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Duane Michals: tutti i fotografi mentono continuamente

Duane, hai iniziato a fotografare negli anni in cui Robert Frank documentava
l’America, Richard Avedon faceva rigorosi ritratti in studio e tutto il mondo celebrava
l’istante decisivo di Cartier-Bresson. Come sono entrate in tutto questo le tue
sequenze fotografiche?
A metà degli anni ’60, il paradigma della fotografia era esattamente quello che tu hai
descritto. Potevi essere Robert Frank, Cartier-Bresson, Ansel Adams, ma il fotografo era
essenzialmente qualcuno che fotografava la realtà. Non ho mai frequentato una scuola di
fotografia, e non sono nemmeno mai stato un fotografo amatoriale, così quando sono
diventato un fotografo non ero interessato a diventare un altro Robert Frank, anche se
pensavo che lui fosse un genio. Sono sempre stato interessato alla lettura, al racconto
delle storie, e ho capito che c’era una differenza sostanziale tra fare il reporter per un
giornale e scrivere un romanzo. Il giornalista deve documentare i fatti, mentre il mio caso
è simile a quello di uno scrittore che inventa storie, non che riporta storie.
Nella tua mostra in Italia, al SI Fest di Savignano, c’è una fotografia che sintetizza ciò
che da sempre i fotografi tentano di spiegare in centinaia di scritti, conferenze,
interviste. Il titolo della fotografia è “Self portrait as someone else” e compaiono due
persone, tu che fotografi e il soggetto. Insomma, ogni ritratto è il ritratto di se stessi
e, d’altra parte, un autoritratto può realizzarsi tramite un’altra persona.
Ho fatto quella fotografia molti anni fa. Sono sempre stato affascinato dalla ricerca
dell’identità, non tanto per quanto riguarda la superficie come poteva essere per Cindy
Sherman attraverso i vestiti, ma in un senso più psicologico per capire chi siamo come
uomini, come donne. Ci sono molte possibilità per presentare la mia persona, ed una di
queste è attraverso un’altra persona. È molto complicato spiegare questa relazione.
Hai sempre ragionato sul ritratto. Dopo tutti questi anni, sei arrivato ad una
conclusione o il tuo pensiero è sempre in evoluzione?
Ho scritto molto sul ritratto. Ho sempre avuto problemi con quello tradizionale e non
capisco perché le persone, per realizzare un ritratto, devono documentare il volto. Ci
sono due tipi di ritratti: lo “stand portrait”, in cui il soggetto guarda in macchina e viene
documentato il suo volto, e il “prose portrait”, in cui non è necessario fare una scansione
del viso, e questo ritratto ti racconta la storia delle persona che stai fotografando.
Magritte realizzava dei “prose portraits”, perché niente era rappresentato come appariva,
ma ognuno di noi riusciva ad entrare in ciò che questi soggetti facevano, nella loro
natura.
Un ritratto nasce sempre dal volto?
No. Per il New York Times ho fatto un auto ritratto in cui ero di spalle, veniva inquadrata
la mia testa mentre leggevo un libro, e nel libro stavo scrivendo “I think about thinking”. Il
punto è che io passo gran parte del tempo a leggere e a pensare a ciò che sto leggendo,
e questo è più realistico di un auto ritratto che mostra la grandezza del mio naso o il
colore dei miei occhi. A chi importa quale è il mio aspetto? Importa di più sapere come
funziona la mia mente e dove arriva la mia immaginazione.
C’è voluto molto coraggio per passare dagli incarichi per le aziende, dall’advertising,
ad una ricerca personale così profonda. Tra l’altro, in un periodo in cui non c’erano

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tutte queste gallerie che si occupavano di fotografia; la fotografia era estranea al
mercato dell’arte.
Esatto. Quando ho iniziato le mie ricerche, c’erano poche gallerie d’arte che si
occupavano di fotografia ed erano tutte underground. Io facevo advertising per Life e altri
magazine. Ho iniziato a fare cose che mi interessavano ed è stato molto interessante
portare la fotografia nelle gallerie perché in quel contesto, in quel mercato, la fotografia
era una forma d’arte più democratica.
Non hai mai smesso di fare lavori commerciali.
Assolutamente no, l’ho fatto ancora per molti anni. Io mi sono divertito molto a fare
advertising, non c’è mai stato un conflitto con i miei lavori privati. Ma non avevo uno
studio, non volevo trasformare la fotografia in un grande business, non ho mai voluto
lavorare come Richard Avedon, non ho mai voluto avere venti assistenti. Ho sempre
amato lavorare in piccoli ambienti, più intimi, non trasformare il mio mestiere in una
industria. Ed è così che ho fatto, giorno dopo giorno.
Non avevi uno studio e così hai portato i tuoi soggetti fuori, in strada. Molte scelte
stilistiche nascono da esigenze pratiche.
Mi ha sempre annoiato lavorare in studio, di fronte a fondali di carta. Ho sempre cercato
di trovare location e di pensare a come inserire il soggetto nell’ambiente circostante. È
sempre stata la mia sfida.
Hai bisogno di molto tempo per sintetizzare i tuoi pensieri, i tuoi ragionamenti, in
una fotografia?
No, è sempre stato molto istantaneo. Ho sempre scattato di istinto, ho un grande intuito
nel quale ho sempre avuto fiducia. Fare foto, per me, è sempre stato molto automatico.
Perché quando parliamo di fotografia il focus è sempre sulla “verità”?
Si spera che sia sulla “verità”. I fotografi di Donald Trump mentono continuamente, i
fotografi di moda mentono continuamente, tutti i fotografi mentono continuamente. Chi
fa fotografia di documentazione ha sempre un proprio punto di vista sul disastro che sta
fotografando. La verità è sempre il soggetto più importante, ma è il soggetto più difficile.
Aggiungi alle tue immagini i testi, la grafica, la pittura. Non riesci a sintetizzare con il
solo utilizzo della tecnica fotografica?
Dicevamo che i fotografi mentono sempre. La parola chiave del mio lavoro non è
“fotografia” ma “espressione”. Come posso esprimere me stesso, le mie idee? Posso
mostrarti la fotografia di una donna bellissima, ma come posso dirti se è una bugiarda, se
è una madre… che cosa può mostrarti il volto di qualcuno? Dove la fotografia non arriva,
devo scrivere, devo intervenire con altri mezzi.
Per molti fotografi è stato semplice definire se stessi tramite il proprio campo di
interesse, il proprio settore. Per te è più complesso, non riesci a definirti tramite ciò
che fai.
È complicato, perché io ho sempre cercato di esprimere il sentimento più che il fatto. Se
scatti fotografie di una manifestazione, ci saranno persone con le bandiere, altre che
sorridono, altre che avranno difficoltà a muoversi nella folla. Tutto questo puoi
documentarlo. Ma come puoi esprimere, per esempio, l’amore? O la tristezza? Se muore
qualcuno che ami, come lo rappresenti? Attraverso il pianto di chi resta o l’assenza? La
tristezza è pressoché impossibile da rappresentare e io ho sempre cercato i modi per
rappresentare questo tipo di sentimenti.

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Pensi di essere sempre stato compreso?
Il potere della fotografia è che rende le cose più semplici e accessibili. C’è una mia
fotografia in cui ci sono un uomo e una donna su un letto e sotto ho scritto “c’è stato un
tempo in cui eravamo vicini, in cui ci amavamo ancora”. Quando mostro questa
fotografia, tutti possono comprendere quanto queste persone siano state importanti l’uno
per l’altra, e che questa relazione è ormai finita. Io ho sempre sperato di rintracciare i
sentimenti più complessi e di renderli il più semplice possibile, su più livelli, non
solamente grafici, ma anche emozionali e psicologici.
Sei mai stato interessato a cambiare la nostra opinione del mondo?
No, non ho mai voluto cambiare nulla. Ho realizzato, specialmente ora che ho
ottantaquattro anni, che quello che ho sempre voluto fare è dire a voce alta “this is what I
felt, this is what I thought”. Questo è tutto.
Ho letto che sei orgoglioso di non avere mai studiato fotografia.
Oh certo! Gli insegnanti ti insegnano le regole, ti dicono: così si fanno le fotografie, questi
sono gli angoli, queste le linee, questo è il modo migliore di guardare. Altri ti insegnano
la storia della fotografia. Ma tu devi dimenticare chi è Robert Frank, devi dimenticare chi è
Diane Arbus, devi prima scoprire chi sei tu. E il modo migliore per scoprirlo è tuffarti in
acqua e imparare a nuotare.
New York e l’America continuano ad ispirarti?
Non sono mai stato uno di quei fotografi che sentono il bisogno di attraversare l’America
per trovare ispirazione. Ho fotografato New York una sola volta, era quasi deserta e mi ha
ispirato. Per quasi tutti i fotografi americani, fotografare l’America è stato un passaggio
obbligato, seguendo la strada di Robert Frank. Per me New York è stato il luogo della mia
ispirazione, non la fonte della mia ispirazione.
Ma da giovane ti sei spostato da Pittsburgh a New York perché non era possibile fare
arte in quella città industriale.
Sì, è vero. In ogni luogo, c’è una grande città in cui i talenti vanno per scoprire il mondo.
C’è stata Parigi, c’è stata Londra, c’è stata New York. Sono città in cui andare per
sviluppare la propria vita, per scoprire la propria poesia. Questo è il motivo per cui sono
andato a New York, perché a New York tutto era possibile, a Pittsburgh nulla era
possibile.
Oltre alla scelta di andare a New York, ci sono stati altri momenti chiave della tua
vita?
Ci sono state esperienze interessanti che sono state anche terribili. Sono stato due anni
nell’esercito durante la guerra di Corea, questa è stata l’esperienza peggiore. L’esperienza
migliore è stata andare in Russia quando avevo venticinque anni ed è stato durante quel
viaggio che ho scoperto la fotografia.
Oggi le tue sequenze fotografiche potrebbero essere ricreate con il computer, per
esempio. Sei interessato a questo argomento?
Certo. Non sono uno snob. Ho naturalmente sempre usato la pellicola ma da qualche
anno ho una fotocamera digitale, e amo questo mezzo. Rende tutto più semplice, più
immediato. Amo l’idea di creare con il computer.
Sei mai stato competitivo con qualcuno nel mondo?
In fotografia?
Sì, nel tuo mestiere.

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No, e ti spiego perché. Nessun altro fa quello che faccio io. Ho letto molti libri, ho
suonato varie melodie in modi sempre diversi. Ci sono molti ritrattisti, molti fotografi di
reportage, ma solo io appartengo alla mia categoria. Ovviamente, sono sempre stato
competitivo con me stesso, cerco risposte sempre migliori alle mie domande più private.

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Eva Rubinstein: ogni nostra manifestazione è un autoritratto

Secondo te, tutto ciò che compare in una foto sarebbe un’espressione – conscia o
inconscia – di chi fotografa.
Sì, inevitabilmente, se la foto è un lavoro personale, e non un incarico. Anni fa, quando
soffrivo di una depressione, un’amica mi ha regalato un libro che pensava che avrebbe
potuto aiutarmi: Gestalt Therapy Verbatim. L’autore, Frederick Perls, dirige dei seminari
sui sogni. Se un partipante racconta, per esempio, un sogno in cui s’è visto bambino, in
fuga davanti a qualcosa, Perls gli chiede: “e che t’ha fatto fuggire?”. Se quello risponde
“il buio”, Perls chiede: “E che ti dice il buio?” Ma l’essenziale dell’insegnamento di Perls
si manifesta nella domanda seguente: “E tu che gli rispondi, al buio?” E Perls poi spiega:
“Tu sai quello che il buio ti dice, perché il buio fa parte di te: ogni dettaglio del tuo sogno
fa parte di te, poiché sei tu che l’hai inventato.” Per le nostre foto è la stessa cosa, tutto
quello che vi compare parla di noi: il soggetto che ci ha attratto, l’angolazione cha
abbiamo scelta, l’inquadratura, la focale, le relazioni tra gli oggetti. Ogni nostra
manifestazione è un autoritratto – o il frammento d’un autoritratto. Quando uno studente
mi dice: “Vorrei imparare ad esprimermi”, io gli rispondo: “Mostrami piuttosto come
potresti non esprimerti, o esprimere altro che te stesso!”
Ma una foto non è come un quadro, in cui ogni dettaglio viene dalla mano del
pittore. Il negativo registra anche tutto quello che abbiamo lasciato passare,
intenzionalmente o no, magari solo per distrazione. I suoni di fondo come la musica.
Nulla di ciò che scegliamo è scelto a caso. Ci sono livelli di coscienza, in noi, che
percepiscono più di quanto crediamo percepire. Parlo “col mio occhio destro”,
beninteso.
Col tuo occhio destro?
Sì, parlo come qualcuno di cui l’occhio dominante è il destro – e dicendo “dominante”,
non voglio dire il più forte o il più sano. Una persona mancina direbbe il contrario,
direbbe per esempio che quello che conta è la struttura.
Ma perché l’occhio destro e l’occhio sinistro?
È un mistero che non è stato ancora chiarito. Ma si sa che la dominanza d’un occhio, il
destro o il sinistro, è un elemento importante della psiche, che non determina solo ciò
che vediamo, ma anche come lo vediamo e quali emozioni suscita in noi. Nel mio caso, è
l’occhio destro che domina: potrei fotografare con l’occhio destro anche a testa in giù,
tutto mi sembrerebbe al suo posto. Invece quando guardo nel mirino con l’occhio
sinistro, sento il bisogno di raddrizzare le verticali e di avere angoli a 90°. Quando
qualcuno mi parla della sua famiglia, o di politica, o di qualsiasi altro argomento, so
immediatamente qual’è il suo occhio dominante.
Quello che dici m’interessa per una ragione personale: io ho sempre fotografato con
l’occhio sinistro, fino a quando quest’occhio ha dovuto essere operato, prima di una
cataratta, poi di una complicazione più grave. I chirurghi sono riusciti a salvarlo, però
lui non ci vede più abbastanza per mettere a fuoco – e dunque devo utilizzare il
destro. Dapprima temevo che l’altro non avrebbe saputo vedere e comporre
altrettanto bene, ma in fin dei conti ci riesce, tanto che nessuno ha notato una
differenza tra le mie foto di prima e quelle di adesso.

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Questo può dipendere dall’intensità della dominanza. Ci sono persone ambidestre, che
sanno utilizzare l’una o con l’altra mano – tranne per scrivere.
Devo dire che spesso la questione mi preoccupa. A volte mi pare che l’occhio destro
mi trasmette ciò che vede nel mirino, ma con una carica emotiva meno intensa. Ma
sono sensazioni soggettive, non oserei trarne una conclusione.
È proprio quello che volevo dire: non è il tuo “vero” occhio destro. Io non conosco tutti i
dettagli della teoria, ma so che le implicazioni sono profonde. Anche mio figlio Alex –
come me – aveva l’occhio destro dominante, ed eravamo effettivamente sulla stessa
lunghezza d’onda, percepivamo le relazioni allo stesso modo, emozionalmente più che
coll’intelletto.
Eppure il mio caso proverebbe piuttosto il contrario. Io ho l’impressione che il mio
occhio destro è più sensibile alle strutture, e meno alle emozioni.
Forse perché vede attraverso la tua psiche d’origine: non “si sente” destro, non è più
connesso come lo era all’origine.
Sì, forse si è riconnesso da quando me ne servo di più, le connessioni si adattano. Ma
per tornare al nostro soggetto iniziale: io non sono affatto convinto che tutto ciò che
appare in ogni nostra foto sia un’espressione di quello che siamo. Fotografiamo tante
cose di cui non ci rendiamo conto!
È proprio quello che cerco di dire! Ma le notiamo a un certo livello del nostro inconscio.
Anni fa, ho esposto a New York una serie di foto che avevo intitolato “Flash-forward” –
l’opposto di flash-back. Le avevo scattate in periodi diversi – fino a quindici anni prima –
ma non le avevo mai scelte né stampate, come se, al momento dello scatto, non avessero
alcun nesso con quello che credevo vedere. Poi, all’improvviso, mi hanno colpito –
davvero come un pugno in faccia. Noi percepiamo molto più di quanto crediamo
percepire: solo quando ho permesso alla mia coscienza di raggiungere la mia intuizione,
queste foto sono diventate significative. Qualcosa di simile è successo a mio padre, verso
la fine della sua vita, quando aveva ormai perso la visione centrale e non poteva più
suonare. C’era una serie di registrazioni, fatte quindici o vent’anni prima, di cui aveva
sempre rifiutato la diffusione, perché non ne era del tutto soddisfatto. Le riascoltava ogni
tanto, ad anni d’intervallo, ma manteneva sempre il suo veto. Fino al giorno in cui,
improvvisamente, cambiò parere prima su una, poi su un’altra. Quando gliene chiesi il
motivo, mi spiegò che all’epoca il modo in cui “veniva fuori” non gli piaceva – ma che se
ora avesse potuto suonare quel pezzo, lo avrebbe suonato proprio così.
Anch’io ho esplorato dei vecchi provini per farci delle scoperte, ma con scarso
successo. Forse perché sono ostinato nei miei giudizi.
È il tuo occhio sinistro! Io invece scopro spesso, nelle mie foto, dettagli che non avevo
notato al momento dello scatto, e senza i quali la foto sarebbe meno interessante – o del
tutto priva di interesse. Come quella dell’orfanotrofio, con la monaca che ripara una
bambola. A destra c’è un paio di scarpe da bambino, messe a forma di croce, che non
avevo notato, ma senza le quali la foto non sarebbe la stessa. Un orfanotrofio e delle
scarpe vuote disposte a croce! Non avrei saputo immaginarlo! Ma son sicura che,
inconsciamente, le ho percepite. Non siamo noi che prendiamo le foto, sono loro che ci
prendono, a volte è come se un’immagine mi pigliasse per il collo e mi obbligasse a
reagire. Fare una foto è come ritrovare un pezzo di sé in una qualche parte nel mondo,
dei frammenti di sogno o di realtà che finiscono per costituire un autoritratto. Mi

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infastidisce un po’ quando parlano del mio lavoro come di una “creazione”, mi pare
piuttosto di interpretare una musica che è dappertutto, che è offerta a chiunque, ma che
la mia interpretazione rende personale. Come quando mio padre suonava Chopin. Ogni
fotografo ha un suo modo di isolare le cose, come se ponesse una firma sul proprio
sguardo.
Per me il soggetto principale della fotografia è il tempo. Una foto non è tanto una
descrizione di oggetti, di persone o di luoghi, quanto la percezione di un istante, che
è stato e che non tornerà mai più. Una foto che potrebbe essere rifatta non è una
buona foto. Mi ci fanno pensare le tue: ciascuna racconta un momento unico, anche
quando mostra solo una stanza quasi vuota, in cui avresti potuto tornare a qualsiasi
momento.
Non si torna mai indietro – ed a questo proposito ho da raccontarti una storia. Qualche
anno fa, durante un seminario, mi sono legata intensamente a qualcuno. Questa persona
è dovuta partire prima di me. Qualche minuto dopo la sua partenza ho fatto delle foto
nella stanza in cui eravamo stati insieme. Non avevo treppiede ed ho dovuto lavorare a un
quarto di secondo, a mano libera. E in più ero emozionata. Due giorni dopo, guardando i
provini, ho trovato che la foto non era molto nitida. Dunque sono tornata in quella stanza,
con un treppiede e con l’animo più calmo. Tutto era come la prima volta, l’ora, la luce, la
disposizione degli oggetti. La seconda foto è nitida – ma completamente sterile. Le ho
mostrate entrambe a diverse persone, senza dire nulla, e tutte hanno preferito la prima.
Senza dubbio perché la seconda non contiene emozione, nulla succede in me, al di fuori
della ricerca di una “buona” foto.
Sei sicura che la differenza non sia solo nella tua immaginazione?
È stata la reazione degli altri a farmi pensare a una differenza. E nessuno ha saputo
spiegarla, una sola persona ha notato la mancanza di nitidezza. Per me, questo prova che
l’impatto emotivo di una foto dipende dal “prezzo emotivo” che si paga. Potrei
raccontarti altre storie su questa foto, ma quella che preferisco è la seguente: la foto
faceva parte di una mostra personale, insieme ad altre 129. Alla fine della mostra, ho
voluto esprimere la mia gratitudine a due delle organizzatrici, proponendo loro di
scegliere ciascuna una stampa. Preciso che le mie foto non hanno titoli e che queste
donne ignoravano le circostanze in cui le avevo scattate. Una ha scelto la foto d’un letto
disfatto, l’altra – una persona molto intellettuale, professoressa universitaria – ha scelto
questa. Dovevo sembrarle sorpresa, perché ha aggiunto, come spiegazione: “Mi fa venir
voglia di fare l’amore.” Tra centotrenta foto, queste persone hanno scelto le due che
effettivamente sono state scattate dopo aver fatto l’amore! Dev’esserci qualcosa che
veicola questo messaggio – eppure la foto di cui parlo mostra solo alcuni dettagli di un
interno!
Ci vorrebbe un’analisi semiologica…
Dio ce ne scampi! Si può spiegare la musica? Se tu sapessi fare un’analisi semiologica di
Mozart, saresti Mozart! Meno male che ci sono ancora dei misteri, se no non ci sarebbe
più arte! L’arte, è quando certe cose “funzionano”, anche se sono teoricamente o
tecnicamente sbagliate, semplicemente perché portano la carica emotiva di un momento.
È proprio questo che ha fatto impazzire il povero Salieri. Ma tu cosa ci vedi in questa
foto?
Se devo proprio essere sincero, non è una foto sulla quale mi soffermerei.

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Ma vedi una differenza tra le due?
La differenza di nitidezza non mi colpisce. Vedo che una è stata scattata un po’ più
dall’alto, di modo che l’angolo della porta sembra più acuto. Per usare la
terminologia di Barthes, mi pare che quest’angolo sia il “punctum”.
La tua reazione è tipica di un occhio sinistro, ma quello che dici dell’angolo è vero. Non ci
avevo mai fatto caso.
Vedo anche una terza differenza: nella prima foto la macchia di luce è più intensa, ed
è probabilmente questa macchia di luce che ha indotto la tua reazione emotiva. In tal
caso sarebbe questo il “punctum”. Resta da chiedersi perché hai riconosciuto la tua
emozione in questo dettaglio piuttosto che in un altro.
Non ne ho la minima idea. Per quanto riguarda l’intensità della macchia di luce, potrebbe
venire dalla stampa. Tutto quello che so è che al momento di scattare ero emozionata e in
pena per una separazione. Ma perché l’ho espresso mostrando un raggio di sole su un
vecchio parquet, un frammento della porta del bagno e il disotto di un comò? Perché non
il letto o la finestra?
Eri emozionata e il logico sfogo della tua emozione era di fotografare, dal momento
che sei fotografa e che ti trovavi in un seminario di fotografia. Dunque hai cercato col
tuo mirino…
Non cerco mai col mirino, non lavoro in questo modo. Prima qualcosa mi colpisce e solo
dopo prendo la macchina fotografica.
Dunque hai visto l’angolo della porta e il raggio di luce, e la tua emozione ha
riconosciuto qualcosa che la tua coscienza non avrebbe saputo definire. Quando sei
tornata, due giorni dopo, a mente fredda, questi significanti emotivi non ti colpivano
più. Ti sei dunque concentrata sulla nitidezza e su altri dettagli, secondari per
l’emozione. Nella seconda foto questi dettagli acquistano importanza, a detrimento
dei significanti emotivi. Tutto questo è affascinante, stiamo parlando del problema
centrale della fotografia: in quale momento scattare?
E perché scattare? Nei miei seminari chiedo spesso: “Quali sono le foto che non avete
fatto? E perché non le avete fatte?”
E tu che risponderesti a questa domanda?
Mi capita di vedere cose, di cui so che, se le fotografassi, le distruggerei. Per esempio
una rete di relazioni tra persone che vedo per strada, e che interromperei sei mi
avvicinassi con l’apparecchio.
E se tu potessi fare la foto prima di interromperla?
Sarebbe come un furto. A volte sento che un passo di più distruggerebbe quello che
avviene tra loro. Allora preferisco rinunciare alla foto e conservare questo momento nella
mia memoria.
E se tu potessi fare la foto senza essere vista, come attraverso una vetrata a
specchio?
Non so se lo farei, ma non mi piace parlare in termini di regole. E tu che faresti?
Guardando le tue foto di New York, ho notato che spesso fotografi persone che non ti
vedono: che hanno gli occhi chiusi, che si nascondono sotto un impermeabile o che si
avvolgono in teli di plastica. Non li affronti mai faccia a faccia.
È vero. Persino in studio, dove la collaborazione delle modelle è di regola, mi sembra
che una foto debba essere rubata. Le tengo occupate in un modo o in un altro, per

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esempio proponendogli di assumere un ruolo, ma ciò che prendo non è mai quello
che loro credono di dare.
L’idea di prendere mi mette a disagio, per me le persone non sono fatte per essere prese.
In questo non sono d’accordo con Diane Arbus, né con Lisette Model, che pure è stata la
maestra di Diane e la mia. Loro si arrogavano il diritto di fare qualsiasi cosa, con chiunque,
in nome della loro “arte”. Io rifiuto quest’idea, forse per contrasto a certe persone che
hanno avuto un ruolo importante nella mia vita, e che ponevano le loro esigenze
“d’artista” al di sopra di tutto. Per me, gli esseri umani sono più importanti dell’arte. Mi
sembra che quando Diane fotografava quei nani, quei nudisti o quei freaks, lei prendeva
sempre un po’ più di quanto queste persone offrivano di loro spontanea volontà – a little
pound of flesh more, una libbra di carne in più – forse perché questo le dava un senso di
potere.
Forse hai ragione, ma per me Diane è stata come una santa, e sono sempre stato
disposto a giustificare tutto quello che faceva. Ma quando guardo la tua foto di
questa vecchia, mi dico che anche tu devi aver avuto dei momenti di santità, se no
non ti saresti sentita in diritto di farla.
Questa foto è effettivamente carica di sofferenza. Avevo viaggiato da sola per tre
settimane, attraverso gli Stati del Sud e i monti Appalachi, con un’automobile così vecchia
che non potevo neanche chiuderla a chiave. Una notte, in una cittadina del Tennessee,
trasportai tutta la mia attrezzatura e i miei bagagli fino al secondo piano dell’albergo. Una
precauzione stupida, perché già da anni avevo problemi di schiena e lo sforzo mi fece
rompere due vertebre. L’indomani ripresi la strada per New York, malgrado un dolore così
intollerabile, che per accelerare o frenare dovevo reggermi la gamba con una mano. Nel
Kentucky si mise a piovere così forte che non c’era più visibilità. Fermai la macchina e il
caso volle che fosse davanti ad un ospizio, in cui entrai zoppicando e sperando di trovare
un analgesico. Non ne avevano, ma guardandomi attorno vidi questa donna e chiesi il
permesso di farle qualche foto. Non so se fosse cosciente, a momenti ridacchiava come
una bambina e un attimo dopo si metteva ad ululare. Mi sono chiesta se avevo il diritto di
fare quello che facevo, non mi piace fotografare persone che non lo accettano. Credo che
non lo avrei fatto se non fossi stata anch’io in una condizione di estrema sofferenza. Ma
quella volta l’ho fatto. Qualche settimana dopo, ho inviato una stampa alla responsabile,
per chiedere il permesso di pubblicare la foto. Non hanno fatto difficoltà, e sembra anzi
che qualcuno della sua famiglia abbia detto: “Ma guarda! È proprio tipico della vecchia
Mathilda!” Pare sia morta poco dopo il mio passaggio, e credo di averla fotografata con
rispetto, anche se non ho potuto farle comprendere quello che facevo. Mi fa pensare alla
poesia di Dylan Thomas, a proposito di suo padre morente: “Do not go gentle into that
good night / rage, rage against the dying of the light.”
Dunque è stato effettivamente un momento di santità.
Non so cosa intendi con questa parola, non sono esperta di santità. Ma credo che non
bisogna dare meno di quanto si riceve.
Lo vedo in alcuni dei tuoi ritratti, le persone guardano il tuo obiettivo come se si
aspettassero una carezza.
Vorrei che tutti i miei ritratti avessero questa qualità, perché è effettivamente quello che
vorrei dare, in un certo senso, alle persone che fotografo. Non voglio che la mia macchina
fotografica sia uno strumento d’aggressione o di potere. Non so se pubblicherai questa

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registrazione tale e quale, ci sono cose che vorrei dire e che non so come verranno
fuori… Una volta, qualcuno mi ha detto che facevo l’amore come un uomo, ed io ho
risposto: “No, faccio l’amore come una persona.” Non credo che quello che me l’ha
detto mi trovasse aggressiva, ma non era abituato a donne che partecipano. Io ho
bisogno di partecipare, in fotografia come in amore. Ho bisogno che una parte di me
divenga l’altra persona. Dopo una seduta fotografica come la intendo io, mi sento come
se avessi fatto l’amore per un giorno intero, spossata, appagata e sul punto di crollare. È
anche per questo che non so fotografare il primo venuto, che riesco così male a far lavori
su commissione: è come dover far l’amore con qualcuno che non si è scelto. A volte
vorrei che la macchina fotografica scomparisse, per fotografare solo con i miei occhi o col
mio corpo. Fotografare può essere davvero come far l’amore: talvolta mi capita di tremare
come una foglia. Ho un amico fotografo per il quale provavo un sentimento molto intenso
– ma da cui non volevo farmi coinvolgere. Ho fatto il suo ritratto, e durante la seduta lui
ha osservato: “È la prima volta che vedo un fotografo per cui l’apparecchio sembra un
ostacolo” – ed era proprio così!
Anche per me la fotografia può essere sensuale e sessuale. Ma se per te è come
carezzare qualcuno che ti guarda, per me… Conosci un romanzo giapponese che si
intitola La casa delle belle addormentate? È la storia di un bordello per vecchi:
trascorrono la notte accanto a delle ragazze addormentate, che però non hanno il
diritto di penetrare.
Una situazione senza rischi!
È uno dei romanzi più sensuali che io conosca.
Per un uomo. È una idea maschile della sensualità.
Quello che cerco è forse un po’ come in quel romanzo. Ma tu dovresti capirlo, non ti
hanno detto che fai l’amore come un uomo? Non ti piacerebbe fotografare persone
che dormono?
Ci ho pensato ed ho anche chiesto ad alcune il permesso di farlo, ma alla fine ci ho
rinunciato. Mi sembrerebbe di utilizzare un essere umano come un oggetto. Non mi piace
agire quando l’altro non può reagire, sarebbe come far l’amore con una cosa inanimata.
D’altra parte, l’osservazione sul mio modo di far l’amore non era mia, mi era stata fatta
molto tempo fa, da uno che era un “macho” nel senso peggiore della parola.
Eppure mi chiedo se i momenti più belli dell’amore – ed anche della fotografia – non
contengano necessariamente una parte di malinteso, o quanto meno d’illusione.
Mi rifiuto di crederlo. Ho subito troppe illusioni che mi sono state imposte, da persone
che mi vedevano diversa da quello che sono. È un gioco terribilmente destrutturante,
benché capisco che ci si possa lasciar prendere, per facilità o perché non si sa resistere
alle lusinghe. Ma finisce sempre male, si finisce per non sapere più chi si è. È un gioco
che non voglio subire mai più, né tantomeno farlo subire ad altri.
Ma può esserci amore – o fotografia – senza una parte d’illusione? Per me, fare una
foto di nascosto può essere come accarezzare qualcuno in un sogno. Se la persona
alza lo sguardo verso la macchina fotografica, il sogno svanisce.
Così ti proteggi. Perché a te l’identificazione con un altro sembra un rischio.
Quando fotografo in strada, capita che le persone se ne accorgano. Allora guardo
altrove e me ne vado. Non per paura di loro e neanche per un rifiuto di identificarmi

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con loro, ma perché è come se potessi vederli solo a condizione che loro non mi
vedano: proprio come attraverso un vetro a specchio.
Perché vuoi essere solo a decidere, e perché questo ti dà un senso di potere. Il loro
sguardo è una richiesta, alla quale tu forse non hai voglia di rispondere. A me non piace
fotografare le persone in strada. Forse è anche per paura di farmi scoprire, ma preferisco
credere che sia soprattutto per non prendere ciò che gli altri non sono coscienti di dare.
Forse c’è un po’ dell’uno e dell’altro, non si è mai sicuri delle proprie motivazioni. Una
volta, scendendo sulla Diciannovesima strada, ho notato una grossa negra che dormiva
sul marciapiede, davanti ad un negozio chiuso. Ho sentito un bisogno irresistibile di
fotografarla, senza sapere perché, non avevo mai fatto una foto simile. Ma è stato più
forte di me: mi sono inginocchiata sul marciapiede, ho fatto alcuni scatti, molto
lentamente, poi ho preso un respiro profondo, mi sono rialzata e sono ripartita. Come se
di proposito avessi corso il rischio che si svegliasse e mi scorgesse. Ma non potevo fare
altrimenti, non tanto per l’angolo di ripresa – avrei anche potuto accovacciarmi – quanto
perché bisognava che fossi in ginocchio…
Anch’io, quando scatto una foto di nascosto, provo un pizzico di cattiva coscienza! È
forse una delle ragioni per cui, a New York, riesco a fotografare solo quando fa
eccessivamente caldo o eccessivamente freddo: come se sentissi un bisogno di
punirmi.
E se non mi fossi rotta le vertebre il giorno in cui ho fotografato la vecchia del Kentucky…
… non ti saresti sentita in diritto di farlo!
Neanche adesso so se ne avevo il diritto. Ma so che non l’ho fatto alla leggera.

Piuttosto che “cattiva coscienza”, avrei potuto dire “disagio”. Quando queste forme
nel mirino, che cerco di comporre e di rendere nitide, alzano improvvisamente lo
sguardo verso di me, mi sembra che esprimano un’attesa che non ha nulla a che
vedere con quello che io stesso cerco di fare.
È proprio quello che mi sforzo di dirti. È questa la nostra difficoltà e la sfida che
dobbiamo affrontare: guardare il mondo attraverso questo strumento meccanico, questi
pezzi di vetro e di metallo, e riuscire a vedere delle persone; non dimenticare mai che
queste “forme” nel nostro mirino sono esseri umani. Il rischio che prendiamo, l’attesa da
non dobbiamo deludere è di trovare una contropartita a questo metallo, a questo
strumento, a tutta questa meccanica. Se no sarebbe troppo ingiusto!
È come se ci fosse sempre un vetro a specchio: il mirino.
Eva Rubinstein : Sì, il mirino si interpone tra noi e la realtà e ci disconnette da essa. È il
gran pericolo di questo mestiere: onde la mia avversione per la macchina fotografica. L’ho
sentito molto intensamente una volta, in Irlanda del Nord, in una situazione
potenzialmente pericolosa, la gente lanciava pietre e la polizia rispondeva con bombe
lacrimogene e pallottole di caucciù. All’inizio ho avuto molta paura, ma quando mettevo
l’occhio al mirino la paura svaniva, era come guardare uno schermo televisivo. Una cosa
un po’ simile m’è successa quando ho partorito il mio secondo figlio: avevano appeso
uno specchio sopra il letto, affinché potessi vederlo quando usciva, e naturalmente io
guardavo, con una curiosità così grande che non mi concentravo più, come avrei dovuto,
sulla mia respirazione. Avevo dimenticato che guardavo me stessa, mi ero disconnessa dal
mio proprio parto! Alla fine ho fatto togliere lo specchio e ho continuato il mio travaglio.

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La differenza tra noi, è che io auspico la disconnessione. È la differenza tra
l’approccio romantico e l’approccio classico.
Capisco, se utilizzi questi termini nel loro significato storico. Ciascuno di noi cerca di dire
all’altro chi lui è. Il mio ideale, in fotografia, sarebbe di avere, con i modelli, lo stesso
rapporto che mio padre aveva con la musica. Al pianoforte, mio padre diventava la
musica, mentre invece nella vita gli capitava di interpretare una parte. Aveva una relazione
umana e personale con ogni singola nota, un rispetto per la partitura, che non deformava
mai per ottenere un effetto in più, un senso profondo della struttura musicale. In quei
momenti, lo trovavo persino commovente: perché lo sentivo aperto e vulnerabile,
nonostante tutto il suo controllo e la sua tecnica. Nella situazione fotografica, noi fotografi
abbiamo sempre un vantaggio sulla persona che ci sta di fronte, perché siamo noi che
decidiamo di scattare. Supponiamo che questo vantaggio sia di 90 a 10. Io cerco di
avvicinarlo, per quanto è possibile, a un rapporto di 50 a 50 – o, quanto meno, di 52 a 48.
Quando dico “identificarmi col modello”, non voglio dire solo “riconoscermi in lui”, ma
anche “uscire da me stessa per incontrarlo a metà strada” o “aiutarlo ad uscire da sé per
incontrarmi”. La fotografia è il risultato di un tale incontro, è un fenomeno bipolare, come
una scarica elettrica. Se uno dei fili è interrotto non succede nulla. Se non accetti di
renderti vulnerabile, non puoi chiedere che l’altro lo diventi, e non hai nessun diritto di
fare quello che fai. Il tuo atto di fotografare sarà solo un piacere da voyeur, un esercizio
gratuito di potere, una violazione dell’intimità altrui. Quando mi son messa in ginocchio
davanti a quella donna addormentata, l’ho fatto per provare che anch’io assumevo un
rischio: quello di avere l’aria d’una stupida, o peggio di farmi aggredire da lei se si fosse
svegliata. Non potevo espormi più di così. Credo che un tale comportamento finisca per
far parte della nostra foto, e che anche uno spettatore che non ci conosca ne percepirà
qualcosa.
New York, April 1987

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Robert Doisneau: ho fatto tutti gli errori possibili

Vorrei cominciare con degli argomenti molto semplici, quelli profondi seguiranno,
non ci si scapppa. Per esempio dal fatto che hai dovuto guadagnarti da vivere. Alcuni
fotografi lavorano senza preoccuparsi se venderanno le loro foto, sia perché hanno
altre risorse, sia perché hanno il coraggio di privarsi di tutto, come Koudelka. Non è
stato il tuo caso, e neanche il mio. Hai fatto certe foto semplicemente perché dovevi
guadagnarti da vivere. Eppure, in quello che resta di questi cinquant’anni, non si
avverte il lavoro su commissione, si riconosce solo Robert Doisneau. Come è stato
possibile? Non immagino che ad ogni scatto tu ti dicevi: Questo è per esprimere me
stesso o al contrario: Questo è per guadagnarmi da vivere.
Non credo che la libertà totale sia davvero auspicabile. Quando si può contare solo su se
stessi per le esigenze quotidiane, si accettano proposte di lavoro di ogni genere. Ma si
conserva sempre uno sguardo obliquo, una parte di gioco. È come una specie di piccolo
furto sulle ore di lavoro dovute al padrone – e sono queste le foto, un po’ rubate, che
restano.
Dunque tu distinguevi: Questa foto è per me, questa per il cliente. Lo noto perché
per me non è sempre stato così. Quando facevo certe foto di moda, per esempio, mi
capitava di crederci, come se le stessi facendo per me stesso.
Questa è una tua abilità, un tuo lato professionale. Quando io praticavo la foto di moda
su fondo bianco, per Vogue, il mio ruolo mi pareva secondario. Quando vedevo sflilare
una collezione, non provavo niente di particolare, non mi dicevo mai: Devo
assolutamente fotografare questa ragazza con quest’abito. D’altra parte le modelle erano
meno simpatiche che oggigiorno, avevano tutte l’aria di disprezzare quel tipetto che,
dall’altra parte dell’obiettivo, cercava di fare la sua foto.
Tuttavia penso che tu sia arrivato a convincerti dell’interesse di certe ricerche, delle
quali oggi ti dici: È stato un errore, mi sono lasciato trascinare dal gioco.
Ho fatto tutti gli errori possibili. Perché per indole sono disobbediente e non accetto mai
di fare quello che mi si dice. Devo provarmici da solo, e questo mi ha fatto prendere
molte piste false. Ho passato un anno a fabbricare un apparecchio per mettere in piano i
cilindri. Volevo fotografare dei vasi fatti da un contadino, portarli in due dimensioni,
affinchè si potesse leggere il bassorilievo con un solo colpo d’occhio. Ci vuole una bella
testardaggine per accanirsi su una cosa di questo genere. Volevo imitare le ricerche di
Marey, sulle quali avevo delle vaghe nozioni. Ma in fondo non avevo letto un gran che, mi
ci son messo come l’ignorante che ero.
È stato così anche per me. Conoscevamo il lavoro degli altri solo attraverso qualche
foto nelle riviste.
È proprio così: io avevo visto qualche foto di Brassaï, ma ignoravo l’esistenza di Kertesz o
di Atget. Il caso ha voluto che lavorassi negli stessi luoghi di Atget, alla Porte d’Italie o
nella valle della Bièvre, con una macchina fotografica in legno su treppiedi, un po’ come
la sua. Ma non ho conosciuto il suo lavoro che molto più tardi.

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È interessante confrontare il tuo primo libro sulla periferia con quello pubblicato
adesso da Delpire. Molte foto sono le stesse, ma l’insieme è diverso, come se
qualcosa d’essenziale si fosse chiarificato.
Del tutto a mia insaputa. Me ne sono reso conto preparando la mia mostra a Saint-Denis.
Questa sarà la mia ultima mostra – o almeno l’ultima fatta in questo modo. Il caso ha
voluto che tornassi sempre di nuovo a Saint-Denis, benché sia una periferia lontana dalla
mia. È un miscuglio straordinario, io sono sempre attirato dai miscugli strani. Gente di
ogni origine, una basilica con le salme dei re di Francia, a venti metri da un municipio
comunista, un canale, una autostrada, un’architettura di grandi complessi e delle villette.
È il tipo di miscuglio che mi attira. In fin dei conti, io ho sempre fatto degli autoritratti,
nella misura in cui ho mostrato persone che vivono in scenari assurdi, come me. La mia
periferia è stata piuttosto quella delle case a due piani, grigie e stupide, con degli
angolini, delle escrescenze, dei rattoppi, della gente che viveva tra la strada e il bar. Ogni
tanto c’era un’officina, come l’impresa di impianti idraulici di mio nonno. Dalla mia
finestra, vedevo gli operai che venivano a prendere il loro lavoro la mattina presto. Se gli
restava un quarto d’ora prima di iniziare, andavano a farsi un bicchiere al bar di fronte. Ne
uscivano leggermente brilli, prendevano il carretto a mano e se ne andavano a lavorare, a
volte molto lontano, l’apprendista tra le stanghe ed l’operaio che spingeva da dietro. Mi
conoscevano tutti, ben inteso, io li guardavo lavorare: è bello da vedere, uno che fa una
saldatura.
Ma perché dici che la mostra di Saint-Denis sarà l’ultima?
Il museo di Saint-Denis è un antico convento carmelitano, un luogo pieno di fantasmi,
dove ha vissuto Luisa di Francia, la figlia di Luigi XV, e dove adesso si possono vedere dei
documenti su Louise Michel, l’ispiratrice della Comune – ancora un accostamento
straordinario. L’idea della mostra è venuta un po’ dal fascino di questo luogo. Il direttore
voleva presentare le foto che avevo fatto a Saint-Denis nel 1943 e nel 1944, durante
l’occupazione. Era stato un inverno molto freddo, il canale era gelato, i ragazzi ci
raccoglievano il carbone caduto dalle gru. Gli ho proposto di esporre dieci foto di allora e
di aggiungerne cinquanta che avrei fatto nella Saint-Denis di oggi. Mi ci sono voluti due
anni, è raro che mi riesca più di una foto al giorno, e ci sono dei giorni in cui non ne riesce
nessuna. Queste foto recenti sono forse un po’ meno aneddotiche di quelle del 1944, più
spoglie. Oggi la gente comprende meglio le immagini, non c’è più bisogno di raccontare
una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. L’inizio basta, la fine la indovinano. Ti
ho detto che è l’ultima mostra di questo tipo perché tra quattro o cinque anni non avrò
più la forza fisica per una tale impresa. Non mi rendo bene conto a che somigli, questa
mostra. Mi dicono che è molto bella, ma sono gli amici che me lo dicono. L’ho fatta con
quel po’ di faccia tosta che mi resta, e con le mie possibilità di adesso.
Tu dici che le tue prime foto erano più aneddotiche. Era proprio questo che allora gli
rimproveravo. Bisogna dire che io ero diventato un seguace fanatico di Cartier-
Bresson. Al mio primo incontro con lui, avevo avuto la faccia tosta di mostrargli i miei
primi reportage, fatti con una Rolleiflex. Ha esclamto che se il Buon Dio avesse voluto
che si fotografasse con una 6×6, ci avrebbe messo gli occhi sulla pancia. Dunque mi
sono comprato una Leica e ho cercato di seguire i suoi consigli, nella misura in cui
potevo intenderli. Ma tutto questo mi rendeva intollerante. Per esempio, trovavo che
nelle tue foto ci fosse troppa aneddotica e troppo poca composizione. Gli

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rimproveravo i difetti del 6×6: la costruzione in rapporto al centro dell’immagine,
l’imprecisione di quello che succede ai lati. È solo molto più tardi che ho capito
meglio, ed è stato come una rivelazione istantanea, come certe conversioni sotto
l’effetto di uno choc. Da quel momento, i tuoi personaggi hanno cominciato a vivere
per me, sapevo quello che pensavano o quello che stavano per fare. Da ciascuno di
loro partiva una linea di forza, e la composizione della foto era nel rapporto tra
queste linee. Avrei dovuto rendermene conto molto prima.
È un po’ colpa mia. Avevo la sensazione che la gente non sapesse leggere le foto, e mi
dicevo: Sarò gentile, esageratamente, come bisogna esserlo con i malati. Da qui tutte
queste piccole farse, le sequenze, gli aneddoti, lo stile da vignetta umoristica. Adesso è
diverso, la gente capisce subito, non c’è più bisogno di caricare l’immagine con simboli
pesanti come mazzate.
D’altra parte non sono solo i personaggi umani delle tue foto che io sento vivere in
questo modo, ma anche il coniglio, la scimmia…
Robert Doisneau : … le case…
… e le statue, i personaggi dei manifesti. Tutti hanno l’aria di avere delle cose da
dire, delle intenzioni, le loro linee di forza si incrociano tra loro e con quelle delle
persone umane.
Il nostro vantaggio, rispetto ai pittori e agli scrittori, è questo contatto con il lato rugoso
delle vita. Questo ci dà una lezione di umiltà e ci permette di evitare certi errori. Ma
soprattutto ci nutre. La vitalità degli altri ci nutre, a loro insaputa. È questo che mi ha fatto
del bene in questo lavoro a Saint-Denis: il fatto di ritrovarmi ancora una volta nella strada,
a contatto con la gente. Devo dire che le persone mi sono sembrate meno gentili che
vent’anni fa, forse per via dei fotografi di oggi, che impugnano i loro apparecchi come
delle armi – allora il coniglio, dall’altra parte dell’obbiettivo, reagisce male. Io non oso
lavorare come questi fotografi, non ho la sfacciataggine di William Klein. Mi capita di
lasciarmi trascinare dalla macchina fotografica, ma dopo aver scattato la mia foto, mi
chiedo: E adesso come faccio a tirarmene fuori, a dare una spiegazione a queste
persone?
Immagino che quando Klein guarda attraverso il mirino, veda soprattutto delle
forme. Mentre tu non dimentichi mai gli esseri umani. Tranne forse nel caso degli
innamorati, in cui il ruolo diventa più importante delle persone. I tuoi innamorati
recitano un po’, come degli attori, mentre i personaggi nello sfondo restano veri, di
loro so cosa gli passa per la testa.
Io ho avuto due o tre noie con la giustizia, l’invenzione del diritto delle persone sulla loro
immagine spesso impedisce di cogliere la spontaneità. Quindi io fermo le persone e gli
dico: Vi ho visto passare là, vorreste gentilmente ricominciare a baciarvi? È stato il caso
degli innamorati dell’Hôtel de Ville, che hanno ripetuto la scena. Quelli con il venditore di
frutta e verdura erano innamorati a noleggio, una mia messa in scena.
Lo si sente un po’…
L’avevo fatto per restare in uno stile di amabilità, per mostrare delle piccole scene
parigine, come in uno di quegli spettacoli di rivista del tipo Parigi sarà sempre Parigi.
Forse oggi sembrano un po’ sdolcinate, ma allora si vendevano. La foto degli innamorati
dell’Hôtel de Ville faceva parte di una serie sulla quale avevo già lavorato una settimana,
bisognava completarla con due o tre foto dello stesso tipo. Ma io non le trovo fastidiose.

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In fondo, non c’è niente di più soggettivo dell’obiettivo, noi non mostriamo il mondo
com’è veramente. Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito
bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che
speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.
Barthes lo chiama lo studium. È ciò che il fotografo vuol dire quando fa una foto. Ma
al di là di questa intenzione, c’è il miracolo che noi aspettiamo e che qualche volta
riusciamo a cogliere. È comunque questo che ci fa correre.
L’attesa del miracolo, è vero. È una cosa molto infantile, e allo stesso tempo è quasi un
atto di fede. Troviamo una scenografia e aspettiamo il miracolo. Conosco una scenografia
che non ha mai funzionato, forse perché non ci sono rimasto il tempo necessario, o
perché non ci sono tornato abbastanza spesso. In primo piano ci sono gli scalini della
chiesa di Saint-Paul, quello che si vede sullo sfondo è un perfetto sobborgo, tale e quale
la letteratura e il cinema ci hanno insegnato a immaginarlo. Io lo inquadro nel mirino,
dalla via Turenne fino al negozio del Gant d’Or, e mi pianto là, per un’ora, due ore, e mi
dico: In nome di Dio, dovrà pur succedere qualcosa. Immagino delle cose che mi
piacerebbe vedere, una più folle dell’altra. E poi niente e ancora niente. Oppure succede
qualcosa – boom – ma non è proprio quello che avevo immaginato e lo manco. Il
miracolo si è prodotto, ma a causa della mia disattenzione, della mia stanchezza fisica,
l’ho mancato. Dopo aver aspettato due ore, i riflessi non sono più pronti, l’emozione non
è più disponibile.
Ho avuto la stessa esperienza nelle strade di New York. Mi dicevo: È una buona
cornice, aspetterò qui. Ma io non sono un pescatore, come te. Se il miracolo non è
puntuale all’appuntamento, perdo la pazienza e me ne vado. Ma mi chiedo se le
attese spese in questi luoghi non portino i loro frutti altrove, in altri momenti. Come
un vuoto che si forma nella mente, e che sarà pronto per accogliere il miracolo,
quando il miracolo verrà.
Hai ragione. Si va altrove e si conserva questa tensione e nello stesso tempo questa
calma interiore che fanno sì che si sia pronti a cogliere quello che si attende. Un’altra cosa
che ci prepara è la notte. Quando mi trovo in posizione orizzontale, il cervello è irrigato,
come il tappo di una bottiglia coricata. Questo mi fa immaginare delle cose, mi fa venire
voglia di essere per strada, di utilizzare questo funzionamento del mio cervello. Dunque
mi alzo ed esco, con un desiderio di vedere e di ammirare. Questo, il meravigliarsi, non si
impara nelle scuole. E non succede tutti i giorni.
Ho una domanda terra terra da porti: tu hai trovato questo titolo meraviglioso, Tre
secondi d’eternità…
È tratto da Jardin, la poesia di Jacques Prévert.
…ma in realtà, evidentemente, il tempo che tu passi con il tuo apparecchio, a
guardare, a girare attorno ai soggetti, rappresenta molto più che la semplice somma
dei tempi di posa. Quanto tempo in rapporto alla tua vita? Quanti giorni per
settimana, quante ore per giorno?
Moltissime. Non saprei contare le mie ore di folle speranza, di attesa che il miracolo si
produca. È raro che passi una settimana, senza che io mi preservi a questo scopo almeno
un giorno. Ma a volte ho l’impressione che la sorte si accanisca contro di me. Mi ci sono
voluti cinque anni per farmi mettere alla porta dalla Renault – avevo fatto di tutto, ma ho
comunque dovuto attendere cinque anni – e tre mesi dopo c’è stata la dichiarazione di

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guerra, e la mia libertà è finita. Adesso, che non ho più bisogno di fare foto pubblicitarie
o di piegarmi alle esigenze delle riviste, è la malattia di mia moglie a piombarmi addosso,
che dura da dieci anni e mi impedisce di disporre delle mie giornate. È come una fatalità.
Ma credo che l’esasperazione che ne consegue possa anche avere un effetto creativo.
Il tempo di noi fotografi è particolare. Ci sono dei musicisti che provano dieci ore al
giorno, degli scrittori o dei pittori che lavorano con regolarità, da tale ora a tale ora.
Per noi, le ore che passiamo con l’apparecchio in mano sono relativamente poche.
Ma, come dici tu, la creatività si accumula forse nei tempi morti.
La mancanza di libertà aumenta la mia determinazione, mi dico: Riuscirò comunque a
farla, questa mostra a Saint-Denis, anche se non posso lavorare che il sabato – che è il
giorno in cui un’infermiera si occupa di mia moglie – anche se non posso andarci al
mattino presto, se non posso fare foto di notte. Forse è questa costrizione che porta una
specie di unità nelle immagini.
Un’accumulazione del desiderio di vedere. Come il cappuccio che si mette sugli occhi
dei falchi da caccia.
Il cappuccio è esattamente quello che sento. Quando vado in giro, sono sempre
accompagnato da fantasmi: Cendrars, Prévert, Pontrémoli, i miei amici scomparsi.
Quando trovavo un’immagine, era a uno di loro che la destinavo e a cui la mostravo per
primo. Era un po’ come un debito, perchè erano loro che mi avevano insegnato a vedere
questo tipo di cose. Adesso loro sono in anticipo su di me, se ne sono andati. Ma a volte,
quando passeggio, una canzone di Prévert mi accompagna.
Pensavo a ciò che dicevi sulla costrizione. In fin dei conti, la fotografia è un’alternanza
di aperture e di chiusure. Come l’otturatore. Quando dici: Io non parlo le lingue, non
mi piacciono i grandi viaggi, è una chiusura, ma che ti è necessaria, che ti permette
altre aperture.
Sono regole che ci imponiamo, di un gioco molto complicato, con dei giardini segreti che
non bisogna calpestare. Come i ragazzini che fanno dei disegni per terra e saltano,
incrociando i piedi, hop il cielo! hop l’inferno! È il gioco della campana. Io mi impongo
dei limiti, mi proibisco di mostrare certe cose, la violenza per esempio. So che esiste, che
ci sono dei fotografi che la mostrano molto bene, e io non dico che hanno torto, ma non
è una cosa che fa per me, il settore è troppo affollato. Il meravigliarsi, al contrario, è un
obiettivo che pochi fotografi si sono dati. Ci si può meravigliare davanti a un oggetto, un
edificio, un albero. Un personaggio può sembarci misterioso quanto un oggetto, perché
non sappiamo quello che succede dentro di lui.
A proposito del gioco della campana: tu mi hai detto che non ti dà fastidio che le tue
foto siano selezionate da altri – ed anche riquadrate. Pochi fotografi direbbero la
stessa cosa. È ancora il gioco della campana, una possibilità supplementare concessa
al caso? Eppure tu hai le idee molto chiare a proposito del tuo lavoro, sai molto bene
quali sono le scelte e le inquadrature che preferisci.
C’è un aspetto del mio personaggio, che fa sì che ci si aspetti da me un certo tipo di foto.
E per me va benissimo, pazienza se le foto che scelgono non sono le mie preferite. Le
foto che preferiamo sono come i bambini che ci hanno dato filo da torcere per crescerli,
ci attacchiamo a loro perché ci hanno fatto penare di più. Ma non sono necessariamente
le migliori. Qualcuno dall’esterno giudica meglio, dice: Questo fotografo è così, dunque
queste sono le foto che lo rappresentano. Bisogna lasciarli fare.

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E anche lasciarli riquadrare?
Pazienza. Sono stato abituato a essere rifilato ai bordi quando lavoravo con dei formati
quadrati, che non corrispondevano mai al formato delle riviste. Tu hai sottolineato,
giustamente, che sui bordi di queste foto succedono cose che non avevo controllato. Ma
è un’imperfezione che accetto, questo dà alla foto un po’ più di… verità? No, non è
proprio così…
Di autenticità? Di credibilità? È forse un aspetto che porta lo spettatore a dirsi:
Questo fotografo non è molto abile, quindi dice la verità. È così?
Sì, forse. Si vede un tipo che guarda, un altro che si ferma. Non è male così, la foto non è
troppo costruita. Lascio la sua parte al caso, è come la parte del povero. Ai pranzi di festa
si lasciava una sedia vuota perché, se dovesse arrivare un visitatore inatteso, resti un
posto per lui.
In fin dei conti i difetti della Rollei comportavano anche dei vantaggi. Il fatto di
tenere la macchina fotografica sulla pancia dava al fotografo un’aria meno
aggressiva.
Ci si inchinava davanti al soggetto, come una genuflessione. Mentre con il 24×36 lo metti
sulla linea di tiro, o di mira, in piena faccia, e se non sei molto rapido si infastidiscono e ti
rifiutano. Me ne rendo conto perché ormai mi fotografano sempre più spesso, è
l’attrazione delle rovine, si diventa pittoreschi senza volerlo. E mi rendo conto dell’effetto
può fare, un tale arnese puntato su di te. Se ti infili un dito nel naso, poom, il collega non
ti manca.
Questa scena di bar è stata fatta con una 6×6? La trovo miracolosa, ci vedo sei, sette,
otto linee di forza, non meno che i personaggi. Ci si chiede come hai fatto per
accorgerti di tutto questo nello stesso istante.
Forse ero ubriaco. No, in realtà non lo ero. Ecco un’altra scenografia assurda, un gioco
completamente idiota. Ma funzionava bene.
Anche la signora riprodotta sul manifesto partecipa alla scena. Se la nascondo col
dito…
Sì, mancherebbe un personaggio. È vero che è un miracolo. Era un mondo che
conoscevo bene, in cui mi sentivo a mio agio. Prima di fare una foto come questa,
bisogna essere accettati, far parte dell’ambiente, venire a bere per delle sere. Fino a
quando non ti dimenticano del tutto. Forse era una Rolleiflex, non ne sono sicuro. Ma è
una buona foto, giusto quel po’ di casualità che bisogna, e allo stesso tempo l’equilibrio.
Un momento felice che ti viene offerto e che non bisogna lasciarsi sfuggire.
Tu ne hai colti alcuni di questi momenti felici. Ma oggi senti il bisogno di esprimerti
attraverso la scrittura, come se ci fosse qualcosa di importante che non può esser
detta attraverso la fotografia.
Io scrivo come si parla. Tutte le domeniche mattina, scrivo cinque o sei o sette lettere, lo
faccio senza difficoltà, è come se quelli a cui mi rivolgo fossero presenti. Ma quando è per
essere stampato, la paura mi paralizza. Il mio vocabolario è ristretto, la mia conoscenza
della lingua francese ha delle lacune. Mi vergogno all’idea che un dattilografo, in una
casa editrice, decifri il mio manoscritto e rida dei miei errori. Ma effettivamente sento il
bisogno di scrivere. Forse perché ho ascoltato molto: non è soltanto la vista che funziona
quando si vede una foto, c’è anche l’udito, e anche l’olfatto, che potrebbe essere
assimilato alla musica, una specie di scorciatoia tra le cose e l’emozione. Quello che

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spesso mi è mancato è stato di poter registrare queste cose con il mio apparecchio: allora
provo timidamente, con la mia povera memoria piena di lacune, a scriverle. Con
umorismo, se posso: l’umorismo è una forma di pudore di fronte all’emozione. Quando lo
spettacolo è troppo tenero o troppo crudele, ci si rifugia nell’umorismo, questo evita
l’impudenza.
Diversi fotografi che stimo provano questo bisogno di esprimersi attraverso un altro
mezzo. Cartier-Bresson disegna, Boubat suona il piano, Robert Frank e William Klein
fanno cinema. Come se, a un certo punto della loro vita, avessero avuto la sensazione
di essere arrivati ai limiti della fotografia.
Forse tutti, verso la fine della nostra vita, proviamo il bisogno di scrivere. È un grande
chirurgo, il professor Gosset, che mi ha fatto questa osservazione. Si accetta difficilmente
l’idea della propria scomparsa brutale, e si vuol lasciare una traccia, mostrare le cose che
ci son piacute. La scrittura, come la fotografia, esprime questo desiderio di sopravvivenza
– il titolo del libro di Boubat (La Survivance) non era male. Quando ero bambino, sognavo
di fare cinema. Più tardi mi sono accorto che non era possibile, che ci vuole
un’autorevolezza che non ho. Ma mi son detto che raccogliere alcune immagini dal vivo
poteva essere non meno importante che fare della fiction.
Alcune frazioni di secondo strappate all’eternità, l’hai detto bene.
Mi torna in mente un ricordo di gioventù. Vai in bicicletta con una ragazza, nei boschi. C’è
l’odore della brughiera, il vento tra gli abeti, tu non hai il coraggio di dirle che l’ami, ma
sei felice, come se ti fossi staccato dalla terra. Poi guardi le nuvole sopra gli alberi, e le
nuvole se ne vanno. Tu sai che fra un’ora bisognerà rientrare e che domani sarà un altro
giorno di lavoro. Vorresti eternizzare questo momento, ma non puoi farci nulla, bisogna
andarsene. Allora fai una foto, è come una sfida al tempo. Forse quella ragazza se ne
andrà e non la rivedrai mai più, o la rivedrai cambiata, stanca, umiliata dalla quotidianità,
commessa in un negozio, con un caporeparto che le grida dietro. Questo bisogno di
preservare un momento mi sembra giustificato, checché ne dica quel prete tedesco di cui
parla Gisèle Freund, e che sostiene che l’immagine fotografica è un sacrilegio.
Tuttavia anche lui non aveva del tutto torto. Tu la prendevi sempre la tua Rolleiflex,
quando andavi a passeggiare nei boschi con le ragazze? Io non credo che l’attimo
possa essere allo stesso tempo vissuto e preservato. Bisogna scegliere.
Sì, noi siamo degli impagliatori di uccelli, è questo il sacrilegio. Ma è un sacrilegio che ci
permette di condividere i nostri momenti di felicità con gli altri.
Bisogna dire che questo problema ti concerne meno che altri. Tu non sei uno di quelli
che fotografano la moglie mentre partorisce o la madre morente o che si fanno
l’autoritratto mentre si masturbano davanti allo specchio.
Quello che mi circonda mi sembra più interessante che mia modesta persona. Io mi
considero un osservatore… no, non proprio un osservatore, io non guardo gli altri con la
lente d’ingrandimento, come degli insetti… Direi piuttosto un contemporaneo, io vivo
allo stesso ritmo che loro, subisco le stesse costrizioni. Ma non andrò a fotografare mia
moglie all’ospedale, non mi sembrerebbe bello. E non mi fotograferò nudo davanti allo
specchio, non ne ho la minima voglia.
Un altro settore troppo affollato!
Mi chiedo cosa cercheranno i giovani. Nei paesi ad alta densità umana, sono alla ricerca
di un sistema che gli permetta di distinguersi dalla massa. Hanno bisogno di qualcosa di

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ingegnoso, di stridente, che scuota i nervi di un pubblico saturo di immagini. Come quei
giapponesi che disegnano delle figure sui seni e sui sederi. Loro nascono con una
macchina fotografica in mano, allora, se vogliono essere pubblicati, bisogna che facciano
delle immagini scandalose.
Che fare d’altro? È alla tua generazione – e un po’ alla mia – che è stato concesso di
scoprire il mondo attraverso la fotografia. Questo non si ripeterà, non si rifà il viaggio
di Cristoforo Colombo. A che scopo rifotografare la tua periferia?
Quella che ho fotografato io è scomparsa.
Ma anche se fosse ancora là non ci sarebbe nessuna ragione per fotografarla. Non c’è
più bisogno di cacciare – o di pescare – quello che già si possiede. Forse sta proprio
qui il sacrilegio. Come guardare oggi la periferia parigina, senza pensare Doisneau? È
vero che una nuova periferia si è sovrapposta alla vecchia, ma allo stesso tempo la
capacità di meravigliarsi si è consumata. Quando tu hai portato le tue stampe a
Cendrars, lui doveva essere meravigliato, certamente ti ha detto: Non ho mai visto
foto di questo genere. Oggi cosa puoi mostrare senza che ti si risponda: Sì, lo
conosco?
È vero che la nostra sensibilità si è indurita. Ma ci sono dei modi nuovi di vedere le cose.
Per esempio i colori dei tuoi personaggi, che ricordano i colori della pittura. Il colore può
portare delle novità.
Allora se il diavolo ti proponesse, come a Faust, di ricominciare da zero, che faresti?
Non lo so. C’è questa parola: Già. Già la vita è passato, così in fretta, malgrado tutte le
grane, tutti i momenti che non si vorrebbero assolutamente rivivere. È comunque passata
– già. C’è un momento in cui si accetta di scomparire. Non tocca a me immaginare, tocca
a loro, che se la sbrighino, accidenti! Forse c’è ancora modo di fare altre immagini,
diversamente. Le mie foto attuali di Saint-Denis sono piuttosto diverse da quelle fatte per
Cendrars: ho voluto suggerire più che descrivere. In futuro, potrebbero essere ancora più
suggerite, per degli spettatori ancora più evoluti, ma senza cadere nell’inquinamento
della pubblicità, che è il maggior pericolo, né nello stridore della televisione. Prima
dell’agricoltura c’era stata la raccolta, ciò che io ho fatto in fotografia era raccolta. Dopo
la raccolta c’è stato l’allevamento, le foto in studio sono allevamento. Forse nel futuro si
faranno immagini ben confezionate, con tutta una scienza della sensibilità del pubblico, si
potranno calcolare i costi, un computer darà un po’ più luce qui, un po’ meno là, e si avrà
un prodotto immediatamente digeribile. Ma non è una cosa che fa per me. Io ho dato
quello che avevo da dare.

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Joel-Peter Witkin: il tuo sapere è frutto dei rischi che prendi

Joel Peter Witkin: (Mostrando delle stampe in ordine casuale tirate fuori da una di
diverse scatole). Questa foto si ispira in parte al Giudizio di Paride [The Judgement of
Paris] di Rubens. Lui è un artista di performance – col suo pene. Ha inventato una pompa
pneumatica che funziona per aspirazione e glielo fa crescere fino a questa dimensione. Si
è anche sottoposto ad un intervento chirurgico al glande, in modo da poter introdurre un
dito dentro l’uretra. E per la sua ragazza, che ora è lesbica (ride), ha costruito una seconda
pompa, che fa gonfiare il clitoride, così lei mette il clitoride nel pene. È una cosa molto
interessante. Ma sono stato io ad avere l’idea del tatuaggio sull’avambraccio, che ricorda i
campi di concentramento. Infatti l’immagine non si riferisce solamente al giudizio di Paris,
nel senso del Paride del quadro, ma anche al giudizio di Paris, nel senso della città di
Parigi, durante l’occupazione nazista. È questo l’aspetto storico. Inoltre l’uomo tiene in
mano gli occhi di Santa Lucia, perché la sua esistenza è del tutto sensuale: il suo vero
occhio è il suo pene. Questa invece è la testa mozzata di un uomo anziano. È stata
tagliata a metà per una ricerca scientifica e mi è stata prestata da una facoltà di medicina.
Frank Horvat: Ma sei stato tu a disporre le due metà in questo modo?
Inizialmente volevo fare una foto intitolata Storia della Spagna. Quando ho ricevuto la
scatola, non avevo idea se la testa che c’era dentro fosse di un giovane o di un anziano,
di un uomo o di una donna. Avevo promesso di restituirla entro ventiquattr’ore, così ho
fotografato di notte e mi sono alzato all’alba per riportarla indietro. Ma, rimettendo le due
metà nella scatola, le ho casualmente avvicinate, come per un bacio, e ho capito che era
quella l’immagine che cercavo.
Dunque non l’avevi pianificata prima? Avevo questo dubbio: fino a che punto le tue
foto siano pianificate in anticipo e quanto invece dipendano dalla tua reazione a un
fatto imprevisto. In altre parole, se anche per te c’è un attimo decisivo.
Certo che c’è un attimo decisivo! In realtà ce ne sono due: il primo quando la mia
fotocamera registra qualcosa, il secondo quando realizzo la stampa. Le mie stampe non
sono semplici registrazioni meccaniche, ma il risultato finale di una serie di interazioni tra
alcune registrazioni e me stesso. Io disegno sul negativo, lo raschio, ne nascondo alcune
parti. Al momento dello scatto agisco in modo istintivo e istantaneo. La stampa è
un’operazione che mi richiede del tempo e, allo stesso tempo, me ne concede, per
compiere delle scelte estetiche per le quali non ho avuto tempo durante la ripresa. Io
rielaboro l’immagine, la rendo più potente, più misteriosa.
Stavo per chiederti dei graffi. Prima di incontrati, ho riflettuto su quali potessero
essere le ragioni che ti hanno portato a questo procedimento e ho pensato a una
ragione che potremmo definire etica: se tu presentassi i tuoi soggetti in modo
diretto, documentaristico, le immagini risulterebbero ancora meno accettabili per lo
spettatore, intendo dire meno accettabili da un punto di vista etico.
(Ride) Credo che la mia etica consista nel mio atteggiamento nei confronti dei miei
soggetti. Quando fotografo una persona, io fondamentalmente divento quella persona,
anche se per un brevissimo intervallo di tempo. E prima di fotografarli, devo ottenere il
loro consenso, spiegargli le mie intenzioni, convincerli della mia sincerità – anche se la
mia sincerità può sembrare un po’ pazzesca.

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Di solito li ricompenso con una piccola stampa, a volte con del denaro, altre volte con
entrambi. Ma, qualunque sia la ricompensa, ciò che conta veramente – dal punto di vista
etico – è il fatto che io decida di fotografare quella persona e che quella persona decida
di lasciarsi fotografare. Raggiunto questo obiettivo, è come se il resto del mondo
sparisse, non esiste altro se non il qui e adesso dell’immagine e le emozioni – personali o
interpersonali – che renderanno quell’immagine possibile. Io investo tutto me stesso
nell’immagine.
Ed è questo a renderla eticamente accettabile. Ma questo problema non ti ha mai
preoccupato?
Mai realmente. Alcuni hanno criticato il mio lavoro per motivi etici. Rispetto il loro punto
di vista, ma evidentemente non lo condivido. E spesso mi stupiscono. Quando ho
esposto le mie foto in Spagna, la rappresentazione della morte e del sesso non
impressionava la gente, ma rimanevano profondamente turbati dai riferimenti alla
religione. Ho cercato di spiegare che in fondo la mia fede non è molto diversa dalla loro e
che le mie intenzioni non sono blasfeme: cerco solo di visualizzare e chiarire la mia fede a
me stesso. Io fotografo solo ciò in cui credo: se mostro la morte, è perché anche nella
carne morta ritrovo quella potenza della realtà, che nessuno scultore o pittore potrà mai
riprodurre – neanche un Michelangelo o un Leonardo da Vinci. La Pietà o la Vergine delle
rocce, per quanto siano meravigliose, non sono altro che espressione della mente umana,
mentre nella carne dell’uomo, viva o morta, c’è una potenza che proviene direttamente
da Dio. È questo che mi tiene legato alla fotografia, perché mi consente di lavorare con
questo tipo di realtà.
Ma sarai d’accordo con me sul fatto che i tuoi graffi tendono a mostrare questa realtà
in modo meno realistico e quindi forse più accettabile.
In effetti ci sono tre tappe nella realizzazione delle mie fotografie. La prima è quando mi
preparo ad entrare in contatto con il mio soggetto – sia che sia una persona, un
avvenimento o qualcosa che ho visto o letto. La seconda è quando il contatto si realizza,
cioè quando la luce, la disposizione, gli effetti della messa in scena consentono il
realizzarsi dell’immagine. Credo che si tratti di un momento unico, per questo raramente
mi è capitato di scattare più di un rullino. La terza è quella della stampa, che per me vuol
dire visualizzare veramente ciò che avevo appena intravisto attraverso il mirino della
fotocamera. Non voglio fermarmi a questa percezione iniziale, voglio riformularla,
ricrearla. Quasi una espansione del tempo. Inizialmente, nel momento in cui scatto la
foto, c’è un contatto quasi automatico tra il soggetto e la mia coscienza. Tra questo
momento e la camera oscura, può trascorrere una settimana o anche di più, se sono in
viaggio. In camera oscura inizio facendo dei normali provini a contatto e selezionando un
fotogramma. Poi disegno o faccio dei graffi sul provino, per vedere approssimativamente
quale potrebbe essere l’effetto finale. Quindi metto il negativo – quello che ho scelto –
sul tavolo luminoso e comincio a lavorare sull’emulsione. In passato ne ho rovinati diversi,
perché non faccio un segno alla volta e poi controllo l’effetto in stampa, ma li faccio tutti
insieme. A volte mi ci vogliono dieci minuti, a volte un’ora. Quando il negativo è pronto
per l’ingranditore, si direbbe che è rimasto tutto il giorno su una autostrada e che le
automobili ci siano passate sopra. La stampa vera e propria è il procedimento più lento,
generalmente impiego un giorno intero per fare una sola stampa, ma mi è successo di
andare oltre una settimana.

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Se insisto su questa domanda, è perché il tuo modo di lavorare mi incuriosisce. Devo
ammettere che sono sempre stato prevenuto nei confronti delle manipolazioni in
camera oscura e che lo sono ancor di più nei confronti dei soggetti che fotografi.
Nonostante ciò le tue foto mi colpiscono. È questa contraddizione che mi ha fatto
venire voglia di incontrarti. Vorrei capire questa alchimia, secondo cui combini degli
ingredienti che non mi piacciono, per produrre qualcosa che non posso fare a meno
di ammirare.
È come se tu domandassi a un pittore: perché dipingi in questo modo? Tutto quello che
posso dirti è che voglio trasformare ciò che la fotocamera ha registrato in qualcosa di più
potente, come se avessi inventato una macchina fotografica per rimpiazzare la macchina
fotografica originale. Se fossi messo con le spalle al muro, con un coltello alla gola, e mi
costringessero a spiegare quel che faccio, risponderei che cerco, nel modo migliore di cui
sono capace, di articolare una preghiera che esprima la mia meraviglia di fronte alla
Creazione. Il mio lavoro è una sorta di diario, attraverso il quale cerco di chiarire la mia
percezione dell’esistenza, una percezione più cupa di quella dei più, lo so, ma forse non
del tutto priva di umorismo – o di cinismo, se preferisci.
Non considero il mio lavoro come una terapia, non mi faccio illusioni in proposito. Non mi
aspetto dalle mie foto delle risposte, né per me né per gli altri, e forse non chiariscono
proprio niente, ma non sono fatte con l’intenzione di confondere le cose. Esprimono la
mia meraviglia di esser parte della Creazione. Anche se io non creo nulla, il mio punto di
partenza è sempre ciò che fa parte della Creazione.
Ricordo di aver letto una tua intervista in cui citavi san Francesco, che ha composto il
Cantico delle creature in lode di tutta la Creazione, comprese le bestie selvatiche,
che per lui erano simboli di distruzione, e sora nostra morte corporale, da la quale
nullu homo vivente pò skappare. Le tue foto trasmettono lo stesso messaggio: tutto
ciò che esiste – compreso il peggio – deve essere accettato e amato. Questo è
probabilmente ciò che mi commuove.
La spiritualità fa parte del mio background e in questo mi considero molto fortunato. Il
mio lavoro è la mia ragion d’essere su questa Terra, non in quanto fine a se stesso, ma
come scopo della mia anima. A volte ho la sensazione che le mie foto siano più
intelligenti di me. Tutti nasciamo con un dono, uno diventerà un dottore, l’altro un cuoco.
Per me tutto cambia quando vedo l’immagine capovolta in un mirino. È la mia vocazione,
il dono attraverso cui devo redimere la mia esistenza – come Cristo ha dovuto redimere le
altre religioni, per fare qualcosa va oltre loro tutte. La seconda componente del mio
background è l’arte. Quando ero bambino collezionavo riproduzioni di dipinti e sculture,
mentre gli altri bambini raccoglievano figurine di giocatori di baseball. Appena sono stato
abbastanza grande per prendere la metropolitana, sono andato a Manhattan a visitare i
musei. La mia vera famiglia sono sempre stati gli artisti, più che mia madre e mio padre.
Così quando guardo il bacio di queste due mezze teste (J. P. W. ride), con tutta quella
carne che cade a pezzi, ciò che dovrebbe trasparire è la tua partecipazione a questo
bacio – come quando san Francesco abbraccia il lebbroso. Perché se tu non fossi
stato disposto ad accostare le tue labbra a queste labbra corrotte, una fotografia
come questa non sarebbe altro che un gioco perverso.
Sono d’accordo. Tutto dipende dall’intensità. Ogni giorno vedo milioni di cose, ma sono
poche quelle per cui spenderei il mio tempo. Ogni anno vengono scattate miliardi di

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fotografie, ma non sono altro che un disastro ecologico, uno spreco di carta e prodotti
chimici. Ma questa, secondo me, è una buona fotografia. Mi piace relazionarmi con la
morte, per me è la stessa cosa che la vita.
Dici di accettare la morte, ma hai anche detto, in un’altra occasione, di rifiutare il
dolore fisico.
C’è una grande differenza tra il dolore e la morte. È vero che si può morire di una morte
molto dolorosa, ma non penso che la morte sia il grado estremo del dolore: la morte è la
fine della vita e il passaggio a un livello superiore dell’esistenza – e del lavoro. Forse dopo
la morte potremo continuare a lavorare e crescere.
Ma qual è la tua posizione riguardo al dolore? Nelle tue foto c’è molta sofferenza,
subita o auto-inflitta. Quella dell’uomo appeso per i testicoli è una delle immagini più
dolorose che io riesca ad immaginare e probabilmente è questo il motivo per cui l’hai
fatta.
L’uomo appeso per i testicoli non stava soffrendo moltissimo, al contrario provava una
sorta di estasi sessuale.
Ma quando guardo questa foto, quello che mi trasmette è l’idea di un dolore
insopportabile.
Certo, ma io non fotografo chiunque ami il dolore, ma solo quelli che lo usano per
raggiungere uno stato di coscienza al quale non potrebbero arrivare in altro modo. Sono
stato avvicinato da alcuni sadici che avrebbero voluto che fotografassi le persone che
torturano, ma ho rifiutato, perché non condivido i loro intenti. Nel caso di un masochista il
dolore fisico può rappresentare il desiderio di una maggiore consapevolezza di sé, ma
non credo proprio che sia lo stesso per un sadico. Se c’è sofferenza nelle mie fotografie è
perché riflette la mia sofferenza.
Intendi dire che le tue foto esprimono la tua paura del dolore?
No, non ho mai provato vero dolore fisico. Sono stato ricoverato in ospedale solo due
volte: la prima quando sono nato, la seconda per una polmonite, durante il servizio
militare. Una volta ho tentato il suicidio e quella è stata una esperienza veramente
dolorosa – ma più da un punto di vista mentale che fisico. Quello che esprimo nelle mie
foto non è un generico dolore fisico, ma il mio identificarmi con queste persone, il mio
essere partecipe del loro modo di relazionarsi con la loro carne e il loro sangue. Credo
che le nostre angosce dipendano meno da ciò che temiamo per il nostro corpo, quanto
piuttosto dalla paura di ciò che minaccia il nostro spirito e le nostre anime. Io uso la
sofferenza fisica come una sorta di metafora.
Kozloff, in The Privileged Eye, scrive che le tue foto non sono né tragiche né
comiche, ma liriche.
Cosa intende con liriche?
Non ne sono stato del tutto sicuro finché non ho letto la tua affermazione su san
Francesco: Lirico è qualcosa che ha a che fare con l’amore.
Mi viene in mente qualcosa che va a sostegno di quanto dici – e che potrebbe essere una
ulteriore spiegazione dei graffi ai negativi. C’è un legame tra amore e sofferenza, così
come c’è un legame tra amore e odio. Quando si ama totalmente – come san Francesco
amava il lebbroso – non si teme la sofferenza che potrebbe derivarne – così come san
Francesco non temeva il contagio e la dissoluzione del suo corpo nel puzzo e nel
marciume della lebbra. Senza voler paragonare il mio marciume (ride) a quello di un

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santo, vorrei potermi comportare allo stesso modo, in tutte le circostanze della mia vita. E
per applicare questa metafora alle stampe dirette e a quelle manipolate, direi che se san
Francesco si fosse accontentato di abbracciare un lebbroso qualsiasi, meno orribile forse
del lebbroso che aveva immaginato, il suo bacio sarebbe stato come una stampa diretta
(ride). Ma san Francesco voleva conoscere il peggio, doveva seguire la sua strada fino in
fondo, affrontare la sua paura, non una qualsiasi manifestazione di paura, ma la sua paura
più profonda. Doveva scoprire in cosa consistesse la sua paura estrema – che era anche il
suo più grande amore. Non dico che bisogna essere masochisti per avvicinarsi a Dio, ma
dico che non c’e nessuna purificazione e liberazione se non si affronta il rischio estremo di
esplorare il fondo delle proprie paure più grandi.
Così graffiando i negativi aggiungi alle immagini non solo una qualità estetica, ma
anche una etica, perché ti assumi il rischio più grande, cioè quello di rovinarli del
tutto!
È vero che mi è successo di rovinare i negativi di intere sedute di ripresa. Ma questo
ancora non spiega perché io faccia un certo tipo di graffi, proprio in quel modo. Mi capita
di lavorare su una stampa per un giorno intero – o anche per una settimana – provando
tutte le variazioni possibili, ma sapendo benissimo che ce n’è una sola che mi farà dire:
Ecco, è questo quello che volevo! Quello che cerco di fare è di estraniarmi dalla stampa
finita, come se fossi qualcun altro che la vede per la prima volta. Poi, se mi piace, mi dico:
Valgo tanto quanto quest’ultima foto che ho fatto.
Ma un errore può rovinare tutto. Possiamo dire che questo rischio rappresenta, in
qualche modo, una espiazione della tua blasfemia? Non uso questa parola per
biasimarti, ma non posso fare a meno di associarla al tuo lavoro. Alcuni mistici –
credo di averlo letto in Dostoevskij – praticavano la blasfemia per avvicinarsi a Dio.
Naturalmente ciò comportava il rischio di una punizione divina, o in alternativa la
necessità di espiare con una autopunizione.
È un punto di vista interessante. Ma se bestemmio è solo perché è il modo più onesto di
cui io sia capace di creare una immagine dell’amore universale. Probabilmente il mio
spirito non è abbastanza elevato per manifestarsi in modo più puro. So benissimo che ci
sono opere in cui le persone semplici, o i bambini, possono trovare un nutrimento più
consono al loro gusto.
Intendi il kitsch?
Non solo. Anche grandi opere d’arte possono avere questa qualità.
Ma se tu provassi a produrre opere con questa qualità, il risultato sarebbe kitsch?
Non sarei capace di farle, perché il mio lavoro nasce dalla necessità di salire verso la luce,
ma passando attraverso le tenebre. Tecnicamente potrei farlo con facilità, mi basterebbe
disporre degli oggetti in combinazioni carine, o far fare cose simpatiche a persone
simpatiche. Sarebbe come lavorare in automatismo, ma non sarei soddisfatto.
Hai bisogno di esplorare il lato estremo dell’orrore, del disgusto, della sofferenza.
Mi sono sempre sentito così, anche da bambino. Quell’incidente d’auto a Brooklyn,
quando la testa della bambina è rotolata verso di me, ha cambiato la mia vita.
Ciò che mi colpisce è che non ne parli come di un’esperienza traumatica, ma come
una sorta di apparizione.
Per me le cose estreme sono come miracoli. Non c’è niente di più noioso di una persona
per bene. Potrei vivere a mio agio in un mondo pieno di avvenimenti bizzarri,

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destabilizzanti – purché il significato di questi avvenimenti non sia nocivo per le persone
coinvolte. Io opero a partire dal caos per andare verso la chiarezza.
A proposito di confusione, devo ammettere di essere rimasto confuso di fronte ad
alcuni tuoi lavori: Il Crocifisso, per esempio. Quando l’ho visto per la prima volta, in
una galleria di Manhattan, l’ho interpretato come una deliberata bestemmia, una
intenzionale presa in giro della religione. Oggi lo vedrei diversamente e mi verrebbe
di scusarmi con te per questo.
Il Crocifisso mi è costato diversi mesi di lavoro e più di 25.000 dollari. Ma non è questo il
punto. La mia intenzione era quella di creare un’opera che facesse comprendere e sentire
a chiunque la guardi – a prescindere dalla sua cultura e dai suoi riferimenti – cosa
rappresenta la Crocifissione. Devo ammettere che, da questo punto di vista, l’opera non è
del tutto riuscita. Ma d’altra parte, se non l’avessi fatta, non avrei scoperto certe
connessioni – o disconnessioni – tra me stesso e le mie credenze.
Potrebbe esserci un altro fattore all’origine della mia incomprensione e della riuscita
parziale di quest’opera: allo stato attuale, l’unico canale attraverso il quale è
possibile veicolare il tuo lavoro è il mercato dell’arte contemporanea, in cui la
sincerità è l’eccezione piuttosto che la regola. In questo contesto si fa fatica a trovare
la giusta chiave di lettura.
È una giusta osservazione. Quando Il Crocifisso è stato esposto a New York, si è parlato di
espressionismo postmoderno – cosa che non ha alcun senso. Qualcosa di completamente
diverso è accaduto a Madrid: quando gli inservienti del museo lo hanno tirato
fuori dall’imballaggio e trasportato attraverso il sotterraneo verso l’ascensore hanno
spontaneamente intonato un inno religioso. Questo fatto mi ha molto commosso. Ma
passiamo a un’altra stampa. Questa l’ho intitolata La lampada Art Déco. Un giorno mia
moglie mi ha telefonato dalla Florida, dicendomi che aveva incontrato una donna gobba
che conosceva il mio lavoro e che voleva che la fotografassi nuda. Così ho pagato il suo
volo per Albuquerque, l’abbiamo ospitata a casa nostra e presto siamo diventati amici.
Alcuni uomini impazziscono per lei, il suo corpo è qualcosa di unico, come quello di un
extraterrestre. Attraverso la sua schiena, si vedono perfettamente i battiti del suo cuore e
l’aria che circola nei polmoni. È qualcosa di fantastico da vedere.
E la tua foto l’ha aiutata ad accettarsi così com’è – o magari ad amare se stessa?
Credo che amasse se stessa già prima della mia foto. Adesso la stampa più grande si
trova al Whitney Museum, a New York, di fronte alle foto di Diane Arbus. Ma a lei ne ho
regalato una più piccola, che ha venduto perché aveva bisogno di soldi – è stato il mio
modo di aiutarla. Per me lei è bella. L’ho vista nuda solo quando ci siamo trovati in sala di
posa – non le avrei mai chiesto fammi vedere come sei senza vestiti, dolcezza, non è nel
mio stile (ride). Allora le ho detto: Devo fotografarti di spalle. E lei mi ha chiesto: Ne sei
sicuro? Ho detto: È il motivo per cui ti trovi qui. Frontalmente, non saresti tu. E non sarei
neanche io. Ne ha convenuto. (ride)
In questo sei diverso da Diane Arbus. L’ho conosciuta personalmente e la stimavo. Ma
le viene rimproverato d’aver ingannato le persone che fotografava, perché prendeva
da loro cose diverse da quelle che loro pensavano di concedere.
Quello che cerco di realizzare è una collaborazione tra il loro immaginario ed il mio.
Naturalmente loro non sanno ciò che io vedo nel mirino, ci sono delle distorsioni che loro
non immaginano neanche, soprattutto con la mia vecchia Rollei. Ma gli faccio sempre

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vedere le stampe. E, come ho già detto, non mi occupo del dolore in quanto tale, ma
sempre come percorso verso una chiarificazione. Lo stesso non si può dire delle foto di
Diane Arbus, perché esprimono solo il suo immaginario che proietta sulle persone che
fotografa. Anch’io ho fotografato i fenomeni da baraccone nei cosiddetti freak show – in
realtà è da lì che ho iniziato. Li trovavo talmente più interessanti delle persone che
stavano lì a guardarli, più meravigliosi, manifestazioni in carne ed ossa di qualcosa di
unico. Il mio dono è quello di rapportarmi al dolore e alla sofferenza con la
consapevolezza che in loro c’è una sacralità. Anche l’uomo che vedi in quest’altra foto si
confronta con il dolore. Il suo è un rituale di origine indiana e la cerimonia si svolge nel
suo garage, dopo un periodo di digiuno. Quando è pronto viene sospeso attraverso la
sua carne con un sistema di ganci e manovelle. Ha cominciato a bucare la sua pelle a
dodici anni, non glielo ha chiesto nessuno, è una sua volontà.
Prova molto dolore?
Non soffre affatto: è in estasi, è una forma di meditazione. Se hai i buchi alle orecchie non
provi dolore quando indossi degli orecchini.
Ma per me, spettatore, l’immagine è quasi insopportabile.
(Ride) Davvero?
Ma è questo il motivo per cui hai fatto questa foto! L’insopportabile è una delle
componenti chiave del tuo gioco.
Non lo definirei un gioco. Il mio intento è quello di esplorare le mie reazioni – ed anche le
reazioni degli altri.
Ma è insopportabile anche per te?
Ne sono affascinato. Quest’uomo mi ha concesso non solo l’opportunità di essere
testimone del suo rituale ma anche di esserne partecipe, nel senso religioso del termine:
non che io viva sulla mia carne e nel mio spirito ciò che vive lui, ma fino a un certo punto
ne sono partecipe.
Come i cristiani davanti alla Crocifissione.
Sì, se la Crocifissione viene vista come un simbolo e la conoscenza di questo simbolo
implica una crescita di chi lo guarda. No, se si crea confusione tra spettatore e ciò che
viene mostrato.
Per me, che non sono cristiano, ciò che mi trasmette l’immagine della Crocifissione è
l’idea di un dolore insostenibile. Soprattutto mi colpiscono i chiodi che trafiggono le
mani e i piedi – anche se ho letto da qualche parte che i chiodi non erano la parte più
dolorosa del supplizio e che in alcuni casi non venivano neanche usati: il condannato
veniva legato con delle corde e lasciato morire per lento soffocamento. Comunque
sia, ciò che fa scattare il mio sentimento di partecipazione sono i chiodi, e nel caso di
questa foto sono gli uncini attaccati al petto.
È possibile. Ma perché questa immagine sia significativa e potente, perché riesca a
condurre lo spettatore ad uno stato di consapevolezza, bisogna che ci sia qualcosa che
vada oltre l’aspetto documentaristico.
E cos’è questo qualcosa?
Il fatto che l’abbia resa esteticamente interessante. Non cerco di spaventare lo spettatore,
ma di aprire la sua mente al mistero che gli presento. Sta qui l’etica delle mie foto – per
usare la tua parola. Per catturare la sua attenzione e fare in modo che si soffermi
sull’immagine non basta scioccarlo o inorridirlo.

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In altri termini: redimi l’insostenibilità della sofferenza attraverso la bellezza. Siamo
tornati all’idea della redenzione.
Magari non redenta dalla bellezza, ma semplicemente resa più accettabile da una forma
che rassicura lo spettatore. Quanto al dolore, è come una maschera che, finché stiamo
bene, ci impedisce di vedere il disfacimento a cui siamo destinati.
È per questo che sei così affascinato dalle maschere?
Anch’io me lo sono chiesto. La maschera nasconde qualcosa a cui la gente da molta
importanza: i loro volti e le loro espressioni.
Vuoi dire che i loro volti e le loro espressioni traggono in inganno? E che per evitare
questo inganno li nascondi sotto delle maschere?
Esattamente. Mascherarsi è anche un modo comune per camuffare o annullare la propria
identità, mentre, se indossi una vera maschera, la tua identità e il tuo carattere sono
esplicitamente dichiarati. Insomma io uso le maschere per fare chiarezza. Voglio invertire
le funzioni, come inverto i riferimenti della storia dell’arte.
Nascondi la maschera metaforica mettendone una fisica sui loro volti!
Giusto. A volte lavoro con attori teatrali, che hanno una forte caratterizzazione, e
occasionalmente questa funziona bene per quello che voglio fare. Ma la maggior parte
delle volte non è così ed esprimono il contrario di quello che vorrei dire. È come se
qualcuno volesse prendere un autobus per andare in un posto, ma il percorso del mezzo
è stato cambiato a sua insaputa e alla fine si ritrova dove non voleva andare.
Mi fa pensare al Cane-Cornucopia, che per me è una delle tue foto più forti e
angoscianti, probabilmente proprio a causa dell’ambiguità tra espressione e
maschera. A prima vista l’espressione del cane induce a credere che sia vivo, mentre
l’apertura del suo stomaco dimostra che non può essere vivo e che ciò che avevamo
interpretato come un’espressione è solo una maschera.
(Ride) Volevo fotografare un cane che avesse subito una autopsia, così ho chiesto ad un
amico veterinario di procurarmene uno, della taglia di un pastore tedesco e non troppo
scuro, perché venisse bene in foto. Una settimana dopo mi ha telefonato per dirmi che ne
aveva uno disponibile e che potevo andare a prenderlo. Aveva un aspetto orrendo, con
gli occhi chiusi e una ferita aperta al posto dello stomaco. Ma avevo lavorato con
fotografi specializzati in fotografia medicale, a New York, e avevo imparato qualche cosa,
per il resto ho improvvisato. Prima di iniziare a fotografare, a volte pianifico il lavoro,
facendo piccoli schizzi che mi guidino, sapendo benissimo che ciò che conta realmente
succederà per caso. È come con una lingua: anche se la conosci molto bene, ciò non vuol
dire che sei in grado di scrivere una poesia.
Ciò che rende tale una poesia è l’inatteso.
È inatteso, ma sai che è lì, davanti a te, ad aspettarti. E per andargli incontro, devi essere
disposto a correre dei rischi: il tuo sapere è frutto dei rischi che prendi.
Tutta la fotografia ruota attorno a questo concetto.
Tutta la vita dovrebbe ruotare attorno a questo concetto. In questo caso le cose sono
andate così: ho fotografato il cane e ho fatto anche una buona foto, ma non era ancora il
Cane-Cornucopia. E, proprio come per il Bacio, potevo tenere l’animale solo per
ventiquattr’ore. Durante le ultime due ore, ho avuto l’idea della ferita come una
cornucopia. Ho frugato nelle mie tasche e ho trovato circa due dollari. Ma è tale il mio
rispetto per ciò che fotografo, vivo o morto che sia, che non potevo andare in un qualsiasi

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supermercato (ride). Ho trovato un negozio di alimenti biologici, ho comprato due dollari
di frutta e verdure e li ho disposti nella ferita. Ho anche aperto e fermato gli occhi, poi ho
applicato un po’ di olio minerale sul muso, per farlo tornare umido, e ho raddrizzato la
testa. Era una bellezza! Se qualcuno fosse entrato nella stanza in quel momento avrebbe
visto esattamente quello che vedi nella foto, qualcosa di vivo e disfatto allo stesso tempo,
intriso di riferimenti opposti: morte e vita, vita e putrefazione, putrefazione e nutrimento,
nutrimento e morte.
La mia prima associazione di idee è sofferenza, perché il cane sembra vivo.
Anche questo è interessante. L’altro mestiere che avrei potuto fare – se fossi stato più
obiettivo – è il medico. Se mia madre fosse stata ebrea sarei un medico (ride). Posso
lavorare con storpi, malati o essere deformi perché, quando li guardo, la mia idea è quella
di guarirli – non fisicamente, ma per mezzo di associazioni estetiche. Senza di me, questa
carcassa di cane sarebbe stata bruciata il giorno dopo e la testa mozzata sarebbe rimasta
nel suo barattolo. È il mio lavoro che li ha fatti rivivere, dandogli un senso che non
avrebbero avuto senza di me. Ho usato un altro cane morto per questo bestiario che ho
assemblato in una piccola città vicina a Madrid, e che io chiamo bruja (strega). Il pesce
l’ho preso al mercato, le ali di corvo vengono da qui, dal Nuovo Messico, la coda e le
corna sono di una mucca. Avevo portato con me anche un volto femminile e un paio di
seni.
Veri?
(Ride) Di cera, ma splendidi! Mi ero fatto chiudere in una stanza di un mattatoio e avevo
detto che non ne sarei uscito finché non avessi finito. Pensavo che ci sarebbero volute
circa otto ore, ma ero preoccupato perché il cane cominciava a puzzare. Ero
completamente digiuno, perché mentre digerisco ho difficoltà a pensare, ma mi avevano
dato una bottiglia di vino e un’altra vuota, per pisciarci. Avevo un’ottima sega
giapponese, comprata a New York, e coltelli affilati adatti a tagliare gli intestini. Quando
ho aperto il cane, la puzza era tale che ho dovuto proteggermi con una mascherina. È
stato un inferno, mi faceva pensare ai campi di concentramento e alla tortura. Ma avevo
deciso di vivere fino in fondo quell’esperienza di smembramento e di morte, di lacerare
quella carne morta, per potervi infondere una nuova vita. Mentre segavo la testa del
cane, la sega ha colpito il nervo ottico, gli occhi hanno reagito e mi hanno guardato (ride).
Mi ci sono voluti quindici minuti per segarla, la carne può essere coriacea. Così ho messo
al cane il volto di donna, poi ho forato il cranio e ho inserito un’asta nel collo, perché la
testa rimanesse dritta. Non pensavo, ero in una sorta di stato d’animo estraniato. Infine
ho piazzato le ali su entrambi i lati del viso e ho sistemato l’espressione: il cane, ormai
umano, sembrava guardare lontano. Ho fatto un paio di scatti e ho bussato alla porta.
Erano le tre del mattino e il guardiano dormiva. Gli ho detto solamente: Ho finito. Mi ha
aiutato a raccogliere i pezzi, a infilarli in sacchetti di plastica e pulire la stanza. Tornato a
Madrid, ero troppo eccitato per andare a dormire e sono andato al Prado. Davanti al San
Sebastiano ho cominciato a sanguinare dal naso – è una cosa che mi capita quando sono
esausto (ride). L’addetta del museo mi ha detto: Lei sta sanguinando. Avrei voluto aiutarla
a pulire, ma mi ha detto: Se ne vada. Così sono tornato in albergo e ho dormito per
dodici ore filate.
Devo ammettere che non è tra le fotografie che preferisco.

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Non ti piace? D’accordo, andiamo avanti. Questa bambina aveva quattro anni quando
l’ho fotografata. Ho intitolato la foto Nudo con maschera, e non Bambina con maschera,
perché non la vedo come una bambina. Lei è calda, sarà la prossima Marilyn Monroe.
Questa, per una volta, è una stampa diretta, senza manipolazioni.
Lo sembra, ma in realtà è molto manipolata. Ho usato una carta con una emulsione
diversa che da un effetto argentato, molto francese, quasi come una stampa al platino. La
trovo molto poetica: l’ovale da la sensazione di guardare attraverso un minuscolo buco di
serratura, pensato per l’occhio di un cazzo. Così quando la si guarda si è delle teste di
cazzo (ride). Anche questa foto è molto interessante. È ispirata ad un quadro del
Metropolitan Museum: Marcantonio Pasqualini incoronato da Apollo di Andrea Sacchi.
Quest’uomo si pianta dei chiodi nelle mani, con un martello. Ed anche nel pene.
Lo fa per soldi o per piacere?
Entrambi, fa parte di un gruppo sadomaso. Se si usa una punta di acciaio molto
acuminata, si può bucare la pelle senza sanguinare – purché non vengano toccati vasi
sanguigni. È in questo modo che lo fa. Mentre lui si preparava (ride), sono andato a
vedere la donna, che è austriaca e dominante, e che si stava cambiando in camerino. Mi
piacevano la sua maschera e gli stivali, ma avevo dei dubbi sulla cavezza, così le ho
chiesto se poteva evitarla almeno per la prima foto. Ma lei ha ribattuto con il suo marcato
accento tedesco: Se tolgo la cavezza non sono più una dominante, sono una sottomessa.
Così mi sono sottomesso io e le ho concesso di tenerla (ride). Il più grande desiderio del
terzo personaggio era sempre stato quello di diventare donna. Si è fatto crescere questi
piccoli seni prendendo degli ormoni e, due mesi prima, si era tagliato i testicoli con una
lametta e poi ha chiamato un’ambulanza, perché non poteva permettersi l’intervento
chirurgico. Li avevo incontrati la sera prima in un club sadomaso e li avevo convinti a fare
questa foto. Quando era tutto pronto, questo qui mi ha detto: Signor Witkin, preferirei
che il mio coso non si vedesse, può fare in modo che sia nella foto senza che si veda? Gli
ho urlato: Porta il tuo culo sul set! e lui si è comportato da sottomesso, anche con un
certo piacere. A quel punto ha cominciato a lamentarsi quello che doveva infilarsi la punta
nel cazzo, dicendo che non poteva riuscirci. Gli ho gridato di farlo e basta. Ero piuttosto
nervoso, perché avevo lavorato tutta la notte per preparare tutto.
Non avevi assistenti?
Ero solo con quei cinque. Così ho afferrato il martello, ne ho dato un colpo sul tavolo e ho
urlato: Te lo infilo io! (ride) Non avrei mai potuto immaginare che quel giorno avrei potuto
davvero crocifiggere il cazzo di un tizio! Ma è una bella fotografia, non vedo l’ora di
stamparla più grande. Tuttavia devo ammettere che anche per me sarebbe duro
guardarla durante la colazione, ma andrebbe molto meglio la sera (ride). Quest’uomo ha
perso le mani nella Guerra di Corea. Anche questo è stato un incontro straordinario,
perché quando non si hanno le mani è difficile lavarsi e lui non era pulito. Sono stato
costretto a spogliarlo io, è stata un’esperienza straordinaria, e quando abbiamo finito ho
dovuto rimettergli i pantaloni. Faceva davvero cattivo odore. Per firmare la liberatoria ha
preso la penna con la bocca – ma ho bisogno delle liberatorie. Ed ecco Las Meninas, che
mi è stata commissionata dal Governo spagnolo. Mi ci sono volute cinque settimane per
mettere insieme tutti gli elementi dell’immagine, ma bisognava che ci fossero tutti. La
bambina non ha le gambe, i suoi moncherini non sono un dettaglio che si nota subito, ma
sono loro che rendono bella l’immagine, così fuori dal tempo e intrisa di dolore. Per tre

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settimane ho creduto che i genitori della bambina fossero d’accordo che lei venisse in
aereo, ma poi hanno telefonato e mi hanno detto: Dipende da lei, noi non possiamo
decidere per lei. Per fortuna alla quarta settimana si è convinta – se non lo avesse fatto mi
sarebbe toccato cercarne un’altra. E ci sono anch’io nei panni di Vélasquez (ride). È stata
mia moglie a scattare la foto, mi sono fidato di lei e lei ha colto le espressioni giuste.
Abbiamo scattato solo un rullino, ma la foto è costata cinque settimane di lavoro e circa
mille dollari.
 Questa sembra una bambola rotta.
Non è una bambola, è un essere umano. Non ha né braccia, né gambe, né pelle. Le
fasciature servono ad evitare che si disidrati e il suo pene sembra che sia stato bruciato.
Non ha il mento?
Né mento, né orecchie, né palpebre: i suoi occhi sono sempre aperti.
Come comunicavi con lui?
È molto intelligente. Ha trentacinque anni ed vittima della talidomide. Mentre firmava la
liberatoria con la sua protesi, mi ha detto: Qualsiasi cosa tu faccia, Joel, fai in modo di
farmi apparire come un vero essere umano. È sempre sotto analgesici. Vive a Los Angeles
con due tossicodipendenti, che ogni giorno cambiano le sue bendature e in cambio
condividono i suoi medicinali.
Guardare il tuo lavoro è come fare un viaggio attraverso l’inferno. Lo vedi anche tu in
questo modo?
Helmut Newton fa foto molto interessanti con della bella gente. Io invece fotografo gente
strana, ma cerco di vederla con compassione. In questa foto in particolare è tutto vero: ho
usato solo la luce ambiente e non ho cambiato nulla nella stanza, tranne il drappo di
velluto che ho messo sul divano. Un assistente reggeva il coltello a mezzaluna, in modo
che sembrasse che attraversasse la testa, e ho aggiunto la freccia, che avevo trovato in un
negozio di giocattoli di Hollywood. La testa è un manufatto messicano e viene da
Albuquerque: rappresenta il centurione che ha trafitto il costato di Gesù. Il ramo l’ho
trovato nella mia camera d’albergo, ma lo avevo sbiancato con un prodotto chimico
perché ricordasse una corona di spine.
Dici che in questa foto è tutto vero, ma hai usato tutti questi orpelli perché sembri
meno reale. Probabilmente perché una fotografia realistica di questo essere – non
riesco a dire questa persona – sarebbe ancora meno accettabile.
Sarebbe una fotografia di documentazione clinica.
Ma che effetto ha avuto su di te questo incontro? Sei riuscito a dormire la notte
seguente?
Ero affascinato. La prima volta che sono andato a trovarlo, era sotto analgesici, tutto
quello che sono riuscito a vedere, attraverso la porta aperta, è stata la sua piccola testa
sul divano. Uno dei due ragazzi mi ha detto: Dorme, torni più tardi. Sono dovuto tornare
quattro volte per convincerlo a lasciarsi fotografare: non si fidava perché per tutta la sua
vita era stato sfruttato nei freak show. Gli ho mostrato dei disegni e delle foto, gli ho
illustrato il mio lavoro, gli ho promesso una stampa – o 200 dollari, se preferiva. Mi ha
detto: Prendo i dollari.
A prima vista mi era sembrato un oggetto inanimato – al contrario del Cane-
Cornucopia, che mi era sembrato vivo. Depistare lo spettatore è un tratto

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significativo del tuo modo di lavorare: parti dalla confusione – come hai detto – per
andare verso una chiarezza.
Io lo chiamo Un Santo Oscuro. In paesi come la Spagna, alcuni ecclesiastici si facevano
ritrarre come martiri. Quando ho visto quest’uomo per la prima volta, era su una sedia a
rotelle motorizzata, con un cappellino da baseball in testa e una ciotola ad una protesi,
per chiedere l’elemosina, ed un’altra nell’altra protesi per la cenere delle sue sigarette.
Quando è a casa, si imbottisce di analgesici e dorme. Per me è come il lebbroso che
scende in strada – o come un santo. Non volevo fare una foto documentaria, volevo
mostrarlo come un essere che è stato purificato dalla sua sofferenza.
La parola che mi viene in mente è trasfigurazione.
Ma questo incontro ha cambiato anche me. Non ho avuto incubi, ma l’emozione per aver
realizzato questa immagine mi ha tenuto insonne per diverse notti. Non riesco a pensare
a lui come ad un amico, ma è stato partecipe nella creazione di un’immagine che è allo
stesso tempo potente, bella, pazzesca, brutta e atroce. Io ci vedo più spiritualità che nel
mio Crocifisso, perché è fatta di carne e sangue veri, non inventati. Quello ho dovuto
inventarmi è stato il modo più efficace per enfatizzare questa realtà.
E non c’è stato bisogno di una maschera, perché l’orrore e la bellezza di questo viso
sono tali che è già una maschera. Ma le persone che vedono questa foto lo
riconoscono come un essere umano?
Il primo istinto è quello di proteggersi, quindi lo vedono come un manichino. Ma se si
guarda con attenzione, per cinque minuti, ci si rende conto che è un essere umano, si
notano gli occhi, il pathos, i dettagli, le cicatrici. Quando ho messo il negativo
nell’ingranditore e ho visto la foto proiettata, anche in negativo, ho capito subito che era
un’immagine straordinaria. Poi si è trattato solo di lavorare al meglio sulla pellicola
secondo il mio modo di procedere, aggiungendo ritocchi e graffi. Alla fine il negativo era
talmente graffiato che ho temuto di avere intaccato la faccia o di aver cancellato gli occhi.
E avevi un solo negativo?
Uno solo: l’ultimo del rullino. Di solito è il primo o l’ultimo. Come è giusto che sia (ride).
Albuquerque, Nuovo Messico, giugno 1989

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Marc Riboud: lo sguardo del bambino, il rigore di una tecnica

Questa intervista è stata realizzata da Frank Horvat e fa parte del libro Entre Vues, una
serie di conversazioni con alcuni tra i più importanti fotografi del ‘900. La versione italiana
è pubblicata per la prima volta su Maledetti Fotografi.
Marc Riboud: La mia prima reazione all’idea stessa di quest’intervista è stato un rifiuto di
parlare di fotografia. Perché discutere e commentare un processo che è essenzialmente
una reazione spontanea davanti ad una sorpresa? È una cosa che non si analizza. Oppure
bisognerebbe discutere lungamente sull’importanza della sensibilità di ciascuno nella sua
reazione davanti a questa sorpresa. Ma io non sono uno psicologo e parlare troppo di
fotografia mi infastidisce. D’altra parte, e in apparente contraddizione con ciò che ho
appena detto, sento sempre più l’interesse di precisare il mio pensiero. Noi non siamo
delle macchine, dietro questa macchina di cui ci serviamo: pensiamo prima di scattare
una foto, pensiamo – molto poco – mentre la scattiamo, e dobbiamo pensare dopo averla
scattata. È importante formulare questo pensiero, affinché non resti una nuvola vaga e
cangiante a secondo del nostro umore e quello degli altri. Dunque mi dico che forse è
bene forzare un fotografo ad esprimere il suo pensiero. E non mi dispiace trovarmici
forzato.
Frank Horvat: Restiamo concreti. Quando dici che hai esaminato le tue foto degli
ultimi trentacinque anni e ne hai scelte cento per una mostra, non posso fare a meno
di pensare alle venti o trentamila che non hai scelto. Eppure sono foto il cui soggetto
ti interessava. Possiamo analizzare i criteri che ti hanno fatto scegliere queste
piuttosto che altre?
È chiaro che il soggetto, da solo, non basta. Ho fotografato migliaia di soggetti
interessanti, ma che non hanno sempre prodotto buone foto.
D’altra parte, diresti che una foto può essere buona senza che il soggetto sia
interessante? Per esempio la foto di copertina del tuo catalogo?
Direi che se non c’è un buon soggetto si cade facilmente nell’estetismo. Questa foto in
particolare è stata criticata, alcuni la considerano una nota stonata nella mostra. Io però ci
vedo non solo una ricerca formale, ma un misto di intimità e di distanza, che riflette il mio
modo di lavorare. Ed anche un certo pudore, benché la foto mostri una donna nuda. Per
me, il soggetto esiste: è la casa di Anna Farova, che è una mia cara amica. Le cartoline
postali sul caminetto sono segni importanti. Isabelle, la figlia di Anna, tiene in mano il
Photo-Poche di Cartier-Bresson, che le avevo appena portato. Si vede pure un libro, Les
Résonances de l’Amour, un regalo di Anne Philipe ad Anna Farova, poi una cartolina
postale della Sicilia inviata da Martine Franck, su cui si legge Santa Anna, e un’altra
cartolina con il logo della mostra organizzata da Anna Farova a Plassy. È tutto il giardino
segreto di una donna importante per me, una donna coraggiosa, che lo ha dimostrato del
resto in occasione del movimento Charta 77. Certo che, per un verso, questa foto è
diversa dalle altre. Ma contiene un denominatore comune a tutte le mie foto: un
approccio naturale, senza angolazioni strane, senza effetti tecnici o di luce. Una distanza,
ma allo stesso tempo una tenerezza visiva.
Se dovessi scegliere una foto che ti rappresenti, potrebbe benissimo essere questa.
Ci vedo effettivamente il ritratto di un’intimità. Ma soprattutto un rapporto visivo fra
tre elementi. Se tolgo il gatto, coprendolo con la mano…

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… la foto non funziona più.
Ed è lo stesso per il nudo e per la statuetta.
Bisogna che un insieme si organizzi dal punto di vista visivo. Comunque c’è una cosa che
mi disturba: il libro, sono stato io a metterlo là, perché è un libro che amo molto. È stato il
mio unico intervento – a parte il nudo, naturalmente: mi avevano chiesto un nudo, per
una raccolta, e siccome non ne avevo, ho chiesto a Isabelle di posare. Qualcuno ha detto
che le mie foto non sono mai centrate su un elemento solo. Non c’è mai un soggetto
principale, come un primo piano o un personaggio – ma l’occhio è invitato a vagare per
l’immagine. In origine, questo deriva certo dalla mia timidezza, ma un altro lato del mio
carattere è il mio debole per la geometria…
Cerchi delle coincidenze.
Non mi piace la parola coincidenze, fa pensare al caso. Come quelli che fotografano tipi
strani che passano sotto manifesti altrettanto strani. Io cerco relazioni nello spazio, tra
elementi che interagiscono, in modo che l’insieme dica qualcosa. Una sorpresa visiva, con
un’organizzazione della forma.
Lo spettatore deve rimanere sorpreso, ma, allo stesso tempo, avere la sensazione che
ciò che lo sorprende fa parte di un ordine.
Come per tutti i mezzi espressivi. In Proust, si passa di sorpresa in sorpresa, ed allo stesso
tempo la sua prosa è una magnifica creazione stilistica, una vera musica. La fotografia è
un mezzo espressivo minore o marginale, ma eccitante – ed è soggetta alle stesse
esigenze.
Era considerata minore o marginale quando siamo diventati fotografi. Forse è questo
che ci ha preservato da quella malattia tipica del nostro tempo, che è l’ossessione
dell’originalità. Non ci chiedevano originalità, eravamo come su delle rotaie, in un
sistema che sembrava destinato a durare. Non dovevamo nemmeno interrogarci sulla
fotografia, bastava aprire Life, o guardare il lavoro di Henri (Cartier-Bresson), di
Robert Capa o di Eugene Smith. Soprattutto nel tuo caso: tu sei diventato fotografo
come si diventava pittori nel Rinascimento, eri l’allievo di Henri e il tuo lavoro non
mostra nessuna intenzione di distinguerti da lui. Eppure questo non ti ha impedito di
produrre un’opera diversa, inconfondibile, interamente tua. Son sicuro che allora tu
non ti ponevi grandi domande sulla fotografia, volevi solo essere un testimone di
quello che succedeva nel mondo…
No, non ho mai voluto essere un testimone. Direi piuttosto ho girato per il mondo – o
meglio attorno al pianeta. Non bisogna lasciarsi trasportare dai grandi discorsi, le cose
sono più semplici. È vero che il mio inizio è stato lento. Ero intimidito dall’ambiente della
Magnum e particolarmente dalle personalità di Cartier-Bresson, Capa e Chim, che per me
erano cariche di significati e di insegnamenti. Mi sembrava che ci fosse una gran distanza
tra loro e me: io non sapevo viaggiare come loro, non conoscevo nulla del
fotogiornalismo. Ma, allo stesso tempo, avevo un forte istinto d’indipendenza. La mia
prima decisione, dopo essere stato accolto nella Magnum, è stata di lasciare Parigi e la
Francia per due anni. Ho avuto pochissimi contatti con gli altri fotografi. Conoscevo un
po’ il loro stile, che non era solamente un modo di fotografare, ma uno stile di vita. Come
dici, l’idea di distinguermi dagli altri, attraverso quella che oggi viene chiamata una
personalità fotografica, non mi sarebbe venuta in mente. D’altra parte nessuno utilizzava
questo termine. Quando ci capitava di incontrarci, non parlavamo delle belle foto che

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avevamo fatto, ma dei paesi visti, dei personaggi incontrati. Ci scambiavamo indirizzi,
nomi di bar, ci raccontavamo le nostre avventure. È vero che Cartier-Bresson e certi altri
avevano tendenze pedagogiche, direi anche moralizzatrici. Inconsciamente esercitavano
una pressione morale, non solo sul lavoro fotografico, ma anche sul resto, perfino sul
modo di sistemare gli apparecchi nella borsa. E poichè li rispettavo, mi lasciavo
influenzare, cosa che oggi non rimpiango. Ma avevo anche un istinto di ribellione, come
lo avevo avuto rispetto alla mia famiglia, quando mi ero unito ai partigiani o quando ho
lasciato il mio lavoro di ingegnere.
E in seguito? Dopo gli anni Sessanta? Per molti di noi, è stato un periodo di
incertezza. I fotografi della Magnum si sono sistemati, ciascuno nel suo circuito e
nella sua specializzazione. Riviste come Life sono scomparse. Non c’erano più tribune
per testimoniare, e forse anche meno motivazioni.
Non direi. E comunque non mi piace la parola testimoniare. Negli anni Sessanta, volevo
andare in Vietnam, non per un qualche ideale di fotografo impegnato o per riportare una
qualunque testimonianza, ma semplicemente per la curiosità di vedere da vicino quello
che tutti commentavano da lontano. Bisogna aggiungere che, in quell’epoca, era difficile
non provare simpatia per i vietnamiti, che tenevano duro sotto le bombe americane. La
simpatia, dopo tutto, aiuta a comprendere più dell’indifferenza, o di quella pretesa
obiettività che si sbandiera in tutte le occasioni e che di fatto non esiste, né in fotografia
né altrove. E man mano che comprendevo meglio questo paese, sentivo più forte, e più
spesso, la voglia di tornarci. Per vedere da vicino quello che succedeva, come ora ho
voglia di tornare spesso nel nuovo museo di Houston, al quale mi sono appassionato. Mi
frulla continuamente per la testa. Certi luoghi sono come degli amici, si ha voglia di
rivederli, di sapere come cambiano, quello che diventano. Negli anni ´60 e ´70 sono stato
spesso in Cina, in Vietnam, in India, dove avevano luogo avvenimenti importanti. Per me
era naturale tornarci, senza chiedermi prima che cosa avrei trovato. Non si possono avere
idee preconcette sulle proprie sorprese.
A proposito di idee preconcette e di sorprese: tu hai appena fototograto il processo
a Klaus Barbie, un avvenimento che ti riguarda da vicino, essendo di Lione e avendo
partecipato alla Resistenza. Gli hai fatto un ritratto in cui ha l’aria di un vecchio
signore molto gentile
Sì. Un vecchio signore cortese, dolce, riservato. What a gentleman!, esclamò Cornell
Capa vedendo le mie foto. Uno lo avrebbe invitato a casa o lo avrebbe assunto come
precettore per i propri figli. Quando invece era il peggiore dei sadici e degli aguzzini. È
stata davvero una sorpresa vedermelo davanti, a due metri da me. Durante il processo,
ho anche fotografato un altro personaggio importante, l’unico testimone sopravvissuto
della deportazione dei bambini d’Izieu. Si chiama Julien Favet, è un analfabeta, ex
garzone di fattoria. Un tipo orrendo, con un occhio rosso che sembra uscire dall’orbita, la
bocca deforme, uno che farebbe paura a chiunque. Ho trascorso due ore a casa sua e ho
scoperto un uomo di una straordinaria purezza, in rivolta contro l’ingiustizia, animato da
un vero culto per la verità, anche per dettagli come la pietra su cui era seduto quando ha
visto Barbie. Ricorda tutto come fosse stato ieri, con quella memoria visiva propria delle
persone che hanno la mente poco occupata. In effetti, per me è stata un’esperienza visiva
appassionante.

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Ma qual è il rapporto tra le tue foto e ciò che consideri la realtà? Non ti preoccupa
questo? In fin dei conti c’eri andato per mostrare una realtà.
No di certo! Credersi portatori di una testimonianza è una fesseria. Una foto non è più
importante che una frase detta da uno sconosciuto su un autobus. Noi fotografiamo solo
dettagli, piccoli frammenti del mondo. Questo non implica un giudizio, anche se
l’accumulazione di questi dettagli sembra corrispondere a un punto di vista.
Non ne sono convinto. Mi ricordo di una foto fatta da Elliott Erwitt nel 1960, durante
la campagna elettorale tra Kennedy e Nixon. Ci si vede Nixon in visita a Mosca, che
alza il pugno sotto il naso di Khrouchtchev, senza dubbio nel calore di una
discussione. Tirata fuori dal suo contesto, la foto sembra dire che Nixon sarebbe
stato l’uomo capace di tener testa ai sovietici, ed è in questo senso che è stata usato
e che ha quasi fatto vincere le elezioni a Nixon. Alla Magnum si mordevano le mani,
Elliott per primo. Ma potrei citarti altri esempi, anche tra le tue foto. Tu hai mostrato
la Cina della Rivoluzione Culturale…
No, appunto! Non sono nemmeno stato in Cina durante la Rivoluzione Culturale, ci sono
stato solo prima e dopo. È vero che alcune foto fatte prima sono state pubblicate durante
la Rivoluzione, e tu vuoi probabilmente dire che mostrano la Cina di quell’epoca con
simpatia. Ma se le riconsideriamo oggi – Claude Roy, che conosce bene la Cina, lo dice –
ci accorgiamo che mostrano la durezza del regime. Ed in ogni caso, un dettaglio
fotografato non prova una verità generale. Se ho fotografato una donna nuda in Cina,
questo prova solo che, su un miliardo di cinesi, c’è stata una donna che s’è lasciata
fotografare nuda, in un’accademia di Belle Arti, a Pechino, nel 1957. Evidentemente
l’abuso di un tale dettaglio, da parte della stampa, può alterare il vero volto di un
insieme. Spetta a noi fare il possibile per evitarlo.
Torniamo a Barbie. Eri di fronte a lui. Sapevi chi era. Udivi le testimonianze sulle sue
atrocità. Nel tuo mirino, vedevi un vecchio signore gentile. Cosa ti sei detto?
Non mi son detto niente. Non mi son neanche reso conto che aveva un’aria gentile. È
stato dopo, guardando le foto, che ho visto e scoperto molte cose. Sul momento, il
problema principale erano gli spintoni degli altri sette o otto fotografi. Dovevo fare foto
in bianco e nero e a colori, primo piano e vista d’insieme. Sapevo che avrei avuto solo
dieci minuti, e mi ero detto che per non perdere tempo a ricaricare, avrei avuto bisogno
di sei o sette corpi macchina. E siccome ne possiedo solo quattro, me ne sono fatto
prestare due supplementari, solo che mi hanno dato gli ultimi modelli, a cui non ero
abituato. Così ho agganciato male le pellicole, e mi son reso conto all’improvviso che non
avanzavano. Dunque sono andato a riavvolgerle, in un angolo, cercando di restar calmo,
mentre vedevo gli altri che mitragliavano. Tutto questo è successo molto rapidamente,
non ho avuto il tempo per una riflessione estetica o morale. Solo uscendo dal Palazzo di
Giustizia ho realizzato che quell’uomo così dolce, che avevo fotografato così da vicino,
era lo stesso che, quarantaquattro anni fa, aveva ammazzato o fatto ammazzare alcuni dei
miei amici e parenti più prossimi.
Forse quello che ti ha salvato è proprio il fatto di non avere avuto il tempo di
riflettere. Penso ad un esempio opposto, il ritratto di Krupp, fatto da Arnold
Newman con un grandangolo molto deformante. Newman spiega che questa
deformazione fu intenzionale, per rendere il carattere diabolico del personaggio. A
parer mio, l’effetto è mancato, la forzatura toglie ogni credibilità all’immagine.

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Io credo che bisogna mostrare semplicemente quello che si scopre, cercare di ritrovare lo
sguardo dell’infanzia. Solo i bambini vedono veramente, senza idee preconcette.
Dunque, se hai finito per produrre un’opera coerente, è perché hai registrato
semplicemente ciò che scoprivi.
Ho passato tutta un’estate a riunire le mie foto degli ultimi trentacinque anni e a
selezionarle per la mia mostra. È stata un’esperienza molto interessante. Non ho cercato
nessun legame tra quelle che sceglievo, né relativamente al soggetto né per lo stile. Mi
chiedevo solo: Questa regge? e ponevo la stessa domanda a persone assai diverse, come
mio figlio David, Josef Koudelka, mia moglie Catherine e qualche altro. A poco a poco è
emerso un tono, e questo si può spiegare molto semplicemente: certi pittori disponevano
solo di certi pigmenti, o di un certo supporto. Questo li ha orientati in una determinata
direzione, che ha finito per precisarsi e per diventare uno stile. La mia direzione è venuta
dalla timidezza. Da ragazzo, io non osavo nemmeno parlare a mio padre e ancora oggi mi
sento intimidito da persone che non conosco. Questo fa parte della mia natura. Ma
d’altra parte ci capita anche di sentirci spinti verso il contrario della nostra natura. Il
mestiere di fotografo mi ha fatto incontrare personaggi come Churchill, Bertrand Russell,
Ho Chi Minh, Castro. Forse lo stile delle mie foto è stato determinato proprio dal
contrasto tra la mia naturale timidezza e la volontà di superarla.
Hai mai provato paura fisica, nelle situazioni pericolose in cui ti sei trovato?
Sì, certo. Ma il pericolo ci attrae, come ci attraggono le belle donne. Forse è un
fenomeno fisiologico. Nel 1968 mi trovavo a Hong Kong, ero sposato e avevo due
bambini piccoli, quando i Vietnamiti hanno lanciato l’offensiva del Tet. Senza esitare ho
preso l’aereo per Saigon e mi sono ritrovato a Hué. Un giorno, all’aeroporto militaire di
Da Nang, c’è stata una chiamata per Khe San che, come ricorderai, era assediata. Che
tentazione di saltare nell’aereo per Khe San! Avevo le mie macchine fotografiche, ero in
piena forma, perché non andare a Khe San? Ma alla fine non ho potuto…
E adesso tutte queste cose viste e vissute, il Vietnam, la liberazione dell’Algeria, i
paesaggi cinesi, il processo Barbie, la stanza di Anna Farova, fanno, in qualche modo,
parte di te. Come se la fotografia fosse un modo di appropriarti il mondo, di sentirti
a casa dappertutto, a Saigon come a Houston o a Lione.
Ah no! Non mi sono mai sentito a casa a Saigon! Se mai direi che a Lione non mi sento
più a casa che a Saigon! Ma io sono curioso di ciò che mi è estraneo, proprio perché
estraneo. La gente che fotografo mi sembra molto diversa da me. C’è stata una moda, in
una certa epoca, di diventare minatore per fotografare i minatori, musulmano per
fotografare i musulmani, ecc. Io non ci credo, se si diventa l’altro non c’è più la sorpresa
dell’altro. Bisogna restare se stessi e lasciarsi sorprendere.
Vorrei tornare al tema della testimonianza: se un visitatore venuto da Marte, o
dall’anno Tremila, mi chiedesse cosa succedeva sulla Terra, verso la metà del
ventesimo secolo, gli mostrerei le foto di Cartier-Bresson. Ma se mi chiedesse: E
cos’è successo dopo?, gli mostrerei le tue. Proprio come Henri, tu ti sei sentito in
dovere di essere presente dove e quando qualcosa succedeva. In questo tu, più di
chiunque altro, sei il suo discepolo. Ed è di questo che parlo quando dico
testimonianza.
Non bisogna parlarne troppo. Soprattutto non bisogna andare in giro con una macchina
fotografica e pretendere di testimoniare, bisogna scartare quest’idea. Fotografare è un

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piccolo compito quotidiano. Bisogna mantenere la propria curiosità, viverla come una
passione, nutrirla scindendo certi legami con il luogo in cui si vive, perché questi legami
sono spesso fonte di preoccupazione, e quando si è preoccupati si vede meno bene – è
per questo che i bambini vedono meglio, che gli analfabeti ricordano meglio quello che
hanno visto. Io personalmente preferisco fotografare le persone, ma mi interessano anche
le montagne nella bruma o le nature morte – purché il soggetto offra una possibilità
visiva. Se ho una preferenza per ciò che si muove, è perché la fotografia è essenzialmente
il fatto di cogliere un attimo piuttosto che un altro, di azzeccarlo, di fermare il movimento
all’istante giusto. Come la nota giusta in musica, l’equilibrio in architettura. La
soddisfazione è tanto più grande quanto l’esercizio è più difficile, e gli elementi da riunire
più diversi, più mobili e meno prevedibili. È questo quello che cerco, e se mi piace di più
fotografare in Cina che in Australia, è semplicemente perché mi sembra che in Cina le
cose si muovono un po’ di più.
Dunque azzeccare giusto più che testimoniare? Ma per azzeccare giusto, bisogna
sapere cos’è giusto.
Effettivamente. Dobbiamo crearci dei criteri. Come una cornice, che costituiremmo poco
a poco. Ma, d’altra parte, dobbiamo anche saperci liberare dalla cornice: se ci fosse solo
quella, cadremmo nell’estetismo. Fortunatamente, la vita scompone le cornici, la vita è un
caos visivo, una molteplicità di forme che si sovrappongono e si mescolano, un enorme
guazzabuglio, che a noi tocca sfrondare, per trovarci un ordine leggibile e per isolare
quest’ordine dal resto. La scelta dell’attimo e dell’inquadratura è il nostro modo di
prendere posizione rispetto al caos. Noi non abbiamo, come i pittori o i disegnatori, la
possibilità di creare delle forme, ma il nostro proposito è lo stesso: semplificare per
rendere più comprensibile.
Al posto di azzeccare giusto potremmo forse dire riconoscere?
Sì. Rispetto ad una gamma prestabilita, che adattiamo alle nostre esigenze e che finisce
per diventare una disciplina.
Io avrei detto: rispetto ad un’accumulazione di esperienze visive che corrisponde a
Marc Riboud. Penso ancora alla tua foto in casa di Anna Farova. Mi avevi detto che,
per la copertina del tuo catalogo, avevi esitato tra questa e quella del pittore della
Torre Eiffel. La foto del pittore è giusta anche lei, ma giusta rispetto ad un’idea di
Parigi che era diffusa allora: è una foto in cui ritrovo più Prévert che Marc Riboud.
Mentre la foto di Isabelle Farova è giusta relativamente a ciò che s’è distillato in te
nel corso degli anni. Mi fa pensare ad una tua frase: I frutti dell’autunno sono i
migliori. Questa frase corrisponde alla mia idea di te, oggi.
Ti dirò che non mi sento per niente nel mio autunno, anzi ho l’impressione di essere più in
forma che vent’anni fa. I due momenti più importanti della mia vita di fotografo sono stati
il giorno in cui sono entrato alla Magnum e il giorno in cui ne sono uscito. Da quando
sono indipendente, ho più tempo per la fotografia, pur restando aperto ad altre influenze.
Non so se la mia personalità sia cambiata, ma credo che si esprima meglio. Vivo più
spesso quei momenti di grazia, in cui ci sembra di vedere con una intensità decuplicata,
in cui scopriamo cose che in altri momenti non avremmo percepito, cose che altri, forse,
non percepiscono, in cui la bellezza dei volti ci fa vibrare con più emozione. Anche questo
fa parte della fotografia: saper riconoscere questi momenti, ritrovare quella linea di mira
di cui Henri Cartier-Bresson ha parlato così bene.

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Dunque la linea di mira sarebbe qualcosa che portiamo dentro di noi e che
proiettiamo, in un certo senso, sul reale. E l‘istante decisivo sarebbe la collimazione
tra questa linea e la realtà.
La linea di mira, in fondo, è il sogno. Dovremmo ricominciare a vedere come i bambini,
con la stessa gioia di scoprire, la stessa costante sorpresa di fronte a ciò che ci circonda.
Ma la linea di mira richiede anche rigore. Sogno e rigore non sono in contraddizione,
sono aspetti diversi di un’unica cosa. È come la musica: nessun altro mezzo d’espressione
implica altrettanta precisione matematica, eppure la musica ci invade i sensi e ci trascina
con sè. Tecnica e sensibilità vanno insieme, l’una non può esistere senza l’altra.
O piuttosto: quando l’una esiste senza l’altra, non si può parlare di arte. Henri ha
detto: Mettere l’occhio, la mente e il cuore sulla stessa linea di mira. Tu dici: Vedere
la realtà con lo sguardo del bambino, attraverso il rigore di una tecnica. È la stessa
metafora?
Restiamo terra terra. Cosa facevo ieri, davanti alla piramide in costruzione nella corte del
Louvre, quando portavo la mia Leica all’occhio? Cercavo un punto di vista, una buona
composizione nel rettangolo del mirino, un ordine in quelle migliaia di elementi metallici
obliqui, che si dipartivano in tutte le direzioni, modificati continuamente dagli
spostamenti e dai gesti degli operai. Questa ricerca mi dava una gioia visiva, sensuale. In
determinati momenti, la forma corrispondeva a dei parametri miei interiori, consci od
inconsci, come una risonanza tra il soggetto e me. In fondo alla linea di mira c’è la realtà,
la realtà che l’inquadratura può trasformare in sogno.
Ma la tua metafora è proprio equivalente a quella di Henri? O vuoi dire una cosa un
po’ diversa?
Henri ha avuto formule eccellenti e definitive. Ma non parla mai della sua motivazione
fondamentale, passionale. La sua opera non può essere paragonata a quella di nessun
altro fotografo, non è come se avesse fatto un po’ più foto di chi viene dopo di lui: ne ha
fatte dieci, venti volte di più. Dall’età di vent’anni è stato spinto da questa determinazione
a uscire tutte le mattine, a Parigi, a Calcutta o non importa dove, di essere presente dove
succedeva qualcosa, di non lasciar passare una mezza giornata senza andare ad una
manifestazione di studenti, ad uno sciopero di agricoltori, ad una inaugurazione, ad una
riunione sindacale, o semplicemente da un amico pittore, per parlare di pittura mentre gli
faceva un ritratto. Quando parla di fotografia, Henri descrive la disciplina che si impone,
quella geometria che ha anche menzionato nel titolo di un testo: Nul n’a le droit d’entrer
ici s’il n’est géomètre. Ma se ci fosse solo quest’aspetto formale, le foto di Henri Cartier-
Bresson sarebbero aride. È il suo interesse appassionato per il mondo che ne fa la
ricchezza e l’ampiezza – e di questa passione lui non parla. Henri è il solo che si possa
considerare un testimone della nostra epoca, forse appunto perché non ha preteso di
essere un testimone.
E tu ti senti sul prolungamento di questa linea?
Trovo la tua domanda priva di interesse. Cartier-Bresson mi ha influenzato, come ha
influenzato centinaia di persone, e non solo fotografi. Le circostanze della vita mi hanno
avvicinato a lui, ma non metterei il mio lavoro accanto al suo, né per la qualità, né per la
quantità, né per la direzione. Mi sento diverso, spesso mi sono ribellato contro di lui, ma
non ho alcun motivo di sottolineare differenze o somiglianze.
Non ti senti un po’ il primogenito?

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Dipende. Adesso il rapporto tra noi è un dialogo, più che un’influenza a senso unico.
Henri può mostrarsi moralista, pedagogo, esigente, voler lasciare la sua impronta sulle
persone, non tollerare che chi lo circonda segua altre regole che quelle che a lui
sembrano immutabili. Se mi sento diverso – e non solo rispetto a lui – è forse perché per
me l’esercizio della fotografia deve corrispondere a un piacere. L’uso di obiettivi diversi,
per esempio, mi dà non solo delle possibilità, ma anche dei piaceri addizionali – pur
continuando a rispettare la stessa disciplina. Dunque perché privarmene?
Usi la parola piacere, hai usato sensualità. Questo ci porta a una delle tue
contraddizioni caratteristiche – perché quello che ci caratterizza sono le nostre
contraddizioni, più che le qualità o i difetti. Da una parte sei timido, certamente
pudico, magari anche un po’ inibito…
Pudico, sì. Ma inibito, che vuol dire?
Qualcuno che nella sua educazione ha subito delle oppressioni…
Forse è vero. Ma non mi definirei inibito. Direi piuttosto che per reazione…
Appunto. Ed è forse questa sensualità repressa a determinare quella che tu chiami la
tua tenerezza visiva, questa opposizione, che si percepisce nelle tue foto, tra il
desiderio di toccare e quello di mantenere una distanza.
Senza dubbio noi tutti vogliamo andare oltre quello che siamo, diventare il contrario di
ciò che crediamo di essere.
Mi chiedo se proprio la tua attuale maturità – I frutti dell’autunno sono i migliori –
non ti permetterà di esprimere questa sensualità più di quanto tu l’abbia espressa in
passato.
Mi è sembrato di vivere un nuovo inizio quando ho incontrato Catherine, la donna che
amo e con cui ho due bambini. Mi ha dato una pace, mi ha liberato da tante inquietudini.
Adesso posso uscire al mattino senza portarmi dietro una nuvola di problemi. D’altra
parte, anche il fatto di allontanarmi dalla Magnum mi ha dato più libertà.
Ma io parlavo di sensualità.
La sensualità va di pari passo con il liberarsi dalle costrizioni. Effettivamente mi sono
liberato, in una certa misura, da influenze che avevano condizionato la mia vita di
fotografo…
Ti porrò la domanda in modo più diretto: da quando esiste, la fotografia è stata un
pretesto, buono o no, ipocrita o no, per l’espressione dei fantasmi erotici dei
fotografi, da Lewis Carrol a Helmut Newton. Tu non ti sei mai avventurato su questa
strada – come non ci si è avventurato Henri, e probabilmente per le stesse ragioni…
Non so. A me non dispiace guardare le belle ragazze, i bei corpi, sono attratto da ciò che
è sensuale. Ma raramente ho fotografato persone che provocano in me forti reazioni
emotive – come evito di fotografare ciò che è deforme o morboso. È vero che questi
soggetti attirano i fotografi: se prendi una qualsiasi pagina di rivista, di quelle in cui la
pescivendola avvolge il suo pesce, puoi essere certo di trovarci foto di sesso o di
violenza. È vero: ho evitato l’uno e l’altra.
Eppure, se questi soggetti vengono fotografati spesso, non è solo perché i media
speculano sulle emozioni del pubblico. Ma anche perché il sesso e la violenza
esistono, ci riguardano, sono delle componenti del mondo, non meno importanti che
le montagne della Cina.

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Ci sono modi diversi di mostrare le cose importanti. La tua foto pubblicitaria per uno
champagne, in cui si vede solo una spalla scoperta, mi sembra più sensuale di una foto
che mostri delle gambe aperte. Allo stesso modo, si può far percepire la violenza
mostrando i rapporti quotidiani tra le persone, senza andare a fotografare cadaveri.
È proprio quello che voglio dire. Per quanto riguarda la violenza, ne hai vista molta,
ma hai trovato la maniera di mostrarla senza eccesso, col tuo modo discreto, pudico
e distante. Perché non hai fatto la stessa cosa per l’erotismo?
È facile da spiegare! Per fotografare una donna nuda, bisogna o pagarne una che si
spogli, o fotografare quella che si ama. Io mi sentirei a disagio nell’una e nell’altra
situazione. Ma sognerei di passeggiare in una foresta in cui si trovino donne belle, giovani
e nude. Se mi indichi un posto così, ci vado subito. Ma del resto, cosa intendi per
erotismo? L’atto sessuale non si compie sotto lo sguardo degli altri. Per fotografarlo
bisogna metterlo in scena e io non so far recitare attori. Se, passeggiando, mi succedesse
di vedere qualcosa di erotico, penso che magari… Ma è vero che sono pudico, come lo
sono davanti alla sofferenza. Davanti a qualcuno che soffre in un letto d’ospedale, non tiro
fuori la macchina fotografica. Ed ancora meno se si tratta di qualcuno che m’è vicino. Ora
tutte le situazioni erotiche che potrei fotografare sarebbero o tra persone che non si
credono osservate, o tra persone che mi son vicine. In un caso come nell’altro, c’è un
limite che non oltrepassarei, sarebbe come commettere una violenza. Le fotografie
erotiche che conosco, e che mi comunicano un’emozione, sono messe in scena. E
mettere in scena, trasmettendo un’emozione senza rivelare l’artificio, è tutta un’arte.
La messa in scena sarebbe dunque un altro limite che non vuoi oltrepassare?
Ti dirò semplicemente che non ne son capace. A parte questo, tendo a credere che il
ruolo della fotografia è di registrare quello che avviene, non di mettere in scena.
Eppure, quando fai un ritratto, ti capita di dire al tuo modello: Si metta vicino alla
finestra; si giri da questa parte, perché la luce è migliore. Non è messa in scena
questa?
Non gli faccio recitare altro che il suo proprio personaggio, nel suo proprio ambiente.
Dunque quando si ha un’idea di una persona, le si può chiedere di mettersi in una
posizione o in un luogo che corrispondono a quest’idea. Ma dove fermarsi?
Prendiamo il caso del miliziano colpito a morte, nella foto di Capa. Certi hanno
sostenuto che fu una messa in scena.
È falso. Robert Capa non avrebbe imbrogliato.
Lo credo anch’io. Ma lasciami fare l’ipotesi: se questa foto fosse stata messa in scena,
mostrerebbe una realtà della guerra che corrisponde, effettivamente, alle
osservazioni di Capa. Che ci sarebbe di male?
Io non la chiamerei una messa in scena, ma una truffa.
Prendiamo un altro esempio: la Veglia funebre, nel Villaggio spagnolo di Eugène
Smith. Per ottenere quella luce, Smith ha dovuto disporre con molta cura i suoi flash,
cosa che non poteva fare senza dirigere le persone presenti.
È vero che Eugene Smith aveva una grande maestria della luce. Ma interveniva solo per
trasmettere la sua emozione. Non ha mai imbrogliato.
E se Robert Capa avesse effettivamente visto qualcuno cadere colpito da una
pallottola, e avesse voluto ricostruire l’emozione che aveva provato?

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No, no e poi no. Innanzitutto non ha fotografato questo miliziano perché l’ha visto
cadere. Lui voleva fotografare un tipo che saltava, ed è stato in quell’attimo che l’uomo
ha ricevuto una pallottola. Se avesse davvero voluto ricostruire l’avvenimento, non
avrebbe mai potuto farlo cadere in quel modo.
Mi chiedo se non stiamo confondendo un problema etico – È una truffa? – con un
problema estetico – La foto funziona?
Per quanto mi riguarda, trovo la realtà talmente ricca di emozioni di ogni genere, che non
vedo perché dovrei darmi la pena di dire a qualcuno: Mostrami un’emozione. Tanto più
che la foto sarebbe per forza meno buona, e l’emozione meno… emozionante.
Effettivamente, se tu avessi voluto mettere in scena la foto dell’americana che mette
il fiore nel fucile, non avresti mai trovato quel volto e quell’espressione. Ma hai pur
chiesto a Isabelle Farova di spogliarsi, e questo non ha mica prodotto una brutta
foto.
È il gatto che fa la foto, e io non ho detto al gatto di mettersi in quella posizione. La
seduta è durata circa un’ora e c’è stato un momento in cui è successo qualcosa. Non la
chiamerei messa in scena. Non ho imbrogliato.
Continuo a pensare che tu confondi morale ed estetica, ma credo che, dal punto di
vista della tua propria efficacia, non hai torto. A me capita spesso di organizzare una
situazione, poi d’indietreggiare ed d’aspettare che all’interno di questa messa in
scena abbia luogo un avvenimento reale – come è successo in questo caso col gatto.
Ma in generale tu eviti questo approccio, perché senti che l’abitudine della messa in
scena rischierebbe di farti perdere quella famosa distanza, che per te è
fondamentale.
Tranne che non ho la possibilità di scegliere tra i due approcci. Io lavoro come lavoro,
perché sono come sono.
È certamente vero. Ho trovato sul tuo tavolo questa foto che non conoscevo, e che
trovo straordinaria. Il soggetto è del tutto banale: alcuni calciatori con il loro
pubblico. Eppure, se incontrassi quel marziano che vuol conoscere la terra, questa
sarebbe una delle prime foto che gli mostrerei. Tu hai saputo vedere oltre la banalità
del soggetto, mostrando con semplicità duemila teste su una metà del rettangolo e
quattro giocatori sull’altra metà – e questo dice moltissimo sul nostro mondo.
Ero rimasto colpito da questo mare di volti, così ben ordinati – i tifosi inglesi erano
disciplinati, allora: tutti portavano la cravatta e il berretto e nessuno avrebbe alzato un
braccio. È stata una delle mie prime foto a Londra, nel 1953 o 1954, Robert Capa mi ci
aveva mandato per imparare l’inglese. Cornell, il fratello di Robert, fotografava quella
stessa partita, per Life. Si era piazzato vicino ad una rete e io ammiravo i suoi teleobiettivi
e i suoi badges e mi dicevo che non avrei mai saputo sbrigarmela come lui. Io avevo
semplicemente comprato un biglietto come tutti gli altri e mi trovavo nelle tribune, con
un 135mm. Non per calcolo, ma perché ero troppo timido per andare a mettermi più
vicino.
Traduzione italiana di Giancarlo Biscardi.

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Josef Koudelka: una buona fotografia è un miracolo

Mi chiedi se ho usato bene la mia vista. Credo di averla usata troppo poco. Alcuni
fotografi, come Henri (Cartier-Bresson), hanno sempre una macchina fotografica con
sé e guardano continuamente. Io non so farlo. In questo momento, per esempio, non
guardo, sono preso dalle parole.
Cosa vuoi dire con non guardo?
Non guardo come si guarda per fare una foto.
E come guardi?
Credo di afferrare alcune cose, ma poche: solo quelle che voglio vedere.
Ma per vedere ciò che si vuol vedere, bisogna cercare. E scegliere.
Mi sembra che, per vedere, io debba prepararmi prima. A volte per lungo tempo. Mi
riuscirebbe difficile, uscendo da qui, fare delle foto a Parigi. Per guardare, avrei
bisogno di andare in un’altra città, a New York per esempio, di esser solo, di
alloggiare in un hotel, di passeggiare per le strade, all’inizio senza macchina
fotografica, e a poco a poco vedrei. Allo stesso modo non saprei fare il ritratto di una
donna così, di punto in bianco. Avrei bisogno di pensarla, di immaginarla.
Bisognerebbe che lei si preparasse o che la preparassero, mentre io preparo me
stesso. E anche quando, alla fine, si troverebbe di fronte a me, non mi sentirei ancora
pronto. Mi ci vorrebbero due o tre ore per comprenderla, poco alla volta, attraverso
il mirino.
Forse perché tu vuoi comprendere. Io non cerco di comprendere. Per me la cosa più bella
è svegliarmi, uscire e andare in giro a guardare. Guardare tutto. Senza che nessuno stia lì
a dirmi: Devi guardare questo o quello. Io guardo tutto e cerco di trovare ciò che mi
interessa, perché, all’inizio, non so cosa potrà interessarmi. Mi succede anche di
fotografare dei soggetti che altri troverebbero stupidi, ma che, personalmente, mi
permettono di mettermi in gioco. Henri (Cartier Bresson) dice che lui si prepara prima di
incontrare qualcuno o di visitare un paese. Io no: io cerco di reagire a quello che si
presenta. Poi tornerò, magari ogni anno, magari per dieci anni di seguito, e così finirò per
comprendere.
Tu ti prepari a modo tuo. Credo che quando tu trovi un soggetto che ti interessa, la
tua foto, in un certo senso, è gia pronta dentro di te. Come se tu avessi preparato un
posto per riceverla.
Che sarebbe la mia foto?
Spesso le tue foto sono riconoscibili, dunque hanno qualcosa in comune. Forse è lo
spazio fra i personaggi, e come delle tensioni all’interno di questo spazio.
Non saprei. Ma ti ho interrotto, stavi parlando di te.
Se ho fatto buon uso dei miei occhi? Temo di non avere fatto abbastanza buon uso
del mio tempo.
Era proprio questo il senso della mia domanda: il tuo tempo, non solo i tuoi occhi.
Vedi, io ti conosco da meno di un’ora, ho visto alcune tue foto e so di te solo alcune
cose che mi sono state raccontate. Ma se dovessi rendere l’idea che mi sono fatta di
te con una sola immagine, direi: È uno che vive con un sacco a pelo. Questo sintetizza
un modo diverso di utilizzare il tempo, più efficace del mio. Non che io sia

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insoddisfatto della mia vita. Ma so che troppo spesso ho fatto delle cose che mi
erano indifferenti o che mi allontanavano da me stesso; mi sono sforzato troppo di
assecondare le idee o i desideri degli altri. Se mi fosse possibile rivivere qualche ora
della mia vita, credo che sceglierei dei momenti in cui fotografavo per me, nelle
strade di New York o in India. O anche dei momenti nel mio studio, come quando
facevo i ritratti.
Io ho avuto la fortuna di poter fare sempre ciò che volevo, di non lavorare mai per altri.
Forse è un principio stupido, ma l’idea che nessuno possa comprarmi è importante per
me. Io rifiuto di lavorare su commissione, anche per progetti che sono deciso a portare
avanti comunque, per me stesso. È un po’ uguale con i miei libri. Quando il mio primo
libro, quello sugli Zingari, è stato pubblicato, ho fatto fatica ad accettare l’idea di non
poter più scegliere le persone a cui mostrare le mie foto, l’idea che chiunque potesse
comprarle.
Quali sono i tuoi punti di riferimento? Voglio dire in letteratura, in pittura, in
musica…
Ci sono delle cose che mi piacciono molto, ma che non pratico. La musica l’ho sempre un
po’ praticata e mi piacerebbe ascoltarne più spesso, ma non ne ho la possibilità, per
mancanza di tempo e di spazio.
Quando ero ragazzo leggevo molto, durante i miei studi un po’ meno, da quando ho
lasciato la Cecoslovacchia non leggo quasi più. Sempre per la stessa ragione: perché non
ho un posto per me. Quando viaggio, non so dove dormirò e penso a dove coricarmi
solo quando è il momento di aprire il mio sacco a pelo. È una regola che mi sono data. Mi
sono detto che devo saper dormire bene dovunque, perché il sonno è importante. In
estate spesso dormo fuori, smetto di lavorare quando non c’è più luce e ricomincio il
mattino presto. Un giorno vivrò diversamente e allora ricomincerò a leggere. Non sento
questo modo di vivere come un sacrificio: per me sarebbe un sacrificio vivere altrimenti.
Per quanto riguarda i miei punti di riferimento… non so quali sono.
Ma cosa ti sembra importante al mondo?
Le domande sul mondo sono difficili per me. Non mi fido delle parole. Io vengo da un
sistema in cui le parole non hanno valore. Mi sono abituato a non ascoltare troppo ciò che
dice la gente. O piuttosto li ascolto, ma dò più importanza al modo in cui parlano che a
ciò che dicono. Quando mi si dice: sono comunista, sono socialista, sono anarchico,
questo non significa niente per me. Ciò che conta è quello che la gente fa.
Ma cosa conta per te? È importante che le tue foto siano conservate dopo la tua
morte?
Non mi è mai sembrato importante che le mie foto fossero pubblicate. È importante che
io le abbia fatte. Ci sono stati periodi in cui non avevo soldi e immaginavo che qualcuno
venisse a dirmi: Ecco i soldi, puoi andare a fare delle foto, ma non devi mostrarle. Avrei
accettato subito. Ma al contrario, se qualcuno fosse venuto a dirmi: Ecco i soldi per fare le
foto, ma alla tua morte dovranno essere distrutte, avrei rifiutato. Mi capisci?
L’importante è che le foto esistano.
Certamente. Non che siano pubblicate o che io sia conosciuto. Essere conosciuto può
anche essere fastidioso: a me non piace sentirmi al centro dell’attenzione. Vado spesso a
un mercato di cavalli nel nord dell’Inghilterra. Lì conosco quasi tutti e quando mi
rivedono, chiedono: E il tuo libro, quando esce? Non lo vedrò mai, sarò morto prima. Ed

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è vero, alcuni sono già morti. Ma posso sempre portare a un figlio la foto del padre, a un
vecchio la foto di quando era meno vecchio. Ciò che conta è che il lavoro esista. D’altra
parte io non sono uno di quelli a cui piacciono tanto le proprie foto.
Ma ho sentito dire che le appendi al muro, per vedere se riesci a viverci insieme.
Lo facevo in Cecoslovacchia, e lo farei ancora se avessi una casa. Con le foto degli Zingari
ci vivevo sempre. Se vivi sempre con una cosa e continui a guardarla, finisci sia per
stancartene, sia per esser certo che ti soddisfa. Per me una buona foto è una con cui
posso vivere. È come vivere con una musica o una persona.
Forse perché la fotografia è fatta essenzialmente di tempo. Mi dico spesso che ciò
che mostriamo è una frazione di tempo, più che una finestra sullo spazio.
La filosofia della fotografia non mi interessa. Quello che mi interessa sono i limiti. Io
fotografo sempre le stesse persone, le stesse situazioni, perché voglio conoscere i limiti di
queste persone, di queste situazioni – e soprattutto i miei propri limiti. Non è importante
che la foto riesca la prima volta, né la quinta, né la decima.
So che quando fotografavi gli Zingari tornavi spesso negli stessi luoghi, dalle stesse
famiglie.
Avevo un circuito preciso, in cui ritrovavo lo stesso tipo di situazione. È una cosa che
provo a fare ancora, ma adesso è più complicato. Io non ho un’automobile e neanche la
patente, ma spero di averle presto. Quando si lavora come faccio io, si è limitati da
problemi di salute. Qualche anno fa ho avuto dei problemi alla colonna vertebrale e il
dottore mi ha detto: È dovuto al tuo stile di vita. Mi sono curato e sono guarito, ma so
che verrà il momento in cui non potrò più continuare a vivere come vivo. Quando avevo
trent’anni, mi dicevo che a quarant’anni un fotografo è finito. Forse lo dicevo per
obbligarmi a sfruttare al meglio il mio tempo. Adesso che ne ho quasi cinquanta, mi
capita ancora di fare qualche buona foto e spero di continuare. Ma credo che i periodi
veramente creativi siano solo quelli che si vivono con intensità. Se si perde l’intensità si
perde tutto.
Ma credi che sia una questione d’età? I ritratti di donne che ho fatto in questi ultimi
anni sono forse il lavoro in cui ho messo più intensità.
Ci sono pochi ritratti che mi piacciono davvero. Una volta mi è successa una strana storia.
Mi trovavo vicino a Roma con un pellegrinaggio di Zingari iugoslavi, organizzato da alcuni
preti cattolici. Non erano veri preti: indossavano abiti civili e lavoravano per guadagnarsi
da vivere, ma erano persone molto simpatiche. Parlando con me, capirono che ero
l’autore del libro sugli Zingari. Mi hanno raccontato che ne avevano ricevuto una copia e
che ne avevano tagliato le pagine per incollarle ai muri di una baracca che avevano
adibito a cappella. E su ogni foto gli Zingari avevano scritto il nome di qualcuno che
conoscevano.
Conoscevano le persone che avevi fotografato?
No, ne conoscevano altri, in Iugoslavia, che gli somigliavano. Ti conosciamo bene – mi
hanno detto – ti chiamiamo Iconar. Mi fa pensare a una frase che ho detto a Henri, una
delle prime volte che lo incontravo, e che lo ha fatto ridere molto: gli ho detto che più
che un fotografo, sono un collezionista di immagini.
È per questo che torni sempre negli stessi posti?
È per questo che la fotografia è più facile quando si inizia. È come giocare a freccette:
all’inizio, dovunque le lanci, saranno ben piazzate. Wherever you hit is the right place. Ma

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una volta che hai cominciato a costruire qualcosa, ti rendi conto che ci sono dei pezzi che
mancano.
Dunque, quando torni negli stessi luoghi, è come con l’idea di completare una serie
di cui ti mancano certi pezzi?
Ho un’idea generale. Ma non potendo andare dappertutto, mi limito a qualche paese
europeo con cui sento più affinità: la Spagna, l’Irlanda, l’Italia, la Grecia. Ci sono tornato
spesso e spero di tornarci ancora, fino a quando non sarò certo d’aver raggiunto il limite
di ciò che posso fare. Ma non voglio parlare troppo di ciò che non ho ancora fatto.
Questo lavoro sarà importante quanto quello che hai fatto in Cecoslovacchia?
Non so cosa sia importante per le persone che guardano le mie foto. Quello che è
importante per me, è il fatto di farle. Io lavoro sempre, ma non ci sono molte foto che
trovo veramente buone. Non mi sento veramente un buon fotografo. Penso che
chiunque, se lavorasse come lavoro io, potrebbe ottenere gli stessi risultati.
Ma io non lavoro per provare il mio talento. Io fotografo quasi tutti i giorni, tranne
quando fa troppo freddo per viaggiare a modo mio, come in questo momento. Qualche
volta faccio delle buone cose, altre volte no, ma penso che col tempo qualcosa verrà fuori
dal mio lavoro: non ho angosce in questo senso. Faccio anche molte foto sulla mia vita,
come quelle all’inizio del tascabile: i piedi, l’orologio.
Quando sono stanco mi corico e se ho voglia di fotografare e non c’è nessuno attorno a
me, fotografo il mio piede. Non sono grandi foto: certi le detestano. Ma ho sempre
fotografato i luoghi in cui ho dormito, gli interni in cui mi sono trovato. È una regola che
mi sono data, per non dimenticare queste cose. Un giorno, forse, farò un libro con
nient’altro che queste piccole foto. Questo irriterà molte persone che pensano a me
come al fotografo degli Zingari e non vogliono vedermi diversamente. Ma non mi
preoccupo di ciò che la gente pensa. Io non cerco di cambiare la gente, e neanche il
mondo.
(secondo colloquio)

Mi hai detto che non eri molto soddisfatto del nostro primo colloquio. Ne ho riletto il
testo, ho riletto anche i miei precedenti colloqui con altri fotografi, e mi sono reso
conto che, nel corso dei diversi incontri, ho un po’ perso di vista il mio obiettivo
iniziale, che era quello di parlare della fotografia, piottosto che dei fotografi.
Comunque vorrei cominciare con un’osservazione di carattere personale: conosco
parecchie persone che ti considerano un po’ come la loro coscienza. So che non fai
nulla per assumere questo ruolo di “guru”, ma è la tua severità verso te stesso che
conduce gli altri a considerarsi con meno indulgenza.
Dici che sono una coscienza. È l’ultima cosa che vorrei essere. Tutto ciò suona un po’
come se io giudicassi gli altri, come se mi sentissi superiore. Io sono semplicemente uno
che ha avuto fortuna. Perché, all’inizio, ero ingegnere aeronautico e potevo fare fotografie
senza aver bisogno di essere pagato. Poi ho continuato ad avere fortuna, avendo potuto
lavorare per diciott’anni senza fare neanche un solo lavoro su commissione. Ma questo
non ha nulla a che vedere con la cattiva coscienza di chicchessia: il mio modo di fare foto
non è il solo, e forse nenche il migliore.
Mi piacerebbe vedere qualche tua stampa di lavoro, per esempio di quelle dell’anno
scorso, di cui dici di essere poco soddisfatto, e vorrei che tu mi spiegassi perché.

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Non vedo nessuna ragione per farlo. Se non sono soddisfatto, è semplicemente perché le
buone foto sono rare. Una buona foto è un miracolo.
Ma forse è più facile spiegare perché una foto non sia riuscita che spiegare perché sia
riuscita.
Ma se sono quasi tutte mal riuscite? Per te, fare fotografie è diverso: a te piace dirigere
modelle e fare messe in scena. Ma io dipendo totalmente da quello che succede, io devo
trovare la situazione che mi interessa. È per questo che ritorno negli stessi luoghi. Ma
spesso quello che aspetto non succede, o succede senza che io riesca a fotografarlo
bene.
Ma cos’è bene?
È bene quando è il massimo di una situazione e allo stesso tempo il massimo di me
stesso. Può succedere che io raggiunga questo massimo la prima volta, per caso, e che io
ritorni nello stesso posto dieci volte di seguito, per dieci anni, senza riuscire a far meglio.
O che cercando un certo massimo ne trovi un altro, a cui non avevo pensato. Quello che
importa è la ricerca, la motivazione a spingersi oltre. Ma non posso proporre questo
modo di lavorare a un giornale, non posso farmi mandare dieci volte a Lourdes per
tornare con una foto che non ha niente a che fare con Lourdes.
È stata un massimo la Primavera di Praga? Eppure è stato un avvenimento al quale
non ti eri potuto prepare e che ha poche probabilità di ripetersi.
È stato il momento massimo della mia vita. In dieci giorni è successo tutto quello che
nella mia vita poteva succedere. Io stesso ero al massimo in una situazione che era al
massimo. Forse è per questo che ho coperto questa situazione meglio dei reporter che
erano arrivati da ogni parte del mondo e che lo facevano per mestiere. Io non ero un
foto-giornalista.
Qualcuno – che pure mi conosceva bene – aveva scritto che avrei potuto praticare con
successo qualsiasi genere di fotografia, tranne il reportage.
E tu sapevi che era un massimo, mentre lo vivevi? Ti dicevi ogni mattina: Questi
giorni sono il massimo della mia vita, tanto peggio se ci lascio la pelle?
Non pensavo al pericolo. Più tardi, delle persone che mi hanno visto davanti ai carri
armati hanno detto che avrei potuto farmi uccidere. Ma io non ci ho pensato, benché in
generale non sia particolarmente coraggioso.
In realtà, mi son sbagliato dicendo che non ti eri preparato: il lavoro che avevi fatto
nei dieci anni precedenti è stata una preparazione. Senza quel lavoro, non avresti
potuto fotografare la Primavera di Praga come l’hai fatto.
Sicuramente no. Ma non sono d’accordo con quello che è stato scritto su di me. Non mi
preoccupo di ciò che la gente pensa: so abbastanza bene chi sono. Ma mi rifiuto di
diventare schiavo delle loro idee. Quando resti in uno stesso posto per un certo tempo, la
gente ti colloca in una casella e si aspetta da te che tu ci resti.
Quello che mi sembra importante, è che in quei giorni hai saputo vedere bene,
perché avevi trascorso i dieci anni precedenti ad esercitarti a vedere bene.
Su questo sono d’accordo. Ma io non ho la pretesa di essere un intellettuale o un filosofo.
Io guardo.
Dunque tu passi la tua vita a guardare e a dire sì o no a quello che vedi, attraverso
l’atto di scattare o non scattare, scegliere o non scegliere una foto. È come il sistema
binario dei computer, tranne che i no sono molto più numerosi dei sì. Quello che mi

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sembra interessante, sono questi dieci anni di sì e di no, che ti hanno preparato a
fare delle foto della Primavera di Praga che altri non sono riusciti a fare. Eppure gli
avvenimenti erano gli stessi per tutti.
Perchè io non sono stato paracadutato a Praga, come gli altri. Io ero un cecoslovacco, il
paese era quello di cui parlavo la lingua, i problemi della Cecoslovacchia erano i miei. E
lavoravo per me stesso. Troppo spesso persone che hanno talento vanno dove si trovano
i soldi. Cominciano a scambiare un po’ del loro talento contro un po’ di soldi, poi un po’
di più, e alla fine non gli resta niente. In Cecoslovacchia non avevamo molte libertà, e
soprattutto non quella di guadagnare molti soldi. Ma questo ci portava a scegliere dei
mestieri che ci piacevano veramente. Io ho sempre fotografato con l’idea che nessuno si
sarebbe interessato alle mie foto, che nessuno mi avrebbe pagato, che se facevo
qualcosa la facevo solo per me.
Capisco. Ma la cosa che mi sembra più importante è quello che hai appena detto a
proposito del massimo. Forse qualcun altro avrebbe fatto qualche foto ben
composta, da dietro un albero, e poi si sarebbe ritirato. Tu invece sei andato avanti,
hai cercato oltre. Perché avevi una certa idea del massimo.
Il massimo era nell’aria. Sapevo che tutto ciò che poteva succedere nella mia vita stava
succedendo. C’era una ragazza che incontravo sempre. All’inizio non mi fidavo di lei:
vedevamo spie del KGB dappertutto. Poi questa ragazza è venuta verso di me, ha aperto
la sua borsa e mi ha detto: ti vedo sempre, probabilmente non mangi da tre giorni. E io
mi sono innamorato di lei. Tutto quello che poteva succedere è successo. Ho incontrato
tutte le persone che immaginavo potessero esistere. La situazione era talmente forte che
creava tutte le possibilità.
Sì, ma se tu non fossi stato preparato dal lavoro dei dieci anni precedenti, la
situazione ti avrebbe forse portato la stessa intensità o la stessa storia d’amore, ma
non le stesse foto.
Questo viene dal mio modo di lavorare. Dopo aver visto i provini, io non stampo solo le
foto buone, ma tutte quelle che mi sembrano un po’ interessanti, anche se so che sono
da scartare. A volte fotografo senza guardare nel mirino. È una cosa che ormai riesco a
controllare abbastanza bene: è quasi come se guardassi. Quello che spero di trovare è un
passaggio dall’inconscio al conscio. Quando fotografo, non penso molto. Se tu guardassi
i miei provini ti chiederesti: Ma che combina ‘sto tipo? Ma io sui provini e sulle stampe di
piccolo formato ci lavoro: li guardo di continuo, di continuo. Credo che il risultato di
questo lavoro finisca per essere interiorizzato e che, al momento di fotografare, venga
fuori senza che io ci pensi.
Come il programma di un computer. Tu dedichi molto tempo a preparare il tuo
programma, affinché al momento giusto, davanti a una situazione molto complessa,
questo programma ti consenta di reagire istantaneamente, e senza sbagliarti.
Mi sarebbe piaciuto mostrarti una specie di catalogo che avevo fatto dieci anni fa, in cui
avevo classificato le mie foto secondo la composizione. Se si ama qualcosa e ci si
interessa, e se in più si ha un po’ di talento e ci si mette un po’ d’energia, la cosa finisce
per funzionare. Il programma funziona. Ma è importante, dopo, saper abbandonare il
programma per andare oltre. Sarebbe troppo facile fermarsi a questo e lasciare che i
risultati vengano fuori automaticamente. Bisogna distruggere il programma e
riprogrammare.

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Sì. Io, quando fotografavo gli alberi, perfezionavo man mano il mio programma, ma
alla fine il programma era diventato così preciso, e così limitante, che finivo per fare
sempre la stessa foto.
La ripetizione non mi interessa. Non voglio arrivare al punto in cui non saprei come
continuare. È giusto costruirsi dei limiti, ma bisogna, a un certo momento, saper
distruggere la propria costruzione.
Sì, credo che a un certo punto il programma debba essere sostituito, ma ci sono
alcuni principi ai quali non si deve rinunciare.
Quali principi?
Se faccio queste interviste, è proprio per scoprirli. Uno di questi principi potrebbe
essere quello di cercare sempre un massimo, come dici tu. Conosco alcuni fotografi
che hanno rinunciato a cercarlo. Si limitano a mostrare quello che decidono di
mostrare, e che corrisponde certamente a qualche realtà – ma a me sembra che
questo non basti.
E perché credi che si rinunci a cercare il massimo?
Conosco solo una risposta ed è una risposta che mi fa paura: perché non si ha più
abbastanza forza.
Lo temo anch’io. Ne abbiamo già parlato la prima volta e ti avevo detto che il limite è
forse verso i quarant’anni. Succede a tutti.
D’altra parte, Tiziano ha dipinto dei quadri bellissimi a ottant’anni. Ed anche Renoir,
Rodin, Picasso. È diverso per la pittura?
Un po’. È vero che Kertesz ha fatto alcune belle foto quando era vecchio – ma non sono
foto come quelle di cui parliamo qui, che richiedono una certa capacità fisica, non fosse
che per cercare quelle situazioni. Mi sembra che in pittura ci sia meno differenza tra un
capolavoro e un dipinto che non è proprio un capolavoro. O piuttosto: c’è una grande
differenza, ma meno grande che in fotografia. Perché in pittura la tecnica conta molto di
più.
Mentre la fotografia funziona per l’intensità dell’istante. Io ho molta ammirazione per
fotografi come Munkaczi, che lavoravano con apparecchi di grande formato, con cui
potevano fare solo una foto in una data situazione. Non potevano mai concedersi una
seconda possibilità.
Forse hai ragione. Ma io sono il prodotto di un’epoca diversa: non sarei il fotografo che
sono se non potessi fare molti scatti. Eppure il prezzo delle pellicole è spesso stato un
problema per me. Mi è successo di lavorare con code di pellicola cinematografica, per
fare economia, e anche di comprare pellicole rubate. Ma quando mi restano solo tre
rullini nella borsa, entro nel panico.
Ti capisco, mi capita di fare quindici rullini in due ore, per un ritratto in studio. D’altra
parte sento ogni seduta come un’occasione unica, non ripetibile.
Io, quando mi sveglio al mattino e mi sento bene, mi dico: Oggi potrebbe essere l’ultimo
giorno della mia vita. Questo mi dà un senso d’urgenza. Ma ripenso a quello che dicevi
prima, che sarei una coscienza. Me lo hanno già detto. Persone molto più giovani di me
mi hanno detto: Mi piacerebbe fare come te.
Ma non lo fanno.
Forse perché loro si fanno un’idea di me che non corrisponde alla realtà. Quando ho
lasciato la Cecoslovacchia, mi piaceva nutrirmi di latte, pane e patate. Ne hanno fatta una

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leggenda. Al punto che una volta, da alcuni amici in Olanda, dove mi trovavo in visita, mi
hanno messo davanti un piatto di patate, mentre loro si concedevano del gulasch. Io non
voglio essere schiavo della mia leggenda.
Tu rifiuti la schiavitù dei soldi, rifiuti la schiavitù della tua leggenda. Sei schiavo di
qualcosa?
Sono schiavo della mia testa. Io viaggio solo e dormo fuori. E anche quando viaggio in
automobile con qualcuno, mi separo da questa persona al mattino, per incontrarlo di
nuovo solo la sera. Quando sono arrivato in Occidente, non parlavo le lingue e anche se
avessi avuto i soldi non avrei saputo come farmi servire in un ristorante. Tuttora non so
scrivere in francese, sono come un lavoratore immigrato. Sono uno che ha vissuto a lungo
da solo, e allora uno si fissa su certe idee, che forse non corrispondono alla realtà. Io sono
schiavo di queste idee.
Ma non credi che la vera schiavitù sia quella che scegliamo? Se si è schiavi dei soldi,
come lo sono io, è perché, in una certa misura, l’ho scelto. Questi limiti della tua
testa sono forse dei limiti che ti sei scelti…
Con la mia testa ci son nato. È venuta da qualcuno che c’è stato prima di me. Ma in un
certo senso, ho anche scelto di essere come sono, ed in questa misura non lo vivo come
una schiavitù. Potrebbe sembrare una schiavitù agli altri – che mi vedono dall’esterno –
ma per me è libertà.
Questo non vuol dire che le cose non potranno cambiare: adesso ho una figlia e
bisognerà che guadagni un po’ di soldi come fanno tutti. Ho cinquant’anni ed è il
momento in cui si tirano le somme. Ho fatto ciò che ho voluto, ma ora devo utilizzare
bene il tempo e l’energia che mi restano. Guarda: tutti questi raccoglitori contengono i
miei provini. Questo non vuol dire che contengano molte buone foto, ma vuol dire che ho
lavorato molto. Ci vorranno anni per guardare bene tutto questo. Anche se mi ammalo o
se resto immobilizzato per un motivo qualsiasi, mi resta molto lavoro da fare.

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Mario Giacomelli: a volte hai il coraggio di fotografare e a volte no

Mi chiedo se i tuoi occhi somigliano a quelli di tua madre.


Non so bene come li aveva, mia madre. Forse la sola differenza tra noi era che lei portava
un vestito da donna, e io da uomo. Di mia madre, la cosa che mi sembra la più
importante, e anche la più bella, è che in tutta la sua vita non sono mai riuscito a dirle che
la amavo. Forse per il mio cattivo carattere, o per timidezza. Non sono mai riuscito a darle
un bacio, e nemmeno a chiederle come stava. È morta pochi mesi fa. Ho baciato le sue
labbra, dopo morta, ma per me era bello, e da quel momento ho cominciato a vivere con
lei, adesso le chiedo come sta, se è felice di me. Son cose più grandi della fotografia,
forse è meglio non parlarne.
Ma tu guardi i tuoi occhi allo specchio, ogni tanto ? Ti chiedi cosa sono, questi occhi?
Non li guardo, forse neanche li sento. O li sento come un tramite. Quando tu fotografi,
hai un’immagine di fronte, che attraverso un forellino entra nella macchina, e tu puoi
averne una copia, un estratto. Cosi sono i miei occhi, uno strumento per prendere, per
rubare, per immagazzinare cose che vengono poi intrise e rimesse fuori, per gli occhi
degli altri.
E la macchina fotografica ? Tu non hai una macchina come noi tutti, Kodak o Nikon o
Leica.


Io non so cosa hanno gli altri. Io ho una macchina che ho fatto fabbricare, una cosa tutta
legata con lo scotch, che perde i pezzi. Io non sono un amante di queste cose. Ho questa
da quando ho iniziato, sempre la stessa. Con lei ho vissuto le cose, belle o brutte, con lei
ho diviso tanti attimi della mia vita. Mi rattrista solo l’idea di staccarmi da lei.
Ma questa macchina da dove viene ?

L’ho fatta fare io. Ho smontato un’altra macchina di un amico mio, togliendo tutte le cose
inutili. Per me l’importante è che ci sia la distanza e… cosa c’è d’altro? Io non so come
funzionano queste cose. L’importante è che non passi la luce. È una cassa senza niente.
E che film ci metti ?
Quello che trovo.
Ma un film 35 millimetri ?
Non mi chiedere i millimetri. I film grandi, non quelli piccoli. Non il piccolo formato. Mai
avuto.
Centoventi ?
Non mi dire mai i numeri! Io so solo una cosa: il sei per nove e ridotto a sei per otto e
mezzo.
Cioè fai dodici foto con un rullino ?
Non ricordo. Mi sembra che ne faccia dieci, non dodici. Dieci immagini. Per me questo è
importante. Una volta ho vinto un apparecchio di piccolo formato, in un concorso, ma
non sono riuscito a fotagrafare, era troppo veloce, non c’era più la partecipazione come
con la mia macchina, non avevo il tempo di pensare, scattavo quasi inutilmente. E
perdevo la gioia più bella, che è questo aspettare, questo preparare l’immagine, girare,
cambiare il rullino. Invece questa è giusta per me, per il mio carattere.
E che velocità ha questa macchina ? Un trentesimo? Un centesimo ?

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Non ricordo. So che non arriva oltre il duecentesimo. Per fare i paesaggi dall’aereo, me
ne faccio prestare un’altra, da un amico, ci sarebbe da vergognarsi, però non me ne frega
niente. Per me va bene lo stesso, perché io, se potessi, fotograferei senza macchina, non
ho questo grosso amore per la meccanica.
E il diaframma che apertura ha?

Secondo le volte. A Scanno, per esempio, le ho fatte quasi tutte a un venticinquesimo. In
inverno faccio due e ventidue.
Diaframma ventidue e mezzo secondo.
So che c’è un due e un ventidue. È la chiusura dell’obiettivo, questo l’ho imparato a
memoria.
Dunque chiudi completamente l’obiettivo.
Tutto chiuso, sempre uguale. Perché sono paesaggi. Invece quando faccio le figure no.
Tengo l’obiettivo aperto perché c’è poca luce.
E i vecchi nell’ospizio?
I vecchi nell’ospizio è un altro discorso, adopero un lampo. Volutamente. Perché alla
cattiveria di chi ha creato il mondo, di chi ci fa invecchiare, a questa cattiveria aggiungo
anche la mia cattiveria. Non tanto per mostrare la materia della pelle, ma per aggiungere
qualche cosa di ancora più forte, un contrasto. Il lampo modifica la realtà, la fa più mia.
Anche se quello che il lampo ti dà non è quello che vedi al momento in cui scatti?

Se non lo vedo, non lo scatto. Quando uno è abituato a usare il lampo, non tiene più
conto se c’è luce o non c’è luce, solo di quello che sta accadendo di fronte all’obiettivo,
dell’espressione dei volti. Direi anzi che so tutto prima.
Anche perché, su ogni progetto, tu non lavori per un giorno o una settimana. Ma per
due anni, tre anni. E poco a poco conosci.
Per me l’importante è crearmi questa atmosfera. Essere chiuso in questa specie di scatola,
in contatto con questo piccolo mondo. Vivere le cose che loro vivono, essere uno di loro.
All’ospizio sono andato per un anno senza macchina fotografica, perchè non volevo che
sentissero la macchina puntata. Ero un vecchio come loro.
Che età avevi?
Avevo cominciato a fotografare da pochi mesi. Avevo una trentina d’anni.
Avevi pensato per molto tempo a questa progetto?
Niente, non ci ho pensato niente. Le prime immagini che avevo fatto erano state di mia
moglie, di mia madre, dicevo loro: stai lì. Ma mi son reso conto che non so fotografare
una persona che sorride, che è dolce nel viso, ho bisogno che l’altro sia come sono io
dentro. Allora inveisco, divento cattivo. Fotografando loro, ho sentito che avevo bisogno
di qualcosa di più vero. Per questo ho pensato all’ospizio.
È stato il tuo primo lavoro importante?
È importante anche oggi. Se dovessi scegliere tra le cose fatte, salvarne una, salverei
l’ospizio. Non per l’ospizio in sè, dell’ospizio non me ne frega niente. Quello che mi
importa è l’età, il tempo. Tra me e il tempo c’è una discussione sempre aperta, una lotta
continua. L’ospizio me ne dà una dimensione più esatta. Prima di fotografare io
dipingevo, si potrebbe pensare che dipingere non abbia niente a che fare con il tempo,
ma anche allora era il tempo che contava. Ogni sera iniziavo un quadro, e mi imponevo di
terminarlo quella notte, anche se non andavo a dormire. Per finire il quadro con quella

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stessa tensione. Perché il giorno dopo sarei stato un’altra persona, non avrei più sentito le
stesse cose.
Cosa dipingevi?
Ho iniziato a dipingere con la terra, incollavo la terra con altre materie, con le foglie, non
so se si può chiamare dipingere. Poi ho provato i colori, le tele. Poi ho distrutto tutto. Poi,
per un periodo, ho scritto poesie, e ho distrutto anche quelle. Poi ho scoperto che la
fotografia ha una forza maggiore che tutte le cose che avevo fatto prima. Anche se non
crei, anche se non puoi dire tutte le cose che vuoi, la fotografia ti permette di
testimoniare del passaggio tuo su questa terra, come un blocco di appunti. Ho scoperto
che questo mezzo meccanico, freddo come dicono, permette di rendere delle verità che
nessuna altra tecnica può rendere. La mia prima macchina era una Comet, l’ho comprata
il 24 dicembre. II 25 sono andato al mare, e ho provato – ma non capivo neanche come
funzionava – ho provato con queste pose molto lunghe. Le onde venivano verso di me e
io spostavo la macchina in senso opposto. Ce ne sono state tre a quattro giuste, come le
avevo immaginate. Le altre erano da buttare. Così, al primo contatto tra me, la natura e la
macchina fotografica, ho scoperto che questo aggeggio meccanico, che prima mi faceva
paura, poteva diventare una continuazione di me stesso.
E le fotografie le sviluppi tu?
Le sviluppo e le stampo. Le bacinelle son lì, il tavolo, come vedi, è tutto consumato.
E quello che trovi nelle tue foto è quello che pensavi di trovare? O ci sono molte
sorprese?
Se ci fossero troppe sorprese non le userei. Sono molto vicine a quello che volevo,
qualche volta sono proprio quello che volevo. Ma certe nascono anche dal caso, io sono
uno che crede anche al caso. Da particolari non preventivati prima, che forse sentivo
senza rendermene conto. Qualche volta le cose non vengono come volevo, ma qualche
volta vengono meglio.
Ma al momento in cui fotografi tu sai quello che vuoi.
Il fatto che non le butto significa che in qualche modo corrispondono a quello che volevo.
Tanto più che tu ti dai il tempo necessario per sapere quello che vuoi, per avvicinarti
sempre di più.
Vorrei entrare dentro. Io credo all’astrattismo, per me l’astrazione è un modo di avvicinarsi
ancora di più alla realtà. Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto
passare dentro a quello che accade. E le fotografie che contano di più sono forse quelle
che ho vissuto senza scattarle. Questa donna senza denti, che cerca di masticare e non
riesce a mandar giù, si toglie di bocca questa cosa e la rimette sul tavolo. Poverette, non
vedono. L’altra che le sta vicino la riprende – all’inizio, per mesi, non riuscivo più a
mangiare – riprende la cosa masticata dalla prima, se la mette in bocca e continua, come
se fosse una cosa sua. Le immagini più vere sono queste, che io conosco e che tu non
saprai mai, le immagini che non ho fatto.
Ma che sono contenute, in qualche modo, in quelle che hai fatto.
Certo, vivendo tanto tempo insieme a loro, uno le fa e non se ne accorge.
Ci andavi tutti i giorni ?
Tutti i momenti liberi, Natale, Pasqua, sabato pomeriggio, la domenica appena svegliato
e appena fatta colazione.
Perché tu sei un fotografo della domenica.

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Fotografo quando ho il tempo. Io non sono un mestierante, nessuno mi può mandare,
nessuno mi può dire : adesso vai a fotografare. Neanche la fame me lo può dire. Vado
quando fa comodo a me, quando mi sento preparato. Se sono distratto io non fotografo,
neanche mi viene in mente di fotografare.
Ma all’ospizio ci andavi ogni settimana.
Tutti i giorni che non lavoravo in tipografia. Stavo lì, tenevo la mano all’una, portavo le
caramelle all’altra che il figlio non andava mai a trovare – e che poi invece mi ha
denunciato perché la fotografavo.
E in una giornata così facevi un rullino, due rullini?


Certe giornate non facevo niente. Perché è come se tu ti vedessi in uno specchio, e non
sempre hai il coraggio di vederti. Ci sono delle volte che vorresti che non avessero mai
inventato lo specchio, perché quell’immagine sei tu, sono i tuoi figli, è tua madre.
Ognuna di queste immagini è il ritratto mio, come se avessi fotografato me stesso. Non
ho niente contro i vecchi o contro l’ospizio. Solo contro il tempo, questo presente che
non esiste mai, già il momento in cui parliamo è fatto un po’ di prima, un po’ di dopo, di
passato e di futuro. Là dentro lo senti ancora di più, come un coltello puntato contro il tuo
cuore, ogni cosa ti concerne e ti ferisce. A volte hai il coraggio di fotografare e a volte no.
Come a Lourdes, le fotografie che ho fatte non so neanch’io come le ho fatte. Una volta
stavo a vedere una bambina, non so che male aveva, la tenevano in quattro o cinque, e
lei cercava di morderli, e loro la lasciavano e poi la rincorrevano. Io ho messo giù la
macchina sul muretto di quella scalinata, e sentivo le lacrime, non so come si piange,
però scendevano come da un rubinetto. Quell’immagine là ho sempre davanti agli occhi,
questi miei occhi hanno saputo piangere ma non hanno saputo guardare attraverso la
macchina. E la macchina è stata abbastanza onesta per non forzarmi. Apposta voglio
tenere questa, che ho sempre avuto, è come se avesse la mia stessa sensibilità, niente di
diverso dal mio carattere. Non vuole cose difficili perché non voglio case difficili, la posso
lasciare dove voglio, la ho lasciata anche nei campi e l’ho ritrovata, a molti sembra forse
un oggetto buttato via. Ma sono cose che è meglio non spiegare.
Dunque ci sono delle cose davanti a cui tu ti dici : questo no, non lo fotografo.
Non è che me lo dico, io mi accorgo che non fotografo. Quando non accetto come verità
quello che i miei occhi vedono, perché mi sembra impossibile che una persona, dopo una
vita di stenti e di lavoro, sia condannata in quella maniera. Ci sono delle cose che non
vogliono essere riprese. Poi altre volte mi accorgo invece che fotografo: quando posso
fare delle immagini che non gridano contro nessuno. Solo contro il tempo.
E quando tu le guardi, dopo, queste tue foto, c’è un momento in cui ti dici : questa
va bene e questa no, in questa direzione voglio cercare più lontano?
Non capisco cosa vuoi farmi dire. Mi sembra che vuoi sapere qualche cosa che non so
dirti. Io non mi dico mai : adesso scatto, adesso non scatto. Ci sono delle volte che io
guardo una cosa, ma le mani sono bloccate. Invece altre volte quello che accade è cosi
naturale che lo posso fermare, l’immagine mostra solo quello che mi aspetta domani, non
grida contro nessuno.
Io ti chiedevo di un secondo tempo, quando guardi i contatti.
Nel secondo tempo le vedo ancora meglio, queste cose che ho vissuto. Le immagini che
scelgo sono quelle che rendono le sensazioni che ho provato nel momento in cui

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scattavo, le sensazioni che vorrei non perdere, che vorrei dare ad altri. Scelgo le immagini
che potrebbero aiutare gli altri a riflettere, ad amare di più la vita.
La mia domanda era in relazione al progresso del lavoro. Hai fatto le tue foto
domenica, le hai sviluppate lunedì. Martedì guardi i contatti. Ti dici : ecco, questa
cosa l’ho mostrata bene, quest’altra dovrei cercare di mostrarla meglio domenica
prossima? Finchè, dopo tre anni, o cinque anni, tu hai l’impressione di aver reso
quello che potevi rendere?
Questo accade per tutti gli altri soggetti, ma non per l’ospizio. Ogni fotografia è il ricordo
di un giorno vissuto in mezzo a loro. Per l’ospizio non faccio programmi, domani vivrò
altre situazioni. Invece ho programmato nel caso di certi paesaggi, alcuni addirittura li ho
costruiti io. Vengo con il contadino, con il trattore, dico: Vorrei fare dei segni qui,
costruisco la fotografia come un quadro. L’ospizio invece lo vivo come la vita, giorno per
giorno, ogni volta imparo delle cose che la volta prima non sapevo.
A proposito dei paesaggi, mi hai detto che sei andato verso un’astrazione sempre più
grande, finchè, ad un certo punto, hai avuto l’impressione di aver esaurito il
soggetto.
L’ospizio, in fondo, è come la vita mia, che continua. Con il paesaggio, invece, purtroppo,
mi sono bloccato. A un certo momento ho voluto vederlo verticalmente, per averne una
prospettiva diversa. Sono partito da questa terra, come la vede il contadino che ci lavora,
poi ho voluto vedere la stessa cosa da sopra. E guardandola così mi è sembrato, ancora
una volta, di essere entrato dentro, la terra non era più terra ma segno, come le rughe
delle mani, come la pelle dei vecchi. Sulla terra c’è il contadino, che pianta le patate, e
che non sa che quello che lui fa è per me un segno, che a me dà un’emozione diversa. Le
rughe della terra e della pelle mi insegnano delle cose che non conoscevo, che il
contadino non può conoscere, che quello che guida l’aereo non può sapere. Come se
qualcuno illuminasse le cose magicamente. I neri nascondono, i bianchi mettono in
evidenza certe forme, quello che si viene a creare sulla pellicola è un mondo diverso, certi
paesaggi diventano come merletti ricamati. Se il contadino che ha abbandonato quella
casa sapesse com’era bella la sua terra, vista così, forse non l’avrebbe abbandonata. Ma
qualche volta mi chiedo qual’è la relazione tra la realtà che fotografo e questo segno che
resta. Le rughe dei vecchi sono ancora i vecchi, è ancora la loro sofferenza ?
Quello che dici delle rughe della terra, come le rughe dei vecchi, mi fa pensare che tu
vai sempre dritto ai temi essenziali, la vecchiaia, la sofferenza, la terra, l’amore. Forse
è per questo che abbiamo parlato dell’occhio e della macchina fotografica, strumenti
essenziali del tuo lavoro. Un terzo tuo strumento essenziale, del quale ti vorrei
chiedere, è la parola. Perchè il tuo punto di partenza è da una parte lo sguardo,
dall’altra la parola. Molte tue fotografie si riferiscono a poemi che hai letto. E
immagino che quando tu le guardi e le giudichi, il criterio che te la fa accettare – o
rifiutare – è l’aderenza a una parola.


A quello che ha creato dentro di me la parola. Però io racconto, non illustro. Vedo le
immagini del poeta, ma poi cerco emozioni nuove, come se mi lasciassi prendere per
mano e portare per strade dove mi sembra di essere sempre passato, e dove invece non
sono mai passato. E certe immagini, che prima non mi dicevano niente, da quel momento
parlano, respirano. E so che quando la mia emozione mi dice schiaccia questo pulsante,

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questo vuol dire che lì qualcosa ci deve essere, anche se a prima vista l’immagine può
non parere bella, se il soggetto può sembrare povero, o ridicolo. Come quest’altra: un
muro vecchio e un cane solo. Un’immagine stupidissima, la saprebbe fare chiunque. Ma
questa immagine provoca in me una certa emozione, come se azzerassi tutto…
Nel senso che metti a zero…
Che riparto da capo, che mi sento proprio senza niente. lo non vedo né il cane né il muro,
ma vedo come sono piccolo, come ho paura, vedo che domani la mia vita deve finire,
mentre pensavo di fare ancora mille cose. Ma non è facile parlare di questo. Se io fossi
onesto con me stesso, mi incazzerei come una bestia. Son cose che ho provato ma che
non so spiegare, cose belle, che raccontarle è da vigliacchi. Tu me lo spieghi un orgasmo
con tua moglie?
Ti voglio chiedere una cosa: c’è questa vita che scorre, e questi istanti che valgono
tutti la pena di essore vissuti, e queste diecimila o ventimila foto che tu hai fatto, che
sono tutte interessanti. Ma poi ce ne sono venti, o trenta, o quaranta, dove c’è
qualcosa di più, la grazia. Tra tutte le foto che tu hai fatto all’ospizio c’è questa, che è
stata pubblicata dappertutto…


Sai perchè per me è bella? Tu vedi la vecchia, l’ospizio. Ma se tu la guardi ancora meglio,
non c’è più né vecchia né ospizio, è come un mare bianco, come una barca su un’onda.
Ma questo è venuto dopo che ho pianto dentro di me una quantità di volte, di fronte ad
altre immagini. Non so se questa è più importante, per me sono tutti attimi, come il
respiro, quella prima non è più importante di quella dopo, ce ne son tanti, finché tutto si
blocca e tutto finisce. Quante volte abbiamo respirato questa sera ? Nessun respiro era
più bello dell’altro e tutti insieme sono la vita. Ma un’altra fotografia che sento è questa:
perchè c’è qualche cosa che ha ancora il sapore di vivo, ma qualche cosa d’altro che è già
come decomposto, deformato. Da qui a qui è passato il tempo, qui riesci a decifrare, qui
c’è solo una macchia, solo polvere, si è già impastato tutto, perso tutto. E da dietro,
invece, viene una luce. Per un attimo lo sento, questo. Non è una bella fotografia, è tutta
sbagliata, ma c’è la mia rabbia di chiedere: perché essere vivo? perchè la morte è così
vicina? Io ho sessant’anni, ed è come avere sessant’anni di morte sulle spalle, più morte
addosso che vita. Sono queste idee che si impastano con le figure. Come anche in questa
dove si baciano, due amanti, lui gli prende le mani, gli fa una carezza. Nessun amore può
avere più dolcezza che questo vecchio con questa vecchia. Io faccio queste immagini
perché vorrei che gli altri, dal momento in cui le vedono, vivessero diversamente. Che la
carezza che questi ancora cercano da vecchi, da giovani l’avessero saputa fare. Quanta
gente vive e non sa carezzare ? Quante donne muoiono senza aver mai provato l’orgasmo
? Quando io mostro questi vecchi, mostro me stesso, le cose che non ho capito, che avrei
voluto fare in un’altra maniera, che vorrei ricominciare. Ma l’immagine è solo una minima
parte di quelle che sento, è per questo che se ne fanno tante.
Ma solo certe sono dei miracoli, solo in certe quello che è stato il flusso della vita si
ritrova in quello che è stato fermato. La vecchiettina come una nave sulle onde è un
miracolo, il flusso della vita è là, nell’istante che hai fermato.
Ma forse tu questo lo inventi, la fotografia non è solo quello che tu vedi, ma anche quello
che tu aggiungi. Un altro vede magari un’altra cosa, io ho forse visto un’altra cosa. Ma che
importanza ha che una veda una cosa o l’altra? Forse l’importante è il contatto tra uomo e

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uomo, il fatto che parliamo degli alberi che perdono le foglie, delle cose che si
calpestano senza accorgersene, di questa casa che muore così, piano piano, il
proprietario l’ha abbandonata, eppure magari è nato lì, ha pianto lì, ha riso lì. In questa
casa si apre una frattura, piano piano, e un giorno o l’altro la casa cade, e mi
dispiacerebbe che morisse senza che io me ne accorga.
E tu vai a vederla ogni settimana?


Conto i giorni come se andassi a trovare un figlio, o una madre. Io con lei riesco a parlare,
c’è un legame. E magari non so aprirmi con un altro uomo, perchè lui parla solo di soldi.
Io non butto via neanche cinque lire, però non parlo mai di soldi. Perchè le ricchezze, per
me, sono proprio queste, le cose inutili che gli altri hanno buttato via, le cose piccole che
per molti non hanno senso. Come questa casa che si apre piano piano. Ogni settimana
questa casa m’aspetta. Diranno che sono pazzo, ma per me va bene essere un pazzo che
si accorge di quello che accade attorno a lui, per me sono più pazzi quelli che non si
accorgono. Di tutto no, non mi accorgo, però vorrei accorgermi di tante cose, apposta
cerco le cose piccole, perché le grosse mi soffocano, non sono fatto per le cose grandi,
preferisco far grandi le cose piccole.
È per questo che le tue foto più grandi le hai fatte qui a Senigallia.


Le devo far qui, è una questione di respiro. Come sarebbe possibile fare un respiro qui,
poi un altro nell’albergo, poi un altro a Milano ? Qui tutto è come un respiro continuo.
D’altra parte, ci sono delle cose che non si sentono più. Io, per esempio, qui nella mia
città, non ha mai camminato con la macchina fotografica in mano, la gente non sa che io
fotografo. Mi dà fastidio la gente che sta attorno, che interroga. Dunque mi allontano un
po’. Quanto basta per trovare un mondo in cui immergermi. In campagna, per esempio,
non mi ero mai reso conto del profumo del fieno, dopo la pioggia. Una cosa che non
conoscevo, cinquant’anni inutili per questa cosa, vedi quante cose ci sono da conoscere,
però sono tutte piccoline, quasi non fotografabili, ma che si impastano nell’immagine.
Finalmente tu, stando qui a Senigallia, riesci a vedere le cose come se tu fossi
sbarcato oggi dal pianeta Marte, con l’occhio nuovo. Come quando mi hai detto,
alcune ore fa : io in automobile sbaglio sempre strada, perché per me le strade sono
sempre nuove.


Perché mi sembra sempre che qualche cosa stia per nascere, che qualche cosa di diverso
stia per avverarsi. Il luogo dove le cose accadono non è così importante, un luogo vale
l’altro. Mi dicono: come fai a fare queste fotografie? Ma non tengono conto che sono le
immagini che scelgono me, non io che scelgo loro. Come se il paesaggio mi dicesse: ma
tu sei tonto, credi che sei tu che fai i paesaggi ? non vedi quanto son bello? Ci sono delle
immagini che ti bloccano loro, e tu cerchi di capirle, però sono loro che vengono da te,
come gli sguardi delle donne. Tu dici: quanto è bella questa! e se lei ti dà l’occhio più
dolce, se vedi che si presta, tu dici: Madonna! forse io riesco anche a baciarla. Il
paesaggio è uguale, tu lo vedi e dici: Madonna!. Il paesaggio non scappa, ma io ho
sempre paura che resti lì solo per un attimo, lo faccio col cavalletto, perché faccio due e
ventidue, devo sempre ricordarmi i numeri perché non capisco mai, con due e ventidue ci
vuole per forza il cavalletto, allora ho sempre paura che mi scappi, continuo a guardare

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mentre sposto il cavalletto, trattengo il fiato, io quando fotografo non respiro, mi blocco e
scatto, quella per me è la gioia più bella, come se avessi spogliato le più belle donne del
mondo. Quando loro si lasciano spogliare. Se son riuscito a fotografarle vuol dire che è
andata bene. Se no, si dirà che le ho sognate, e basta.
Senigallia, Febbraio 1987

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Helmut Newton: beating the system

Se dovessi descrivere Helmut Newton a qualcuno che non lo conosce, comincerei


dicendo: è il fotografo che ha sovvertito il sistema. Tu hai saputo servirti di ciò che
per altri è un impedimento, per rigirarlo a tuo vantaggio e farne lo strumento del tuo
successo. D’altronde tu stesso l’hai detto…
“Beating the system.”
Non so molto della tua vita, ma ricordo com’eri verso la fine degli anni Cinquanta, al
tuo ritorno dall’Australia. Eri quello che si dice un tipo serio, un vero professionista,
disciplinato, abituato a fare ciò che ci si aspettava da te. Siamo diventati amici perché
tu mi passavi i lavori di cui non potevi incaricarti ed io ti presentavo a certi miei
clienti. Sembrava una cosa naturale: il nostro modo di lavorare era abbastanza vicino
perché fossimo intercambiabili. Dieci anni dopo, uno scambio di questo genere
sarebbe stato impensabile: tu avevi sviluppato uno stile molto personale, unico,
centrato su una mitologia erotica alla cui origine c’è indubbiamente qualche tuo
complesso, ma che tu hai esibito al momento giusto, sull’onda liberatoria degli anni
Sessanta.

Inoltre hai trovato la giusta combinazione di disinvoltura e di eleganza necessarie
perché questa mitologia fosse accettata da una rivista come Vogue. Agli inizi degli
anni Settanta hai avuto un grave problema di salute, che ti ha obbligato a rallentare il
tuo ritmo di lavoro. Quello è stato un momento di svolta: ti sei detto che la vita è
troppo breve per fare soltanto ciò che piace ai clienti e che da quel momento in poi
avresti fatto quel che piace a te. È con questa decisione che hai rovesciato la
situazione: facendo ciò che piace a te hai guadagnato più soldi e hai ottenuto più
successo.
Ma sono sempre rimasto disciplinato.
Lo so. A volte penso che se tu decidessi di fotografare partite di calcio o pesciolini
rossi, lo faresti con altrettanta disciplina e immaginazione…
È per questo che continuo ad accettare lavori su commissione, benché economicamente
non ne abbia bisogno. Ma trovo piacevole guadagnare soldi, ed inoltre le esigenze del
cliente rappresentano una cornice che può essermi utile – purché questi lavori non siano
troppi e non entrino in conflitto con le mie proprie esigenze.
Immagino che tu sei altrettanto disciplinato nel tuo lavoro personale.
Conosci certamente i cinque libri che ho pubblicato. Il prossimo sarà un tascabile che
potrebbe intitolarsi The best of Helmut Newton, come si fanno le raccolte di canzoni The
best of Sinatra. Poi ce ne sarà un altro, pubblicato da un altro dei miei editori, che non
deve costare più di venti dollari e sarà distribuito su scala mondiale. Sarà un libro di
duecentocinquanta pagine, in bianco/nero e colore, con ritratti di persone che trovo
interessanti e qualche foto che ho riscoperto per caso, di me giovane a Berlino, vestito da
reporter d’assalto. Sarà molto personale e vorrei che raggiunga un pubblico molto vasto.
Non credo più ai libri fotografici di grande formato, non c’è mercato. Secondo me, i soli
libri illustrati vendibili come oggetti di lusso sarebbero libri pornografici. Si potrebbero
anche vendere cari, centocinquanta dollari per esempio. Ma io non sono in questo
mercato – o perlomeno non ancora, benché ci pensi seriamente.
Me ne hai già parlato un anno fa.

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Nel frattempo ho realizzato alcune fotografie del genere. Le hanno viste solamente tre
persone – oltre a me naturalmente. Vedi, è come un esercizio, per liberarmi del
background dei miei inizi. Ho cominciato come fotografo di Vogue a Sydney, nel 1952, e
questo ha lasciato in me una sorta di sistema inibitorio, di cui non mi sono ancora disfatto
del tutto e che mi blocca di fronte a certi soggetti. È per superare questo blocco che
voglio fare della pornografia hard – e allo stesso tempo mi domando se ciò che ho già
fatto sia abbastanza hard, se non debba spingermi molto più oltre. Se c’è qualcosa che
odio, è sicuramente il buon gusto: per me è una parolaccia.
Goethe ha detto qualcosa come Genie und Geschmack non vanno insieme – non
ricordo esattamente le parole.
Mi piace, bisogna che lo annoti, genio e buon gusto non vanno insieme.
Il buon gusto esige imporsi dei limiti, mentre tu ami trasgredire i limiti. Potrebbe
essere un altro modo di definirti.
Trasgredire! Annoterò anche questo. È vero che cerco sempre un po’ di scandalo, anche
nei miei ritratti. Mi sarebbe piaciuto essere un paparazzo. Negli anni Cinquanta avevo una
passione per Weegee, come sono stato affascinato da Brassaï e da Salomon. Ecco un
altro che trasgrediva, e con quale eleganza! Anche Lartigue era elegante, ma non si può
dire che trasgredisse: non ne aveva motivo, era perfettamente integrato nel suo
ambiente.
La trasgressione è un tema centrale nelle tue foto. Qui, per esempio, vedo una
ragazza nuda nel giardino di Villa d’Este. Ma, guardando questa foto, penso
soprattutto a Helmut Newton che si diverte come un bambino a trasgredire le
regole, a convincere la ragazza a spogliarsi lì, ad eludere la sorveglianza dei
guardiani, ad approfittare dei pochi istanti in cui le circostanze si prestano al suo
gioco.
Assolutamente, leggi la foto correttamente.
Ma il gusto della trasgressione non basta a spiegare la tua ricerca attuale, e neanche
il gusto dei soldi o del successo. Sembri ossessionato da un’urgenza di cercare più
lontano – o forse più vicino, rivolgendo l’obiettivo su te stesso. Si può parlare di
narcisismo?
Certo che è narcisismo. È il motivo per cui ho iniziato la serie a cui lavoro in questo
momento e che chiamo autobiografica. Ma d’altra parte forse no, forse non è narcisismo.
Forse non sono più narcisista di chiunque altro. No, Frank, è solo che alla mia età non ho
più il tempo per ripetermi, per ricominciare a fare ciò che ho già fatto per le riviste di
moda, anche se credo di aver lavorato bene e se allora questo mi divertiva. No, non è
narcisismo. Ho appena terminato questa serie autobiografica: sono ritratti di quattro dei
miei medici, nei quali ho voluto trovarmi anch’io. Mi è sembrato che questo avrebbe reso
le foto più interessanti. Tecnicamente è complicato, come puoi immaginare: bisogna
controllare con delle Polaroid, e nonostante tutto non si è mai sicuri. Due o tre mesi fa ho
fatto altre foto dello stesso tipo, ma che si riferiscono alla mia gioventù, con delle
ragazze, ai laghi e nelle foreste dei dintorni di Berlino. Anche lì mi sono messo nelle
immagini, era affascinante: come recitare un un piccolo ruolo in una rappresentazione
teatrale. Molti fotografi hanno fatto autoritratti, ma per me è più interessante quando
questo fa parte d’una messa in scena.

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Forse ciò che ti interessa è che questo modo di lavorare è all’opposto al senso
naturale della fotografia, che è di dirigere lo sguardo verso l’esterno. Non credi che
possa essere questo paradosso a tentarti?
Non so, il mio punto di vista è diverso. Penso semplicemente che quando il tema della
foto è legato alla mia vita, presente o passata, mi sembra una buona idea mettermi
nell’immagine. Ovviamente non mi metterei mai in una foto pubblicitaria. La prima volta
che ho posato per me stesso è stato per Vogue, nel ’79 o nell’80. Dovevo presentare
della moda maschile e questo mi ha dato l’idea. La foto che ho fatto è una delle mie
preferite. Tutto quello che ci si vede fa parte della mia vita: la mia macchina fotografica, la
mia modella di nudo preferita, mia moglie June che guarda la modella con
un’espressione molto divertente, lo studio di Vogue dove sono successi molti fatti
importanti per me, la Place du Palais-Bourbon, che si intravede attraverso la porta aperta,
e dove ho fatto migliaia di fotografie, soprattutto nei giorni delle sfilate di alta moda.
Questa è una vera foto autobiografica. È un buon esercizio; per me ogni fotografia è un
esercizio.
Ma ti poni un limite? Esistono avvenimenti troppo intimi per essere condivisi con un
pubblico?
Come fotografarsi mentre si fa l’amore? Non so. Un amico mi ha mostrato una fotografia
di questo tipo, ed è una delle foto più erotiche che abbia mai visto – benché non si veda
un gran che. È autobiografica senza che nessuna persona sia identificabile. Non c’è nulla
di male a fare tali foto per se stessi, ma non le pubblicherei. Non sono un esibizionista.
Se lo dici tu…
Potrei fotografarmi mentre faccio l’amore, ma non inserirei questa foto in una mostra o in
un libro. June mi ha fotografato mentre piscio: è una foto molto divertente. Sono in
controluce, nel giardino di Ramatuelle, e guardo l’obiettivo, mentre i raggi del sole al
tramonto fanno brillare lo spruzzo di pipì. È molto romantico e non ci vedo nulla di male.
Mi piacerebbe frugare nei tuoi archivi per rivedere alcune tue vecchie foto di moda.
Molte erano mediocri. Quelle dell’Australia erano francamente brutte, imitazione delle
riviste di moda inglesi o americane.
Pensavo ad alcune foto che avevi fatte all’inizio degli anni Sessanta, per Jardin des
Modes o Stern, in cui non mostravi fantasie sessuali. Le tue foto di quel periodo sono
più convenzionali di quelle di oggi, ma c’è la stessa suspense, lo stesso
presentimento che qualcosa stia per accadere. Tu hai detto che una fotografia di
moda rappresenta un istante senza passato né futuro. Senza dubbio volevi dire che
ciò che vi si vede non implica un preciso passato o futuro, ma che qualsiasi
prolungamento, in un senso o nell’altro, dipende solo dall’immaginazione di chi la
guarda.
Questo è vero per tutte le mie foto, non solo per le foto di moda.
Sì, mi pare che questo immaginarsi delle storie possibili sia una tua caratteristica, che
faccia parte del tuo modo di vivere.
Sono come tante altre persone: mi siedo sulla spiaggia o sulla terrazza di un caffè, guardo
la gente – soprattutto le donne – e mi invento delle storie. È un buon modo per passare
una mezz’ora. Questo è il periodo migliore dell’anno, quando il grosso dei villeggianti
estivi se n’è andato. Ogni anno ce n’è una che mi fa sognare più delle altre. L’anno scorso
era una tedesca: mi ero immaginato tutta una storia su di lei. Era interessante. Non ho

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visto il suo viso che l’ultimo giorno, ma aveva un corpo di una bellezza straordinaria.
Sapevo che era tedesca perché aveva un libro, Il Francese in venti lezioni o qualcosa del
genere. Un corpo incredibile, ma non riuscivo a vederle il viso. L’ultimo giorno un tipo l’ha
abbordata e io mi divertivo a guardarli. È stato in quel momento che lei si è girata verso
di me: aveva uno di quei visi dal mento sfuggente, di una noia mortale. Non era brutta, se
lo fosse stata avrebbe potuto essere interessante. Ho pensato che chi ci va a letto dovrà
metterle una federa di cuscino sulla faccia. Per me, queste storie che mi racconto sono
molto europee, non trovo molto da immaginare in America.
E cosa immagini in America?
L’America mi ispira in un modo diverso: mi sento come in un film.
È proprio questo che volevo dire a proposito delle tue foto. Ci si sente come in un
film e ci si chiede cosa succederà dopo.
Sono felice di sentirlo, soprattutto da parte tua. Immagino che non sia il momento di fare
un’intervista a Frank Horvat…
Perché no?
Non capisco il cambiamento nel tuo modo di fare fotografie. Ammiravo il tuo lavoro degli
anni Cinquanta e degli inizi dei Sessanta, quando eri ancora vicino al reportage e portavi
quel tipo di sensibilità nella foto di moda. Ciò che mi affascinava era la realtà che
mostravi, come in quella foto straordinaria di tutte quelle donne in Place de la Concorde.
Ma poi, negli anni Settanta, hai cambiato completamente, ti sei concentrato su ciò che ti
sembrava essenziale – concentrato fino alla noia. Per amore della semplicità, hai spogliato
le tue foto di tutto ciò che le rendeva interessanti. Anch’io amo la semplicità, ma le tue
foto sono diventate talmente semplici, che non c’è più nulla da mettersi sotto i denti,
nulla di cui eccitarsi. Francamente non capisco questa tua evoluzione.
Forse per paura di lasciarmi sfuggire quello che succede davanti il mio obiettivo. Per
essere più sicuro, mi concentro su un soggetto alla volta e scatto molti rullini.
Ma cosa vuoi che ti sfugga scattando quindici rullini su un soggetto?
Forse una certa perfezione. Ma capisco che una ricerca di questo tipo possa
sembrare priva di interesse.
Che strana ossessione! Ma non hai paura di perdere tutta la spontaneità?
La spontaneità fa parte delle perfezione che cerco. Per esempio, nei ritratti femminili
che ti ho mostrato e che detesti…
…effettivamente li detesto. Quanto meno ho la franchezza di dirlo.
…cerco di ottenere, allo stesso tempo, la buona composizione e la spontaneità, e ho
talmente paura che l’una o l’altra vengano a mancare, che non riesco a fermarmi e
finisco per scattare quindici rullini. Ciò che ammiro in alcuni fotografi – in te per
esempio – è il coraggio di fermarsi dopo un rullino. So che ti succede anche per
situazioni complesse, messe in scena con dozzine di figuranti. Come fai a non avere
ripensamenti, a non chiederti se non hai sbagliato la foto, a non tentare ancora
questa o quella variazione?
Ma ne ho di ripensamenti, ne ho moltissimi, te lo giuro! Ogni fortografo ne ha… Quando
mi ritrovo al volante della mia auto, o in aereo, ripercorro ogni istante del mio lavoro e mi
domando: Avrei dovuto provare in questo modo o in quest’altro?
Ma tu non fai stare un’ora e mezza le modelle davanti al tuo obiettivo, non scatti
dieci rullini solo con piccole variazioni?

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Io comincio facendo ciò che ho pensato di fare. Poi faccio un giretto e mi chiedo se potrei
provare in altri modi. Ma arrivo molto presto ad un punto di saturazione in cui tutto ciò mi
infastidisce e mi dico che la mia prima idea era quella giusta. Ho una capacità di
attenzione limitata, è per questo che non saprei fare un film. Per me, un lavoro che duri
più di due giorni non è un buon lavoro. Come quando ero campione di nuoto: vincevo sui
100 metri e sarei stato ancora più forte sui 50.
Capita anche a me che la foto migliore sia la prima del primo rullino. Ma altre volte è
l’ultima del decimo.
Ma c’è un’evoluzione tra il primo e il decimo? Cambi sfondo? Avanzi? Indietreggi?
Qualche volta. Succede soprattutto che la modella si stanca e si lascia un po’ andare.
Ed io anche. Vedi, il mio problema è che sono diventato così abile, che la mia
professionalità finisce per limitarmi. È come il sistema inibitorio di cui parlavi. Per
alcune modelle è la stessa cosa. Quando ci siamo un po’ stancati, l’abilità si attenua
ed il contatto diventa più diretto.
Per quel che mi riguarda, io ho sempre bisogno di ogni briciola della mia abilità. Quando
sono stanco, non riesco a concludere nulla, ho solo voglia di dormire.
A proposito di abilità, Helmut, vorrei parlare del tuo senso grafico. Ci sono stati
ultimamente alcuni fotografi che hanno cercato di imitarti: tutti hanno un po’
d’immaginazione e qualche ossessione sessuale – chi non ne ha? Ma ciò che gli manca
è il tuo senso della composizione. Del resto, trovo che le tue foto che funzionano
meglio sono quelle in cui la composizione è più forte.
Non ne sono cosciente. Al contrario, spesso cerco di fare delle brutte foto. Certo non
posso fare a meno di lavorare meticolosamente, ma mi piace che le fotografie sembrino
sbagliate. È per questo che ho abbandonato il Kodachrome: ha una grana troppo fine, è
troppo professionale. Preferisco i colori sparati, che fanno pensare a un errore nello
sviluppo. Il colore brutto mi piace, purché non sia davvero orribile, ed anche le foto di
traverso. Mi capita di tenere la macchina un pò di traverso, quanto basta perché la foto
non sia troppo perfetta.
Malgrado tutto il punto di forza delle tue foto migliori resta la composizione.
Fammi un esempio.
I nudi con la sella. Naturalmente sono tutti erotici, e tutti spingono a chiedersi cosa
provavano le ragazze e cosa provava Helmut Newton. Ma la foto che funziona
meglio, secondo me, è quella con l’ombra sul muro, in cui il gioco grafico predomina.
Non sono d’accordo. La foto che è stata riprodotta dappertutto, su Life come una delle
migliori foto degli anni Settanta, su Time in un articolo sulla decadenza, è la foto della
ragazza a quattro zampe con la sella sulla schiena. È la foto che dicono abbia marcato
un’epoca. No, io non penso mai al gioco grafico, o se ci penso è per evitarlo. Mi
piacciono di più i lampadari che vengono fuori dalla testa delle persone. Li trovo
divertenti, perché fanno parte di quelle cose che mi avevano proibito di fare.
Mi piacerebbe ripercorrere una delle tue giornate di lavoro, passo per passo. Ti alzi,
ti lavi i denti, passeggi sulla spiaggia. E nel frattempo immagini delle situazioni?
Si, continuamente. Anche se le mie foto più recenti sono meno aneddotiche. Quando
guardo le mie vecchie fotografie, mi chiedo dove ho trovato la forza per crearmi tutte
queste complicazioni. Certo, non l’avrei fatto se non mi ci fossi divertito. Ma non
ricomincerei per nulla al mondo, non saprei più neanche da che parte cominciare e

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soprattutto non ne avrei più la forza fisica. D’altra parte ho bisogno di idee. Fotografi
come Avedon o Penn sono abbastanza bravi per fare una bella foto su un fondo bianco.
Ma io non posso permettermelo: i miei clienti direbbero che Helmut non si è dato troppi
pensieri, che non ha fatto ciò che ci si aspettava da lui, e io non sopporto più questa
pressione su Helmut. Sono stanco di inventare nuove gag, ho già fatto quello che avevo
da fare.
Ma ti riesce anche di fare foto molto semplici e molto forti. Mi riferisco a questo
piede di donna con la scarpa, con queste pieghe della pelle che sono più espressive
che una folla di modelli.
È una buona foto, lo so. Ma non sempre si riesce a fare una buona foto. L’ho fatta subito
dopo il periodo delle grandi messe in scena, nel momento in cui ho cominciato a fare dei
ritratti. Per un ritratto non cerco idee. Lavorare in questo modo è stata una vera
liberazione per me, anche se il ritratto comporta altre difficoltà, di ordine psicologico. È
stato come se, all’improvviso, avessero tolto un enorme peso dalle mie spalle. E ho
deciso che non voglio rivedere mai più venticinque capi appesi in una redazione e
sentirmi dire da una redattrice: Helmut, sono questi venticinque che dobbiamo
fotografare. Mai più.
Però continui a immaginare le tue foto…
Sì, la maggior parte del tempo non faccio altro.
…e ad organizzarle.
Qui a Montecarlo è facile, molto più che a Parigi o a New York. Il permesso per operare in
strada viene rilasciato subito, mi conoscono. È come vivere in un paesino e chiederlo al
sindaco. Vado all’ufficio che si chiama Ministère de l’Intérieur e mi dicono: “Certo,
Monsieur Newton, siamo lieti di lasciarla fototografare nelle strade da tale giorno a tale
giorno.” Se mi serve un cane, so che la mia vicina di casa ha un bel cane, se mi serve un
bimbo, so dove trovarlo. È facile. In questo momento lavoro per Match. Mi piace,
preferisco un giornale di cronaca e d’attualità alle riviste di moda, che per me hanno
perso ogni credibilità.
Dunque tutto è sistemato: le modelle, la strada, il cane e il bimbo; e tu sei lì con la
tua macchina fotografica.
E io sono lì con la mia macchina fotografica, e bisogna che mi inventi qualcosa. Che fare
d’altro? Tu che faresti? Non andresti in giro con la modella aspettando che il buon Dio ti
mandi l’ispirazione!
Ma ti limiti a fotografare ciò che hai immaginato? O aspetti che il buon Dio ti mandi
l’ispirazione?
Succede, ma non spesso, che il buon Dio mi mandi un bel raggio di sole o una bella
nuvola al momento giusto. Per questo mi piace lavorare in esterno: dentro lo studio il
buon Dio non può far nulla per me, tranne mandare un fulmine e provocare
un’interruzione di corrente. In esterno può aiutarmi, come può anche complicarmi la vita
mandando la pioggia. Comunque è raro che mi mandi una luce che io non sappia
utilizzare in un modo o in un altro.
Perché sei bravo.
No! Perché ogni luce che Dio manda è diversa e il cambiamento mi tiene sveglio. Presto!
presto! presto! mi dico bisogna approfittare di questa bella luce finché dura.
Dunque tu organizzi delle messe in scena, ma ciò che veramente aspetti è l’inatteso.

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Purtroppo l’inatteso non succede sempre – gli errori divini sono rari – ma quando
succedono mi diverto di più.
Diresti che i momenti in cui fotografi sono i più belli della tua vita?
Forse. Ma a volte detesto quello che devo fare e mi dico: Non avrei dovuto mettermi in
questa galera, sono troppo vecchio per impiegare il mio tempo così. Quando ho fatto il
ritratto di Ava Gardner, quello con la sigaretta, abbiamo avuto un pessimo approccio
iniziale e per tutto il tempo della seduta ho detestato quella donna – che per altri versi
ammiro. E sono sicuro che lei, da parte sua, mi ha detestato altrettanto. È stato un vero
incubo: avevo voglia di mollare tutto e riprendere il primo aereo. Ma era un lavoro per
L’Egoïste, sapevo che non sono ricchi e che avevano già speso molto per il mio viaggio,
non potevo lasciarli in asso. Dunque ho continuato e ho finito per scattare sette rullini.
E la foto buona è stata la trentaseiesima del settimo rullino?
Sicuramente non è stata tra le prime.
Quando fai una buona fotografia, te ne rendi conto subito?
A volte mi sembra di sì. Ma mi succede anche di interrompere una seduta perché non so
più come andare avanti. Why flog a dead horse? Nel caso di Ava Gardner è stato diverso:
la foto buona è arrivata verso la fine della seduta – e non ce n’era che una.
È una delle tue foto che preferisco.
È un buon ritratto di una donna non più giovane – eppure la foto non è stata nemmeno
ritoccata. La seduta è stata difficile, ma ho continuato finché c’era luce. Quando si
fotografano delle persone vere non è come con le modelle. Le modelle sono pagate per
star lì. Ma un’attrice si sente fragile davanti l’obiettivo, tutte le donne si sentono fragili,
ma un’attrice più delle altre, lo capisco benissimo. È un tale rischio per loro, ed hanno
davvero tante ragioni per sentirsi vulnerabili. Quando si ha simapatia per la persona che si
fotografa e si vuol fare una buona foto, bisogna procedere con molta cautela.
Possiamo tornare alla tua giornata? La seduta è finita e guardi i provini…
La prima cosa che mi dico è: Mio Dio come sono stato stupido, avrei dovuto fare in un
altro modo. Immagino che sia così per tutti.
Ma, qualche volta, c’è anche la sorpresa divina.
Sì, quando ho la sensazione che la buona foto c’è. Ma esiste un’altra sorpresa, più
primordiale: lo stupore di trovare qualche cosa sulla pellicola – come se ogni foto fosse
un miracolo. Non ti capita di provare la stessa cosa?
Sì, e c’è una terza cosa che a volte mi succede, e che per me rappresenta un test
infallibile: il bisogno di mostrare il provino a qualcuno, a mia moglie, al mio
assistente, a chiunque. Il bisogno di dire a qualcuno: Presto! Vieni a vedere! Non
succede spesso, ma quando succede, so di aver fatto una buona foto.
Io li faccio vedere sempre a June. Faccio la mia scelta e lei fa la sua. A volte siamo
d’accordo, ma più spesso siamo diametralmente all’opposto. È lei che sceglie meglio, a
me scegliere dà noia. Daltronde le foto che scelgo quando i provini tornano dal
laboratorio non sono quelle che sceglierei un anno dopo. È un fenomeno interessante – e
una prova del fatto che non bisogna buttare niente. Tutto cambia, le nostre idee sulle
cose cambiano – o quanto meno le mie. I miei tabù cambiano: diminuiscono con l’età.
Detestavo le ragazze che assumono certe posture. Poi di punto in bianco, mentre facevo
il libro dei Grandi Nudi, mi sono detto: Mi piace! e ho fatto posare la modella in quel

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modo. Tutto cambia, Frank, oggi vedo le cose in modo del tutto diverso che cinque anni
fa.
Quello che dici dovrebbe preoccuparmi. Io butto tutte le diapositive che non mi
piacciono. Forse avrei dovuto conservarle.
Hai ragione a preoccuparti. Soprattutto per le foto di moda: più una foto di moda
invecchia, più diventa interessante. E c’è un’altra cosa: tu tendi ad avvicinarti al soggetto,
mentre io indietreggio, indietreggio sempre più. Perché so che certi elementi che mi
infastidiscono al momento dello scatto – delle automobili, dei passanti, dei manifesti –
probabilmente mi affascineranno tra qualche anno, perché sono un’espressione del
tempo che catturiamo. Dunque io indietreggio e mi dico: Se voglio potrò sempre
riquadrare. È questo che mi piace del 6 x 6: la modella è al centro e lascio dello spazio
attorno che, se voglio, potrò togliere. Il 24 x 36 mi fa impazzire, mi fa perdere troppo
spazio ai lati.
Ma se non sei tu a decidere quello che sarà nella tua foto, la foto è ancora la tua?
Io accetto ciò che mi viene dato, non ho alcun orgoglio d’autore, non dico: questa foto è
mia perché io ho scattato. Non conosco nulla di più interessante che quelle foto di rapine,
riprese da una di queste camere automatiche che ci sono nelle banche! È questa la vita!
Se un cane viene a far pipì sulle gambe della mia modella, io lo lascio fare e scatto. Non è
stata una mia idea, non gli ho detto: Su, cagnolino, vieni a far pipì sulle gambe di questa
ragazza. Ma se viene e piscia, io scatto, e la foto è mia, mica del cane. Se piazzo la mia
macchina sul treppiede, mi metto davanti e dico all’assistente di scattare a un certo
momento, è lui che schiaccia il pulsante, ma la foto è mia – tanto più che prima controllo
tutto con cura a forza di Polaroid. Ma se un masso, cadendo dal cielo, mi colpisce in testa
e io muoio nel momento in cui l’assistente scatta, questo sarebbe straordinario! Non ti
pare? Divina sorpresa! Certo che la sorpresa sarebbe ancora più divina se potessi rialzarmi
e vedere la foto. Questo sarebbe perfetto e non rifiuterei certo la foto perché è Dio che
ha mandato il masso.

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Don McCullin: ho deciso di condannarmi alla pace

Questa intervista è stata realizzata da Frank Horvat e fa parte del libro Entre Vues, una
serie di conversazioni con alcuni tra i più importanti fotografi del ‘900. La versione italiana
è pubblicata per la prima volta su Maledetti Fotografi.
Per cominciare, devo dire che non mi sento qualificato per parlare di fotografia di
guerra: perché non mi sono mai trovato in una guerra. Non che lo rimpianga – non
sono cose che si rimpiangono – ma il fatto di non avere mai conosciuto la realtà della
violenza fa sì che la mia esistenza mi sembri a volte un po’ irreale. Uno dei rari
episodi di violenza della mia vita risale alla mia infanzia. La storia è così banale che ti
farà sorridere, ma la racconterò ugualmente, perché dà l’idea della differenza tra noi.
All’inizio della guerra del 1939, eravamo rifugiati in una piccola città svizzera, i cui
abitanti ci facevano pesare il fatto che gli dovevamo la vita e si credevano in diritto di
maltrattarci un po’. I miei compagni di liceo, in particolare, si erano coalizzati contro
di me, motivati un po’ dall’antisemitismo che era nell’aria, un po’ semplicemente
dall’antipatia che doveva ispirargli quel ragazzo grosso e maldestro che non capiva il
loro dialetto e che evitava di fare a botte. Una volta, dopo la scuola, mi hanno teso
un’imboscata. Neanche con troppa cattiveria, se ci ripenso. Uno solo è uscito dal
gruppo per affrontarmi e non era nemmeno il più forte. Ma non ci voleva di più, lui
sapeva tirare di boxe ed io no. È finita come puoi immaginare. Ma l’interesse della
storia, e la ragione per cui la racconto, è che un quarto d’ora più tardi, quando mi
sono ritrovato solo a contarmi i lividi, ho provato un sollievo nuovo, inatteso:
finalmente sapevo cosa significasse battersi. Il confronto fisico, che nella mia
immaginazione sembrava così spaventoso, era diventato una realtà, era stato un
brutto momento, ma mi ero un po’ difeso ed ero ancora là per dirmelo.
È una buona storia. Io non ho mai evitato il confronto fisico, anche di fronte a uomini
molto più forti di me. Mi capita di avere paura, certamente, ma non lo mostro. Se un
soldato mi colpisce non gli faccio vedere che ho paura. Ma tu non hai nulla da
rimpiangere, probabilmente la tua educazione ti ha dato cose che uno come me non ha
avuto. Certe persone, dopo aver letto la mia prefazione di Homecoming mi hanno trovato
delle qualità intellettuali – ma forse sbagliano. Quel testo non l’ho scritto, l’ho solamente
registrato su nastro magnetico e ogni parola è stata una lotta con me stesso. Io sono
cresciuto nell’ignoranza, nella povertà e nella superstizione, e ne porterò il marchio per
tutta la vita. È un veleno di cui non ci si libera.

La prima cosa che mi viene in mente, guardando certe foto di Homecoming, è che
sono degli autoritratti. In particolare l’Uomo con le colombe, ma anche altre, come
Mister Britain. È così che tu le senti?
Mister Britain lo prendevo un po’ in giro, ma l’Uomo con le colombe lo rispetto. È un
minatore, cresciuto in uno dei luoghi più sinistri delle isole britanniche, ed eccolo che
accarezza questi simboli di bellezza e di libertà. Ma mi riconosco soprattutto nel barbone
irlandese, quello che somiglia a Nettuno. È melanconico e dignitoso. Può sembrare
strano parlare di dignità a proposito di queste persone, eppure è questo che le
caratterizza e che cerco di mostrare. Una dignità che aumenta con la sofferenza, come se

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proprio la sofferenza gli desse la forza di continuare a combattere. La madre biafrana per
esempio, con il bambino al seno: non riesco ad immaginare un essere più dignitoso.
Le tue foto mi fanno pensare a delle crocifissioni.
In un certo senso lo sono. Mi capita spesso di dirmi ateo, ma quando le difficoltà
diventano serie, smetto di esserlo: come quella volta in Uganda, quando sono stato
imprigionato e battuto dai soldati di Idi Amin, o quell’altra volta in Cambogia, quando mi
sono ritrovato sotto uno sbarramento d’artiglieria. Allora mi metto in ginocchio, in senso
figurato quanto meno, e prego: Dio mio, salvami. E qualcosa fa sì che riesco a cavarmela.
Il sentimento religioso che senti nelle mie foto forse viene da là. Quando le persone
soffrono, alzano lo sguardo al cielo, come se l’aiuto dovesse venire dall’alto – ed è in quel
momento che io scatto.
Noi tutti portiamo la crocifissione in noi, anche se non siamo cristiani. Non foss’altro
perché l’abbiamo vista così spesso rappresentata.
Ma mi chiedo se le rappresentazioni che io ne faccio non siano troppo facili, se io non
utilizzi la crocifissione come un cliché. Come ho raccontato in Homecoming, sono stato
educato molto duramente, da maestri che erano gli ultimi rappresentanti del sistema
vittoriano. Al mattino ci facevano cantare gli inni in chiesa, e dopo la chiesa ci
picchiavano, sotto un pretesto o un altro, per esempio perché non avevamo lucidato
abbastanza bene le nostre scarpe. Ho finito per detestare la religione e per non andare
più in chiesa, ma non so se ho avuto ragione. Io sono un uomo aperto alla compassione e
lo voglio restare, ma non so se la compassione è possibile senza religione.
D’altra parte ho lavorato per i giornali, e questo vuol dire che ho manipolato le persone,
che ho sfruttato le loro reazioni di fronte alla miseria e alla sofferenza, essendo io stesso a
mia volta manipolato. Dunque mi sento colpevole in tutti i sensi, da una parte nei
confronti della religione che non pratico, dall’altra nei confronti di tutte quelle persone
che mi sono lasciato dietro, sul punto di morire di fame o di essere assassinate, mentre io
ripartivo tranquillamente, con la mia pellicola esposta nella valigetta. Non sopporto più
questo senso di colpa, non voglio più dovermi dire continuamente: Non sono stato io a
uccidere quell’uomo, non sono stato io a lasciare morire di fame quel bambino. Voglio
fotografare paesaggi e fiori: ho deciso di condannarmi alla pace.
Mi sono chiesto a tuo proposito: Non sarà forse proprio la sua crocifissione che Don
McCullin rappresenta? E mi son risposto che molti altri artisti l’hanno fatto, da
Michelangelo a Gauguin, passando per Rembrandt e Goya.
Sì, forse siamo tutti come Cristo sulla croce. Forse ognuno di noi desidera la propria
crocifissione.
Per espiare le nostre colpe? D’altra parte un uomo come te, dopo tutte queste
sofferenze viste e vissute, potrebbe anche concludere che la sofferenza è un aspetto
della vita, al quale, in ogni modo, non si può sfuggire. Il che non vuol dire che non ci
si debba ribellare contro le sofferenze inutili ed evitabili…
Sono d’accordo. A volte mi chiedo se questi vent’anni della mia vita non siano stati
completamente inutili. Ma poi mi dico che bisogna almeno tentare di rendere il mondo
un po’ più vivibile, anche se si sa che gli uomini non cambieranno mai. Forse
bisognerebbe mostrare altro che la miseria e la distruzione. Del resto, questa era stata la
mia prima idea, all’inizio non volevo essere un fotografo di guerra – ed adesso non voglio

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più esserlo. Solo mi rendo conto che la pace è più difficile da fotografare. Fotografare la
guerra non richiede talento, chiunque può fare una foto di un uomo che crepa.
Eppure tutte le foto di guerra non si equivalgono. Nelle tue – e non solo nelle tue
foto di guerra – noto sempre un punto che attira l’occhio, e che è un centro di
sofferenza…
Come il bambino che attende la sua cena, in piedi su una sedia?
Sì, ed ogni elemento si dispone in rapporto a questo centro, secondo una geometria
che non è solo formale, come quella di Cartier-Bresson, ma che è una geometria del
sentimento, in cui un volto contorto dalla sofferenza non ha lo stesso valore grafico
che un’altra superficie di forma e di dimensione uguale.
Sai perché? Perché io sento il dolore di quella persona e mi identifico con lei. Quando un
uomo mi guarda come per dire aiutami, e io mi rendo conto che non può parlare perché
gli hanno rotta la mascella, io cerco di rispondergli con lo sguardo, di far dire ai miei
occhi: Ti sento. Ti vedo. Vorrei poterti aiutare.
Eppure lo fotografo, e nel momento in cui lo faccio mi sento vile, mi dico che invece di
venirgli in aiuto, non faccio che acuire la sua sofferenza, che probabilmente quest’uomo
non sopravvivrà, che l’aiuto di cui ha bisogno non gli sarà dato, o gli sarà dato troppo
tardi. La sola cosa che posso fare è avvicinarmi a lui con dignità – e anche questo solo se
mi trovo solo. Non si può conservare la propria dignità in mezzo a una dozzina di
paparazzi che si spingono e si azzuffano intorno a un ferito, accusandosi a vicenda: Hai
rovinato la mia foto, stringendo il malcapitato da così vicino che non gli resta l’aria per
respirare. Io li guardo e mi chiedo: Chi sono queste persone? A Beirut, si ritrovavano la
sera in un bar, discutendo di tariffe o proclamando: Se ottengo la copertina vi offro lo
champagne.
Come i legionari romani che giocavano a dadi sotto la croce.
Esattamente! In mezzo a loro mi sentivo sporco. Un giorno, una donna palestinese mi ha
dato un pugno, ed io ho interpretato quel colpo come un messaggio: ho capito che il mio
tempo era finito, che non dovevo più rimettermi in questo genere di situazione.
Vorrei fare una distinzione. Da una parte ci sono queste immagini di supplizi, che gli
artisti cristiani ci mostrano da secoli, come degli specchi del nostro destino.
Dall’altra, le foto di violenza nei giornali. Le prime come le seconde ci turbano,
perché ci mostrano ciò che potrebbe accadere a noi stessi. Eppure c’è un abisso tra
le une e le altre. Come definire questo abisso?
Non credi che certe persone sono più sensibili di altre alle energie dell’universo? Mi
troveresti ridicolo se ti dicessi che ho il presentimento di certe coincidenze, e che questo
mi ha permesso di trovarmi in determinate situazioni e di uscirne vivo?
Eugene Smith diceva di avere la premonizione di ciò che sarebbe apparso nel suo
mirino.
Avrei usato le stesse parole. Io ho il dono di trovarmi al posto giusto al momento giusto.
O almeno di trovare il posto giusto e di aspettare pazientemente che il momento giusto
arrivi. Alcuni giorni fa, sono andato sulla costa occidentale a fotografare il mare. Mi sono
seduto là, guardando le nuvole e immaginando la configurazione che desideravo. Dopo
due ore, le nuvole si sono disposte esattamente come volevo, ho fatto la mia foto e sono
tornato a casa. Naturalmente per le foto di guerra è diverso, non desidero certo la

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sofferenza o la morte di nessuno. Ma queste cose succedono senza che uno le desideri e
sono facili da fotografare. È molto più difficile fotografare la pace.
In primo piano nei tuoi paesaggi c’è spesso una superficie d’acqua, in cui si riflette il
cielo – come se il cielo fosse sulla terra. È questa la tua idea della pace?
Per me il cielo è un’energia, lo mostro per introdurre dell’energia nelle mie foto. Ma la
mia ora preferita è il crepuscolo: non posso non desiderare che tutto divenga sempre più
scuro. Mi piace anche fotografare nel vento e sotto la pioggia, benché questo rovini i miei
apparecchi…
Vorrei tornare alla distinzione di prima. Per quale ragione l’immagine di un uomo
davanti a un plotone d’esecuzione, ammirabile in un quadro di Goya, ci sembra
scioccante sulla copertina del Daily Mirror? Certamente ti poni la stessa domanda,
magari in altri termini, quando presenti le tue foto di guerra in una mostra.
Una delle differenze è che una foto pubblicata su un giornale implica una serie di
sfruttamenti: delle vittime, del fotografo, del lettore. Quando tornavo in redazione con le
mie foto, il caporedattore esclamava: Che orrore! Sarà una buona doppia pagina! o
Povera gente! È un’eccellente copertina!
E io accettavo il loro gioco, non chiedevo che di ripartire per la prossima guerra, era
diventata la mia droga.
Ma adesso che è finita…
Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà mai un giorno senza questi flash-back nella mia
testa. Non posso traversare una via di Belgravia, o entrare da Harrods, o passeggiare sulle
colline del Somerset, senza che queste immagini tornino, come gli spot alla televisione.
Delle persone nell’ingresso di un palazzo di Beirut, piangenti, mentre i miliziani ricaricano
le loro mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles Caron e a
me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo un po’ le palpebre, e non abbiamo più
detto una parola per il resto della giornata.
Ma poi, nel tuo laboratorio, tu decidi: Stamperò questa. Perché questa e non un’altra
?
Certe mi sembrano più significative, per esempio la madre nel Biafra. O la famiglia
indiana con la moglie su una barella. Era morta di colera, i bambini piangevano e
pestavano i piedi, io facevo finta di guardare le nuvole per non mostrare che anch’io
piangevo… perché mi lascio trasportare, la gente non lo immagina, mi prendono per una
specie di John Wayne della fotografia di guerra – che invece non sono e che non voglio
essere.
L’uomo continuava a ripetere: Che farò? Come sfamerò i miei bambini? Dopo un po’, ho
fatto un gesto al quale non posso ripensare senza vergogna: ho preso dalla tasca un
pugno di soldi e glieli ho tesi. E al momento di farlo mi sono sentito sporco, avrei voluto
che mi tirasse quei soldi in faccia. Aveva cinque bambini. Il più piccolo, che teneva in
braccio, doveva avere l’età del mio. Queste fotografie sono documenti, non icone, non
opere d’arte da appendere al muro. Non è colpa mia se la luce di Sabra e di Shatila aveva
qualcosa di biblico, se le scene che si svolgevano sembravano disegnate da Goya. Io non
ero lì per fare delle opere d’arte, ma per riportare dei documenti che potessero evitare il
ripetersi di quegli orrori. Non voglio essere considerato un artista, non si ha il diritto di
fare dell’arte con la sofferenza degli altri. Volevo fare un buon lavoro, nient’altro. Ma non
voglio mai più tornare in una guerra. Voglio fotografare delle persone normali, per la

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strada – anche se mi chiedo se non andrò di nuovo a cercare i più miserabili, è una
tendenza alla quale non so resistere.
Io credo che l’importanza del tuo lavoro non sta soltanto nell’effetto immediato sul
pubblico dei giornali: questo pubblico è saturato dalle immagini che vede, le sue
reazioni sono sempre più smussate e la sua opinione conta sempre meno. Ma le tue
foto, al di là della loro attualità immediata, ci ricordano che la sofferenza degli altri
rappresenta anche il nostro destino. Questo è stato, da sempre, il messaggio
dell’arte, anche se tu rifiuti questa definizione per il tuo lavoro.
Quello che dici vale per Eugene Smith. Le sue foto sono effettivamente delle opere
d’arte, come quella del morto del villaggio spagnolo, circondato dalle donne in lutto…
 … o quella della Madre di Minamata con il figlio paralizzato.
Lui stesso ha raccontato come l’aveva messa in scena, in un bagno pubblico, e il suo
racconto termina con le parole: e per finire le ho dato il bacio del flash – perché il bagno
era troppo scuro per lavorare senza un apporto di luce. Quella foto è stata allo stesso
tempo il culmine e la fine della sua carriera, lui ne era cosciente e ne soffriva. Ma le mie
foto non appartengono alla stessa categoria. Il mio solo merito è di avere notato certe
attitudini corporali, sempre le stesse, attraverso le quali le persone manifestano la loro
sofferenza – perchè il numero di gesti che si possono fare con due braccia e con due
gambe è necessariamente limitato. Ho imparato a prevedere questi gesti e a scattare al
momento giusto. Le donne nel Medio Oriente, per esempio, esprimono la loro
disperazione allargando le braccia – come certi personaggi di Michelangelo. Ma non c’era
bisogno di essere Michelangelo per fotografarle, a Sabra e a Shatila. Le icone sfilavano
davanti a me, avrei potuto fotografarle con gli occhi chiusi.
Eppure c’erano altri fotografi sul posto, che non hanno nè visto nè fotografato le
stesse cose.
Ci voleva un po’ di dignità, di fronte a persone per le quali noi eravamo come dei cani
che si battono per delle ossa – che in quell’occasione erano le loro. Io cercavo di
controllare l’espressione del mio viso, la postura del mio corpo e perfino il modo in cui
tenevo la macchina fotografica, per mostrare che ero cosciente di ciò che quella giornata
era stata per loro. E non ero vestito da paparazzo… Anche quando sono in Inghilterra io
evito di andare a fotografare persone molto povere uscendo direttamente dall’hotel, a
volte gli chiedo il permesso di dormire da loro, in qualche letto immondo, in una stanza
abbandonata. E quando li fotografo non penso all’aereo delle sette e alla riunione di
redazione del mercoledì sera. Del resto io non affido i miei rullini a nessuno, li tengo con
me, come dei bambini neonati, loro non tornano al giornale che con me.
E dopo, quando ti ritrovi nel buio del tuo laboratorio, cosa succede?
Il laboratorio è come un utero, un luogo in cui mi sento separato dal mondo esterno, in
cui si concentrano le energie delle mie vibrazioni, dei miei pensieri, del mio sangue. A
volte mi sento come se i miei piedi si sollevassero dal suolo, ogni foglio nel rivelatore
diventa magico, ogni stampa sbagliata pesa sulla mia coscienza. Ne faccio poche,
raramente più di cinque al giorno. Per le stesse ragioni cerco di consumare poca pellicola,
non uso mai il motore, se parto per un reportage di tre settimane, non porto con me più
di trenta rullini. Tratto la mia pellicola con rispetto, sono convinto che questa è una
condizione necessaria per ottenere il rispetto delle forze che mi circondano. Tu dirai che

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sono superstizioni, ma io ci credo. So che alla minima disattenzione la fotografia può
giocarmi un brutto tiro, che ad ogni rullino che metto nell’apparecchio prendo un rischio.
È vero che la fotografia è là per tutti, che chiunque può coglierla – però lei non
appartiene a nessuno. Io la rispetto come rispetto il mare: perché è talmente più grande
di me. A volte, rientrando da un viaggio, mi accorgo che la pellicola è velata, perché il
dorso della macchina fotografica non era chiuso bene, o per un’altra ragione qualsiasi.
Non mi arrabbio, non fracasso l’apparecchio contro un muro, rido solo tra me e mi dico:
Stavolta non mi ha rispettato.
Anche a me capita di immaginare la fotografia come una dea, alla quale dobbiamo i
nostri sforzi, ma che concede o rifiuta le sue ricompense, secondo criteri che ci
sfuggono.
Eppure io la so sedurre – o almeno ho creduto di saperlo. Ma non bisogna chiederle più
di una buona foto all’anno – o forse una sola in una vita. Bisogna sapersi fermare.
Sacrificare tutto al lavoro va bene, ma non sempre. A volte mi fermo e mi ubriaco come
un’asino. La pace è difficile da vivere: io ero abituato a quattro o cinque guerre all’anno,
in un punto del pianeta o in un altro. Per me, la vita normale non è una cosa scontata.
Quando tu dici una buona foto all’anno, questo vuol dire che tu esigi molto da una
foto. Ma non c’è una contraddizione tra questa esigenza e il fatto di dire: non faccio
icone?
Mi capita di contraddirmi, io non sono un intellettuale. Ma è vero: quello che cerco è una
forma di perfezione.
Senza che questo ti impedisca di dire che nessuna perfezione estetica giustifica la
sofferenza di un essere umano. Ma se, miracolosamente, su una bilancia immaginaria,
la perfezione di un’immagine potesse riscattare, non dico la loro sofferenza, ma
almeno un po’ della colpa che la loro sofferenza ti fa sentire…
Questo sarebbe davvero un miracolo. Per me, che per venticinque anni mi sono sentito il
lebbroso della fotografia, il fotografo delle miserie e dei miserabili, questo sarebbe come
una guarigione miracolosa, come la ricostituzione del mio vero volto. Ma non credo a un
tale miracolo: non mi sembra che il mio senso di colpa possa essere riscattato da una foto
particolarmente significativa, sarebbe solo un altro modo di sfruttare le vittime. Al
contrario, sento che tutti questi negativi accumulati sotto il mio tetto – come una
concentrazione di sofferenza – non stanno tranquilli nelle loro scatole di metallo. Mi
sembra che emanino un malessere che aleggia nell’aria, che mi impedisce di sedermi a
leggere un libro, come farebbe chiunque altro, che mi rende agitato, pignolo, sempre
occupato a raccogliere gli oggetti, a strofinarli, a pulirli. C’è qualcosa in me che non
funziona, qualcosa di snervato, d’incontrollabile.
Un altro, al mio posto, sarebbe già pazzo furioso. Un intellettuale, educato in
un’università, non avrebbe resistito a ciò che ho visto io: sarebbe stato spezzato come un
ramo secco. Io ho conservato un po’ d’equilibrio, forse grazie alla durezza dei miei inizi,
forse perché in fondo sono molto sano.
E forse perché il tuo lavoro esige una disciplina, e questa a sua volta ti dà una
struttura.
Il mio lavoro non è stato esente dal dolore. In Cambogia, sono stato ferito da un obice.
Non molto gravemente, ma comunque sono stato colpito alle gambe, all’inguine e ad un
orecchio. Ma avevo deciso di sopravvivere, mi ripetevo senza tregua: Non mi avranno.

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Striscerò sulla pancia se è necessario. E ho strisciato per seicento metri. Questo mi ha
evitato di finire come Gilles Caron, che i Khmer Rossi avevano messo a morte qualche
giorno prima. Ero vicino a un grande fiume, il Mekong, e mi dicevo che se si fossero
avvicinati mi sarei buttato in acqua e avrei cercato di salvarmi a nuoto. Volevo
sopravvivere e sono sopravvissuto. Sono convinto che certe persone siano più
predisposte che altre alla follia, è come per i virus. Negli ospedali psichiatrici ho visto
gente che era stata perseguitata, in particolare degli ebrei, e non posso fare a meno di
credere che questo venga dal loro passato. Tu che ne pensi?
Credo che la pazzia possa venire dal senso di colpa, dall’impossibilità di vivere con
questo sentimento. Ed è vero che gli ebrei sono degli specialisti del senso di colpa.
Anch’io mi sento colpevole, benché recentemente il mio senso di colpa si sia un po’
attenuato. Lorraine mi dice che è assurdo provare rimorso ogni volta che entro in un buon
ristorante o in un buon hotel. Ma io continuo ad evitare questi luoghi.
Un soggetto che non tu non hai fotografato, per quanto io sappia, sono le belle
donne. Eppure ne hai incontrate.
Molte. Venivano a cercarmi per le peggiori ragioni, perché il mio nome era sui giornali,
perché ero un celebre fotografo di guerra. Detesto quest’espressione: fa mercenario.
Volevo dire che la bellezza fisica è stata presente nella tua vita, ma non per questo
hai avuto voglia di fotografarla.
È vero che i miei figli sono belli e che mia moglie è stata bellissima. Ho conosciuto molte
belle donne, ed è stato un beneficio per il mio equilibrio. Ma preferisco fotografare i bei
paesaggi.
Solo che non ne mostri la bellezza, ma qualcosa d’altro – qualcosa che è in te. Questo
ci riporta all’equilibrio mentale. Forse la pazzia corrisponde ad una dissoluzione delle
forme. E la capacità di controllare le forme – cioè il lavoro creativo – può contribuire
a preservarcene.
La pazzia è considerata come un male, ma è anche vero che la pazzia permette di
sopportare certe situazioni che senza di lei sarebbero insopportabili. Quello che me ne ha
preservato è stata l’autodisciplina: restare nei ranghi, non perdere mai di vista il senso
comune, controllare tutto, sempre. Perché io controllo tutto, è una mania, che potrebbe
bastare da sola a portarmi fuori strada – e che mi strema. Quando scendevo dall’aereo,
all’altro capo del mondo, ero davvero stremato – moralmente e fisicamente – ed era
proprio in quel momento che dovevo precipitarmi in prima linea, cosa che del resto
facevo. Ero rinomato per questo e non chiedevo altro.
In compenso potevi ritirarti dalla prima linea quando lo volevi – a condizione di
essere rimasto intero.
All’inizio facevo qualche foto e ripartivo, convinto di avere la storia. Durante la guerra dei
Sei Giorni, sono rimasto solo il giorno della battaglia di Gerusalemme ed ho ripreso
l’aereo l’indomani. Ma a poco a poco ho capito che bisognava restare fino alla fine. Nella
cittadella di Hué, nel 1968, sono rimasto due settimane. Nella guerra del Kippur sono
rimasto fino all’armistizio, benché non abbia potuto fare una sola buona foto e che il mio
compagno di equipe sia stato ucciso sulle alture di Golan. All’aeroporto, mi hanno
obbligato a denudarmi e piegarmi in due, per esaminare il mio ano e vedere se non
trafugavo dei rullini. Nulla mi è stato risparmiato: sono stato umiliato, minacciato,
picchiato, accusato di spionaggio.

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Un’altra cosa che forse contribuisce al tuo equilibrio è il tempo che passi nel
laboratorio – il tuo utero. So che avevi l’abitudine di tornarci sempre, anche quando
eri fotografo di guerra.
Sempre. Ma è un passaggio faticoso: il messaggio non passa direttamente dal negativo
alla carta, viaggia attraverso di me. A volte mi alzo durante la notte, scendo, apro le
scatole e riesamino le stampe per cercare un difetto. Ancora un’ossessione! Se riesco a
vivere con questa, vuol dire che sono immunizzato contro la pazzia!
Ma il laboratorio non mi serve solo a sviluppare e a stampare, è anche il luogo in cui cerco
me stesso e parlo con me stesso: anche questo può sembrare pazzia, ma non lo è,
credimi. È un modo di avvicinarsi alla pazzia senza lasciare che prenda il sopravvento. A
volte tutto questo mi spossa e allora esco in giardino. Saresti stupito di vedere il mio
giardino: è sospeso sul fianco della valle, dalla parte opposta si vedono le vacche, noi
mettiamo il nostro bambino sotto un albero e ci diciamo: È questo il Paradiso! Il
laboratorio può diventare crudele, bisogna sempre parlare a se stessi, o mettere la radio
ed ascoltare della musica stupida. Quando ho finito, lavo e spolvero tutto
meticolosamente, è come una forma di omaggio alle forze che potrebbero distruggermi.
Ma non sono quelle forze che mi fanno paura, nè il laboratorio, nè la fotografia, quello
che mi distruggerà è altro. Benché io sia molto forte, blindato al novantanove per cento,
da tutti i lati – o quasi. Perché deve pur esserci un punto debole, lo so, forse dietro di me,
dove il mio sguardo non arriva…
Ciò che dici mi sembra buona descrizione della tua foto di Mister Britain.
Non penso sia una foto così bella. L’ho scattata perché ne ho visto il lato divertente. Lo
sai, io ho molto humour.
È così vulnerabile!
Io l’ho reso vulnerabile ridicolizzandolo, mostrando il suo lato femminile. Ed è questo che
lui non mi perdonerebbe mai. Ma per tornare a ciò che dicevo: io credo alla logica, se si
vuol sopravvivere bisogna rispettare la logica. La fotografia è come una mina che
potrebbe esplodere in qualsiasi momento. Bisogna girarle attorno, evitare di passarci su,
rispettarla, se no vi strapperà le gambe. Io devo restare logico. Ci sono dei fotografi che
rovesciano i tavoli nei ristoranti. Io non faccio di queste cose, ma mi capita di litigare.
Quando qualcuno viene a dirmi: Chi le ha dato il permesso di fare quella foto? io
rispondo: E lei chi è? Non mi lascerò sopraffare, mi difenderò.
È una cosa che non è sempre logica e che a volte rende la vita un po’ più complicata.
Forse è questo uno dei miei punti deboli. È per questo che devo controllarmi sempre di
più, controllare il mio lavoro, proteggere il mio pezzetto di terra… Solo che il mio
pezzetto di terra è il mondo intero e non posso proteggerlo tutto.

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Sarah Moon: la fotografia è la mia possibilità di mettere in scena

Spesso si rimprovera alle tue foto di essere troppo aggraziate, come se questa grazia
fosse un procedimento, una facilitazione.
Sono contenta di parlarne. È vero che le mie foto avevano questo aspetto prezioso,
lezioso, soprattutto all’inizio. Ero a tal punto sedotta dalla seduzione! Adesso, tutta una
parte di quel lavoro mi sembra molto lontana, non riesco più ad identificarmici.
Tuttavia alcune delle tue prime foto mi piacciono. Ho sfogliato i tuoi libri con dei
giovani che lavorano con me e abbiamo fatto una specie di referendum su quelle che
preferiamo. Spesso la nostra scelta cadeva sulle prime, come la ragazza nel viale con
il cagnolino…
È una di quelle che non rinnego.75
E la ragazza su quella specie di grigliato, con la bambina che fa quel gesto…
Charlie Girl, neanche quella rinnego. È bianco e nero. Credo che se non facessi fotografia
applicata non lavorerei mai a colori. È in bianco e nero che io visualizzo.
Ma fra le nostre preferite c’erano anche foto a colori. La natura morta con la frutta,
per esempio.
Le pere. Ma quello è un colore manipolato, malato, un colore senza colore. Quello sì.
Ad ogni modo tu sei uno dei rarissimi fotografi che abbia trovato delle soluzioni
attraverso il colore.
Il colore tale e quale non mi piace, sono obbligata ad adulterarlo per renderlo personale.
Ma credo che l’essenza della fotografia sia nel bianco e nero. Il colore è solo una
deviazione. A meno che non si lavori con colori molto falsi, come quelli delle Polaroid, o
di alcune foto di Paolo Roversi, in cui il colore è svuotato, in cui non ci sono più riferimenti
alla pittura.
Eppure tu hai trovato delle soluzioni, e questo in un periodo in cui tanti fotografi
mettevano pellicole a colori nei loro apparecchi, continuando a pensare in bianco e
nero (cosa che mi è successa) oppure credendo di lavorare col colore quando si
lasciavano solamente sedurre da qualche macchia di colore violento (anche questo mi
è successo e non ne son fiero). Tu hai trovato questo utilizzo della grana, di cui ti
servi come di un fitro, per ridurre l’eccesso di informazioni registrato dalla tua
macchina fotografica. È una buona idea: la pellicola a colori dà troppe informazioni
perché si possa riuscire a organizzarle in un insieme armonioso, quindi tu fai in modo
che ne dia di meno, e questa quantità ridotta riesci ad organizzarla, come
organizzeresti il bianco e nero.
È vero che la grana scompone i colori, come un filtro. Invece ho sempre meno voglia di
grana nel bianco e nero, vorrei definizione ed evidenza della materia.
Perché il bianco e nero è già di per sé un filtro. La grana sarebbe un filtro in più.
Una facilitazione.
Del resto alcune tue foto in bianco e nero sono perfettamente nitide. Penso alla
ragazza di spalle, con un’abito a pois, seduta davanti a una finestra. Un’altra delle
nostre preferite.
Susanne? Sì, anche a me piace. Certo che ce ne sono che ancora mi piacciono. Ma d’altra
parte ci sono tutte quelle che adesso trovo troppo leziose, che mi infastidiscono.

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Un altro problema che sembra preoccuparti è quello del lavoro su commissione.
Spesso insisti sul fatto che lavorare su commissione non esclude la creatività del
fotografo. Non voglio certo contraddirti, ma mi chiedo se è questo il vero problema.
Forse bisognerebbe porsi il problema della messa in scena, piuttosto che quello del
lavoro su commissione. È possibile dirigere una foto come si dirige un film? È
compatibile con l’essenza della fotografia?
Io ho sempre sentito la fotografia come una possibilità di mettere in scena, di raccontare
una storia con immagini. Io cerco un’immagine con un minimo di informazioni e di
riferimenti, un’immagine che non sia situata con precisione e che tuttavia mi parli, che
evochi ciò che è successo prima e ciò che succederà dopo. So bene che questo modo di
fotografare è contestabile – ma perché dovrebbe esserci un solo modo di fotografare? Io
voglio creare delle immagini con degli elementi che scelgo, narrativi o evocatori, al di là
del fatto documentativo sulla donna che indossa un abito. Mi dò una cornice letteraria, mi
racconto una storia. È il solo trampolino che mi son trovata per saltare.
D’altra parte, la fotografia applicata mi interessa, perché mi permette di evitare la
gratuità. Il contratto tra cliente e fotografo mi sembra del tutto onesto: mi si da
l’opportunità di fare delle foto, a condizione che io presenti il prodotto sotto una luce
favorevole, sono pagata per farlo e mi vengono forniti i mezzi per farlo bene. Tutto
questo mi obbliga ad una disciplina che mi è necessaria, dal momento che io faccio le
cose più facilmente quando mi ci trovo costretta. Farle solamente per il mio piacere mi
sembrerebbe futile.
Io penso, come te, che una foto fatta per vendere un prodotto può essere
interessante quanto un’altra. Ma non è questo il punto che mi preoccupa. Quello che
mi domando è se una foto completamente messa in scena mantenga ancora interesse
in quanto fotografia. Non c’è una soglia, al di là della quale la messa in scena non
lascia più spazio a quello che è l’essenza stessa della fotografia, cioè a un certo
margine di inatteso? È questo il vero problema delle foto su commissione. A me
sembra che nelle tue foto più riuscite tu hai sempre lasciato questo margine. E sono
quasi sicuro che, quando scegli tra le diapositive o i provini, la foto che selezioni è
quella in cui l’inatteso si è manifestato.
È vero che quando creo una cornice, una messa in scena, spero sempre che, all’interno
dello spazio che ho costruito, capiti un fatto accidentale, un sorpresa. Per esempio, far
sedere qualcuno su una sedia può dare una buona foto, come può non darla. Ma se io
dico, anche solo per comunicare con la modella: “Tu sei seduta su questa sedia, e aspetti
come se aspettassi qualcuno in una stazione”, questo apre un varco verso l’avvenimento,
mi aiuta a trovare il senso di una situazione. Forse è solo un trucco che mi è necessario.
Ma quello che tu dici mi turba, perché ci sento una reticenza, come se per te l’idea di
messa in scena fosse qualcosa di negativo, un meno piuttosto che un più.
Sì e no. Se ne parlo non è per criticarti – benché sia vero che vorrei indurti a
difenderti. Perché io stesso ho dovuto difendermi su questo punto, di fronte alla
concezione della fotografia-testimonianza, la fotografia della Magnum per capirci,
dalla quale per molto tempo mi sono sentito colpevolizzato, nella misura in cui ciò
che facevo non era testimonianza.
Anch’io mi sono sentita colpevolizzata, tante volte, dai “puri” della fotografia, che mi
considerano come una che ha venduto l’anima al diavolo, perché scambio le mie foto per

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dei soldi. Cosa che anche loro fanno, evidentemente, dal momento che vendono i loro
reportage, ma per meno soldi e comunque con la sensazione di aver reso una
testimonianza di una realtà. Mentre io testimonio solo di una mia fantasia, di un’immagine
che ho della donna, cose del tutto personali, asociali, apparentemente futili. E sottolineo
apparentemente, perché in fondo non credo che quello che faccio sia futile. Soprattutto
mi sentivo colpevolizzata dallo lo scarso interesse che questi fotografi mostravano per le
mie foto, mentre io mi interessavo tanto alle loro.
Cartier-Bresson mi diceva: Bisogna scegliere: o testimoniare come facciamo noi, o
mettere in scena come fa Avedon. Non si possono mescolare le due cose. Io non l’ho
ascoltato e forse ho avuto ragione, dal momento che sono proprio le mie foto di quel
periodo che oggi sembrano più interessanti e proprio a causa di quell’ambiguità. Ma
vorrei riportare il nostro discorso al punto di partenza. Tu fai fotografie ma anche
cinema. In entrambi i casi, tu lasci un certo margine all’inatteso. Mi chiedo se le
regole del gioco sono le stesse, se il cinema richiede lo stesso tipo di inatteso della
fotografia, oppure se l’inatteso che rende interessante una foto è qualcosa di
diverso, di specifico.
Credo che sia la stessa cosa. È comunque uno stato di grazia, un elemento che non ho
previsto, ma che mi sorprende e mi ferma sul posto. Se non facessi altro che quello che
ho in testa, nulla mi ispirerebbe. Sarebbe come chiudere gli occhi piuttosto che aprirli,
pensare piuttosto che guardare.
Per me una buona foto è una foto che non si può rifare. Penso alle mani delle ragazze
in alcune tue foto, alla relazione tra i loro gesti, e mi dico: li ha colti quella volta e
non potrà rifarlo mai più.
Perché non erano previsti. Quando io immagino una situazione, non penso alle mani. Per
il gatto guercio con le due ragazze, immaginavo: È un uomo malato e ci sono due donne
attorno a lui. Ma la composizione, il modo in cui le donne si sarebbero mosse in rapporto
a lui, questo l’ho deciso dopo, al momento. E in quel momento dimentico gli ingredienti
della messa in scena. Ma quando tu dici “messa in scena”, a cosa pensi esattamente? Alla
storia, alla narrazione? O piuttosto ad un intervento del fotografo? Se così fosse, tutte le
foto sarebbero messe in scena. Quando uno dice: non muoverti, interviene.
La messa in scena, nel senso in cui la intendo in questo momento, è il fatto di
mettere davanti all’obiettivo quello che si era immaginato, come il pittore mette
delle forme e dei colori sulla sua tela. Se la fotografia è altro rispetto alla pittura,
questo è nella misura in cui dipende da un apporto esterno, imprevedibile.
Sì, un raggio di sole che fa brillare tutto, una sottoesposizione che rende illeggibile quello
che si trova in ombra… sono d’accordo. Quello che tu chiami messa in scena è ciò che io
chiamerei cornice. Per cominciare io scelgo un luogo, ed è già messa in scena. Dico:
Voglio che la luce arrivi attraverso la finestra e che questa parte sia in ombra, perché ho
deciso che nella mia foto saranno le sette di sera. Ma tutto questo lo faccio anche per
comunicare con le modelle, il truccatore, il parrucchiere, tutti quelli che lavorano con me.
Ed anche, ed è la cosa più importante, perché tu vuoi che l’inatteso si collochi in un
istante e in un luogo ben determinati. Non sapresti cosa fartene di un inatteso che
arriva non si sa come e non si sa dove, non servirebbe a nulla, porterebbe solo
confusione. Dunque tu gli tracci dei limiti, gli apri dei corridoi, gli prepari delle
trappole dove lo attendi e lo catturi.

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Se arriva. A volte non si presenta, o si presenta e mi sfugge, o credo che si presenti ma mi
sbaglio. È stato puntuale all’appuntamento nel caso della ragazza col cagnolino. Era una
foto per un calendario, l’ultima immagine, avevo detto alla modella: È il momento in cui
rientri…, dunque c’era una messa in scena intenzionale, una direzione registica, ma
quando si vede la foto non ci si pensa, si sente solo che succede qualcosa, là, nel suo
atteggiamento, lei potrebbe essere molto vecchia o molto giovane, è senza età, del tutto
atemporale.
Ma tutto questo avrebbe potuto immaginarlo anche un disegnatore. Quello che non
avrebbe immaginato sono le casualità della luce, del comportamento del cane, le
coincidenze tra queste casualità: è tutto questo che fa sì che una foto debba essere
scattata in un “momento decisivo”. Ci ritroviamo sempre col “momento decisivo”.
Sì, il momento che può arrivare o no. Il dono, che non dipende da noi. Noi non possiamo
far altro che sforzarci ad essere pronti. È questo che è così difficile. Il lavoro impegnato,
l’intensità, l’attenzione, la speranza non bastano. Capita di affaticarsi, inutilmente, per
delle ore, e poi ad un tratto, in tre minuti, al posto giusto, al momento giusto, sotto
l’angolo giusto, il caso esprime quello che volevamo esprimere. Al cinema si può
raccontare attraverso la successione dei piani, la musica, il gioco degli attori. Per certi
versi è più facile.
È un linguaggio diverso.
Parlando con te mi rendo conto che, in fin dei conti, io non mi pongo moltissime
domande sulla fotografia. Forse evito anche di pormele. All’inizio, c’era una specie di
slancio nella mia ricerca, proprio perché non sapevo molto bene quello che cercavo. Poi,
quando si è cominciato a parlare delle mie foto, ho preso coscienza di certe cose – un po’
come in psicoterapia, in cui le cose non ti vengono dette esplicitamente, ma ti viene
rinviato quello che tu stesso esprimi, e questo finisce per modificare il tuo modo di
vedere.
E di cosa hai preso coscienza?
Dei miei limiti. In fin dei conti diciamo sempre la stessa cosa, anche se proviamo a dirla
diversamente. Sempre la stessa canzone. Mentre all’inizio avevo l’impressione che ogni
foto fosse una scoperta.
Mi chiedo se davvero tu canti sempre la stessa canzone. Forse è questo il vero
problema del lavoro su commissione, ed anche quello del successo presso i media.
Forse è il successo che ti fa cantare sempre la stessa canzone, perché è quella che
chiedono! Ma è veramente la sola? Forse ne sai un’altra…
Lo credo anch’io, ma non so dove sia. Se la conoscessi la canterei. A volte ne sento una
nota…
Vorrei toccare un altro punto sensibile. Una delle foto approvate all’unanimità nel
nostro piccolo referendum è quella della ragazzina in una strada, che sembra far le
giravolte in un raggio di luce. L’abbiamo notata in una delle tue raccolte. Eppure, in
Cappuccetto Rosso, di cui fa parte, non mi aveva particolarmente colpito. Forse
perché questo libro non mi piace molto…
Cos’è che non ti piace in questo libro?
Proprio il fatto della sequenza. Non posso guardarle senza immaginare Sarah che
mette in scena queste foto. Non c’è più mistero. Mentre davanti alla foto sola mi
chiedo: Chi è questa bambina? Sarah come l’ha incontrata? Cosa è successo?

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È vero che di tutte quelle serie narrative, fatte per comparire su sei o otto pagine di una
rivista, ho conservato solo una foto per le mie mostre o per i miei libri. Come se avessi
lavorato solo per quella foto. Quello che a te dà fastidio è la serie, la variazione su un
tema.
Perché svela il tuo procedimento.
E perché racconta una storia con un inizio e una fine, mentre ogni immagine dovrebbe
lasciar supporre l’inizio e la fine. La ripetizione dà una chiave e, quando si ha la chiave,
non si ha più lo stesso sguardo. Sono d’accordo. Molto spesso mi dico: “vorrei fare una
foto in cui non succeda nulla.” Il mio sogno sarebbe di arrivare a questa semplificazione.
Ma, per togliere, bisogna che all’inizio qualcosa ci sia. Perché non succeda nulla, bisogna
che prima qualcosa sia successo. Quando lavoro con delle scenografie, mi capita di
toglierle dalla mia foto, o di mischiarle o di utilizzare degli specchi perché non si capisca
più qual’è la scenografia. Vorrei togliere il trucco perché non si pensi più al trucco,
togliere gli abiti, passo il mio tempo a togliere, affinchè resti qualcosa che mi sorprenda,
affinchè io non sappia più di essere dentro uno studio, con una modella che ho scelto,
una scenografia sulla quale ho discusso per delle ore, una luce che è stata preparata per
tutta una giornata. Alla fine, quello che mi fa scattare è la sensazione di riconoscere
qualcosa. Come se, improvvisamente, sentissi: “sì, è questo” – sono proprio queste le
parole che mi vengono in mente. Riconosco qualcosa che tuttavia non ho mai visto, che
sfugge ad ogni mia costruzione. Come questa foto dell’abito a pois, con le spalle di
Susanne. Mi piace la sua pesantezza. Era un momento in cui fotografavo altro, a un tratto
mi sono girata ed era lì. Sono questi i doni.
Mi hanno detto di te – o sei tu che me lo hai detto? – che ci vedi male.
Sono miope come una talpa, è per questo che posso fotografare solo con il treppiedi. Ma
questo mi aiuta per le luci, le vedo bene le luci, ed anche i rapporti fra le masse. È
fotografando che me ne sono accorta. Quando ho cominciato a fare delle foto, tutti mi
dicevano: Ma sono sfocate!, ed io ero incapace di rendermene conto, perché io vedevo
così. Non avevo mai portato occhiali in vita mia.
Come scegli le tue diapositive? In proiezione?
Semplicemente sul tavolo luminoso, con il lentino. Lo sai, scatto la stessa foto duemila
volte, aspetto duemila volte che succeda, talmente ho paura di sbagliare. Mi fermo solo
quando capisco che gli altri non vogliono più continuare. Ma anche allora mi dispiace, mi
dico sempre che sarebbe potuto succedere ancora qualcos’altro.
Per me è lo stesso. Ciò che mi colpisce è che questa maniera di lavorare si impone
proprio quando si restringe il margine di inatteso. Quando fotografo in strada, dove
succedono milioni di cose, scatto molto meno, non insisto. Ma nel mio studio, con la
luce che conosco, e di fronte a una posa che mi è piaciuta e a partire dalla quale non
lascio alla modella altra libertà che girare la testa o muovere le dita, mi può
succedere di scattare dieci rullini. Perché aspetto qualcosa da quelle dita.
Io sono lì davanti a lei, non so cosa lei debba fare, e d’altra parte, anche se lo sapessi,
non saprei come dirglielo. Bisogna che la cosa venga da lei, è come l’ipnosi, io guardo,
guardo e aspetto. Certo, scatto per incoraggiarla, per incoraggiarmi, per incoraggiare
tutti.
E quando hai scattato la foto buona, te ne rendi conto? O non sei mai sicura?

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Qualche volta me ne rendo conto, ma la maggior parte delle volte, anche quando credo
di averla scattata, cerco un po’ oltre e subito lo dimentico.
È esattamente quello che mi succede.
Perché tutto questo è talmente breve, che subito dopo non si è più sicuri. Ad un certo
punto, dico a tutti: Ecco, abbiamo finito, ma gli propongo di fare ancora un altro rullino,
per ogni evenienza, e poi un altro ancora. Perché ho paura che mi sia sfuggito qualcosa,
di fronte a tutte quelle condizioni riunite così laboriosamente e che domani non saranno
più là. So che nel mio modo di lavorare c’è come un terrore del tempo. Quando sono
commossa dalla bellezza di una ragazza, è per ciò che ha di effimero, per il senso
dell’attimo che bisogna cogliere. Sento la bellezza che passa e sfiorisce, e questo mi fa
disperare, perché mi chiedo se sono stata all’altezza di questo privilegio e se ho saputo
fare quello che bisognava per renderne conto. La nostra angoscia, il nostro senso di
colpa, deriva dal fatto che noi sappiamo che tutto ciò dipende da noi, dallo sguardo che
rivolgiamo alle cose. Non è solo l’istante in cui si fotografa che è troppo breve, non solo
la giornata di lavoro, ma tutta la nostra esistenza di fotografi: abbiamo sempre questa
paura che sia già finita. Forse dovrei semplicemente dirmi che non bisogna restare troppo
tempo senza lavorare, che bisogna far girare la macchina, perché, se non gira, non mi dò
una possibilità che tutto questo succeda. Dovrei accettare la possibilità di sbagliare, dirmi
che alla fine questo non ha nessuna importanza, che, se non posso permettermi di
sbagliare un lavoro su commissione, ho quanto meno il diritto di sbagliare ciò che faccio
per me stessa. Dovrei dirmi: Ogni giorno farò una foto.
Parigi, novembre 1986

Traduzione italiana di Giancarlo Biscardi,  Giugno 2003, Palermo

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