Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
IL DRAMMA BAROCCO
TEDESCO
Introduzione di Giulio Schiavoni
Nuova edizione
Einaudi
Fuori dal coro
I.
Ma che nessun Bel Principe adorno dell’armatura lucente della scienza si avvicini
troppo, perché se abbraccerà la sua fidanzata per baciarla lei gli darà un morso.
Per risvegliarla, l’autore ha riservato a se stesso il ruolo del capocuoco. Da troppo
tempo ormai si attende lo schiaffo che dovrà echeggiare nei padiglioni della scienza.
Solo allora si risveglierà anche quella povera verità che si è punta con la conocchia
antiquata quando, entrando abusivamente in uno sgabuzzino di robe vecchie, ha voluto
tessersi un abito da professore.
2.
Curriculum vitae
Sono nato il 15 luglio 1892 dal commerciante Emil Benjamin e da sua moglie Pauline
Schönflies. Entrambi i miei genitori vivono ancora. Sono di confessione mosaica. Ho
ricevuto la mia formazione scolastica nel ginnasio della Kaiser-Friedrich-Schule di
Charlottenburg. Questi studi furono interrotti da due anni di permanenza presso il
«Landerziehungsheim» di Haubinda in Turingia dal quattordicesimo al quindicesimo
anno di età. Ho superato l’esame di maturità nel periodo pasquale del 1912. Ho studiato
alle università di Friburgo, Berlino, Monaco e Berna. I miei interessi principali furono la
filosofia, la storia della letteratura tedesca e la storia dell’arte. Ho pertanto seguito le lezioni
dei professori Cohn, Kluge, Rickert e Witkop a Friburgo, Cassirer, Erdmann,
Goldschmidt, Hermann e Simmel a Berlino, Geiger, von der Leyen e Wölfflin a Monaco,
Häberlin, Herbertz e Maync a Berna. Nel giugno del 1919 ho conseguito la laurea a Berna
summa cum laude con un lavoro intitolato Il concetto della critica d’arte nel romanticismo
tedesco. Ho avuto come materia fondamentale la filosofia e come materie complementari
la storia della letteratura tedesca moderna e la psicologia. Dato che mi interesso
soprattutto di estetica, si è fatto sempre piú stretto il legame fra i miei interessi storico-
letterari e quelli filosofici. Da un approfondimento delle concezioni e delle tendenze dei
Parnassiens è derivato il tentativo di una traduzione di Baudelaire, la quale ha un suo
momento di centrale importanza nella prefazione intitolata Sul compito del traduttore
(Über die Aufgabe des Übersetzers), che affronta anche teoricamente la questione del
linguaggio. Partendo da un’altra prospettiva, mi sono occupato del rapporto fra la bellezza
(das Schöne) e l’apparenza (der Schein) nella sua particolare espressione linguistica. È stato
questo uno dei motivi da cui ha preso le mosse il mio saggio sulle Affinità elettive di
Goethe, al quale intendo farne seguire un altro sulla Nuova Melusina (Neue Melusine).
Alle riflessioni teoriche sul linguaggio presenti in alcuni capitoli della mia dissertazione
che ha per titolo Origine del dramma barocco tedesco ho cercato di dare una concreta
impronta storico-letteraria. Nello stringato collegamento da me tentato fra le
problematiche estetiche e le grandi opere della letteratura tedesca vedo prefigurato il
metodo dei miei futuri lavori 21.
Relazione
I.
Il lavoro concerne il contenuto artistico del dramma barocco tedesco.
II.
La sua problematica estetica la risolve in strettissimo collegamento con i documenti storico-letterari di
questa stessa forma: quindi non deducendo esteticamente, ma analizzando secondo la critica d’arte
(Kunstwissenschaft).
III.
Metodologicamente esso cerca di giustificare nel concetto di «origine» (Ursprung) la stretta connessione
esistente fra l’intenzione di tipo kunstwissenschaftlich, che è orientata sull’essenza del Trauerspiel
barocco e del Trauerspiel in generale, e la materia letteraria.
IV.
Il concetto di origine (Ursprung) è cosí definito: L’origine (Ursprung), pur essendo una categoria
pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi (Entstehung). Per «origine» non si intende il
divenire di ciò che scaturisce, bensí al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare. L’origine
sta nel flusso del divenire come un vortice, e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria
genesi. Nella nuda e palese compagine del fattuale, l’originario non si dà mai a conoscere, e il suo ritmo
si dischiude soltanto a una duplice visione. Essa vuol essere intesa da un lato come restaurazione, come
ripristino, e dall’altro e proprio per questo come qualcosa di imperfetto e di inconcluso [cfr.
Gesammelte Schriften, I/1, p. 236]. Per tale ragione nel corso del lavoro si offrono degli excursus sul
tardo Trauerspiel e sulle tendenze affini al Trauerspiel barocco in epoca medievale. La conseguenza di
questa definizione storico-logica dell’origine, tuttavia, non è che il vecchio «fatto» diventa di colpo un
momento costitutivo dell’essenza. Il compito dello studioso comincia anzi proprio qui, nell’accettare il
fatto come genuino soltanto se ha l’inequivocabile affinità dell’essenza con il prima e con il dopo. Nei
fenomeni piú singolari e intricati, nelle prove piú incerte e piú ingenue come nelle forme piú mature di
una civiltà al tramonto la scoperta è in grado di portare alla luce l’autentico. Non è per costruire
un’unità, e tanto meno per estrarne un elemento comune, che l’idea riassume la serie delle forme
storiche. Il rapporto fra il singolo e l’idea non ha nulla a che fare col rapporto fra il singolo e il concetto:
nel secondo caso esso cade sotto il concetto e rimane quello che era – singolarità; nel primo esso sta
nell’idea e diventa ciò che non era – totalità. E questa è la sua platonica «salvazione» [cfr. Gesammelte
Schriften, I/1, pp. 226-27].
V.
Di conseguenza l’«Ursprung» des deutschen Trauerspiels («origine» del dramma tedesco) è la sua idea,
sviluppata in una massa di casi concreti. In quanto idea (Idee), in contrapposizione all’allegorico
concetto (Begriff), il concetto estetico del genere (Gattungsbegriff) viene difeso contro coloro che lo
confutano, principalmente Croce e Burdach.
VI.
La prima parte della dissertazione, intitolata «Trauerspiel» e tragedia, culmina in una sinossi di queste
due opposte categorie:
Tragedia Trauerspiel
Saga Colpa naturale
Unità dell’eroe Pluralità degli individui sgomenti
Immortalità Vita da spettri
Contrasto con la commedia Commistione con la commedia
VII.
La seconda parte della dissertazione, Allegoria e «Trauerspiel», è dedicata a un’indagine sull’allegoria.
Quest’ultima viene presentata, in un’analisi non di tipo storico bensí kunstwissenschaftlich, come lo
schema stilistico del Trauerspiel barocco.
VIII.
L’allegoria entra in contrasto con il simbolo, ma non in quello dell’uso linguistico convenzionale.
Piuttosto: «Non è possibile pensare qualcosa di piú lontano dal simbolo artistico, dal simbolo plastico,
dall’immagine della totalità organica, di questo frammento amorfo che è l’ideogramma allegorico. In
essa il barocco si dimostra un pendant perfetto del classicismo. E non si tratta tanto di un correttivo del
classicismo, quanto di un correttivo dell’arte come tale. Cogliere la non-libertà, l’incompiutezza e la
fragilità della natura sensibile, del bello naturale, al classicismo non era dato. Ma sono proprio questi i
caratteri che l’allegoria barocca propone, nascosti sotto la sua pompa sfarzosa, con una insistenza fino a
quel punto ignota [cfr. Gesammelte Schriften, I/1, pp. 351-52].
IX.
L’opera d’arte allegorica reca già in sé in una certa misura la dissoluzione critica, in essa si compie la
nascita della critica dallo spirito dell’arte. Con rara chiarezza la critica sta nell’ulteriore durata di queste
opere. Sin dal principio esse mirano a quella dissoluzione critica che il corso del tempo ha praticato su
di esse. La critica filosofica non deve contestare il fatto di ridestare, proprio lei, la bellezza dell’opera. Si
dice: La scienza non può condurre a un godimento ingenuo dell’opera d’arte, cosí come i geologi e i
botanici non possono risvegliare la sensibilità per un bel paesaggio [Petersen]. Ma questa affermazione è
discutibile: senza intuire in qualche modo la vita del dettaglio nella struttura, ogni aspirazione alla
bellezza rimane pura fantasia. Struttura e dettaglio sono sempre, in definitiva, carichi di storicità. È
compito della critica filosofica mostrare che la funzione della forma artistica è appunto questa:
trasformare i dati storici che stanno alla base di ogni opera significativa in contenuti di verità. Questa
metamorfosi dei dati di fatto in contenuti di verità fa sí che l’affievolirsi, decennio dopo decennio, del
fascino originario dell’opera, diventi il germe di una nuova nascita, in cui ogni bellezza effimera viene
completamente a cadere e l’opera si afferma come rovina. Nella costruzione allegorica del dramma
barocco tedesco si delineano fin dall’inizio le forme in rovina dell’opera d’arte giunta alla sua salvezza
[cfr. Gesammelte Schriften, I/1, pp. 351-52] 23.
Il lavoro del dottor Benjamin, su cui devo riferire in merito ai contenuti inerenti alla
‘scienza dell’arte’, presenta un’estrema difficoltà di lettura. Vengono usate molte parole di
cui l’autore non ritiene doveroso spiegare il senso e che però o non hanno un significato
generalmente sicuro o che, se vengono intese nel loro significato comune, non offrono
alcun senso chiaro nel contesto in cui vengono utilizzate. Per tale motivo, in parte io non
sono in grado di riferire il significato del lavoro, e in parte non sono perlomeno in grado
di riferirlo con esattezza.
Oggetto del lavoro è il dramma barocco tedesco, o meglio – secondo l’intenzione
dell’autore – il contenuto artistico del dramma barocco tedesco. Oltre a una serie di
considerazioni inerenti alla ‘scienza dell’arte’, su cui ritornerò piú tardi, in questo contesto
vengono radunati con gran cura una quantità di interessanti materiali storici. Queste
esposizioni storiche costituiscono, a quanto posso giudicare, la parte piú cospicua
dell’opera; esse non hanno un rilievo dal punto di vista della ‘scienza dell’arte’, sebbene
d’altro canto contengano interessanti e importanti osservazioni sulla storia della
letteratura, cosa che non spetta a me giudicare.
«Intenzioni pertinenti la scienza dell’arte» sembra anzitutto perseguire
l’«Introduzione». Malgrado però i miei ripetuti sforzi, non è stato possibile trarne un
significato comprensibile. Di contenuto inerente alla ‘scienza dell’arte’ è poi una critica
piuttosto esauriente della teoria di Volkelt sul tragico, che giustamente disapprova come
infondate le premesse di questa teoria, senza che però l’autore riesca a esprimere con
sufficiente chiarezza la sua opinione sulla costituzione ‘storico-filosofica’ del tragico.
«Intenzioni dal punto di vista della scienza dell’arte» infine persegue l’ampia esposizione
sull’elemento allegorico; ma neppure in questo caso sono riuscito a comprendere il
significato delle spiegazioni, per quanto nuovamente munite di una gran quantità di
interessantissimo materiale storico.
Non riuscendo a riconoscere il risultato inerente alla ‘scienza dell’arte’ che l’autore si
prefigge, mi sono rivolto a lui per via epistolare, pregandolo di fornirmi un breve
compendio del suo lavoro. Ho quindi da lui ricevuto un prospetto sulle varie parti del suo
lavoro da lui considerate come il proprio risultato scientifico; ma ancora una volta non
sono riuscito a comprendere tali esposizioni. In questo imbarazzo mi sono rivolto al
dottor [Adhemar] Gelb e al dottor [Max] Horkheimer pregandoli di leggere questa
relazione sintetica e di dirmi in quale senso essi potessero interpretare tali elaborazioni. Da
entrambi mi sono sentito rispondere che per loro esse erano incomprensibili. Allego agli
atti lo scritto in discussione.
In simili condizioni non sono in grado di poter raccomandare alla Facoltà di accettare
come testo per la libera docenza il lavoro del dottor Benjamin. Non posso infatti esimermi
dall’esprimere il dubbio – pur con tutta la mia simpatia per l’autore, a me peraltro noto
per la sua perspicacia e ingegnosità – che, con il suo incomprensibile modo di esprimersi,
da intendere sicuramente come un indice di confusione obiettiva (sachliche Unklarheit),
egli non può essere una guida per gli studenti in queste discipline.
7 luglio 1925
H. Cornelius 24.
3.
4.
5.
6.
1 «Den Geist kann man nicht habilitieren». Il giudizio è riferito in GERSHOM SCHOLEM, Walter
Benjamin: die Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt am Main 1975; trad. it. Walter Benjamin. Storia
di un’amicizia, Milano 1992, p. 183.
2 WALTER BENJAMIN, Vorrede zum Trauerspielbuch, in Gesammelte Schriften, a cura di R.
Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main 1974, I/3, pp. 901-2. In una lettera del 5 aprile
1926, parlando della sua produzione letteraria piú recente, Benjamin riferiva all’amico Gershom
Scholem in proposito: «Per il resto non sono venute alla luce cose di particolare entità. La cosa piú
degna di menzione è la Premessa di dieci righe che sul libro sul Trauerspiel ho scritto all’indirizzo
dell’Università di Francoforte e che considero fra i miei pezzi piú riusciti» (cfr. WALTER BENJAMIN,
Briefe, a cura di G. Scholem e Th. W. Adorno, Frankfurt am Main 1966, I, p. 416). Nel suo Moskauer
Tagebuch (trad. it. Diario moscovita, Torino 1983, p. 46) Benjamin ricorda di aver letto questa
«Premessa contro l’università di Francoforte» ad Asja Lacis alla vigilia di Natale del 1926: «Per me può
essere importante quel che mi ha detto Asja, e cioè che nonostante tutto devo semplicemente scrivere:
Respinto dall’Università di Francoforte sul Meno».
3 Questo avrebbero raccontato a Benjamin i professori Franz Schultz e Hans Cornelius, ai quali era
spettata l’ultima parola sul caso Benjamin. Cfr. SCHOLEM , Walter Benjamin cit., p. 200.
4
Sulle implicazioni della vicenda francofortese di Benjamin e sul significato di questa Premessa
retrospettiva anche per i commentatori di Benjamin, cfr. IRVING WOHLFARTH, Riabilitazione di
Benjamin? Per un’autocritica, in L. BELLOI e L. LOTTI (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia
linguaggio, Roma 1983, pp. 239-43, e ID ., Hors-d’œuvre, Prefazione a WALTER BENJAMIN, Origine du
drame baroque allemand, Paris 1985, pp. 9 sgg.
5 Cfr. BURKHARDT LINDNER, Habilitationsakte Benjamin. Über ein «akademisches Trauerspiel» und
über ein Vorkapitel der «Frankfurter Schule» (Horkheimer Adorno), in ID . (a cura di), Walter Benjamin
im Kontext, Königstein 1985, pp. 324-41. La «Pratica Benjamin per l’abilitazione alla libera docenza»
contiene (nell’ordine): 1. curriculum vitae (Lebens-lauf), 2. domanda di abilitazione alla libera docenza
(Habilitationsgesuch), 3. certificato di buona condotta (Führungszeugnis), 4. dichiarazione del
commissario dell’Università, 5. lettera del Preside professor Schultz al professor Cornelius, 6. parere del
professor Cornelius (Gutachten Cornelius), 7. descrizione di Walter Benjamin della dissertazione per
l’abilitazione alla libera docenza, 8. lettera del Preside a Benjamin, 9. lettera della Segreteria della
Presidenza sulla restituzione dei documenti presentati, e 10. documentazione relativa alla richiesta di
Rolf Tiedemann, in quanto curatore delle Gesammelte Schriften benjaminiane, di poter prendere visione
della «Pratica Benjamin per l’abilitazione alla libera docenza» e di citarla. Può valere la pena ricordare le
motivazioni addotte nel negare l’accesso agli Atti a Rolf Tiedemann: secondo una precisazione scritta
del 5 settembre 1973 dell’ufficio legale dell’Università di Francoforte, gli Atti in questione non
conterrebbero nulla di «onorevole» (Ehrenrühriges) per le persone allora coinvolte nella vicenda. Il
professor Becker, Preside della Facoltà di Filosofia, assicurava che «non sussistono dubbi che lo stile di
Benjamin è difficilmente comprensibile o oddirittura incomprensibile (nur schwer zu verstehen oder
überhaupt nicht zu verstehen)», e comunque i giudizi formulati in occasione del tentativo di Walter
Benjamin di ottenere la libera docenza erano tali da rientrare nella «sfera privata protetta dal diritto
costituzionale» ed erano pertanto da considerare riservati.
Ampio materiale documentario (annotazioni, appunti occasionali, una prefazione inedita) su tutta la
vicenda è presente anche in BENJAMIN , Gesammelte Schriften cit., I/3, pp. 868-84 e 895-914.
6 Non va tuttavia dimenticato che neppure Adorno ebbe vita facile con la sua libera docenza presso
la stesso Facoltà dell’Università di Francoforte: il suo primo tentativo nel 1927 (con il lavoro pubblicato
postumo Der Begriff des Unbewußten in der transzendentalen Seelenlehre), infatti, non ebbe successo.
Egli riuscí nell’impresa soltanto successivamente, nel 1930, con il lavoro Kierkegaard. Konstruktion des
Ästhetischen. Meno nitido appare il comportamento di Max Horkheimer, allora assistente del professor
Hans Cornelius. In proposito cfr. LINDNER , Habilitationsakte Benjamin cit., pp. 335-38.
7 Cfr. SCHOLEM , Walter Benjamin cit., p. 79.
8 Cfr. BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 293 (lettera del 14 ottobre 1922 a Florens Christian Rang); trad. it.
Lettere 1913-1940, Torino 1978, p. 59.
9 Cfr. CH. KAMBAS, Walter Benjamin an Gottfried Salomon, in «DVjs», 1982, pp. 601-621. La
situazione venne cosí riassunta in una lettera inviata a Salomon il 1º agosto di quell’anno: «In queste
settimane ho avuto ampio motivo di rimpiangere la Sua assenza, poiché se ci fosse stato Lei alcune cose
sarebbero probabilmente andate meglio … E dato che Cornelius non vuole che io ottenga la libera
docenza con lui, adesso tutto dipende da Schultz … È positivo il fatto che Cornelius intenda votare a
favore della mia libera docenza» (citata in Walter Benjamin 1892-1940, a cura di R. Tiedemann, C.
Gödde e H. Lonitz, in «Marbacher Magazin», LV (1990), p. 68).
10 Lettera del 14 aprile 1923 a G. Salomon (Nachlaß Salomon, Amsterdam), cit. in M. BRODERSEN,
Spinne im eigenen Netz. Walter Benjamin. Leben und Werk, Bühl-Moos, 1990, p. 149.
11 «Nel complesso, si direbbe tornato in primo piano il tema iniziale, Trauerspiel e tragedia. È un
confronto fra le due forme, concluso deducendo la forma del Trauerspiel dalla teoria dell’allegoria»:
lettera del 7 ottobre 1923 a Florens Christian Rang, in BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 304.
12 «Le mie ricerche letterarie sono ormai pressoché terminate, e l’effettiva conclusione del lavoro,
come sempre in questi casi, è soltanto un fatto di volontà. E una volta che la redazione scritta sia
terminata, cosa che comunque ovviamente richiede ancora qualche settimana, sono abbastanza
fiducioso di riuscire a consegnare il lavoro. Mi sono dedicato alla cosa con la massima intensità e credo
che la materia estremamente ostica vi si presenti quasi seducente e misteriosa. Ormai ho scoperto molti
nessi estremamente sorprendenti»: lettera del 21 dicembre 1923 a Gottfried Salomon, in Walter
Benjamin 1892-1940 cit., p. 68.
13 Va tuttavia ricordato che già nel 1916 Benjamin aveva dedicato ad alcune tematiche centrali del
suo lavoro in particolare il saggio Ursprung und Tragödie. In questo senso risulta comprensibile la
dedica del lavoro alla moglie Dora Kellner «Abbozzato nel 1916, composto nel 1925. Allora come oggi
dedicato a mia moglie», riportata nell’edizione dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels proposta
dall’editore Suhrkamp di Francoforte nel 1963.
14 In una celebre lettera del 22 dicembre 1924 a Gershom Scholem, Benjamin parlò di «segnali
comunisti» come «segni di una svolta» che aveva destato in lui «la volontà di non mascherare piú i
momenti attuali e politici» dei suoi pensieri, «ma di svilupparli, sperimentalmente, in forma estrema»
(cfr. BENJAMIN , Lettere 1913-1940 cit., p. 109). Tale «svolta», oggetto di controversie e di roventi
polemiche fra gli interpreti dell’opera benjaminiana, è connessa all’esplicito riconoscimento da parte di
Benjamin dell’importanza del materialismo storico, in seguito all’incontro caprese con la
«rivoluzionaria russa» Asja Lacis e alla lettura del testo di GYÖRGY LUKÁCS, Storia e coscienza di classe
(1911).
15 «Come si richiedeva, ho scritto e scritto senza sosta, ma non a Lei. Nella sua prima stesura
(Rohschrift), il lavoro è pronto nella forma in cui voglio presentarlo a Francoforte, ossia senza la parte
puramente metodologica dell’introduzione e della conclusione. Queste ultime non le posso scrivere
prima di osservare da una certa distanza il corpus dell’intero lavoro. Inoltre l’introduzione metodologica
comporta talune complicazioni che risultano scoraggianti a prima vista. Il lavoro, come lo presento, non
è un frammento, ma un qualcosa di organico (nicht Fragment, sondern Totalität); a nessuno può venire
in mente che prima e dopo ci sia ancora qualcosa. Esso si presenta con il titolo di Ursprung des
deutschen Trauerspiels [Origine del dramma barocco tedesco] in due parti: I: «Trauerspiel» e tragedia,
II: Allegoria e «Trauerspiel». Ognuna di queste parti si suddivide in tre altre parti, che sono adorne di sei
motti fra i piú preziosi, tutti desunti dai testi barocchi maggiormente fuori mano. Questo per quanto
concerne il lavoro nel suo insieme. Negli ultimi giorni ho rallentato a causa della Dürers Melencolia I di
Saxl e Panofsky, Leipzig 1922, sfuggitomi non so come, ottimo e molto importante. (È uscito nelle
Schriften der Bibliothek Warburg [Pubblicazioni della Biblioteca Warburg]). Per mettere a punto il
dattiloscritto ci vorranno 20 giorni, piuttosto qualche giorno in piú che in meno. Sono ancora nei
tempi, se concludo alla fine di gennaio? Lo spero molto. Poiché chissà chi sarà Preside nel prossimo
semestre. La faccenda deve decidersi sicuramente in questo»: lettera del 29 dicembre 1924 a Gottfried
Salomon, riferita in Walter Benjamin 1892-1940 cit., p. 68.
16 «Terminato il lavoro non lo è; non era fattibile. Invece sono nei tempi l’introduzione e la I parte,
già redatte (però a mano, non ancora a macchina), la II parte in forma manoscritta, mentre la
conclusione non è ancora scritta. La conclusione è però facoltativa; il lavoro è concluso con la II parte.
In fondo già la I parte, «Trauerspiel» e tragedia, è un tutto unico, ma non voglio fondarmi
esclusivamente su questo … Obiettivamente, con questo lavoro ho attuato ciò che avevo in mente e, a
parte questo, in rapporto al tempo impiegato, e malgrado esso, ho anche sicuramente realizzato ciò che
era possibile» (lettera del 9 febbraio 1925 a Gottfried Salomon, citata in Walter Benjamin 1892-1940 cit.,
p. 69).
17 «Approdato presso gli accademici dopo queste traversie, esprimo la mia suprema angoscia sul
persistente silenzio di Schultz, che chiaramente non L’ha informata di nulla prima della sua partenza.
Spero che, una volta tornato, non Le sfuggirà; attendo un suo parere personale prima eventualmente di
consegnare la documentazione relativa all’abilitazione alla libera docenza» (ibid.).
18 Cfr. BENJAMIN , Lettere 1913-1940 cit., p. 113.
19 «Dalla Sua lettera deduco molte cose, nulla di buono; una cosa però non mi è chiara. Cosa sia
accaduto che potrebbe spiegare la svolta che comunque è da registrare nella vicenda. Poiché, anche se
nella presa di posizione esplicita di Schultz non v’è nulla che egli non abbia preparato con accortezza,
tuttavia gli elementi imponderabili a mio sfavore mi sembrano diventare a poco a poco ponderabili: ad
esempio il fatto che egli abbia evitato di portare direttamente il discorso sul mio caso. Oppure: il fatto
che le cose stiano in modo che Lei può scrivere che Schultz “probabilmente” farà da relatore al mio
lavoro … In base al modo in cui adesso la faccenda si presenta, anch’io devo riconoscere, con calma e
freddezza, che Schultz inizia a comportarsi in maniera ignobile … Se, in questa situazione, presenterò
davvero i documenti per ottenere la libera docenza lo devo valutare a Francoforte. Determinato non lo
sono piú affatto. E che cosa posso sperare da Cornelius – una via esaurita –, il quale riveste lui stesso un
incarico nelle discipline artistiche (Kunstwissenschaft)?» (lettera citata in Walter Benjamin 1892-1940
cit., p. 71).
20 Oltre al dattiloscritto dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels allegò alcuni attestati relativi ai suoi
precedenti studi universitari a Friburgo, Berlino, Monaco e Berna, il diploma di laurea, il certificato di
buona condotta, un curriculum vitae, una copia della sua tesi di laurea discussa all’Università di Berna,
del suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe, della sua traduzione dei Tableaux Parisiens di Baudelaire
e del suo saggio Destino e carattere (Schicksal und Charakter) e infine la dichiarazione del commissario
presso l’Università di Francoforte.
21 Riportato in LINDNER (a cura di), Walter Benjamin im Kontext cit., pp. 330-31.
22 Cfr. BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 379; trad. it. Lettere 1913-1940 cit., p. 116: «Da una settimana la
mia richiesta formale di libera docenza si trova presso la Facoltà. Le mie chances sono cosí irrilevanti
che ho esitato fino all’ultimo, prima di avanzare la mia candidatura. Infatti la libera docenza per storia
della letteratura tedesca mi era dichiarata da ultimo e irrevocabilmente impossibile, a causa della mia
«preparazione culturale», sicché ero sbattuto sulla spiaggia dell’«estetica»; e qui minacciano
nuovamente le resistenze di Cornelius. Poiché ha un incarico per l’insegnamento di «scienza generale
dell’arte», che appartiene alla stessa specialità dell’estetica. Si aggiunga l’inattendibilità di Schultz, che
non vuole compromettersi nei miei confronti, è vero, e ha pronunciato riguardo al lavoro, perché
costretto, poche parole di massimo riconoscimento, ma non ha neanche nessuna voglia di impegnarsi.
Cosí in questo momento nessuno può dire che cosa ne verrà fuori. Conto, nella Facoltà, un certo
numero di benevoli signori neutrali, ma nessuno sa chi dovrebbe prendere veramente in mano la cosa.
Se la cosa verrà decisa negativamente a priori, lo saprò entro pochi giorni. Ma è piú probabile che sia
insediata una commissione che lavorerà sino alla fine del semestre, e devo rallegrarmi se si prenderà
una decisione prima delle vacanze estive».
23 Cfr. WALTER BENJAMIN, Exposé, in Gesammelte Schriften cit., I/3, pp. 950-52.
25 «Sulla base del giudizio del professor Cornelius, la Facoltà delibera di consigliare al dottor
Benjamin di ritirare lo scritto presentato per ottenere la libera docenza. La Facoltà delibera inoltre di
non ammetterlo all’esame per l’Habilitation qualora egli non dovesse seguire questo consiglio»
(LINDNER , Walter Benjamin im Kontext cit., p. 333).
26 «Pareva proprio che il mio quarto o quinto viaggio colà, all’inizio di luglio, avrebbe dovuto
procedere bene, quando mi arrivava, attraverso i miei suoceri, una lettera del romanista [Matthias]
Friedwagner, che annunciava a Vienna la completa assenza di prospettive dei miei passi. L’amicizia per
mio suocero lo aveva indotto a sondare il terreno, ed era cosí risultato che le due vecchie gerle Cornelius
e Kautsch, il primo, forse, con benevolenza, il secondo piuttosto malevolmente, comunque non
volevano saper nulla del mio lavoro. Subito mi rivolgevo a Salomon, per avere informazioni piú precise.
Quest’ultimo non poteva dirmi nulla, fuorché questo: che in genere si consigliava di ritirare l’istanza al
piú presto, per risparmiarmi il rifiuto ufficiale. È vero che Schultz mi aveva assicurato che me l’avrebbe
risparmiato in ogni caso. Non si faceva vivo. Ho validi motivi per supporre che abbia agito in modo
estremamente sleale. Tutto sommato sono contento. Il viaggio attraverso la vecchia diligenza attraverso
le fermate dell’università di qui non è adatto a me – dopo la morte di Rang, Francoforte è addirittura il
piú arido deserto. Tuttavia non ho ritirato l’istanza, perché voglio lasciare alla Facoltà tutto il rischio di
una decisione negativa. Quali sviluppi potrà avere la cosa è un enigma. Naturalmente una revisione in
senso positivo è del tutto esclusa, però il posto di storia della letteratura è attualmente assai sguarnito, a
causa di alcuni cambiamenti nel corpo docente. E in questo caso per me la prima condizione sarebbe
che mi mettessi in congedo per l’inverno … Con il rifiuto dei miei genitori di migliorare la pensione in
caso di libera docenza, con la svolta del mio pensiero in senso politico, con la morte di Rang, l’anno
scorso sono cadute, una dopo l’altra, tutte le premesse per questa impresa. Ciò non può modificare per
nulla il fatto che questo ignobile giocherellare con le mie fatiche e i miei lavori nel caso che oggi non
avessi ancora abbandonato il progetto mi irriterebbe e amareggerebbe in modo estremo. È una cosa
veramente inaudita che un lavoro come il mio sia prima dato in incarico e poi ignorato in questa
maniera» (BENJAMIN , Lettere 1913-1940 cit., pp. 127-28).
27 «Dopo che è stato presentato il primo giudizio sulla Sua dissertazione per ottenere la libera
docenza sono stato incaricato dalla Facoltà di consigliarLe di ritirare la domanda di abilitazione alla
libera docenza. Mentre assolvo questo incarico, mi permetto di comunicarLe che resto a Sua
disposizione in qualsiasi momento per un colloquio fino al 6 agosto» (Walter Benjamin 1892-1940 cit.,
p. 73).
28 «Caro Salomon, Lei comprenderà se ho taciuto per qualche tempo. Ciò è dipeso peraltro anche
dalla Sua ultima lettera. Era cosí afflitta e abbattuta, mentre a me avrebbero fatto bene energiche
imprecazioni. Poiché, se motivazioni interiori non mi facessero considerare come qualcosa di
irrilevante la vita accademica, a lungo andare gli effetti della cura che mi è stata data sarebbero stati
distruttivi. Se nella mia autostima io dipendessi anche minimamente da quei pareri i modi
irresponsabili e sconsiderati con cui le influenti autorità hanno trattato il mio caso mi avrebbero
procurato uno choc da cui la mia produttività non si sarebbe riavuta in fretta. Il fatto che tutto questo –
fino a prova contraria – non è accaduto resta un fatto privato. Richiedere e poi respingere, come è stato
fatto, il lavoro da me scritto resta un modo di comportarsi che rimarrà ben fisso nella mia memoria.
Perciò una esortazione a ritirare la mia domanda come quella che mi è stata rivolta in questi giorni dal
Preside per incarico della Facoltà non è per me la benvenuta, sebbene come un residuo di decenza
sensazionale, in quanto per la stampa del libro meditavo un blando accenno alla sorte francofortese del
manoscritto. Invece soddisferò sicuramente quell’invito. Ma non utilizzerò il chiarimento con cui il
Preside dice di essere a mia disposizione per un colloquio fino al 6 agosto». (Walter Benjamin 1892-
1940 cit., p. 73).
29 Questo scritto verrà poi di fatto pubblicato dal Verlag der Bremer Presse.
30 Cfr. WALTER BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in «Neue Deutsche Beiträge»,
München 1927, pp. 89-100. Si tratta di alcune pagine relative alla terza sezione della prima parte del
libro («Trauerspiel» e tragedia). Il progetto di pubblicare in anteprima il capitolo conclusivo del libro in
uno Jahrbuch della casa editrice di Ernst Cassirer non si era invece realizzato.
31 Sulla ricezione dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels si vedano in particolare: BENJAMIN ,
Gesammelte Schriften cit., I/3, pp. 903-11; KLAUS GARBER, Rezeption und Rettung. Drei Studien zu
Walter Benjamin, Niemeyer, Tübingen 1987, pp. 59-81; MOMME BRODERSEN, Walter Benjamin.
Bibliografia critica generale, Palermo 1984, pp. 28-29 e 147 sgg.; R. MARKNER e TH. WEBER (a cura di),
Literatur über Walter Benjamin. Kommentierte Bibliographie 1983-1992, Hamburg 1993. È innegabile
che, nell’ambito della piú recente riabilitazione di questo scritto benjaminiano, sia comunque tuttora
viva nei suoi confronti la ‘congiura del silenzio’ da parte dei grandi specialisti del barocco tedesco, ad
eccezione in particolare di ALBRECHT SCHÖNE (Emblematik und Drama im Zeitalter des Barock,
München 1968). In linea generale, ancora oggi nella ricerca sul barocco (a proposito della quale si veda
l’utile lavoro di HANS-HARALD MÜLLER, Barockforschung: Ideologie und Methode. Ein Kapitel deutscher
Wissenschaftsgeschichte 1870-1930, Darmstadt 1973) il libro benjaminiano viene sí ricordato come
un’importante lavoro critico, ma viene poi di fatto neutralizzato nel momento in cui ci si mantiene a
rispettosa distanza da esso. Non è mancato chi ne ha contestato le pretese di scientificità (cfr. in
particolare MICHAEL RUMPF, Spekulative Literaturtheorie. Zu Walter Benjamins Trauerspielbuch,
Hanstein 1980), o – in forma piú mitigata – una «metafisica privata» e un’«autorità soggettiva» che
risulterebbero nocive sotto il profilo critico-scientifico (cfr. BERND WITTE, Walter Benjamin – Der
Intellektuelle als Kritiker, Stuttgart 1976).
In Italia la valorizzazione dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels è stata avviata dalla traduzione di
Enrico Filippini (Einaudi, Torino 1971), corredata da una postilla di Cesare Cases che aiutava il lettore a
districarsi nel labirintico universo del Seicento tedesco e nell’ambito delle ricerche sul barocco sia
all’epoca di Benjamin che in epoca piú recente, e che accentuava la denuncia benjaminiana nei
confronti dell’ottimismo di tipo idealistico e della sintesi del classicismo, sottolineandone in prevalenza
– in sintonia con la linea di lettura di Renato Solmi (nell’Introduzione all’antologia benjaminiana
Angelus Novus, Torino 1962) – i possibili raccordi con l’avanguardia novecentesca, come suggerito da
György Lukács. Cases faceva notare che «l’invito al barocco» registrabile negli anni Venti in Germania
(e rispetto a cui la fatica benjaminiana costituisce un insostituibile pendant) non era scevro da pericoli:
«Nel revival degli anni venti, antologizzato da Alewyn che era stato uno dei suoi protagonisti, erano
implicite – egli scriveva – tendenze che non a caso condussero alcuni di quegli studiosi (come Herbert
Cysarz, spesso citato da Benjamin) nelle braccia del nazismo. Visto non già come un’allegoria del
presente, ma come una soluzione letterale dei suoi problemi, il barocco poteva diventare un richiamo
all’autorità e alle gerarchie, alla sottomissione e al sacrificio assoluto, alla vanità della politica e
all’eccellenza dell’identificazione mistica, all’accettazione e al culto della morte … Che il nuovo mondo
borghese … portasse in sé il germe della morte e della distruzione totale, è oggi visibile a tutti». A parte
la penetrante e specifica lettura di Cases, si direbbe tuttavia che alla sua uscita italiana lo scritto
benjaminiano sia rimasto ostico, se non impenetrabile, a buona parte dei recensori, che hanno esibito
una certa frettolosità di giudizio di fronte al groviglio dei piani teorici e all’impianto piuttosto esoterico
del volume. Fuori del coro e in posizione anti-Cases si è posto in tale occasione in particolare Roberto
Calasso (La storia al guinzaglio, in «L’Espresso», 4 luglio 1971) che, muovendosi in una linea
interpretativa di tipo ermetico-metafisico, ha insistito su di un Benjamin «cabalista naufragato nella
visione di una natura tutta irretita nella rovina della concatenazione delle colpe» e sulla dimensione del
«lutto» nella ricerca benjaminiana, dimensioni che sfuggirebbero invece ai critici di provenienza
marxista e «adoratori» di Lukács. Una replica al vetriolo a questo intervento si ebbe successivamente (su
«Quaderni piacentini» del luglio 1973, pp. 137-38) da parte dello stesso Cases. Fra gli studiosi che
successivamente hanno sondato con variegate impostazioni ermeneutiche il Dramma barocco tedesco si
possono ricordare, oltre a GIORGIO AGAMBEN (Lingua e storia. Categorie storiche e categorie linguistiche
nel pensiero di Benjamin, in BELLOI e LOTTI (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio cit.),
in particolare FERRUCCIO MASINI, Walter Benjamin: allegoria e dialettica, in Brecht e Benjamin, Bari
1977, pp. 105-31, MASSIMO CACCIARI, Di alcuni motivi in Walter Benjamin. Da «Ursprung des
deutschen Trauerspiels» a «Der Autor als Produzent», in FRANCO RELLA (a cura di), Critica e storia,
Venezia 1980, pp. 41-71, MARIO PEZZELLA, L’immagine dialettica. Saggio su Benjamin, Pisa 1982, pp. 51
sgg. e BRUNO MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Napoli 1984, pp. 332-418). Per
una rassegna delle varie posizioni si vedano: ENZO RUGLIANO e GIULIO SCHIAVONI (a cura di),
Caleidoscopio benjaminiano, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 1987, pp. 382 sgg., e STEFANO
BERETTA , Sui rapporti dialettici interni al testo barocco di Walter Benjamin, in «Studia theodisca», V
(1998), pp. 31-58.
32 Cfr. THEODOR W. ADORNO, Über Walter Benjamin, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt am Main
1970, p. 13.
33 Cfr. GERSHOM SCHOLEM, Walter Benjamin und sein Engel, Frankfurt am Main 1975; trad. it.
Walter Benjamin e il suo angelo, Milano 1978, p. 90.
34 Cfr. anche BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 372 (lettera del 19 febbraio 1925 a G. Scholem). I versi sono
tratti dal Kinderlied: Hopp, hopp, hopp (testo di Carl Hahn, melodia di Carl Gottlieb Hering).
35 Lettera del 19 febbraio 1925 a G. Scholem. Cfr. BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 372.
36 Gershom Scholem ha ricordato che Benjamin, riguardo alla sua Premessa, confidò al critico Max
Rychner e ad Adorno che essa potrebbe essere compresa soltanto da lettori che avessero qualche
dimestichezza con la qabbalah, la tradizione della mistica ebraica che oltre a Kafka stava interessando lo
stesso Scholem.
37 In proposito cfr. soprattutto AGAMBEN , Lingua e storia. Categorie storiche e categorie linguistiche
nel pensiero di Benjamin, in BELLOI e LOTTI (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio cit.,
pp. 65-82.
38 Cfr. GEORGE STEINER, Introduction a WALTER BENJAMIN, The Origin of German Tragic Drama,
London 1977, pp. 16-17.
39 Cfr. BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 323; trad. it. Lettere 1913-1940 cit., p. 72.
40 In ciò si può ravvisare anche l’‘avanzamento’ di Benjamin rispetto alla fenomenologia di Husserl.
In proposito cfr. CACCIARI , Di alcuni motivi in Walter Benjamin cit., pp. 41-71.
41 Nella sua Spätrömische Kunstindustrie, 1911 [L’industria artistica tardoromana], della cui
importanza Benjamin fu convinto «per tutta la vita» (G. Scholem) e di cui nella sua recensione Libri che
sono rimasti attuali (1929, in WALTER BENJAMIN, Critiche e recensioni, Torino 1979, p. 105) apprezzava
«il modo di procedere rivoluzionario», Riegl aveva rivalutato un periodo le cui esperienze artistiche (al
pari di quelle del barocco tedesco) valevano come morte, secondarie e sgraziate per i canoni dell’estetica
imperante.
42 Cfr. trad. it. GYÖRGY LUKÁCS, Il significato attuale del realismo critico, Torino 1957, p. 48, dove il
critico ungherese definisce lo scritto benjaminiano come «il riferimento piú intimo all’odierna
letteratura di avanguardia». Cfr. anche trad. it. ID ., Estetica, Torino 1970, vol. II, pp. 1505 sgg. Sulla
questione si vedano: RENATO SOLMI, Introduzione a BENJAMIN , Angelus Novus cit., pp. XV sgg.; P.
BÜRGER , Theorie der Avantgarde, Frankfurt am Main 1974, pp. 93 sgg.; FERRUCCIO MASINI,
Melancholia illa allegorica, in Brecht e Benjamin cit., pp. 115 sgg.
43 WALTER BENJAMIN, Trauerspiel und Tragödie, in Gesammelte Schriften cit., II/1, pp. 133-137; trad.
53 Lettera del 22 dicembre 1924 a G. Scholem, riportata in BENJAMIN , Briefe cit., I, p. 366; trad. it.
Lettere 1913-1940 cit., p. 108.
54 Cfr. BENJAMIN , Lettere 1913-1940 cit., p. 107. Sull’allegoria Benjamin continuerà a interrogarsi
anche negli anni futuri, spostando l’accento dall’aspetto storico-artistico a quello materialistico nel
periodo del Passagen-Werk.
55 Cfr. HARALD STEINHAGEN, Zu Walter Benjamins Begriff der Allegorie, in WALTER HAUG (a cura
di), Formen und Funktionen der Allegorie, Stuttgart 1979.
56 In proposito cfr. in particolare FURIO JESI, Mito, Milano 1973, pp. 47 sgg.
57 Sul rapporto antagonistico fra le due categorie nell’opera di Benjamin cfr. W. MENNINGHAUS, Das
Ausdruckslose: Walter Benjamins Metamorphosen der Bilderlosigkeit, in Für Walter Benjamin, a cura di
I. e K. Scheuermann, Frankfurt am Main 1992, pp. 170-82.
58 Cfr. CESARE CASES, Postfazione a BENJAMIN , Il dramma barocco tedesco cit. (ed. 1971), p. XII .
Il dramma barocco tedesco
Premessa gnoseologica
Poiché nel sapere come nella riflessione non si può mettere insieme un tutto, in quanto
a quello manca l’interno, a questa l’esterno, noi dobbiamo di necessità pensare la scienza
come arte se da essa ci aspettiamo un genere qualsiasi di totalità. E questa, non dobbiamo
cercarla nel generale, nel ridondante, bensí, come l’arte si rappresenta sempre tutta in ogni
singola opera d’arte, cosí anche la scienza dovrebbe ogni volta dimostrarsi totalmente in
ogni singolo oggetto trattato.
JOHANN WOLFGANG VON GOETHE,
Le idee non sono date nel mondo dei fenomeni. Sorge allora la domanda
di che natura sia la loro datità, a cui si accennava, e se il compito di
giustificare la struttura del mondo delle idee vada proprio assegnato,
inevitabilmente, alla famosa intuizione intellettuale. Se c’è un luogo in cui si
rivela in modo chiaro e imbarazzante la debolezza di qualsiasi esoterismo
filosofico, questo luogo è la «visione», prescritta come atteggiamento
filosofico agli adepti del paganesimo neoplatonico in tutte le sue forme.
L’essere delle idee non può assolutamente venir pensato come oggetto di
un’intuizione, neppure dell’intuizione intellettuale. Poiché anche nella sua
definizione piú paradossale, quella di intellectus archetypus, essa non viene a
capo del peculiare darsi della verità, un darsi che rimane sottratto a ogni
genere di intenzione (né la verità potrà mai apparire come intenzione essa
stessa). La verità non entra mai in relazione, tanto meno in una relazione
intenzionale. L’oggetto della conoscenza, quale si determina nell’intenzione
concettuale, non è la verità. La verità è un essere inintenzionale formato di
idee. Il comportamento che le si addice è perciò non già un intendere
conoscitivo, bensí un risolversi e uno scomparire in essa. La verità è la morte
dell’intenzione. Precisamente questo può essere il significato della favola
dell’immagine velata di Sais, il cui svelamento provoca la distruzione di colui
che voleva interrogare la verità. A determinare questo esito non è
un’enigmatica crudeltà della situazione, bensí la natura stessa della verità, al
cospetto della quale anche il piú puro fuoco della ricerca si spegne, come
sott’acqua. In quanto ideale, l’essere della verità è diverso dal modo d’essere
delle apparizioni. La struttura della verità esige pertanto un essere che, per la
sua estraneità all’intenzione, somigli a quello puro e semplice delle cose, ma
che lo superi per consistenza. La verità non consiste in un intendere che
troverebbe nell’empiria la sua determinazione, ma è la potenza che plasma
l’essenza di quell’empiria. L’essere sottratto a ogni fenomenicità, l’unico
essere a cui pertiene questa potenza, è quello del nome. Esso determina il
darsi delle idee. Ma esse si danno non tanto in una lingua originaria, quanto
in una percezione originaria, nella quale le parole non avrebbero ancora
perduto la loro aura denotativa a vantaggio del significato conoscitivo. «In un
certo senso si può dubitare che la dottrina platonica delle “idee” sarebbe stata
possibile se il significato linguistico non avesse suggerito al filosofo – che
conosceva soltanto la sua lingua madre – una divinizzazione del concetto, una
divinizzazione delle parole: le “idee” di Platone sono in fondo, se per una
volta è lecito valutarle da questo punto di vista unilaterale, nient’altro che
parole e concetti verbali divinizzati» 3. L’idea è qualcosa di linguistico, piú
precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide con quel
momento per cui la parola è simbolo. Nella percezione empirica, in cui le
parole si sono decomposte, alle parole inerisce, accanto al loro piú o meno
nascosto significato simbolico, un esplicito significato profano. È compito del
filosofo restituire il suo primato, mediante la rappresentazione, al carattere
simbolico della parola: quel carattere nel quale l’idea giunge
all’autotrasparenza, che è il contrario di una comunicazione rivolta verso
l’esterno. Poiché la filosofia non può pretendere di parlare in tono rivelativo,
ciò può avvenire solo attraverso un rammemorare che risalga anzitutto a una
percezione originaria. Forse l’anamnesi platonica non è lontana da questo
rammemorare. Soltanto che qui non si tratta di richiamare delle immagini
all’intuizione; piuttosto, nella contemplazione filosofica l’idea si libera come
parola dal nucleo piú intimo della realtà, e come una parola che rivendica di
nuovo il suo diritto a nominare. Ma il primo ad assumere questo
atteggiamento non è Platone, bensí Adamo, il padre degli uomini in quanto
padre della filosofia. Il nominare adamitico è cosí lontano dall’essere gioco ed
arbitrio che proprio in esso si conferma anzi lo stato paradisiaco in quanto
tale, non ancora impegnato a lottare col significato informativo delle parole.
Come le idee si danno, senza intenzione, nel nominare, cosí esse devono
rinnovarsi nella contemplazione filosofica. In questo rinnovamento si
ripristina la percezione originaria del linguaggio. Cosí la filosofia, che è stata
cosí spesso un oggetto di scherno, è a ragione, nel corso della storia, una lotta
per la rappresentazione di alcune parole, sempre le stesse: le idee. Perciò
l’introduzione di nuove terminologie, se non si mantiene rigorosamente
nell’ambito concettuale e mira invece agli oggetti ultimi del contemplare, è in
ambito filosofico estremamente discutibile. Tali terminologie – un
denominare non riuscito, a cui partecipa piú l’intenzione che il linguaggio –
restano estranee a quella oggettività che la storia ha attribuito ai prodotti piú
alti del contemplare filosofico. Questi ultimi stanno, come le mere parole non
possono stare, in un compiuto isolamento. E cosí le idee riconoscono la legge
che dice: tutte le essenze esistono in una compiuta autonomia e intangibilità,
non solo rispetto ai fenomeni, ma anche l’una rispetto all’altra. Come
l’armonia delle sfere si fonda sulla rotazione dei corpi celesti, che non si
toccano mai, cosí il consistere del mundus intelligibilis si fonda sulla
ineliminabile distanza tra le pure essenze. Ogni idea è un sole, e il suo
rapporto con le altre idee è come un rapporto fra altrettanti soli. Il rapporto
armonioso fra queste essenze è la verità. La loro molteplicità denominata è
numerabile. Poiché il regime delle essenze è la discontinuità: quelle «essenze
... che conducono una vita toto coelo diversa dagli oggetti e dalle loro
proprietà, e la cui esistenza non si lascia dedurre dialetticamente estraendo da
un oggetto qualsiasi ... un certo insieme e aggiungendogli la qualifica “in sé”,
ϰα αὑτὸ; perché il loro numero è finito e ciascuna di esse va cercata
faticosamente nel luogo che nel suo mondo le spetta, fino a quando ci si
imbatte in essa, come in un rocher de bronce, oppure fino a quando la
speranza nella sua esistenza si rivela ingannevole» 4. Non di rado il mancato
riconoscimento di questa loro finitezza discontinua ha vanificato robusti
tentativi di rinnovare la dottrina delle idee: in ultimo, quelli compiuti dal
primo Romanticismo. Nelle sue speculazioni la verità assumeva, in luogo del
suo carattere linguistico, quello di una coscienza riflettente.
Ostacolati da tanti impacci, gli studi sul Barocco hanno tentato bensí una
valutazione piú oggettiva, che volente o nolente doveva restare perlopiú
estranea alla cosa stessa, e accrescere la confusione: quella confusione con cui
deve tornare a fare i conti ogni riflessione sullo stato effettivo delle cose. Che
qualcuno abbia potuto partire dagli effetti psicologici del dramma barocco
per dimostrarne la convergenza col «timore» e la «compassione» teorizzati da
Aristotele, e concluderne che dunque il dramma barocco è vera tragedia –
quasi che Aristotele avesse mai affermato che solo la tragedia può suscitare
timore e compassione – tutto questo dovrebbe sembrare impossibile. Molto
banalmente osserva un autore del passato: «Lohenstein finí per sprofondarsi a
tal punto nel passato da dimenticare il proprio mondo, e a tal punto che
sarebbe stato piú comprensibile – per linguaggio, pensiero e sentimento – a
un pubblico antico che non a quello del suo tempo» 20. Anziché perder tempo
a confutare simili stravaganze, converrà rilevare che una forma d’arte non
può essere definita a partire dai suoi effetti psicologici. «Che l’opera d’arte sia
compiuta in se stessa, ecco il requisito supremo! E Aristotele, che aveva la
perfezione davanti agli occhi, si sarebbe preoccupato dell’effetto! quale
sciagura!» 21. Cosí Goethe. Ora, che Aristotele debba essere affrancato o meno
da quel sospetto che Goethe respinge con sdegno da lui, la necessità di
separare gli effetti psicologici dal dibattito sul dramma resta comunque un
caposaldo del suo metodo. In questo senso Wilamowitz-Moellendorff
dichiara: «Occorrerebbe comprendere che la ϰάϑα σιϛ non è un requisito
specifico del dramma, e se anche volessimo considerare gli affetti suscitati dal
dramma come una sua specificità, la coppia infelice di “timore” e
“compassione” resterebbe senz’altro inadeguata» 22. Ancora piú infelice e
molto piú frequente del tentativo di salvare il dramma barocco con l’aiuto di
Aristotele è quel tipo di «rivalutazione» che pretende di dimostrare con
aperçus a buon mercato la «necessità» di questa forma drammatica, una
necessità di cui poi non è chiaro se sia un valore positivo o non sia invece il
punto debole di ogni valutazione critica. In ambito storico, la questione
relativa alla necessità dei suoi fenomeni è evidentemente e in ogni caso una
questione a priori. Il termine «necessità», con cui si è voluto spesso abbellire il
dramma barocco, è un ornamento falso e non privo di ambiguità. Esso allude
non solo alla necessità storica, in futile contrasto col mero caso, ma anche alla
necessità soggettiva di una bona fides contrapposta al virtuosismo. E tuttavia,
che l’opera scaturisca «necessariamente» da una disposizione soggettiva
dell’autore, non significa evidentemente ancora nulla. Non diverso è il caso di
quella «necessità» che comprende le opere, le forme, in quanto gradi
preliminari dello sviluppo seguente, in un nesso problematico. «Per quanto il
suo concetto di natura e la sua concezione estetica possano essere andate per
sempre in rovina, quel che resta vivo – intramontabile, inattaccabile,
irrinunciabile – sono innanzitutto le scoperte contenutistiche e piú ancora le
invenzioni tecniche del XVII secolo» 23. Cosí, anche gli studi piú recenti
salvano la poesia di quest’epoca in quanto mero mezzo. Quella «necessità» si
muove in una sfera equivoca 24, e trae la sua verosimiglianza da quello che è
l’unico concetto esteticamente rilevante di necessità. È quello a cui pensa
Novalis là dove parla del carattere a priori delle opere d’arte come di una
necessità esistenziale che esse porterebbero con sé. Che questa necessità possa
rivelarsi solo a un’analisi capace di coglierne il contenuto metafisico, è palese.
Una «rivalutazione» moderata non arriva a tanto. E di questa impostazione
rimane in fondo prigioniero anche il recente saggio di Cysarz. Se i suoi saggi
precedenti traevano i loro motivi ispiratori da sfere teoriche affatto diverse,
qui si nota con sorpresa che le idee piú preziose, le osservazioni piú
pertinenti, sono private dei loro frutti migliori per via del sistema poetico del
Classicismo, al quale consapevolmente si richiamano. L’ultima parola non
spetta qui tanto alla preoccupazione classica di «salvare» le opere, quanto a
quella, non normativa, di giustificarle. Nei lavori meno recenti viene chiamata
in causa, a questo punto, la Guerra dei Trent’anni. È lei l’unica responsabile
degli sbandamenti formali che venivano rimproverati al dramma barocco.
«Ce sont, a-t-on dit bien des fois, des pièces écrites par des bourreaux et pour
des bourreaux. Mais c’est ce qu’il fallait aux gens de ce temps là. Vivant dans
une atmosphère de guerres, de luttes sanglantes, ils trouvaient ces scènes
naturelles; c’était le tableau de leurs mœurs qu’on leur offrait. Aussi
goûtèrent-ils naïvement, brutalement le plaisir qui leur était offert» 25.
1 JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Sämtliche Werke, Stuttgart-Berlin s. d. [1907 sgg.], vol. XL:
Schriften zur Naturwissenschaft, 2, pp. 140 sgg.; trad. it. La teoria dei colori, Milano 1979.
2 Cfr. EMILE MEYERSON, De l’explication dans les sciences, 2 voll., Paris 1921, passim.
3 HERMANN GÜNTERT, Von der Sprache der Götter und Geister. Bedeutungsgeschichtliche
Untersuchungen zur homerischen und eddischen Göttersprache, Halle 1921, p. 49. Cfr. HERMANN
USENER , Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Bonn 1896, p. 321.
4 JEAN HERING, Bemerkungen über das Wesen, die Wesenheit und die Idee, in «Jahrbuch für
Philosophie und phänomenologische Forschung», IV (1921), p. 522.
5 MAX SCHELER, Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, a cura di Maria Scheler,
Bern 1955, p. 152.
6 KONRAD BURDACH, Reformation, Renaissance, Humanismus. Zwei Abhandlungen über die
Grundlage moderner Bildung und Sprachkunst, Berlin 1918, pp. 100 sgg.; trad it. Riforma-Rinascimento-
Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, a cura di D.
Cantimori, Firenze 1935, pp. 78 sgg.
7 Ibid., p. 213, nota; trad. it. cit., p. 79, nota.
8 FRITZ STRICH, Der lyrische Stil des siebzehnten Jahrhunderts, in Abhandlungen zur deutschen
Literaturgeschichte. Franz Muncker zum 60. Geburtstage dargebracht von Eduard Berend, München
1916, p. 52.
9 RICHARD M. MEYER, Über das Verständnis von Kunstwerken, in «Die neuen Jahrbücher für das
klassische Altertum, Geschichte und deutsche Litteratur», IV (1901), p. 378.
10 Ibid., p. 372.
12 Ibid., p. 55.
14 HERMANN COHEN, Logik der reinen Erkenntnis, Berlin 1914, pp. 35 sgg.
15 WALTER BENJAMIN, Die Aufgabe des Übersetzers; trad. it. Il compito del traduttore, in Angelus
Novus, a cura di R. Solmi, Torino 1962, pp. 37 sgg.
16 STRICH , Der lyrische Stil des siebzehnten Jahrhunderts cit., p. 21.
17 Cfr. AUGUST WILHELM SCHLEGEL, Sämmtliche Werke, a cura di E. Böcking, Leipzig 1846, vol.VI:
Vorlesungen über dramatische Kunst und Litteratur, parte II, p. 403. Vedi anche ID . Vorlesungen über
schöne Litteratur und Kunst, a cura di J. Minor, Heilbronn 1884, parte III (1803-804): Geschichte der
romantischen Litteratur, p. 72.
18 Cfr. KARL LAMPRECHT, Deutsche Geschichte, Berlin 1912, sezione 2, Neuere Zeit. Zeitalter des
individuellen Seelenlebens, vol. III, parte I, p. 267.
19 Cfr. HANS HEINRICH BORCHERDT, Augustus Buchner und seine Bedeutung für die deutsche
Literatur des siebzehnten Jahrhunderts, München 1919, p. 58.
20 CONRAD MÜLLER, Beiträge zum Leben und Dichten Daniel Caspers von Lohenstein, Breslau 1882,
pp. 72 sgg.
21 JOHANN WOLFGANG GOETHE, Werke, sezione 4, Briefe, vol. XLII, gennaio-aprile 1827, Weimar
1907, p. 104.
22 ULRICH VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF , Einleitung in die griechische Tragödie, Berlin 1907,
p. 109.
23 HERBERT CYSARZ, Deutsche Barockdichtung. Renaissance, Barock, Rokoko, Leipzig 1924, p. 299.
einer Phaseologie der Geistesgeschichte, in «Euphorion», XXVIV (1922), pp. 517-62 e pp. 759-805.
29 VICTOR MANHEIMER, Die Lyrik des Andreas Gryphius. Studien und Materialien, Berlin 1904, p.
XIII .
30 WILHELM HAUSENSTEIN, Vom Geist des Barock, München 1921, p. 28.
Dramma e tragedia (I )
Der ersten Handlung. Erster Eintritt. Heinrich. Isabelle. Der Schauplatz ist der Königl.
Saal.
La storia del dramma tedesco moderno non conosce periodi in cui i temi
della tragedia classica siano stati meno influenti. E già questo fatto basterebbe
a smentire la presunta egemonia di Aristotele. Per la sua comprensione
mancavano tutti i requisiti necessari, e non in ultimo la volontà di capirlo.
Perché una seria precettistica di carattere tecnico e contenutistico, come
quella che a partire da Gryphius si attingeva ai classici olandesi o al teatro dei
gesuiti, nel filosofo greco non la cercava nessuno. L’essenziale era affermare,
attraverso il riconoscimento dell’autorità di Aristotele, un certo contatto con
la poetica rinascimentale dello Scaligero, e ribadire cosí la legittimità dei
propri esperimenti. Inoltre, verso la metà del XVII secolo la poetica aristotelica
non era ancora quel semplice e imponente sistema di dogmi con cui dovrà
fare i conti Lessing. Il Trissino, primo commentatore della Poetica, cita
anzitutto, in aggiunta all’unità di tempo, l’unità di azione: l’unità di tempo ha
valore estetico soltanto se comporta l’unità di azione. A tali unità si sono
attenuti Gryphius e Lohenstein, anche se, per il Papinian [Papiniano], l’unità
di azione potrebbe essere contestata. L’elenco dei tratti aristotelici finisce però
con questo fatto isolato. Il principio dell’unità di tempo non sembra rivestire
un significato preciso. La teoria di Harsdörffer, per il resto fedele alla
tradizione, dichiara accettabile anche un’azione della durata di quattro o
cinque giorni. L’unità di luogo, che entra nella discussione solo a partire da
Castelvetro, nel dramma barocco non è considerata; e neppure il teatro dei
gesuiti la riconosce. Ma ancora piú indicativa è l’indifferenza con cui i
manuali trattano la teoria aristotelica dell’effetto tragico. Non vogliamo dire
che questa parte della Poetica, che porta scritto in fronte con ancor piú
chiarezza delle altre il carattere cultuale del teatro greco, dovesse risultare
particolarmente accessibile alla mentalità del Seicento. E tuttavia, quanto piú
risultava impossibile penetrare il senso profondo della dottrina, legata alla
prassi catartica dei Misteri, tanto piú l’interpretazione avrebbe dovuto
muoversi con libertà. La troviamo invece tanto gracile nei suoi contenuti
quanto decisa nel piegare le intenzioni antiche. Timore e compassione non
sono intesi come una partecipazione all’azione nel suo insieme, ma al destino
dei personaggi piú rilevanti. Il timore è suscitato dalla fine del malvagio, la
compassione da quella dell’eroe buono. A Birken anche questa definizione
sembra troppo classica, e al posto del timore e della compassione egli pone,
come fine del dramma, l’amore di Dio e l’edificazione dei cittadini. «Noi
cristiani dobbiamo, in tutte le nostre azioni, e dunque anche nello scrivere
drammi e nel metterli in scena, nutrire un unico proposito: che Dio sia
onorato, e che il prossimo possa essere istruito al bene» 6. Il dramma è
chiamato a rinvigorire le virtú dei suoi spettatori. E se ce n’era una che era
obbligatoria per l’eroe ed edificante per il pubblico, questa era l’antica
ὰπαϑεια. La saldatura fra l’etica stoica e la teoria della tragedia moderna si era
compiuta in Olanda, e Lipsius aveva osservato che l’aristotelico ἔλεοϛ andava
inteso soltanto come uno stimolo ad alleviare le sofferenze e le pene altrui, ma
non come un crollo patologico alla vista di un destino terribile, non come
pusillanimitas, bensí soltanto come misericordia 7. È indubbio che simili
osservazioni sono essenzialmente estranee alla descrizione aristotelica del
modo in cui si era soliti assistere alle tragedie. Ciò che indusse la critica a
collegare il nuovo dramma con la tragedia greca fu dunque la semplice figura
dell’eroe regale. E per illustrarne in modo adeguato il carattere peculiare non
si potrà far di meglio che citare la famosa definizione di Opitz, formulata del
resto nello stile stesso del dramma.
«La tragedia è per maestà conforme al poema eroico, tal che di rado
sopporta che si introducano personaggi di infimo ceto e cose brutte: perché
essa tratta soltanto di regali voleri, colpi mortali, disperazioni, figli e parricidi,
incendi, oltraggi del sangue, di guerra e di rivolta, di lamenti, di singhiozzi, di
sospiri e simili» 8. Può darsi che il moderno studioso di estetica non sia
portato sulle prime ad apprezzare molto questa definizione, che sembra
offrire una semplice delimitazione della materia tragica. E infatti essa non è
mai stata considerata significativa. Senonché, questa apparenza è ingannevole.
Opitz non dice espressamente – e non lo dice perché per la sua epoca era cosa
ovvia – che gli eventi citati sono in realtà non tanto la materia, bensí il vero
nucleo estetico del dramma. Il contenuto del dramma stesso, il suo oggetto
proprio, è invece la vita storica cosí come la sua epoca se la rappresentava. E
in questo si distingue dalla tragedia, il cui oggetto non è la storia bensí il mito,
e in cui le dramatis personae derivano il loro rango tragico non dal ceto – la
regalità assoluta – ma dalla preistoria della loro stirpe, dal loro passato eroico.
Agli occhi di Opitz, non è la lotta con Dio o col destino, o l’attualizzazione di
un passato antichissimo quale cifra profonda della comunità popolare, a fare
del monarca il vero protagonista del dramma, bensí la conservazione delle
virtú principesche e la messa in scena dei principeschi vizi, la gestione degli
intrighi diplomatici e le manovre dell’alta politica. Il sovrano in quanto primo
esponente della storia è il piú autorevole candidato ad incarnarla. In modo
rudimentale, la partecipazione al corso attuale della storia del mondo affiora
di continuo anche negli scritti di poetica. «Chi vuol scrivere tragedie – si legge
nella Alleredelste Beschäftigung [La piú nobile di tutte le occupazioni] di Rist –
dev’essere mirabilmente competente di storia e di libri di storia, dei vecchi
come dei nuovi, deve sapere a fondo delle cose del mondo e dello stato, che
son quelle che costituiscono la politica vera e propria ... sapere quale sia lo
stato d’animo di un re o di un principe, sia nei tempi di guerra sia nei tempi
di pace, come si governino i paesi e le genti presso i quali si conserva la
sovranità, quali dannosi consigli vadano respinti, a quali espedienti occorra
far ricorso quando si esercita la sovranità, quali altri vadano respinti o
addirittura spazzati via; insomma, egli deve conoscere l’arte di governo a
menadito come la sua lingua madre» 9. Si credeva che il dramma fosse già lí,
tangibile e concreto, nel corso stesso della storia: bastava semplicemente
trovare le parole. Ma anche cosí non ci si decideva a sentirsi liberi. Anche se
Haugwitz era il meno dotato tra i drammaturghi barocchi, anzi l’unico a non
essere dotato affatto, attribuire le note della sua Maria Stuarda a pura
imperizia significherebbe misconoscere la tecnica del dramma in generale.
Egli si lamenta di aver avuto a disposizione, nel redigere l’opera, un’unica
fonte – lo Hoher Trauersaal di Franciscus Erasmus – tanto da essere stato
costretto «a seguire troppo da vicino le parole del traduttore» 10. Il medesimo
atteggiamento porta, in Lohenstein, a un corpus di note che compete per
ampiezza con il testo dei drammi, e, nelle note finali del Papinian di Gryphius
– che gli è anche qui superiore nello spirito e nella forma – alle parole: «Tanto
per questa volta. Ma perché tanto? Quel che ho scritto è inutile per i dotti, per
gli ignoranti è ancora troppo poco» 11. Come oggi la parola «tragico», cosí, e a
maggior ragione nel Seicento, il termine Trauerspiel si riferiva ugualmente
all’opera teatrale e alla realtà storica. Persino lo stile testimonia quanto le due
cose fossero vicine nella coscienza dei contemporanei. Quello che si è soliti
bollare come «ampolloso» nelle pièces teatrali, si potrebbe descrivere in molti
casi con le stesse parole con cui Erdmannsdörffer caratterizza il tono delle
fonti storiche in quei decenni: «In tutti i documenti che parlano di guerra e
dei disastri della guerra si avverte una ridondanza di toni lamentosi, quasi
piagnucolosi, che tende a diventare maniera; un continuo, per cosí dire,
torcersi le mani, è diventato ovunque il modo di esprimersi abituale. Mentre
la miseria, per quanto grande, aveva tuttavia mutevoli gradi, per descriverla
gli scritti del tempo quasi non conoscono le sfumature» 12. L’adeguarsi della
scena teatrale a quella storica comportava una conseguenza radicale: che
all’esercizio della poesia avrebbe dovuto essere chiamato in primo luogo lo
stesso mandatario dei destini storici. Ecco allora come esordisce il prologo di
Opitz alle Troiane: «Comporre drammi è stato in passato occupazione di
imperatori, principi, grandi eroi e persone esperte di mondo. In questa
schiera, Giulio Cesare nella sua gioventú affrontò il tema di Edipo, Augusto
quello di Achille ed Ajace, Mecenate quello di Prometeo, Cassio Severo
Parmense, Pomponio Secondo, Nerone e altri ancora temi dello stesso
genere» 13. Klai segue Opitz e sostiene che «non è difficile dimostrare come
anche il comporre drammi sia stato proprio degli imperatori, dei principi, dei
grandi eroi e delle persone esperte del mondo, ma non di gente volgare» 14.
Senza spingersi fino a queste esagerazioni, anche Harsdörffer, amico e
maestro di Klai, prospetta una serie di corrispondenze, un po’ nebulose, tra i
vari ceti e le varie forme teatrali: corrispondenze che riguardano la materia
scenica come anche i lettori, gli attori e gli autori stessi. Tra i vari ceti, a quello
contadino corrisponde allora il dramma pastorale, a quello borghese la
commedia, a quello principesco non solo il romanzo ma anche il dramma.
Ma queste teorie finivano per avere un loro «rovescio» buffonesco. Gli
intrighi di stato sconfinavano sull’arena letteraria, Hunold e Wernicke si
accusano a vicenda presso il re di Spagna e d’Inghilterra.
E nella nota si dice: «E questo per eccesso di amore verso di lei, affinché
non toccasse, dopo la sua morte, a nessun altro» 46. Sarebbe da citare – come
esempio di disinvoltura compositiva se non di intreccio scombinato – anche il
Leo Armenius. L’imperatrice Teodosia in persona spinge il principe a
rimandare l’esecuzione di Balbo, il ribelle, e questo rinvio porta alla morte
dell’imperatore Leo. Nel suo lungo lamento per la morte del marito essa non
evoca mai, neppure con una parola, il proprio intervento. Un motivo
essenziale dell’azione rimane cosí fuori scena. L’«unità» dell’azione storica
imponeva al dramma un decorso univoco, e ciò rappresentava una minaccia.
Se infatti un tale decorso va posto alla base di ogni rappresentazione
pragmatica della storia, è altrettanto chiaro che il dramma richiede per natura
una sua compiutezza, per poter attingere quella totalità che è negata a ogni
sviluppo temporale esterno. Ed è l’azione secondaria – sia essa parallela a
quella principale o in contrasto con essa – a garantirle tale compiutezza. Ma
l’unico a farvi ricorso è Lohenstein: in tutti gli altri casi l’azione secondaria
viene eliminata, nella convinzione di mettere in scena, in questo modo, la
storia nuda e cruda. La scuola di Norimberga spiega, ingenuamente, che
queste composizioni erano state chiamate Trauerspiele «perché un tempo, fra
i gentili, erano perlopiú i tiranni a governare, e andavano perciò incontro, di
solito, a un’orrenda fine» 47. Cosí, il giudizio di Gervinus sulla costruzione
drammatica di Gryphius, secondo cui «le scene si susseguono soltanto per
illustrare e portare avanti l’azione, e non sono mai destinate a un effetto
drammatico» 48, è nel complesso azzeccato, anche se nel caso di Cardenio und
Celinde si potrebbe esprimere qualche riserva.
Ma soprattutto è importante rilevare che simili constatazioni, magari ben
fondate ma isolate, non offrono una base critica sufficiente. La forma
drammatica di Gryphius e dei suoi contemporanei non è inferiore a quella
degli autori piú tardi solo per il fatto di non averli influenzati. Il loro valore si
determina in un contesto di autonoma pregnanza.
L’evoluzione formale del dramma barocco può essere vista senz’altro come
lo sviluppo di necessità contemplative presenti nella situazione teologica
dell’epoca. Una di queste, che deriva dal venir meno di ogni escatologia, è il
tentativo di trovar consolazione non già in un irraggiungibile stato di grazia,
ma nel ritorno a un mero stato creaturale. Qui, come in altre zone del mondo
barocco, è decisiva la trasposizione dei dati temporali in una simultaneità
spaziale impropria. Essa introduce nella struttura intima di questa forma
drammatica. Mentre il Medioevo esibisce la precarietà degli eventi mondani e
la transitorietà della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il
dramma barocco tedesco si seppellisce per intero nella disperata desolazione
della realtà terrena. Se esso conosce una via di salvezza, questa sarà nel cuore
stesso dell’angoscia piú che nel compiersi di un piano provvidenziale. Il
rifiuto dell’escatologia nel dramma religioso caratterizza la nuova produzione
teatrale in tutta Europa: cionondimeno, la fuga indiscriminata nella natura
senza grazia è specificamente tedesca. Il dramma spagnolo – che è la forma
piú alta del teatro barocco europeo, quella in cui l’elemento barocco,
innestandosi sulla cultura cattolica, si sviluppa nel modo piú brillante, piú
deciso, piú felice – risolve i conflitti di uno stato creaturale privo di grazia
trasponendoli nella cornice rimpicciolita e per cosí dire ludica di una corte,
che è come una Provvidenza secolarizzata. La «stretta» del terzo atto, con
l’intervento indiretto della trascendenza – tra surreale, cristallino e
burattinesco – garantisce al dramma di Calderón un esito superiore a quello
dei drammi tedeschi. L’ambizione di toccare il cuore stesso dell’esistenza è qui
del tutto esplicita. Se tuttavia il dramma mondano è costretto a fermarsi sulle
soglie della trascendenza, esso cerca nondimeno di accertarsene in forma
giocosa, per vie traverse. In nessun altro testo ciò è piú evidente che in La vita
è sogno: una totalità conchiusa in fondo paragonabile al Mistero medievale,
dove il sogno ricopre la vita desta come la volta del cielo. In esso, è alla
moralità che spetta l’ultima parola:
Un simile gioco non può essere governato dal caso, ma dovrà essere
calcolato e conforme a un disegno, dovrà essere pensato da marionette i cui
fili sono mossi dall’ambizione e dalla cupidigia. Resta comunque
incontestabile che il dramma tedesco del ’600 non è giunto a elaborare
quell’artificio canonico che permetterà al dramma romantico, da Calderón
fino a Tieck, di circoscrivere e di ridurre i suoi oggetti: la riflessione. Quella
riflessione che si imporrà non soltanto come un artificio tra i piú sottili della
commedia romantica, ma che si farà valere anche nella cosiddetta «tragedia»
romantica, ossia nel «dramma del destino». Nel teatro di Calderón essa
rappresenta in definitiva quello che nell’architettura coeva è la voluta. Essa si
ripete all’infinito, rimpicciolendo all’inverosimile il cerchio che essa stessa
delimita. I due lati della riflessione sono entrambi essenziali: la riduzione
giocosa del reale e l’introduzione nella chiusa finitezza del dramma profano di
una infinità riflessiva del pensiero. Poiché il mondo dei «drammi del destino»
– sia qui detto anticipando – è un mondo in sé conchiuso. E tale era nel teatro
di Calderón, nel cui dramma El mayor monstruo, dedicato alla figura di
Erode, si è voluto vedere il primo «dramma del destino» della letteratura
universale. La regola del destino doveva farsi valere in modo al tempo stesso
programmato e sorprendente, ad maiorem Dei gloriam e per l’edificazione
degli spettatori, nello scenario di un mondo «sublunare» in senso stretto:
quello della creatura sofferente o trionfante. Non a caso un uomo come
Zacharias Werner, prima di rifugiarsi nel grembo della Chiesa cattolica, si
cimentò con lo Schicksalsdrama. La cui mondanità, solo apparentemente
pagana, è di fatto il pendant profano della sacra rappresentazione. Ma quel
che tanto affascinava anche i romantici, orientati in senso teorico nel teatro di
Calderón –, al punto che lo si potrebbe definire, piú ancora di Shakespeare, il
loro drammaturgo ϰα ἐ ξοχήν – è l’incomparabile virtuosismo della
riflessione a cui costantemente ricorrono i suoi eroi, quel rigirarsi fra le mani
la sfera del destino per osservarlo ora da un lato ora dall’altro. Che cos’altro
vagheggiavano i romantici se non il genio che riflette irresponsabile fra le
catene dorate dell’autorità? Eppure, proprio l’incomparabile perfezione del
teatro spagnolo che per quanto alta artisticamente, sembra, a volerla
misurare, ancora un gradino piú in alto, lascia intravedere la pura forma del
dramma barocco con minor chiarezza del teatro tedesco, dove il primato della
sfera morale mette a nudo la situazione-limite assai piú di quanto non farebbe
un prodotto artisticamente compiuto. Il moralismo luterano, sempre proteso,
come dimostra ampiamente la sua etica del Beruf, a legare la trascendenza
della vita di fede all’immanenza della vita quotidiana, non ha mai consentito
un confronto deciso tra la miseria umana e terrena e i potentati principeschi e
gerarchici, confronto su cui si basa lo scioglimento di tanti drammi di
Calderón. L’esito dei drammi tedeschi è allora meno compiuto riguardo alla
forma e al tempo stesso meno dogmatico: esso è, moralmente se non
artisticamente, piú responsabile che nei drammi spagnoli. Detto ciò, la ricerca
non dovrebbe far altro che individuare alcuni nessi significativi per la forma,
cosí ricca e insieme chiusa, del teatro calderoniano. E quanto meno ci sarà
spazio per excursus e riscontri testuali, tanto piú sarà necessario mettere in
chiaro il rapporto essenziale tra il dramma barocco e Calderón, un
drammaturgo di cui la Germania di quegli anni non può vantare l’eguale.
Herr Gryphens...
Hielt für gelehrt-seyn nicht in einem etwas missen
In vielen etwas nur in einem alles wissen 79.
E di Agrippina è detto:
si lamenta Michele Balbo nel Leo Armenius. Nella dedica dell’Ibrahim Bassa,
Lohenstein rappresenta l’intrigante in certo modo come il dominatore della
scena, e lo definisce «un ipocrita di corte dimentico dell’onore e uno spione
intento a tramare omicidi» 108. In queste descrizioni, e in altre simili, la figura
del funzionario di corte assume tratti quasi demoniaci quanto a potere, sapere
e volere, è il consigliere segreto che ha libero accesso al gabinetto del principe,
luogo deputato dell’alta politica. A ciò allude Hallmann in un passaggio
elegante delle Leichreden: «Ma a me, in quanto politico, non si addice di
penetrare nel gabinetto segreto della celeste sapienza» 109. Il teatro tedesco
protestante sottolinea i tratti infernali del consigliere; nella Spagna cattolica
invece esso compare ammantato della dignità del sosiego, «l’ethos cattolico si
fonde con l’atarassia classica in un modello di cortigiano ecclesiastico e
mondano a un tempo» 110. Ed è proprio l’incomparabile ambivalenza della sua
superiorità intellettuale a fondare la dialettica barocca della sua posizione.
L’ingegno – ecco la tesi del secolo – si mostra nel potere; l’ingegno è la
capacità di esercitare la dittatura. Questa facoltà richiedeva una severa
disciplina interiore e un’azione esterna senza scrupoli. Il suo esercizio portava
con sé un disincantamento, la cui freddezza, per intensità, è comparabile solo
all’ardente frenesia della volontà di potenza. La calcolata perfezione del
comportamento mondano suscita, nella creatura spogliata di ogni ingenuità
residua, il sentimento del lutto. Ed è questo stato d’animo a consentire che si
possa pretendere dal cortigiano, o addirittura affermarne – come fa Gracían –
la sua santità 111. L’associazione del tutto impropria fra la santità e lo stato
d’animo del lutto promuove quel compromesso illimitato col mondo che
caratterizza il cortigiano ideale dell’autore spagnolo. Sondare in un unico
personaggio la profondità abissale di questa antitesi, è un’impresa che i
drammaturghi tedeschi non potevano neppure tentare. Del cortigiano essi
conoscono i due volti distinti: lo spirito maligno del despota, e il fedele
servitore come compagno di sventura dell’innocenza incoronata.
1 FILIDOR [CASPAR STIELER] Trauer- Lust- und Misch-Spiele, parte I, Jena 1665, p. 1 [Ermelinda o La
quattro volte sposa, I, I . Heinrich. Isabelle. La scena è la sala del trono. – Heinrich: Sono re. | Isabelle:
Sono regina. | Heinrich: Posso e voglio. | Isabelle: Non potete e non dovete volere. | Heinrich: Chi me lo
impedirà ? | Isabelle: Il mio divieto. | Heinrich: Sono re. | Isabelle: Siete mio figlio. | Heinrich: Se già vi
onoro come madre | dovete sapere | che siete soltanto mia matrigna. Voglio averla. | Isabelle: Non
l’avrete. | Heinrich: Dico: voglio averla | Ermelinda].
2 CYSARZ , Deutsche Barockdichtung cit., p. 72.
3 Cfr. ALOIS RIEGL, Die Entstehung der Barockkunst in Rom, pagine postume a cura di A. Burda e M.
Dvořák, Wien 1923, p. 147.
4 PAUL STACHEL, Seneca und das deutsche Renaissancedrama. Studien zur Literatur- und
Stilgeschichte des 16. und 17. Jahrhunderts, Berlin 1907, p. 326.
5 Cfr. LAMPRECHT , Deutsche Geschichte cit., p. 265.
6 SIGMUND VON BIRKEN, Teutsche Rede-bind- und Dicht-Kunst [Retorica e poetica tedesche]
Nürnberg 1679, p. 336. [Wir Christen sollen gleichwie in allen unsren Verrichtungen also auch im
Schauspiel-schreiben und Schauspielen das einige Absehen haben daß Gott damit geehret und der
Neben-Mensch zum Guten möge belehrt werden].
7 Cfr. WILHELM DILTHEY, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und
Reformation. Abhandlungen zur Geschichte der Philosophie und Religion, Leipzig-Berlin 1923, p. 445;
trad. it. L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII , a cura di C.
Sanna, Venezia 1927, vol. II, pp. 245 sgg.
8 MARTIN OPITZ, Prosodia Germanica, Oder Buch von der Deudschen Poeterey [Prosodia germanica,
ovvero il libro della poesia tedesca] Franckfurt am Mäyn, s. d. [1650 circa], pp. 30 sgg. [Die Tragödie ist
an der majestet dem Heroischen gedichte gemeße ohne das sie selten leidet das man geringen standes
personen und schlechte sachen einführe: weil sie nur von königlichem willen todschlägen
verzweifflungen kinder und vätermorden brande blutschanden kriege und auffruhr klagen heulen
seuffzten und dergleichen handelt].
9 JOHANN RIST, Die Aller Edelste Belustigung Kunst- und Tugendliebender Gemüther, Frankfurt
1666, pp. 241 sgg. [Wer Tragödien schreiben wil muß in Historien oder Geschicht-Büchern, so wol der
Alten als Neuen trefflich seyn beschlagen er muß die Welt-und Staats-Händel als worinn die eigentliche
Politica bestehet gründlich wissen ... wissen wie einem Könige oder Fürsten zu muthe sey so wol zu
Krieges- als Friedens-Zeiten wie man Land und Leute regieren bey dem Regiment sich erhalten allen
schädlichen Ratschlägen steuren was man für Griffe müsse gebrauchen wann man sich ins Regiment
dringen andere verjagen ja wol gar auß dem Wege räumen wolle. In Summa die Regier-Kunst muß er
so fertig als seine Muttersprache verstehen].
10 AUGUST ADOLPH VON HAUGWITZ, Prodromus Poeticus, Oder: Poetischer Vortrab [Prodromus
Poeticus, ovvero: L’Avanguardia poetica], Dresden 1684, p. 78. [Colpevole innocenza. Ovvero Maria
Stuarda, Regina di Scozia]. [... an deß Übersetzers des Francisci Worte allzusehr habe binden müssen].
11 ANDREAS GRYPHIUS, Trauerspiele, a cura di H. Palm, Tübingen 1882, p. 635 (Ämilius Paulus
Papinianus, note). [Und so viel vor diesesmal. Warum aber so viel? Gelehreten wird dieses umsonst
geschrieben, ungelehrten ist es noch zu wenig].
12 BERNHARD ERDMANNSDÖRFFER, Deutsche Geschichte vom Westfälischen Frieden bis zum
Regierungsantritt Friedrich’s des Großen, 1684-1740, Berlin 1892, vol. I, p. 102.
13 MARTIN OPITZ, L. Annaei Senecae Trojanerinnen, Wittenberg 1625, p. 1. [Trawerspiele tichten ist
vorzeiten Keyser Fürsten grosser Helden wnd Weltweiser Leute thun gewesen. Aus dieser zahl haben
Julius Cesar in seiner jugend den Oedipus Augustus den Achilles wnd Ajax Mecenas den Prometheus
Cassius Severus Parmensis, Pomponius Secundus Nero wnd andere sonsten was dergleichen vor sich
genommen].
14 JOHANN KLAI, cit. in KARL WEISS, Die Wiener Haupt- und Staatsactionen. Ein Beitrag zur
Geschichte des deutschen Theaters, Wien 1854, p. 14. [... es sei unschwer zu erweisen, wie selbst das
Trauerspieldichten nur der Kaiser, Fürsten, großer Helden und Weltweisen, nicht aber schlechter Leute
Thun gewesen].
15 Cfr. CARL SCHMITT, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-
Leipzig 1922, pp. 11 sgg.
16 Cfr. AUGUST KOBERSTEIN, Geschichte der deutschen Nationalliteratur vom Anfang des siebzehnten
bis zum zweiten Viertel des achtzehnten Jahrhunderts, Leipzig 1872, p. 15.
17 SCHMITT , Politische Theologie cit., p. 14.
18 Ibid.
31 Lorentz Gratians Staats-kluger Catholischer Ferdinand, aus dem Spanischen übersetzet von Daniel
Caspern von Lohenstein, Breßlau 1676, p. 123. [Könige mißt man nach keinem Mittelmaße. Man
rechnet sie entweder unter die gar guten oder unter die gar bösen].
32 Cfr. WILLI FLEMMING, Andreas Gryphius und die Bühne, Halle 1921, p. 386.
34 Cfr. MARCUS LANDAU, Die Dramen von Herodes und Mariamne, in «Zeitschrift für vergleichende
Litteraturgeschichte», n.s., VIII (1895), pp. 175-212 e 279-317; n.s., IX (1896), pp. 185-223.
35 Cfr. HAUSENSTEIN , Vom Geist des Barock cit., p. 94.
1908, vol. I, p. 301 (Die Gestürzte Tyrannay in der Person deß Messinischen Wüttrichs Pelifonte, II, 8).
[Pelifonte: Nu! so lebe sie dann, sie lebe, – doch nein, – ia, ia, sie lebe... Nein, nein, sie sterbe, sie
vergehe, man entseele sie ... Gehe dann, sie soll leben].
40 GEORG PHILIPP HARSDÖRFFER, Poetischen Trichters zweyter Theil [Seconda parte dell’Imbuto
poetico], Nürnberg 1648, p. 84. [Der Held ... sol ein Exempel seyn aller voll-komenen Tugenden und
von der Untreue seiner Freunde und Feinde betrübet werden; jedoch dergestalt daß er sich in allen
Begebenheiten großmütig erweise und den Schmertzen welcher mit Seufftzen Erhebung der Stimm und
vielen Klagworten hervorbricht mit Tapferkeit überwinde].
41 JULIUS WILHELM ZINCGREF, Emblematum Ethico-Politicorum Centuria, Editio, secunda,
Franckfort 1624, Embl. 71. [Questo fardello appare altro a colui che lo porta, | Che a coloro che abbaglia
col suo lustro ingannevole, | Costoro mai ne conobbero il peso, | Ma l’altro sa, esperto, quale tormento
comporta].
42 CLAUDIO SALMASIO, Königliche Verthätigung für Carl den I, geschrieben an den durchläuchtigsten
König von Großbritannien Carl den Andern, Rotterdam 1650.
43 Cfr. STACHEL , Seneca und das deutsche Renaissancedrama cit., p. 29.
44 Cfr. GOTTHOLD EPHRAIM LESSING, Sämmtliche Schriften, a cura di K. Lachmann, Berlin 1893,
vol. VII: Hamburgische Dramaturgie, pp. 7 sgg.; trad. it. Drammaturgia di Amburgo, a cura di P.
Chiarini, Bari 1956, pp. 9 sgg.).
45 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 27 [II, 263 sgg.]). [È vero: gli
avevamo comandato in gran segreto di uccidere la principessa, | nel caso che Antonio volesse |
improvvisamente distruggerci].
46 Ibid. (Mariamne, p. 112, nota). [Nehmlich aus allzugrosser Liebe gegen sie | damit sie keinem
nach seinem Tode zu theil würde].
47 BIRKEN , Deutsche Redebind- und Dichtkunst cit., p. 323.
48 GEORG GOTTFRIED GERVINUS, Geschichte der Deutschen Dichtung, a cura di K. Bartsch, Leipzig
1872, vol. III, p. 553.
49 Cfr. ALFRED VON MARTIN, Coluccio Salutati’s Traktat «Vom Tyrannen», Berlin-Leipzig 1913, p.
48.
50 FLEMMING , Andreas Gryphius und die Bühne cit., p. 79.
51 Cfr. BURDACH , Reformation, Renaissance, Humanismus cit., pp. 135 sgg., e 215, nota.
52 GEORG POPP, Über den Begriff des Dramas in den deutschen Poetiken des 17. Jahrhunderts,
dissertazione, Leipzig 1895, p. 80.
53 Cfr. GIULIO CESARE SCALIGERO, Poetices libri septem, Editio quinta, [Ginevra] 1617, pp. 333 sgg.
(III, 96).
54 VINCENZO DI BEAUVAIS, Bibliotheca mundi seu speculi maioris, Duaci 1624, col. 287.
55 FRANZ JOSEPH MONE (a cura di), Schauspiele des Mittelalters, Karlsruhe 1846, vol. I, p. 336.
56 CLAUDIO SALMASIO, Apologie royale pour Charles I, roy d’Angleterre, Paris 1650, pp. 642 sgg.
57 WILLI FLEMMING, Geschichte des Jesuitentheaters in den Landen deutscher Zunge, Berlin 1923, pp.
3 sgg.
58 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vida es sueño, III. [Ma che sia realtà o sogno, | il giusto conta;
| se è realtà, per esser tale, | e se no per conquistare | nuovi amici, aprendo gli occhi (trad. it. di L. Orioli,
Milano 1967, p. 159)].
59 LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., p. 251 (Sophonisbe, dedica, 229 sgg. e 241 sgg.).
[Come il corso della vita dei mortali | Suol cominciare coi giuochi dell’infanzia, | Cosí la vita si conclude
in puri giuochi. | Come Roma ha celebrato il giorno, | In cui è nato Augusto; cosí, con giuochi e pompa |
Anche il corpo dell’ucciso è portato a sepoltura ... | Il cieco Sansone precipita giocando verso la tomba; |
E il nostro tempo breve non è che una poesia. | Un giuoco, in cui ora questi entra in scena, ora quegli ne
esce; | Con lacrime comincia, nel pianto si annienta. | Persino dopo la morte il tempo con noi gioca, |
Quando la putrescenza e i vermi brulicano nei nostri cadaveri].
60 Ibid., p. 248 (Sophonisbe, dedica, p. 133 sgg.). [Colei che ora per amore vuol morire al posto del
marito, | Dopo due ore ha dimenticato la sua e la di lei grazia. | E l’ardore di Massinissa è solo un
artificio, | Poiché a colei che prima avrebbe divorato d’amore, | Alla sera invia in dono veleno mortale, |
E se prima era uno spasimante, ora quale boia la distrugge. | Cosí nel mondo giocano la brama e
l’ambizione].
61 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, Obras Completas, I, Madrid 1966 (El principe constante, III), pp.
273-74. [Persino tra i bruti e le fiere questo nome è di sí alta autorità, che la stessa legge di natura li
dispone all’obbedienza. Cosí leggiamo che nei selvaggi regni delle belve, il leone loro sovrano, che
quando corruga la fronte si corona di criniere, è pietoso perché non mai infierí sul nemico vinto. Tra le
salse spume del mare il delfino, re dei pesci, a cui sulla cerulea spalla squame d’oro e d’argento
disegnano corone, fu già visto trarre a riva, da infausta procella, gli uomini, perché non vengano
inghiottiti dal mare ... Se dunque tra le fiere ed i pesci, le piante, le pietre e gli uccelli, la maestà regale è
usa alla pietà, non sarà ingiusta anche tra gli uomini, signore... (trad. it. Torino 1951, pp. 150 sgg.)].
62 HANS GEORG SCHMIDT, Die Lehre vom Tyrannenmord. Ein Kapitel aus der Rechtsphilosophie,
Tübingen-Leipzig 1901, p. 92.
63 JOHANN CHRISTIAN HALLMANN, Leich-Reden, Todten-Gedichte und Aus dem Italiänischen
übersetzte Grab-Schrifften [Orazioni funebri. Poemi per i morti e scritti funebri tradotti dall’italiano],
Franckfurt-Leipzig 1682, p. 88. [Ach daß du auch vor privilegirte Personen keine eröffnete Augen noch
Ohren hast!]
64 Cfr. HANS HEINRICH BORCHERDT, Andreas Tscherning. Ein Beitrag zur Literatur- und Kultur-
Geschichte des 17. Jahrhunderts, München-Leipzig 1912, pp. 90 sgg.
65 AUGUST BUCHNER, Poetik, Aus dessen nachgelassener Bibliothek heraus gegeben von Othone
Prätorio [La poetica di A. B. Pubblicata sulla base della sua biblioteca da O. P.] P. P. Wittenberg 1665, p.
5.
66 SAMUEL VON BUTSCHKY, Wohl-Bebauter Rosen-Thal, Nürnberg 1679, p. 761. [Was ist ... ein
Tugendhalfer Monarch anders als ein Himmliches Thier].
67 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 109 (Leo Armenius, IV, 387 sgg.). [Voi che avete perduto
l’immagine dell’Altissimo, | Guardate all’immagine ch’è nata per voi! | Non domandate perché entrò in
una stalla! | Egli cerca noi, piú bestiali delle bestie].
68 Cfr. HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit., Die göttliche Rache oder der verführte
Theodoricus Veronensis [La vendetta divina ovvero il sedotto Teodorico da Verona], p. 104 (V, 364
sgg.).
69 CHRISTIAN FRIEDRICH HUNOLD, Theatralische Galante Und Geistliche Gedichte [Poemi teatrali,
galanti e spirituali], Hamburg 1706, p. 181 (Nebucadnezar, III, 3; didascalia). [...eine wüste Einöde.
Nebucadnezar an Ketten mit Adlers Federn und Klauen be-wachsen unter vielen wilden Thieren ...Er
geberdet sich seltsam ...Er brummet und stellt sich übel].
70 GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Werke, vol. II: Vorlesungen über die Ästhetik, a cura di H. G.
Hotho, Berlin 1837, p. 176; trad. it., Estetica, Milano 1963, p. 739.
71 Ibid., p. 167; trad. it. cit., p. 730.
72 ARTHUR SCHOPENHAUER, Sämmtliche Werke, a cura di E. Grisebach, vol. II: Die Welt als Wille
und Vorstellung, Leipzig [1891], pp. 505-6; trad. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di
P. Savi-Lopez e G. De Lorenzo, Bari 1828-30, vol. II, pp. 526 sgg.
73 WILHELM WACKERNAGEL, Über die dramatische Poesie, Academische Gelegenheitsschrift, Basel
1838, pp. 34 sgg.
74 Cfr. JOHANN JACOB BREITINGER, Critische Abhandlung von der Natur, den Absichten und dem
Gebrauche der Gleichnisse, Zürich 1740, p. 489.
75 DANIEL CASPER VON LOHENSTEIN, Römische Trauerspiele. Agrippina, Epicharis, a cura di K. G.
Just, Stuttgart 1955, p. 90 (Agrippina, V, 118).
76 BREITINGER , Critische Abhandlung von der Natur cit., pp. 467 e 470. [Ich versehe mich zu
Arsinoen, wenn ich sie anders für meine Tochter halten soll, sie werde nicht von der Art, des den Pöbel
abbildenden Epheus seyn, welcher so bald eine Haselstaude, als einen Dattelbaum umarmet. Dann, edle
Pflantzen kehren ihr Haupt gegen dem (!) Himmel; die Rosen schliessen ihr Haupt nur der anwesenden
Sonne auf; die Palmen vertragen sich mit keinem geringen Gewächse: Ja der todte Magnetstein folget
keinem geringern, als dem so hochgeschäzten Angel-Sterne. Und Polemons Haus (ist der Schluß) sollte
sich zu den Nachkommen des knechtischen Machors abneigen].
77 Cfr. ERICH SCHMIDT, recensione a FELIX BOBERTAG, Geschichte des Romans und der ihm
verwandten Dichtungsgattungen in Deutschland, Breslau 1879, sezione 1, vol. II, parte I, in «Archiv für
die Litteraturgeschichte», IX (1880), p. 411.
78 Cfr. HALLMANN , Leichreden cit., pp. 115 e 299, 64 e 212.
79 DANIEL CASPER VON LOHENSTEIN, Blumen (Hyacinthen), Breßlau 1708, p. 27. [Il signor
Gryphius... | Non riteneva che l’essere erudito fosse in una cosa non saper qualcosa, | In molte solo un
po’, e in una cosa tutto]
80 HÜBSCHER , Barock als Gestaltung antithetischen Lebensgefühls cit., p. 542.
81 JULIUS TITTMANN, Die Nürnberger Dichterschule. Harsdörffer, Klaj, Birken, Beitrag zur deutschen
Literatur- und Kulturgeschichte des siebzehnten Jahrhunderts (Kleine Schriften zur deutschen Literatur-
und Kulturgeschichte, I), Göttingen 1847, p. 148.
82 CYSARZ , Deutsche Barockdichtung cit., p. 27, nota.
84 Cfr. GEORG PHILIPP HARSDÖRFFER, Poetischen Trichters Dritter Theil, Nürnberg 1653, pp. 265-
72.
85 LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., p. 249 (Sophonisbe, dedica, 169 sgg.). [Ma nessuna
vita mette in scena piú gioco e piú spettacolo | Di quella di coloro che eleggono la corte a proprio
elemento].
86 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 437 (Carolus Stuardus, IV, 47).
87 GEORG PHILIPP HARSDÖRFFER, Vom Theatrum oder Schawplatz. [Del teatro o della scena],
Nürnberg 1646; für die Gesellschaft für Theatergeschichte aufs Newe in Truck gegeben, Berlin 1914, p.
6 [Staatliche Paläste | und Fürstliche Garten-Gebäude die Schauplätze (sind)].
88 SCHLEGEL , Sämmtliche Werke cit., vol. VI, p. 397.
89 Cfr. GRYPHIUS , Trauerspiele cit., pp. 756 sgg. (Die sieben Brüder, II, 343 sgg.).
90 Cfr. LOHENSTEIN , Römische Trauerspiele cit., pp. 223 sgg. (Epicharis, III, 721 sgg.).
92 Cfr. HAUGWITZ , Prodromus Poeticus cit. (Maria Stuarda, p. 50 [III, 237 sgg.]).
93 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 2 [I, 40 sgg.]). [Qui, mortali,
vi viene proposta la vera ragione, | Per cui anche le montagne, le rocce senza lingua | Aprono la bocca e
le labbra. | Poiché, quando l’uomo, pazzo, non conosce piú se stesso, | E in cieca forsennatezza dichiara
guerra anche all’Altissimo, | I monti e i fiumi e le stelle vengon spinti a vendetta, | Non appena l’ira di
fuoco del gran Dio s’accende. | Infelice Sion! Prima anima del cielo, | E ora un inferno di torture! |
Erode! ahimè! ahimè! ahimè! | Il tuo imperversare, mastino, fa sí che anche le montagne devono
gridare, | E maledirti! | Vendetta! Vendetta! Vendetta!]
94 KURT KOLITZ, Johann Christian Hallmanns Dramen. Ein Beitrag Zur Geschichte des deutschen
Dramas in der Barockzeit, Berlin 1911, pp. 158 sgg.
95 TITTMANN , Die Nürnberger Dichterschule cit., p. 212.
innato fervore pulsa in tutte le mie vene, | E simile a un congegno ad orologeria si muove traverso il
corpo].
103 LOHENSTEIN , Römische Trauerspiele cit., p. 91 (Agrippina, V, 160 sgg.). [Ora dorme il fiero
animale, la donna superba, | Che si immaginava che il congegno a orologeria del suo cervello | Fosse
capace di rovesciare il corso delle stelle].
104 Cfr. HENRI BERGSON, Essai sur les données immédiates de la conscience, Paris 1904, pp. 79 sgg.
105 FRÉDÉRIC ATGER, Essai sur l’histoire des doctrines du contrat social, dissertazione, Nîmes 1906, p.
136.
106 ÄGIDIUS ALBERTINUS, Lucifers Königreichs und Seelengejaidt [Il regno di Lucifero e la sua caccia
alle anime], a cura di R. Freiherrn von Liliencron, Berlin-Stuttgart s.d. [1884], p. XI .
107 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 20 (Leo Armenius, I, 23 sgg.). [Che cos’è la corte ormai se non un
coacervo di assassini, | Se non un luogo di traditori, una dimora di pessimi soggetti?]
108 DANIEL CASPER VON LOHENSTEIN, Türkische Trauerspiele. Ibrahim Bassa, Ibrahim Sultan, a
cura di K. G. Just, Stuttgart 1953, p. 81. Cfr. JOHANN ELIAS SCHLEGEL, Ästhetische und dramaturgische
Schriften, a cura di J. von Antoniewicz, Heilbronn 1887, p. 8.
109 HALLMANN , Leichreden cit., p. 122. [Allein mir als einem Politico, wil nicht anstehen das
geheime Cabinet der Himmlischen Weißheit zu beschreiten].
110 CYSARZ , Deutsche Barockdichtung cit., p. 248.
111 Cfr. EGON COHN, Gesellschaftsideale und Gesellschaftsroman des 17. Jahrhunderts. Studien zur
deutschen Bildungsgeschichte, Berlin 1921, p. 11.
112 SCALIGERO , Poetices libri septem cit., p. 832 (VII, 3).
113 Cfr. RIEGL , Die Entstehung der Barockkunst in Rom cit., p. 33.
Neuerbauter Schausaal 1.
Che il sublime del contenuto non risulti dal rango e dall’origine dei
personaggi, sarebbe un’osservazione superflua, se il lignaggio regale di molti
eroi tragici non avesse dato luogo a curiose speculazioni e a facili equivoci.
Nell’uno e nell’altro caso, la regalità viene intesa in sé e per sé, e in senso
moderno. Eppure nulla è piú chiaro del fatto che si tratta di un elemento
accidentale, proveniente da quella tradizione che costituisce il fondo della
poesia tragica. Ora, la tradizione arcaica si raccoglie intorno a figure di
regnanti, e il rango regale dei personaggi tragici avrà la funzione di situarli
nell’età degli eroi. Solo in questo senso il loro lignaggio è rilevante, o per
meglio dire decisivo. L’asperità dell’io eroico – che non è un vero carattere,
ma la segnatura storico-filosofica dell’eroe – corrisponde infatti alla sua
posizione di dominatore. Di fronte a questo semplice stato di cose,
l’interpretazione della regalità tragica in Schopenhauer appare come uno di
quegli appiattimenti nel senso dell’universalmente umano che impediscono
di riconoscere la differenza essenziale fra la drammaturgia antica e quella
moderna. «I greci assumevano per eroi della tragedia sempre persone regali; e
per lo piú anche i moderni. Certamente non perché il rango dia piú dignità a
chi agisce e a chi soffre: e siccome si tratta solo di mettere in gioco passioni
umane, cosí è indifferente il valore relativo degli oggetti mediante i quali ciò
accade; e le masserie si prestano a ciò come i reami ... Ma le persone di grande
potere e considerazione sono le piú adatte al dramma poiché la sciagura nella
quale dobbiamo riconoscere il destino della vita umana deve avere grandezza
sufficiente da apparire allo spettatore, chiunque egli sia, veramente terribile ...
Ora dunque le circostanze, le quali gettano una famiglia borghese nel bisogno
e nella disperazione, appaiono assai meschine per lo piú agli occhi dei grandi
e dei ricchi, e rimediabili con l’aiuto umano, anzi a volte con una piccolezza:
tali spettatori non possono quindi venirne tragicamente scossi. Invece le
sventure dei grandi e dei potenti sono incondizionatamente terribili, e non
sono accessibili ad alcun aiuto esterno; giacché i re debbono aiutarsi con la
loro propria potenza, o soccombere. A ciò si aggiunge che la caduta dall’alto è
la piú grande. Alle persone borghesi manca quindi l’altezza della caduta» 27. Il
rango sociale del personaggio tragico, che viene qui giustificato in termini
quasi barocchi a partire dagli infelici eventi della «tragedia», non ha nulla a
che fare col rango effettivo delle figure eroiche, sottratte al tempo; mentre è
vero che nel dramma moderno la condizione principesca assume il significato
esemplare, e assai piú preciso, derivante dal suo luogo fisico. Che cosa separi,
al di là di questa parentela ingannevole, il dramma barocco e la tragedia greca,
è sfuggito anche alla ricerca piú recente. E le osservazioni di Borinski sui
tentativi tragici di Schiller nella Braut von Messina [La sposa di Messina] –
tentativi che per la loro ispirazione romantica non potevano non ricadere in
dramma – hanno il sapore di una forte ironia involontaria, là dove Borinski,
sulla scia di Schopenhauer, commenta cosí il rango dei personaggi, piú volte
richiamato dal coro: «Quanto aveva ragione la poetica del Rinascimento –
non in spirito di “pedanteria”, ma di viva umanità – nel richiamarsi
caparbiamente ai “re e agli eroi” della tragedia antica» 28.
Qui si tratta invece del suo passato. Un passato che risale molto indietro
nel tempo, a un punto cruciale nella storia dello spirito greco: alla morte di
Socrate. Nella figura di Socrate morente è nato il dramma martirologico in
quanto parodia della tragedia. E anche qui, come suole accadere, la parodia di
una forma ne annuncia la fine. Che per Platone si trattasse proprio della fine
della tragedia, è attestato da Wilamowitz. «Platone bruciò la sua tetralogia,
non perché avesse rinunciato a diventare un poeta nel senso di Eschilo, ma
perché riconosceva che l’autore tragico non poteva piú essere ormai il
maestro e la guida del popolo. Nondimeno – tale era la forza della tragedia –
egli tentò di crearsi una nuova forma d’arte a carattere drammatico, e in
luogo del ciclo eroico ormai superato creò una nuova saga, il ciclo di
Socrate» 31. Questo ciclo di Socrate è una profanazione integrale della saga
eroica, in quanto ne sacrifica i paradossi demonici all’intelletto. È vero che,
vista dall’esterno, la morte del filosofo assomiglia a quella tragica. Egli è la
vittima espiatoria secondo la lettera di un’antica legge, è una morte sacrificale
capace di istituire una comunità, nello spirito di una giustizia a venire. Ma
proprio questa convergenza porta in piena luce quale sia l’importanza del
nucleo propriamente agonale della vera tragedia: quella lotta senza parole,
quel muto sottrarsi dell’eroe, che nei dialoghi socratici cede il passo a una
smagliante fioritura del discorso e della coscienza. Il dramma di Socrate
esclude da sé l’elemento agonale – se è vero che la sua stessa disputa filosofica
è un training rilevante –, e la morte dell’eroe si trasforma di colpo nella morte
di un martire. Come il cristiano eroe della fede – se ne sono accorti con fiuto
infallibile sia i padri della Chiesa, simpatizzando, sia Nietzsche, detestandolo
– Socrate muore volontariamente, e volontariamente, con una superiorità
inaudita e senza ostinazione, ammutolisce e tace. «Ma sembra che lo stesso
Socrate, con assoluta limpidità e senza il naturale brivido davanti alla morte,
abbia condotto le cose in modo che la morte e non il semplice esilio fosse
decretata per lui ... Il Socrate morente divenne il nuovo ideale, non mai prima
contemplato, della nobile gioventú greca...» 32. Quanto ciò fosse lontano dalla
morte dell’eroe tragico, Platone non poteva dirlo in modo piú eloquente che
facendo dell’immortalità l’oggetto dell’ultimo discorso del Maestro. Se dopo
l’Apologia la morte di Socrate avrebbe ancora potuto apparire tragica – non
diversamente da quella dell’Antigone, già rischiarata peraltro da un concetto
troppo razionale del dovere – l’atmosfera pitagorica del Fedone libera questa
morte da ogni vincolo tragico. Socrate guarda la morte negli occhi come un
mortale – come il migliore, se si vuole il piú virtuoso dei mortali –, ma vede in
essa un elemento estraneo, al di là del quale, nell’immortalità, egli ritroverà se
stesso. Non cosí l’eroe tragico, che di fronte alla violenza della morte si ritrae
rabbrividendo come di fronte a qualcosa che gli è familiare, che gli è proprio e
destinato. La sua vita scaturisce dalla morte, che non è la sua fine ma la sua
forma. L’esistenza tragica trova il suo compito soltanto perché i suoi limiti,
quelli del linguaggio e della vita fisica, le sono dati fin dall’inizio, sono posti in
essa fin dall’inizio. Questo stato di cose è stato espresso nelle forme piú
diverse. Mai forse con tanta efficacia come in quella frase occasionale, che
definisce la morte tragica come «il segno rivolto all’esterno del fatto che
l’anima è morta» 33. Perché l’eroe tragico, se vogliamo, è senz’anima. Nel
vuoto enorme la sua interiorità fa risuonare da lontano i nuovi decreti degli
dèi, e in questa eco le generazioni a venire apprendono la propria lingua.
Come nell’esistenza normale la vita opera e cresce, cosí nell’eroe tragico opera
e cresce la morte, ed è un momento di tragica ironia quando egli – secondo
un diritto profondo, di cui non è consapevole – si mette a raccontare le
circostanze della sua fine come se fosse la storia della sua vita. «Anche la
decisione di morte dell’uomo tragico ... è un eroismo soltanto apparente,
risulta tale soltanto ad una considerazione umana d’ordine psicologico: gli
eroi morenti della tragedia – cosí pressappoco scriveva un giovane tragico –
sono morti già da lunga pezza, prima di morire» 34. L’eroe nella sua esistenza
fisica e spirituale è la cornice dell’evento tragico. Se è vero che la «potenza
della cornice», secondo una felice formulazione, è un elemento essenziale tra
quelli che separano l’antica concezione della vita da quella moderna – in cui la
cosa piú ovvia sembra essere un infinito e sfumato proliferare di sentimenti e
situazioni – questa potenza non può essere separata da quella della tragedia
stessa. «Non è già la forza, ma la durata di un sentimento superiore a fare
l’uomo superiore» 35. Questa durata monotona del sentimento eroico è
garantita soltanto nella cornice prestabilita della sua esistenza. L’oracolo della
tragedia non è solo un incantesimo del destino, ma è la certezza, trasposta
all’esterno, che una vita non è tragica se non scorre nella sua cornice. La
necessità, quale appare fissata in quella cornice, non è né causale né magica. È
la necessità muta dell’ostinazione in cui l’Io genera i propri atti. Come la neve
sotto il vento del Sud, essa si scioglierebbe sotto l’alito della parola. Ma
soltanto di una parola sconosciuta. L’ostinazione eroica contiene, racchiusa in
se stessa, questa parola sconosciuta; ciò la distingue dalla hybris di un uomo a
cui la coscienza pienamente sviluppata della comunità non riconosce piú
alcun contenuto nascosto.
Solo il mondo arcaico poteva conoscere una hybris tragica, che riscatta con
la vita dell’eroe il diritto al proprio silenzio. L’eroe, che disdegna di
giustificarsi di fronte agli dèi, viene a patti con loro in una sorta di contratto
espiatorio: un contratto che, per il suo duplice significato, vale non solo a
ristabilire ma prima ancora a seppellire il vecchio ordine giuridico nella
coscienza linguistica della comunità rinnovata. Gara atletica, diritto e
tragedia, la grande triade agonale della vita greca – allo schema dell’agone
rimanda la Storia della civiltà greca di Jakob Burckhardt 36 – si chiude nel
segno del contratto. «La legislazione e la prassi giuridica si svilupparono in
Grecia dalla lotta contro la faida e la giustizia sommaria. Là dove
l’inclinazione all’arbitrio spariva, o lo stato riusciva ad arginarla, il processo
non appariva tuttavia, almeno all’inizio, come la ricerca di una decisione
giudiziaria, ma come un atto di espiazione ... Nel quadro di un tale
procedimento, il cui scopo primario non era di trovare la giustizia assoluta
ma di indurre l’offeso a rinunciare alla vendetta, le forme sacrali della prova e
della sentenza dovevano assumere un significato particolarmente elevato, per
la forte impressione che non mancavano di esercitare anche sullo sconfitto» 37.
Il processo antico – e in particolare il processo penale – è dialogo, perché
costruito sui due ruoli dell’accusatore e dell’accusato, senza requisitoria o
difesa d’ufficio. Esso ha il suo coro in parte nei giurati (cosí ad esempio
nell’antico diritto cretese le parti in causa adducevano le prove per mezzo di
giurati coadiutori, ossia testimoni di integra reputazione che in origine,
nell’ordalia, difendevano anche con le armi il diritto della loro parte), in parte
nei compagni dell’accusato, che intervengono per implorare la pietà della
corte, in parte infine nell’assemblea popolare giudicante. Per il diritto ateniese
è importante e caratteristica l’irruzione dell’elemento dionisiaco, il fatto cioè
che la parola ebbra, estatica, fosse libera di irrompere nel perimetro regolare
dell’agone, che dal potere di persuasione della parola vivente potesse
sprigionarsi una giustizia superiore a quella regolata dalle armi o dalle forme
verbali codificate delle tribú concorrenti. L’ordalia viene liberata
dall’irruzione del logos. Ed è questa la parentela piú profonda tra il processo
giudiziario e la tragedia ateniese. La parola dell’eroe, quando riesce a spezzare,
isolata, la corazza dell’Io, diventa un grido d’indignazione. La tragedia si
inserisce in questo quadro processuale; anche in essa si svolge un processo di
espiazione. Perciò gli eroi di Sofocle e di Euripide non imparano «a parlare ...
ma soltanto a dibattere», e da ciò dipende il fatto che «alla drammaturgia
classica è estranea la scena d’amore» 38. Se però agli occhi del poeta il mito è il
processo espiatorio, l’opera poetica riproduce quel processo e insieme lo
rivede. E l’intero processo cresce a misura dell’anfiteatro. La comunità assiste
alla ripresa del processo come istanza di controllo, anzi come istanza
giudicante. Anch’essa cerca di giudicare quel confronto, la cui interpretazione
poetica rinnova la memoria dei tempi eroici. Ma nel finale della tragedia
risuona sempre un non liquet. Lo scioglimento finale è sí sempre anche
liberazione, ma occasionale, problematica, limitata. Il dramma satiresco che la
precede, o che la segue, esprime il fatto che il non liquet del processo
rappresentato richiede come contrappeso uno slancio comico. E anche qui si
afferma il brivido di una fine indecifrabile. «L’eroe, che suscita negli altri
timore e compassione, rimane sempre dal canto suo un Io rigido e immoto.
Nello spettatore, timore e compassione si ritraggono subito all’interno, fanno
anche di lui un Io chiuso in se stesso. Ognuno resta per sé, ognuno rimane il
proprio Io. Non nasce alcuna comunità. E tuttavia sorge un contenuto
comune. I vari Io non si incontrano, eppure risuona in tutti la stessa nota, il
sentimento del proprio Io» 39. La drammaturgia processuale della tragedia ha
avuto conseguenze fatali e durature nella dottrina delle tre unità. Questa, che
è la piú oggettiva delle sue determinazioni, non è stata colta neppure da
un’interpretazione tra le piú profonde: «L’unità di luogo è il simbolo ovvio,
piú immediato, di questo rimanere immobili in mezzo al continuo
mutamento dell’esistenza che sta attorno; quindi è il mezzo tecnico necessario
per rappresentare questa fissità. Il tragico è solo un momento: questo è il
senso dell’unità di tempo» 40. Non che ciò sia contestabile, anzi: il periodico
riaffiorare degli eroi dall’oltretomba conferisce a questa sospensione del
decorso temporale un rilievo estremo. Eppure Jean Paul non fa che smentire
la piú sorprendente delle profezie, quando osserva retoricamente a proposito
della tragedia: «Chi vorrà rappresentare in occasione di pubbliche ricorrenze
e di fronte a una folla cupi mondi di ombre?» 41. Nessuno all’infuori di lui, ai
suoi tempi, sognava cose simili. Ma come sempre, anche qui l’interpretazione
metafisica trova il suo terreno piú fecondo sul piano pragmatico. Eccola
infatti l’unità di luogo: il tribunale; e l’unità di tempo: la giornata giudiziaria
delimitata dal corso del sole o in altro modo; e l’unità di azione: quella del
processo. Sono queste circostanze a fare dei dialoghi socratici l’epilogo
irrevocabile della tragedia. Qui l’eroe trova non solo la parola, ma una schiera
di discepoli, di giovani portavoce. E sarà il silenzio, non il suo discorso, a
essere d’ora innanzi pieno di ironia. Ironia socratica, che è l’opposto di quella
tragica. È tragico il discorso che esce dai propri binari e va a toccare
insconsciamente la verità della vita eroica, dell’Io eroico, cosí profondamente
chiuso in se stesso da non riscuotersi neppure quando, sognante si chiama per
nome. Il silenzio ironico del filosofo, ruvido, mimico, è un silenzio
consapevole. In luogo della morte sacrificale dell’eroe, Socrate propone
l’esempio del pedagogo. Ma la guerra che il suo razionalismo aveva dichiarato
all’arte tragica viene decisa dall’opera di Platone contro la tragedia, con una
superiorità che finisce per colpire piú lo sfidante della sua vittima. Ciò
avviene infatti non nello spirito razionale di Socrate, ma nello spirito del
dialogo stesso. Quando, alla fine del Simposio, Socrate, Agatone e Aristofane
siedono, soli, uno di fronte all’altro, non sarà proprio la luce sobria del
dialogo quella che Platone fa spuntare sui tre, sul fare dell’alba, sopra il
discorso del vero poeta che riunisce in sé la tragedia e la commedia? Quel che
appare nel dialogo è la lingua drammatica allo stato puro, al di qua del tragico
e del comico e della loro dialettica. Questo elemento drammatico puro
ristabilisce il Mistero, che nelle forme del dramma greco si era a poco a poco
mondanizzato: la sua lingua è, in quanto lingua del dramma moderno, quella
del Trauerspiel.
Le aporie estetiche del dramma storico dovevano venire alla luce con la
massima chiarezza nella sua variante piú radicale e appunto per questo
artisticamente piú povera, la Haupt- und Staatsaktion 52. Essa rappresenta il
pendant meridionale e popolare di quello che è per il Nord il dramma
barocco erudito. Significativamente, l’unico esempio di questa tesi, o
perlomeno di una tesi affine, viene dal Romanticismo. È il letterato Franz
Horn a tratteggiare con sorprendente intelligenza il profilo delle Haupt- und
Staatsaktionen nella sua storia della Poesie und Beredsamkeit der Deutschen
[Poesia ed eloquenza dei Tedeschi], senza naturalmente soffermarsi su di esse:
«Ai tempi di Velthem erano particolarmente amate le cosiddette Haupt- und
Staatsaktionen, su cui gli storici della letteratura hanno sempre esercitato il
loro sarcasmo, senza aggiungere nemmeno una parola di spiegazione.
Codeste azioni sono veramente di origine tedesca e sono particolarmente
adatte allo spirito tedesco. L’amore per il cosiddetto tragico puro era raro,
mentre l’innato istinto romantico esigeva un ricco nutrimento, come anche il
gusto della farsa, che suol essere piú vivace proprio negli spiriti piú riflessivi.
C’è poi ancora un’altra inclinazione tipicamente tedesca, che questi generi
non potevano soddisfare del tutto: e cioè l’inclinazione alla serietà concettosa,
alla solennità, all’ampiezza ma anche alla brevità sentenziosa, e infine
all’ampollosità. Per soddisfare tali esigenze furono inventate le cosiddette
Haupt- und Staatsaktionen, a cui offrivano materiale le parti storiche
dell’Antico Testamento (?), la Grecia e Roma, la Turchia ecc., ma quasi mai la
Germania ... Qui vediamo comparire sulla scena sovrani e principi con in
testa le loro corone di carta dorata, dall’aria triste e afflitta, e intenti a spiegare
al pubblico compassionevole quanto sia difficile governare e come un
semplice spaccalegna dorma sonni molto piú tranquilli; generali e ufficiali
tengono splendidi discorsi e raccontano le proprie grandi imprese, le
principesse sono, com’è facile aspettarsi, estremamente virtuose, e, com’è è
altrettanto facile aspettarsi, innamorate di un amore sublime per qualche
generale ... Molto meno simpatici sono i ministri, generalmente
malintenzionati e dal carattere cupo o perlomeno grigio ... Il buffone o il
matto è spesso mal sopportato dai personaggi della pièce, i quali peraltro non
sanno farne a meno, trovandovi l’incarnazione della parodia, che come tale è
immortale» 53. Questa descrizione piena di umore fa pensare non a caso al
teatro dei burattini. Stranitzky, il piú importante fra gli autori viennesi del
genere, era proprietario di un teatro di marionette. E anche ammesso che i
suoi testi – quelli a noi noti – non siano stati rappresentati lí, non si può fare a
meno di pensare che il repertorio del teatrino abbia avuto svariati punti di
contatto con le «azioni», le cui future parodie avrebbero potuto benissimo
trovarvi posto. La tendenza alla miniatura, che è propria delle Haupt- und
Staatsaktionen, le mostra particolarmente vicine al Trauerspiel. Sia che adotti
la sottigliezza spagnola o una solennità gestuale tutta tedesca, esso conserva in
ogni caso quella eccentricità giocosa che è una presenza costante fra gli eroi
del teatro di marionette. «Forse i cadaveri di Papiniano e di suo figlio ...
venivano rappresentati da marionette? In ogni caso non potevano essere altro
che burattini il cadavere trascinato di Leone, come anche le raffigurazioni dei
cadaveri di Cromwell, Irreton e Bradschaw appesi al patibolo ... Anche
l’orrida reliquia, la testa bruciata della nobile principessa di Georgia, rientra
nello stesso quadro ... Nel prologo dell’Eternità alla Catharina si trovano
sparsi sul pavimento tutta una serie di oggetti, simili forse a quelli che
vediamo sul frontespizio dell’edizione del 1657. Accanto allo scettro e al
pastorale vediamo “gioielli, un quadro, oggetti di metallo e un documento
erudito”. Secondo le sue stesse parole l’Eternità ... calpesta il padre e il figlio.
Se tutto ciò, come anche il principe che è stato appena nominato, veniva
rappresentato davvero, poteva trattarsi solo di marionette» 54. La filosofia
politica a cui queste prospettive dovevano apparire come sacrileghe ci
fornisce la controprova. Leggiamo in Salmasio: «Ce sont eux qui traittent les
testes des Roys comme des ballons, qui se ioüent des Couronnes comme les
enfans font d’vn cercle, qui considerent les Sceptres des Princes comme des
marottes, et qui n’ont pas plus de veneration pour les liurées de la souueraine
Magistrature, que pour des quintaines» 55. Persino l’apparizione fisica degli
attori, e soprattutto del Re, che si mostra nella sua pompa, poteva assumere
un aspetto rigido e burattinesco.
Fra i vari caratteri della Staatsaktion elencati da Horn, il piú rilevante per
lo studio del dramma barocco è l’intrigo di palazzo. Esso svolge un suo ruolo
anche nel dramma di genere alto: accanto alle «millanterie», ai «lamenti», alle
«sepolture» e agli «epitaffi», Birken cita fra i temi del Trauerspiel anche
«spergiuri e tradimenti ... inganni e raggiri» 59. Ma nel dramma colto la figura
del consigliere intrigante non si esplica in piena libertà, come accade invece
nel teatro popolare. Qui, in quanto figura comica, è di casa. Cosí ad esempio il
«dottor Babra, giurista confusionario e favorito del re». Le sue «mattane
politiche e la sua finta ingenuità ... conferiscono alle Staatsaktionen una
modesta capacità di divertire» 60. Con la figura dell’intrigante la comicità fa il
suo ingresso nel dramma barocco. Dove peraltro non ha un puro carattere
episodico. La comicità – o meglio: il puro divertimento – è il rovescio
obbligato del lutto, che spunta qua e là come l’imbottitura dall’orlo o dalla
fodera di un vestito. Il suo rappresentante, e colui che rappresenta il lutto,
sono legati fra loro. «Nessun rancore, siamo buoni amici, e anzi i signori
colleghi non si faranno alcun male», dice Hanswurst al «personaggio del
tiranno Pelifonte di Messina» 61. Oppure, in chiave epigrammatica, su
un’acquaforte raffigurante un palcoscenico con a sinistra un buffone e a
destra un principe:
Poche volte, per non dire mai, l’estetica speculativa si è resa conto di
quanto la comicità confini con l’orrore. A chi non è mai capitato di vedere i
bambini ridere là dove l’adulto prova paura? Quell’inversione di ruoli fra il
bambino che ride e l’adulto terrorizzato, che è propria del sadico, è dato di
scorgerla nell’intrigante. Cosí fa Mone, nella sua magnifica descrizione del
briccone in una sacra rappresentazione del ’300 sull’infanzia di Gesú. «Che in
questo personaggio ci siano i presupposti di un buffone di corte, è chiaro ...
Qual è il tratto fondamentale del suo carattere? La derisione dell’umana
superbia. È questo a distinguerlo dai buffoni sconclusionati dell’epoca
successiva. Hanswurst ha qualcosa di innocuo, questo vecchio briccone ha
invece un sarcasmo mordace, provocatorio, che lo sospinge indirettamente
verso l’orrore dell’infanticidio. C’è in questo qualcosa di diabolico, e solo per
questo, per il fatto di essere in certo modo un pezzo del demonio, il briccone
ha la sua parte nello spettacolo: per mandare all’aria, se mai fosse possibile, la
redenzione, uccidendo il Bambino Gesú» 63. Ed è conforme alla
secolarizzazione operata dal dramma barocco il fatto che sia qui un
funzionario a prendere il posto del diavolo. Proprio alla figura del briccone si
richiama del resto – e a ciò non è forse estraneo il passo citato di Mone – la
caratterizzazione dell’intrigante in un saggio sulla Haupt- und Staatsaktion
viennese. Lo Hanswurst delle Staatsaktionen si presentava «con le armi
dell’ironia e dello scherno, si prendeva abitualmente gioco dei suoi colleghi –
come Scapino e Riepl – e non esitava a tenere lui stesso le fila dell’intrigo ...
Come ora nel teatro profano, già nelle sacre rappresentazioni del XV secolo
era il briccone a svolgere il ruolo comico, e anche allora, come oggi, tale figura
si adattava perfettamente alla cornice dello spettacolo ed esercitava un peso
decisivo sugli sviluppi dell’azione» 64. La parte tuttavia non è, come queste
parole sembrano suggerire, una combinazione di elementi eterogenei. Lo
scherzo crudele è non meno originario del divertimento innocente: le due
cose sono in origine molto vicine, e il dramma barocco, che spesso cammina
sui trampoli, deve proprio alla figura dell’intrigante il contatto vitale col
terreno delle esperienze oniriche piú profonde. Ma se i due elementi, il lutto
del principe e la buffoneria del suo consigliere, sono cosí vicini, ciò accade
infine solo perché in essi sono rappresentate le due province del regno di
Satana. E il lutto, la cui falsa sacralità rende cosí minaccioso lo sprofondare
dell’uomo etico, appare nella sua desolazione non del tutto disperato se lo
confrontiamo con la buffoneria, da cui spunta inconfondibile il ghigno del
demonio. Poche cose segnano cosí implacabilmente i confini del dramma
barocco tedesco come il fatto di aver lasciato al teatro popolare l’elaborazione
di un motivo cosí pregnante. In Inghilterra invece Shakespeare ha modellato
personaggi come Jago e Polonio sul vecchio schema del buffone demoniaco. È
con questi personaggi che la commedia trapassa nel dramma. L’affinità tra le
due forme – il cui legame non consiste solo nei passaggi empirici dall’una
all’altra, ma in una legge formale rigorosa, cosí come tragedia e commedia
sono per natura opposte – è tale che la commedia emigra nel dramma: mai il
dramma potrebbe svilupparsi in commedia. L’immagine dello «sviluppo» è
ben fondata: la commedia si rimpicciolisce ed entra per cosí dire nel dramma.
«Io creatura terrena e trastullo della mortalità» 65, scrive Lohenstein. E di
nuovo bisogna pensare al rimpicciolimento degli oggetti riflessi. Il
personaggio comico è un ragionatore: nella sua riflessione diventa la
marionetta di se stesso. Il dramma barocco non raggiunge i suoi vertici negli
esempi canonici, ma in quei passaggi giocosi dove si fa avvertire il timbro
della commedia. Ed è per questo che Shakespeare e Calderón hanno
composto drammi piú significativi degli autori tedeschi del ’600, i quali non
sono mai andati oltre alla rigidità del tipo. Poiché «commedia e dramma
guadagnano molto e in fondo cominciano a diventare poetici soltanto
attraverso una delicata connessione simbolica» 66, dice Novalis, cogliendo
senz’altro la verità, almeno per quel che riguarda il dramma. Nel genio di
Shakespeare egli vede soddisfatta tale esigenza. «In Shakespeare la poesia si
alterna all’antipoesia, l’armonia alla disarmonia, l’ordinario, il volgare, il
brutto al romantico, al nobile e al bello, il reale all’invenzione: è esattamente
l’opposto del dramma greco» 67. In effetti, proprio la gravità del dramma
barocco tedesco potrebbe essere uno dei pochi tratti spiegabili con un
rimando al dramma greco, anche se in nessun caso derivabili da quello. Sotto
l’influsso di Shakespeare lo Sturm und Drang ha cercato di far emergere il
nocciolo comico del dramma, ed ecco allora riapparire il personaggio comico
dell’intrigante.
La tragedia del destino si prepara nel dramma barocco. Ciò che la separa
dal dramma barocco tedesco non è altro che il ricorso all’oggetto fatale, la cui
esclusione denuncia un genuino influsso dell’antichità, e, se si vuole, un tratto
autenticamente rinascimentale. Poche cose infatti distinguono la
drammaturgia moderna da quella antica in modo piú netto del fatto che in
quest’ultima il mondo degli oggetti profani non ha alcun posto. Cosí è anche
per il Classicismo barocco in Germania. Se però la tragedia è del tutto
svincolata dal mondo degli oggetti, questo si innalza opprimente
sull’orizzonte del dramma barocco. E la funzione dell’erudizione, con la
farragine delle sue note, è di evocare il clima da incubo con cui le cose
gravano sull’azione drammatica. Per la forma evoluta del dramma del destino
non è possibile prescindere dall’oggetto fatale. Solamente accanto stanno in
esso i sogni, le apparizioni di spiriti, i terrori della fine, che appartengono già
al repertorio obbligato della sua forma originaria, il dramma barocco.
Raccogliendosi, in cerchi piú o meno stretti, intorno alla morte, essi trovano
un pieno sviluppo nel dramma barocco proprio come elementi dell’aldilà – di
carattere perlopiú temporale – in contrasto con gli oggetti dell’aldiqua, di
carattere perlopiú spaziale. A tutto ciò che ha a che fare con gli spiriti,
soprattutto Gryphius attribuisce la massima importanza. A lui la lingua
tedesca deve, con questa frase, una trasposizione mirabile del deus ex
machina: «Se a qualcuno dovesse apparire strano che noi non evochiamo,
come gli antichi, un deus ex machina, ma uno spirito dalla tomba, costui
consideri quel che si scrive di continuo intorno agli spiriti» 83. Le sue
riflessioni sull’argomento furono affidate – o forse intendeva affidarle – a un
trattato dal titolo De spectris; di sicuro in proposito non si sa nulla. Alle
apparizioni di fantasmi si affiancano, ed è una presenza quasi obbligata, i
sogni veritieri, il cui racconto dà inizio talvolta al dramma in forma di
prologo. Di solito essi preannunciano al tiranno la sua fine. La drammaturgia
di allora può aver pensato di introdurre in questo modo gli oracoli greci nel
teatro tedesco; qui è importante rilevarne l’appartenenza all’ambito naturale
del destino, dove essi sarebbero imparentati solamente ad alcuni oracoli greci
– soprattutto a quelli tellurici. L’ipotesi, invece, secondo la quale il significato
di questi sogni starebbe nel fatto che lo «spettatore è indotto a confrontare
razionalmente l’azione con la sua anticipazione metaforica» 84, è solo
un’elucubrazione intellettualistica. Com’è facile capire parlando di sogni e di
fantasmi, la notte svolge un ruolo importante. E anche qui solo un passo ci
separa dal dramma del destino, che assegna all’ora degli spiriti un posto
privilegiato. Il Carolus Stuardus di Gryphius, l’Agrippina di Lohenstein
iniziano a mezzanotte; altri drammi non solo si svolgono di notte, come
richiedeva spesso l’unità di tempo, ma devono proprio alla notte l’atmosfera
poetica delle grandi scene, come il Leo Armenius, il Cardenio und Celinde e
l’Epicharis. Il nesso tra l’accadere drammatico e la notte, e in particolare la
mezzanotte, ha una sua buona ragione. È opinione diffusa che a quest’ora il
tempo sia in equilibrio come l’ago di una bilancia. Ora, poiché il destino, il
vero ordine dell’eterno ritorno, può essere definito temporale solo in senso
improprio, parassitario 85, le sue manifestazioni cercano piuttosto lo spazio-
tempo. A mezzanotte esse trovano come una fessura del tempo, nella cui
cornice compare ogni volta sempre la stessa immagine spettrale. L’abisso che
separa la tragedia e il dramma barocco si illumina in tutta la sua profondità
laddove l’eccellente osservazione dell’abate Le Bossu, autore di un Traité sur
la poésie épique citato da Jean Paul, venga letta in senso strettamente
terminologico. Essa dice che «nessuna tragedia può essere ambientata di
notte». Al tempo diurno, richiesto da ogni azione tragica, si contrappone l’ora
degli spiriti propria del dramma. «Ecco: è l’ora della notte piú stregata,
quando si spalancano sui sagrati le fauci dei sepolcri e l’inferno esala i suoi
miasmi in questo mondo» 86. Il mondo degli spiriti è senza storia. Ed è lí che il
dramma fa scivolare le sue vittime. «Ohimè, io muoio, sí, sí, maledetto,
muoio, ma tu dovrai temere la mia vendetta: anche sotto terra resterò il tuo
acerrimo nemico, la furia vendicatrice del regno di Messina. Io scuoterò il tuo
trono, il talamo nuziale, turberò il tuo amore e la tua soddisfazione e con la
mia ira provocherò al re e al regno ogni danno possibile» 87. A ragione è stato
osservato che il dramma inglese pre-shakespeariano non ha «una vera fine, la
sua corrente continua a scorrere» 88. Ciò vale per il dramma barocco in
generale; la sua conclusione non stabilisce alcuna epochè, come accadeva
invece, in senso storico e individuale, con la morte dell’eroe tragico. Questo
significato individuale, a cui si aggiunge quello storico della fine del mito, si
riassume nell’affermazione secondo cui la vita tragica è «la piú esclusivamente
mondana di tutte le esistenze. Perciò il suo limite esistenziale si fonde sempre
con la morte ... Per la tragedia, la morte – il limite in sé e per sé – è sempre
una realtà immanente, indissolubilmente connessa con ogni suo evento» 89. La
morte, come figura della vita tragica, è un destino individuale, ma nel
dramma barocco essa entra non di rado come destino collettivo, come se
invitasse tutti gli interessati davanti alla corte suprema.
Mentre l’eroe tragico nella sua «immortalità» non salva la vita ma soltanto
il nome, i personaggi del dramma barocco perdono con la morte la loro
individualità nominale ma non la forza del ruolo, che rivive intatta nel mondo
degli spiriti. «A qualcuno può venire in mente di scrivere dopo un Amleto un
Fortebraccio; nessuno può impedirmi di far incontrare di nuovo tutti i
personaggi all’inferno o in paradiso, di lasciare che di nuovo regolino i loro
conti» 91. All’autore di questa osservazione è sfuggito che ciò dipende dalla
legge del dramma, e non dall’opera citata e meno che mai dal suo soggetto. Di
fronte a quei grandi drammi che, come Amleto, continuano ad attirare la
critica, l’insulso concetto di tragedia con cui quest’ultima li giudica avrebbe
dovuto apparire logoro già da tempo. Dove può condurre una critica che
riscontri nella morte di Amleto un ultimo «residuo di naturalismo e di
imitazione della natura, il quale fa dimenticare al poeta che non è affatto suo
compito motivare la morte anche in termini fisiologici»? Quando si
argomenti che la morte non ha nell’Amleto «assolutamente alcuna relazione
col conflitto. Amleto, il cui crollo interiore nasce dal fatto di non poter
trovare altra soluzione al problema dell’esistenza se non la negazione della
vita, muore per un fioretto avvelenato! Ossia per una circostanza del tutto
esterna e casuale ... A rigore, questa scena semplice della morte di Amleto
elimina completamente la tragicità del dramma» 92. Sono queste le trovate di
una critica che, nell’ambizione di essere filosoficamente informata, rinuncia a
penetrare nell’opera di un genio. La morte di Amleto, che non assomiglia alla
morte tragica piú di quanto il Principe assomigli ad Aiace, è tipica del
dramma barocco proprio per la sua clamorosa esteriorità, ed è degna del suo
maestro anche solo per il fatto che Amleto, come risulta dal dialogo con
Osrik, vorrebbe inspirare come una sostanza soffocante l’aria greve del
destino. Amleto vuole morire per caso, e quando gli oggetti fatali si affollano
intorno a lui come al loro signore, nella conclusione del dramma torna a
balenare, come racchiuso in esso e in esso naturalmente superato, il dramma
del destino. Se la tragedia si conclude con una decisione, fosse pure la piú
incerta, nell’essenza del dramma, e in particolare della sua morte, risuona un
appello simile a quello formulato dai martiri. Il linguaggio dei drammi pre-
shakespeariani è stato definito felicemente come un «dialogo cruento in piú
atti» 93.Questa incursione in campo giuridico si può spingere oltre fino a
parlare, nel senso dei «lamenti» medievali, di un processo della creatura, dove
il lamento di quest’ultima contro la morte – o contro chiunque altro – verrà
messo agli atti ancora incompiuto al termine del dramma. La ripresa è
implicita nel dramma e a volte viene fuori dal suo stato di latenza. Benché ciò
avvenga, a dire il vero, solo nella sua ricca fioritura spagnola. Nella Vita è
sogno la ripetizione della situazione principale è posta al centro dello
sviluppo. I drammi del XVII secolo trattano sempre gli stessi oggetti, e li
trattano nel senso del loro necessario ripetersi. La solita sprovvedutezza
teorica ha impedito di riconoscerlo, e si è anzi voluto denunciare i «peculiari
errori» di Lohenstein in materia tragica, «come quello per cui l’effetto tragico
dell’azione verrebbe rafforzato amplificandola con l’aggiunta di eventi simili.
Anziché trasformare plasticamente l’azione facendola precipitare verso nuovi
eventi, Lohenstein preferisce ricamare capricciosi arabeschi sempre uguali
intorno ai momenti capitali del dramma, come se una statua acquistasse
bellezza raddoppiandone sul marmo le membra piú riuscite!» 94. Il numero
degli atti di questi drammi non doveva essere dispari, com’era il caso di chi si
richiamava al modello greco; il carattere ripetibile dell’evento che descrivono
contiene piuttosto, implicito, il numero pari. Nel Leo Armenius almeno
l’azione si conclude col quarto atto. Emancipandosi dallo schema dei tre e dei
cinque atti la drammaturgia moderna porta alla vittoria una tendenza del
Barocco 95.
1 JOHANN GEORG SCHIEBEL, Neu-erbauter Schausaal [Il salone nuovamente edificato], Nürnberg
1684, p. 127. [Qui in questo tempo terreno | La mia corona è coperta | Dal velo della tristezza; | Laggiú,
dove a ricompensa | E per grazia mi è largita | È libera, e tutta radiosa].
2 JOHANNES VOLKELT, Ästhetik des Tragischen, München 1917, pp. 469 sgg.
3 Ibid., p. 469.
4 Ibid., p. 450.
5 Ibid., p. 447.
6 GYÖRGY LUKÁCS, Die Seele und die Formen. Essays, Berlin 1911, pp. 370 sgg.; trad. it. L’anima e le
forme, Milano 1963, p. 345.
7 FRIEDRICH NIETZSCHE, Werke, sezione 1, vol. I: Die Geburt der Tragödie, a cura di F. Kögel,
Leipzig 1895, p. 155; trad. it. La nascita della tragedia, a cura di E. Ruta (leggermente modificata),
introduzione di P. Chiarini, Bari 1967, pp. 180 sgg.
8 Ibid., pp. 44 sgg.; trad. it. cit., pp. 71 sgg.
13 Cfr. WALTER BENJAMIN, Goethes Wahlverwandtschaften, in «Neue Deutsche Beiträge», serie II,
fasc. I (aprile 1924), pp. 83 sgg. (ora in Schriften cit., I, pp. 55 sgg.; trad. it. in Angelus Novus cit., pp. 157
sgg.).
14 CROCE , Breviario di estetica cit., pp. 19 sgg.
15 Cfr. CARL WILHELM FERDINAND SOLGER, Nachgelassene Schriften und Briefwechsel, a cura di L.
Tieck e F. von Raumer, Leipzig 1826, vol. II, pp. 445 sgg.
16 WILAMOWITZ-MOELLENDORFF , Einleitung in die griechische Tragödie cit., p. 107.
17 Ibid., p. 119.
18 Cfr. MAX WUNDT, Geschichte der griechischen Ethik, Leipzig 1908, vol. I: Die Entstehung der
griechischen Ethik, pp. 178 sgg.
19 Cfr. WACKERNAGEL , Über die dramatische Poesie cit., p. 39.
20 Cfr. SCHELER , Vom Umsturz der Werte cit., pp. 266 sgg.
21 FRANZ ROSENZWEIG, Der Stern der Erlösung, Frankfurt am Main 1921, pp. 98 sgg.; trad. it. La
stella della redenzione, Genova 1985. Cfr. WALTER BENJAMIN, Schicksal und Charakter, in «Die
Argonauten», serie I (1914 sgg.), vol. II (1915 sgg.), fasc. 10-12 (1921), pp. 187-96; trad. it. in Angelus
Novus cit., pp. 29 sgg.
22 LUKÁCS , Die Seele und die Formen cit., p. 336; trad. it. cit., pp. 314 sgg.
23 NIETZSCHE , Die Geburt der Tragödie cit., p. 118; trad. it. cit., p. 145.
24 FRIEDRICH HÖLDERLIN, Sämtliche Werke, München-Leipzig 1916, vol. IV: Gedichte 1800-1806, p.
195 (Patmos, I stesura, pp. 144 sgg.).
25 Cfr. WUNDT , Geschichte der griechischen Ethik cit., pp. 193 sgg.
26 BENJAMIN , Schicksal und Charakter cit., p. 191; trad. it. cit., p. 32.
27 SCHOPENHAUER , Sämtliche Werke cit., vol. II, pp. 513 sgg.; trad. it. cit., pp. 534 sgg.
28 KARL BORINSKI, Die Antike in Poetik und Kunsttheorie vom Ausgang des klassischen Altertums bis
auf Goethe und Wilhelm von Humboldt, Leipzig 1924, p. 315.
29 SCHOPENHAUER , Sämtliche Werke cit., vol. II, pp. 509 sgg.; trad. it. cit., pp. 530 sgg.
33 LEOPOLD ZIEGLER, Zur Metaphysik des Tragischen. Eine philosophische Studie, Leipzig 1902, p. 45.
34 LUKÁCS , Die Seele und die Formen cit., p. 342; trad. it. cit., p. 319.
35 [Qui Benjamin cita liberamente NIETZSCHE , Jenseits von Gut und Böse, in Werke cit., sezione 1,
vol. VII; trad. it. Al di là del bene e del male, Genealogia della morale, Milano 1968, p. 72].
36 Cfr. JAKOB BURCKHARDT, Griechische Kulturgeschichte, a cura di J. Oeri, Berlin-Stuttgart 1902,
vol. IV, pp. 89 sgg.; trad. it. Storia della civiltà greca, Firenze 1955.
37 KURT LATTE, Heiliges Recht. Untersuchungen zur Geschichte der sakralen Rechtsformen in
Griechenland, Tübingen 1920, pp. 2 sgg.
38 ROSENZWEIG , Der Stern der Erlösung cit., pp. 99 sgg.
39 Ibid., p. 104.
40 LUKÁCS , Die Seele und die Formen cit., p. 340; trad. it. cit., p. 316.
41 JEAN PAUL FRIEDRICH RICHTER, Sämmtliche Werke, Berlin 1841, vol. XVIII, p. 82 (Vorschule der
Ästhetik, parte I, § 19).
42 Cfr. WERNER WEISBACH, Trionfi, Berlin 1919, pp. 17 sgg.
43 NIETZSCHE , Die Geburt der Tragödie cit., p. 59; trad. it. cit., p. 87.
44 THEODOR HEINSIUS, Volksthümliches Wörterbuch der Deutschen Sprache mit Bezeichnung der
Aussprache und Betonung für die Geschäfts- und Lesewelt, Hannover 1822, vol. IV, tomo I (S-T), p.
1050. [So die «T[rauer]bühne», «uneig., die Erde als ein Schauplatz trauriger Vorfälle...»; «das
T[rauer]gepränge; das T[rauer]gerüst, ein mit Tüchern bedecktes, mit Verzierungen, Sinnbildern etc.
versehenes Gerüst, auf welchem die Leiche eines vornehmen Verstorbenen im Sarge ausgestellt wird
(Katafalk, Castrum doloris, Trauerbühne»)].
45 Cfr. GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 77 (Leo Armenius, III, 126).
46 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 36 [II, 529 sgg.]). Cfr.
GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 458 (Carolus Stuardus, V, 250). [Questo è il dramma luttuoso che nasce
dalle tue vanità! | Questa la danza funebre aizzata nel mondo!]
47 Cfr. JACOB MINOR, Die Schicksals-Tragödie in ihren Hauptvertretern, Frankfurt am Main 1883,
pp. 44 e 49.
48 JOHANN ANTON LEISEWITZ, Sämmtliche Schriften, Braunschweig 1838, p. 88 (Julius von Tarent,
V, 4).
49 JOHANN GOTTFRIED HERDER, Werke, a cura di H. Lambel, Stuttgart s. d. [1890 circa] parte III,
sezione 2, p. 19 (Kritische Wälder, I, 3).
50 Cfr. LESSING , Sämmtliche Schriften cit., p. 264 (Hamburgische Dramaturgie); trad. it. cit., p. 269.
51 HANS EHRENBERG, Tragödie und Kreuz, 2 voll., Würzburg 1920, vol. I: Die Tragödie unter dem
Olymp, pp. 112 sgg.
52 Cfr., sopra, nota 40.
53 FRANZ HORN, Die Poesie und Beredsamkeit der Deutschen, von Luthers Zeit bis zur Gegenwart,
Berlin 1823, vol. II, pp. 294 sgg.
54 FLEMMING , Andreas Gryphius und die Bühne cit., p. 221.
56 LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., p. 269 (Sophonisbe, I, 322 sgg.). [I principi, ai quali la
porpora è innata, | Senza scettro sono privi di forza].
57 Ibid., p. 262 (Sophonisbe, I, 89).
58 HAUGWITZ , Prodromus Poeticus cit. (Maria Stuarda, p. 63 [V, 75 sgg.]). [Porgeteci il velluto
scarlatto e questa veste fiorita | E il raso nero, affinché ciò che rallegra la mente, | E ciò che contrista il
corpo lo si possa leggere dai vestiti, | In cui la morte pallida recita l’ultimo atto].
59 BIRKEN , Deutsche Redebind- und Dichtkunst cit., p. 329. [Pralereyen Klag’ Reden endlich auch
Begräbnise(n) und Grabschriften... Meineid und Verrätherrey... Betrüge und Practiken].
60 Die Glorreiche Marter Joannes von Nepomuck cit. in WEISS , Die Wiener Haupt- und
Staatsactionen cit., pp. 113 sgg.
61 STRANITZKY , Wiener Haupt- und Staatsaktionen cit., p. 276 (Die gestürzte Tyrannay in der Person
deß Messinischen Wüttrichs Pelifonte, I, 8).
62 FILDOR , Trauer- Lust- und Misch-Spiele cit., frontespizio. [Quando il palco ormai è vuoto | Non
c’è piú buffone né re].
63 MONE (a cura di), Schauspiele des Mittelalters cit., p. 136.
64 WEISS , Die Wiener Haupt- und Staatsaktionen cit., p. 48.
65 LOHENSTEIN , Blumen cit. (Hyacinthen), p. 47 [Ich irrdisches Geschöpff und Schertz der
Sterblichkeit].
66 NOVALIS , Schriften, a cura di J. Minor, Jena 1907, vol. III, p. 4.
67 Ibid., p. 20.
69 GOETHE , Sämtliche Werke cit., vol. XXXIV: Schriften zur Kunst, 2, pp. 165 sgg. (Rameaus Neffe,
Ein Dialog von Diderot, note).
70 VOLKELT , Ästhetik des Tragischen cit., p. 125.
71 Cfr. LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., p. 320 (Sophonisbe, IV, 242). [Des Himmels
Reitzungen kan niemand überwinden].
72 Cfr. ID ., Blumen cit. (Rosen), pp. 130 sgg. [Vereinbarung der Sterne und der Gemüther].
74 LUKÁCS , Die Seele und die Formen cit., pp. 332 sgg.; trad. it. cit., p. 328.
75 Ibid., pp. 355 sgg.; trad. it. cit., pp. 330 sgg.
76 GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL, Vorlesungen über die Ästhetik, a cura di H. Glockner,
Stuttgart 1928, p. 553; trad. it. cit., p. 1610.
77 Cfr. WALTER BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, in «Archiv für Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik», XLVII (1920-21), p. 828 (n. 3, agosto 1921) (ora in Schriften cit., I, pp. 24 sgg.; trad. it. in
Angelus Novus cit., pp. 5 sgg.).
78 EHRENBERG , Tragödie und Kreuz cit., vol. II, p. 53.
79 BENJAMIN ,
Schicksal und Charakter cit., p. 192 (ora in Schriften cit., I, p. 35; trad. it. cit., p. 33).
Cfr. in generale BENJAMIN , Goethes Wahlverwandtschaften cit., pp. 98 sgg. (ora in Schriften cit., I, pp. 69
sgg.; trad. it. cit., pp. 170 sgg.), e inoltre Schicksal und Charakter cit., pp. 189-92 (ora in Schriften cit., I,
pp. 33-36; trad. it. cit., pp. 31-33).
80 MINOR , Die Schicksal-Tragödie in ihren Hauptvertretern cit., pp. 75 sgg.
85 BENJAMIN , Schicksal und Charakter cit., p. 192 (ora in Schriften, I, p. 36; trad. it. cit., p. 33).
86 WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto, III, 2, traduzione di C. V. Lodovici Torino 1963.
87 STRANITZKY , Wiener Haupt- und Staatsaktionen cit., p. 322 (Die Gestürzte Tyrannay in der
Person deß Messinischen Wüttrichs Pelifonte, III, 12).
88 EHRENBERG , Tragödie und Kreuz cit., vol. II, p. 46.
89 LUKÁCS , Die Seele und die Formen cit., p. 345; trad. it. cit., pp. 321 sgg.
90 FRIEDRICH SCHLEGEL, Alarcos, Ein Trauerspiel, Berlin 1802, p. 46 (II, 2). [Fra tre giorni saranno
sottoposti a giudizio: | Rinviati davanti al trono di Dio; | Lasciate che pensino a come difendersi].
91 ALBERT LUDWIG, Fortsetzungen. Eine Studie zur Psychologie der Literatur, in «Germanisch-
romanische Monatsschrift», VI (1914), p. 433.
92 ZIEGLER , Zur Metaphysik des Tragischen cit., p. 52.
94 MÜLLER , Beiträge zum Leben und Dichten Caspers von Lohenstein cit., pp. 82 sgg.
95 Cfr. CONRAD HÖFER, Die Rudolstädter Festspiele aus den Jahren 1665-1667 und ihr Dichter. Eine
literarhistorische Studie, Leipzig 1904, p. 141.
Dramma e tragedia (III )
Melankoley. Freude. Jene ist ein altes Weib in verächtlichen Lumpen gekleidet mit verhülleten (!)
Haupt sitzet auff einem Stein unter einem dürren Baum den Kopff in den Schooß legend Neben ihr
stehet eine Nacht-Eule...
MELANKOLEY
Può darsi che nel simbolo della pietra si debba vedere solo la figura piú
esplicita della Terra fredda e asciutta. Ma si può anche pensare – e
considerando il passo di Ägidius Albertinus non è improbabile – che la massa
inerte alluda al concetto propriamente teologico di melanconico, che è quello
di un peccato mortale. È l’acedia, la pigrizia del cuore. Ed è proprio questa
inerzia a stabilire un legame tra il melanconico e l’orbita strisciante del debole
Saturno, un legame che – sia esso fondato su basi astrologiche oppure no – si
trova già attestato in un manoscritto del XIII secolo. «Della pigrizia. Il quarto
peccato capitale è: pigrizia nel servizio di Dio. E questo è quando mi volgo da
una laboriosa e difficile opera buona a un vano pentimento. E quando mi
distolgo dall’opera buona, perché mi è gravosa, da ciò viene amarezza del
cuore» 48. In Dante l’accidia occupa il quinto posto nella gerarchia dei peccati
capitali. Nella sua cerchia regna un freddo glaciale, e ciò rimanda ai dati della
patologia umorale, la qualità fredda e asciutta della terra. In quanto acedia, la
melanconia del tiranno appare sotto una nuova luce, piú nitida. Ägidius
Albertinus attribuisce espressamente all’accidia il complesso sintomatico del
melanconico: «L’accidia o pigrizia viene appropriatamente paragonata al
morso di un cane rabbioso, poiché chi è morso da esso, subito è assalito da
sogni spaventosi, e nel sonno ha paura, diventa furioso, dissennato, rifiuta
ogni bevanda, teme l’acqua, abbaia come un cane, e diventa a tal punto
timoroso che per timore cade giú. Tali persone muoiono presto, se non si
presta loro aiuto» 49. Soprattutto l’indecisione del principe non è altro che
acedia saturnina. Saturno rende «apatici, indecisi, lenti» 50. Il tiranno va in
rovina per l’inerzia del cuore. E se questa riguarda la figura del tiranno,
l’infedeltà – un altro tratto dell’uomo saturnino – colpisce la figura del
cortigiano. Nulla è piú oscillante dell’uomo di corte, come lo dipinge il
dramma barocco: il tradimento è il suo elemento naturale. Non è per labilità o
per mancanza di carattere degli autori che i cortigiani, senza nemmeno darsi
il tempo di riflettere, abbandonano il loro signore e passano al partito
opposto. Il loro agire mette in mostra una amoralità che è, in parte,
machiavellismo consapevole, in parte soggezione melanconica e sconsolata a
un ordine, ritenuto impenetrabile, di costellazioni maligne, un ordine che
assume un carattere senz’altro cosale. La corona, la porpora, lo scettro, sono
in ultima analisi oggetti fatali nel senso del dramma del destino: portatori di
un fato a cui il cortigiano è il primo a sottomettersi come suo augure. Alla sua
infedeltà verso gli esseri umani fa riscontro una fedeltà verso questi oggetti a
dir poco sommersa nella sua dedizione contemplativa. Appena in questa
disperata fedeltà al mondo creaturale e alla legge della colpa che governa la
sua vita, il concetto di melanconia si trova nello stato della propria
realizzazione adeguata. Tutte le decisioni essenziali nei confronti degli uomini
possono infatti offendere la fedeltà: in esse valgono leggi superiori. La fedeltà
è invece del tutto adeguata solo nel rapporto fra l’uomo e le cose. Esse non
conoscono una legge piú alta, e la fedeltà non conosce alcun oggetto al quale
appartenere in modo piú esclusivo che al mondo delle cose. Questo la evoca
sempre intorno a sé, e ogni premio alla fedeltà si circonda dei frammenti del
mondo cosale come degli oggetti ad essa piú appropriati e conformi.
Impacciata e senza motivo essa esprime a suo modo una verità per la quale
naturalmente tradisce il mondo. La melanconia tradisce il mondo per amore
della conoscenza. Ma il suo ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella
sua contemplazione per salvarle. Il poeta di cui si riferisce quanto segue, parla
nello spirito della tristezza. «Péguy parlait de cette inaptitude des choses à être
sauvées, de cette résistence, de cette pesanteur des choses, des etres mêmes,
qui ne laisse subsister enfin qu’un peu de cendre de l’effort des héros et des
saints» 51. L’ostinazione che si palesa nell’atteggiamento del lutto nasce dalla
sua fedeltà al mondo delle cose. Cosí pure va intesa l’infedeltà che i calendari
attribuiscono all’uomo saturnino, e cosí va reinterpretata la contrapposizione
dialettica, la «fedeltà in amore», che Ab¯u Ma‘shar assegna ai figli di
Saturno 52. La fedeltà è il ritmo delle emanazioni discendenti, in cui le
emanazioni ascendenti della teosofia neoplatonica si rispecchiano
trasformate, arricchite da molteplici implicazioni.
1 ANDREAS TSCHERNING, Vortrab Des Sommers Deutscher Getichte, Rostock 1655. [Non trovo mai
pace, bisticcio con me stesso, | Siedo, giaccio, ristò, e tutto ciò nei pensieri].
2 SHAKESPEARE , Amleto cit., IV, 4.
3 SAMUEL VON BUTSCHKY, Parabeln und Aphorismen, in «Monatsschrift von und für Schlesien»,
1829, vol. I, p. 330.
4 JAKOB AYRER, Dramen, a cura di A. von Keller, Stuttgart 1865, p. 4. Cfr. anche BUTSCHKY ,
Wohlbebauter Rosental cit., pp. 410 sgg.
5 HÜBSCHER , Barock als Gestaltung antithetischen Lebensgefühls cit., p. 552.
tavola, | Il vino mescolato nei cristalli, | Gli va in fiele e in veleno. Appena il giorno è svanito, | Giunge
strisciando la schiera luttuosa, l’esercito dell’angoscia, | E veglia nel suo letto. Adorno di avorio, vestito |
Di porpora e di raso, non potrà mai aver pace quanto | Quelli che consegnano il corpo alla terra dura. |
Quando gli vien largito un breve sonno, | Morfeo lo investe e nella notte gli effigia | In grige immagini
ciò ch’egli di giorno ha pensato, | E lo atterrisce ora col sangue, ora col rovesciato trono, | E con incendi
e angosce e morte e la corona usurpata].
9 Ibid., p. 111 (Leo Armenius, V, 53). [Wo scepter, da ist furcht!]
10 FILIDOR , Trauer- Lust- und Misch-Spiele cit. (Ernelinde), p. 138. [Die traurige Melankoley wohnt
mehrentheiles in Pallästen].
11 Cfr. ÄGIDIUS ALBERTINUS, Lucifers Königreich und Seelengejaidt cit., p. 300. [... zu Anfang ... als
mit Einem, den der tolle Hund gebissen hat: es kommen ihm eschreckliche Träume, er fürchtet sich
ohn’ Ursach].
12 Ibid., p. 411. [An den Herrnhöfen ist es gemeinklich Kalt vnnd allzeit Winter dann die Sonn der
Gerechtigkeit ist weit von jhnen ... derowegen Zittern die Hofleut auß lauter Kälte Forcht vnd
Trawrigkeit].
13 HARSDÖRFFER , Poetischer Trichter cit., 3, p. 116.
14 Nella prima edizione la citazione non è numerata. Si tratta probabilmente di una parafrasi di
Benjamin [N. d. T.].
15 Cfr. LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., pp. 308 sgg. (Sophonisbe, III, 431 sgg.).
16 ÄGIDIUS ALBERTINUS, Lucifers Königreich und Seelengejaidt cit., p. 414. [... damit auß solchen
Fantasten keine Wütrich Tyrannen vnd der Jugendt oder Weibermörder gebrütet werden].
17 Cfr. HUNOLD , Theatralische Galante cit., p. 180 (Nebucadnezar, III, 3).
22 PARACELSO , Erster Theil der Bücher und Schrifften, Basel 1589, parte I, pp. 363 sg. [Die Fröligkeit
vnn die Traurigkeit ist auch geboren von Adam vnn Eua. Die Fröligkeit ist in Eua gelegen vnn die
Traurigkeit in Adam... So ein frölichs Mensch als Eua gewesen ist wirdt nimmermehr geboren:
Deßgleichen als traurig als Adam gewesen ist wirdt weiter kein Mensch geboren. Dann die zwo
Materien Adae vnd Euae haben sich vermischt daß die Traurigkeit temperiert ist worden vonn der
Fröligkeit vnnd die Fröligkeit deßgleichen von der Traurigkeit ... Der Zorn Tyranney vnnd die
Wuetend Eigenschafft deßgleichen die Mildte Tugentreiche vnnd Bescheidenheit ist auch von ihn
beyden hie: daß Erste von Eua, das Ander von Adamo, und durch vermischung eingetheilt inn alle
Proles].
23 GIEHLOW , Dürers Stich «Melencolia I» cit., XXVII (1904), p. 72 (n. 4).
24 TSCHERNING , Vortrab Des Sommers cit. [Io madre di sangue greve, io pigro gravame della terra |
Voglio dire che cosa sono, e quali sono i miei poteri. | Sono la bile nera, come prima si diceva in latino |
E ora anche in tedesco | Eppure nessuno mi conosce. | So, attraverso la follia, scrivere versi buoni, |
Come quelli di chi si lascia guidare dal saggio Febo, | Il padre di ogni arte. E temo soltanto | Che intorno
a me nel mondo si generi il sospetto | Come se volessi scrutare gli spiriti infernali | Cosí da annunciare
prima del tempo ciò che ancora non è. | Intanto rimango una poetessa, | Canto la mia caduta e quel
ch’io sono. | E questa fama mi viene dal mio nobile sangue | E da spirito celeste, quand’esso aleggia in
me. | Accendo allora i cuori come un dio | Ed essi van fuori di sé, e cercano una via | Piú che mondana.
Se mai qualcuno ha visto qualcosa | Per mano delle Sibille, ciò è avvenuto grazie a me].
25 IMMANUEL KANT, Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, Königsberg 1764,
pp. 33 sgg.; trad. it. di P. Carabellese in Scritti precritici, Bari 1982, p. 308.
26 Cfr. PARACELSO , Erster Theil der Bücher und Schrifften cit., pp. 82 sgg., 86; ibid.: Ander Theil der
Bücher und Schrifften, pp. 206; ibid.: Vierdter Theil der Bücher und Schrifften, pp. 157 sgg. Vedi anche I,
p. 44; IV, pp. 189 sgg.
27 GIEHLOW , Dürers Stich «Melencolia I» cit., XXVII (1904), n. 1-2, p. 14.
28 ERWIN PANOFSKY e FRITZ SAXL, Dürers «Melencolia I». Eine quellen- und typengeschichtliche
Untersuchung, Leipzig-Berlin 1923, pp. 18 sgg.; cfr. trad. it. in RAYMOND KLIBANSKY, ERWIN PANOFSKY
e FRITZ SAXL, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, Torino
1983, pp. 148.
29 Ibid., p. 10; cfr. trad. it. cit., p. 125 sgg.
31 ABY WARBURG, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, Heidelberg
1920 («Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische
Klasse», 1920 [ma 1919], n. 26, p. 24); trad. it. La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia
della cultura, Firenze 1966, p. 332.
32 Ibid., p. 25; trad. it. cit., p. 333.
38 Cit. in ibid.
39 FRANZ JOHANNES BOLL, Sternglaube und Sterndeutung. Die Geschichte und das Wesen der
Astrologie, Leipzig-Berlin 1926, p. 37.
40 TSCHERNING , Vortrab Des Sommers cit. [Chi ancora non mi conosce, mi riconosce ai gesti, |
Continuamente rivolgo i miei occhi alla terra, | Poiché prima dalla terra sono germogliata, | Cosí io non
guardo piú nulla se non la madre].
41 MARSILIO FICINO, De vita triplici; cit. in PANOFSKY e SAXL , Dürers «Melencolia I» cit., p. 51, nota
2.
42 Cfr. ibid.
45 Cfr. ÄGIDIUS ALBERTINUS, Lucifers Königreich und Seelengejaidt cit., p. 406. [Die Trübsal, als
welche sonsten das Herz in Demut erweicht, machet ihn nur immer störrischer in seinem verkehrten
Gedanken, denn seine Tränen fallen ihm nicht in ins Herz hinein, daß sie die Härtigkeit erweichten,
sondern es ist mit ihm wie mit dem Stein, der nur von außen schwitzt, wenn das Wetter feucht ist].
46 HALLMANN , Leichreden cit., p. 137. [Er war von Natur tieffsinnig und Melancholischer
Complexion, welche Gemüther einer Sache beständiger nachdencken und in allen Actionibus
behuttsam verfahren. Das Schlangenvolle Medusen Haupt wie auch das Africanische Monstrum, nebst
dem weinenden Crocodille dieser Welt konten seine Augen nicht verführen viel weniger seine Glieder
in einen unarthigen Stein verwandeln].
47 STIELER [?], Trauer- Lust- und Misch-Spiele cit., p. 135 (Ernelinde). [La Melanconia. La Gioia. La
prima è una vecchia, vestita di miseri stracci, con la testa velata (!), seduta su una pietra sotto un albero
rinsecchito, la testa china in grembo, accanto a lei una civetta... La Melanconia: La dura pietra | l’albero
secco | il cipresso morto | danno uno spazio sicuro alla mia tristezza | e mi fanno dimenticare l’astio... La
Gioia. Chi è codesta marmotta, appollaiata a quel ramo secco? L’occhio profondo e arrossato brilla|
come una cometa di sangue | che luccica di rovina e di orrore... Ora ti riconosco | nemica della mia
gioia! | Melanconia, generata nell’abisso del Tartaro dal cane a tre teste. Oh! dovrei sopportarti nei miei
luoghi? No! | davvero | no! la fredda pietra | il cespuglio senza foglie | vanno scacciati | e tu mostro tu
pure].
48 Cit. in MONE (a cura di), Schauspiele des Mittelalters cit., p. 329. [Von der tracheit. Du vierde
houbet sunde ist. tracheit. an gottes dienste. Du ist so mich kere. von eime erbeitsamen. unt sweren
guoten werke. zuo einer itelen ruowe. So ich mih here. von deme guoten werke. wande ez mir svere ist.
da von kumet bitterkeit des hercen].
49 Cfr. ÄGIDIUS ALBERTINUS, Lucifers Königreich und Seelengejaidt cit., p. 390. [Artlich wirdt die
Accidia oder Trägheit dem Biß eines wütigen Hundts verglichen dann wer von demselbigen gebissen
wird den vberkompt alsbaldt erschröckliche Träum er förchtet sich im Schlaf wird Wütig Vnsinnig
verwirfft alles Getranck förchtet das Wasser bellet wie ein Hund vnd wirdt dermassen forchtsamb daß
er auß forcht niderfellt. Dergleichen Leut sterben auch bald wann jhnen nicht geholfen wirdt].
50 ANTON HAUBER, Planetenkinderbilder und Sternbilder. Zur Geschichte des menschlichen Glaubens
und Irrens, Straßburg 1916, p. 126.
51 DANIEL HALÉVY, Charles Péguy et les Cahiers de la Quinzaine, Paris 1919, p. 230.
52 Cod. Leid. Or. 47, p. 255; cit. in PANOFSKY e SAXL , Dürers «Melencolia I» cit., p. 5; trad. it. cit., p.
122 e nota 11.
53 Cfr. BOLL , Sternglaube cit., p. 37.
54 ROCHUS FREIHERR VON LILIENCRON, Wie man in Amwald Musik macht. Die siebente Todsünte,
Leipzig 1903.
Allegoria e dramma barocco (I )
Wer diese gebrechliche Hüten wo das Elend alle Ecken zieret mit einem vernünftigen
Wortschlusse wolte begläntzen der würde keinen unförmlichen Ausspruch machen noch
das Zielmaß der gegründeten Wahrheit überschreiten wann er die Welt nennte einen
allgemeinen Kauffladen eine Zollbude des Todes wo der Mensch die gangbahre Wahre der
Tod der wunderbahre Handels-Mann Gott der gewisseste Buchhalter das Grab aber das
versiegelte Gewand und Kauff-Hauß ist.
CHRISTOPH MÄNNLING,
Alla metamorfosi della storia in natura, che sta alla base dell’allegorico,
veniva ampiamente incontro anche la storia della salvezza. Per quanto essa
venisse interpretata in termini mondani, ritardanti, poche volte ciò si è spinto
all’estremo come in Sigmund von Birken. La sua poetica fornisce «come
esempi di composizioni battesimali, nuziali e funebri, di poemi encomiastici
ed augurali, canzoni sulla nascita e la morte di Cristo, sulle sue nozze
spirituali con l’anima, sulla sua gloria e la sua vittoria» 58. L’«attimo» mistico
diventa l’«ora» attuale: il simbolico si stravolge in allegorico. Dal processo
della storia della salvezza si isola l’eterno, e quel che resta è un’immagine
vivente, esposta a tutti gli interventi della regia. Ciò corrisponde nel modo piú
intimo alla maniera dilatoria, divagante, voluttuosamente esitante, della
formatività barocca. È stato osservato giustamente da Hausenstein che nelle
apoteosi pittoriche il primo piano suol essere trattato con un realismo
estremo, cosí da rendere piú credibili gli oggetti piú remoti del campo visivo.
Quel primo piano cosí in evidenza cerca di raccogliere in sé tutto l’accadere
mondano, non solo per accrescere la tensione fra immanenza e trascendenza,
ma anche per conferire a quest’ultima il maggior rigore possibile, di farla
apparire esclusiva e implacabile. È un gesto di una forza innegabile, quello per
cui Cristo stesso viene trasferito nel transitorio, nel quotidiano, nel precario.
A questo punto interviene con decisione lo Sturm und Drang e scrive con
Merck «che il grand’uomo non ne viene diminuito in nulla, se noi sappiamo
che è nato in una stalla e che era avvolto in fasce tra un bue e un asino» 59. E
dopotutto, quel che vi è in questo gesto di irritante o di sorprendente è
proprio il suo carattere barocco. Dove il simbolo riassorbe in sé l’uomo, dal
fondo dell’essere l’allegorico va incontro all’intenzione sulla sua strada e la
colpisce in fronte. Nella lirica barocca ritroviamo lo stesso movimento
peculiare. Nelle sue composizioni non vi è «alcun movimento progressivo, ma
come un gonfiarsi dall’interno» 60. Per arginare questa inclinazione deve
intervenire e svilupparsi con sempre nuove sorprese l’elemento allegorico. Il
simbolo invece, conformemente alla visione dei mitologi romantici, rimane
ostinatamente lo stesso. Quale contrasto fra i versi uniformi dei libri di
emblemi, la vanitas vanitatum vanitas, e la prassi alla moda dei versi
incalzanti che prende piede verso la metà del secolo! Le allegorie invecchiano
perché lo sconcertante appartiene alla loro essenza. Se l’oggetto diventa
allegorico sotto lo sguardo della melanconia, se questa lascia scorrere la vita
via da esso e l’oggetto rimane come morto, ma assicurato in eterno, eccolo
affidato alle mani dell’allegorista, nella buona e nella cattiva sorte. Ossia:
quell’oggetto è ormai del tutto incapace di irradiare un significato, un senso; il
suo significato sarà quello che l’allegorista gli assegna. Egli lo inserisce e lo
cala profondamente nell’oggetto: e la situazione non è psicologica ma
ontologica. Nelle sue mani la cosa diventa qualcos’altro, per mezzo di essa egli
parla d’altro, e la cosa diventa allora la chiave per accedere al regno di un
sapere segreto, per cui l’allegorista la venera come emblema. Nasce di qui il
carattere scritturale dell’allegoria. Essa è uno schema, e in quanto schema non
può andare perduto perché è qualcosa di fisso: immagine fissata e segno
fissante a un tempo. L’ideale barocco del sapere, l’accumulo, il cui
monumento sono le grandi sale delle biblioteche, si realizza nell’ideogramma.
Quasi come in Cina, l’ideogramma non è soltanto segno di ciò che occorre
sapere, ma oggetto di sapere in proprio. Anche per questa via, l’allegoria
giunse coi romantici a un principio di consapevolezza. Soprattutto con
Baader. Nel suo scritto Über den Einfluß der Zeichen der Gedanken auf deren
Erzeugung und Gestaltung [Sopra l’influsso dei segni del pensiero sulla loro
produzione e formazione] si dice: «Com’è noto, dipende solo da noi usare un
qualsiasi oggetto naturale come segno convenzionale del pensiero, come
vediamo nella scrittura simbolica e geroglifica, e questo oggetto assume un
nuovo carattere solo se vogliamo comunicare per mezzo di esso non i suoi
contrassegni naturali, ma quelli che noi stessi gli abbiamo per cosí dire
prestato» 61. Il commento è fornito da una nota a questo passo: «C’è una
buona ragione nel fatto che tutto ciò che vediamo nella natura esterna ci
appaia come scrittura, come una sorta di linguaggio per segni a cui manca
peraltro l’essenziale, la pronuncia: quest’ultima, in definitiva, dev’essere
venuta all’uomo da qualche altra parte» 62. «Da qualche altra parte» va dunque
a prenderla l’allegorista, senza evitare affatto l’arbitrio in cui si manifesta
perentoriamente il suo potere. La folla di cifre che l’allegorista trovava nel
mondo creaturale, profondamente plasmato dalla storia, giustifica le proteste
di Cohen sullo «spreco». È certo possibile che esso non corrisponda alle leggi
di natura: ma la voluttà con cui il significato domina, come un fosco sultano,
l’harem delle cose, ne dà un’espressione incomparabile. È proprio del sadico
umiliare il proprio oggetto e quindi – o in questo modo – soddisfarlo. Cosí
procede l’allegorista in questo periodo ebbro di violenze immaginarie ed
effettive. Ciò si fa valere persino nella pittura religiosa. Il «colpo d’occhio» che
la pittura barocca sviluppa «in uno schema ... del tutto indipendente dalla
situazione effettuale del momento» 63, tradisce e svaluta le cose in modo
indicibile. La funzione dell’ideografia barocca non è tanto di svelare le cose
quanto di denudarle. L’emblematista non mostra l’essenza nascosta «dietro
l’immagine» 64. Nella forma della scrittura, della divisa, che nei libri di
emblemi è strettamente connessa alla figura, egli ne trascina l’essenza di
fronte all’immagine. Perché in fondo anche il dramma barocco, cresciuto
nella sfera allegorica, è per la sua forma un dramma destinato alla lettura. Tale
cognizione non dice nulla sul valore e la possibilità della sua messa in scena.
Essa però mette in chiaro che lo spettatore ideale di questi drammi si
immergeva in essi in un atteggiamento meditativo, e perlomeno simile alla
lettura; e si comprende perché le situazioni sceniche non cambino troppo
spesso ma all’improvviso, come cambia l’aspetto della pagina quando si
sfoglia un libro. E si capisce perché, quasi intuendo vagamente e controvoglia
la legge di questi drammi, la vecchia critica letteraria si ostinasse ad affermare
che essi non erano mai stati rappresentati.
1 [Chi volesse illustrare queste fragili capanne dove la miseria tutti gli angoli decora con una formula
ragionevole non userebbe un’espressione inadeguata né valicherebbe i confini di una fondata verità se
definisse il mondo una bottega universale, un dazio della morte dove l’uomo è la merce corrente, la
morte il mirabile mercante, Dio il contabile piú coscienzioso e la tomba l’imballaggio sigillato e
l’emporio].
2 Cfr. WALTER BENJAMIN, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, Bern 1920, pp. 6
sgg. e 80 sgg.
3 GOETHE , Sämtliche Werke cit., vol. XXXVIII: Schriften zur Literatur, 3, p. 261 (Maximen und
Reflexionen); trad. it. Massime e riflessioni, a cura di B. Allason, Torino 1943, pp. 48 sgg.
4 SCHOPENHAUER , Sämmtliche Werke cit., vol. I: Die Welt als Wille und Vorstellung cit., I, pp. 314
sgg.; trad. it. cit., vol. I, pp. 294 sgg.
5 Cfr. WILLIAM BUTLER YEATS, Erzählungen und Essays, Leipzig 1916, p. 114.
7 Ibid., p. 296.
8 FRIEDRICH CREUZER, Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen, Leizpig-
Darmstadt 1819, parte I, 2, p. 118.
9 Ibid., p. 64.
13 Ibid., p. 68.
15 Ibid., p. 199.
18 JOHANN GOTTFRIED HERDER, Sämmtliche Werke, a cura di B. Suphan, Berlin 1887, vol. XVI, p.
161.
19 Ibid., p. 230.
21 CARL GIEHLOW, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance,
besonders der Ehrenpforte Kaisers Maximilians I, Wien-Leipzig 1915 («Jahrbuch der Kunsthistorischen
Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», vol. XXXII, fasc. 1), p. 36.
22 Cfr. CESARE RIPA, Iconologia, Milano 1602.
24 Ibid., p. 12.
25 Ibid., p. 31.
26 Ibid., p. 23.
28 Ibid., f. 4.
als das sie hetten die lehren von weißheit und himmlischen dingen recht fassen und verstehen können
so haben weise Männer was sie zu erbawung der gottesfurcht guter sitten und wandels erfunden in
Reime und Fabeln welche sonderlich der gemeine Pöfel zu hören geneigt ist verstecken und verbergen
müssen].
33 Comunicazione anonima su CLAUDE FRANÇOIS MENESTRIER, La philosophie des images (cfr. nota
seguente), in Acta eruditorum, anno MDCLXXXIII publicata, Lipsiae 1683, p. 17.
34 Cfr. ID ., La philosophie des images, Paris 1682. Inoltre: ID ., Devises des princes, cavaliers, dames,
scavans, et autres personnages illustres de l’Europe, Paris 1683.
35 Comunicazione anonima su MENESTRIER , La philosophie des images cit., p. 131.
36 GEORG ANDREAS BÖCKLER, Ars heraldica, Das ist: Die Hoch-Edle Teutsche Adels-Kunst,
Nürnberg 1688, p. 131. [Von Blättern. Man findet selten Blätter in den Wappen wo sie aber gefunden
werden so führen sie die Deutung der Warheit weilen sie etlicher Massen der Zungen und dem Herzen
gleichen].
37 Ibid., p. 140. [Von Wolcken. Gleichwie die Wolcken sich übersich (!) in die Höhe schwingen
hernach fruchtbaren Regen herab giessen davon das Feld Frücht und Menschen erfrischet und
erquicket werden also soll auch ein Adeliches Gemüth in Tugend-Sachen gleichsam in die Höhe
aufsteigen alsdenn mit seinen Gaben dem Vatterland zu dienen beflissen seyn].
38 Ibid., p. 109. [Die weise (!) Pferde bedeuten den obsiegenden Frieden nach geendigtem Krieg und
zugleich auch die Geschwindigkeit].
39 Ibid., p. 81. [Roth zu Silber Verlangen sich zu rächen].
44 JOHANN JOACHIM WINCKELMANN, Versuch einer Allegorie besonders für die Kunst, Leipzig 1866,
pp. 143 sgg.
45 HERMANN COHEN, Ästhetik des reinen Gefühls, Berlin 1912, vol. II), p. 305.
46 CARL HORST, Barockprobleme, München 1912, pp. 39 sgg.; cfr. anche pp. 41 sgg.
47 BORINSKI , Die Antike in Poetik und Kunsttheorie cit., vol. I, pp. 193 sgg.
49 AUGUST BÜCHNER, Wegweiser zur deutschen Tichtkunst [Guida di A. B. all’arte poetica tedesca],
Jehna, s. d. [1663], pp. 80 sgg.; cit. in BORCHERDT , Augustus Buchner cit., p. 81. [Daß bishero unsern
Opitius niemand in der teutschen Poeterey nur gleichkommen, viel weniger überlegen sein können
(welches auch ins künftige nicht geschehen wird), ist die vornehmste Ursache, daß neben der
sonderbaren Geschicklichkeit der trefflichen Natur, so in ihm ist, er in der Latiner und Griechen
Schriften sowohl (!) belesen und selbe so artig auszudrücken und inventieren weiß].
50 PAUL HANKAMER, Die Sprache. Ihr Begriff und ihre Deutung im sechzehnten und siebzehnten
Jahrhundert, ein Beitrag zur Frage der literarhistorischen Gliederung des Zeitraums, Bonn 1927, p. 135.
51 BURDACH , Reformation cit., p. 278.
52 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 90) [V,472]). [Cosí, attraverso
la morte si deve penetrare in quella vita, | Che a noi trasforma la notte d’Egitto nel giorno di Gosem, | E
concede la veste carica di perle dell’eternità].
53 LOHENSTEIN , Römische Trauerspiele cit., p. 50 (Agrippina, II, 380 sgg.). [Una bella donna, che
mille ornamenti dipingono, | Una tavola inconsumabile, che di sé molti sazia, | Una fonte inestinguibile,
che dà sempre acqua, | E anzi dolce latte d’amore; anche se in cento canne | Si riversa il dolce zucchero.
È una dottrina malvagia, | È una forma di bieca invidia, rifiutare ad altri | Il cibo, che li ristora, ma che
non si consuma].
54 Cfr. KOLITZ , Johann Christian Hallmanns Dramen cit., pp. 166 sgg.
55 WINCKELMANN , Versuch einer Allegorie besonders für die Kunst cit., p. 19.
59 JOHANN HEINRICH MERCK, Ausgewählte Schriften zur schönen Literatur und Kunst, a cura di A.
Stahr, Oldenburg 1840, p. 308.
60 STRICH , Der lyrische Stil des siebzehnten Jahrhunderts cit., p. 39.
61 FRANZ VON BAADER, Sämmtliche Werke, Leipzig 1851, vol. II, p. 129.
62 Ibid.
64 Ibid., p. 555.
67 WINCKELMANN , Versuch einer Allegorie besonders für die Kunst cit., p. 27; cfr. anche CREUZER ,
Symbolik und Mythologie cit., pp. 67 e 109 sg.
68 Ibid., p. 64.
69 Ibid., p. 147.
Dreyständige Sinnbilder 1.
Quello che nella pittura barocca è l’effetto di luce, è qui la sentenza: essa
brilla con la sua luce cruda nel buio dell’intreccio allegorico. E anche qui c’è
un ponte che collega l’allegoria con antiche forme espressive. Se Wilken, nel
suo scritto Über die kritische Behandlung der geistlichen Spiele [Sopra la
considerazione critica dei drammi ecclesiastici] paragona le didascalie di
questi drammi a quei cartigli che «negli antichi dipinti venivano associati alle
immagini dei personaggi, uscendo dalle loro bocche» 35, la stessa cosa si può
dire di molti passi dei drammi barocchi. Venticinque anni fa R. M. Meyer
poteva ancora scrivere: «Ci disturba vedere, nei dipinti degli antichi maestri,
quei cartigli che pendono dalla bocca dei personaggi ... e ci fa quasi
rabbrividire l’idea che un tempo tutte le figure prodotte dalle mani di un
artista portavano in bocca un cartiglio del genere, una scritta che l’osservatore
doveva leggere come una lettera, per poi dimenticarsi del suo messaggero. E
tuttavia non possiamo ... perdere di vista una cosa: che questa concezione
quasi infantile del singolo particolare poggiava su una grandiosa concezione
d’insieme» 36. Ora, questa rivalutazione estemporanea non solo è fatta a
malincuore, ma è anche ben lontana da una comprensione effettiva della cosa,
come dimostra l’autore stesso spiegando che questa concezione proverrebbe
dai «tempi arcaici», quando «tutto era animato». Al contrario – e si tratterà di
mostrarlo – rispetto al simbolo l’allegoria occidentale è una forma tarda,
basata su contrasti culturali molto pregnanti. La sentenza allegorica può
essere paragonata al cartiglio. Ma si potrebbe anche definirla come una
cornice, come uno schema obbligato, a cui l’azione, sempre rinnovandosi, si
adatta di volta in volta per apparirvi come soggetto emblematico. Ciò che
contraddistingue il dramma barocco non è dunque affatto l’immobilità o
anche solo la lentezza dell’azione – «au lieu du mouvement on rencontre
l’immobilité» 37, osserva Wysocki – ma il ritmo intermittente di un costante
indugiare, di un repentino rovesciamento e di un rinnovato irrigidirsi.
Quanto piú un verso vuole qualificarsi come sentenza, tanto piú il poeta
farà ricorso a nomi di cose, che corrispondano a una descrizione emblematica
del concetto. L’oggetto, il cui significato è già implicito nel dramma barocco,
prima che il dramma del destino lo porti ufficialmente alla luce, esce dallo
stato di latenza già nel XVIII secolo nella forma della metafora emblematica. In
una storia dello stile di quest’epoca – come quella progettata ma non
realizzata da Erich Schmidt 38 – si potrebbe riempire un sontuoso capitolo con
le testimonianze di questa maniera figurativa. In tutti questi esempi, la
metaforica proliferante e il «carattere esclusivamente sensibile» dei
personaggi 39 tradiscono l’inclinazione all’espressione allegorica, ma non
vanno attribuiti invece a una presunta «sensualità poetica», perché proprio il
linguaggio di questi testi, anche quello poetico, evita una continua
accentuazione dell’elemento metaforico su cui pure esso poggia. E viceversa,
voler vedere in quella maniera «alla moda» di parlare un principio teso a
«spogliare ... la lingua di una parte del suo contenuto sensibile, e a renderla
piú astratta», un principio «che si manifesta in tutti i tentativi di mettere la
lingua al servizio di un uso sociale piú raffinato» 40, è altrettanto sbagliato:
l’errore è quello di estendere un principio valido per il linguaggio dei
bellimbusti à la mode alla «moda» della grande poesia dell’epoca. Poiché la
preziosità di questa forma espressiva, come del Barocco in generale, consiste
in gran parte nella predilezione per i termini dal significato concreto. E la
mania da un lato di farne costantemente uso, dall’altro di mostrare l’antitesi
elegante è cosí spiccata, che se proprio il termine astratto appare inevitabile,
gli verrà abbinato quasi sempre un termine concreto, nella forma di un
neologismo. Per esempio: il «fulmine della calunnia» [Verleumbdungs-
Blitz] 41, il «veleno della superbia» [Hoffahrst-Gifft] 42, i «cedri dell’innocenza»
[Unschulds-Zedern] 43, il «sangue dell’amicizia» [Freundschaffts-Blut] 44.
Oppure:
«Ogni idea – osserva molto giustamente Cysarz – per quanto astratta viene
stampata in un’immagine, e quest’immagine a sua volta, per quanto concreta,
viene ritagliata in parole» 47. Nessuno, fra i drammaturghi dell’epoca, soggiace
a questa maniera come Hallmann. Essa finisce per guastargli la trama
concettuale dei dialoghi. Non appena infatti si accenna una disputa, subito
l’uno o l’altro dei dialoganti la trasforma in una similitudine, la quale prolifera
con piú o meno varianti. Osservando che «il palazzo della Virtú non può
ospitare la Voluttà», Sohemo offende gravemente Erode, ma quest’ultimo,
ben lontano dal cogliere l’offesa, sprofonda di già nell’allegoria: «Si vede
anche la verbena fiorire accanto alle nobili rose» 48. Cosí, varie volte, i concetti
si dissolvono in immagini 49. Vari storici della letteratura hanno segnalato gli
accostamenti linguistici abnormi a cui soprattutto Hallmann indulge nella sua
caccia ai «concetti» 50.
Die Frauen-List
Tutto ciò è non meno oscuro e non meno allusivo dei «salmi» di un
Quirinus Kuhlmann. La critica razionalistica, che rifiuta questo tipo di
composizioni, polemizza contro la loro allegoresi linguistica. «Quale oscurità
geroglifica ed enigmatica pesa su tutta l’espressione» 58, si dice di un passo
della Cleopatra di Lohenstein nella Critische Abhandlung von der Natur, den
Absichten und dem Gebrauche der Gleichnisse di Breitinger.
In effetti questa poesia era incapace di liberare nel suono vivo della lingua
il senso profondo confinato nei suoi ideogrammi significativi. Il suo
linguaggio è pieno di sfarzo materiale. Mai è stata composta una poesia meno
alata. Né si può dire che la reinterpretazione della tragedia classica sia piú
ostica della nuova forma dell’inno, che intendeva eguagliare il volo – per
quanto oscuro e barocco – di Pindaro. Al dramma barocco tedesco non è dato
– per dirla con Baader – di dar voce ai suoi geroglifici. Perché la sua scrittura
non si trasfigura in suono: il suo mondo rimane concentrato su se stesso,
tutto teso a sviluppare la propria cupa vitalità. Scrittura e suono si
contrappongono in una polarità piena di tensione. Il loro rapporto fonda una
dialettica, alla luce della quale la «ridondanza» si legittima come gesto
linguistico calcolato e costruttivo. A dire il vero, questa visione della cosa –
nella sua ricchezza e felicità – appare del tutto ovvia a chi risalga direttamente
alle fonti. Solo piú tardi, quando la vertigine di fronte alla profondità
dell’abisso travolse le forze del pensiero indagante, l’ampollosità poté
diventare lo spauracchio della stilistica epigonale. La frattura tra ideografia
significante ed ebbrezza del suono, come una fenditura che attraversi il solido
massiccio del significato, costringe lo sguardo ad immergersi nella profondità
del linguaggio. E sebbene il Barocco non abbia conosciuto una riflessione
filosofica su questo tema, gli scritti di Böhme forniscono cenni rilevanti in
proposito. Jakob Böhme, uno dei piú grandi allegoristi, quando viene a
parlare del linguaggio tiene in alta considerazione il valore del suono rispetto
alla muta profondità. È lui a sviluppare la dottrina della lingua «sensuale» o
«naturale». E tale lingua – ciò è decisivo – non è il farsi suono del mondo
allegorico, che resta al contrario relegato nel silenzio. «Barocco linguistico» e
«Barocco figurativo» – per usare le formule coniate da Cysarz – sono fondati
polarmente l’uno nell’altro. La tensione tra parola e scrittura è nel Barocco
smisurata. La parola è, per cosí dire, l’estasi della creatura, è denudamento,
dismisura, impotenza davanti a Dio; mentre la scrittura è il suo raccogliersi, è
dignità, superiorità, onnipotenza sulle cose del mondo. Cosí almeno nel
dramma barocco, mentre la visione piú cordiale di Böhme offre una visione
piú positiva del linguaggio fonetico. «La Parola eterna ossia il suono o la voce
di Dio, che è uno spirito, si è introdotta nelle forme ovvero in una parola
espressa o in un suono con la generazione del grande Mysterium; e quale è in
se stesso il gioco gioioso dello spirito nella generazione eterna, tale è lo
strumento, ossia la forma espressa in se stessa, che il suono vivente guida, e
percuote con la sua eterna volontà spirituale, cosí da farla risuonare ed
echeggiare, come un organo a molte voci è mosso da un’unica aria, in modo
che ogni voce, anzi ogni canna emette la propria nota» 60. «Tutto ciò che si
dice, si scrive o si insegna di Dio, senza la conoscenza della segnatura è muto
e privo di senso, perché viene dalla vanità della storia, da un’altra bocca, dove
lo spirito senza conoscenza è muto: ma se lo spirito dischiude la segnatura,
allora esso comprende l’altra bocca, e comprende inoltre come lo spirito ... si
sia rivelato nel suono con la voce ... E cosí dalla forma esterna di tutte le
creature, dai loro impulsi e desideri, dal suono che emettono, dalla loro voce
o lingua, si conosce lo spirito nascosto ... Ogni cosa ha la sua bocca per
manifestarsi. E questa è la lingua naturale, da cui ogni cosa parla secondo la
sua proprietà, e sempre si manifesta» 61. Il linguaggio fonetico è dunque
l’ambito della manifestazione libera, originaria della creatura, mentre la
scrittura allegorica cattura le cose negli intrecci eccentrici del significato.
Questa lingua, che in Böhme è quella dei beati, nei versi del dramma barocco
quella delle creature cadute, è considerata, in quanto naturale, non dal punto
di vista della sua espressione ma della sua genesi. «Intorno alle parole c’è
questa antica controversia, se esse, in quanto segni esterni del nostro interno
concetto siano per natura o per elezione, naturali o arbitrarie, φύσει o ϑέσει: e
per quanto riguarda le parole nelle lingue principali, ciò viene attribuito dai
dotti a un singolare effetto di natura» 62. Naturalmente tra le «lingue
principali» primeggiava il «tedesco, lingua dei capi e degli eroi», come è
definito per la prima volta nella Geschichtklitterung di Fischart del 1575. La
sua derivazione diretta dall’ebraico era teoria diffusa, e nemmeno la piú
radicale. Altri facevano addirittura risalire l’ebraico, il greco e il latino al
tedesco. In Germania, dice Borinski, si «dimostrava storicamente, a partire
dalla Bibbia, che in origine il mondo intero, e quindi anche l’antichità
classica, era tedesco» 63. Cosí da un lato si cercava di appro-priarsi delle
culture piú remote, dall’altro ci si preoccupava di mascherare l’artificiosità di
questo atteggiamento e di raggiungere una drastica riduzione della
prospettiva storica. Tutto si trova esposto nello stesso spazio senza atmosfera.
Ma per quanto riguarda la riduzione dei fenomeni fonetici a uno stato
linguistico originario, ne abbiamo due versioni, una spiritualistica e una
naturalistica. La teoria di Böhme e la prassi della scuola di Norimberga
rappresentano i due estremi. Ed entrambi trovano uno spunto ovviamente
solo oggettivo nello Scaligero. Si tratta di un passo della Poetica decisamente
curioso: «In A, latitudo. In I, longitudo. In E, profunditas. In O, coarctatio ...
Multum potest ad animi suspensionem, quae in Voto, in Religione:
praesertim cum producitur, vt dij. etiam cum corripitur: Pij. Et ad tractum
omnem denique designandum, Littora, Lites, Lituus, It, Ira, Mitis, Diues,
Ciere, Dicere, Diripiunt ... Dij, Pij, Iit: non sine manifestissima spiritus
profectione. Lituus non sine soni, quem significat, similitudine ... P, tamen
quandam quaerit firmitatem. Agnosco enim in Piget, pudet, poenitet, pax,
pugna, pes, paruus, pono, pauor, piger, aliquam fictionem. Parce metu,
constantiam quandam insinuat. Et Pastor plenius, quam Castor. sic Plenum
ipsum, et Purum, Posco, et alia eiusmodi. T, vero plurimum sese ostentat: Est
enim litera sonitus explicatrix, fit namque sonus aut per S, aut per R, aut per
T. Tuba, tonitru, tundo. Sed in fine tametsi maximam verborum claudit apud
Latinos partem, tamen in iis, quae sonum afferunt, affert ipsum quoque soni
non minus. Rupit enim plus rumpit, quam Rumpo» 64. Le speculazioni
fonetiche di Böhme sono analoghe, anche se indipendenti dallo Scaligero. Egli
sente la lingua delle creature «non come un regno delle parole... ma risolta
nelle voci e nei suoni» 65. «La A era per lui la prima lettera, quella che esce dal
cuore, la I era il centro dell’amore supremo, la R, poiché “raspa, crepita e
stride”, ha il carattere della sorgente del fuoco, la S era per lui il fuoco
sacro» 66. Si può avanzare un’ipotesi: l’evidenza che queste descrizioni
possedevano allora era dovuta in parte alla vitalità dei dialetti, ancora in piena
fioritura ovunque. I tentativi di normalizzazione intrapresi dalle
Sprachgesellschaften si limitavano infatti al tedesco scritto. Sull’altro versante
la lingua creaturale veniva descritta, naturalisticamente, come un prodotto
onomatopeico. La poetica di Buchner è in questo senso esemplare, ma non fa
altro che sviluppare le tesi del suo maestro Opitz 67. È vero che, secondo
Buchner, una vera e propria onomatopea non si addice alla dignità del
dramma 68. Ma si può dire che proprio il pathos è il suono naturale del
dramma barocco. La scuola di Norimberga è quella che si spinge piú lontano.
Klai afferma che «non vi è nessuna parola in tedesco la quale non esprima ciò
che significa mediante una “particolare similitudine”» 69. Harsdörffer formula
la stessa tesi alla rovescia. «La natura parla in tutte le cose, che danno un
suono di sé, la nostra lingua tedesca e perciò molti hanno voluto sostenere
che Adamo, il primo uomo, non poté chiamare gli uccelli e gli altri animali
della terra se non con le nostre parole, poiché egli esprimeva in modo
conforme alla natura ogni proprietà innata e di per sé sonora; e non vi è
perciò da meravigliarsi che le radici della nostra lingua coincidano in
massima parte con quelle della lingua sacra» 70. Di qui egli deduceva il
compito della lirica tedesca, ossia «catturare questa lingua della natura in
parole e in ritmi. Per lui come anche per Birken tale lirica era addirittura un
compito religioso, perché è Dio che si manifesta... nello stormire delle foreste
e nel rombo dell’uragano» 71. Idee analoghe ritornano nello Sturm und Drang.
«La lingua universale dei popoli è fatta di lacrime e sospiri; io comprendo
anche l’inerme ottentotto, e, com’è vero che sono nato a Taranto, non sarò
mai sordo con Dio ... La polvere ha una volontà, ecco il mio pensiero piú
sublime verso il Creatore, e l’impulso onnipotente alla libertà mi appare
anche nel contorcersi di una mosca» 72. Questa è la filosofia della creatura e
del suo linguaggio, sciolta dal contesto dell’allegoria.
LEO Diß hauß wird stehn, dafern des hauses feinde fallen.
THEODOSIA Wo nicht ihr fall verletzt, die dieses hauß umwallen.
LEO Umwallen mit dem schwerdt.
THEODOSIA Mit dem sie uns beschützt.
LEO Das sie auf uns gezuckt.
THEODOSIA Die unsern stuhl gestützt 79.
La tensione fonetica che si riscontra nella lingua del XVII secolo porta
direttamente alla musica come controparte del discorso significativo. Se è
vero che tutte le radici del dramma barocco si intrecciano con quelle del
dramma pastorale, ciò avviene anche in questo caso. Quell’elemento che nel
dramma barocco si insedia fin dall’inizio nella forma danzante del Reyen, e
poi sempre piú in quella del coro parlato in stile oratorio, nel dramma
pastorale appare senz’altro come operistico. La «passione per l’organico» 85, di
cui si è parlato da tempo a proposito del Barocco figurativo, non è cosí facile
da circoscrivere in ambito poetico. E va comunque sottolineato che, con
quella formulazione, non si deve pensare tanto alla forma esterna, quanto
all’intima e segreta strutturazione dell’organico. È da questo interno che
proviene la voce, e, a ben guardare, sta proprio in suo potere, se si vuole, il
momento organico della poesia, come si può studiarlo soprattutto in
Hallmann, negli episodi in stile oratoriale. Egli scrive:
Per ragioni stilistiche si dovrà supporre che questi passi venissero recitati
in coro 87. Cosí Flemming può dire di Gryphius: «Non ci si poteva aspettare
troppo dalle parti secondarie. Perciò egli le fa parlare poco, preferisce
raccoglierle nel coro, e cosí ottiene effetti artistici importanti che non avrebbe
potuto raggiungere con parti singole di tipo naturalistico. Cosí l’artista piega a
vantaggio dell’effetto artistico i vincoli posti dal materiale» 88. Si pensi ai
giudici, ai congiurati e alle comparse del Leo Armenius, ai cortigiani della
Catharina, alle vergini della Julia. Andava inoltre in direzione dell’opera
l’ouverture musicale, che precedeva lo spettacolo fra i gesuiti e i protestanti.
Anche gli inserti coreografici, come pure lo stile «coreografico» (in senso piú
profondo) degli intrighi, non sono estranei a questo sviluppo, che alla fine del
secolo porterà il dramma a risolversi nell’opera. I nessi a cui queste
osservazioni si richiamano sono stati sviluppati da Nietzsche nella Nascita
della tragedia. La sua preoccupazione era di contrapporre adeguatamente il
Gesamtkunstwerk wagneriano all’opera giocosa quale si era andata
preparando nel Barocco. Egli le dichiara guerra col rifiuto del recitativo. E
cosí egli appoggia quella forma che corrispondeva cosí profondamente a una
tendenza alla moda, quella di ridar vita al suono originario della creatura.
«Era consentito abbandonarsi al sogno di un ritorno agli esordi paradisiaci
dell’umanità, nei quali anche la musica fosse necessariamente dotata di quella
insuperabile purezza e potenza e innocenza, di cui i poeti sapevano parlare in
modo cosí commovente nei loro poemi pastorali ... Il recitativo significava
appunto il rinvenimento del linguaggio di quell’uomo primordiale, il
melodramma il ritrovamento del paese di quell’essere idillicamente o
eroicamente buono, il quale in tutte le sue azioni segue, insieme, un istinto
artistico naturale, canta sempre almeno un poco qualunque cosa abbia da
dire, per poi subito cantare a piena voce al piú leggero moto del sentimento ...
L’uomo artisticamente impotente si costruisce un genere d’arte posticcia,
precisamente perché è un uomo congenitamente non-artista. Appunto perché
non ha alcun sentore della profondità dionisiaca della musica, egli trasforma a
sua volta il godimento musicale in una retorica intellettuale della passione
verseggiata e suonata nello stile rappresentativo, e in un voluttuoso diletto
delle arti del canto; poiché non può contemplare alcuna visione intima,
chiama a suo servigio i macchinisti e gli artisti decorativi; poiché non sa
concepire la vera natura dell’artista, rievoca secondo il proprio gusto “l’uomo
artistico originario”, vale a dire l’uomo che nella sua passione canta e
verseggia» 89. Benché il confronto con la tragedia – e tanto piú con quella
musicale – sia inadeguato alla comprensione dell’opera, è innegabile che, dal
punto di vista della poesia e in particolare del dramma barocco, l’opera appaia
come il prodotto di una decadenza. Il significato e l’intreccio perdono il loro
peso e la loro funzione bloccante, e la trama operistica – come pure il suo
linguaggio – scivolano via senza resistenze fino a sfociare nella banalità.
Insieme al blocco svanisce anche il lutto, l’anima dell’opera, e se si svuota la
compagine drammatica si svuota anche quella scenica: e poiché l’allegoria, se
non scompare del tutto, si riduce a un sordo ornamento, la scena dovrà
cercarsi una nuova giustificazione.
Il gusto voluttuoso del puro suono ha la sua parte nella decadenza del
dramma barocco. Cionondimeno – e non per volontà degli autori, ma per la
sua stessa essenza – la musica è intimamente connessa al dramma allegorico.
Perlomeno ciò verrebbe insegnato dalla filosofia della musica dei romantici,
che converrà qui chiamare in causa, legati al Barocco da un’affinità elettiva. In
essa, e solo in essa, troveremmo la sintesi di quella contrapposizione che il
Barocco teneva accuratamente irrisolta, e comprenderemmo insieme le buone
ragioni di quella antitesi. Se non altro, è proprio questa visione romantica del
dramma barocco a sollevare la questione perché mai in Shakespeare e in
Calderón la musica non svolga un ruolo puramente teatrale. Perché è
appunto questo che accade. Cosí, le osservazioni seguenti del geniale Johann
Wilhelm Ritter potrebbero aprire una prospettiva, che sarebbe peraltro
irresponsabile voler percorrere improvvisando. Bisognerebbe intraprendere
un’indagine storico-filosofica di ampio respiro sui rapporti fra linguaggio,
musica e scrittura. Quelli che citiamo sono alcuni passi di un lungo saggio,
per cosí dire monologante, che ha la forma di una lettera sulle «figure sonore»
di Chladni, e dalla quale affiorano, sotto la penna e quasi senza volerlo, una
quantità di pensieri vigorosi o di intuizioni suggestive: «Sarebbe bello»,
osserva Richter a proposito di quelle linee che si disegnano su un disco di
vetro coperto di sabbia, percuotendolo in modo da ottenerne le varie note, «se
quel che ci appare qui esternamente fosse anche l’esatto significato della
figura sonora: figura di luce, scrittura di fuoco ... Ogni nota ha cosí
immediatamente la sua lettera accanto a sé ... Il rapporto cosí intimo tra
parola e scrittura – il fatto che, parlando, scriviamo ... mi ha occupato a lungo.
Mi dico: come si trasforma per noi il pensiero, l’idea in parola? E abbiamo
mai un pensiero, un’idea, senza il suo geroglifico, la sua lettera, la sua
scrittura? Certamente è cosí; ma per il solito non ci pensiamo. Che però una
volta, ai tempi di una natura umana piú vigorosa, ci si pensasse di piú, lo
dimostra l’esistenza stessa di parola e scrittura. La loro simultaneità
originaria, e assoluta, risiede nel fatto che lo stesso organo del linguaggio
scrive, per poter parlare. Solo la lettera parla, o meglio, parola e scrittura sono
in origine una cosa sola, e nessuna delle due è possibile senza l’altra ... Ogni
figura sonora è una figura elettrica, e ogni figura elettrica è una figura
sonora» 90. «Volevo ... dunque ritrovare o comunque cercare per via elettrica
la scrittura originaria o naturale» 91. «L’intera creazione è realmente
linguaggio, ed è creata letteralmente attraverso la parola, la parola creata e
creatrice ... A questa parola è però inseparabilmente congiunta la lettera, sia
nel grande che nel piccolo» 92. «In questa scrittura, o riscrittura, o trascrizione,
rientrano in particolare tutte le arti figurative: architettura, scultura, pittura
ecc.» 93. Con questa esposizione la virtuale teoria romantica dell’allegoria si
chiude su una nota quasi interrogativa. E rispondere a quella domanda
significherebbe riportare la divinazione di Ritter sotto concetti adeguati:
avvicinare sí il linguaggio verbale a quello scritto, ma non identificarli se non
dialetticamente come tesi e antitesi; garantire al termine medio della musica –
l’ultima lingua universale dopo la costruzione della Torre – il posto centrale
che le spetta, quello di antitesi; e studiare come la scrittura cresca a partire da
essa, ma non immediatamente dal suono linguistico. Compiti che vanno ben
oltre l’ambito delle intuizioni romantiche, come pure di un filosofare non
teologico. Benché rimasta allo stato virtuale, questa teoria romantica
dell’allegorico attesta in modo innegabile la parentela tra Barocco e
Romanticismo. Inutile aggiungere che le trattazioni esplicite dell’allegoria,
come quella di Friedrich Schlegel nel Gespräch über die Poesie 94, non
raggiungono la profondità dei passi di Ritter: conformemente al linguaggio
vago di Schlegel, l’affermazione che ogni bellezza è allegoria non fa anzi altro
che proporre il luogo comune classicistico secondo cui essa è simbolo.
Diverso il caso di Ritter. Con la sua tesi che ogni immagine è ideogramma egli
va direttamente al cuore della visione allegorica. Nel contesto dell’allegoria
l’immagine è soltanto segnatura, monogramma dell’essere, e non l’essere
stesso nel suo involucro. E tuttavia la scrittura non ha in sé nulla di ancillare,
non cade durante la lettura come una scoria. Essa penetra nella cosa letta
come la sua «figura». Gli stampatori, anzi i poeti del Barocco, hanno dedicato
alla scrittura figurale la massima attenzione. Si sa che Lohenstein usava
«riportare sulla carta, e nei suoi caratteri migliori, la didascalia dell’incisione
“Castus amor Cygnis vehitur, Venus improba corvis”» 95. Herder ritiene – e
ciò vale ancora oggi – che la letteratura barocca sia «quasi insuperata ... nella
stampa e nelle ornamentazioni» 96. L’idea dei rapporti fra linguaggio e
scrittura, che fondano filosoficamente l’allegorico e che racchiudono in sé la
soluzione della loro autentica tensione, non era dunque del tutto estranea al
pensiero dell’epoca. In caso contrario infatti coglierebbe nel segno l’ipotesi,
intelligente e illuminante, di Strich sui poemi calligrammatici, i quali
«potrebbero fondarsi sulla concezione per cui la lunghezza variabile dei versi,
se riproduce una forma organica, deve anche produrre un ritmo
organicamente ascendente e discendente» 97. Va senz’altro in questa direzione
l’opinione di Birken, messa in bocca al Floridano della Dannebergische
Helden-Beut, secondo cui «ogni evento naturale in questo mondo potrebbe
essere l’effetto o la materializzazione di un’eco o di un suono cosmico, anche
il movimento degli astri» 98. È qui che si realizza, sul piano della teoria del
linguaggio, l’unità tra il Barocco linguistico e il Barocco figurativo.
1 FRANZ JULIUS VON DEM KNESEBECK, Dreyständige Sinnbilder, Braunschweig 1643, tavola. [Parole
private della forza, siete frammenti staccati | E povere strisce d’ombra, da sole ritiratevi; | Associate a un
dipinto sarete ammesse, | Se un profondo simbolo aiuti a cogliere l’occulto].
2 WACKERNAGEL , Über die dramatische Poesie cit., p. 11.
3 LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., p. 331 (Sophonisbe, IV, 563 sgg.). [Bene! Cosí vedremo
tra poco la bellezza dell’angelo! | Bisogna che le tolga la veste presa a prestito. | Può avvicinarsi un
mendicante vestito peggio di cosí? | Chi non fuggirebbe davanti a questa schiava? | Ma butta via anche il
mantello da mendicante. | Guarda: un maiale, a guardarlo, è forse piú lercio? | Questa è la chiazza di un
tumore e questa della lebbra. | E non ti senti tu stessa inorridita di quel gonfiore e del pus? | Il volto della
voluttà è quello di un cigno, il corpo di un maiale. | E togliamo dal volto i belletti. | Qua la carne
marcisce, lí la zecca penetra divorando; | Cosí si mutano in escrementi i gigli della voluttà. | E non basta!
Spogliati anche degli stracci, | Che cosa viene in luce? Una carogna, uno scheletro morto. | Ora guarda
anche l’interno della voluttà: | Sí che la si trascini nel fosso delle carogne!]
4 MÜLLER , Beiträge zum Leben und Dichten Daniel Caspers von Lohenstein cit., p. 94.
7 JULIUS LEOPOLD KLEIN, Geschichte des englischen Drama’s, Leipzig 1876, vol. II, p. 57.
8 Cfr. HANS STEINBERG, Die Reyen in den Trauerspielen des Andreas Gryphius, dissertazione,
Göttingen 1914, p. 107.
9 KOLITZ , Johann Christian Hallmanns Dramen cit., p. 182.
11 Ibid., p. 168.
12 STEINBERG , Die Reyen in den Trauerspielen des Andreas Gryphius cit., p. 76.
14 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 599 (Ämilius Paulus Papinianus, indicazioni per la messinscena).
15 STEINBERG , Die Reyen in den Trauerspielen des Andreas Gryphius cit., p. 76.
16 Cfr. LOHENSTEIN , Afrikanische Trauerspiele cit., pp. 275 sgg. (Sophonisbe, I, 513 sgg.).
18 Ibid., p. 111.
19 Cfr. GRYPHIUS , Trauerspiele cit., pp. 310 sgg. (Cardenio und Celinde, IV, 1 sgg.).
27 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 269 (Cardenio und Celinde). [Wie nun Catharine den sieg der
heiligen liebe über den tod vorhin gewiesen, so zeigen diese den triumph oder das sieges-gepränge des
todes über die irdische liebe].
28 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit., p. 3. [... ist die Sinnreiche und über den Todt
triumphierende Liebe].
29 Cfr. FRANCESCO PETRARCA, Sechs Triumphi oder Siegesprachten, Cöthen 1643.
30 HALLMANN , Leichreden cit., p. 124. [Die Italiäner gleich wie sie in allen Erfindungen excelliren:
also haben sie nichts weniger in Emblematischer Entschattung (der) Menschlichen Unglückseligket...
ihre Kunst erwiesen].
31 Herodes der Kindermörder, Nach Art eines Trauerspiels ausgebildet und in Nürnberg Einer
Teutschliebenden Gemeine vorgestellet durch Johann Klaj, Nürnberg 1645; cit. in TITTMANN , Die
Nürnberger Dichterschule cit., p. 156.
32 HARSDÖRFFER , Poetischer Trichter cit., 2, p. 81. [Die Lehr- und Denksprüche sind gleichsam des
Trauerspiels Grundseulen; Solche aber müssen nicht von Dienern und geringen Leuten sondern von
den fürnemsten und ältsten Personen angeführet... werden].
33 Cfr. HALLMANN , Leichreden cit., p. 7.
34 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 512 (Ämilius Paulus Papinianus, I, 1 sgg.). [Chi su tutti ascende e
dalla superba altezza | Dei ricchi onori guarda quanto misera sia la plebe, | Come sotto di lui un regno
esploda in vivide fiamme, | Come là la schiuma delle onde allaghi i campi | E qui la collera celeste,
mischiata a fulmini e tuoni, | Penetri in torri e templi, e come il caldo giorno | Bruci ciò che la notte
rinfresca, e le proprie vittoriose insegne | Vede qua e là frammiste a migliaia di cadaveri, | Costui ha (lo
concedo) gran vantaggio sul volgo. | Ma, ahimè! Come è facile che lo colgano le vertigini!]
35 ERNST WILKEN, Über die kritische Behandlung der geistlichen Spiele, Halle 1873, p. 10.
40 FRITZ SCHRAMM, Schlagworte der Alamodezeit, Straßburg 1914, p. 2; cfr. anche pp. 31 sgg.
45 Ibid., p. 5 (I, 126 sg.). [Cosí, poiché anche Marianna morde come una vipera | E preferisce la bile
della discordia allo zucchero della pace].
46 Ibid., (Theodoricus Veronensis, p. 102 [V, 285 sgg.]). [Anche Teodorico ha navigato sul mare, |
Dove invece delle onde, ghiaccio; invece del sole, un veleno segreto; | Invece dei remi, la spada e la
scure; delle vele, ragnatele; | Dell’ancora, perfido piombo, circondano il vetro della navicella].
47 [Citazione non reperibile].
48 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 65 [IV, 397 sg.]). [Man siehet
Eisen-Kraut bey edlen Rosen blühn].
49 Ibid., p. 57 [IV, 132 sgg.].
50 Cfr. STACHEL , Seneca und das deutsche Renaissancedrama cit., pp. 336 sgg.
51 HALLMANN , Trauer-, Freuden, und Schäferspiele cit. (Mariamne, p. 42 [III, 160 sg.]). [Bocca ed
animo stanno in uno scrigno di spergiuri | A cui l’ardente zelo ha ora aperto i chiavistelli].
52 Ibid., p. 101 (V, 826 sg.). [Guardate, come a Ferora la triste veste mortuaria | Viene porta in un
bicchiere di veleno].
53 Ibid., p. 76 (V, 78). [Nel caso che possa venire in luce la verità del misfatto | Che la bocca di
Marianna ha succhiato impuro latte | Dal petto di Tiridate, si compia tosto | Quanto Iddio e la legge
comandano, e il consiglio ed il re decidono].
54 Ibid., Mariamne, p. 62 (IV, 296); cfr. anche Mariamne, p. 12 (I, 351); pp. 38 sg. (III, 32 e 59); p. 76
(V, 83) e p. 91 (V, 516); Sophia, p. 9 (I, 260); cfr. HALLMANN , Leichreden cit., p. 497.
55 [Probabilmente per Dolch («pugnale»)].
56 Mariamne, p. 16 (I, 449 sgg.). [L’astuzia delle donne: Quando la mia serpe sta tra le nobili rose, | E
guizzando sugge il succo pieno di saggezza, | Anche Sansone è vinto da Dalila, | E presto orbato della
forza sovrumana: | Se Giuseppe ha portato la bandiera di Giunone | Ed Erode l’ha baciato sul suo
cocchio, | Guardate, come un pugnale incide questa carta | Perché la sua dolce metà gli intaglia con
astuzia la bara].
57 HAUGWITZ , Prodromus Poeticus cit. (Maria Stuarda, p. 35 [II, 125 sgg.]). [Egli agita il mare dei
nostri cuori, | Cosicché il superbo fiotto di quelle onde | Spesso ci procura aspri dolori, | Ma è soltanto il
fiume prodigioso, | Per il cui incomprensibile moto, | Si placano i mali della nostra sventura].
58 BREITINGER , Critische Abhandlung von der Natur cit., p. 224; cfr. p. 462; cfr. inoltre JOHANN
JACOB BODMER, Critische Betrachtungen über die Poetischen Gemählde Der Dichter [Osservazioni
critiche di J. J.Bodmer a proposito delle pitture poetiche dei poeti], Zürich-Leipzig 1741, pp. 107 e 425
sgg.
59 JOHANN JACOB BODMER, Gedichte in gereimten Versen, Zürich 1754, p. 32. [Chiude i concetti in
similitudini e figure | come in un carcere].
60 JACOB BÖHME, De signatura rerum, Amsterdam 1682, p. 208. [Das ewige Wort oder Göttliche
Hall oder Stimme welche ein Geist ist das hat sich in Formungen als in ein außgesprochen Wort oder
Hall mit der Gebährung des grossen Mysterii eingeführet und wie das Freuden-spiel im Geiste der
ewigen Gebährung in sich selber ist also ist auch der Werckzeug als die außgesprochene Form in sich
selber welches der lebendige Hall führet und mit seinem eigenen ewigen Willen-geist schläget daß es
lautet und hallet gleich wie eine Orgel von vielen Stimmen mit einer einigen Lufft getrieben wird daß
eine jede Stimme ja eine jede Pfeiffe ihren Thon gibt].
61 Ibid., pp. 5, 8 sgg. [Alles was von Gott geredet geschrieben oder gelehret wird ohne die Erkäntnüß
der Signatur, das ist stumm und ohne Verstand dann es kommt nur aus einem historischen Wahn von
einem andern Mund daran der Geist ohne Erkäntnüß stumm ist: So ihm aber der Geist die Signatur
eröffnet so verstehet er des andern Mund und versteht ferner wie sich der Geist ... im Hall mit der
Stimme hat offenbahret... Dann an der äusserlichen Gestaltnüß aller Creaturen an ihrem Trieb und
Begierde item, an ihrem außgehenden Hall Stimm oder Sprache kennet man den verborgegen Geist...
Ein jedes Ding hat seinen Mund zur Offenbahrung. Und das ist die Natur-sprache daraus jedes Ding
aus seiner Eigenschafft redet und sich immer selber offenbahret].
62 KNESEBECK , Dreyständige Sinnbilder cit., Kurtzer Vorbericht an den Teutschliebenden und
geneigten Leser [Breve nota preliminare per il lettore amante del tedesco e ben disposto], f. aa/bb. [Von
der Wörtern ist diese alte Streitfrage ob dieselbige (!) als äusserliche Anzeigungen unsers inwendigen
Sinnbegriffs weren von Natur oder Chur natürlich oder willkührlich φύσει oder ϑέσει: Und wird von
den Gelahrten was die Wörter in den Hauptsprachen betrifft dieses einer sonderbaren natürlichen
Wirckung zugeschrieben].
63 BORINSKI , Die Antike in Poetik und Kunsttheorie cit., vol. II, p. 18.
64 SCALIGERO , Poetices libri septem cit., pp. 478 e 481 (IV, 47).
66 JOSEF NADLER, Literaturgeschichte der Deutschen Stämme und Landschaften, Regens-burg 1913,
vol. II: Die Neustämme von 1300, die Altstämme von 1600-1780, p. 78.
67 Cfr. anche GEORG PHILIPP HARSDÖRFFER, Schutzschrift für Die Teutsche Spracharbeit, in
Frauenzimmer Gesprächspiele I, Nürnberg 1644, p. 12.
68 Cfr. BORCHERDT , Augustus Buchner cit., pp. 84 sg. e 77, nota 2.
70 HARSDÖRFFER , Schutzschrift für die deutsche Spracharbeit cit., p. 14. [Die Natur redet in allen
Dingen welche ein Getön von sich geben unsere Teutsche Sprache und daher haben etliche wähnen
wollen der erste Mensch Adam habe das Geflügel und alle Thier auf Erden nicht anderst als mit unseren
Worten nennen können weil er jedes eingeborene selbstlautende Eigenschafft Naturmäßig ausgedruket;
und ist sich deswegen nicht zu verwundern daß unsere Stammwörter meisten Theils mit der heiligen
Sprache gleichstimmig sind].
71 STRICH , Der lyrische Stil des siebzehnten Jahrhunderts cit., pp. 45 sgg.
72 LEISEWITZ , Sämmtliche Schriften cit., pp. 45 sgg. (Julius von Tarent, II, 5).
73 MAGNUS DANIEL OMEIS, Gründliche Anleitung zur Teutschen accuraten Reim- und Dichtkunst,
Nürnberg 1704; cit. in POPP , Über den Begriff des Dramas in den deutschen Poetiken des 17.
Jahrhunderts cit., p. 45.
74 BORINSKI , Die Antike in Poetik und Kunsttheorie cit., vol. I, p. 190.
75 HARSDÖRFFER , Poetischer Trichter cit., 2, pp. 78 sg. [Warum solche Spiele meistentheils in
gebundner Rede geschrieben werden? Antwort: weil die Gemüther eiffe-rigst sollen bewegt werden ist
zu den Trauer- und Hirtenspielen das Reimgebäud bräuchlich welches gleich einer Trompeten die
Wort und Stimme einzwenget daß sie so viel grössern Nachdruk haben].
76 WERNER RICHTER, Liebeskampf 1630 und Schaubühne 1670. Ein Beitrag zur deutschen
Theatergeschichte des siebzehnten Jahrhunderts, Berlin 1910, pp. 170 sgg.
77 Cfr. FLEMMING , Geschichte des Jesuitentheaters cit., pp. 270 sgg.
78 CALDERÓN , Obras Completas, cit. (El mayor monstruo, II), p. 478. [(La lettera) dice qualcosa del
genere: | «morte» è la prima parola | in cui mi sono imbattuta; e qui | c’è scritto «onore»; qui invece c’è
scritto | «Marianna». Cielo, aiutami! | Giacché molto è detto in tre parole: | Marianna, onore e morte... |
E ancora dubito? Già mi indicano | le pieghe della lettera, | chiamandosi l’una con l’altra, | dove stanno
le doppiezze].
79 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 62 (Leo Armenius, II, 455 sgg.). [Leone: Questa casa starà in piedi,
purché cadano i nemici della casa. | Teodosia: Purché la loro caduta non colpisca coloro che questa casa
circondano. | Leone: La circondano con la spada. | Teodosia: Con cui ci hanno protetto. | Leone: Che
hanno vibrato contro di noi. | Teodosia: Loro che proteggevano il nostro seggio].
80 Cfr. STACHEL , Seneca und das deutsche Renaissancedrama cit., p. 261.
81 SCHIEBEL , Neuerbauter Schausaal cit., p. 358. [Noch heutiges Tages bekömmt manchmal ein
andächtiger Christ ein Tröpfflein Trostes (auch wohl ein Wörtgen nur aus einem geistreichen Liede
oder erbaulichen Predigt) das schlingt er (gleichsam) so appetitlich hinunter daß es ihm wohl gedeyet
inniglich afficiret und dermassen erquicket daß er bekennen muß es stecke was Göttliches darunter].
82 Cfr. Die Glorreiche Marter Joannes von Nepomuck; cit. in WEISS , Die Wiener Haupt-und
Staatsactionen cit., pp. 148 sgg.
83 [Passo non reperibile in TITTMANN , Die Nürnberger Dichterschule cit.].
86 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Sophia, p. 70 [IV, 185 sgg.]; cfr. p. 4 [I, 108
sgg.]). [Palladio: La danza dolce come zucchero è consacrata agli stessi Dèi! | Antonio: La danza dolce
come zucchero addolcisce ogni dolore! | Svetonio: La danza dolce come zucchero muove la pietra e il
ferro! | Giuliano: La danza dolce come zucchero deve lodarla lo stesso Platone! | Septizio: La danza
dolce come zucchero vince ogni piacere! | Onorio: La danza dolce come zucchero placa l’anima e il
petto!]
87 Cfr. RICHARD MARIA WERNER, Johann Christian Hallmann als Dramatiker, in «Zeitschrift für die
österreichischen Gymnasien», L (1899), p. 691. Di parere contrario è HORST STEGER, Johann Christian
Hallmann. Sein Leben und seine Werke, dissertazione, Leipzig 1909, p. 89.
88 FLEMMING , Andreas Gryphius und die Bühne cit., p. 401.
89 NIETZSCHE , Die Geburt der Tragödie cit., pp. 132 sgg.; trad. it. cit., pp. 158 sgg.
90 JOHANN WILHELM RITTER, Fragmente aus dem Nachlasse eines jungen Physikers. Ein
Taschenbuch für Freunde der Natur, Heidelberg 1810, pp. 227 sgg.; trad. it. Frammenti dall’opera
postuma di un giovane fisico, Roma 1988.
91 Ibid., p. 230.
92 Ibid., p. 242.
93 Ibid., p. 246.
94 Cfr. FRIEDRICH SCHLEGEL, Seine prosaische Jugendschriften, a cura di J. Minor, Wien 1906, vol. II:
Zur deutschen Literatur und Philosophie, p. 364; cfr. trad. it. in Dialogo sulla poesia, a cura di A.
Lavagetto, Torino 1991, p. 46.
95 MÜLLER , Beiträge zum Leben und Dichten Daniel Caspers von Lohenstein cit., p. 71.
JA WENN DER HÖCHSTE WIRD VOM KIRCH-HOF ERNDTEN EIN, SO WERD ICH TODTEN-
Tutte le argomentazioni, anche le piú audaci, che abbiamo fin qui svolto –
con un metodo qua e là ancora vago, ancora impregnato di motivi storico-
culturali – si raccolgono in realtà sotto la categoria dell’allegorico, e si
condensano nel dramma barocco come nella propria idea. La
rappresentazione può, anzi deve, insistere cosí a lungo sulla struttura
allegorica di questa forma, perché è grazie ad essa che il dramma barocco può
assimilare come proprio contenuto i materiali che gli provengono dal suo
tempo. E in ultima analisi questo contenuto non può essere sviluppato se non
in termini teologici, quei termini a cui già la sola esposizione non ha potuto
sottrarsi. Se la conclusione di questo studio parlerà senz’altro tale linguaggio,
non si tratterà dunque di una μετάβασιϛ εἰϛ ἅλλο γένοϛ. Poiché l’allegoria
come forma costitutiva del dramma barocco può essere risolta criticamente
solo a partire da un dominio superiore, quello appunto teologico: all’interno
di una considerazione puramente estetica l’ultima parola spetterebbe al
paradosso. Che tale risoluzione, come sempre quella del profano in un ambito
sacrale, debba compiersi sul terreno della storia, anzi di una teologia della
storia, e solo dinamicamente, non staticamente nel senso di un’economia
della salvezza già garantita, tutto ciò sarebbe acquisito, anche se il dramma
tedesco dell’età barocca non rimandasse cosí chiaramente allo Sturm und
Drang e al Romanticismo, e anche se la produzione drammaturgica piú
recente non tentasse con tanta insistenza – e sia pure invano – di salvarne la
parte migliore. La costruzione logica del suo contenuto dovrà prendere sul
serio – e ciò s’intende – soprattutto i motivi piú ostici, quelli da cui sembra
impossibile ricavare se non mere asserzioni di fatto. In particolare: come la
mettiamo con le scene di orrore e di martirio che i drammi barocchi offrono a
profusione? Com’è logico attendersi dal tenore asciutto e irriflesso della
critica d’arte barocca, le fonti per una risposta diretta sono magre. Eccone
comunque una nascosta ma preziosa: «Integrum humanum corpus
symbolicam iconem ingredi non posse, partem tamen corporis ei
constituendae non esse ineptam» 2. Cosí leggiamo nel quadro di una
controversia sulle norme dell’emblematica. E l’emblematista ortodosso non
poteva pensarla diversamente: il corpo umano non può fare eccezione al
decreto che ordina di smembrare l’organico, per ritrovare nelle sue schegge il
vero significato, quello definitivo e scritturale. Anzi, dove potrebbe questa
legge trovare un’applicazione piú trionfante che nell’uomo, il quale pianta in
asso la sua physis convenzionale, provvista di coscienza, per ripartirla nelle
molteplici regioni del significato? Non sempre l’emblematica e l’araldica
hanno seguito incondizionatamente questa legge. Nella già citata Ars
heraldica, dell’uomo si dice soltanto che «i capelli significano la molteplicità
dei pensieri» 3, mentre gli «araldi» fanno regolarmente a pezzi il leone: «La
testa, il petto, e tutta la parte anteriore significa magnanimità e coraggio,
mentre la parte posteriore significa la forza, la collera e l’ira, che seguono il
ruggito» 4. Tale vivisezione emblematica – trasportata sul piano di una qualità
che riguarda pur sempre il corpo – detta a Opitz l’espressione preziosa del
«maneggio della castità» 5, che egli attribuisce a Giuditta. E cosí Hallmann
illustra tale virtú sull’esempio della pudica Ägytha, il cui «organo
riproduttivo» viene ritrovato incorrotto nella tomba molti anni dopo la
sepoltura 6. Se il martirio applica al vivente una griglia emblematica, non è
privo di importanza il fatto che il dolore fisico fosse sempre presente al
drammaturgo come motivo dell’azione tout court. Non solo il dualismo
cartesiano è barocco, ma lo è in sommo grado la teoria delle passioni, come
conseguenza della dottrina del rapporto psicofisico. Poiché infatti lo spirito in
sé è pura ragione fedele a se stessa, e sono gli influssi corporei a metterlo in
contatto col mondo esterno, le sofferenze fisiche che esso patisce saranno una
base emotiva piú immediata dei cosiddetti conflitti tragici. Se poi, nella morte,
lo spirito si libera alla maniera appunto degli spiriti, anche il corpo si
riappropria allora dei suoi diritti. Perché la cosa va da sé: l’allegorizzazione
della physis può compiersi in modo energico soltanto sul cadavere. E i
personaggi del dramma barocco muoiono perché soltanto cosí, come
cadaveri, possono entrare nella loro patria allegorica. Non è per ottenere
l’immortalità, ma in vista del cadavere, che essi vanno in rovina. «Ci lascia il
suo cadavere come pegno di un estremo favore» 7, dice la figlia di Carlo Stuart
a proposito del padre, il quale a sua volta aveva chiesto di farlo imbalsamare.
Considerata dal punto di vista della morte, la vita è produzione del cadavere.
Non solo nella perdita di parti del corpo, non solo nei mutamenti del corpo
che invecchia, ma in tutti i processi di secrezione e di purificazione vi è
qualcosa di cadaverico che si stacca, pezzo per pezzo, dal corpo. E non è un
caso che proprio le unghie ed i capelli, che vengono tagliati dal corpo come
qualcosa di morto, continuino a crescere nel cadavere. C’è un memento mori
che veglia nella physis, nella memoria stessa. L’uomo medievale e l’uomo
barocco non sarebbero cosí compenetrati dalla morte se le loro
preoccupazioni andassero unicamente alla fine della vita. Le poesie mortuarie
di un Lohenstein non sono, nella loro essenza, una forma di manierismo,
anche se non è sbagliato considerarle in questa prospettiva. Alcuni singolari
esempi di questo tema lirico si trovano già fra le primissime opere di
Lohenstein. Già a scuola aveva dovuto celebrare, secondo un vecchio schema
compositivo, «la passione di Cristo con poesie latine e tedesche, suddivise
secondo le varie parti del corpo» 8. Lo stesso schema si ritrova nel Denck- und
Danck-Altar [Altare commemorativo e di ringraziamento] che egli eresse alla
madre morta. Nove strofe impietose descrivono le varie parti del corpo in via
di decomposizione. Tali temi furono presenti anche a Gryphius, e certo il suo
studio dell’anatomia, al quale rimase sempre fedele, fu influenzato non solo
dai suoi interessi scientifici, ma anche da questi peculiari interessi
emblematici. I modelli di queste descrizioni per il dramma si trovavano
nell’Ercole Eteo di Seneca, ma anche nella Fedra, nelle Troiane e cosí via. «In
un esercizio di dissezione anatomica, le singole parti del corpo vengono
enumerate con un chiaro gusto della crudeltà» 9. Com’è noto, Seneca fu
sempre un’autorità molto stimata per la drammaturgia dell’orrore, e varrebbe
la pena di domandarsi se anche nei suoi drammi questi motivi poggino su
presupposti analoghi. Per il dramma barocco del XVII secolo il cadavere
diventa comunque l’oggetto emblematico per eccellenza. Senza di esso le
apoteosi risultano pressoché impensabili. Esse «fanno pompa di pallidi
cadaveri» 10, ed è compito del tiranno rifornirne la scena. Cosí la chiusa del
Papinian, in cui si riconoscono tracce dell’influsso del dramma dei
masnadieri sul tardo Gryphius, presenta il massacro della famiglia di
Papiniano compiuto da Bassiano Caracalla. Il padre e due figli sono stati
uccisi. «Le due salme vengono portate in scena su due catafalchi dai servi di
Papiniano e messe l’una di fronte all’altra. Plauzia non parla piú, ma passa, in
preda al lutto, da una salma all’altra, ne bacia il capo e le mani, e infine crolla
esanime sul cadavere di Papiniano e viene portata via dalle sue ancelle, dietro
le salme» 11. Nel finale della Sophia di Hallmann, una volta consumato il
martirio della fedele Cristina e delle sue figlie, si spalanca il retroscena «in cui
viene mostrato il banchetto funebre ossia le tre teste delle figlie e tre calici
colmi di sangue» 12. Il «banchetto funebre» era tenuto in grande
considerazione. In Gryphius esso non viene ancora rappresentato, ma
piuttosto raccontato.
Piú tardi tali banchetti comparvero anche sulla scena, e si ricorreva a tale
scopo a un trucco italiano raccomandato da Harsdörffer e da Birken:
attraverso un buco praticato nel piano di un tavolo, la cui tovaglia ricadeva
fino a terra, compariva la testa di un attore. In certi casi queste esibizioni del
corpo inanimato si trovano già all’inizio del dramma. Le note di scena
introduttive della Catharina von Georgien sono un esempio in questo senso 14,
come pure la curiosa scenografia prevista da Hallmann per il primo atto dello
Heraclius: «Un campo pieno dei cadaveri dell’esercito sconfitto
dell’imperatore Maurizio, accanto ad alcuni rivoletti d’acqua sgorganti dalla
vicina montagna» 15.
La concezione allegorica trae la sua origine dal confronto tra una physis
che il cristianesimo vuole segnata dalla colpa e una natura deorum piú pura,
incorporata dal pantheon classico. Ora, se il Rinascimento riporta in vita
l’elemento pagano, e la Controriforma quello cristiano, era inevitabile che
anche l’allegoria si rinnovasse in quanto forma del loro incontro. Per il
dramma barocco è importante il fatto che il Medioevo avesse rivestito delle
sembianze di Satana lo stretto legame tra la materialità e il demoniaco. Ma
soprattutto, il concentrarsi delle molteplici istanze pagane in una figura di
Anticristo dai tratti teologicamente rigorosi fa sí che proprio alla materia, piú
che ai demoni, venga assegnata un’apparenza oscura e soverchiante. E non
solo il Medioevo giunse cosí a confinare la ricerca intorno alla natura entro
limiti ristretti, ma l’essenza diabolica della materia arriva a rendere sospetti
perfino i matematici. «Qualunque cosa essi pensino – spiega lo scolastico
Enrico di Gand – è qualcosa di spaziale (quantum), o possiede comunque un
luogo nello spazio come il punto. Perciò tali persone sono melanconiche, e
diventano i migliori matematici ma i peggiori metafisici» 30. Se l’intenzione
allegorica si rivolge al mondo delle cose creaturali, un mondo morto o tutt’al
piú semivivo, l’uomo non cade sotto il suo sguardo. Se essa si attiene
unicamente agli emblemi, la metamorfosi repentina, la salvezza, non sono
pensabili. Irridendo ogni travestimento emblematico, può essere invece che
l’inconfondibile ghigno demoniaco affiori dal grembo della terra nella sua
vitalità e nella sua nudità trionfanti, per offrirsi cosí allo sguardo
dell’allegorista. Il Medioevo ha inciso in un primo tempo i tratti spigolosi ed
aguzzi di Satana sulla figura in origine piú distesa del demone pagano. La
materia, creata secondo la dottrina gnostico-manichea per «detartarizzare» il
mondo, è destinata dunque ad accogliere in sé il demoniaco – affinché il
mondo, separandosi da essa, si mostri purificato – acquista coscienza, in
Satana, della propria natura tartarica, ne irride il «significato» allegorico e
schernisce chiunque creda di potersi calare impunemente nelle sue
profondità. Come dunque la tristezza terrena appartiene all’allegoresi, cosí la
voluttà infernale appartiene alla sua brama, vanificata dal trionfo della
materia. Di qui l’infernale spassosità dell’intrigante, il suo intellettualismo, il
suo sapere intorno ai significati. La creatura muta è in grado di sperare nella
salvezza attraverso il significato. La sottile versatilità dell’uomo non ha
problemi con la parola, e mentre cerca di conferire nel calcolo piú abietto una
sembianza umana alla propria materialità, essa contrappone all’allegorista il
sarcastico ghigno infernale. In essa il mutismo della materia è superato.
Proprio la risata infernale è infatti la forma eccentrica e deformata che ha la
materia di spiritualizzarsi. Essa diventa cosí spirituale che supera d’un balzo la
parola, vuole spingersi oltre e sfocia nel fragore della risata. Per quanto
dall’esterno ciò possa apparire bestiale, l’intima follia la percepisce come
spiritualità. «Lucifero, principe delle tenebre, reggitore della profonda
tristezza, signore della ruota celeste, duca dello zolfo, re dell’abisso» 31non si
lascia schernire. Julius Leopold Klein lo chiama a ragione la «figura
protoallegorica». E come questo storico della letteratura ha mostrato con
argomenti eccellenti, proprio uno dei piú poderosi personaggi di Shakespeare
risulta comprensibile solo a partire dall’allegoria, anzi a partire da Satana. «Al
ruolo iniquo del vice si rifà ... il Riccardo III di Shakespeare, il Vice diventato
buffoon-devil, che denuncia in modo sorprendente la sua evoluzione-
derivazione dal diavolo dei Misteri medievali e dal Vice “moralizzante” e
biforcuto del moral-play, legittimo erede di entrambi, il devil e il Vice,
diventati ormai carne della sua carne e sangue del suo sangue». Lo attesta
un’osservazione di passaggio: «“Gloucester (a parte): Come nei Misteri la
figura dell’iniquo, cosí anch’io intendo due significati da una sola parola”. Nel
Riccardo III, il devil e il Vice si fondono in un eroe tragico di stampo
guerresco e dal lignaggio storico preciso, com’egli stesso ammette tra le
righe» 32. Ma un eroe tragico non è. Questo rapido excursus si giustifica
piuttosto ricordando ancora una volta il fatto che per Riccardo III, come per
Amleto e per le «tragedie» di Shakespeare in generale, solo la teoria del
dramma barocco può fornire i prolegomeni di una interpretazione adeguata.
Perché l’elemento allegorico in Shakespeare va molto al di là delle forme della
metafora, con cui Goethe volle identificarla. «Shakespeare è ricco di tropi
meravigliosi che nascono da concetti personificati e che a noi non si
adatterebbero affatto, ma che in lui sono perfettamente al loro posto perché al
suo tempo tutta l’arte era dominata dall’allegoria» 33. Novalis scrive piú
decisamente: «È possibile trovare in un lavoro di Shakespeare un’idea
arbitraria, un’allegoria ecc.» 34. Ma lo Sturm und Drang, che scoprí
Shakespeare per il pubblico tedesco, vede in lui soltanto l’elementare, non
l’allegorico. Eppure Shakespeare è caratterizzato proprio dal fatto che i due
aspetti in lui sono in sostanza una sola cosa. Ogni espressione elementare
della creatura acquista significato attraverso la sua esistenza allegorica, e tutto
ciò che è allegorico acquista forza attraverso i dati elementari del mondo
sensibile. Con l’estinguersi del momento allegorico svanisce anche la forza
elementare del dramma, fino a rinascere nello Sturm und Drang, e appunto
nella forma del dramma barocco. Il Romanticismo torna a «sentire»
l’allegorico. Ma poiché la sua attenzione si ferma a Shakespeare, non poteva
essere piú di un presentimento. Infatti in Shakespeare il primato spetta
all’elementare, in Calderón all’allegorico. Prima di rifugiarsi nei terrori del
lutto, Satana assolve il suo ufficio di tentatore. Egli inizia a un sapere che è il
principio stesso del comportamento peccaminoso. E se la tesi socratica
secondo cui la conoscenza del bene induce a fare il bene può essere forse
discutibile, è invece tanto piú vero il contrario, riguardo alla conoscenza del
male. Questa conoscenza non è un lumen naturale, una luce interiore che si
accenda nella notte della tristezza, ma un bagliore sotterraneo che filtra dalle
viscere della terra. Lo sguardo ribelle e penetrante di Satana si accende in
colui che rimugina contemplandolo. Si conferma allora l’importanza
dell’erudizione barocca per la letteratura drammatica. Solo per l’erudito,
infatti, qualcosa può darsi come allegoria. D’altra parte, se la meditazione non
si rivolge con pazienza alla verità ma tende senz’altro e ossessivamente, con
tutto l’acume del suo sguardo, al sapere assoluto, è proprio ad essa che le cose
si sottraggono nella loro semplicità di cose per ridursi davanti ad essa a
rimandi allegorici e in seguito in polvere. L’intenzione allegorica è cosí
contraria alla ricerca della verità che proprio in essa appare in piena luce la
coincidenza tra la curiosità, rivolta al puro sapere, e la superba separatezza
dell’uomo. «La spaventosa morte, orribile alchimista» 35: questa profonda
metafora di Hallmann non poggia solo sul fenomeno della decomposizione. Il
sapere magico, in cui l’alchimia rientra, minaccia l’adepto con l’isolamento e
la morte spirituale. Come dimostrano l’alchimia e i rosacroce, o le evocazioni
di spiriti nelle scene del teatro barocco, l’epoca barocca non era meno dedita
alla magia del Rinascimento. Qualunque cosa essa tocchi, la sua mano la
trasforma, come quella di Mida, in qualcosa di significativo. La metamorfosi è
il suo elemento, e il suo schema è l’allegoria. E quanto meno la passione
magica si limita al periodo barocco, tanto piú essa risulta adatta a segnalare
un elemento barocco nelle forme piú tarde. È proprio essa a legittimare una
consuetudine recente, che vuol vedere un gesto barocco nel tardo Goethe
come nel tardo Hölderlin. Il sapere, e non l’agire, è la forma ontologica
peculiare del male. Ne consegue che la tentazione fisica, intesa come voluttà,
ingordigia, pigrizia puramente sensibili, non costituisce affatto la sua natura
ultima e piú specifica. Questa si dischiude piuttosto con la fata Morgana di un
regno della spiritualità assoluta, cioè senza Dio, quale soltanto il male può
esperirla concretamente nel suo legame simmetrico con la materia. Lo stato
d’animo che vi regna è il lutto, che è insieme la matrice dell’allegoria e il suo
contenuto. E ad esso corrispondono tre promesse sataniche originarie di
natura spirituale. Il dramma barocco ne mostra la continua presenza ora nella
figura del tiranno ora in quella dell’intrigante. Ciò che seduce è l’apparenza
della libertà: nell’indagare il proibito; l’apparenza dell’autonomia:
nell’escludersi dalla comunità dei devoti; l’apparenza dell’infinito: nel vuoto
abisso del male. È proprio infatti di ogni virtú avere un fine di fronte a sé, e
cioè il suo modello in Dio; mentre la dannazione inaugura sempre un
progresso all’infinito. La teologia del male va quindi dedotta dalla caduta di
Satana, in cui questi motivi trovano conferma, assai piú che dai moniti coi
quali la dottrina ecclesiastica è solita rappresentare il cacciatore di anime. La
spiritualità assoluta, che è il significato di Satana, si suicida emancipandosi dal
sacro. La materia – qui svuotata di anima – diventa il suo luogo naturale. La
pura materialità e la spiritualità assoluta sono i due poli dell’ambito satanico:
e la coscienza è la loro sintesi buffonesca, che scimmiotta quella autentica, la
sintesi della vita. E il suo speculare ostile alla vita, legato al mondo cosale degli
emblemi, si imbatte alla fine nel sapere propriamente demoniaco. Nel De
civitate Dei di Agostino si dice che essi vengono «chiamati δαίμονεϛ, perché
questa parola greca indica il loro possesso delle scienze» 36. Ed estremamente
spirituale suona il verdetto di spiritualità fanatica sulla bocca di Francesco
d’Assisi, il quale mostra la retta via a uno dei suoi discepoli, sprofondato in
studi troppo astrusi: «Unus solus daimon plus scit quam tu».
In quanto sapere l’istinto trascina giú nel vuoto abisso del male per
assicurarsi l’infinito. Ma è anche l’abisso della meditazione senza fondo. I suoi
dati non possono entrare nelle costellazioni filosofiche. E si squadernano
perciò come un puro repertorio di cupa solennità nei libri di emblemi del
Barocco. Il dramma barocco attinge a questo repertorio piú di ogni altra
forma. Esso scambia le sue immagini fra loro trasformandole, interpretandole
e approfondendole senza posa. Il principio dominante è quello del contrasto.
Sarebbe però sbagliato, o perlomeno superficiale, riferire al puro piacere delle
antitesi gli innumerevoli effetti per cui la sala del trono si trasforma in
carcere, il letto del piacere in una tomba, la corona regale in una ghirlanda di
cipressi sanguinanti, si tratti di effetti scenici o puramente verbali. Neppure il
contrasto di essere e apparenza coglie esattamente la tecnica di queste
metafore ed apoteosi. Lo schema di base è invece quello dell’emblema, dal
quale scaturisce – per via di un sempre rinnovato artificio – il significato
sensibile. Cosí la corona regale «significa» la ghirlanda di cipressi. Tra gli
innumerevoli esempi di questo furore emblematico – e il loro inventario è
stato fatto da tempo 37 è forse insuperabile per il suo ostentato estremismo
quel passo di Hallmann, là dove, «quando il cielo politico lampeggia», fa
trasformare un’arpa nell’«ascia di un boia» 38. E nello stesso genere rientra
questo passo delle sue Leichreden: «Perché se si considerano gli innumerevoli
cadaveri di cui in parte la peste imperversante e in parte le armi della guerra
hanno riempito non solo la nostra Germania ma quasi l’intera Europa,
dobbiamo riconoscere che le nostre rose si sono trasformate in spine, i nostri
gigli in ortiche, i nostri paradisi in cimiteri, e insomma l’intera nostra
esistenza in un’immagine della morte. Spero pertanto che non mi si vorrà
male se mi sono accinto a dischiudere anche il mio cimitero cartaceo su
questo universale palcoscenico di morte» 39. Anche nei Reyen queste
metamorfosi sono di casa 40. Come chi precipita corre il rischio di rovesciarsi,
allo stesso modo l’intenzione allegorica si perderebbe di immagine in
immagine nella vertigine del suo abisso senza fondo se proprio nelle sue
immagini estreme non dovesse apparire che, in realtà, tutta la sua tenebra, la
sua superbia, la sua lontananza da Dio sono mero autoinganno. Separare
infatti quel tesoro di immagini in cui si compie questo salto nel luogo della
salvezza da quell’altro, cupo, che significa morte e inferno, vorrebbe dire
infatti fraintendere completamente l’allegorico. Proprio nell’ebbrezza
dell’annientamento, là dove tutto quel che è terreno precipita in un ammasso
di rovine, ciò che si svela non è tanto l’ideale dell’allegoria come
abbassamento, quanto il suo limite. La perduta desolazione degli ossari, che
troviamo come schema allegorico in infinite stampe e descrizioni dell’epoca,
non è solo un’immagine dello squallore esistenziale. La caducità è in essa non
tanto significata, rappresentata allegoricamente, quanto piuttosto offerta
come allegoria, a sua volta significante. Come l’allegoria della resurrezione.
Nei monumenti mortuari del Barocco – per una sorta di salto mortale
all’indietro – la visione allegorica si capovolge in redenzione. I sette anni del
suo sprofondamento sono solo un giorno. Perché anche il tempo infernale si
secolarizza nello spazio, e quel mondo che si concedeva e si tradiva allo spirito
di Satana è il mondo di Dio. L’allegorista si risveglia nel mondo di Dio.
Ja wenn der Höchste wird vom Kirch-Hof erndten ein
So werd ich Todten-Kopff ein Englisch Antlitz seyn 41.
1 LOHENSTEIN , Blumen cit. (Hyacinthen cit.), p. 50. [E quando l’Altissimo verrà a raccogliere la
messe dal cimitero, | Io, teschio, sarò un volto d’angelo].
2 Recensione anonima di MENESTRIER , La philosophie des images cit., pp. 17 sgg.
3 BÖCKLER , Ars heraldica cit., p. 102. [Die Haar bedeuten die vielfältigen Gedancken].
4 Ibid., p. 104. [Das Haupt die Brust und das gantze vordere Theil bedeutet Großmütigkeit und
Dapfferkeit das hintere aber die Stärcke Grimm und Zorn so dem Brüllen folget].
5 MARTIN OPITZ, Judith, Breßlaw 1635, f. Aijv. [Handhabung der Keuschheit].
7 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 390 (Carolus Stuardus, II, 389 sg.). [Er lässt uns seine leiche Zum
pfande letzter gunst].
8 MÜLLER , Beiträge zum Leben und Dichten Daniel Caspers von Lohenstein cit., p. 15.
10 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Sophia, p. 73 [V, 280]). [Mit blassen Leichen
prangen].
11 GRYPHIUS , Trauerspiele cit., p. 614 (Ämilius Paulus Papinianus, V, indicazioni per la
messinscena). [Beyde leichen werden auf zweyen trauerbetten von Papiniani dienern auf den schauplatz
getragen und einander gegenüber gestellet. Plautia redet nichts ferner, sondern gehet höchst-traurig
von einer leiche zu der andern, küsset zuweilen die häupter und hände, bis sie zuletzt auf Papiniani
leichnam ohnmächtig sincket und durch ihre stats-jungfern den leichen nachgetragen wird].
12 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Sophia, p. 68, indicazioni per la
messinscena). [... in welchem die Todtenmahlzeit gezeiget wird nehmlich die drey Köpfe der Kinder mit
drey Gläsern Blut].
13 GRYPHIUS , Trauerspiele cit. (Catharina von Georgien, I, 649 sgg.). [Il principe Meurab, cieco di
odio, furente di tanto dolore, | Alla schiera inanimata fece tagliare le pallide teste, | E quando la fila delle
teste, che tanto l’avevano offeso, | Fu posata sul tavolo, per esser giudicata, | Egli, quasi fuori di sé, prese
il calice offerto | E gridò: questo è il calice che io, vendicatore dei miei, | Or non piú schiavo, afferro!]
14 Ibid., p. 149 (Catharina von Georgien, I, indicazioni per la messinscena).
15 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Die listige Rache oder der tapfere Heraklius,
p. 10, indicazioni per la messinscena). [Ein grosses Feld erfüllet mit sehr vielen Leichen des
geschlagenen Krieges-Heeres des Kaisers Mauritii nebst etlichen aus dem benachbarten Gebirge
entspringenden Wässerbächlein].
16 Cfr. TITTMANN , Die Nürnberger Dichterschule cit., p. 175.
19 HALLMANN , Trauer-, Freuden- und Schäferspiele cit. (Sophia, 229 sg.). [Beschützt nicht Jupiter
den Kaiserlichen Thron? Vielmehr als Jupiter ist Gottes wahrer Sohn!]
20 WARBURG , Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 70; trad. it. cit., p. 364.
21 FRIEDRICH VON BEZOLD, Das Fortleben der antiken Götter im mittelalterlichen Humanismus,
Bonn-Leipzig 1922, pp. 31 sgg. Cfr. VINCENZO DI BEAUVAIS, Bibliotheca mundi cit., coll. 295 sg.
22 USENER , Götternamen cit., p. 366.
24 AURELIO P. CLEMENTE PRUDENZIO, Contra Symmachum, I, 501 sg. (cit. in BEZOLD , Das Fortleben
der antiken Götter cit., p. 30).
25 AGOSTINO , De civitate Dei, VIII, 23: «Visibilia et contrectibilia simulacra velut corpora deorum
esse asserit; inesse autem his quosdam spiritus invitatos, qui valeant aliquid sive ad nocendum sive ad
desideria complenda eorum, a quibus eis divini honores et cultus obsequia deferuntur».
26 WARBURG , Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 34; trad. it. cit., p. 338.
30 ENRICO DI GAND, Quodlibeta, Paris 1518, f. XXXIV r (quodl. II, quaest. 9); cit. in PANOFSKY, SAXL,
Dürers «Melencolia I» cit., p. 72; trad. it. cit., p. 317 e nota.
31 [Lettera anonima su Lucifero contro Giovanni XXIII]; cit. in PAUL LEHMANN, Die Parodie im
Mittelalter, München 1922, p. 97. [Lucifer Fürst der finsternis regierer der tiefen trawrigkeit keiser des
Hellischen Spuls Hertzog des Schwebelwassers König des abgrunds].
32 KLEIN , Geschichte des englischen Drama’s cit., pp. 3 sgg.
33 GOETHE , Sämtliche Werke cit., vol. XXXVIII: Schriften zur Literatur, 3, p. 258 (Maximen und
Reflexionen); trad. it. cit., p. 40.
34 NOVALIS , Schriften cit., vol. III, p. 13.
36 AGOSTINO , De civitate Dei, IX, 20: «Daemones enim dicuntur (quoniam vocabulum Graecum est)
ad scientiam nominati».
37 Cfr. STACHEL , Seneca und das deutsche Renaissancedrama cit., pp. 336 sgg.
39 Ibid., p. 3. [Denn betrachtet man die unzählbahren Leichen womit theils die raasende Pest theils
die Kriegerischen Waffen nicht nur unser Teutschland sondern fast gantz Europam erfüllet so müssen
wir bekennen daß unsere Rosen in Dornen unsre Lilgen in Neßeln unsre Paradise in Kirchhöfe ja unser
gantzes Wesen in ein Bildnüß deß Todes verwandelt worden. Dannenhero wird mir hoffentlich nicht
ungütig gedeutet werden daß ich auf dieser allgemeinen Schaubühne deß Todes auch meinen papirenen
Kirchhoff zu eröffnen mich unterwunden].
40 Cfr. LOHENSTEIN , Römische Trauerspiele cit., p. 82 (Agrippina, IV). Cfr. anche ID ., Afrikanische
Trauerspiele cit., p. 327 (Sophonisbe, IV).
41 LOHENSTEIN , Blumen cit., (Hyacinthen), p. 50; cfr. p. 191, nota 1.
42 SIGMUND VON BIRKEN, Die Fried-erfreute Teutonie, Nürnberg 1652, p. 114. [Mit Weinen streuten
44 Gn, I , 31.
S
CRITTO NEL 1926 NELLA P R O S P E T T I VA DEL CONSEGUIMENTO DI U NA
Nato a Berlino il 15 luglio 1892, Walter Benjamin si laureò a Berna nel 1919. Dopo
aver cercato invano di ottenere la libera docenza presso l’Università di Francoforte,
si dedicò principalmente alla critica e alla saggistica, collocandosi al centro di una
fitta rete di «incroci» con personalità della cultura a lui contemporanea (da Scholem
a Brecht, da Rosenzweig a Bloch, ad Adorno); nel 1933, all’avvento del nazismo
emigrò a Parigi. L’interesse di Benjamin, il cui pensiero propone un singolare
accostamento fra mistica ebraica e marxismo, è rivolto soprattutto alla ricognizione
del Moderno, ai mutamenti intervenuti nella fruizione estetica, al ruolo dei mass
media, alla moderna metropoli (prima fra tutte la Parigi di Baudelaire), ma anche
all’opera di grandi scrittori come Goethe, Baudelaire, Kafka e Proust (di cui tradusse
in tedesco parti della Recherche). Morí nel 1940 a Port Bou, sul confine franco-
spagnolo, mentre cercava di sfuggire alla Gestapo. Nel catalogo Einaudi: Angelus
Novus («Einaudi Tascabili»); Sull’hascisch («Einaudi Tascabili», «Nuovi Coralli» e
«ET»); Infanzia berlinese («Letture Einaudi»); Ombre corte («Nuova Universale
Einaudi»); Il dramma barocco tedesco («Biblioteca Einaudi»); Sul concetto di storia
(«Biblioteca Einaudi»); L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
(«Piccola Biblioteca Einaudi» ed «ET Saggi»); Lettere 1913 - 1940, Teologia e utopia
(«Einaudi Paperbacks», il secondo con Gershom Scholem); Il concetto di critica nel
Romanticismo tedesco: Scritti 1919 - 1922 («Einaudi Letteratura»); Immagini di città
(«Letture Einaudi»); è attualmente in corso una nuova edizione degli scritti nella
collana «Opere complete» di cui sono già disponibili i volumi I (Scritti 1906-1922), II
(Scritti 1923 - 1927), III (Scritti 19238 - 1929), IV (Scritti 1930-1931), V (Scritti 1932-
1933), VI (Scritti 1934-1937), VII (Scritti 1938-1940), VIII (Frammenti e
Paralipomena) e IX (I «Passages» di Parigi). Nel 2006 Einaudi ha pubblicato una
nuova edizione accresciuta di Strada a senso unico («Piccola Biblioteca Einaudi») e
nel 2010 pubblica Sonetti e poesie sparse («Collezione di Poesia»). Nel 2011 esce Il
narratore («Super ET»); nel 2012 Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media («PBE»).
Dello stesso autore
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come
l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei
diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto
previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito,
rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore.
In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è
stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858414651