveva dalla
nuvola rossa, sospesa a picco sulla bocca del vulcano, le illuminava dolcemente il
viso pallidissimo. Dormiva sorridendo. Era scalza, e nel resto della persona ben
vestita e composta in un riposo preparato e disposto da mani attente e premurose.
Aveva un vestitino di cotone a quadretti rossi e bianchi, stretto alla vita da una
cintura di cuoio scarlatto. Al collo un piccolo bavero bianco, di tela inamidata, i
capelli erano ravviati con cura, e si vedeva spuntare di sotto la nuca un fiocco di
seta azzurra.200

Lo smarrimento del narratore-protagonista aumenta a questo punto in modo


esponenziale. Luisa, che si trova improvvisamente dall’altro lato del fosso, lo invita a
tacere mettendosi un dito sulle labbra mentre si allontana e fugge con uno sguardo
«ingenuo e impaurito»201: Malaparte cerca allora di raggiungerla, ma lei gli sfugge,
«agile e silenziosa come un’ombra»202, sorridendo tristemente. Improvvisamente, una
luce in fondo a una strada e una voce che chiama i nomi di Malaparte e di Luisa attirano
i due protagonisti fuori da quel labirinto forse solo immaginato, e il racconto si conclude
in un silenzio «pieno di triste rancore, dove l’umiliazione e l’orgoglio facevan delusa e
malinconica guerra»203. Il racconto, il cui titolo originale era, lo ricordiamo, Quasi un
sogno a Pompei, si concludeva originariamente con una frase rivelatrice: «Io la seguivo
in silenzio, e m’agitava il cuore un moto di liberazione e di gioia […] per aver ritrovato
197
Ivi, p. 27.
198
Ibidem.
199
Ibidem.
200
Ivi, pp. 28-29
201
Ivi, p. 29.
202
Ibidem.
203
Ivi, p. 30.

57
finalmente dentro di me quell’immagine felice che sempre, col pretesto del sogno, tenta
di fuggire da ciascuno di noi»204. Questa chiusa, così come il titolo originale, avrebbero
contribuito a incasellare più facilmente il testo nella dimensione definita della
narrazione di un sogno, e infatti, nel volume, lo scrittore modifica entrambi al fine di
mantenere una maggiore ambiguità. Malaparte riesce dunque a costruire un racconto
suggestivo in cui il labile confine tra vero e falso, tra sogno e realtà in certo modo si
annulla, lasciando il lettore spiazzato. Ciò che contribuisce maggiormente allo
smarrimento è la tecnica di spiegare quello che verosimilmente è un sogno attraverso le
categorie della realtà. Ed è proprio da questa sovrapposizione di piani che nasce, a
nostro avviso, il realismo magico di cui si parlava, poiché la realtà viene assoggettata
all'onirico creando sensazioni di stupore inquieto.
Altri due elementi che concorrono alla creazione di un’atmosfera magica sono gli
espedienti retorici della sinestesia e della personificazione, che pervadono il racconto e
che troveranno largo utilizzo nelle opere successive. Alla lettura del primo capitolo di
Kaputt, ci si accorge di quanto nella scrittura malapartiana i cinque sensi vengano
confusi e sovrapposti di continuo: i suoni si trasformano in odori, gli odori prendono
forme umane o animali, gli animali diventano paesaggi panici. Significativi in tal senso
sono il cadavere della giumenta di Alexandrowka, il cui odore putrescente si trasforma,
come in un incubo, in un personaggio esso stesso, o la pazzia della natura svedese, che
assume lentamente le sembianze di un’immensa creatura equina. Tale strategia è a
nostro avviso fondamentale nella poetica malapartiana e notiamo con interesse come la
sua prima sperimentazione avvenga proprio nelle raccolte degli anni Trenta. In questo
senso, la dedica di Donna come me ci sembra una dichiarazione fatta non tanto per
collocare l’opera nel segno del surrealismo, come alcuni critici hanno creduto
all’indomani della pubblicazione, quanto per renderne esplicito l’elemento magico,
confondendo fin dall’inizio le carte: «fin da quando, volgendo verso di me la tua nera
testa di cavallo, mi hai per la prima volta incontrato con lo sguardo […] hai sentito quel
che di segreto, di misterioso, è nella mia natura. Hai capito che io non sono soltanto un
uomo: ma donna, cane, pietra, albero, fiume»205.
Allo stesso espediente fanno ricorso altri due racconti dell’ultima raccolta: Il mare
ferito (uscito sul «Corriere della Sera» il 30 gennaio 1940) e Cane come me (uscito
204
Id., Quasi un sogno a Pompei, in «Corriere della Sera», 15 agosto 1937, p. 3.
205
Id., Dedica, in Donna come me, cit., p. 9.

58
sempre sul «Corriere» il 1 novembre 1938). Nel primo, il personaggio di Valastro non è
altro che una personificazione dell’elemento marino: in certi punti del racconto, il mare
assume caratteristiche antropomorfe e compie gesti umani, ma in altri torna ad essere
descritto come elemento naturale. La sua umanità resta sfuggente e indefinibile, quasi
come nella rappresentazione omerica del fiume Xanto che, in collera nei confronti del
pelide, viene descritto ora come corrente d’acqua ora come guerriero 206. In Cane come
me, invece, Malaparte, con il pretesto di tracciare un ritratto ideale di se stesso a partire
dal modello del randagio Febo, trovato a Lipari durante il confino e divenuto in seguito
compagno inseparabile, sembra dichiarare in modo implicito la sua poetica
«animalista»: ovvero l’aspirazione a godersi «non già panorami di nuvole, di montagne,
di pianure, ma panorami di odori: là non proprio la selva, ma l’odor della selva. Laggiù
non la strada, ma l’odor della strada. […] Una natura ricca di odori, non di colori; di
suoni, non d’immagini. Ed essenziale appunto per la sua armonia senza forma»207.
Questo racconto è uno dei pochi nei quali il distacco e il contegno dello scrittore nei
confronti della materia narrativa sono meno accentuati: Malaparte si lascia infatti
trasportare da un sentimento di autentica venerazione per tutto ciò che appartiene al
regno animale.
A questo proposito ci sembra interessante ritornare brevemente sul brano della
bambina addormentata in mezzo alla città, in quanto ci sembra rappresentare uno dei
primi esempi in grado di far emergere quella confusione tra ciò che appartiene al mondo
animale e ciò che appartiene a quello umano, che sarà una delle tematiche costitutive
della grande stagione del romanzo. In tutta l’opera di Malaparte si delinea infatti una
poetica «animalista» secondo la quale le bestie rappresentano le uniche creature degne
di pietà poiché conservano una purezza che l’uomo ha ormai perso, trasformandosi
sempre più spesso nel loro giustiziere. Nell’immaginario malapartiano, dunque, quanto
meno un uomo è crudele, tanto più assomiglia a un animale, «apparentandosi all’agnello
sacrificale»208. L’idea che l’innocenza dell’uomo possa essere misurata attraverso la sua
somiglianza con le bestie verrà sviluppata a partire dal Sole è cieco (1941), per trovare
in Kaputt (1944) la sua massima espressione e venire ripresa ancora nella Pelle (1949).

206
Interessante notare come il motivo della personificazione del mare sia tipico dell'area novecentista: si
trova, trattato in modi molto diversi, in Bontempelli (La spiaggia miracolosa), Savinio (Walde Mare),
Paola Masino (Allegoria seconda) e nel Moravia «surrealista» (Il mare).
207
Id., Cane come me, in Donna come me, cit., pp. 52.
208
M. Serra, Malaparte, cit., p. 355.

59
Pensiamo all’alpino Calusia, il protagonista del romanzo del 1941, descritto sin dalla
sua prima apparizione come un uomo dal viso di bambino, che porta al collo una
campana di bronzo come quella delle vacche e il cui respiro si confonde con quello di
una bestia: egli, nel suo ingenuo spirito di sacrificio, rappresenta quanto di più puro e
innocente vi sia nel cuore dell’uomo; pensiamo ai bambini ebrei di Kaputt, i topi dei
ghetti, che non hanno alcuna colpa e sono tuttavia vittime della più feroce follia umana;
pensiamo infine alla Sirena dell’Acquario della Pelle, bambina-pesce che, ignara di ciò
che sta accadendo, viene servita ai commensali del Generale Cork nello stupore
generale - episodio che ricorda sotto alcuni aspetti proprio quello di Quasi un delitto209.
La confusione tra l’uomo e la bestia esprime a nostro avviso in modo sempre più
evidente l’urgente bisogno di rimettere ordine in una natura completamente sconvolta
dalla follia umana e di riattingere in tal modo l’originaria e ormai perduta innocenza.

209
«In quel momento la porta si aprì, e sulla soglia […] apparvero quattro valletti in livrea recando
[…] un enorme pesce adagiato in un immenso vassoio d'argento massiccio. […] Tutti guardammo
il pesce, e allibimmo. […] Una bambina, qualcosa che assomigliava a una bambina, era distesa
sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di verdi foglie di lattuga, entro una grande
ghirlanda di rosei rami di corallo. Aveva gli occhi aperti, le labbra socchiuse […]. Era nuda: ma la
pelle scura, lucida […] modellava, proprio come un vestito attillato, le sue forme ancora acerbe e
già armoniose […]. Giaceva quella bambina nella sua bara d'argento, e pareva dormisse» (C.
Malaparte, La pelle, cit., pp. 221-222).

60
2.2 L'autobiografia

La tipologia del racconto autobiografico è in assoluto la più ampia delle cinque


individuate. Ben sedici racconti, infatti, sono riconducibili ad essa; otto di questi (La
passeggiata, Il giardino perduto, Ode alla Sibilla Cumana, La mamma in clinica, Oggi
si vola, Milziade, Petrarca in camicia rossa) apparvero per la prima volta in Fughe in
prigione; sette (Primo sangue, Giochi davanti all’inferno, Morte delusa, Angoscia di
ragazzo, Salutami Livorno, Ippomatria, Giugno malato) in Sangue e due (La città
incantata e Goethe e mio padre) in Donna come me. L’insieme dei testi è caratterizzato
dalla presenza di Malaparte come narratore e protagonista - nel caso della Passeggiata e
di Giugno malato celato sotto uno pseudonimo - di vicende verosimilmente accadute
nella sua vita. Le spie di questa verosimiglianza sono in alcuni racconti i personaggi che
vi compaiono e che hanno realmente fatto parte della vita dell'autore, in altri i
riferimenti a esperienze realmente vissute. Alcuni di questi testi autobiografici
presentano tuttavia una certa ambiguità perché contengono elementi appartenenti
all’ambito del meraviglioso e possono quindi essere inscritti nell'area di quel realismo
magico di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Reali o presunti che siano, gli
eventi narrati vengono generalmente accettati come veri perché Malaparte rispetta
sempre il patto autobiografico instaurato con il lettore, nel quale autore, protagonista e
narratore sono la stessa persona. Nei due casi in cui ci si trova di fronte a un patto
romanzesco, dove il protagonista ha un nome diverso da quello dell’autore-narratore, il
carattere autobiografico è dato dalle somiglianze che intercorrono tra la vita del
protagonista e quella di Malaparte, che non consentono dubbi riguardo all’identità delle
due figure.
Un aspetto peculiare delle narrazioni autobiografiche è il loro incentrarsi
principalmente sulla sfera familiare della vita dell'autore ed è interessante notare come
Malaparte pubblichi dei racconti riguardanti tale ambito esclusivamente in questo
periodo, tra il 1936 e il 1940. Benché nella stagione del romanzo non approfondisca
questo suo ritratto più «intimo», esso ci sembra significativo perché rappresenta il punto
di partenza per costruire il proprio personaggio letterario che, come vedremo, emerge in
modo più definito nei racconti storici, ma del quale alcuni racconti autobiografici
mettono già in luce determinate caratteristiche rivelatrici.

61
I racconti di questa tipologia si possono suddividere in tre gruppi: i ricordi
d'infanzia, quelli dell'adolescenza e le esperienze contemporanee, relative alla vita
adulta. Nei racconti d'infanzia210, Malaparte mette in scena se stesso all'interno del
nucleo familiare, di cui svela alcuni aspetti come il complesso rapporto con la madre, il
legame con i fratelli, l'affetto che lo lega a Eugenia e Milziade Baldi, che lo avevano
allevato fino ai sei anni. Fa emergere, inoltre, alcuni tratti del suo carattere, come la
forte curiosità nei confronti delle cose del mondo, l'amore per la natura e per gli animali,
e, soprattutto, un'acuta sensibilità che, unitamente a un carattere solitario e introverso, lo
fa sentire diverso da tutti coloro che lo circondano. È soprattutto in queste narrazioni
che il meraviglioso tende in alcuni punti a prendere il sopravvento, specie laddove
Malaparte veicola attraverso il proprio personaggio i traumi infantili, cristallizzandoli in
una sorta di sogno a occhi aperti popolato da fantasmi e mostri, che produce una
commistione di reale e immaginario in cui il macabro e l'inquietante giocano un ruolo
fondamentale. La pretesa di aver vissuto davvero tali vicende, fondata o infondata che
sia, è comunque di secondaria importanza, perché lo scrittore non vuole tanto dare
accesso alle pieghe della propria personalità con una scrittura strettamente
autobiografica, quanto piuttosto dare corpo alle sorprendenti immagini che si sono
enigmaticamente insediate nel suo ricordo. Malaparte utilizza infatti questi episodi
traumatici come delle agnizioni che, quasi nel tentativo di legittimare il proprio ruolo di
narratore e di scrittore, permettono al suo personaggio ancora bambino di riconoscersi
come una sorta di «predestinato» al quale è riservato un particolare rapporto con la sfera
del misterioso e del sacro.
Esemplificativo, in questo senso, è Primo sangue, in cui l'autore ripercorre i
passaggi che lo hanno condotto a sviluppare la propria sensibilità in senso panico, in
armonia con la natura e con le altre forme viventi, a partire da una riflessione a
proposito del sangue, che gli si rivela negli anni dell'infanzia come il prezioso legame
universale tra ciascun essere vivente211. La sua iniziazione ai misteri della vita viene

210
Che sono Il giardino perduto, Milziade (in Fughe in prigione), Primo sangue, Giochi davanti
all'inferno, Ippomatria, Morte delusa (in Sangue) e La città incantata (in Donna come me).
211
Quando il racconto apparve sul «Corriere della Sera», il 23 luglio 1936, conteneva tre pagine in meno
rispetto all'edizione pubblicata in volume, e proprio queste pagine - in particolare, come vedremo, la
nuova conclusione - contengono gli elementi che hanno la funzione di rendere il racconto più ambiguo
dal punto di vista psicanalitico. Notiamo come Malaparte utilizzi anche qui, come in Un giorno felice, la
tecnica della giustapposizione dei materiali narrativi al fine di creare un prodotto completamente o
parzialmente nuovo.

62
fatta precedere da una descrizione lirica degli «strani prodigi»212 che annunciano l'arrivo
dell'estate nelle notti di giugno, nelle quali «un'oscura magia dava moto e voce agli
alberi, alle statue, alle case, ai monti»213, descrizione che introduce la dimensione
sacrale del percorso che sta per intraprendere. Solo allora Malaparte passa a descrivere
la propria curiosità e irrequietezza di bambino di fronte ai «fatti misteriosi»214
dell'esistenza: «dalla mattina alla sera, tutte le volte che aprivo bocca, era per
domandare la spiegazione di qualche mistero»215. A rispondere pazientemente a tutti gli
interrogativi è Eugenia Baldi, che si arroga soltanto una volta il diritto di tacere: «fu
quel giorno che trovarono una ragazza distesa a gambe larghe in un campo di grano
vicino alle gore, tutta spettinata e graffiata»216. Questo «misteriosissimo fatto»217 spinge
il bambino a riflettere sul legame che sussiste tra tutte le creature animate e inanimate,
ma che gli sembra non comprendere la sua persona218. Il suo vittimistico senso di
esclusione nasconde in realtà un notevole senso di superiorità: Malaparte scava
accuratamente la distanza che lo separa dal resto del mondo per mostrarsi come un vate,
un iniziato ai segreti dell'esistenza. Il sentimento della propria diversità è aumentato
dalla consapevolezza di avere nei confronti del sangue

una simpatia che non aveva nulla di morboso, né di crudele, essendo il contrario di
quel naturale ribrezzo per il sangue che nei ragazzi si accompagna talvolta alla
crudeltà, ed è una specie di sadico orrore. Mi ripugnava inferocire contro gli
animali, cani, lucertole, gatti, rospi, uccelli, topi, insetti, come vedevo fare ai
ragazzacci durante le mie scorrerie per i poggi delle Sacca e del Fossino, e lungo
gli argini del Bisenzio. Mi rivoltavo spesso in difesa delle povere bestiole, e non
erano poche le volte che quei piccoli carnefici sfogavano su di me i loro istinti
crudeli.219

Oltre ad essere interessante perché mostra ancora una volta come la sua sensibilità
situi Kurt al di sopra di tutto ciò che lo circonda, questa dichiarazione è emblematica

212
C. Malaparte, Primo sangue, in Sangue, cit., p. 47.
213
Ibidem.
214
Ivi, p. 48.
215
Ibidem.
216
Ibidem. Questa parte su Eugenia Baldi è una delle aggiunte della seconda edizione.
217
Ibidem.
218
«La mia avidità di penetrare i misteri, di cui mi sentivo circondato, era acuita dall'oscuro sentimento di
una particolare ingiustizia della natura verso di me. Mi sentivo escluso dalla vita degli altri ragazzi, degli
animali, delle piante, come se il sangue che mi scorreva nelle vene fosse diverso da quello che scorreva
nelle canne, nei giunchi, sotto la scorza degli alberi, sotto la pelle dei miei compagni di giochi» (ivi, pp.
48-49).
219
Ivi, p. 49.

63
anche per quel che riguarda la poetica «animalista» di cui abbiamo parlato nel paragrafo
precedente. Malaparte, esprimendo la propria empatia nei confronti delle bestie, si rende
implicitamente portatore di valori sacri, quali l'innocenza e la purezza, che lo rendono
un eletto. Per chiarire la propria posizione, l'autore rievoca le altre «chiamate» del
sangue: l'attrazione provata nei confronti di un cadavere insanguinato ritrovato a Prato e
il senso di pace trasmessogli dal sangue di un cane morente dopo aver sofferto
assistendo alla sua dolorosa agonia. Atterrito all'idea che nelle proprie vene non scorra
la stessa linfa vitale che scorre in quelle delle altre creature viventi, il bambino pensa
che, se solo potesse trasferire nelle piante e negli animali «quella forza che [gli] urgeva
nelle tempie, quel misterioso ardore, quel succo pieno d'istinti, d'impulsi, di
desiderii»220, la natura gli sembrerebbe molto «più viva e umana»221. Il terreno è a
questo punto pronto per l'agnizione finale, che permette al protagonista di riconoscersi
come un tramite tra l'umano e il divino a cui l'esistenza ha scelto di svelare il proprio
misterioso significato. In seguito all'incontro con un cane ferito, con il quale s'innesca
un'incredibile empatia, Kurt si sente infatti invadere da una «strana dolcezza»222: «La
natura mi aveva rivelato il suo ultimo, e più profondo segreto, uno stesso sangue
scorreva nelle vene delle piante e degli animali, c’era qualcosa di fraterno nello sguardo
del cane, nella carezza delle fronde sul mio viso»223. Con queste parole, Malaparte pone
fine al proprio percorso iniziatico confermando definitivamente il proprio status di
«predestinato»: dopo una lunga sofferenza, non solo gli è concesso di sentirsi in
armonia con l'universo; scopre addirittura che sua diversità non è affatto un limite, ma
un mezzo in grado di situarlo in un canale di comunicazione privilegiato con il divino.
La scelta di non concludere la seconda edizione con il lieto fine appena descritto, ma
aggiungendo due episodi perturbanti e non risolutivi nei quali il sangue rappresenta un
pretesto più che un elemento di continuità, deriva invece da un atteggiamento
precisamente inscrivibile all'interno di quell'estetica dello choc illustrata da Panella, con
la quale l'autore si propone di rompere l'equilibrio raggiunto per riformulare le questioni
poste fino a quel momento in termini più sfuggenti e ambigui224.

220
Ivi, p. 50-51.
221
Ivi, p. 51.
222
Ivi, pp. 52.
223
Ibidem.
224
In entrambi i casi si tratta di vicende sessualmente morbose che s'inseriscono dopo il momento
contemplativo con una violenza visiva molto forte: nella prima Malaparte racconta il momento in cui

64
Lo stesso carattere iniziatico lo ritroviamo in Giochi davanti all'inferno (sul
«Corriere della Sera» del 28 aprile 1937), che «si tinge fin dall'inizio di un tono
volutamente orroroso»225. Il racconto, che in Sangue non presenta modifiche rispetto
alla versione apparsa sul quotidiano milanese, prende avvio con la narrazione del mito
popolare che circonda, a Prato, la scomparsa del barrocciaio Agenore, il quale, in
seguito a un incidente in cui il suo cavallo è rimasto ucciso per il rovesciamento di una
damigiana di acido solforico, sarebbe sceso vivo all'inferno, attraverso una grotta vicino
al fiume226. Dopo aver narrato questo «aneddoto dal sapore […] paesano»227, Malaparte
descrive il fascino e il terrore che il leggendario accesso diretto alla terra dei morti
provoca su di lui e sui suoi fratelli Sandro e Maria: la spelonca riluce di bagliori
misteriosi, risuona di voci lontane, e si trova vicino a un regno magico, popolato da
ragazzini governati da colui che tra loro possiede un coltello, quasi un piccolo re armato
di spada. I tre fratelli si inoltrano in questo mondo per scoprire con stupore le regole su
cui si regge: i bambini sono costretti a dare la caccia ai granchi, le bambine a mangiare
le lucertole e le lucertole a perdere la coda. Dopo aver giocato davanti alla spelonca
infernale, Sandro decide infine di penetrarvi, da solo, alla ricerca di Agenore. Il
bambino con il coltello - che con il suo sorriso «timido e triste»228 sembra quasi uno
spiritello silvestre - gli ricorda «con aria misteriosa»229 che quella è davvero la porta

assisté senza volerlo a una scena voluttuosa tra due ragazze del paese, nella seconda dell'ossessione
maniacale del garzone del macellaio, che ama mostrare agli amici come affettare la carne che ruba
talvolta dalla macelleria: «Pareva provasse un misterioso piacere a palpare quella carne soda e liscia, che
aderiva ai polpastrelli come una pasta molle. L'afferrava con le due mani, la sollevava in alto, la lasciava
ricadere […], si metteva a schiaffeggiarla con la mano aperta […]. Poi la lama, immersa nella ferita fino
al manico, cominciava a tagliare la carne, muovendosi adagio adagio, con lentezza studiata. […] A un
tratto usciva […] dalla piaga. […] Appena estratto il coltello, di nuovo l'affondava con violenza nella
carne, e ripeteva i gesti di poco prima imbambolato e ansando» (ivi, p. 54). Anche il fatto che manchi in
quest'ultima parte qualsiasi elemento di verosimiglianza sembra confermare che gli ultimi ricordi nascano
dalla fantasia di Malaparte e che servano principalmente a turbare e confondere il lettore.
225
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 39.
226
«Si stava allora di casa a Coiano, in una villa che dava proprio sulla strada maestra, e, fra tutti i
barrocciai della Val Bisenzio, Agenore era il più giovane, il più allegro, il nostro più caro amico. Quando
passava davanti alla villa, ci salutava facendo schioccare la frusta, dall’alto del suo barroccio carico di
pezze di lana, di balle di cenci, di damigiane di acido solforico. E una volta che una damigiana gli si
ruppe e inondò la schiena del suo cavallo, che si chiamava Pantera, così forte che l’udimmo fin dal nostro
giardino. Lo dovettero portare portar via di peso, vociandogli negli orecchi perché non udisse i nitriti del
cavallo morente. Da quel giorno Agenore sparì, e il popolo narrò che era sceso vivo all’inferno, dietro al
suo cavallo morto, per la stessa spelonca di dove si racconta che Dante scendesse sottoterra» (C.
Malaparte, Giochi davanti all'inferno, in Sangue, cit., p. 67).
227
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 40.
228
C. Malaparte, Giochi davanti all'inferno, in Sangue, cit., p. 71.
229
Ivi, p. 72.

65
dell'inferno, e «di notte ci si sente camminare e piangere»230, ma queste parole non
bastano a spaventare Sandro, che s'introduce nella spelonca, mentre Kurt e il ragazzino
lo aspettano all'esterno. Dopo qualche istante, i due bambini vedono scendere dalla riva
opposta un uomo che trascina un cavallo zoppo, «tutto pieno di croste»231, e Malaparte,
nella conclusione, riferisce la strana coincidenza a cui assiste:

A un tratto udimmo la voce di mio fratello, che dal fondo della spelonca chiamava
“Agenoreee!”. Il cavallo alzò il muso e nitrì. Un nitrito lungo, doloroso, pareva un
grido di donna. In quella Sandro uscì di corsa dall'inferno, era pallido come un
morto, e disse che era stato svegliato da un suono di voci, aveva riconosciuto la
voce di Agenore, lo aveva chiamato, ma gli aveva risposto un lungo nitrito dal
profondo della terra […]. Allora tutti fuggimmo spaventati qua e là per il bosco: e
voltandomi vidi il ragazzo che, rimasto solo, in piedi fra i pini davanti alla bocca
dell'inferno, agitava le braccia in segno di saluto, e nella mano gli luccicava al sole
la lama del coltello.232

Ciò che in questo racconto colpisce di più è il fatto che il personaggio di


Malaparte bambino non abbia davvero un ruolo di primo piano nella vicenda, se non
quello di testimone diretto. È curioso come egli non partecipi quasi mai attivamente alle

230
Ibidem.
231
Ibidem
232
Ibidem. Malaparte non manca di disseminare in questo racconto elementi che ritornano ossessivamente
anche nelle sue prose successive, come per esempio le lucertole dal «capino triangolare» (ivi, p. 69), alle
quali, secondo la descrizione di Donna come me, vorrebbe assomigliasse la sua donna ideale («Alta e
bruna la vorrei di fianchi pieni e snelli, dalla piccola testa di statua. Una testa di lucertola, lievemente
triangolare», Id., Donna come me, in Donna come, cit., p. 13); oppure il cavallo sofferente, che nitrisce
dolorosamente, ripreso non soltanto in tutta la prima parte di Kaputt, intitolata proprio I cavalli, ma anche
nel racconto Ippomatria, uno degli inediti di Sangue, «incubo pauroso della madre che si trasforma in
cavallo» (L. Martellini, Malaparte narratore, in Nel labirinto delle scritture, Roma, Salerno, 1996, p.
151). Malaparte vi descrive la particolare visione avuta nella notte in cui, alla fine di un'estate passata
presso i Baldi, la madre venne a prenderlo per riportarlo a casa: «A un tratto, adagio adagio, si aprì la
porta, una vaga forma entrò, ed ecco, sulla spalliera del mio letto, posarsi una mano enorme, pesante,
immota. Una mano di pietra. […] "Andiamo, Curtino" disse una voce. Era la voce di mia madre, ma
stridula, cattiva, non pareva nemmeno una voce umana. Fissavo con gli occhi sbarrati quella mano
enorme, ora mi prende, mi porta via, pensavo con terrore. Vedevo soltanto quella mano di statua, il resto
sfumava in una specie di nebbia azzurra. Sentivo mia madre respirare a fatica, il soffio usciva dalle sue
labbra con un sibilo strano. All'improvviso, non so come, mia madre m'apparve ai piedi del letto, rosea e
splendente. Ma dove in mezzo alle spalle s'innesta la gola, scendendo per radici delicate e vive sino al
sommo del petto, sorgeva una testa di cavallo, il collo peloso chiuso in un alto colletto di pizzo bianco. La
mamma scoteva quella sua testa nobile e fiera, mostrando i lunghi denti gialli. I larghi occhi rotondi
splendevano cupi e amorosi nella penombra azzurra, una orgogliosa criniera le ricadeva ondeggiando
sulle spalle» (C. Malaparte, Ippomatria, in Sangue, cit., p. 112). Ritorna in questo sogno la confusione tra
umano e animale, e poco importa se si tratta soltanto di un sogno: ancora una volta il meraviglioso riesce
a prendere il sopravvento sulla realtà. A sua volta, l'orrore della visione è amplificato dalla presenza di
alcuni elementi che si ripresentano in modo insistente dall'inizio del racconto, come la mano - sulla
frequenza della quale nell'opera dell'autore Martellini ha condotto un interessante studio (cfr. L.
Martellini, Malaparte narratore, cit., pp. 151-154) - e la statua, che ritorna anch'essa spesso
nell'immaginario malapartiano come perturbante simulacro divino.

66
vicende che narra: il fatto di avervi assistito è una ragione sufficiente per trasformarsi in
aedo e narrarle rendendole avvincenti. Proprio questo gusto della narrazione per la
narrazione è un aspetto che riteniamo fondamentale di tutta la narrativa malapartiana:
poco importa che le vicende siano state vissute, viste, ascoltate (o forse semplicemente
sognate): tutto, se accuratamente maneggiato, può fornire ottimo materiale per la
narrazione.

Nella maggior parte dei racconti sull'adolescenza233, l'autore mostra


principalmente come uno dei suoi tratti già emerso nell'infanzia, cioè la predisposizione
all’introspezione, sfoci negli anni seguenti in un'inquieta e tormentata interiorità, oltre
che in un amore appassionato per il pensiero e per la letteratura. In uno di questi
racconti, Salutami Livorno (sul «Corriere della Sera» del 4 luglio 1936), introduce
tuttavia un aspetto di sé più pragmatico ed estroverso, che deriva dalla sua iniziazione
alla vita militare. La Brigata Cacciatori delle Alpi rappresenta l'ambiente in cui per la
prima volta il personaggio di Malaparte si trova a muoversi in un contesto extra-
familiare, in una dimensione sociale e storica ben definita. Nonostante questa apertura,
l'autore resta ancora tutto concentrato su se stesso: quello che conta è per lui
testimoniare la propria esperienza all'interno della Storia, e non la Storia stessa. Benché
infatti Malaparte si ritrovi attore in una situazione quale l'inizio della Prima guerra
mondiale, non fa altro che ritrarre il proprio personaggio per mettere in luce da un lato
l'affetto che lo lega alla terra natale, dall'altro la scoperta della propria umanità e della
propria compassione - caratteri che ritorneranno, enfatizzati, in Kaputt e nella Pelle.
Quando, nel giugno del 1915, il diciassettenne Kurt si arruola volontario nella Brigata,
stringe immediatamente amicizia con il gruppo dei soldati livornesi, dei quali lo
incantano la parlata e l'ardore con cui decantano la bellezza della loro città. In
particolare, il ragazzo si avvicina al più giovane dei livornesi, Antenore, che gli parla di
Livorno «come un giovane di vent'anni parla dell'innamorata»234: «“Tu vedessi
Livolno!” esclamava con quel suo accento largo e sonoro […] “Dopo la guerra - mi

233
Che sono: Ode alla Sibilla Cumana, Oggi si vola, Petrarca in camicia rossa (in Fughe in prigione),
Angoscia di ragazzo e Salutami Livorno (in Sangue).
234
C. Malaparte, Salutami Livorno, in Sangue, cit., p. 95.

67
diceva - ti porto con me a Livolno, a casa mia”»235. Quando arriva luglio, la Brigata è
inviata a combattere sul Col di Lana, e Antenore, forse presagendo la propria fine
imminente, chiede all'amico d'inviargli una cartolina dalla sua città, nel caso in cui
dovesse vederla prima di lui: il ragazzo non sopravvive alla battaglia e, in punto di
morte, prega il protagonista, che gli resta accanto negli ultimi istanti, di salutargli
«Livolno». Alcuni mesi dopo, trovandosi nella città del compagno caduto, Kurt ha
l'impressione di percepire la presenza di Antenore e ripensa alle sue ultime parole:

Verso sera, comprai una cartolina da un tabaccaio, mi misi al tavolino di un caffè


del porto, e scrissi sulla cartolina l'indirizzo di Antenore: «soldato del 51° Fanteria,
Cimitero di guerra della Brigata Cacciatori delle Alpi, Salesei, Col di Lana».
Imbucai la cartolina alla stazione, e vedevo il postino militare salire da Digonera a
Salesei, prendere il sentiero attraverso il bosco, spingere il cancellino di legno,
entrare nel cimitero, cercare qua e là fra le tombe, curvandosi sulle croci a leggere i
nomi dei miei compagni, trovar la croce di Antenore, posar la cartolina sulla fossa
coperta di neve. Sulla cartolina avevo scritto: «Tanti saluti da Livolno».236

Il ricordo risulta toccante, a suo modo commovente, ma a ben vedere non si


ritrova all'interno del testo alcuna traccia di autentico coinvolgimento emotivo, se non
nei punti in cui Malaparte rievoca con accorata nostalgia la sua Toscana. Se l'autore può
raccontare questo ricordo di guerra è perché ha la fortuna di essere un sopravvissuto;
eppure il tono della narrazione è generalmente misurato, non vi è nulla di patetico,
nessun commento sulla crudeltà della guerra o sull'ingiustizia di quella morte. Dall'alto
della sua posizione, Malaparte osserva impassibile la vita per trasformarla in materia
narrabile. L'assenza di una vera partecipazione affettiva è un carattere che riteniamo
fondamentale della poetica malapartiana: la sua sistematica pratica del disimpegno e la
disaffezione nei confronti del proprio materiale narrativo è ciò che rende unica la sua
scrittura, lucida, asciutta e senza sbavature. Le sue prove più riuscite sono proprio quelle
in cui l'autore inserisce tra il sé narratore e il sé protagonista una distanza, costruendo
immagini concise e dosando l'emozione in modo che il patetismo aleggi con una
tenerezza non insistita.

235
Ivi, p. 96.
236
Ivi, pp. 97-98.

68
Concludiamo il nostro discorso sull'autobiografia gettando un ultimo sguardo sui
quattro racconti che riguardano le esperienze contemporanee della vita di Kurt Suckert,
ormai diventato l'adulto Curzio Malaparte. In due di queste narrazioni, l'identità fra
autore, narratore e personaggio è mantenuta, ma entrambi rappresentano dei casi
abbastanza particolari: sia nella Mamma in clinica (Fughe in prigione) sia in Goethe e
mio padre (Donna come me) lo scrittore delinea un ritratto degli anziani genitori,
ricordando anche alcuni episodi riguardanti anche il suo legame con loro. Negli altri due
testi, La passeggiata e Giugno malato, forse per via della distanza estremamente
ravvicinata tra il momento delle vicende narrate e l’atto della scrittura, Malaparte
sceglie di utilizzare la narrazione extradiegetica: ci troviamo dunque di fronte a
narrazioni in terza persona, che riguardano protagonisti dal nome diverso da quello
dell'autore. Trasformare il patto da autobiografico a romanzesco significa appunto
distaccarsi dalla materia narrata per evitare il coinvolgimento emotivo. Finzionalizzando
le proprie vicende, l'autore non cerca tanto di confondere il lettore, quanto di innalzare
un'esperienza dalla sfera individuale a quella universale. Nella Passeggiata, il racconto
inedito che apre Fughe in prigione (1936), il narratore descrive infatti lo stato d'animo
del protagonista Boz durante il viaggio che lo conduce da Roma a Lipari, dove dovrà
scontare un confino di cinque anni; il lettore dell’epoca, tuttavia, sapeva bene che quel
nome era un semplice pseudonimo per indicare Malaparte: l'autore stesso,
nell'introduzione, dichiara di aver scritto il libro durante i suoi due anni di prigione e di
confino, e che le pagine contenute in esso erano il prodotto delle sue evasioni dalla
prigione. Il caso di Giugno malato (sul «Corriere della Sera» del 26 giugno 1936,
ripubblicato in Sangue) è differente, l'identità tra autore e personaggio non è manifesta:
il lettore medio non poteva sapere che proprio nei giorni in cui il racconto - il cui
protagonista Paolo si trova a dover affrontare una grave malattia - era apparso in terza
pagina, a Malaparte era stata diagnosticata una fibro-sclerosi polmonare bilaterale.
L'autore, di ritorno dalla sua visita a Roma, dichiara in una lettera spedita ad Aldo
Borelli il 24 giugno 1936: «Sono tornato al Forte, naturalmente abbacchiato, ma ho
deciso di curarmi e di vincere anche questa difficoltà. […] Oggi ti mando in fretta
questo articolo dal quale vedrai che, nonostante tutto, ho sempre fiducia nella vita.

69
Un'immensa fiducia»237. A una lettura che non tenga conto di questo elemento
extratestuale, la narrazione non sembra contenere elementi riconducibili alla vita di
Malaparte; risulta invece interessante leggerla tenendo conto di questo spunto
autobiografico. In questo racconto, Malaparte descrive il senso di leggerezza
trasmessogli dalla consapevolezza della propria malattia, e dunque della propria
fragilità: potremmo definire il tema di fondo come un tentativo di dimostrare la propria
capacità di trasformare in un punto di forza ciò che nasce come svantaggio, debolezza o
limite. Subito dopo che la malattia gli è stata diagnosticata, Paolo percepisce in tutto ciò
che lo circonda «qualcosa di crudele, di perfido»238, ma pian piano sente che quella
crudeltà viene invasa da «un che di lieto, un felice presentimento, un'aria di festa, un
che di nuovo, giovanile»239:

- Malato, malato, malato - si ripeteva Paolo dentro di sé, […] - Malato, malato,
malato. - Ma quella parola gli suonava dolcissima, era come la parola di una
canzone, non aveva più nessun significato di dolore e di morte. Lavinia, a un tratto,
lo guardò. E Paolo sentì all'improvviso che già la stagione cominciava a guarire,
già l'estate intiepidiva le foglie di quell'albero bianco, che gli stormiva dolcemente
nel petto.240

La lucidità e il distacco con cui Paolo-Malaparte affronta il suo male non


simboleggiano soltanto la tenacia e la forza di reazione di fronte al dramma esistenziale
della malattia, ma la vera e propria capacità di ribaltare una situazione da cui non
dovrebbe provenire che male e che invece diventa un catalizzatore di nuove energie
positive. L'atteggiamento del protagonista di questo racconto sembra inoltre riflettere
quello con cui Boz, protagonista della Passeggiata, affronta il confino: in questo
racconto, Malaparte si dilunga nella descrizione del senso di libertà provocatogli dalla
prigionia. Il racconto prende avvio proprio nel momento in cui il prigioniero, terminati i
due mesi di prigionia nel carcere romano di Regina Coeli, viene trasferito a Lipari. Fin
dal momento in cui mette piede fuori dal carcere e osserva il mondo circostante, prova
una strana sensazione: si sente «smarrito»241, e percepisce intorno a sé «una solitudine

237
Lettera di C. Malaparte ad A. Borelli del 24 giugno 1936, in Malaparte III, cit., p. 713.
238
C. Malaparte, Giugno malato, in Fughe in prigione, cit., p. 145.
239
Ibidem.
240
Ivi, p. 146.
241
Id., Giugno malato, in Fughe in prigione, cit., p. 9.

70
triste e vuota»242. Si volta addirittura per controllare di essere seguito dai due agenti di
custodia, sorridendo poi all'idea «di aver temuto per un momento d'esser solo, d'esser
libero»243. Questo incipit prende il lettore in contropiede: insinuando che Boz si trovi a
suo agio più nella condizione della prigionia che in quella della libertà, Malaparte situa
se stesso in una posizione molto particolare, opposta rispetto a quello che ci si
aspetterebbe. Ancora una volta, l'autore mette tra sé e il resto del mondo una distanza
profonda, dando ovviamente a intendere che la postazione privilegiata è la sua. Questo
stoicismo così spavaldamente esibito - che ha probabilmente poco a che fare con il suo
reale stato d'animo - serve all'autore per riscattarsi agli occhi dei propri detrattori, per
dimostrare loro di essere caduto in piedi anche dopo la spiacevole impasse nella quale si
era trovato per colpa di Italo Balbo. La cella, diventata «la forma segreta del suo
spirito»244, quasi fosse «un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia»245 o «una
donna incinta [che] porta il suo bambino nel ventre»246, finisce per rappresentare per
Malaparte nient'altro che l'innocenza di cui egli si fa forte, che gli permette di assolvere
con superiorità i peccatori che hanno commesso un torto nei suoi confronti. In quanto
giusto e puro, e quindi sapiente, Malaparte non può che vivere serenamente qualunque
prova la vita gli imponga247. Questo testo è una tappa del percorso malapartiano di cui è
interessante tenere conto, in quanto rappresenta uno dei suoi autoritratti più intimi, in
cui l'autore tenta di confermare la posizione di superiorità emersa fin dai racconti
infantili, ritraendosi come un combattente solitario e giusto, un sapiente dalla
straordinaria grandezza d'animo.

242
Ibidem.
243
Ivi, p. 10.
244
Ivi, p. 12.
245
Ibidem.
246
Ibidem.
247
Purtroppo, nei fatti, l'autore dissemina il racconto di didascalie che appesantiscono un testo già tanto
prolisso: «Boz è felice, gli par d'essere tornato ragazzo, le scuole finalmente son chiuse, gli esami sono
andati bene, ora cominciano le vacanze» (ivi, p. 37); «Boz si sente rinascere, non si è mai sentito così
giovane, così forte, così pieno di speranza e di fiducia» (ivi, pp. 40-41); «Boz […] si sente felice, proprio
felice. Non si è mai sentito così sereno, così libero, come ora che l'isola di Lipari gli viene incontro,
sorgendo a poco a poco dal mare bianco di schiuma» (ivi, p. 44).

71
2.3 La storia

Dal momento che Malaparte risulta protagonista e narratore anche degli otto testi
riconducibili alla tipologia del racconto storico (La Maddalena di Carlsbourg, Donna
rossa e La Madonna di Strapaese raccolti in Sodoma e Gomorra; Uno scandalo a
Parigi, Miniera, Scoperta dell’America, Fine di una lunga giornata e Hotel Jules César
in Fughe in prigione)248, quest’ultima potrebbe essere considerata un sottoinsieme di
quello più ampio dell'autobiografia. Tuttavia, se le narrazioni autobiografiche
rappresentano una fase «intima» della scrittura malapartiana, dove l'autore manifesta il
desiderio di raccontarsi in un contesto familiare, queste risultano essere piuttosto delle
narrazioni giornalistiche, dove l’autore diventa un protagonista della Storia, che vive o
indaga precisi contesti storico-sociali, interagendo con altri personaggi radicati in essi.
Ad ogni modo, anche in questi testi in cui Malaparte non focalizza in modo esplicito
l'attenzione su di sé, è presente un fondamentale egotismo. La narrazione scaturisce
sempre, infatti, dalla sua personale esperienza: che essa sia stata vissuta, osservata,
ascoltata o studiata sui libri, merita sempre di essere narrata. Testimoniando la propria
storia nella Storia, Malaparte costruisce il proprio autoritratto. Come accade anche nei
racconti d'infanzia, il primo elemento che caratterizza il suo personaggio è rintracciabile
nella sua funzione di narratore: non sempre coinvolto in prima persona negli eventi, che
a volte semplicemente analizza dall'esterno, l'autore dimostra una traboccante passione
per l'aneddoto e un irrefrenabile gusto per la narrazione.
Quando, l'11 gennaio 1933, Malaparte inviò ad Aldo Borelli il racconto Miniera,
affermò: «Ho cercato, scrivendone, di non far della letteratura. Ho stilizzato le
impressioni nel modo più semplice e espressivo»249. Tale esigenza di non fare della
letteratura, che riavvicina Malaparte alla dimensione giornalistica, è ripresa in una
lettera dell'aprile 1934 a Bernard Massenet. In questa missiva, parlando di Donna rossa
(che era uscito sulla «Stampa» del 12 gennaio 1930), Malaparte svelava una delle sue
tecniche di lavorazione del proprio materiale narrativo:

248
Particolare solo il caso della La Madonna di Strapaese, la cui ambientazione è storicamente situata
troppo lontano nel tempo perché Malaparte possa esserne protagonista. L'autore è dunque semplice
narratore delle vicende riguardanti l'insurrezione napoleonica avvenuta nel 1799.
249
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli dell'11 gennaio 1933, in 661c, AC.

72
Non ho mai capito perché Gaxotte ce l'avesse tanto con quella povera ragazza che
non è inventata da me, ma esiste veramente, è la sorella di una grande attrice
cinematografica del Sovkino, e si chiama Marika Scimisciani (scrivo il suo nome
con la grafica italiana perché è molto difficile e non saprei come renderne il suono
in francese). È figlia della proprietaria della più grande pasticceria di Tiflis, e ha del
sangue aristocratico nelle sue vene. (Naturalmente la pasticceria ha finito di
esistere con l'avvento del bolscevismo). Povera ragazza, povera Marika! Ma perché
Gaxotte aveva tanta antipatia per quella disgraziata creatura? Ho alterato un po' la
fine, nel racconto, per ovvie necessità, attribuendo a Marika la fine di un'altra
ragazza di cui mi avevano raccontato la storia. Ma tutta la cronaca, tutta la
passeggiata con Marika fino al cimitero del Convento delle Nowdievici, la visita
alla tomba di Lenin, ecc. ecc.; è esatta fin nei più minuti particolari. Io ho inteso
scrivere una «cronaca della vita quotidiana a Mosca», non già un racconto.250

L'autore sostiene senza scomporsi che la verità delle singole parti che
compongono una narrazione, sia pure provenienti da fonti diverse, rende vera anche la
narrazione nella sua interezza. Sostiene anche che la realtà deve essere alterata, quando
necessità lo impone, ovvero quando non risulta abbastanza avvincente. Questo
atteggiamento deriva da una particolare concezione estetica secondo cui ogni evento
reale può costituire materia di narrazione, se lo si sa maneggiare con spregiudicatezza.
Non si tratta più di una distinzione tra realtà e finzione; l'autore, mantenendo il suo
naturale aplomb, non fa altro che montare la sua pellicola in modo da rendere
avvincente il proprio prodotto, tagliando e incollandone le sequenze come meglio crede.
Poco importa se le vicende di un personaggio vengono attribuite a un altro: la storia che
ne risulta, almeno nel mondo della finzione, sarà vera fino a prova contraria. Il racconto,
essendo sempre realistico ed escludendo qualunque elemento magico, tende a creare
un'impressione di veridicità che colloca le narrazioni vicino al genere della cronaca o
del reportage. Il rimaneggiamento del materiale attraverso il quale Malaparte altera la
realtà non stravolge mai il senso di ciò che essa indica. Ed è proprio questa, come
individua Maurizio Serra, una caratteristica peculiare anche dei romanzi251.
La Maddalena di Carlsbourg rappresenta il primo tentativo di Malaparte di
costruire il proprio personaggio letterario all'interno della Storia: uscito sulla «Stampa»
il 24 gennaio 1928, infatti, è cronologicamente posteriore solo a due racconti di finzione
che verranno riuniti anch'essi in Sodoma e Gomorra - Il Moro di Comacchio e Il

250
C. Malaparte, lettera a B. Massenet del 17 aprile 1934, in Id., Malaparte III, cit., p. 408. Corsivi nostri.
251
Lo studioso ritiene infatti improprio l'utilizzo del termine "romanzo" per designare i capolavori degli
anni Quaranta, ma sottolinea la difficoltà di trovare una definizione sostitutiva tentando con i termini di
«cronaca, reportage, o corrispondenza» (M. Serra, Malaparte, cit., p. 336).

73
martellatore della vecchia Inghilterra. Pur essendo uno dei primi racconti, contiene già
alcuni elementi e una struttura di base simile ad alcuni episodi dei romanzi, in
particolare di Kaputt: Malaparte, protagonista assoluto della propria cronaca, vi
dimostra infatti una forte empatia nei confronti dell’umanità più debole e indifesa. La
narrazione è incentrata su alcuni episodi di violenza e di odio verificatisi dopo
l’Armistizio «contro quelle disgraziate ragazze che durante l’occupazione avevano
avuto commercio d’amore coi tedeschi»252; nel dicembre del 1918, egli si trova in
Vallonia con lo sconfitto Corpo d’Armata italiano e assiste al prendere forma di una
spaventosa caccia alle streghe. Il tono della narrazione è cupo fin dall’inizio: Malaparte
racconta quanto traumatico fosse per lui, ventenne, il ricordo del massacro estivo di
Bligny; la sua angoscia emerge nei suoi incubi notturni, pieni «d’inseguimenti furiosi,
dietro bianchissimi cervi macchiati di sangue»253. Una prima svolta narrativa si ha nel
momento in cui Malaparte, perdutosi nel bosco in una fredda sera di dicembre, nel
cercare la strada di casa, s’imbatte nell’osteria proibita del Sanglier noir, dove si diceva
abitasse una di quelle famose «veneri immonde»254 che erano state messe al bando in
tutte le regioni occupate di Francia. L’autore non tarda a ostentare il proprio
atteggiamento provocatorio nei confronti delle leggi prestabilite, e quindi il proprio
coraggio, senza però precisare le ragioni che lo spingono a introdursi nel locale:
«Faceva un freddo da lupi; ma non è certo per il freddo che mi decisi a bussare»255. Una
volta entrato, Malaparte si trova di fronte a una persona molto diversa da quello che il
lettore avrebbe potuto aspettarsi: «L’immonda venere di Carlsbourg era una ragazza di
poco più di vent’anni, esile e bianca, dai grandi occhi dolci, chiari nell'ombra di una
folta chioma bionda […]. Parlava sorridendo, e quel sorriso triste e sospettoso
illuminava una bocca di bambina impaurita»256. Vinte le prime diffidenti resistenze della
fanciulla, il giovane soldato riesce a ottenerne la fiducia prendendosene cura con piccoli
ma significativi gesti quotidiani, senza chiedere nulla in cambio: la accompagna a fare
la legna, le procura del cibo e le medicine necessarie per curare la scabbia che la
affligge. Maddalena rappresenta l’umiltà e la rassegnazione; più volte l’autore la chiama
«bambina», il che è significativo perché, come emergerà chiaramente in Kaputt, i

252
C. Malaparte, La Maddalena di Carlsbourg, in Sodoma e Gomorra, cit., p. 4.
253
Ivi, p. 3.
254
Ivi, p. 4.
255
Ibidem.
256
Ivi, p. 4.

74
bambini rappresentano per lui, insieme agli animali, le uniche creature viventi pure,
angeliche, degne di pietà, e su di esse il suo interesse si rivolge fin dagli esordi.
L’umanità e l’empatia di Malaparte contribuiscono a creare il ritratto di un uomo di
buon cuore, compassionevole, solidale con gli emarginati: «La sua gioia era così
innocente che non ardivo guardarla negli occhi. Una grande pietà mi prendeva, tutte le
volte che i nostri sguardi s’incontravano: il primo ad abbassare il viso ero io»257.
L’abbassamento dello sguardo testimonia un grande pudore e un grande rispetto
dell’altro: Malaparte non sfrutta la sua posizione di superiorità guardando Maddalena
dall’alto al basso; si mette alla pari, e la gratuità dei suoi gesti aiuta la giovane a
ritrovare a poco a poco il piacere di vivere. Egli non può dunque che accogliere con
dolore le confidenze della ragazza a proposito del suo sofferto passato:

[…] una sera la poverina mi prese le mani, v’appoggiò le labbra, si mise a piangere
in silenzio. Al principio della guerra, quando già i tedeschi erano entrati a Dinant, il
padre e il fratello di Maddalena erano partiti per i boschi in battuta, col fucile a
tracolla, nella disperata compagnia dei franc-tireurs delle Ardennes. Hallalì!
Hallalì! Qualche morto era rimasto disteso nel folto delle abetaie, col viso
nell’erba, e gli ulani erano sbucati una mattina sulla strada di Saint-Hubert; i franc-
tireurs di Carsbourg non avevano più fatto ritorno alle loro donne. Maddalena era
rimasta sola con sua madre, nella casa piena d’attesa e di spavento: sola senza
potersi difendere. In principio era stata presa per forza, poi s’era data per fame.
Nessuno, nessuno dunque aveva pietà di lei? Mi sentivo il pianto nel cuore: ti
voglio bene, avrei voluto dirle: ma come? Le accarezzavo i capelli, le mani, il viso
tiepido di lacrime. La luna saliva lenta nel cielo, sulle immense abetaie sonore nel
vento.258

Il commovente racconto malapartiano, il cui patetismo è intensificato dalle


interrogative del commento finale, è molto significativo perché contiene delle analogie
con l’ultimo episodio della quarta parte di Kaputt: Le ragazze di Soroca, dove
Malaparte racconta alla Principessa Louise von Preussen, nipote del Kaiser Guglielmo
II, la storia delle ebree moldave che, catturate dai tedeschi durante la seconda guerra
mondiale, erano costrette a prostituirsi in un bordello militare. Anche questa vicenda
prende avvio una sera, poco prima della mezzanotte: «scesi al fiume, mi misi per una
viuzza di quel miserabile quartiere, bussai alla porta di quella casa, entrai»259, e anche in
questo caso le ragioni della sua visita al bordello non sono chiare, l'autore vi accenna in

257
Ivi, pp. 5-6.
258
Ivi, p. 6.
259
Id., Kaputt, cit., p. 323.

75
modo vago, risultando, ad ogni modo, anche in questa situazione, un uomo diverso:
«Non ricordavo più, in quel momento, perché ero venuto in quella casa, eppure sapevo
che c'ero venuto di nascosto da Schenk, non per curiosità, o per una vaga pietà, ma per
qualcosa che ora, forse, la mia coscienza rifiutava»260. Le ragazze del bordello «erano
tutte molto giovani, qualcuna ancora bambina: non indossavano quelle lunghe vestaglie
di seta rossa, gialla, verde […] ma i loro vestiti migliori, quei vestiti semplici e onesti
delle ragazze borghesi di provincia […]. Avevano l'aria umile, timida e spaurita»261; una
di loro, Susanna, «aveva un viso lungo, stretto, una piccola bocca triste dalle labbra fini.
Pareva la bocca di una bambina»262. Dopo qualche battuta di dialogo utile a introdurre i
personaggi, il discorso cade sugli uomini tedeschi, e la ragazza chiede a Malaparte se li
trova gentili. Alla risposta affermativa del suo interlocutore,

Susanna si mise a ridere, guardandomi in modo strano. Qualcosa di bianco e di


molle nasceva in fondo al suo sguardo, pareva che i suoi occhi si disfacessero. […]
“Oh, certo”, disse […] “[i tedeschi] sono il mio ultimo amore”. Mi accorsi che i
suoi occhi erano pieni di lacrime: e tuttavia sorrideva. Allora le accarezzai
dolcemente la mano, e Susanna piegò la testa sul petto, lasciando che lacrime
silenziose le inondassero il viso. […] Susanna taceva, […] la mano abbandonata fra
le mie mani. Pareva non respirasse. E a un tratto disse a voce bassa, senza
guardarmi: “Credete che ci rimanderanno a casa?”. “Non possono trattenervi qui
dentro tutta la vita". "Ogni venti giorni fanno la muta delle ragazze […]. Son già
diciotto giorni che siamo qui. Ancora due giorni, e poi ci daranno il cambio. Ci
hanno già avvertite. Ma credete proprio che ci lasceranno tornare a casa nostra? ”.
Sentivo che aveva paura di qualcosa, ma non riuscivo a capire di che.263

L'incontro di Malaparte con Susanna è caratterizzato, come quello con


Maddalena, da un alto grado di patetismo. L'autore rivela ancora una volta, nel suo
confronto con l'altro, la stessa capacità di porsi allo stesso livello, quasi come fosse un
fratello, favorendo l'innestarsi di un rapporto di fiducia e quindi la confidenza libera.
Tornando a Maddalena, dopo la sua confessione la trama procede inesorabilmente
verso la conclusione. Ci troviamo infatti di fronte a una seconda svolta narrativa: nel
momento in cui, verso Natale, i soldati di Carlsbourg fanno ritorno alle loro case,

260
Ivi, p. 324.
261
Ivi, p. 322.
262
Ivi, p. 325. Notiamo che nella versione originale della Maddalena di Carsbourg, Malaparte descriveva
la ragazza nei seguenti termini: «Parlava sorridendo, e quel sorriso triste e sospettoso illuminava una
bocca <dalle labbra fini e pallide, ingenua e dolorosa come> una bocca di bambina impaurita» (Id., La
Maddalena di Carlsbourg, in «La Stampa», 24 gennaio 1928, p. 3).
263
Ivi, p. 326-327.

76
«l’odio contro le sciagurate che s’erano vendute agli invasori divampò da un capo
all’altro delle Ardennes»264. La narrazione assume da questo punto in poi un ritmo
esasperato: le case delle «immonde» vengono messe a fuoco e loro stesse vengono
uccise tra le peggiori umiliazioni. Il Corpo d’Armata italiano, incaricato d’impedire le
violenze facendo sgomberare le indiziate, cerca di opporsi alla cieca rabbia del popolo,
e Malaparte descrive il proprio affannoso tentativo di mettere in salvo Maddalena e sua
madre. Protagonista indiscusso di quest'ultima parte è proprio il suo personaggio: il
nome della ragazza, ormai rassegnata al proprio destino, scompare dal testo per
ricomparire solo nelle ultime righe. Prima di trasformarsi in personaggio secondario,
però, pronuncia con «voce tranquilla»265 parole che dimostrano una rassegnazione e un
coraggio che ha qualcosa di sacro, che la innalzano quasi allo stato di martire: «Han
dato fuoco alla casa della Valghedem […]: bruceranno anche la nostra. Dio non ha
misericordia di noi»266. Ha allora inizio la missione di salvataggio condotta da
Malaparte, che si configura come una disperata corsa contro il tempo: dopo essere
volato da un lato all'altro della città per farsi assegnare un distaccamento di soldati dal
suo Comando, torna al Sanglier noir per scortare le due donne fino al convento di
Carlsbourg, ma ormai è troppo tardi e la vicenda si conclude tragicamente: «“Fuoco in
aria!” gridai. Ai colpi, la folla indietreggiò, si sbandò. Ma prima ch’io potessi buttarmi
su Maddalena, e soccorrerla, un uomo le fu sopra, la colpì all’inguine, si rialzò gettando
un coltello, e sparì nel bosco»267. La morte inattesa della ragazza rende la conclusione a
effetto: l’immagine di quella lama tagliente, per la sua asciutta e improvvisa brutalità,
riesce a colpire allo stomaco anche il lettore. Se ricordiamo che questo è il racconto di
apertura della prima delle quattro raccolte pubblicate da Malaparte, il dato è ancora più
significativo: sedici anni prima della comparsa di Kaputt, il motivo della crudeltà è già
un elemento essenziale per generare empatia e suscitare pietà e orrore, un catalizzatore
di sensazioni contrastanti, uno stratagemma al servizio della poetica dello choc. Anche
la vicenda delle Ragazze di Soroca si conclude in modo analogo: pur non descrivendo
apertamente la tragica fine di Susanna e delle altre ragazze del bordello, il narratore
conclude il suo aneddoto spiegando a Louise che, dopo essere state sfruttate per venti

264
Id., La Maddalena di Carlsbourg, in Sodoma e Gomorra, cit., p. 6.
265
Ivi, p. 7.
266
Ibidem.
267
Ivi, p. 8.

77
giorni fino ad essere ridotte «come stracci»268, esse venivano condotte al fiume e
fucilate. Ci sembra dunque che questo episodio di Kaputt abbia una forte somiglianza
con il racconto del 1928, sia per la caratterizzazione dei due personaggi femminili e di
se stesso sia per la struttura narrativa.
Anche il racconto Miniera (sul «Corriere della Sera» del 13 gennaio 1933), la cui
narrazione - tendenzialmente descrittiva e visiva - è più concisa e meno patetica rispetto
a quella della Maddalena di Carlsbourg, contiene numerosi aspetti che verranno
successivamente ripresi. Innanzi tutto, Malaparte mette in luce fin dall’inizio del
racconto il suo protagonismo - esordisce infatti come se stesse raccontando un aneddoto
personale a degli amici: «Stamani sono sceso nella più profonda miniera d’Europa, a
mille metri sottoterra»269 - sottolineando di non essere una semplice voce fuori campo,
ma un vero esploratore che, dopo essere stato condotto a scoprire un mondo sotterraneo
e sconosciuto, ora accompagna il lettore con sé, nel suo viaggio. Il tono si fa descrittivo
nel momento in cui l'autore torna nel ricordo di fronte all’imponente giacimento
minerario che si trova tra Rheinbaben ed Essen, nella regione tedesca della Ruhr.
Malaparte si rivela maestro nel rappresentare attraverso le immagini l’atmosfera
asfittica che vi si respira: il paesaggio, completamente annerito da uno strato di
fuliggine e d'unto, si direbbe coperto da un'oscura cappa che lo rende eternamente
notturno. La miniera appare come una gigantesca, mostruosa prigione sotterranea, dalla
quale provengono inquietanti sferragliamenti e da cui gli uomini fuoriescono con tute
incatramate. Prima di permettergli di addentrarsi nei pozzi, un minatore accompagna
Malaparte in un piccolo edificio in cui si trovano gabbie piene di canarini: in presenza
di una fuga di gas, questi animali rappresentano, com’è noto, il primo segnale d’allarme.
L’autore dedica all’eroismo dei canarini due pagine accorate nelle quali illustra come il
sacrifico della loro innocente vita conceda ai minatori qualche possibilità in più di
salvare la propria. Quando la fuga di gas è tanto imponente da richiedere l’intervento
delle squadre di soccorso, queste scendono nei pozzi protette soltanto da una maschera
di rame, portando con sé un uccellino:

Sembrano guerrieri barbari che muovano ad affrontare un terribile nemico: e non


sono armati che di un fiocco di piume gialle, di un minuscolo cuore stretto nel

268
Ivi, p. 330.
269
Id., Miniera, in Fughe in prigione, cit., p. 157.

78
pugno muscoloso e delicato. […] Nei paesi della Ruhr, in ogni casa di minatore un
canarino canta in una gabbia appesa al muro della cucina. Corrono, appena l’urlo
delle sirene d’allarme squarcia la nebbia nera, corrono le donne e i bambini verso i
castelli d’acciaio della miniera, stringendo sotto il braccio la gabbia dove l’oro
delle piume splende come una fiammella in una lanterna. […] Verso le squadre di
soccorso che scendono ogni mezz’ora […], cento mani si allungano offrendo un
uccellino d’oro ai guerrieri dalle maschere di rame. Va’ piccolo cuore generoso,
batti forte, batti sempre, batti senza paura: va’, povero uccellino di Dio, giù nella
tomba buia, a salvare il padrone.270

Ancora una volta, l’autore esprime la propria empatia nei confronti della più
autentica innocenza, quella indifesa dell’animale: i canarini condividono infatti il
destino dell’uomo in modo inconsapevole. Il paragone bellico comporta un
innalzamento del pathos: l’accostamento della miniera a una fortezza, dei minatori a dei
guerrieri e dei canarini al solo antidoto «magico» in grado di allontanare la morte
trasforma per un attimo la narrazione in un poema cavalleresco, introducendo una
dimensione mitica in cui il canarino appare quasi come un simbolo cristologico.
Malaparte prosegue descrivendo la propria discesa nei pozzi: infilato lo scafandro da
minatore, scende a una velocità vertiginosa fino a mille metri sotto terra. Là sotto si
espande un dedalo di gallerie buie e silenziose, in cui bisogna muoversi tra le rotaie
delle carrucole con la testa inclinata per non urtare le travi della volta sovrastante;
l’unica illuminazione è data dalle lampade di sicurezza che si trovano ogni cinque metri.
Con la descrizione di questo ambiente lugubre e inospitale, l'autore anticipa le dure
condizioni lavorative dei minatori che verranno esaminate più avanti.
Improvvisamente, svoltando l’angolo, vede davanti a sé quello che diventerà un
animale-feticcio del suo universo creativo: «un cavallino bianco»271, nei confronti del
quale rivela la stessa compassione dimostrata nei confronti dei canarini; anch’esso è
infatti simbolo d’innocenza e sacrificio:

Piccolo, magro, la bocca imbavagliata di schiuma nerastra, il povero ronzino


procede a strattoni con la testa di traverso, sfiorando con la punta dell’orecchio
l’armatura della galleria, pronto a piegare il collo per non urtare nelle travi appena
la volta si abbassi. Gli occhi son morti, lattei, affondati in una larga macchia rossa.
«È cieco», mi dice il minatore che m’accompagna. Ogni tanto la bestia si ferma
ansante, le zampe divaricate: un lungo tremito percorre la groppa schiumosa, stirata
di cicatrici. I cavalli di miniera faticano tutta la vita in fondo ai pozzi, dormono in

270
Ivi, pp.161-162.
271
Ivi, p. 163.

79
stalle scavate nel carbone: salgono all’aria aperta solo una volta all’anno, nel
giorno che si chiama «la Pasqua dei cavalli».272

Il minatore accompagna Malaparte alla stalla: lì i cavalli - le zampe gonfie per


l’umidità e la pelle scolpita dalle croste - sembrano riposare nell’attesa di compiere il
proprio turno lavorativo, proprio come fossero uomini. Il suono poco rassicurante del
loro nitrito «risuona a lungo nel tenebroso labirinto»273, accompagnando Malaparte e il
minatore fino all’interno di uno stretto cunicolo in cui l'aria è così pesante da permettere
a fatica di respirare. Questa minuscola via sotterranea si allarga dopo cinquecento metri:
è qui, nel punto più profondo della miniera, che lavorano i minatori. Avvolti da una
nube di fuliggine, nudi nel caldo infernale, colpiscono con faticosa violenza i blocchi di
carbone. Finché restano ricurve sui picconi e sulle perforatrici, queste figure scure con
gli occhi sanguigni sembrano essere quasi dei mostri provenienti dal centro della Terra,
ma Malaparte ritrova tutta la loro umanità nel momento in cui uno di loro,
appoggiandosi in disparte al manico di un piccone, «addenta vorace un pezzo di pane
bianco»274. Quel gesto così semplice commuove l’autore perché gli ricorda che durante
il giorno quegli uomini sono costretti a lasciarsi alle spalle una realtà quotidiana fatta di
freschezza e profumi di cui non possono godere: Malaparte offre allora al minatore una
bottiglia di grappa che egli accetta con un sorriso riconoscente e che, passando di mano
in mano, riesce ad alleggerire momentaneamente l'atmosfera, creando una gioia sincera
e conviviale. Malaparte si mostra come un uomo capace di comprendere il bisogno più
intimo del proprio interlocutore e d’inserirsi e muoversi a suo agio nelle situazioni più
disparate. In questo caso, uno sguardo e un gesto sono sufficienti per comunicare più di
tante parole: egli è un uomo del popolo, un eroe dei valori umanitari. Tutta la narrazione
è tuttavia basata sulla sua presenza di esploratore in un mondo a lui estraneo dal quale
distingue: a separarlo dagli uomini che descrive interviene un distacco che deriva dalla
sua posizione privilegiata di narratore che osserva attentamente l'altro, ma sempre
rimanendo in disparte.
Concludendo, possiamo affermare che, benché per Malaparte sembrino contare
più i poteri che detiene per via della sua posizione di narratore che la Storia stessa, egli è
in grado di fornirci uno spaccato storico-sociale unico nel suo genere. L'autore sceglie
272
Ivi, pp. 163-164.
273
Ivi, p. 164.
274
Ivi, p. 166.

80
sempre di dar voce agli umili, ai reietti, ai dimenticati: in altre parole, a tutti coloro che
non contano niente né in vita né in morte perché sono costretti a subire il peso Storia.
Malaparte si cala in universi che gli sono sconosciuti e incontra un'umanità emarginata:
per quanto voglia mettere in luce il suo personaggio letterario, fornisce anche,
inevitabilmente, ripercorrendo le proprie esperienze, le storie di persone dimenticate, a
cui nessun libro di storia può rendere giustizia. La caratteristica e il merito fondamentale
di queste narrazioni è di soffermarsi, all'interno di un più vasto panorama storico, su
eventi marginali che vengono solitamente inghiottiti da eventi di maggiore portata, e dar
volto e nome alle indicibili sofferenze di quell'enorme massa di persone di solito
ricordata come popolo.

81
2.4 I bozzetti

In tutti i suoi racconti, Malaparte tende a perdersi spesso in sequenze descrittive:


la caratteristica dei quindici brani che fanno parte di questa tipologia è il loro essere
composti quasi integralmente da sequenze di questo tipo. L'azione è sempre minima e
subordinata alla descrizione, funziona soltanto da pretesto per darle avvio. La maggior
parte delle narrazioni descrittive, comparsa principalmente in Fughe in prigione, è
infatti rappresentata in genere da resoconti di viaggi compiuti da Malaparte (o da ricordi
di luoghi in cui ha vissuto, come nel caso di Toscana immaginaria): Sera nell’alta
Scozia, Uomini in gonnella, I cervi, Alte terre deserte sono ambientati in Scozia, Sotto i
ponti del Tamigi a Londra, Nascita di un fiume, così come Tramonto sul lago (Donna
come me), in Germania. Vi sono poi altri racconti che, pur non essendo apertamente
volti all'esplorazione di un luogo, sono comunque riconducibili a questa tipologia
perché descrivono un paesaggio tutto intimo e psicologico, ma che rispecchia
direttamente la realtà esterna. In questi racconti, il luogo a volte è precisato - pensiamo
al Lazio di Donna fra le tombe, alla Scozia di Donna in riva al mare, alla Toscana di
Paesaggio con bicicletta (Donna come me), alla Sicilia di Scirocco nell’isola
(Sangue)275 - mentre altre volte, come nel Porto, nelle Due sorelle e nell'Albero vivo
(Donna come me) l'ambientazione rimane indeterminata.

Nei resoconti di viaggio, l'autore si sofferma non soltanto sulla geografia dei
luoghi, ma soprattutto sull'atmosfera che vi si respira: gran parte delle descrizioni, nel
cui tono si alternano lirismo e realismo, è d'ispirazione gotico-romantica. Attratto dal
misterioso e dal sublime, Malaparte rincorre spazi cupi e solitari, siano essi villaggi
periferici, angoli dimenticati di città, rovine di antichi castelli; la luce che li avvolge è
sempre quella accecante di mezzogiorno o quella soffusa dalle nebbie notturne: sono le
ore delle ombre e dei fantasmi. L'autore ricorre largamente a metafore e similitudini per

275
Notiamo che i paesi che sono al centro di questi racconti sono gli stessi in cui vengono ambientati
quelli delle altre tipologie, salvo qualche eccezione, ovvero la Basilicata (Cuma), la Francia (Parigi e la
Provenza) e il Belgio (Carlsbourg). Vi sono poi altri luoghi - l'Emilia Romagna (Comacchio), la Svezia
(Börn) e Israele (Gerusalemme) - in cui sono ambientati soltanto alcuni racconti d'invenzione.

82
ricostruire i paesaggi attraverso delle immagini a effetto. All'inizio di Sotto i ponti del
Tamigi (sul «Corriere della Sera» del 22 gennaio 1933), per esempio, Londra viene
paragonata a un cuore pulsante le cui strade si diramano come un insieme di arterie:
«Per conoscere una città bisogna entrarle nel sangue, mettersi in barca per la sua vena
maestra, Reno, Vistola, Moscova, Tevere, Senna, Danubio, Tamigi. Questa Londra
invernale ha un sangue giallastro, denso, illuminato da chiazze d'olio orlate di rosso
[…]. È mezzogiorno, l'ora della bassa marea: Londra si svena, tutto il suo sangue fluisce
rapido verso la foce»276. E anche il cielo, nella sua soffocante opacità, sembra
incombere minaccioso: «Una lieve nebbie verde, che dove s'infittisce diventa bianca,
solleva il ponte di Putney»277, più avanti viene infatti «squarciato da improvvisi bagliori
sanguigni»278. Anche Sera nell’alta Scozia (sul «Corriere della Sera» del 16 dicembre
1934) riprende molti tòpoi romantici. Il racconto si apre con la descrizione di un
temporale avvenuto all'ora del tramonto nella città di Invermoriston, dove l'autore si
trova con alcuni amici:

Una violenta pioggia si rovesciò sul lago, nuvole dense e bianche precipitarono giù
per i fianchi dei monti come valanghe, ammucchiandosi alla rinfusa sulla superficie
dell'acqua, e a distanza parevano enormi icebergs alla deriva: il tuono riempiva le
valli d'echi lunghi e tristi. Così fiero, e insieme così patetico, era quello spettacolo,
che a un certo punto mi sorpresi a camminare sotto l'acquazzone verso una baracca
situata dietro l'albero, di dove mi pareva […] che si dovesse cogliere la vista sui
monti e sulla vallata del Moriston. Famosa per i suoi cervi e per i suoi salmoni, la
valle del Moriston, assai stretta all'imboccatura, non comincia che ad aprirsi […] se
non verso il laghetto di Clunie: ma c'era troppa nebbia perché io potessi, dal luogo
dove mi trovavo, sperar d'intravedere anche soltanto la soglia di quel paradiso dei
cacciatori e dei pescatori d'Inghilterra e di Scozia.279

Nell'attesa che il temporale finisca, la compagnia si ferma in una locanda i cui


unici avventori sono degli scozzesi cupi e sospettosi, che bevono in silenzio le loro
birre. La comitiva decide in seguito di riprendere la passeggiata verso le cascate di
Moriston280 e nella quiete notturna la suggestione romantica raggiunge il suo apice:

276
C. Malaparte, Sotto i ponti del Tamigi, in Fughe in Prigione, cit., p. 229.
277
Ibidem.
278
Ivi, p. 236.
279
Id., Sera nell'Alta Scozia, in Fughe in prigione, cit., pp. 46-47.
280
«L'aria si era fatta tiepida, gli alberi curvavano fino a terra i rami stillanti di pioggia, la nebbia si era
sollevata e rimaneva sospesa sulle cime dei monti, dalla parte opposta del lago, come immense balle di
lana. S'intravedeva per gli squarci del fogliame lo specchio nero del lago, immobile e denso come di pece.
La cascata del Moriston era veramente un orrido di singolare bellezza […]» (ivi, pp. 49).

83
Più giù il sentiero voltava bruscamente, e dopo un centinaio di metri sboccava
all'improvviso in una vasta radura, dove entrammo con una esclamazione di
meraviglia. Un castello in rovina sorgeva davanti a noi: le mura diroccate, coperte
d'edera, davano al luogo un aspetto sinistro, e la luna, che in quel momento
rompeva le nubi mostrandosi timida e chiara, illuminava teneramente quella
romantica scena in cui nulla v'era di stonato, tanta era l'armonia dell'ora, della luce
e dei luoghi, e così viva la naturalezza di quelle rovine, fra tanta profusione d'erba e
di foglie.281

I passaggi precedenti ci sembrano interessanti perché mettono in luce, oltre alla


forte componente romantica, anche un altro carattere essenziale delle descrizioni
malapartiane: la presenza dell'elemento vivente. Le persone, così come gli animali,
sembrano non soltanto caratterizzare i luoghi, ma quasi esprimerne il sentimento, forse
addirittura conservarne l'anima, riflettendo il profondo senso panico della natura più
volte manifestato dall'autore. Gli uomini e le bestie si conformano in modo così
profondo al paesaggio da costituirne delle vere e proprie appendici viventi, delle
controfigure dotate di respiro, voce e movimento. Nelle descrizioni di ambientazione
selvatica o rustica, anche quando la componente animale non ha un ruolo attivo,
ascoltiamo di continuo latrati, nitriti, canti d'uccelli, fruscii d'ali, e osserviamo spesso
animali che pascolano, uccelli che volano o impercettibili scostamenti delle fronde degli
alberi, dove si nascondono insetti e lucertole. Nella conclusione di Sera nell'Alta Scozia
è proprio la presenza animale che contribuisce a rendere più viva la natura, quasi
fondendosi con essa. Mentre stanno contemplando «un vecchio cervo dalle corna
ramose»282, Malaparte e i suoi amici sentono un lungo nitrito:

un nitrito alto e vibrante, non si capiva se di strazio, di furore o di gioia. Un che di


amoroso era in quella voce crudele e patetica: la voce di una bestia in preda a un
delirio d'amore, a un'angoscia nobile e fiera. […] Un cavallo bianco, dalla criniera
e dalla coda lunghissime, correva qua e là con un galoppo misurato e ondeggiante,
ogni poco impennandosi a tempestare con gli zoccoli ora l'alto muro in ombra, ora
la parete candida, come per evadere da quella prigione. Pareva che avesse le ali e
stesse per volar via ad ogni impennata con un supremo nitrito di speranza e di
angoscia. Una ragazza […] con le spalle appoggiate alla luna è […] agitava le
braccia con un breve grido gutturale: il cavallo correva diritto su di lei, fino a
sfiorarla col muso proteso, faceva uno scarto, s'impennava, ricadeva con gli zoccoli
sulla parete candida, lanciando un nitrito altissimo, e rimaneva un attimo così,
scotendo furiosamente la lunga criniera bianca: poi si buttava di lato, riattraversava
al galoppo il cortile, per andare a impennarsi laggiù, davanti al muro nero tagliato

281
Ivi, pp. 49-50.
282
Ivi, pp. 50.

84
di sghembo nel cielo trasparente. Era un giuoco, e pareva la scena di una lotta
mortale. A un tratto la ragazza si mise a fuggire […] e appena il cavallo le passò
vicino, si afferrò alla criniera, si abbandonò all'onda di quel galoppo trattenuto
[…]. Quella scena era così strana e così bella che gettammo un grido di meraviglia:
sembrava una scena d'amore, il ratto di una fanciulla, un cavallo che rapisce
l'amante. In quella scomparvero dietro la casa, in fondo al cortile, e il rumore degli
zoccoli svanì per incanto nell'aria.283

Questa descrizione, allo stesso tempo eroica e fiabesca, quasi mitica, contiene in
sé tutta la magia dei selvaggi luoghi scozzesi. Il fiero cavallo rampante diventa simbolo
dell'armonia del paesaggio già emersa nella prima parte della narrazione, e la ragazza
stessa, compiendo quei numeri circensi con la bestia, sembra contenere in sé qualcosa di
ferino: la sua «primitiva» umanità rispecchia anch'essa la bellezza dell'incontaminata
brughiera scozzese. Da questo e da altri racconti appartenenti anche alle altre tipologie,
possiamo dedurre che, nella concezione malapartiana, più l'uomo resta a contatto con la
natura, più si trasforma in emblema dell'armonia del mondo. Nei racconti a sfondo
urbano, invece, è solitamente un'umanità con delle caratteristiche meno nobili a farsi
spazio. Di Londra, per esempio, arrivato nella zona malfamata dell'East End, Malaparte
descrive un «mostruoso Tamigi»284, dove «intorno alle bocche delle fogne, tra un molo e
l'altro, uomini luridi, cenciosi, dai visi pallidi solcati di cicatrici d'unto e di pece,
frugano con le mani nella tiepida melma nera, immersi fino alle ginocchia nel flutto
denso che cola dalle cloache. Tutto lo sterminato bassofondo umano dell'East End si
affaccia livido e scarno sull'orrido fiume»285. Questi esempi rappresentano i due estremi
che l'umanità può assumere secondo Malaparte: da un lato vi è la barbarie genuina e
nobile, quella derivante da un legame privilegiato con la natura e con gli animali, che
innalza l'uomo; dall'altra vi è una barbarie gretta, strettamente legata alla vita nella città,
dove l'assenza di contatto con la natura inaridisce l'anima.

Analizzando quei testi che non si presentano come dei resoconti di viaggio, ma
come narrazioni dal tono fortemente intimista, notiamo come l'autore vi descriva dei
paesaggi dell'anima dove la realtà esterna e la componente psicologica si mescolano in
283
Ivi, pp. 51-52.
284
C. Malaparte, Sotto i ponti del Tamigi, in Fughe in Prigione, cit., p. 237.
285
Ibidem.

85
un unico corpo indistinto. I luoghi, imprecisati o meno, sono spesso caratterizzati da
abbaglianti chiaroscuri o da strutture labirintiche, che tendono a far perdere la
cognizione del tempo e dello spazio ai personaggi. Questi ultimi, inoltre, appaiono come
fantasmi che lasciano cogliere nella loro trasparenza i propri pensieri e i luoghi in cui si
muovono: non è mai ben chiaro se siano loro a dar vita allo spazio o se sia lo spazio a
generarli e plasmarli a sua immagine. Nonostante l'ispirazione autobiografica di alcuni
di essi, l'interesse dell'autore non è tanto quello di raccontarsi, quanto piuttosto quello di
fornire descrizioni stilisticamente elaborate dell'andamento ondeggiante dei propri
pensieri. Donna in riva al mare (sul «Corriere della Sera» del 12 agosto 1934), per
esempio, è il lirico ricordo degli ultimi momenti trascorsi insieme a Flaminia in Scozia,
dove la spiaggia e il mare, con i loro colori e le loro luci, si fondono con il corpo
dell'amata, rispecchiando lo stato d'animo dell'autore. Il benessere provato grazie alla
presenza di Flaminia è interrotto dall'improvviso sospetto che la donna possa tenergli
nascosta, come quella parte del viso che rimane nell'ombra, una parte di sé, la più
autentica:

Avrei voluto alzarmi, stendermi accanto a lei, dall'altro lato: appoggiare il viso su
quella gota misteriosa. Mi tratteneva la paura di affondare in quell'ombra […].
Pensavo a quelle forme umane che dormono nei sepolcri etruschi lungo il Tirreno,
col viso appoggiato al muro, la guancia rôsa dall'umidità della parete di tufo.
Questi pensieri mi agitavano, quando Flaminia si alzò sui gomiti, guardando
lontano verso il mare. - Voltati - le dicevo; ma le parole mi morivano tra le labbra
[…]. Io la guardavo […] vedevo di lei soltanto un orecchio, un occhio, metà della
bocca, un lato solo del naso. L'altra guancia era certo rôsa dal mare, appoggiata
all'immensa distesa d'erica che, salendo lungo i fianchi delle colline, alzava dietro
di lei un'alta parete dai riflessi purpurei.286

In questa molle rincorsa dei propri pensieri e in questo esasperato tentativo di


salvare Flaminia dal mondo esterno che sembra volerla inghiottire, l'autore non arriva
mai a una vera e propria conclusione, l'azione sembra sospesa, cristallizzata in vortici
temporali che si avvolgono perpetuamente su loro stessi. Flaminia si confonde con
questo paesaggio nordico che le è estraneo, ma che sembra dominarla, corroderla.
Malaparte sente di perdere il controllo, come se fossero quei luoghi a possedere l'amata
al posto suo: avverte allora il peso morto di un'incolmabile distanza, di un'impossibile
comunicazione. Un lugubre presentimento si diffonde nel cuore dell'autore con la
286
Id., Donna in riva al mare, in Fughe in prigione, cit. p. 69.

86
discesa della notte, e il patetismo viene esasperato nella poetica conclusione:

Era già la mezzanotte, il cielo a occidente era color della carne, tutto ancora venato
dei riflessi del tramonto. La candida notte del Nord cominciava la sua corta vita,
già verso oriente una nuvola errante all'orlo del mare mostrava il roseo presagio
dell'alba. Ebbri di felicità, i tordi cantavano nelle siepi, si chiamavano, si
rispondevano, con una insistenza di accenti che stringeva il cuore, come il
giuramento d'amore di un moribondo. Quella misteriosa guancia in ombra mi dava
un'inquietudine dolorosa, sentivo che un inutile segreto abbuiava la metà del suo
viso, che la mia vita migliore era già tramontata in quella viva oscurità. Non saprò
più nulla di te, pensavo, più nulla interamente di te. E t'invocavo da quell'esilio, o
donna del mio cuore, dall'esilio di quel paesaggio estraneo ai tuoi sogni, al tuo
sguardo, ai tuoi gesti, alla nostra cupa felicità. […] Addio sospiravo, addio, e
chiudendo gli occhi ti rivedevo quale mi eri apparsa per la prima volta abbandonata
nel sole di una spiaggia tirrena, e tutto il cielo fra la pineta e il mare riposava sul
tuo viso illuminato.287

287
Ivi, pp. 71-72.

87
2.5 Il mito

La tipologia del racconto mitico è la più scarsamente rappresentata delle cinque in


cui abbiamo suddiviso il corpus dei racconti malapartiani: ne fanno parte soltanto
quattro brani, tre di Fughe in prigione (Preghiera per una donna, Morte di Ettore e La
dolce ira funesta) e uno di Sangue (Fedra). Com'è noto, il ritorno del mito classico nella
letteratura del Novecento rappresenta una questione problematica dal punto di vista
critico: gli autori che vi attingono ne rielaborano in modi completamente differenti
contenuti e significati, atmosfere e linguaggi. La nostra analisi non ha la pretesa di
fornire un quadro esaustivo della trattazione mitica nell'opera malapartiana, ma più
semplicemente di gettare uno sguardo sugli aspetti salienti che emergono in modo netto
in queste narrazioni. Malaparte, nel suo eclettismo, tende infatti a rielaborare il mito in
modi diversi da racconto a racconto, e anche questa categoria così piccola è in realtà
abbastanza eterogenea.
Alcune delle reinterpretazioni mitiche malapartiane non aggiungono in realtà un
senso nuovo al mito originale, ma rappresentano una sorta di esercizio di stile operato
su materiali narrativi che si prestano facilmente alla variazione. È il caso di Morte di
Ettore (sul «Corriere della Sera» del 12 luglio 1935) e della Dolce ira funesta (sul
«Corriere della Sera» del 4 agosto 1935): racconti d'ispirazione omerica che hanno in
comune il tono aulico, altamente lirico e patetico. Nella prima narrazione, Malaparte
descrive gli ultimi istanti di vita del campione teucro che, consapevole della propria
morte imminente, ripensa con nostalgia, tra le strazianti grida di dolore di Ecuba, al
proprio passato; nella seconda, Achille, prevedendo la morte di Patroclo in quella che
supponiamo essere la notte prima della morte dell'amico, accoglie l'idea della propria
con sollievo. In entrambi i casi assistiamo a una sorta di dilatazione temporale, dove ciò
che conta non sono tanto i fatti quanto i pensieri degli eroi: Malaparte svela il loro lato
più umano, mettendo in luce le paure e debolezze nascoste sotto le loro armature.
Questa componente psicologica così fortemente marcata rende queste riletture omeriche
delle levigate scritture decadenti, intime e manieriste.
Preghiera per una donna (sul «Corriere della Sera» del 3 settembre 1935),
rivisitazione del mito di Orfeo e Euridice, ci sembra invece più interessante perché
integra in modo originale il mito classico con elementi del quotidiano, modernizzandolo

88
e introducendo un'importante variazione contenutistica. Il racconto rappresenta la
seconda delle Quattro stagioni amorose di Fughe in prigione, che si apre con Donna in
riva al mare e prosegue con Donna fra le tombe e Visita dell'angelo. Tutti e quattro i
racconti presentano al centro della narrazione il protagonista Malaparte accanto a un
personaggio femminile che cambia nome di stagione in stagione: Flaminia nella prima,
Euridice nella seconda e Lavinia nelle ultime due. In questo gruppo di racconti, in cui il
nome di Flaminia fa presumere l'ispirazione autobiografica, il tono è, come abbiamo
visto per Donna in riva al mare, tipicamente descrittivo288. In Preghiera per una donna,
nel sostrato psicologico e autobiografico viene tuttavia innestato un superstrato mitico,
dove la presenza femminile, chiamata Flaminia nella prima stagione, si trasforma in
Euridice. Notiamo che l'identità tra le due presenze femminili è suggerita non solo dai
caratteri che le accomunano apertamente - l'ambiguità, la distanza mentale, la capacità
di confondersi con il paesaggio che le circonda e quasi le invade - ma anche dalla stessa
ambientazione marittima delle due scene: il procedimento destabilizza il lettore
facendogli perdere il senso dell'orientamento. Il fine ultimo di questa mitizzazione della
realtà ci sembra rientri ancora una volta nell'atteggiamento fondamentalmente narcisista
di Malaparte: trasformando l'amata in Euridice, egli suggerisce un parallelo piuttosto
esplicito fra Orfeo e se stesso.
Nell'interpretazione malapartiana, come abbiamo anticipato, ha luogo
un'importante variazione sul tema, ovvero uno scambio di ruoli per il quale non è Orfeo
a perdere l'amata commettendo l'errore di voltarsi una volta giunto all'imboccatura
dell'Ade, ma Euridice stessa che, spinta da una misteriosa attrazione, sceglie di ritornare
nel regno dei morti:

Tu mi guardi sorridendo, e già stai per volgerti indietro. […] È tempo che tu faccia
ritorno al tuo regno segreto […] Immobile sorridi alle care immagini del tuo dolce
inferno. Ombre dolenti si affacciano alla soglia dell'Ade, chiamandoti per nome.
[…] Ancora un istante, Euridice, un solo istante. Poi tornerai nel sereno paese dei
morti, scenderai le mute rive del sonno. Già troppo a lungo ti ho trattenuta sul
limitare della vita. Illuso, crudele e illuso, io che speravo strapparti ai sogni, ai
ricordi, ai rammarichi, ai pentimenti, alle speranze tradite. È troppo tardi perché io
possa salvarti. Il lamento delle cagne infernali ti suona all'orecchio assai più dolce

288
Si fa invece più allegorico nell'ultimo, Visita dell'angelo, inserito nella tipologia dell'invenzione per
una serie di elementi tra cui la presenza soprannaturale di un angelo.

89
della mia preghiera amorosa.289

In questo canto elegiaco s'introduce inoltre, a poco a poco, una nota di


rimprovero, un tono accusatorio, se non minaccioso certo poco rassicurante - a maggior
ragione sapendo che Orfeo è consapevole di vivere i suoi ultimi istanti insieme
all'amata:

Ormai sei perduta, nessuna forza al mondo ti potrà salvare. La tua condanna
comincia da questa notte […]. Fuggirai tremante, e non udrai […] la mia voce, la
mia preghiera, la voce d'Orfeo implorante. Ancora un attimo, un attimo solo. […]
Piangi, sei ancora in tempo. Un giorno forse, quando non potrai più piangere,
t'assalirà l'angoscia dei ricordi, l'ansia di un pianto felice. La memoria del tempo
non riuscirà più a velare di lacrime i tuoi occhi di vetro. Soltanto allora t'accorgerai
d'esser morta, allora soltanto ti ferirà l'orecchio l'eco lontana della mia voce. Udrai
scendere dal tuo nero cielo il lamento d'Orfeo, e un'umiliata tristezza t'incurverà
l'azzurra fronte orgogliosa. O perduta Euridice, mostro innocente. […] Verrò
chiamandoti alle chiuse porte dell'Ade […]. Immobile, sulla riva del fiume,
nell'incerto meriggio infernale, ascolterai l'eco remota del mio canto, e il desiderio
di risalire su nella rosea vita ti morderà il seno, alzerai gli occhi cercando invano le
stelle nel tuo cielo spento.290

Al di là di una probabile ispirazione autobiografica291, quello che conta è che con


questa inattesa inversione dei ruoli Malaparte introduce una prospettiva completamente
nuova e provocatoria: e se fosse Euridice ad aver abbandonato Orfeo? Dopo essersi
disperato tanto da muovere a pietà gli dèi e aver deciso di affrontare il terribile viaggio
all'inferno per riportare a casa l'amata, non biasimerebbe egli a ragione l'ingratitudine di
Euridice, decisa ad abbandonarlo per sempre, tornando indietro senza neanche versare
una lacrima? L'autore mette in questione il significato originale del mito, insinua il
dubbio che la realtà sia più complessa di quello che sembra a una prima occhiata. Il
dispositivo mitico si sovrappone dunque al proprio personale materiale narrativo, e,
come in un gioco di specchi, il mito si rinnova e assume un senso nuovo grazie alla
realtà tutta umana e quotidiana nel quale è immerso, cristallizzando allo stesso tempo
tale realtà su un livello più alto, rimodellandola in modo originale.

289
C. Malaparte, Preghiera per una donna, in Fughe in prigione, cit., pp. 75-76.
290
Id., Preghiera per una donna, in Fughe in prigione, cit., pp. 76-78.
291
Considerando che, come attestato dai biografi di Malaparte, Flaminia aveva deciso di troncare la sua
relazione con lo scrittore verso la fine del 1935, possiamo supporre, per la coincidenza delle date, che il
racconto sia in qualche modo ispirato alla fine del rapporto con la donna.

90
L'ultimo racconto di questa tipologia è Fedra (sul «Corriere della Sera» del 18
ottobre 1936), forse la più inusuale delle rivisitazioni mitiche malapartiane, poiché
l'autore vi offre, in un paesaggio siculo tipicamente campestre, la rappresentazione
vivente - e, sorprendentemente, muta - della tragedia euripidea Ippolito, i cui attori non
sono tuttavia degli uomini, ma delle capre. Questa stravagante fantasia suggerisce l'idea
che in quella «storia di capre»292, com'egli stesso la definisce, sia contenuta, in fondo, la
vera e propria origine del mito euripideo. Come sottolinea Martellini, questa storia «di
morte e di sangue»293 rimanda al significato stesso della parola tragoedia, ovvero
«canto del capro», che, in quanto «simbolo di lussuria e violenza, ha un non so che di
satanico che lo lega magicamente al sangue sacrificale e quindi all'espiazione
purificatrice»294. Mettendo da parte una delle componenti fondamentali della tragedia
greca, come l'interferenza dei crudeli disegni divini nelle vicende umane, Malaparte
sembra suggerire che la realtà sia sempre soltanto la risultante di fattori irrazionali e
imprevedibili, di passioni violente che ricordano molto da vicino gli istinti bestiali: la
mitizzazione del reale operata sembra dunque, in questo caso, con un processo
simbolico di «animalizzazione» dell'uomo.

292
C. Malaparte, Fedra, in Sangue, cit., p. 122.
293
L. Martellini, Malaparte narratore, in Nel labirinto delle scritture, p. 155.
294
Ibidem.

91
3. Un genere ibrido
3.1 Fra tradizione e innovazione

Nel 1935, inviando a Borelli Ode alla Sibilla Cumana, Malaparte scrive: «oggi,
per Bacco, ti mando un articolo che a me […] piace molto e a cui tengo molto. Il guaio
è che questo genere di articoli è difficile farlo […]. Ma son poi articoli? O non piuttosto
brani da antologia?»295. Borelli stesso, restituendo a Malaparte Madre che cerca il suo
bambino, lo definisce «novella, o bozzetto, o racconto, o articolo»296, come se i termini
fossero tutti sinonimi e quindi intercambiabili tra loro. Che gli articoli di Malaparte
rappresentino un genere ibrido, a causa della loro destinazione giornalistica e dei loro
contenuti letterari, è certo; ma in questo capitolo vorremmo tentare di collocare la sua
produzione di questi anni rispetto alla tradizione letteraria italiana del Novecento.

Prima di occuparci del caso specifico di Malaparte, occorre fare innanzi tutto delle
precisazioni riguardanti la narrativa breve: la critica ha infatti spesso e volentieri
trascurato questa forma, considerandola un genere minore rispetto al romanzo. Eppure,
come ha messo in luce Guido Guglielmi in un saggio del 1998, nel Novecento è proprio
il racconto la struttura narrativa che influenza il romanzo, e non il contrario. Se la
massima ambizione nell'Ottocento «era stata quella di passare dal racconto al romanzo,
o, per così dire, dal dettaglio al tutto»297, nel secolo successivo gli scrittori smettono di
cercare unità e coerenza perché scompare l'ideale dell'onniscienza: la totalità del reale si
manifesta «per frammenti, grovigli, illuminazioni»298:

La realtà non è più un oggetto, ma un problema. Non è più qualcosa che la


conoscenza possa abbracciare, ma l'incognita di ogni conoscenza. È l'uomo oramai
che appartiene al mondo, e non – secondo un antico e sempre risorgente
antropocentrismo – il mondo all'uomo. E la conoscenza si fa tanto più penetrante e

295
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 27 aprile 1935, in 661c, AC.
296
A. Borelli, lettera a C. Malaparte del 31 marzo 1937, Malaparte III, cit., p. 45.
297
Guido Guglielmi, Le forme del racconto, in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e
racconto, Torino, Einaudi 1998, p. 3.
298
Ibidem.

92
potente, quanto più sa assegnarsi di volta in volta i propri limiti.299

Il primo a riprendere la questione in modo sistematico è stato Romano Luperini


nel 2006. Il suo intervento ha il merito non solo di fornire un quadro completo degli
studi sulla forma narrativa breve fino a quel momento, ma anche d'individuare il
percorso che ha condotto alla nascita del racconto moderno in Italia. Nella prima parte
del saggio, Luperini illustra i tratti distintivi della novella individuati dai principali
studiosi che nel Novecento se ne sono occupati, ovvero Pirandello, Ejchenbaum e
Lukács300. Ciascuno dei contributi è significativo perché, mettendo l'accento su aspetti
differenti, contribuisce a creare una sorta di canone della narrativa breve.
Il primo ad analizzare il racconto in quanto genere letterario è Pirandello che, in
un saggio del 1897 prende le distanze da una tendenza italiana, fondata esclusivamente
sulla misura esteriore, per cui il racconto rappresenterebbe niente di più di un tipo di
narrazione di lunghezza intermedia fra novella e romanzo. A suo avviso, invece, poco
importa se il racconto è breve o lungo: la sua peculiarità risiede nel predominio della
componente espositiva e descrittiva nella narrazione. In questo tipo di struttura
narrativa, infatti, la rappresentazione non è mai diretta né oggettiva: i fatti, più che
messi in scena, vengono riferiti dall'autore stesso o da un personaggio che parla in prima
persona. Pirandello individua poi altri due aspetti essenziali del racconto: rispetto al
romanzo, il racconto considera un evento complessivamente e sinteticamente, «nei suoi
momenti culminanti e più determinanti» e non in tutti i suoi particolari; inoltre, come la
tragedia (la cui somiglianza con la forma breve era già stata osservata da Niccolò
Tommaseo), condensa in poco spazio eventi che nella realtà sono dilatati:

La novella e la tragedia classica pigliano il fatto, a dir così, per la coda; e di questa
estremità si contentano: intese a dipingerci non le origini, non i gradi della
passione, non le reazioni di quella con i molti oggetti che circondano l'uomo, e
servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad informarla in mille modi diversi, ma solo

299
Ibidem.
300
I testi presi in esame sono L. Pirandello, Romanzo, racconto, novella, in «Allegoria», III (8), 1991, pp.
158-160; Boris Ejchenbaum, Teoria della prosa, in I formalisti russi, a cura di Tzvetan Todorov, Torino,
Einaudi, 2003, pp. 233-247; G. Lukács, Šolženitsyn: «Una giornata particolare di Ivan Denisovič», in
Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1968, pp. 187-209 e Id, Teoria del romanzo, Milano,
Sugar, 1962.

93
gli ultimi passi, gli eccessi, insomma.301

Ejchenbaum, in un saggio del 1925, dà invece avvio alla sua riflessione sulla
forma breve a partire da Poe, secondo il quale la novella deve esercitare un effetto
costante sul lettore, dall'inizio alla fine: per questa ragione essa deve poter essere letta in
una sola seduta, impegnando il lettore per non più di un'ora. Il critico russo condivide la
posizione dello scrittore e accentua l'orientamento del racconto verso la conclusione:
egli ritiene infatti che fin dall'inizio della narrazione si debba poter cogliere la sottile
tensione che la percorre interamente e che sfocia nel finale.
Negli anni Sessanta, infine, Lukács, prende le mosse dalla riflessione di Goethe
per sviluppare la propria. Secondo lo scrittore tedesco, ciò che caratterizza la novella è
la narrazione di un evento nuovo, straordinario, inaudito; per il critico ungherese,
invece, questo evento inaudito si trasforma, nell'ottica moderna, in un evento
immotivato, dettato dal caso, ovvero da una contingenza fuori dal controllo del
soggetto. Anche Lukács si sofferma inoltre, come Pirandello, sulla parzialità della
novella: essa non si pone come obiettivo l'analisi della totalità di relazioni e
comportamenti che avvengono in seno a un gruppo sociale, come fa il romanzo, ma si
occupa di rappresentare un caso singolo che rappresenta una particolarità estrema.
Alla luce di queste considerazioni, potremmo definire il racconto moderno come
un genere che si basa principalmente sull'esposizione di un evento marginale
riguardante non un gruppo sociale ma un caso particolare, considerato non in tutti i suoi
particolari, ma solo parzialmente, nei suoi eccessi. Tale struttura narrativa, retta da una
tensione continua che emerge nella conclusione, trova la sua ragion d'essere nella
necessità tutta novecentesca di dar spazio all'arbitrarietà del caso, e di «fotografare»
quelle immagini fuggevoli e segrete senza tentare di spiegarle.
Dopo questa prima parte, Luperini passa all'analisi della storia della forma breve
in Italia, al fine d'individuare lo spartiacque che segna la nascita del racconto moderno.
Come nota Marziano Guglielminetti, la grande tradizione novellistica del Trecento e del
Cinquecento, rappresentata dai modelli del Decameron e del Novellino, si estingue per
circa due secoli, per rinascere intorno al 1830:

301
R. Luperini, Il trauma e il caso, in Id., L'autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori 2006, pp. 167-
168.

94
I ritratti morali di Gasparo Gozzi sulla «Gazzetta veneta» […] dimostrano […] che
a quella data (1760-62) è possibile riversare sulle colonne di un periodico parte di
un materiale che ha ormai perso la sua cifra novellistica, e rischia, se non la
scomparsa, il travestimento. […] La crisi dura ben oltre il XVIII secolo e investe in
pieno il successivo. […] Bisogna attendere gli anni Trenta dell’Ottocento perché
compaiano i primi segni di un risveglio (Cesare Balbo, Novelle, 1829; Niccolò
Tommaseo, Due baci, 1831).302

Questo risveglio conduce, a partire dagli anni Sessanta, alla progressiva conquista
di caratteristiche sempre più moderne. Luperini nota come la novella scapigliata sia la
prima, in Italia, a contenere alcuni dei tratti individuati dai teorici del racconto: al centro
delle narrazioni di Tarchetti, Gualdo, Praga e dei fratelli Boito si collocano infatti delle
situazioni traumatiche, di crisi, in cui la vita sembra essere dominata dal caso. Questi
eventi, tuttavia, sono considerati nella loro eccezionalità, vengono ambientati in luoghi
esotici e sono orientati a una conclusione sorprendente. Negli stessi anni, inoltre,
accanto al filone scapigliato ne esiste un altro, quello che Luperini definisce
campagnolo, che ha ancora delle caratteristiche molto tradizionali: «siamo nel campo
del bozzetto e della scena di genere, dove la raffigurazione di una situazione generale
conta più del caso singolo»303. Entrambi i tipi di novella hanno però un carattere in
comune, ovvero la presenza di un narratore che evidenzia, direttamente sulla scena, le
articolazioni e le connessioni degli avvenimenti.
La nascita della novella moderna in Italia si colloca dunque in un momento
successivo all'esperienza scapigliata, e precisamente con la pubblicazione di Rosso
Malpelo (1878). Le conseguenze dirette della poetica verista sono infatti la conquista
dell'impersonalità e l'eliminazione della mediazione del narratore, l'azione diretta e
concentrata in singoli episodi separati tra loro, narrati secondo una climax narrativa che
culmina nella conclusione e, soprattutto, la collocazione degli eventi perturbanti e
traumatici nella quotidianità più ordinaria. «I naturalisti scoprono che l'eccezionale è
riconducibile alla norma sociale o alla spiegazione scientifica di una patologia»304:
Rosso Malpelo è infatti, nello stesso tempo, un personaggio normale ed eccezionale.
Verga è l'iniziatore di un processo che si sviluppa in seguito con D'Annunzio, Pirandello
e Tozzi: «un ventennio dopo Vita dei campi, con Pirandello l'assurdità e la casualità
costituiscono ormai una dimensione quotidiana. […] Contemporaneamente la novella
302
M. Guglielminetti, Sulla novella italiana. Genesi e generi, Lecce, Milella, 1990, pp.105-106.
303
R. Luperini, Il trauma e il caso, in Id., L'autocoscienza del moderno, cit., p. 169.
304
Ivi, p. 170.

95
tende ad assumere una struttura fortemente caratterizzata. Fra il 1880 e il 1920 si
appropria innanzi tutto di un taglio breve, estremamente concentrato»305.
Negli anni Venti, Svevo inaugura un taglio nuovo, caratterizzato da «una fluidità
narrativa che non sopporta più le cesure e i tagli della novella primonovecentesca»306 e
che si stabilizza quindi su «una misura più distesa, che oscilla spesso fra racconto lungo
e romanzo breve»307. È proprio in questo contesto, nota Luperini, che il termine
«racconto» inizia a prevalere su quello di «novella», invertendo la tendenza in voga fino
a quel momento. Il modello sveviano si configura come un racconto analitico, si basa
cioè su un accumulo di osservazioni psicologiche e su una sovrapposizione di atmosfere
interiori volte a ricostruire razionalmente «un pulviscolo di movimenti dal profondo»308.
La novella analitica tende a soppiantare progressivamente, dagli anni Trenta, quella
verista, basata sulla spasmodicità e sulla drammaticità: viene presa a modello da autori
quali Vittorini, Gadda e Moravia. Accanto a questa nuova tipologia di racconto, inoltre,
se ne sviluppa contemporaneamente un’altra, con Pavese e Bilenchi. Quest'ultima è
caratterizzata dalla descrizione di un insieme di sottintesi, sentimenti ed emozioni ai
quali viene conferito un valore epifanico per via della distanza che separa il tempo del
racconto da quello della narrazione, che - per dirla con Pavese - altro non è se un
ripensamento. In entrambe le tipologie di novella, l'epilogo tende progressivamente a
perdere il valore e la drammaticità che aveva in quella primonovecentesca.
Il racconto, dunque, nella sua parzialità e condensazione, diventa a partire dagli
anni Trenta del Novecento la forma privilegiata per rappresentare il carattere
discontinuo e disarticolato dell'esistenza moderna, ovvero la frantumazione, la relatività
e la casualità della vita. Ed è da questo momento in poi che la forma breve inizia a
influenzare quella del romanzo: «d'altronde nel corso del Novecento, sarà la novella
solariana (fra Vittorini, Loria, Comisso, Bonsanti, Gadda) a ricostituire una nuova
articolata durata e fluidità narrativa, preparando così il terreno al rilancio del romanzo
che i vociani volevano abolito e in parte avevano in effetti dissolto nel
frammentismo»309.

305
Ivi, p. 171.
306
Ivi, p. 173.
307
Ibidem.
308
Ivi, p. 174.
309
Ivi, pp. 176.

96
*

Prima di collocare Malaparte in questo panorama, è necessario tenere conto anche


del dibattito aperto in questi anni sulla prosa d'arte, che lo ha chiamato direttamente in
causa. È proprio sulle terze pagine dei giornali che, secondo il critico Enrico Falqui, si
assisterebbe, nel periodo fra le due guerre, alla nascita di un nuovo genere breve in
prosa - derivato dalle Operette morali di Leopardi e dai Petits poèmes en prose di
Baudelaire - che sembrerebbe distinguersi nettamente dal genere del racconto.
Pubblicando nel 1938 la sua antologia Capitoli. Per una storia della nostra prosa d'arte
del Novecento, Falqui spiega che con il termine «capitolo» indica

la vivida fioritura di componimenti (dal poemetto in prosa all’elzeviro, attraverso il


saggio, il capriccio, lo scherzo, la fantasia, l’idillio, il sogno, la favola, ecc.),
liberamente ma accortamente espressa, secondo le molte esigenze e variazioni della
prosa d’arte, la quale va tenuta distinta da quella narrativa, storica o critica, di cui,
a volte, può tuttavia rappresentare l’ardua felice eccelsitudine, grazie alla
trasfigurazione o all’illuminazione tanto d’un ripensamento quanto d’un
potenziamento lirico.310

Caratterizzato da una rievocazione autobiografica in prima persona e da un


linguaggio stilisticamente curato e un tono patetico, il capitolo sarebbe un genere di
compromesso tra il purismo rondista, il frammentismo vociano e il lirismo dannunziano.
Questo tipo di prosa tutta esteriore dovrebbe essere quindi molto diversa da quella
narrativa, eppure Falqui sostiene che, nei testi di alcuni prosatori d'arte che sono anche
narratori, è molto difficile individuare il passaggio dall'una all'altra forma. Questa
opacità non aiuta a distinguere chiaramente i contorni del genere, nel quale Falqui fa
rientrare autori anche molto diversi fra loro: Malaparte, del quale sono riportati i brani
Donna in riva al mare e Fedra, ne sarebbe un esponente accanto a Bontempelli, Papini,
Tozzi, Jahier, Cecchi, Palazzeschi, Campana, Savinio e Gadda, per fare solo alcuni
nomi311. Il capitolo trova nella costrizione novecentesca dell'elzeviro il suo spazio

310
E. Falqui, Capitoli. Per una storia della nostra prosa d’arte del Novecento. Antologia, Milano,
Mursia, 1964, p. 7.
311
L’antologia contiene, complessivamente, testi di D’Annunzio, Panzini, Ojetti, Bernasconi, Agnoletti,
Giuliotti, Linati, Bontempelli, Soffici, Cicognani, Barilli, Papini, Pea, Viani, Tozzi, Giovannetti,
Savarese, Jahier, Cecchi, Govoni, Serra, Palazzeschi, Campana, Onofri, Cardarelli, Bucci, Angelini,
Boine, Sbarbaro, Cora, Slataper, Baldini, Burzio, Bacchelli, Savinio, Bartolini, Montano, Gadda,
Moscardelli, Vigolo, Alvaro, Comisso, Manzini, Angioletti, Lanza, Malaparte, Raimondi, Solmi e

97
privilegiato, e rappresenta per Falqui una sorta di passaggio obbligato per conquistare
una nuova prosa narrativa, oltre che il simbolo di un determinato periodo storico.
L'importanza che il critico accorda al capitolo solleva un dibattito al quale prendono
parte, all'epoca, diversi scrittori e critici, tra i quali anche Malaparte, in due articoli
apparsi su «Prospettive» nel 1940. Nel primo, chiamato provocatoriamente Cadaveri
squisiti, egli attribuisce alla propria generazione e a quella precedente la responsabilità
di aver accumulato non opere significative, ma del semplice «materiale da costruzione
[…] di cui il “capitolo” (nel quale, ahimè, siamo tutti maestri) rappresenta una prova
fallita»:

Mi vien da sorridere, quando rifletto sulla presunzione di alcuni, di molti, fra i


migliori di noi, i quali si stimano grandi scrittori […] perché presumono di aver
creato opere definitive, pagine esemplari, in sé perfette e in se stesse vitali. (A
questa presunzione concede volentieri una certa critica minore, quella che
suggerisce il «capitolo» come il miglior frutto di questa nostra stagione letteraria. Il
che può valere soltanto a titolo di consolazione: l’estetica della prosa d’arte non
essendo altro che l’estetica dannunziana ripresa col sottinteso del minimo sforzo,
un’estetica di ripiego, un pentimento in punto di morte, un ritorno per la scala di
servizio). 312

Lo scrittore riprende gli stessi concetti anche nell'articolo successivo, dove


ribadisce che «se si volesse accettare l’estetica dei “capitoli”, occorrerebbe logicamente
limitare i problemi della letteratura italiana a problemi di scrittura. Vale a dire a
problemi puramente esteriori»313. Riprendendo l'idea che questa tendenza sia favorita da
«una certa critica minore», sostiene che «la difesa dell’estetica dei “capitoli” si risolve,
in fin dei conti, in una questione personale di Enrico Falqui, che egli fa assurgere, per
motivi suoi propri […] ad avventura di tutta una generazione, a risultato di
un’esperienza collettiva»314, e aggiunge:

la fortuna che l’estetica dei «capitoli» ha incontrato, a titolo di consolazione, presso


gli scrittori compresi fra i cinquanta e i sessant’anni […] è dovuta in gran parte alla
facilità che essa offre di sentirsi e di apparire soddisfatti della propria opera, alle
possibilità che essa consente di crearsi senza sforzo una giustificazione esteriore,

Gallian.
312
C. Malaparte, Cadaveri squisiti, in «Prospettive», n. 5, 15 luglio 1940, ora in Malaparte V, cit., pp.
269-270.
313
Id., Aver voce in “capitoli”, in «Prospettive», n. 9, 15 settembre 1940, ora in ivi, p. 318-319.
314
Ivi, pp. 319.

98
un alibi, un conforto alla propria vanità […] Dove possa condurre una tale estetica
è chiarissimo: poiché non impegna la morale, né permette alcuna possibilità di
salvezza, escludendo a priori ogni forma di liberazione e di rinnovamento, ogni
soluzione dei problemi letterari entro la letteratura.315

Queste risposte di Malaparte sono sufficienti a farci comprendere la posizione


dell'autore rispetto alla questione: egli non mette in dubbio l'esistenza del capitolo, ma
ridimensiona fortemente l'importanza di questa esperienza, destinata ad essere superata
a favore di forme più mature. Ciò non significa che Malaparte non riconosca il valore
della sua produzione di questi anni, ma non la considera un punto di arrivo.

Fatte queste premesse, possiamo ora tornare alle questioni di partenza: cosa
concludere rispetto al rapporto di Malaparte con il giornalismo? Dove si colloca rispetto
al genere breve in prosa narrativa e alla prosa d'arte? Sempre tenendo conto
dell'eterogeneità dei materiali analizzati nel capitolo precedente, che impedisce
qualunque generalizzazione, ci sembra tuttavia che alcuni punti possano essere chiariti.
Innanzitutto ci sembra utile ribadire che la destinazione giornalistica dei racconti
di Curzio Malaparte non inficia la loro appartenenza al genere. L'elzeviro è sì una
misura imposta dal giornale per esigenze pratiche - nel caso specifico del «Corriere» sei
cartelle, ovvero una colonna e mezza - ma rappresenta anche uno spazio privilegiato di
cui servirsi, quasi una contrainte per mettere alla prova le proprie capacità. Inoltre è
interessante notare come già a ridosso della sua collaborazione con il quotidiano
milanese l'elzeviro fosse già diventato per l'autore, come dichiara a Borelli in una lettera
inedita del giugno 1933, una misura prediletta rispetto ad altre: «Dunque, ti mando un
taglio di pagina. Come vedi, ti ho obbedito. Ma preferisco gli elzeviri. Prima di tutto son
più corti, e poi mi muovo meglio. Ho un sacco di idee in testa ma per un taglio di pagina
non vanno»316. La forma breve è dunque una vera e propria esigenza artistica di
Malaparte che, da giornalista e scrittore, ritiene la lunghezza un carattere più
appropriato per un tipo di articolo prettamente giornalistico, di reportage o di

315
Ivi, pp. 319-320.
316
C. Malaparte, lettera ad A. Borelli del 14 giugno 1933, in 661c, AC.

99
cronaca317. E questa brevità, ricercata a dispetto della possibilità di una misura più
ampia perché ritenuta più adatta per dar forma alle proprie idee, sembra coincidere
proprio con quella teorizzata da Poe ed Ejchenbaum.
A questo punto resta da stabilire l'appartenenza della prosa breve malapartiana a
quella narrativa o a quella d'arte. Una delle caratteristiche più evidenti dei racconti,
abbandonata in modo esplicito solo in pochi di essi, è l'ispirazione autobiografica o
quanto meno la narrazione in prima persona, che dovrebbe avvicinare Malaparte al
genere della prosa d'arte. Tuttavia l'autobiografia non è espressa sempre in un tono
lirico; quelli malapartiani non sono sempre degli idilli misurati: confrontando la
maggior parte dei suoi racconti con il famoso Pesci rossi di Cecchi, assunto a modello
di genere, si nota una differenza fondamentale rispetto agli eccessi del lirismo fine a se
stesso, e cioè che la prosa malapartiana è caratterizzata sempre dal piacere del narrare
dei fatti, per quanto emblematici e simbolici essi possano essere. Nonostante il labor
limae sia indiscutibilmente evidente, Malaparte si perde in pochi casi in narrazioni
estetizzanti: la prosa è senza dubbio curata e levigata, ma quasi mai ripiegata su stessa.
Come abbiamo chiarito nella nostra analisi, Malaparte ama profondamente il proprio
ruolo di cantore, aedo o rapsodo, e tutto, nelle sue prose, ruota generalmente intorno a
un evento scioccante o al mistero d'un sogno perturbante. Ogni descrizione, per quanto
impreziosita da raffinatezze stilistiche, rimane nella maggior parte dei casi di contorno.
È dunque legittimo chiedersi quanta arte ci sia realmente nelle prose malapartiane e a
questo proposito non ci sembra fuorviante affermare, insieme a Martellini, che esse
abbiano alle spalle l'esperienza della «Ronda»; tuttavia, mettendo in luce il debito
rondista, è necessario chiamare in causa anche quello dannunziano, gli echi strapaesani,
quelli surrealisti e chissà quanti altri: la prosa d'arte si riduce a nostro avviso in questi
testi a una questione di stile e non di genere, a parte in alcuni casi particolari. Malaparte
non sfugge all’influenza di quella che è stata una delle più importanti esperienze
letterarie del suo tempo, ma relegare in quell'area tutti i suoi testi degli anni Trenta ci
sembra una forzatura.

317
In una lettera risalente ai tempi della corrispondenza etiope, scrive: «Non so se dare il tono delle solite
corrispondenze, […] il tono giornalistico, oppure un tono più sostenuto. Non so nulla. Prima di partire
[Borelli] mi scrisse che voleva dei grandi tagli. Ora vedo che mi pubblica gli articoli come elzeviri. Ciò
mi può far piacere da un punto di vista, dirò così, di scrittore, ma non so se il servizio ci guadagna. D'ora
in poi, scriverò io in margine se deve andar taglio o elzeviro (a mio parere): voi deciderete» (C.
Malaparte, lettera a O. Rizzini del 27 giugno 1939, in 662c, AC).

100
Il racconto malapartiano rientra pienamente, a nostro avviso, nella definizione di
racconto moderno individuato dai suoi teorici: le situazioni che l'autore racconta sono
spesso eventi marginali, riguardanti casi singoli, considerati non in tutti i loro
particolari, ma solo parzialmente, nei loro eccessi. La maggior parte dei testi è
caratterizzata dalla presenza dello straordinario nell'ordinario, ed è percorsa in modo
continuo da una certa tensione, come una fotografia di immagini fuggevoli e segrete.
Nella maggior parte dei racconti appartenenti alla tipologia dell'invenzione, in tutti
quelli autobiografici che afferiscono all'area del realismo magico oltre che in alcuni di
quelli storici (La Maddalena di Carsbourg e Donna rossa) prevale la narrazione di una
storia quotidiana che ha dell'inaudito e che, erede del modello sveviano, viene narrata
analiticamente. In certi casi, Malaparte si allontana dalla moderna conciliazione di
trauma e caso, preferendo eventi veramente eccezionali, come l'apparizione degli
angeli: questi racconti hanno di solito una componente allegorica che rimanda a una
tradizione più antica (pensiamo a Sodoma e Gomorra o a Visita dell'angelo).
Appartengono invece a un ambito più tipicamente giornalistico i bozzetti relativi ai
resoconti di viaggio e la maggior parte dei racconti storici: sono racconti più
tradizionali, privi di tensione narrativa, e riguardano situazioni che coinvolgono interi
gruppi sociali o comunità. I bozzetti «panici», insieme alle riletture del mito e ad alcuni
racconti autobiografici, sono dunque in fin dei conti le sole narrazioni in cui prevalgono
un autobiografismo e una cura stilistica più estremi, che le avvicinano alla prosa d'arte.
Concludendo, possiamo affermare che, facendo sua una forma impostagli dalle
esigenze giornalistiche, Malaparte scrive talvolta degli articoli di réportage o dei
resoconti di viaggio, talvolta dei bozzetti che lo ricollegano alla prosa d'arte, ma il più
delle volte dei racconti propriamente analitici, immettendosi pienamente nella tradizione
del racconto moderno. L'attenzione accordata allo stile, che connette lo scrittore al
«genere» della prosa d'arte ci sembra di solito di secondaria importanza rispetto alla
narrazione stessa: Malaparte non è un prosatore, ma un vero e proprio narratore, che, in
quanto tale, si costruisce uno stile proprio, inconfondibile, basato anche, ma non solo,
sull'equilibrio e sulla misura: pensiamo alla violenza improvvisa di certe immagini, agli
echi surrealisti e a quelli strapaesani. La ricchezza e l'elaborazione stilistica di questi
testi, vista in quest'ottica, ci sembra connettere la produzione di questi anni a quella
romanzesca degli anni Quaranta, piuttosto che allontanarle l’una dall’altra.

101
3.2 Una forma privilegiata

Come sottolinea Giuseppe Panella, tutta la prima produzione narrativa di


Malaparte «rappresenta una sorta di tesoretto dal quale […] continuò ad attingere per
molti anni successivi e del quale non rifiutò mai le premesse e le implicazioni»318. La
consapevolezza dell'autore di non essere uno scrittore “arrivato” soltanto grazie ai suoi
racconti non è mai stata per lui una ragione valida per svalutarli: basti pensare che
Donna come me è stato pubblicato solo quattro anni prima di Kaputt e che, ancora due
anni dopo l'uscita del romanzo, lo scrittore avrebbe voluto raccogliere in volume i lavori
rimasti esclusi dalle precedenti raccolte. Sull'importanza dei racconti come ponte verso i
capolavori degli anni Quaranta si esprimono tuttavia pochi studiosi. Giorgio Luti, per
esempio, ritiene che alcuni racconti di Sangue traccino la strada verso i romanzi della
maturità: da questi deriverebbero da un lato «la definitiva maturazione della
componente lirica che culminerà in Donna come me»319, dall'altro «la decisione di
puntare al romanzo come necessario approdo di un modo di narrare che proprio in
Sangue ha trovato la possibilità di esprimersi con una valenza drammatica che non era
presente nei racconti di Sodoma e Gomorra e di Fughe in prigione»320. A nostro avviso,
il discorso può e deve essere allargato da Sangue all'insieme delle quattro raccolte,
perché tutta la sperimentazione di questi anni, ugualmente composita, contiene almeno
un tassello rintracciabile nel romanzo. Nulla è realmente separabile nel grande
amalgama della scrittura malapartiana: il lirismo che Luti ritiene peculiare di un
percorso che sfocerebbe in un vicolo cieco esiste innegabilmente, ma sempre accanto ad
altre componenti, e di certo non si esaurisce in Donna come me. Quello che lo scrittore
compie è, diversamente da quanto generalmente si ritiene, un itinerario narrativo diretto,
senza cesure: affonda le sue radici fin dagli ultimi anni Venti per concludersi nei
romanzi degli anni Quaranta. Ci sembra dunque necessario, per una critica che inizi
finalmente a prendere in seria considerazione il Malaparte narratore, tenere in conto
delle implicazioni che questa prima tappa, lunga un decennio, ha avuto nel percorso di
maturazione dello scrittore. Le prove degli anni Trenta rappresentano infatti, sotto ogni
punto di vista, un vero e proprio punto di partenza: oltre a dimostrare nella maggior
318
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 44.
319
G. Luti, Introduzione, in Sangue, cit., p. 17.
320
Ibidem.

102
parte dei casi una ricerca e una sperimentazione narrativa assolutamente autonome nel
panorama dell'epoca, ci sembra che definiscano con la loro essenziale brevità il maggior
punto di contatto con la prosa romanzesca.

Una delle recensioni uscita all'indomani della pubblicazione di Donna come me ne


metteva in luce la mancanza di spessore; l'eterogeneità della raccolta, secondo il critico
Renato Giani, finiva per svilire i racconti, che, giustapposti uno di seguito all'altro senza
soluzione di continuità, risultavano poco convincenti: «il bell’elzeviro»321 non bastava
più. Malaparte stesso sembra avvertire la necessità, dopo aver sperimentato tutte le
possibilità che la forma breve aveva da offrirgli, di una dimensione più organizzata e di
ampio respiro. Questa esigenza non nasce tuttavia dalla volontà di mettere da parte la
forma breve, che si addice così bene alle sue qualità di narratore, ma dall'intuizione che
il suo universo narrativo, trovando il giusto modo di avvicinare più storie in un unico
contesto, sarebbe rinato rafforzato. In Kaputt, come sottolinea Mattiato, «l’assenza di
una trama unitaria è sorprendente»322: al centro del romanzo si trova infatti una
moltitudine di racconti, i quali, come piccole monadi, vivono autonomamente gli uni
rispetto agli altri. Il romanzo diventa dunque una sorta di «racconto di racconti»: alla
base del suo impianto sta un gioco di scatole cinesi in cui s'incastrano narrazioni di per
sé separate; esso risulta un ammasso di esperienze e di storie completamente
disomogenee che, pensate e rielaborate in un contesto più vasto, trovano il loro
equilibrio. La rete che riesce a creare la continuità dell'opera è composta da un lato dalla
presenza di Malaparte narratore e protagonista e dall'altro dal tema di fondo: la
decadenza dell'Europa a causa della piaga della moderna «peste». Nel passaggio dal
racconto al romanzo intercorre infatti l'esperienza della seconda guerra mondiale, che
fornisce allo scrittore, con la sua lugubre fascinazione, il materiale di cui aveva bisogno.
All'importanza della pratica della scrittura narrativa nell'ambito della terza pagina
si sovrappone, come nota Luti, «il consistente apporto del lungo tirocinio giornalistico

321
R. Giani, Donna come me, in «Maestrale», novembre 1940, ora in Malaparte V, cit., p. 430.
322
E. Mattiato, Des reportages de guerre à Kaputt: jalons pour une étude des confluences, in Id., Les
écrivains-journalistes du Corriere della Sera durant la Seconde Guerre mondiale: Curzio Malaparte,
Dino Buzzati, Orio Vergani, Virgilio Lilli et Indro Montanelli, Tesi di Dottorato, Université Paris X -
Nanterre, 2003, p. 442 (traduzione nostra).

103
che ha accompagnato Malaparte dagli esplosivi réportages dalla Russia e dall'Europa
operaia pubblicati sulla “Stampa”, alle corrispondenze di guerra, prima dall'Africa e poi
dai campi di battaglia europei, apparse sul “Corriere della Sera”, dalla conquista
dell'Etiopia al secondo conflitto mondiale»323. Se la sperimentazione nell’ambito della
narrativa breve offre a Malaparte la forma privilegiata su cui strutturare i suoi romanzi,
la corrispondenza di guerra e l'articolo di réportage gli forniscono invece temi e
contenuti. La sua poetica dello choc, perseguita fin dagli anni Trenta, trova una naturale
applicazione nella descrizione degli orrori causati dal conflitto mondiale; il lirismo
malapartiano, già cupo e visionario, si tende in una scrittura concisa e crudele,
affiancandosi a un realismo magico esasperato, che s'inserisce senza alcuno sforzo nello
spaventoso, violento e illogico scenario della guerra, dove l'assurdo e l'inaudito sono
all'ordine del giorno. Come emerge nello studio di Mattiato, Malaparte, in un
procedimento di parziale recupero dell'esperienza giornalistica, rielabora e inserisce in
certi punti dell'opera interi brani delle sue corrispondenze dal fronte, oppure ne riprende
situazioni, personaggi e incontri, finzionalizzandoli come per mostrare l'altra faccia di
una stessa realtà che si rivela doppia324. Gli anni Trenta sono, in questo senso, un vero e
proprio cantiere, dove Malaparte sperimenta la forma e accumula i materiali narrativi
che saranno alla base dei suoi romanzi. Si ritrovano accumulati, addensati, amplificati

323
Ibidem. Nel gennaio del 1939, Malaparte parte come inviato speciale per un servizio in Etiopia. Lo
scrittore ha intenzione di percorrere in automobile la prima parte dell'itinerario, da Asmara al lago Tana,
per poi proseguire a dorso di mulo fino ad Addis Abeba, al seguito del 9° battaglione di ascari. Dopo due
mesi e mezzo, quando non è nemmeno a un quarto del percorso e ha scritto soltanto undici articoli di
carattere descrittivo (raccolti oggi in C. Malaparte, Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, Firenze,
Vallecchi, 2006), decide tuttavia di tornare in Italia: «la guerra si avvicinava a grandi passi, dopo
l'occupazione tedesca della Boemia e quella italiana dell'Albania, e continuare la descrizione dei tramonti
africani e delle scaramucce degli ascari mentre i più forti eserciti del mondo si preparavano allo scontro
dovette sembrare ridicolo tanto a lui che a Borelli» (G. B. Guerri, L'Arcitaliano, cit., p. 190). Al suo
ritorno, tra l'ottobre del 1939 e il maggio 1940, dà avvio alla seconda serie di «Prospettive», pubblica
Donna come me e un romanzo a puntate, Una tragedia italiana, sulla neonata rivista «Circoli» (i cui
episodi editi sono contenuti in uno dei volumi delle Opere complete, cfr. C. Malaparte, Ballo al Cremlino
e altri inediti di romanzo, a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi, 1971). Nel giugno del 1940 viene inviato
sul fronte francese non come corrispondente, ma come ufficiale: nei due mesi in cui resta al fronte scrive
il romanzo Il sole è cieco, pubblicato tra il gennaio e l'aprile dell'anno successivo sul «Tempo» (Id., Il sole
è cieco, Firenze, Vallecchi, 1947). Alla fine di luglio, ottiene grazie a Ciano di riprendere il ruolo di
giornalista: Ciano gli chiede però in cambio un favore, ovvero di documentare quello che si sarebbe
rivelato il disastroso attacco italiano alla Grecia. I servizi greco ed etiope sono quelli che segnano, dopo la
decennale «pausa letteraria», la ripresa della carriera giornalistica dello scrittore, che proseguirà durante
la guerra sui fronti europei e in Russia.
324
Per un approfondimento ulteriore, cfr. E. Mattiato, Des reportages de guerre à Kaputt: jalons pour une
étude des confluences, in Id., Les écrivains-journalistes du Corriere della Sera durant la Seconde Guerre
mondiale: Curzio Malaparte, Dino Buzzati, Orio Vergani, Virgilio Lilli et Indro Montanelli, cit., pp. 442-
450.

104
nel romanzo, tutti gli elementi che già caratterizzavano la scrittura malapartiana negli
anni Trenta: ritornano tutte le tipologie di racconto esaminate (salvo quella del mito),
l'interesse per eventi e persone sempre relativamente marginali, la tecnica dello choc e il
patetismo, il realismo magico e l'onirico, le descrizioni sinestetiche e le
«animalizzazioni». Cantastorie, menestrello, in quasi tutti i capitoli egli si mette in
scena proprio nelle vesti di narratore: in questo gioco metaletterario i suoi racconti si
accumulano l'uno sull'altro, tra divagazioni e ritorni al punto di partenza. In questa
struttura labirintica e apparentemente precaria esiste un elemento che funziona da
aggregante: Kaputt rappresenta infatti un moderno, visionario bestiario, in cui gli orrori
della guerra sono emblematicamente rispecchiati dalla presenza animale. I sei capitoli
del libro prendono ciascuno il nome di una bestia più o meno nobile, che è allegoria di
un significato: i cavalli sono per esempio un simbolo di sacrificio, i topi di un'umanità
oppressa, gli uccelli di tutto ciò che è indifeso, le mosche del peso del rimorso325: è
attraverso la loro presenza che lo scrittore evidenzia come l'ordine naturale del mondo
sia sconvolto a causa della guerra326. Tutti sono «ugualmente snaturati, strappati al
rapporto con la creazione»327 e attraverso di loro si configura un'inversione nel rapporto
tra le specie: gli uomini diventano, durante la peste della guerra, più feroci delle bestie,
mentre queste vengono umanizzate. Pur essendo Kaputt privo della fondamentale
dimensione teologica e della struttura bipartita dei bestiari medievali 328, è comunque
impregnato di un senso religioso: la sofferenza degli animali, come sappiamo, è l'unico
fenomeno capace di ispirare nell'autore un autentico sentimento di pietà cristiana329;

325
G. Panella, L'estetica dello choc, p. 50-51.
326
È interessante notare come il bestiario malapartiano, i cui protagonisti sono cavalli, topi, cani, uccelli,
renne e mosche, rinvii al bestiario surrealista che, come nota Maillard-Chary, è basato su un insieme di
circa settecento forme di animali comuni: in testa vengono proprio, nell'ordine, uccelli, cavalli, cani,
pesci, serpenti, mosche, gatti e farfalle, ovvero quelli la cui esistenza è stata negata o ostracizzata da
generazioni e generazioni di scienziati. Per ulteriori approfondimenti, rimandiamo a C. Maillard-Chary,
Le bestiaire des surréalistes, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1994, p. 43.
327
M. Serra, Malaparte, cit., p. 335.
328
I bestiari medievali, cataloghi che raggruppano favole e moralità su animali reali o immaginari, sono
infatti delle variazioni di uno stesso archetipo, il Phisiologus di Pierre de Beauvais, che ha una struttura
bipartita: da un alto illustra le proprietà degli animali, dall'altro la rispettiva funzione simbolica e
teologica. Scritti solitamente a scopo didattico, sono manuali di dottrina cristiana più che sintesi di
specifiche conoscenze: nel pensiero medievale, ogni oggetto materiale ha la funzione di segno, più o
meno manifesto, di verità spirituali o d'insegnamenti morali. In quest'ottica, l'universo, enorme repertorio
di simboli e incessante ierofania, si configura come un libro sacro (cfr. Luigina Morini, Introduzione, in I
bestiari medievali, a cura di Ead., Torino, Einaudi, 1996, pp. VII-VIII).
329
M. Serra, Malaparte, cit., p. 335.

105
inoltre, notiamo che in una narrazione «convulsa ed esagitata»330 e in una struttura
molto poco lineare, gli animali diventano un potente fattore riordinante, catalizzatore di
storie e metafore. Ciascun animale assume, nel capitolo che gli è consacrato, la funzione
che potrebbe svolgere una calamita: esercitando una forza magnetica più o meno forte,
attira a sé storie, aneddoti e allegorie che contribuiscono a dare una certa unità al
materiale incoerente del libro, ordinando il materiale per grumi narrativi. Le bestie sono
dunque un pretesto per dare avvio alla narrazione: talvolta a quelle che prestano il loro
nome al capitolo sono dedicate alcune pagine, di solito oniriche e visionarie, talvolta lo
scrittore se ne serve come termine di paragone per una metafora reiterata lungo tutto il
capitolo. Comunque sia, grazie alla loro presenza il materiale narrativo risulta, se non
omogeneo, almeno in qualche modo coeso.
Per meglio comprendere questo discorso, ci sembra utile affrontare una breve
analisi delle prime due parti dell'opera. La prima parte, I cavalli, è composta da tre
capitoli. Le coté de Guermantes si apre con la descrizione di un paesaggio svedese in
cui si diffonde l'«amoroso lamento»331 di una voce femminile «distratta e dolente»332
che è in realtà il nitrito dei cavalli del parco di Tivoli. Questo suono è il punto di
partenza di una serie di riflessioni riguardanti soggetti diversi - tra cui i cavalli - che lo
scrittore condivide con il Principe Eugenio di Svezia. Il paesaggio svedese stesso,
mentre i due conversano, sembra trasformarsi, compiendo una vera e propria
metamorfosi, in un'immensa creatura equina che comunica con l'uomo attraverso la
voce dei cavalli. Nelle ultime dieci pagine del capitolo, gli animali non vengono più
nominati, ma è un altro nitrito che dà inizio al secondo capitolo, Patriacavallo. Questa
volta il suono fa venire in mente a Malaparte il ricordo di una giumenta morta ad
Alexadrowka, in Ucraina. In questo racconto il sogno e la realtà si mescolano in un
gioco d'immagini dove l'odore del cadavere diventa un vero e proprio mostruoso
personaggio. Il dato uditivo si trasforma in dato olfattivo e impregna tutte le pagine del
capitolo, tanto che, nella conclusione, l'autore sente quell'odore putrescente con il
piacere di colui che, dopo un viaggio spossante, ritrova la propria patria. La fine
dell'episodio coincide con l'inizio di una storia sviluppata nell'ultimo capitolo, I cavalli
di ghiaccio, che si apre con un'affermazione inquietante: «Bisognerà seppellire i cavalli.

330
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 50.
331
C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 19.
332
Ibidem.

106
Comincia la primavera»333. Lo scrittore inizia infatti a raccontare la storia dei cavalli
congelati del lago Ladoga, dove l'influenza dell'immaginario surrealista e la
fascinazione dell'orrore si rivelano in tutta la loro forza per mostrare quanto la realtà
della guerra possa essere assurda e terribile. I cavalli diventano, come suggerisce
Panella, «una sorta di metafora cristologica»334, esplicitata qualche pagina dopo, nel
racconto di un sogno di Malaparte:

Entro in una piazza gremita di gente, tutti guardano in su, anch’io alzo gli occhi, e
vedo, a picco sulla piazza, un alto monte scosceso. Sulle cima del monte sorge una
grande croce. Dalle braccia della croce pende crocefisso un cavallo. I carnefici,
arrampicati sulle scale, danno gli ultimi colpi di martello. Si odono i tonfi dei
martelli nei chiodi. Il cavallo crocefisso dondola la testa qua e là, e nitrisce
dolcemente. La folla piange in silenzio. Il sacrificio del Cristo-cavallo, la tragedia
di quel Golgota bestiale: vorrei che mi aiutaste a chiarire il senso di questo sogno.
La morte del Cristo-cavallo non potrebbe rappresentare la morte di tutto quello che
v’è di più puro nell’uomo? Non vi pare che questo sogno si riferisca alla guerra?
[...] Muore tutto ciò che l’Europa ha di nobile, di gentile, di puro. La nostra patria è
il cavallo. Voi capite quel che voglio dire. La nostra patria muore, la nostra antica
patria. E tutte quelle immagini ossessionanti, quella continua ossessione dei nitriti,
dell’odore orrendo e triste dei cavalli morti, rovesciati sulle strade della guerra, non
vi parre che rispondano alle immagini della guerra, alla nostra voce, al nostro
odore, all’odore dell’Europa morta?335

La seconda parte, I topi, divisa in quattro capitoli, è invece la rappresentazione di


un banchetto dei vincitori, dove il piatto servito è un animale immolato, un piatto
miracoloso, quasi un corpo di Cristo redentore. Malaparte prova un sentimento di pietà
per il cinghiale e per l'oca che troneggiano al centro della tavola:

Sopra un vassoio d’argento entrò l’oca arrosto, rovesciata sul dorso in una
ghirlanda di patate rosolate nel grasso. Era una rotonda e adiposa oca polacca, dal
seno florido, dai fianchi pieni, dal collo muscoloso; e non so perché, pensai che
non fosse stata sgozzata con un coltello, nel buon modo antico, ma fosse stata
fucilata contro un muri da un plotone di SS. Mi pareva di udire la secca voce di
comando, «Feuer!», e l’improvviso crepito della scarica dei fucili. L’oca era certo
caduta a fronte alta, guardando in faccia i crudeli oppressori della Polonia.
«Feuer!» gridai con voce forte, come per rendermi conto di quel che significasse
quel grido [...]. E tutti si misero a ridere [...]. «Feuer!» gridò a sua volta Frank, e
tutti si misero a ridere più forte [...]. Allora anch’io mi misi a ridere, e un sottile
sentimento di vergogna m’invadeva a poco a poco, provavo una specie di pudore

333
Ivi, p. 61.
334
G. Panella, L'estetica dello choc, cit., p. 50.
335
C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 71-72.

107
offeso, mi sentivo «dalla parte dell’oca»336.

Il crimine brutale commesso contro l'oca in questo incubo ad occhi aperti spinge
Malaparte a schierarsi dalla sua parte, e poiché la spaventosa esecuzione sembra
anticipare l'episodio finale di questa sezione, dove «topi» sono chiamati i bambini ebrei
uccisi, come in un gioco, quando cercano di fuggire dal ghetto passando attraverso delle
buche scavate sottoterra, possiamo affermare che con questa presa di posizione lo
scrittore dichiari fuor di metafora di schierarsi dalla parte di quell'umanità
«animalizzata» e quindi innocente. La poetica «animalista», già individuata in alcuni dei
racconti degli anni Trenta, si ritrova espressa qui in tutta la sua chiarezza.
I tre capitoli successivi di questa seconda parte sono fondati sulle conversazioni
che avvengono durante il convivio. Malaparte intrattiene i suoi convitati parlando delle
folle «cenciose e spaurite»337 degli ebrei del ghetto di Varsavia, abituati a vivere
appiccicati per riscaldarsi «come fan le bestie»338, in un silenzio dove si sente soltanto il
loro respiro ansimante «di bestie già rassegnate a morire»339; poi raccontando la tragica
storia del pogrom di Iaşi del 28 e 29 giugno del 1941 e tutti gli orrori che vi sono legati.
In opposizione a queste immagini di sofferenza e di povertà si ergono le figure dei
convitati, caricature di uomini bestiali340, che rivendicano con cinismo l'assassinio del
daino che stanno mangiando341 e che si rallegrano del banchetto giudicando la realtà con
la loro logica perversa:

«Noi tedeschi seguiamo in ogni cosa la ragione e il metodo, non i bestiali istinti: in
tutto, noi operiamo scientificamente. Quando è necessario, ma soltanto quando è
strettamente necessario [...], noi imitiamo l’arte del chirurgo, non mai quella del
macellaio. Avete forse visto [...] un massacro di ebrei nelle strade delle città
germaniche? No, vero? Tutta’al più qualche dimostrazione di studenti, qualche
innocente chiassata di ragazzi. Eppure, fra qualche tempo, in Germania, non vi sarà

336
Ivi, p. 86.
337
Ivi, p. 104.
338
Ivi, p. 106.
339
Ibidem.
340
Qualcuno in modo esplicito: «Sebbene il cranio fosse modellato rozzamente, con forza, e le ossa della
fronte apparissero salde, ben connesse, e durissime, tuttavia sembrava che dovesse cedere al contatto con
le dita, come il cranio di un bambino appena nato: pareva il teschio di un agnello. E simili a quelli
dell’agnello aveva gli zigomi stretti, il viso lungo, gli occhi obliqui, qualcosa di bestiale e d’infantile
insieme»; «Egli usciva dal fondo della sua solitudine come un pesce dalla sua tana. Nuotava verso me
guardandomi fisso» (ivi, p. 91).
341
«Il governatore Fischer raccontava di come egli stesso avesse ucciso il daino con una palla in mezzo
agli occhi, e Frau Fischer disse con un sospiro: "So ist das Leben, così è la vita"» (ivi, p.103).

108
più un solo ebreo».342

Ci sembra che la presenza animale, di cui le opere degli anni Trenta sono
costellate, acquisti in Kaputt un'importanza fondamentale poiché Malaparte ne
estremizza, nel quadro della guerra, il ruolo di emblema. Dall'analisi di queste prime
due parti di Kaputt risulta che le bestie sono uno dei nodi fondamentali del tessuto
narrativo non solo in quanto simboli allegorici, ma anche in quanto figure aggreganti sul
piano formale: è proprio unendo tutte le storie che si accumulano intorno a loro che il
narratore riesce a dipingere un tragico mosaico della realtà contemporanea343.
Proprio il ruolo del narratore, in quanto protagonista della Storia, è un altro degli
elementi che rimanda direttamente alla forma del racconto. Come nelle prose degli anni
Trenta, infatti, anche in quest'opera Malaparte tende, più che a vivere la storia, ad
osservarla, come la pellicola di un film che si srotola davanti ai suoi occhi, rimanendone
spettatore esterno. Egli trascorre il proprio tempo a snocciolare aneddoti durante i
banchetti a cui partecipa o a riportare dialoghi avvenuti nelle scene che ha visto: la
dimensione di oralità nella quale il romanzo è calato rimanda alla tradizione e all'origine
del racconto, forma base di ogni narrazione. La particolare posizione che l'autore
assume deriva proprio dal suo ruolo privilegiato di rapsodo, ed è la stessa che occupava
fin dai racconti dell'infanzia. Il distacco e il disimpegno dell'autore dal materiale
narrativo, a differenza di quanto scritto da Serra, non sono improvvisi: Malaparte
rappresentava già «la “spalla” nella tradizione dei saltimbanchi e del varietà, che porge
la battuta o la replica al protagonista»344. Secondo lo studioso, ciò sarebbe possibile
«solo a partire da un'ammissione d'impotenza, da una perdita di virilità»345: a noi
sembra piuttosto che, molto più semplicemente, Malaparte metta la narrazione davanti a
ogni cosa. Rendendosi spalla, egli non toglie nulla a se stesso e al proprio ruolo: quello

342
Ivi, p. 158.
343
Gettando inoltre uno sguardo alle ultime quattro parti, anch'esse eterogenee, possiamo renderci conto
che alla base vi è un identico processo. Per esempio, nel primo capitolo dei Cani, vi è solo un riferimento
a un paio di guanti in pelle di cane, mentre nel secondo Malaparte racconta una storia di cui i cani sono i
protagonisti, ma nella terza l'animale scompare: è quando sente un latrato alla fine del capitolo che gli
viene in mente un'altra storia canina, raccontata nell'ultimo. La quarta parte, Gli uccelli, è disseminata di
storie che parlano di aviatori, passeri o farfalle, mentre nelle Renne Malaparte descrive degli scenari
apocalittici in cui questi animali simboleggiano la fierezza e la rassegnazione delle vittime innocenti che
accettano il proprio sacrificio. L'ultima parte, invece, Le Mosche, presenta l'uomo alle prese con degli
sciami di quest'ignobili insetti: di questa guerra, l'eterna vittoria delle mosche è emblematica.
344
M. Serra, Malaparte, cit., p. 355.
345
Ibidem.

109
che conta è essere stato presente nel posto giusto al momento giusto, per poter narrare in
seguito le proprie avventure. Se pensiamo alla Maddalena di Carlsbourg, il primo dei
racconti delle quattro raccolte, risalente a sedici anni prima, notiamo che Malaparte
aveva già ammesso la propria impotenza, raccontando il proprio tentativo, fallito, di
salvare una povera innocente. Certo, là era avvenuto almeno un affannoso tentativo, ma
il risultato non cambia: Malaparte non può salvare nessuno. In fondo, quello che
contava non era tanto la sorte della bambina, quanto dimostrare, la propria presenza in
quello specifico contesto e stupire il lettore con un'agghiacciante storia di follia umana
che, se avesse avuto un lieto fine, probabilmente avrebbe perso parte del suo valore. Più
importante del fatto narrato risulta, infatti, la narrazione stessa, che dev'essere prima di
tutto accattivante e impressionante. Conta poco ora, come contava poco all'epoca del
racconto, se il fatto narrato nasca dalla fantasia o dalla memoria: trasfigurare la realtà è
lecito fintanto che si riesca a preservarne il profondo significato.
Romanzo, cronaca, allegoria: qualunque sia il termine che meglio può definire
Kaputt, ci sembra che risulti anch'esso, alla fine dei conti, un'opera dalla forma ibrida
nella quale il racconto svolge una funzione disgregante fondamentale, e dove la
medesima scrittura malapartiana che abbiamo trovato nelle prove degli anni Trenta
emerge esaltata da una concisione e un'«economia espressiva»346 senza precedenti.
Alcuni elementi, di cui le opere degli anni Trenta sono impregnate come l'estetica dello
choc, la crudeltà e la dimensione magica, vengono qui accentuati diventando mezzi
espressivi ancora più potenti. Kaputt ci sembra rappresentare, in sostanza, la naturale
prosecuzione della forma del racconto, e non ci sembra dunque di secondaria
importanza ribadire che l'esperienza della prosa breve rappresenta un passaggio
fondamentale verso la definitiva maturazione dello scrittore.

346
Ivi, p. 337.

110
Appendici
A. Cronologia dei racconti e degli articoli di Curzio Malaparte
apparsi sulla terza pagina della «Stampa» e del «Corriere della
Sera» tra il 1928 e il 1940

LUOGO E DATA DELLA PRIMA


TITOLO DEL
PRIMA APPARIZIONE PUBBLICAZIONE
RACCONTO
SU UN QUOTIDIANO IN RACCOLTA
La Maddalena di «La Stampa», Sodoma e
Carlsbourg 24 gennaio 1928 Gomorra, 1931

Il martellatore della vecchia «La Stampa», Sodoma e


Inghilterra 23 febbraio 1928 Gomorra, 1931

«La Stampa», Sodoma e


1928 Il sabba strapaesano
16 marzo 1928 Gomorra, 1931

«La Stampa», Sodoma e


Il moro di Comacchio
14 aprile 1928 Gomorra, 1931

«La Stampa», Sodoma e


Donna + rosso e nero
12 settembre 1928 Gomorra, 1931

«La Stampa», Sodoma e


Donna rossa
12 gennaio 1930 Gomorra, 1931
1930 Sodoma e
Viaggio in Palestina (Le
«La Stampa», Gomorra, 1931 (col
trombe di Gerico; La statua
26-28 ottobre 1930 titolo Sodoma e
di sale)
Gomorra)
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Ipocrisia di Lawrence Paradiso,
3 dicembre 1932
1960
«Corriere della Sera»,
Decadenza del «Goncourt» -
17 dicembre 1932
1932
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Nascita di un fiume
24 dicembre 1932 1936

Tra i piemontesi della «Corriere della Sera»,


-
Foresta Nera 31 dicembre 1932

111
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Miniera
13 gennaio 1933 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Sotto i ponti del Tamigi
22 gennaio 1933 1936
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Edoardo VII e il suo tempo Paradiso,
30 gennaio 1933
1960
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Guicciardini e i francesi Paradiso,
15 febbraio 1933
1960
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Eschilo in Cambridge Paradiso,
21 marzo 1933
1960
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Gli angeli di Oxford Paradiso,
28 marzo 1933
1960
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Cambridge contro Oxford Paradiso,
8 aprile 1933
1960
«Corriere della Sera»,
Albione diventa un'isola -
1933 18 aprile 1933

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Toscana immaginaria
23 maggio 1933 1936
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Minerva in bicicletta Paradiso,
1 giugno 1933
1960
Fughe in prigione,
La Scozia a occhio nudo – «Corriere della Sera», 1936
uomini in gonnella 10 giugno 1933 (col titolo Uomini
in gonnella)
L'inglese in
«Corriere della Sera»,
Un popolo che emigra Paradiso,
18 giugno 1933
1960
Fughe in prigione,
La Scozia a occhio nudo – «Corriere della Sera», 1936
alte terre deserte 30 giugno 1933 (col titolo Alte terre
deserte)
Fughe in prigione,
La Scozia a occhio nudo – i «Corriere della Sera»,
1936
cervi e il latino 14 luglio 1933
(colo titolo I cervi)
Un sobborgo di Roma in «Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Francia; Romanità in 27 luglio, 4-12-20-25 1936 (col titolo
Provenza. «Albergo Giulio agosto 1933 Hotel Jules César)

112
Cesare»; Vive e sgargianti
oleografie popolari. Giulio
Cesare, eroe provenzale;
Sulle orme delle legioni. I
piccoli “fanti” di Giulio
Cesare; Città e paesi di
Provenza. Da Tartarino ai
Campi Elisi
L'Inglese in
Gli inglesi a occhio nudo - «Corriere della Sera»,
Paradiso,
Cesare in Albione 24 settembre 1933
1960
Gli inglesi a occhio nudo - «Corriere della Sera»,
-
Non angeli ma pesci 1 ottobre 1933 verificare

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Ulisse in piazza
27 luglio 1934 1969

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Donna in riva al mare
12 agosto 1934 1936

«Corriere della Sera»,


Goethe in Olimpo -
25 agosto 1934

«Corriere della Sera»,


L'isola di Adamo ed Eva -
31 agosto 1934

«Corriere della Sera»,


La macchina infernale -
18 settembre 1934

«Corriere della Sera»,


1934 Scirocco nell’isola Sangue, 1937
27 settembre 1934

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Il porto
5 ottobre 1934 1936

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Paese antico
9 ottobre 1934 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


La murena
19 ottobre 1934 1969

«Corriere della Sera»,


Finestra sugli inglesi -
26 ottobre 1934
«Corriere della Sera», L'Inglese in
Una notizia nel Times 8 novembre 1934 Paradiso,
1960

113
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Fine di una lunga giornata
11 novembre 1934 1936

La spiaggia di Boeklin e «Corriere della Sera», L'albero vivo,


D'Annunzio 18 novembre 1934 1969

L'isola di pietra «Corriere della Sera», L'albero vivo,


galleggiante 23 novembre 1934 1969

«Corriere della Sera»,


Crisi del romanzo francese -
30 novembre 1934

«Corriere della Sera»,


Il Dio del Dottor Arnold -
11 dicembre 1934

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Sera nell’Alta Scozia
16 dicembre 1934 1936

«Corriere della Sera»,


L'Inglese in poltrona -
23 dicembre 1934
L'Inglese in
Charles Lamb dopo «Corriere della Sera»,
Paradiso,
cent'anni 1 gennaio 1935
1960
Le belle maniere degli «Corriere della Sera»,
-
Inglesi 15 gennaio 1935

«Corriere della Sera»,


Albione e il dito di Dio -
8 febbraio 1935
L'Inglese in
Centocinquant'anni di vita «Corriere della Sera»,
Paradiso,
inglese 15 febbraio 1935
1960
1935
«Corriere della Sera»,
Gli Scapoli di Montherlant -
14 febbraio 1935

«Corriere della Sera»,


Panorama con musica -
28 febbraio 1935

«Corriere della Sera»,


Destino di John Dos Passos -
12 marzo 1935

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Il pianto del mare
16 marzo 1935 1969

114
«Corriere della Sera», L'albero vivo,
Cavalli in riva al mare
24 marzo 1935 1969

«Corriere della Sera»,


Parnaso inaccessibile -
31 marzo 1935

«Corriere della Sera»,


L'Inghilterra dell'Olandese -
16 aprile 1935
Fughe in prigione,
«Corriere della Sera», 1936 (col titolo La
Il giardino perduto
23 aprile 1935 morte e il bambino.
Il giardino perduto)
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Ode alla Sibilla Cumana
1 maggio 1935 1936

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Il gallo sacro
8 maggio 1935 1969

«Corriere della Sera»,


Un sogno infernale -
25 maggio 1935

«Corriere della Sera»,


L'esempio di Panait Istrati -
26 maggio 1935

«Corriere della Sera»,


Ritratti d'angeli -
2 giugno 1935

Testimonianza di Bino «Corriere della Sera»,


-
Binazzi 14 giugno1935

Un centauro alla camera «Corriere della Sera»,


-
dei Lords 26 giugno1935

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


I pastori
14 giugno1935 1969

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Morte di Ettore
12 luglio 1935 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Milziade
24 luglio 1935 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


La dolce ira funesta
4 agosto 1935 1936

115
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Preghiera per una donna
3 settembre 1935 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


La mamma in clinica
21 settembre 1935 1936
L'Inglese in
«Corriere della Sera»,
I Diecimila Paradiso,
5 ottobre 1935
1960
L'Inglese in
«Corriere della Sera»,
L'accento di Oxford Paradiso,
9 ottobre 1935
1960
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Le due sorelle
18 ottobre 1935 1936

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Alessandro in macelleria
2 novembre 1935 1969
Fughe in prigione,
«Corriere della Sera», 1936 (col titolo
La valle dei morti
12 novembre 1935 Donna fra le
tombe)
«Corriere della Sera», Fughe in prigione,
Scoperta dell’America
26 novembre 1935 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Oggi si vola
3 dicembre 1935 1936

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Petrarca in camicia rossa
21 dicembre 1935 1936

«Corriere della Sera»,


Fortuna di Senofonte -
5 gennaio 1936
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Abissini in Arezzo altri scritti africani,
12 gennaio 1936
2006
«Corriere della Sera», L'albero vivo,
1936 Ritorno alle armi
6 febbraio 1936 1969

Manovre con la Ninfa «Corriere della Sera», L'albero vivo,


Egeria 14 febbraio 1936 1969

«Corriere della Sera», Fughe in prigione,


Visita dell’angelo
23 febbraio 1936 1936

116
Il dorato sole dell'inferno «Corriere della Sera», L'albero vivo,
etrusco 12 marzo 1936 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Gita ad Ansedonia
22 marzo 1936 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Apollo toscano
31 marzo 1936 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Morte di Mezenzio
9 aprile 1936 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Il segreto di Annibale
23 aprile 1936 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Primo saluto ad Annibale
3 maggio 1936 1969

«Corriere della Sera»,


Temporale a Pesto -
27 maggio 1936

«Corriere della Sera»,


Giugno malato Sangue, 1937
26 giugno 1936

«Corriere della Sera»,


Salutami Livorno Sangue, 1937
4 luglio 1936

«Corriere della Sera»,


Il medico ammalato -
6 luglio 1936
Sangue, 1937 (col
«Corriere della Sera»,
Il sangue titolo Primo
23 luglio 1936
sangue)
«Corriere della Sera»,
Primo amore Sangue, 1937
11 settembre 1936

«Corriere della Sera»,


Fedra Sangue, 1937
18 ottobre 1936

«Corriere della Sera»,


Risveglio in riva al fiume -
31 ottobre 1936

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Il bambino morto
9 novembre 1936 1969

117
«Corriere della Sera», L'albero vivo,
Paesaggio del Lazio
15 novembre1936 1969

«Corriere della Sera»,


A Firenze si fa così -
22 novembre 1936

«Corriere della Sera»,


Toscano veri -
27 novembre 1936

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Immoralità di Plutarco
2 dicembre 1936 1969

«Corriere della Sera»,


I ladri di polli -
13 dicembre 1936

«Corriere della Sera»,


Angoscia di ragazzo Sangue, 1937
29 dicembre 1936

«Corriere della Sera»,


Il vento dei Toscani -
16 gennaio 1937

«Corriere della Sera»,


Carattere degli Italiani -
31 gennaio 1937
Sangue, 1937;
«Corriere della Sera»,
Città come me Donna come me,
14 febbraio 1937
1940
«Corriere della Sera»,
Notturno -
20 febbraio 1937

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


1937 Battaglia a picco su Roma
28 febbraio 1937 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Carattere dei Romani
16 aprile 1937 1969

«Corriere della Sera»,


Loreto -
16 aprile 1937

«Corriere della Sera»,


Giochi davanti all’inferno Sangue, 1937
28 aprile 1937

«Corriere della Sera»,


Un giorno felice Sangue, 1937
4 maggio 1937

118
«Corriere della Sera», Donna come me,
Donna come me
28 luglio 1937 1940
Donna come me,
«Corriere della Sera»,
Quasi un sogno a Pompei 1940 (col titolo
15 agosto 1937
Quasi un delitto)
«Corriere della Sera»,
Aria di Ciociaria -
8 settembre 1937

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Cinemà
30 settembre 1937 1969

«Corriere della Sera»,


Il surrealismo e l'Italia -
11 ottobre 1937

«Corriere della Sera»,


Calagrande all'Argentaro -
19 ottobre 1937

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Grammatica di Roma
7 novembre 1937 1969
Donna come me,
«Corriere della Sera»,
Un santo toscano 1940 (col titolo Un
14 novembre 1937
santo come me)
«Corriere della Sera», Donna come me,
La città incantata
19 novembre 1937 1940

Carosello repubblicano «Corriere della Sera»,


-
intorno a un Re 23 dicembre 1937

«Corriere della Sera»,


Cielo e terra -
8 gennaio 1938
Donna come me,
«Corriere della Sera», 1940 (col titolo
La bicicletta
29 gennaio 1938 Paesaggio con
bicicletta)
1938 «Corriere della Sera»,
Oh le belle livornesi -
26 febbraio 1938

«Corriere della Sera»,


Giovanni un par di schiaffi -
12 marzo 1938

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


Scrittori in salita
16 marzo 1938 1969

119
«Corriere della Sera», L'albero vivo.
Con Gregorovius a Littoria
28 marzo 1938 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


Axel Munthe e gli uccelli
27aprile 1938 1969

«Corriere della Sera»,


Il Cerbacone -
31 maggio 1938

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


La strada fra le botti
5 giugno 1938 1969

«Corriere della Sera»,


La «Venezia» di Livorno -
10 giugno 1938

«Corriere della Sera»,


La donna italiana -
17 giugno 1938

«Corriere della Sera»,


Umbria matta -
3 luglio 1938

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


Ricchi e poveri
9 luglio 1938 1969

Vent'anni dopo - Gli Italiani «Corriere della Sera»,


-
a Bligny 15 luglio 1938

«Corriere della Sera»,


Pellico e il Duca di Milano -
9 luglio 1938

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


Il muro di Baudelaire
10 agosto 1938 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo.


Bottiglia dietro l'albero
23 agosto 1938 1969

«Corriere della Sera», Donna come me,


Giorno come me
11 settembre 1938 1940
Donna come me,
«Corriere della Sera»,
Carne di terra 1940 (col titolo
29 settembre 1938
Terra come me)
«Corriere della Sera», Donna come me,
L’albero vivo
11 ottobre 1938 1940

120
«Corriere della Sera», Donna come me,
Goethe e mio padre
16 ottobre 1938 1940

«Corriere della Sera», Donna come me,


Cane come me
1 novembre 1938 1940

«Corriere della Sera», Donna come me,


Tramonto sul lago
12 novembre 1938 1940
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
L'Africa non è nera altri scritti africani,
4 maggio 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Città d'Impero bianco altri scritti africani,
13 maggio 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
La terra degli uomini rossi altri scritti africani,
31 maggio 1939
2006
Motivazione greca di «Corriere della Sera»,
-
guerra 4 giugno 1939
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Il Cristo di Axum altri scritti africani,
6 giugno 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Le Dolomiti d'Etiopia altri scritti africani,
29 giugno 1939
2006
1939
Viaggio in Etiopia e
Alle frontiere della «Corriere della Sera»,
altri scritti africani,
tradizione bianca 26 luglio 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Nella Romagna d'Etiopia altri scritti africani,
1 agosto 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
La notte di Bahar Dar altri scritti africani,
20 agosto 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Il treno nero altri scritti africani,
27 agosto 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Allegria a Ghembevà altri scritti africani,
14 settembre 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
Passaggio di armati per le «Corriere della Sera»,
altri scritti africani,
alte terre dell'Uoranà 19 ottobre 1939
2006

121
Viaggio in Etiopia e
L'assalto al bastione dei «Corriere della Sera»,
altri scritti africani,
briganti 28 ottobre 1939
2006
Viaggio in Etiopia e
«Corriere della Sera»,
Nelle gole del Beresà altri scritti africani,
7 novembre 1939
2006
«Corriere della Sera», Donna come me,
Il mare ferito
30 gennaio 1940 1940

«Corriere della Sera»,


Il corpo di Napoli -
21 marzo 1940

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Città di pane
26 aprile 1940 1969

La battaglia sul monte «Corriere della Sera»,


-
bianco 7 luglio 1940

Colpi di bombe in mezzo «Corriere della Sera»,


-
alla tormenta 9 luglio 1940

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


L'accampamento
5 settembre 1940 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


1940 La notte è una bestia
29 settembre1940 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Calligrammi
11 ottobre 1940 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Preghiera sull'Acropoli
18 ottobre 1940 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Calligrammi
25 ottobre1940 1969

La sveglia a Metaxas e agli «Corriere della Sera»,


-
inglesi in Atene 20 ottobre 1940

«Corriere della Sera»,


Odio greco contro l'Italia -
28 ottobre 1940

L'ipocrita maschera della «Corriere della Sera»,


-
neutralità greca 29 ottobre 1940

122
«Corriere della Sera»,
Una guerra liberatrice -
31 ottobre 1940
Civiltà e miseria della
«Corriere della Sera»,
Grecia nei quattro anni del -
1 novembre 1940
malgoverno di Metaxas
Metaxas contro la civiltà
«Corriere della Sera»,
«Echia»: virtù e miseria -
8 novembre 1940
della Grecia
«Corriere della Sera», L'albero vivo,
Edipo aveva ragione
9 novembre 1940 1969

«Corriere della Sera», L'albero vivo,


Senso della Grecia
15 novembre 1940 1969

Le frodi bizantine di «Corriere della Sera»,


-
Metaxas 28 novembre 1940

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B. Riproduzioni dei cinque articoli pubblicati sulla «Stampa»
nel 1928

124
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Bibliografia
Opere di Curzio Malaparte citate nella tesi
Sodoma e Gomorra, Milano, Treves, 1931; poi Roma, Lucarini, 1991.

Fughe in prigione, Firenze, Vallecchi, 1936.

Sangue [1937], Firenze, Vallecchi, 1995.

Donna come me [1940], Milano, Mondadori, 1958.

Maledetti Toscani, Firenze, Vallecchi, 1956.

Racconti Italiani, Firenze, Vallecchi, 1957.

L’inglese in Paradiso, Firenze, Vallecchi, 1960.

L'albero vivo e altre prose, Firenze, Vallecchi, 1969.

Il ballo al Cremlino e altri inediti di romanzo, Firenze, Vallecchi 1971.

Malaparte, vol. I (1905-1926), a cura di Edda Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle
Grazie,1991.

Malaparte, vol. II (1927-1931), a cura di Edda Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle
Grazie, 1992.

Malaparte, vol. III (1932-1936), a cura di Edda Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle
Grazie, 1992.

Malaparte, vol. IV (1937-1939), a cura di Edda Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle
Grazie, 1992.

Malaparte, vol. V (1940-1941), a cura di Edda Ronchi Suckert, Firenze, Ponte alle
Grazie, 1993.

Documenti inediti
Fascicolo Curzio Malaparte 661c (1926-1936), conservato all'Archivio storico della
Fondazione Corriere della Sera.

Fascicolo Curzio Malaparte 662c, (1937-1941), conservato all'Archivio storico della


Fondazione Corriere della Sera.

129
Studi su Curzio Malaparte
Gianni Grana, Malaparte, Firenze, Il Castoro, 1968.

Giordano Bruno Guerri, L’arcitaliano. Vita di Curzio Malparte [1980], Milano,


Bompiani, 2008.

Il meglio dei racconti di Malaparte, a cura di Luigi Martellini, Milano, Mondadori,


1982.

Luigi Martellini, Malaparte narratore, in Id., Nel labirinto delle scritture, Roma,
Salerno, 1996, pp. 113-169.

Giuseppe Pardini, Biografia politica, Milano, Luni, 1998.

Luigi Martellini, Introduzione, in Curzio Malaparte. Opere scelte, a cura di Luigi


Martellini, Milano, Mondadori, 2003.

Emmanuel Mattiato, Des reportages de guerre à Kaputt : jalons pour une étude des
confluences, in Id., Les écrivains-journalistes du Corriere della Sera durant la
Seconde Guerre mondiale : Curzio Malaparte, Dino Buzzati, Orio Vergani, Virgilio
Lilli et Indro Montanelli, Tesi di Dottorato, Université Paris X - Nanterre, 2003

Luigi Martellini, I "Racconti di Curzio Malaparte, tra realismo e surrealismo, in "Italia


magica". Letteratura fantastica e surreale dell'Ottocento e del Novecento, Atti
dell'VIII Congresso Mod, Cagliari, AM&D, 2008.

Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende [2011], Marsilio, Venezia, 2012.

Luigi Martellini, Le "Prospettive" di Malaparte, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,


2014.

Giuseppe Panella, L'estetica dello choc. La scrittura di Curzio Malaparte tra


esperimenti narrativi e poesia, Firenze, Clinamen, 2014.

Bibliografia generale
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Boris Ejchenbaum, Teoria della prosa [1925], in I formalisti russi, a cura di Tzvetan
Todorov, Einaudi, 2003.

Enrico Falqui, Tra romanzi e racconti del Novecento, Messina-Firenze, D’Anna, 1950.

Valerio Volpini, Prosa e narrativa dei contemporanei, Roma, Studium, 1957.

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György Lukács, Teoria del romanzo, Milano, Sugar, 1962.

Enrico Falqui, Capitoli. Per una storia della nostra prosa d’arte del Novecento.
Antologia [1938], Milano, Mursia, 1964.

György Lukács [1964], Šolženitsyn: «Una giornata particolare di Ivan Denisovič», in


Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1968, pp. 187-209.

Vincenzo Castronovo, Nicola Tranfaglia, La stampa italiana nell'età fascista, Roma-


Bari, Laterza, 1980.

Maria Emanuela Raffi, André Breton e il surrealismo nella cultura italiana (1925-
1950), Padova, CLEUP, 1986.

Marziano Guglielminetti, Sulla novella italiana. Genesi e generi, Lecce, Milella, 1990.

Claude Maillard-Chary, Le bestiaire des surréalistes, Paris, Presses de la Sorbonne


Nouvelle, 1994.

Luigina Morini, Introduzione, in I bestiari medievali, a cura di Ead., Torino, Einaudi,


1996, pp. I-XXX.

Fabio Gambaro, Surrealismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1996.

Guido Guglielmi, Le forme del racconto, in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra
romanzo e racconto, Torino, Einaudi 1998, pp. 3-21.

Romano Luperini, Il trauma e il caso, in Id., L'autocoscienza del moderno, Napoli,


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Sergio Zatti, La novella: un genere senza teoria, in «Moderna», anno XII, n. 2, 2010.

Arrigo Stara, «Una imperfezione perfetta». Il racconto italiano nell'età della short story,
in «Moderna», anno XII, n. 2, 2010.

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