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PROLOGO
Will Riker tamburellò le dita sul bracciolo della sua poltrona al centro di
comando. Guardò per un momento il volto impassibile di Picard, che se ne stava
ancora in piedi accanto a Data, presso la stazione scientifica posteriore;
cercò, per l'ennesima volta, di stabilire se fosse solo immaginazione, oppure se
veramente, per qualche ragione, il capitano lo stesse evitando.
Per quattro giorni, avevano attraversato le correnti di quella bizzarra realtà
conosciuta come subspazio, dirigendosi a un rendez-vous con ciò che restava
della Jenolen. E per tutto il tempo, Picard non aveva mai incrociato lo sguardo
del suo primo ufficiale.
Per lungo tempo, era stato semplicemente un irritante sospetto. Ora, Riker ne
era quasi certo... a tal punto da sentirsi pronto a sottoporre le proprie
osservazioni all'attenzione del capitano.
No. Disse a se stesso. Se Picard voleva discutere il problema con lui, di
qualunque cosa si trattasse, lo avrebbe fatto nel momento che avesse ritenuto
più opportuno. Ed era suo diritto. Avrebbe fatto ciò che riteneva giusto.
Forse dopo che la Jenolen fosse stata scoperta ed esplorata, Picard avrebbe
scoperto le sue carte. Sì... era proprio così, decise Riker. Stava dedicando
tutta la sua attenzione alla Jenolen. E quando fosse tutto finito, lo avrebbe
preso da parte e gli avrebbe detto ciò che gli passava per la testa.
“Capitano?” Era la voce di Worf.
Voltando le spalle alla consolle scientifica, Picard gli rispose “Sì.
tenente?”
“Ci stiamo avvicinando alle coordinate del segnale di soccorso,” riportò il
Klingon.
Nessuna sorpresa. Avvisava soltanto che erano perfettamente in orario.
Tuttavia, Picard fece un assenso con la testa. Poi si voltò verso Rager e
disse, “Ci porti fuori dalla curvatum, Guardiamarina Rager. Motori fermi.”
Rager, un'esile donna di colore, eseguì. “Sì, signore. Motori fermi.”
Riker si alzò in piedi, stanco di rimanersene seduto. Si innervosiva sempre
quando la nave stava per raggiungere un obiettivo, specialmente uno che era
stato inseguito per così tanto tempo come questo.
Sebbene lo schenmo principale mostrasse soltanto una sterminata e poco
familiare distesa di stelle, egli si sforzò di vedere qualcosa che assomigliasse
anche vagamente a un vascello da trasporto. Ma purtroppo non ebbe successo.
Erano ancora milioni di chilometri lontani dalla fonte del segnale, e loro si
stavano avvicinando a quelle coordinate soltanto a velocità d'impulso.
Aveva appena terminato di rimuginare, quando l'Enterprise venne scossa, come
se una gigantesca mano l'avesse agguantata e la stesse scuotendo come fosse
stata un tamburello. Riker si sorresse allo schienale della sedia di Rager per
evitare di venire catapultato al di là della postazione. Poi, improvvisamente
come erano cominciati, gli scossoni finirono. Ma non c'era nessuna garanzia che
non avessero dovuto ripetere quell'esperienza.
“Allanme giallo,” gridò Riker, la sua voce riecheggiò per tutto il ponte e si
propagò al resto della nave attraverso il sistema dell'interfono.
Allo stesso tempo, si diresse al suo posto al centro di comando. Picard e Data
erano a meno di un passo da lui, e si stavano muovendo verso le loro rispettive
posizioni.
“Rappolto,” disse Picard, come si fu seduto al suo posto.
“Siamo entrati in un enorme campo gravitazionale,” rispose Worf.
Picard si voltò a guardarlo. Non fu il solo. Dopotutto, lo schermo non aveva
individuato nulla che possedesse un campo gravitazionale talmente potente da
attirarli.
“Signor Data?” chiese il capitano nella speranza di maggiori infonmazioni.
L'androide era piegato sopra la postazione delle operazioni, dove aveva
rimpiazzato l'ufficiale che era stato seduto lì fino a quel momento. “Sulle
nostre mappe di navigazione non sono riportate stelle o altri colpi celesti a
queste coordinate.” Fece una pausa. “Tuttavia, i sensori indicano la presenza di
una sorgente gravitazionale estremamente forte nelle vicinanze.” Un'altra pausa.
“Direttamente davanti a noi.”
Non aveva senso, pensò Riker tra sé. A meno che... l'oggetto che generava quel
campo non fosse stato in qualche modo occultato.
Picard doveva aver avuto la stessa idea. “Signor Worf,” disse, “riesce a
localizzare la sorgente del campo gravitazionale?”
Per un momento, il Klingon continuò a lavorare alla sua consolle. Poi alzò
lo sguardo. “Sì, signore.”
Bene, pensò il primo ufficiale. Adesso raggiungeremo qualcosa.
“Sullo schenmo.” ordinò il capitano.
La distesa di stelle sul visore cambiò, mostrando un'altra visuale. E se
qualcuno guardava da vicino, c'era una piccola palla nera nel mezzo.
“Ingrandire,” comandò Picard.
L'immagine si ingrandì più volte, fino a quando la sfera non fu più facilmente
visibile. Dopo l'ultimo ingrandimento, essa apparì rotonda e liscia come una
palla da biliardo, ma a causa della completa oscurità, fu difficile individuare
qualcosa di più.
Riker era perplesso. Non aveva mai visto niente del genere.
“Sensori?” disse alla fine, rompendo l'incantesimo. Avevano bisogno di
maggiori informazioni al più presto possibile. Chi poteva sapere quali ulteriori
sorprese attendevano loro in quel campo gravitazionale?
“Ho difficoltà ad analizzare l'oggetto,” disse Data. “Comunque, sembra avere
un diametro di almeno duecento milioni di chilometri.”
Riker guardò Picard. La sorpresa sul volto del capitano rispecchiava quella
del suo primo ufficiale.
“È grande quasi quanto l'orbita della Terra attorno al sole,” mormorò.
“Vero,” disse Picard. “Perché non l'abbiamo individuata prima?”
Data si girò sulla sedia per guardarlo. “L'enorme massa dell'oggetto causa
un'ingente quantità di interferenze subspaziali gravimetriche. Queste
interferenze potrebbero aver impedito ai nostri sensori di individuare l'oggetto
prima di uscire dalla curvatura.”
Per un attimo, tutti rivolsero l'attenzione allo strano oggetto sullo schermo.
Improvvisamente, il volto di Picard fu attraversato dalla sorpresa. Doveva aver
trovato qualcosa fino a quel momento soltanto immaginata.
“Signor Data.” disse Picard, “potrebbe essere... una Sfera di Dyson?”
Data sembrò ponderare l'informazione. “Non ci sono dati di riferimento,
capitano. Tuttavia, questo oggetto rispetta i paramenti generali della teoria di
Dyson.”
Riker guardò prima l'uno poi l'altro. “Una Sfera di Dyson?” ripeté.
Picard fece un segno di assenso con la testa. “È una teoria molto antica,
Numero Uno. Non sono sorpreso che lei non l'abbia mai sentita nominare.”
Rivolgendosi nuovamente allo schermo visore, osservò ancora una volta la palla
nera. “Un fisico del ventesimo secolo, Freeman Dyson, postulò che un'enorme
sfera concava potesse essere costruita attorno a una stella. Questa avrebbe
avuto il vantaggio di sfruttare tutta l'energia radiante del sole, non soltanto
una piccola frazione di essa. Una popolazione che vivesse sulla superficie
interna della sfera godrebbe quindi di una fonte di energia virtualmente
inesauribile.”
Gli occhi di Riker brillarono. “Sta dicendo che potrebbero esserci delle
persone che vivono al suo interno?” chiese al capitano.
La risposta venne da Data. “Probabilmente un elevato numero di persone,
Comandante. La superficie interna di una sfera di queste dimensioni dovrebbe
equivalere alla superficie di più di duecentocinquanta milioni di pianeti di
classe M.”
Difficile da credere, pensò Riker. Provò a immaginare una civiltà che
prosperava sulla parte interna della sfera. Diavolo, l'orizzonte avrebbe curvato
verso l'alto invece che verso il basso. E...
La sua mente inorridì a quell'immagine. Aveva visto un bel numero di strani
fenomeni durante la sua carriera di primo ufficiale a bordo dell'Ellterprise,
ma nessuno di questi lo aveva preparato a una cosa come quella.
Worf cominciò a parlare dalla sua posizione dietro la consolle tattica,
“Signore... Ho localizzato il segnale di soccorso. Proviene da un punto
sull'emisfero nord.”
Assorbendo l'informazione, Picard si voltò verso il guardiamarina al timone.
“Guardiamarina Rager, ci porti in orbita sincrona al di sopra di quella
posizione.”
“Sì, signore,” rispose la donna, mentre le sue dita si muovevano velocemente
sui controlli.
Dovevano ancora trovare una risposta ai settantacinque anni di quel segnale di
soccorso, pensò Riker. Ma il loro interesse verso la Jenolen scompariva, se
comparato a quello nei confronti della sfera. Gradualmente si portarono sempre
più vicini.
In poco tempo, l'oggetto mostruoso apparve come un muro gigantesco nello
spazio, che si ergeva in tutte le direzioni a vista d'occhio. Mentre prima la
sfera era apparsa perfettamente liscia, adesso era possibile discernere
intricate strutture sulla superficie, strutture che suggerivano supporti per le
costruzioni. Ma erano ancora troppo lontani per distinguere qualcosa in maniera
precisa.
Tutti gli sguardi erano rivolti al visore principale. Quello che vedevano era
così immenso, così unico che non persero nemmeno un particolare.
Alla fine, raggiunsero l'orbita sincrona che Picard aveva desiderato.
“Stiamo mantenendo la posizione a trentamila chilometri dalla superficie,”
annunciò Sousa.
“Il segnale di soccorso proviene da una nave della Federazione che si è
schiantata sulla superficie della sfera,” disse Data. Dopo un momento, confermò
ciò che tutti avevano già sospettato. “È la nave da trasporto Jenolen,
Capitano.”
“Segni di vita?” chiese Riker.
“I sensori non rilevano nulla,” rispose l'androide. “Tuttavia, ci sono diverse
emanazioni di energia di piccola entità... E il sistema di supporto vitale
funziona a livello minimo.”
Riker notò che Picard lo stava osservando. Ricambiò l'occhiata e fece un segno
di assenso con la testa.
“Plancia a sala macchine,” annunciò il primo ufficiale.
“Geordi ci raggiunga in sala teletrasporto tre.” Poi, girandosi verso il
capo della sicurezza Klingon, disse, “Signor Worf, lei venga con me.”
Mentre un altro membro dell'equipaggio prendeva posizione alla consolle
tattica, Worf seguì Riker dentro il turboascensore. Le porte si erano appena
chiuse, quando il Klingon grugnì.
“Lo so,” disse Riker. “Avrebbe preferito analizzare l'interno di quella sfera,
piuttosto che l'interno di un vascello da trasporto relitto.” Guardò in alto
verso il soffitto luminoso e ammiccò. “Non gliene faccio una colpa.
L'avrei preferito anch'io.”
Non appena Geordi si fu materializzato sulla Jenolen, al fianco di Riker e
Worf, cominciò subito ad analizzare la zona circostante. Prima di raggiungere i
suoi colleghi nella sala teletrasporto, si era soffermato per un momento ad
analizzare la planimetria della nave con il Capo O'Brien, per assicurarsi che
non si sarebbero teletrasportati all'interno di una paratia. Così, non fu
sorpreso della grandezza e della configurazione del centro operazioni.
Tuttavia, né il primo ufficiale, né il capo della sicurezza si aspettarono
quella vista. “Che macello,” commentò Worf.
Riker annuì, “Sì, e sembra che abbiano fatto di tutto a parte preparare la
cena.”
“Forse, hanno fatto anche quello,” sottolineò Geordi.
Ognuno di loro estrasse il proprio tricorder. “Forza,” disse il primo
ufficiale. “Diamo un'occhiata intorno.”
Le luci erano basse, e sembrava che nessuno strumento stesse funzionando, ma
questo non rappresentò un problema per Geordi, il quale, grazie al suo VISORE,
riusciva a "vedere" bene sia alla luce che nel buio.
Guardandosi attorno, fece alcune riflessioni mentali.
Una o due consolle erano danneggiate o erano bruciate, c'erano montagne di
ceneri sul pavimento e in molti angoli la paratia era dilaniata. “Questa nave ha
veramente affrontato l'impossibile, anche prima di andarsi a schiantare.
Guardate cosa è accaduto.”
Annusando l'aria, Riker aggrottò le sopracciglia. “L'aria è piuttosto
stantia,” osservò.
Geordi consultò il proprio tricorder. “Il supporto vitale funziona a
malapena.”
Voltandosi verso Worf, il primo ufficiale disse, “Veda se riesce ad aumentare
il livello di ossigeno, Tenente.”
Annuendo, Worf si diresse verso una consolle. Nel frattempo, le analisi del
tricorder condussero Geordi alla postazione del teletrasporto. Non che si fosse
aspettato di trovare qualcosa di interessante lì, ma doveva analizzare ogni
angolo.
Un momento più tardi, fu felice di averlo fatto. “Comandante,” disse
l'ingegnere capo, mentre il suo cuore batteva velocemente per quanto aveva
appena scoperto.
Riker si mosse verso di lui, per vedere cosa avesse trovato. “Che c'Š,
Geordi?”
“Il teletrasporto è ancora operativo,” rispose La Forge.
“Attinge energia dal sistema ausiliario.”
Riker si piegò sui controlli del teletrasporto per fare un controllo lui
stesso. “Che strano,” mormorò. “La subroutine di rimaterializzazione è stata
disabilitata.”
“E non è tutto,” aggiunse Geordi. “Gli induttori di fase ausiliari sono stati
connessi alla rete di emettitori. Il circuito di annullamento è completamente
andato e il buffer degli schemi è stato bloccato in un continuo ciclo
diagnostico.”
Riker scosse la testa. “Non ha senso. Bloccare l'unità in modo diagnostico
provoca solo l'emissione di materia inerte nel buffer degli schemi. Chi mai
vorrebbe...?”
All'improvviso Geordi vide qualcosa sulla consolle, qualcosa che non aveva
notato prima. “Maledizione,” mormorò. “C’è ancora uno schema nel buffer!”
Se il suo battito era aumentato prima, adesso stava andava velocissimo.
Riker osservò le letture. “Ha ragione,” concluse. “È completamente intatto.”
Il primo ufficiale lo guardò, sbalordito. “C’è un decadimento del segnale
inferiore a zero virgola zero zero tre per cento. Com’è possibile?”
“Non lo so,” disse Geordi, mentre il suo cervello continuava a elaborare.
“Non ho mai visto un teletrasporto modificato in questa maniera.” Si voltò
un'altra volta verso il monitor, conscio che Riker stava facendo la stessa cosa.
“Qualcuno potrebbe sopravvivere nel buffer del teletrasporto per
settantacinque anni?” chiese il primo ufficiale.
Geordi si morse un labbro. Com'era possibile... Non era mai stato tentato...
Non che lui sapesse. Ma...
“So come scoprirlo,” disse.
Riker lo fissò. “Vuoi dire, tirarlo fuori o per lo meno provare a farlo?”
Inarcò un sopracciglio. “Ammettendo ovviamente che ci sia qualcuno intrappolato
qui dentro.”
Geordi annuì. “Già. Questo è proprio quello che voglio dire.”
Riker rifletté per un secondo. “Va bene,” disse. “Proviamoci.”
Ma non sarebbe stato facile. Una cosa era operare su una consolle del
ventiquattresimo secolo, provvista di settaggi automatici e di sofisticati
sistemi ausiliari, un'altra cercare di recuperare un vecchio segnale da un ciclo
energetico di fortuna, usando una tecnologia ormai obsoleta.
Per esempio, non aveva osato disconnettere gli induttori di fase dalla rete di
emettitori. Sebbene a quel punto poteva attingere energia dalle batterie
ausiliare, questo cambiamento avrebbe lasciato il buffer degli schemi senza
potenza per una frazione di secondo, e ciò avrebbe permesso al segnale di
degenerare.
No, avrebbe dovuto mantenere la connessione attiva, e bypassare i circuiti
fusi che avevano trasformato la funzione diagnostica in un ciclo continuo. A
quel punto, sarebbe bastato riattivare la subroutine di rimaterializzazione e...
se fosse stato fortunato... presto.... anche un viaggiatore del teletrasporto
molto stanco.
Molto prudentemente, Geordi proseguì con il suo piano. La prima parte filò
liscia come l'olio. La seconda parte, invece, non andò molto bene.
“Qual è il problema?” chiese Riker, notando l'espressione preoccupata sul
volto dell'ingegnere.
Geordi scosse la testa. “La subroutine che controlla la rimaterializzazione.
Non sembra voler riattivarsi.”
Il primo ufficiale grugnì. “Non ci provi.”
“Non lo farò.” concordò Geordi. Questa volta, prese una strada diversa e
cominciò a sorridere.
“Ce l'ha fatta?” chiese Riker.
“Sì, ci sono.”
C'era una sola cosa da fare ora, pensò Geordi.
Attivò il controllo finale e guardò verso l'esile piattaforma del
teletrasporto.
Nell'attimo che seguì, osservò l'inizio dell'effetto di un teletrasporto di
vecchio stampo, meno stabile e spettacolare di quello a cui era abituato.
Intimamente, spronò l'unità.
Avatlti, maledizione. Funziona una volta ancora. Sputa fuori questa persona.
Alla fine, una figura apparve. Oscillò nel raggio, aumentando di densità
molto lentamente, fino a quando Geordi non fu completamente sicuro che si fosse
completamente rimaterializzata. Poi, con un ultimo impulso energetico,
l'ombra divenne un uomo.
“Mio Dio,” disse Riker. “Ce l'ha fatta.”
Sì, proprio così. Davanti a loro se ne stava in piedi un abitante vivo e
vegeto del ventitreesimo secolo. E, a eccezione del braccio che portava fasciato
al collo, non mostrava segni di stanchezza o sofferenza.
=========
CAPITOLO TERZO
2.- Dall'episodio della serie classica "Fantasmi del passatov (Wolf in the
fold) (N.d.T.).
dossato una maschera.
Scott scosse la testa. Che stupido era stato. Il guardiamarina Kane non era
interessato alla Dohlman di Elas o alla sua sistemazione su Argelius, o ad altre
storie che avrebbe potuto raccontargli. Adesso, Scott poteva vederlo.
Tutto ciò che Kane voleva, era liberarsi di quei fardello e tornare ai suoi
affari.
“Mi scusi di averle creato dei problemi,” disse l'ufficiale.
Il guardiamarina non perse un colpo. “Niente affatto, signore. Posso fare
qualcos'altro?”
Scott scosse la testa, la sua esuberanza era completamente scomparsa. “No.
Grazie, signor Kane.”
L'uomo non si trattenne oltre. Un momento dopo, la porta si era chiusa e Scott
era rimasto solo.
Solo. In quell'alloggio gigantesco. A bordo di una nave enolme e sconosciuta.
Emise un sospiro e si sedette sul divano imbottito che gli avevano dato. Si
guardò attorno. Poi sospirò di nuovo. Sull'Enterprise, quella su cui lui aveva
prestato servizio, il ronzio dei motori era udibile ovunque. Dopo qualche tempo,
aveva avuto problemi ad addormentarsi in ogni altro posto, gli mancava quel
brusio.
Pensò che non avrebbe potuto dormire bene qui. Quel posto era silenzioso come
una tomba. Forse si poteva sentire il ronzare dei motori da qualche palte su
quella nave, ma senza dubbio non poteva avvertirlo in quella cabina. E da nessun
altra parte, sospettò, al di fuori della sala macchine.
Scott si sentì all'improvviso perduto. Come un bambino che fosse stato portato
via dai suoi genitori. E sapeva anche il perché. Non c'era nulla che lui potesse
fare in quel posto.
Per tutta la sua vita, si era sentito orgoglioso della sua utilità.
Se qualcuno voleva che qualcosa fosse fatta, si rivolgeva a Scotty. La gente
lo aveva chiamato genio, mago dell'ingegneria, ingegnere dei miracoli.
Il punto era che lui rendeva le cose possibili. E ciò, se gli veniva data una
possibilità. Ma lì.. . lì.. . in quel momento... non c'era nessuna possibilità.
Quell'Enterprise aveva già un ingegnere. E anche se non lo avesse avuto, lui
non sarebbe stato capace di quel compito, non con la sua incompleta e antiquata
conoscenza della tecnologia moderna. Maledizione... aveva scambiato l'EPS
energetico per un condotto di dati. Avrebbe potuto perfino uccidersi, facendo un
errore di quel tipo.
Forse, se avesse avuto una famiglia. . . avrebbe potuto ritirarsi... avrebbe
trovato qualche altro modo per realizzarsi. Ma gli unici bambini che avrebbe
potuto giustamente chiamare propri, erano i guardiamarina dell'Enterprise di
Kirk, e quelli se ne erano tutti andati, come chiunque altro avesse conosciuto e
amato.
Cosa puoi fare Montgomery? Cosa? pensò Scott. Dio sapeva che avrebbe dovuto
fare qualcosa, o avrebbe completamente perso il controllo. E non poteva credere
che soltanto lui fosse sopravvissuto tra tutte quelle povere anime a bordo della
Jenolen, solo per poi perdere lentamente e dolorosamente la testa.
A quel pensiero, si rianimò. Era sopravvissuto, giusto? E se era così, ci
doveva essere uno scopo. Forse non era molto chiaro, ma sicuramente c'era uno
scopo.
“Sì,” disse ad alta voce. “Il vecchio Montgomery Scott non è ancora sconfitto.
Da qualche parte in quella distesa di stelle e forse anche a bordo di questa
astronave, c’è un macchinario che necessita del mio tocco gentile. E se sarò
paziente, lo troverò.”
[INIZIO PAGINA]
Parole coraggiose, pensò. E anche se non era sicuro di crederci ciecamente,
sicuramente suonavano bene.
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CAPITOLO QUINTO
Picard utilizzò il dorso della mano sinistra per asciugare la goccia di sudore
che stava per andargli negli occhi. Poi, con la acilità dettata dalla pratica,
riportò la maschera sul volto e, rivolto al suo avversario, fece il
gesto di saluto con la spada.
Qualche metro più in là, Riker rispose al saluto e si mise in guardia. Forse
un po' troppo lentamente, giudicò il capitano, ma in fondo il suo primo
ufficiale era un principiante della grande arte della scherma.
“En garde,” annunciò Picard facendo un passo avanti.
Riker mantenne la sua posizione, non arretrando neanche di un millimetro.
Per questo ci voleva disciplina, il capitano lo sapeva bene. Una qualità rara in
un principiante. Non che avesse intenzione di premiarlo per questo.
Picard fece un altro passo in avanti e tirò una stoccata. Non un attacco in
piena regola, solo quanto bastava a costringere il proprio avversario a
indietreggiare, e quindi a renderlo più vulnerabile.
Ma Riker doveva aver capito la sua strategia, infatti si rifiutò di cooperare.
Invece di ritirarsi, scostò la spada del capitano di lato quel tanto che bastava
a non essere colpito e lanciò il contrattacco.
All'inizio sembrava una semplice stoccata, ma presto si trasformò in un
completo attacco in corsa, e questo sorprese Picard. La mossa che il capitano
aveva pensato di utilizzare a proprio vantaggio si era trasformata in un invito
al contrattacco pressoché inevitabile. Adesso, a Picard non rimaneva che
indietreggiare lungo la pedana.
Appena il Capitano ebbe superato la linea di fondo, il suo avversario fece
un'ultima, disperata accelerazione, che non centrò l'obiettivo per poco. Un
altro centimetro e avrebbe ottenuto una stoccata. Una stoccata brillante,
rifletté Picard.
“Bravo,” urlò mentre ambedue rallentavano, il capitano ancora indietreggiando
e il primo ufficiale avanzando. “Vedo che ha fatto pratica alle mie spalle.”
Riker sorrise attraverso la griglia della sua maschera. “La fa sembrare una
cosa disonesta.”
“Lo Š,” si risentì Picard. “Ma tutto è ammesso in amore e nella scherma,
suppongo.”
Mentre prendevano nuovamente posizione, il capitano rifletté sulla sua
posizione di svantaggio. Secondo il regolamento, avrebbe iniziato vicino alla
linea di fondo. Se l'avesse superata ancora una volta, automaticamente avrebbe
preso una stoccata a suo sfavore. Ma avrebbe preferito essere dannato prima di
permettere una cosa del genere.
“En garde?” suggerì Riker.
Picard annuì. “Certamente.”
Non appena pronunciò quella parola fintò, un tentativo per far indietreggiare
il suo avversario e guadagnare un po' di spazio. Ma come prima, Riker non cadde
nel tranello. Rimase semplicemente lì, rifiutandosi di concedere anche un
millimetro.
“Non c’è alcuna vergogna nel ritirarsi, Will,” disse il capitano.
Riker sogghignò. “Neanche nell'essere aggressivi.”
Senza alcun preavviso, l'uomo più massiccio tirò una stoccata. Ma questa volta
Picard era pronto. Spazzando via la spada di Riker con uno scatto, il
capitano riportò la sua in posizione giusto in tempo per toccare con la punta il
petto indifeso del suo primo ufficiale.
“Peccato!” urlò Picard, che per un breve istante tornò a essere il giovane e
arrogante spadaccino alla scuola di scherma del suo maestro.
Riker sospirò togliendosi la maschera. I suoi capelli si erano incollati alla
fronte. “Bel tocco, signore.”
Rimuovendosi la maschera a sua volta, Picard inclinò leggermente la testa in
segno di comprensione. “Grazie, Will. Ma la prossima volta dovrebbe provare a
indietreggiare un po'... darmi un falso senso di sicurezza... e poi venirmi
incontro.”
Il suo primo ufficiale annuì. “Me lo ricorderò.”
Il capitano fece un cenno con la testa, per indicare il replicatore
nell'angolo della palestra. “Le andrebbe una pausa?”
Riker lo fissò come se avesse voluto continuare, ma disse, “Certo, perché
no?” E infilando la maschera sotto il braccio, seguì il suo superiore fino al
replicatore.
“Té,” disse Picard, avvicinandosi al dispositivo. “Earl Grey. Bollente.” Si
girò verso il suo secondo in comando. “E lei, Will?”
“Acqua dei torrenti di montagna. La più fredda possibile senza che diventi un
ghiacciolo.”
Un momento dopo il replicatore esaudì le loro richieste. Il Capitano prese le
bevande, porse quella fredda a Riker e sorseggiò il suo té.
“Allora,” disse, iniziando di proposito la conversazione con una finta,
“Come se la passa il Capitano Scott? Spero che l'abbia lasciato in buone mani.”
“Le migliori,” disse il primo ufficiale. “Ho chiesto a Geordi di prenderlo
sotto la sua ala protettrice.”
“Bene,” commentò Picard. “Dopo tutto quello che ha passato si merita tutto
l'aiuto che possiamo dargli.”
La sua finta aveva avuto successo e Riker era caduto nella trappola. Ora era
il momento di affondare, di perseguire il vero motivo per cui voleva parlare con
lui.
“Will, ho avuto una visita nella mia sala tattica non molto tempo fa. Il
Guardiamarina Kane.”
Vide Riker irrigidirsi leggermente appena sentì quel nome. “Ecco perché lei mi
ha evitato,” disse. “E cosa aveva da dire Kane?”
“Penso che lo sappia,” disse Picard, nonostante stesse per fornire i dettagli.
“Che lei non è onesto con lui. Che le sta negando la possibilità di migliorarsi.
Che lei, per qualche motivo, è irritato con lui.”
Il primo ufficiale incrociò il suo sguardo. “Io sono irritato con lui,”
concesse. “Sono molto irritato con lui.” Una pausa. “Ma non è per questo che lo
tratto in modo diverso dagli altri. Il Guardiamarina Kane ha molto da imparare
sul rispetto per i propri superiori.”
Il capitano cercò di leggere nella frase di Riker.
“L'ambizione raramente è un crimine, Will. Diversamente, noi stessi ne saremmo
colpevoli in primo luogo. E se è per questo, lo sarebbe ogni ufficiale della
Flotta.”
“Non sto parlando soltanto di ambizione, signore. Sto parlando di arroganza.
Una mancanza di stima per l'autorità, per la tradizione.”
Picard si accigliò. “Una mancanza così grave da metterlo in fondo alla lista
dei servizi?”
“È così,” disse il suo Numero Uno. Ma non era disponibile sui dettagli. E il
capitano voleva proprio i dettagli.
“Come sa,” continuò rivolto a Riker, “mi sono laureato all'Accademia con il
padre di Darrin Kane. Conosco il guardiamarina fin dalla sua infanzia.”
“Forse non lo conosce così bene come crede, signore.” Le guance del primo
ufficiale adesso erano oscurate da un'ombra. Ci volle un momento per ricomporsi
prima che continuasse a parlare. “Capitano... quando acconsentii a diventa-
re primo ufficiale di questa nave, lo feci nella convinzione di credere
profondamente in alcune cose. Ora, lei può riesaminare il modo in cui ho deciso
di trattare il Guardiamarina Kane o può avere fiducia nel modo in cui svolgo il
mio compito. Ma se è la prima possibilità...”
Riker non finì la frase. Non ne aveva bisogno.
Picard lo guardò. “Si sente molto sicuro su questo punto, non è vero?”
“Sì, signore.” Non concesse terreno, proprio come aveva fatto nell'incontro di
scherma.
Stava al capitano lasciargli quella posizione oppure oltrepassare la sua
autorità e fargli cambiare metodo, con il rischio di perderlo. In sintesi,
tutto il loro discorso si riduceva a quella domanda: avrebbe dovuto fargli
cambiare idea? Era o non era sua competenza intervenire?
Picard fece la sua scelta. “Lei fa ciò che ritiene giusto,” disse al suo primo
ufficiale. “Per quanto mi concerne, il caso è chiuso.”
Riker mostrò di apprezzare. “Grazie, signore.”
“Guardiamarina Kane...”
La prima impressione di Kane fu quella di essere imprigionato nei deliri di un
incubo. La voce di Riker sembrava esplodere in un paesaggio oscuro, pieno di
arcani presagi; era in grado di provocare smottamenti e terremoti. E per quanto
corresse veloce o tentasse di nascondersi, non sarebbe mai riuscito a
sfuggirgli.
“Guardiamarina Kane...”
Era come il tuono, scrosciante da un nido di nubi tempestose, grigie come
l'acciaio... Imponente, assordante, lo stava schiacciando sotto il suo peso.
“Guardiamarina Kane!”
Kane saltò su. Si guardò intorno, con la gola secca e accaldata dalla paura.
Capì che si trovava nella sua stanza, la sua stanza a bordo dell'Enterprise e
non nel mondo immaginario dei suoi incubi. E quella voce... Era Riker, aveva
capito. Il vero Riker. Ma perché avrebbe dovuto...?
Poi il suo sguardo cadde sulla sveglia che teneva sul tavolo, ed ebbe la sua
risposta. Era in ritardo di dieci minuti sull'inizio del suo turno ed era ancora
a letto. Scaraventò le lenzuola dal letto e saltò giù a piedi nudi.
Dannazione, dannazione, dannazione...
“Sì, signore. Qui Kane. Non mi sono svegliato, signore.”
“Davvero?” disse la voce di Riker dall'interfono. “Non lo avrei mai detto.”
Il guardiamarina sfrecciò attraverso la stanza per raggiungere i cassetti e ne
trasse un'uniforme pulita. Il suo cuore stava battendo all'impazzata, tanto che
sembrava voler uscire dal suo petto.
“Spiacente, Comandante,” riuscì a dire in un soffio. “Non so come sia
successo. Credevo di aver chiesto al computer la sveglia per le...”
“Non l'ha fatto,” puntualizzò Riker. “Ho controllato.”
Kane si maledisse mentre indossava il suo abbigliamento rosso e nero. Era
fatta. Non solo Riker lo odiava, ma adesso gli aveva dato anche la scusa per
farlo. Più note negative il primo ufficiale riusciva ad affibbiargli, più gli
sarebbe stato facile tenerlo sotto.
Naturalmente, tutto questo non sarebbe accaduto se fosse andato a letto a
un'ora decente, ma era stato così impegnato dal suo incarico di baby sitter per
quell'anziano signore che era rimasto alzato nel Bar di Prora fino a fare le ore
piccole... Tossendo per il sintalcol e spremendosi le meningi per trovare un
modo di andarsene.
“Non succederà più, signore, glielo assicuro. Sarò al mio posto nel magazzino
in un paio di minuti.” Se c'era una cosa che il guardiamarina odiava in
particolar modo, era essere accondiscendente con Riker, doversi comportare con
gentilezza, anche se non gli andava. Lo detestava. Ma quell'uomo teneva il
destino di Kane nelle sue mani, e non c'era modo di evitarlo.
“Non si preoccupi,” gli disse il primo uìficiale.
Kane si stava tirando con forza i pantaloni su per una gamba, si fermò al
ginocchio. “Come ha detto, signore?”
“Ho detto: non si preoccupi. Non andrà nel magazzino, oggi.”
Un sorriso si diffuse sul volto del guardiamarina. Non ditemi che finalmente
ha parlato con Picard, pensò. Non ditemi che finalmente potrò avere ciò che mi
spetta... !
“Dove andrò, allora... signore?” Tirò su i pantaloni fino a coprire il resto
della gamba, ma non aveva più tutta quella fretta.
Poteva quasi sentire Riker che diceva: la plancia. In effetti, era così
sicuro che avrebbe sentito quelle due splendide e agognate parole che quasi non
capì quello che Riker disse veramente.
“Hangar navette principale. Ponte quattro.”
“Cosa?” Il guardiamarina non avrebbe voluto farselo scappare. Ma lo fece, e
parlò abbastanza forte da farsi sentire dall'altra parte dell'interfono.
“Hangar navette principale,” ripeté Riker. “Qualcosa non va nella ricezione,
Guardiamarina?”
“No... niente, signore.”
“Mi creda,” aggiunse Riker. “Non la toglierei dal suo solito incarico se non
ci fosse un motivo valido. Ma Coburn ha appena avuto un attacco di appendicite e
qualcuno deve rimpiazzarlo.” Una pausa. “Non si preoccupi, è soltanto per un po'
di tempo. Quando Coburn starà nuovamente bene, lei tornerà al suo lavoro.”
Nel silenzio che seguì, Kane rimase semplicemente fermo, immobile. Poi colpì
con un pugno il suo anmadietto, così forte da far schiantare il materiale
sintetico. L'incubo non era finito, pensò. Era appena cominciato.
Scott sapeva che avrebbe dovuto riposare, ma non poteva rimanere ancora in
quella suite senza perdere il senno. Sentiva il bisogno di uscire... di scoprire
qualcos'altro di quella nave gigantesca e di ciò che aveva da offrire. E anche
se il ponte ologrammi sembrava interessante, non era quello di cui lui aveva
bisogno. Almeno non in quel momento.
Lo stesso valeva per il Bar di Prora, qualunque cosa fosse, e per la palestra.
Non aveva fatto movimento per settantacinque anni, non avrebbe fatto differenza
se avesse ritardato ancora un po'.
Quello di cui aveva veramente bisogno erano le macchine. Macchine che
imbrigliano energia, macchine che la utilizzano... Macchine che fanno andare le
cose o che le fanno fermare... macchine senza le quali questa meraviglia di nave
stellare non poteva sperare di funzionare. Ecco a cosa anelava. Ecco cosa gli
faceva bollire il sangue, e sarebbe sempre stato così.
D'altra parte sapeva che non era autorizzato a vedere niente di tutto ciò.
Avrebbe dovuto riposare, non starsene in giro. Evidentemente non lo conoscevano
bene. Dire a Montgomery Scott di non fare qualcosa equivaleva a un chiaro invito
a provarla.
D'altra parte, voleva rimanere vicino agli alloggi che gli avevano assegnato
sul ponte sette. In questo modo, se qualcuno lo avesse scoperto in una zona dove
non doveva essere, avrebbe sempre potuto dire che si era perso.
Naturalmente, il primo obiettivo che scelse per la sua passeggiata fu la sala
macchine. Ma quel posto era troppo affollato, pieno di persone impegnate a
studiare la Sfera di Dyson. Meglio orientarsi su qualcosa di meno frequentato
dove avrebbe potuto girare un po'.
Qualcosa come l'hangar navette uno. Se non avesse potuto mettere le mani sui
motori dell'Enterprise, non per il momento almeno, studiarsi attentamente una
navetta era la cosa migliore che gli venisse a mente.
Lasciò il suo alloggio e iniziò a percorrere il corridoio come se fosse la
cosa più naturale da fare. Le persone che lo incrociavano guardavano spesso la
fascia che sorreggeva il suo braccio rotto, ma se lo riconoscevano da quel
particolare oppure no, non lo davano a vedere. Quando raggiunse il
turboascensore, le porte gli si aprirono davanti e lui entrò.
Fin qui tutto bene, pensò tra sé. “Hangar navette uno” disse rivolto al
computer, proprio come aveva visto fare al Comandante La Forge quando erano
andati in infermeria.
Gli sembrò di aver fatto appena in tempo a finire la frase che le porte si
aprirono di nuovo di fronte alla sua destinazione. Annuì con la testa in segno
di ammirazione. Gli ascensori della sua Enterprise non erano mai stati così
veloci e così comodi.
Uscito dall'ascensore, guardò in ambedue le direzioni del corridoio... e vide
l'hangar navette uno a pochi metri sulla sinistra. Si avviò verso la sua
destinazione come se fosse un altro ingranaggio della perfetta macchina del
ventiquattresimo secolo. E ancora, nessuno lo fermò per smentirlo.
Le porte dell'hangar furono accomodanti allo stesso modo. Si aprirono
completamente al suo arrivo, scoprendo una vera e propria pacchia per i suoi
occhi di ingegnere. Un'area grande quanto un intero ponte della Jenolen,
stipata con qualcosa come due dozzine di navette, alcune grandi, altre più
piccole, luccicanti come un intero stonmo di angeli celesti.
“Accidenti,” disse, socchiudendo gli occhi per il bagliore.
Attraversò la vasta area dell'hangar, andò verso il veicolo più vicino e
allungò la mano per accarezzare la pelle metallica della macchina. Era
incredibilmente calda al tocco. E cosa ancora più importante, la sua linea era
molto morbida rispetto alle navette dei suoi tempi, le navette con gli angoli
appuntiti tanto da sembrare delle scatole volanti. Il veicolo che aveva di
fronte era talmente liscio, le linee così pulite e gradevoli da non sembrare
naturale che dovesse restare ferma. Avrebbe dovuto scivolare nello spazio,
scandagliando l'atmosfera esterna di qualche pianeta, allo stesso modo in cui
una perla affonda dolcemente nell'acqua.
Scott lesse il nome della navetta sulla fiancata, scritto con una grafia
graziosamente accurata. Si chiamava Christopher. Borbottò, felice. Si trattava
di Sean Jeffrey Christopher, l'uomo che comandò la prima spedizione di una sonda
dalla Terra a Titano, all'inizio del ventunesimo secolo. Il figlio del
capitano John Christopher3, che fu un inatteso ospite dell'Enterprise.
Inaspettato e anche inopportuno, anche se rimase solo per un breve periodo.
Se non fosse stato per Scott, che riuscì a rispedirlo nel suo tempo,
precisamente qualche minuto prima che incontrasse l'Enterprise, non ci sarebbe
stato nessun Sean Jeffrey Christopher e molto probabilmente nessuna Federazione
Unita dei Pianeti. Infatti, se la sua spedizione al satellite di Saturno fosse
fallita, probabilmente la Terra non avrebbe mai sviluppato un progetto per
l'avanzata nello spazio, e quindi non avrebbe creato la Flotta Stellare. E senza
Flotta Stellare come avrebbe potuto esistere la Federazione?
Scott sentì un rumore di passi sul pavimento dietro di lui, si girò e vide una
faccia familiare. Era lo stesso guardiamarina che lo aveva accompagnato al
suo alloggio, il giorno prima. Era stato così gentile.
Come si chiamava? Crane? No, non proprio...
Schioccò le dita. “Kane.”
Il guardiamarina annuì, guardandolo con circospezione. “Giusto, signore.”
Esitò un attimo, poi “Uh, lei è autorizzato a stare qui?”
Scott fece l'occhiolino. “A dire la verità, figliolo, non sono autorizzato
neanche a soffianmi il naso su questa nave. Ma da come la vedo io, non puoi
restartene seduto nella tua stanza a contare i bulloni delle paratie quando c’è
un intero mondo da scoprire proprio fuori della porta. Se capisci cosa voglio
dire.”
Il guardiamarina si accigliò. “Kane a sicurezza,” disse senza distogliere gli
occhi dall'anziano che aveva di fronte.
3.- Dall'episodio della serie classica *'Domani è ieri (Tomorrow is yesterday)
(N.d.T.).
“C’è un intruso nell'hangar navette principale che risponde al nome di
Capitano Scott. Credo debba essere accompagnato al suo alloggio.”
Scott si sentì come se fosse stato pugnalato alle spalle. “Ma questo,” disse
al guardiamarina, “non era necessario. Non era affatto necessario.”
Kane alzò le spalle. “Ho già abbastanza problemi da solo, senza caccianmi nei
guai con una visita non autorizzata.” La sua bocca si piegò in una specie di
smorfia, una smorfia di amarezza. “Se capisce cosa voglio dire.”
Prima che Scott potesse replicare all'impertinenza del giovane guardiamarina,
il Tenente Worf arrivò assieme a due ufficiali della sicurezza. Il vecchio
capitano si preparò mentalmente a ricevere un rude trattamento da parte del
Klingon. Ma quella paura non si materializzò. Anzi, il tono di Worf fu molto
gentile, “Vuole seguinmi, signore?”
Scott si meravigliò. “Beh,” disse, lanciando un'occhiata confusa al giovane
Guardiamarina Kane, “se me lo chiedi così gentilmente, come si fa a dire di no.”
Circondato dalle guardie di sicurezza, Scott tornò nella sua camera grande e
lussuosa. Ma stava già pianificando la sua prossima uscita. Adesso che aveva
fatto quel piccolo tour e aveva avuto un assaggio di tutto quello che c'era da
vedere, non sarebbe mai restato lì a fissare quelle quattro mura. Anche se
avrebbe disubbidito al Dottor Crusher.
Decise che si sarebbe riposato per un paio d'ore. Poi, senza che nessuno lo
venisse a sapere, avrebbe fatto un altro giro. E questa volta sarebbe andato
dritto nel posto che voleva vedere per davvero.
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CAPITOLO SESTO
4.- Dall'episodio della serie classica "Al di là del tempo " (The naked time)
(N.d.T.).
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CAPITOLO SETTIMO
Non molto tempo prima, gli alloggi gli erano sembrati così spaziosi da non
sapere cosa farsene. Adesso, gli sembravano incredibilmente piccoli e
soffocanti, come una gabbia. Continuò a camminare avanti e indietro, da una
paratia all'altra.
“Mi sta facendo perdere tempo,” borbottò per l'ennesima volta. “Ha detto che
gli stavo facendo perdere tempo!” ripeté ad alta voce. “Ai miei tempi, gli
ingegneri si rispettavano a vicenda. Una volta, l'aver passato quasi tutta la
tua vita tra i motori di una astronave contava qualcosa, ora...”
La porto suonò, interrompendo le sue lamentele.
“Che cosa volete?” chiese Scott.
Scott non sapeva chi si fosse preso la briga di andarlo a trovare, ma appena
si aprì la porta, realizzò che mai e poi mai avrebbe pensato di ricevere una
visita da una persona così avvenente. Si trattava senza dubbio di una delle
donne più dolci e affascinanti che avesse mai visto. Le sue labbra formavano un
sorriso così candido, così disarmante, che Scott si sentì obbligato a
dimenticare, per un momento, tutta la sua rabbia.
“La disturbo?” chiese lei, guardandolo con occhi scuri e profondi, appena
mascherati dalla ciocca di nerissimi capelli che le era scivolata sulla fronte.
“Uh... no,” rispose Scott, porgendole la mano. “Capitano Montgomery Scott al
suo servizio. Cosa posso fare per lei?”
La donna afferrò la sua mano e la scosse con vigore. “Deanna Troi, consigliere
di bordo. E a dire il vero, sono venuta a trovarla per assicuranmi che non le
mancasse niente.”
Scott non riuscì a decifrare quella proposta, ma osservando la donna per
qualche secondo, si rese conto che la sua bellezza era troppo genuina per
lasciarla andar via senza parlarle per qualche secondo ancora. Le fece cenno di
accomodarsi nella vicina poltrona. Poi si sedette sulla sedia di fronte.
“La ringrazio per il suo interessamento, signorina. Ma per adesso sto benone.
L'alloggio è più che adeguato, e il replicatore è davvero portentoso.”
Scott le sorrise. Deanna contraccambiò. Ma lo scozzese non riusciva ancora a
capire perché lei fosse andata a trovarlo. Ma in fin dei conti, pensò, che
importanza aveva? Ciò che contava è che la bellissima donna rimanesse ancora un
po'.
“Sono felice che tutto proceda bene per lei,” disse Troi. “Ma a dire il
vero, vonrei sapere come si sente.”
Per un istante, Scott desiderò che quello non fosse solo un semplice incontro
amichevole. E poi, aveva conosciuto quella donna solo alcuni attimi prima,
e benché lui fosse ancora un uomo affascinante, non riusciva proprio a
immaginare come loro due potessero...
“Come mi sento?” ripeté sconsolato.
“Sì,” disse Troi. “Sarebbe perfettamente normale se si sentisse disorientato,
confuso o perfino spaventato dopo tutto quello che ha passato.”
Scott non riusciva ancora a capire. “Suppongo che si sia trattato di un
risveglio... inaspettato, sì.”
Ci fu una breve pausa, durante la quale Scott cercò di capire dove volesse
andare a parare la bella ragazza. Troi si mosse a disaoio nella sua poltrona,
come se stesse tentando [115] di procedere con un'altra tattica.
“Sono certa che avrà tantissime domande da farmi. Si chiederà forse cosa è
accaduto negli ultimi settantacinque anni,” dichiarò Troi. “Se desidera, posso
aiutarla ad accedere ai computer storici... scoprire cosa ne è della sua
famiglia... dei suoi amici.”
Scott sobbalzò, sorpreso. Famiglia? Amici? “Non credo di essere pronto,
ancora,” ammise. “È difficile accettare il fatto che forse tutti coloro che
conoscevi non ci sono più.”
La sua voce si fece più triste, e terminò la frase in calando. Poi, rendendosi
conto che la conversazione stava proseguendo su un binario che a lui non
piaceva, sollevò la testa e guardò Deanna con sospetto.
“Perdoni la mia ignoranza,” iniziò, “ma mi può dire quali mansioni svolge
il... consigliere di bordo?”
“La mia funzione principale è quella di prendermi cura del benessere emotivo e
psicologico dell'equipaggio,” spiegò con semplicità. E sorridendo nel suo tipico
modo avvenente, aggiunse, “E ovviamente, anche quello dei nostri ospiti.”
Scott strizzò gli occhi. “E lei è un ufficiale?”
Troi annuì. “Sì. Il ruolo di consigliere è stato istituito una quarantina di
anni fa, quando ci siamo resi conto degli effetti nocivi derivanti da lunghi
periodi nello spazio. Da allora tutte le navi della Federazione ne hanno uno a
bordo.”
Il sospetto di Scott venne confermato. “Lei è una psicologa!” esclamò.
“Anche,” rispose Troi, con calma e convinzione. “Come le ho detto, sono venuta
a trovarla per...”
Scott scosse la testa. “È stato La Forge a mandarla qui? L'ha fatto lui!
Sarò anche vecchio, ma non sono pazzo!”
Troi inclinò il capo. “Non ha capito, signor Scott. Geordi non ha niente a che
vedere con questa visita. E lo so che lei non è pazzo.”
Scott si alzò in piedi, seccato da tutta quella vicenda. Ciò che era iniziato
come una piacevole sorpresa stava di nuovo assumendo l'aspetto di un'ulteriore
umiliazione. Che diavolo, ci stava facendo il callo a essere umiliato.
“Ha proprio ragione,” le disse. “Non sono pazzo. E visto che ci troviamo
d'accordo su questo punto, è bene che sappia che non ho bisogno di un dannato
consigliere, o di uno psicologo, o comunque voglia chiamarlo.” Fece una pausa,
accaldato. Con voce tanto sottomessa da sorprendersi lui stesso disse, “So di
cosa ho bisogno, e non lo troverò certo qui.”
Né in quel momento, né in futuro. E il peso di quell'improvvisa realizzazione
lo schiacciò senza riserve.
Per un momento, Troi assunse un'espressione decisa, come se stesse pensando a
un altro modo per convincerlo ad ascoltarla. Poi, probabilmente invasa dai
dubbi, si alzò silenziosamente e incrociò le braccia al petto.
“Spero che cambierà parere, Capitano Scott. Nel frattempo, io sarò a sua
disposizione, se deciderà di consultarmi.”
Scott sbuffò. Non lo avrebbe mai fatto, non si sarebbe mai abbassato a ciò.
Così, non disse niente, e non impedì che Deanna uscisse silenziosamente dal
suo alloggio.
Mentre si allontanava dall'alloggio, camminando lungo il corridoio, Deanna
contemplò la reazione di Scott. Sospirò.
Quale disperazione. Aveva conosciuto uomini in balia di tormenti molto meno
crudeli, meno soffocanti. Aveva assistito alla rovina di amici e conoscenti,
divorati dalla disperazione, dalla depressione, senza che lei né nessun altro
potesse intervenire.
Ciò nonostante, Scott non sembrava correre quel pericolo. Continuava a
trascinare il peso della sua vicenda con lodevole coraggio. Deanna non poteva
far altro che ammirarlo.
Certo, sarebbe stato meglio per lui se si fosse aperto. Lei avrebbe potuto
alleggerire quel suo fardello, forse avrebbe potuto indicargli la via per un
futuro a cui lui non aveva pensato.
La speranza, ecco cosa aveva da offrirgli. Ma Scott non le aveva concesso di
provare. Lo stesso coraggio che gli aveva penmesso di non impazzire, lo spingeva
a respingere qualsiasi aiuto esterno.
Deanna non avrebbe potuto e dovuto insistere. Se Scott avesse richiesto il
suo aiuto, lei glielo avrebbe concesso. Ma non lo aveva fatto. Scosse la testa,
sentendosi sconfitta, entrò nel turboascensore e si diresse in plancia.
Che diavolo. Maledizione a tutti i diavoli.
Suggerire a lui, Montgomery Scott, l'aiuto di uno psicologo, un dannato
strizza cervelli. Non aveva forse affrontato minacce più pericolose, in ogni
angolo della galassia, prima di approdare in quella Enterprise del
ventiquattresimo secolo? E non aveva forse mantenuto una integrità fisica e
psicologica perfetta?
Camminando lungo il corridoio, Scott non si rese neppure conto di dove si
stesse dirigendo. Ma dopo tutto, quello non era un problema.
Non poteva starsene fermo, e camminare gli avrebbe fatto bene. Ne aveva
bisogno per focalizzare i suoi pensieri per concentrarsi meglio.
Se solo si fosse trovato a bordo della sua Eliterprise. Almeno lì, avrebbe
potuto rinchiudersi nel proprio alloggio, in gradevole compagnia di una
bottiglia di scotch, e rimuginare su ciò che gli era accaduto, su ciò che gli
stava accadendo.
Scott scosse la testa. Altro che uno psicologo. Aveva bisogno di un posto dove
rifugiarsi, e ponderare la situazione a modo suo.
Voltando l'angolo del conidoio, non poté fare a meno di notare gli sguardi
curiosi degli uomini e della donne che, camminando in direzione opposta alla
sua, continuavano a incrociarlo. Sapevano di lui? Erano stati avvertiti della
sua presenza?
E avrebbero cercato di offrirgli il loro aiuto tramite uno dei loro
consiglieri strizzacervelli del ventiquattresimo secolo?
Scott era troppo impegnato a evitare gli sguardi indiscreti degli ufficiali,
che quasi non notò l'unica persona che sembrava non osservarlo. Se non fosse
stato per l'insolito colore giallo oro della sua pelle, non ci avrebbe mai fatto
caso.
Quell'ufficiale attirò talmente la sua attenzione, che decise di seguirlo per
osservarlo da vicino. All'inizio, gli era parso un alieno di qualche sorta,
forse un rappresentante di una nuova razza della Federazione. Poi il
suo sesto senso, il solito sesto senso che ai suoi tempi lo aveva reso il
migliore ingegnere della Flotta, gli disse che non era così.
Si trattava di un uomo meccanico. Una forma di vita artificiale. Un androide,
o almeno così lo avrebbe chiamato un centinaio di anni prima.
Indossava l'uniforme della Flotta Stellare, e portava addirittura i gradi di
tenente sul collo. Quell'essere era un membro dell'Enterprise, un ufficiale.
Prima i Klingon, poi quella... cosa!
Incuriosito, Scott accelerò il passo e raggiunse l'androide, che accortosi di
essere seguito, si soffermò e guardò lo straniero con i suoi occhi gialli.
“Posso aiutarla?” chiese.
Scott sussultò. Anche se si trattava di qualcosa di artificiale, riusciva a
parlare con altissima precisione, anzi, in maniera perfetta... così perfetta da
risultare completamente spassionato.
“Se può aiutarmi?” ripeté l'umano. Certo, pensò Scott. Mi potrebbe aiutare a
staccarle la testa, così che possa controllare i suoi ingranaggi interni.
Ma preferì non esprimere a parole quel pensiero. Chissà perché, non gli
sembrava giusto parlare in quei termini a un suo collega, anche se era fatto di
ferro e bulloni.
L'androide inclinò la testa su un lato. Il suo movimento fu pacato, quasi
impercettibile. “Lei è il Capitano Scott,” osservò.
Allora lo conosceva. Ma certo, se era un ufficiale a bordo della nave,
doveva essere a corrente dei fatti.
“In carne e ossa,” rispose Scott. “E lei chi sarebbe?”
“Il mio nome è Data,” replicò semplicemente.
Data, eh? “Che nome interessante,” osservò l'umano.
“Sono un androide,” spiegò, sentendosi probabilmente in dovere di fornire una
spiegazione.
“Lo vedo,” gli disse Scott. “Non è il primo androide che incontro, lo sa? Su
Exo Tre5, ne abbiamo visto uno che assomigliava proprio al capitano.
5.- Dall'episodio della serie classica "Gli androidi del Dottor Korby" (What
are little giris made of) (N.d.T.).
E poi, c’è stato quel colosso inviatoci contro da Harry Mudd6, che però sono
sicuro si sia pentito amaramente di averlo fatto. E che dire di quella dolce
creatura indifesa su Holberg 917G7, quando stavamo cercando della... No, non
suppongo che le interessi.”
Data scosse la testa, “Ciò nonostante, non si aspettava di vedere un androide
a bordo di questa nave. Corretto?”
Scott lo fissò. Percettivo, vero? O lui era semplicemente stato troppo ovvio
nel manifestare il suo stupore? O forse, Data lo aveva semplicemente dedotto
attraverso le informazioni di cui disponeva?
“Sì, qualcosa del genere,” concesse l'umano. “Allora, come ha fatto a
diventare ufficiale? È stato costruito apposta? Ogni nave adesso ha un androide
a bordo?”
Si trattava di una prospettiva da far rabbrividire. Le macchine non avevano
diritto, non avevano la capacità di comandare delle astronavi. La storia lo
aveva già dimostrato cento anni prima, quando la Flotta Stellare aveva voluto
installare a bordo della sua Enterprise l'unità M5, un potentissimo computer
rivelatosi difettoso8.
“Io sono l'unico androide della Flotta Stellare,” rispose Data. “Non sono
stato creato per servire a bordo di una astronave. Sono stato progettato e
costruito dal Dottor Noonien Soong, uno scienziato di cibernetica, che al
momento della mia progettazione non aveva idea che sarei diventato un ufficiale
della Flotta Stellare. Per quanto riguarda la mia
6.- Dall'episodio della serie classica "lo, Mudd", seconda stagione (1,
Mudd) (N.d.T.). 7.- Dall'episodio della serie classica "Requiem per
Matusalemme`, terza stagione (Requiem for Methuselah) (N.d.T.). 8.-
Dall'episodio della serie classica "11 computer che uccide", seconda stagione
(The ultimate computer) (N.d.T.).
Scott stava in piedi, nel corridoio, davanti all'entrata del ponte ologrammi.
Aveva ancora in mano la bottiglia di liquore verde che aveva preso nel Bar di
Prora, ed era decisamente ubriaco. Attivò il computer sulla paratia.
“Prego, inserire il programma,” disse la voce sintetica del computer.
“L'androide al bar mi ha detto che avrei potuto vedere la mia vecchia nave.
Dunque, mostramela.”
“Dati insufficienti. Specificare i parametri, prego.”
“L'Enterprise. Mostrami il ponte di comando dell'Enterprise, maledetto pezzo
di latta arrugginito...”
“Vi sono state cinque navi della Federazione con questo nome,” lo informò il
computer. “Prego, specificare il numero di registro.”
Scott imprecò dentro di sé. “NCC Uno Sette Zero Uno. Nessuna maledetta A, B,
C o D!”
“Il programma è stato completato,” annunciò il computer. “Può entrare.”
Scott fece un passo verso la strana porta scorrevole del ponte ologrammi e si
fermò. Che cosa lo stava trattenendo?
La possibilità che quella fantasia non sarebbe stata all'altezza della realtà?
Una vaga e superstiziosa sensazione di paura nello svegliare ricordi ormai
sepolti lo colse di sorpresa. Quell'Enterprise senza suffisso faceva parte di
un'altra epoca, di un altro tempo. Lui lo sapeva bene; l'aveva vista morire con
i suoi stessi occhi.
“Al diavolo,” esclamò a voce alta. “Se non si è disposti a rischiare non si
possono conquistare le belle ragazze.” Poi, avanzò di nuovo.
La porta si aprì. Un momento più tardi, come per magia, Scott si ritrovò sul
ponte della sua vecchia nave. Tutti i monitor stavano lampeggiando di luci
colorate, e i suoni acuti dei rilevatori permeavano l'aria del ponte di comando.
Per un attimo, spostandosi vicino alla sedia del capitano, Scott si sentì di
nuovo a casa. Si diresse verso la sua vecchia postazione, leggermente defilata
sulla sinistra del turboascensore. Poi si voltò, e si osservò intorno.
Si sentì inaspettatamente depresso. Non c'era nessuno con lui. La plancia era
vuota. In quello che era stato il centro vitale della sua nave, la mancanza di
voci umani e l'assenza dei suoi amici lo resero ancor più triste.
Senza i suoi compagni alle relative postazioni, senza Spock e McCoy che si
prendevano in giro a vicenda, e senza il Capitano Kirk intento a ridere alle
loro continue punzecchiature, l'Enterprise sembrava una nave fantasma.
Era questo il suo destino adesso? Condannato a esistere in un universo non
suo, inutile e indesiderato?
Scott sospirò profondamente.
Maledizione. Non si era recato sul ponte ologrammi per sentirsi peggio. Lo
aveva fatto solo per ricordarsi di un tempo in cui sapeva esattamente ciò che
voleva, ciò di cui aveva bisogno.
Scott riempì il bicchiere di whisky, cercando di affogare in esso tutta la sua
malinconia e la sua frustrazione. Sollevò il bicchiere, e salutò gli amici non
più presenti.
“Alla vostra, amici miei,” intonò, quasi singhiozzando. E bevve con fare
liberatorio.
Poi realizzò... quel ponte ologrammi era in grado di ricreare ben più di
semplici luoghi o cose. Se aveva capito bene, forse, avrebbe potuto ricreare
anche delle persone.
“Computer,” disse, “ho bisogno di un po' di compagnia. Di qualche faccia
familiare.”
“Prego, specificare,” giunse la risposta.
Aggrottò la fronte e si stiracchiò i muscoli. “Il capitano James T. Kirk. Il
Primo Ufficiale Spock. L'Ufficiale Medico Leonard McCoy.”
Si sentì già meglio. Pronunciare quei nomi lo fece stare davvero meglio. Era
come se tutto assumesse una dimensione più reale, più vera.
“Tenente Sulu al timone, Guardiamarina Chekov alla navigazione. E alla
stazione delle comunicazioni, la più bella donna che abbia mai indossato
un'uniforme, il Tenente Uhura.”
“Le informazioni specificate sono presenti nell'archivio. Prego, specificare
data stellare.”
Certo, come no. La data. Le persone non erano come una nave stellare. Erano
soggette a cambiamenti, da mese a mese, da anno ad anno, a volte perfino da un
giorno all'altro. Pensò per un momento.
Avrebbe dovuto scegliere una data che risalisse almeno al secondo anno della
missione quinquennale, o Chekov non sarebbe stato presente. E Scott voleva che
ci fosse anche il giovane russo. Di tutti coloro che si erano succeduti alla
postazione della navigazione, DeSalle, Bailey, Stiles e altri ancora, Chekov
era la persona a cui Scott si era sentito più legato.
“Vediamo,” disse, massaggiandosi la mascella.
Perché non facciamo qualche giomo dopo l'incides1te con i Triboli"? Sorrise
tra sé, ricordando quei piccoli esseri 11- Dall'episodio della serie classica
"Animaletti Pericolosi", seconda stagione (The Trouble with Tribbles) (N.d.T.).
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pelosi e tutti i guai che avevano provocato. Non che la sua vita ne fosse
stata particolarmente influenzata. Anzi, in quella occasione aveva avuto modo di
confrontarsi nettamente con i Klingon, con i quali si era sfogato un po', a suon
di pugni.
Quelli sì che erano tempi memorabili.
Che peccato che cose del genere non potessero verificarsi più. Adesso che i
Klingon e la Federazione si erano alleati, non ci sarebbero state più zuffe.
Niente scazzottate con quei barbari dalla testa piena di bozzoli, nessuna
contesa per difendere l'onore della Flotta e dell'Enterprise.
Peccato, pensò Scott. Un altro prezioso fenomeno culturale andato perso nel
corso degli anni.
Il silenzio lo avvolse. Gli sembrò addirittura che quel silenzio lo stesse
supplicando, o che stesse implorando per della voci.
“Lo so, lo so,” disse. “Stai aspettando.”
Il computer non rispose, ma la sua impazienza era quasi palpabile. D'accordo,
allora. Data stellare...
Poi gli venne in mente. Certo. Perché non ci aveva pensato prima?
“Data stellare 4534.7,” disse al computer. “E per quanto rieuarda i miei
amici, devono avere la stessa età che avevano al tempo in questione.”
“Sto elaborando,” replicò il computer.
Un secondo più tardi, Scott non fu più solo. La compagnia che aveva sperato di
avere non era apparsa nel modo in cui lui credeva che sarebbe apparsa, ma in
modo molto più reale. I suoi amici riempivano la plancia come avevano sempre
fatto, come se fossero sempre stati lì.
Bisbigliò confusamente tra sé. Erano davvero con lui. I suoi amici stavano
occupando le postazioni che avevano sempre occupato. Tutti, eccezion fatta per
il Dottor McCoy, che senza dubbio sarebbe arrivato presto.
“Quanto tempo manca, signor Sulu?” chiese l'ufficiale seduto nella poltroncina
centrale.
“Non molto, Capitano,” replicò il timoniere. “Attraccheremo alla Base Stellare
Nove tra due ore, venticinque minuti e trenta secondi.”
“Benissimo, Tenente. Abbiamo proprio bisogno di riposarci un po' dopo quello
che ci è successo su Triskelion12. E poi nessuno fa delle bistecche au poivre
come il Comandante Tattinger.”
Il navigatore si voltò per guardare il capitano. “La bistecca au poivre è un
piatto russo. Mia madre era solita cucinarcelo aggiungendo un tocco di paprika.”
Il capitano si schiarì la gola. “Capisco, signor Chekov. Farò bene a
ricordarlo al comandante.”
Concentrando il proprio sguardo sulla poltroncina di comando, Scott si sporse
in avanti. “Capitano Kirk?”
Il capitano si voltò e incontrò lo sguardo del suo ingegnere capo. Kirk era
giovane, vitale. Così giovane che Scott ne fu quasi sorpreso. Sembrava che il
ponte ologrammi riuscisse a ricordare Kirk meglio di quanto non facesse Scott.
C'era qualcosa di sbagliato in questo, o no? Come faceva una macchina a
ricordare una persona meglio di quanto non potesse fare lui, che di quella
persona era grande amico?
“Sì, Scotty,” rispose Kirk. “C’è qualcosa di...?”
Improvvisamente, si arrestò senza terminare la domanda, e puntò i suoi occhi
sulla bottiglia che Scott teneva in mano. Poi gli sguardi dei due ufficiali si
incontrarono. “Signor Scott,” disse con termezza, ma mantenendo la calma, “per
tutti i numi, che diavolo sta facendo qui con quella bottiglia in mano?”
12.- Dall-episodio della serie classica "La Posta in Gioco", seconda stagione.
(The Gamesters of Triskelion) (N d T.)
Non appena Sousa entrò nella sala ricreativa, vide Kane che se ne stava seduto
da solo, in disparte. Anche Tranh e gli altri erano nella sala, ma se ne stavano
dalla palte opposta della vasta stanza.
C'era qualcosa di sbagliato in quella situazione. Kane apparteneva al gruppo,
e avrebbe dovuto partecipare alla conversazione insieme agli altri. Dopotutto,
era il loro leader carismatico. Era colui verso cui facevano capo un po' tutti.
“Andy!” disse Tranh, rivolgendosi a Sousa. “Vieni qua siediti.”
Kane alzò gli occhi e osservò la scena. Poi allontanò nuovamente lo sguardo.
Sousa si avvicinò al gruppo e si sedette, ma non poté fare a meno di lanciare
un'occhiata a Kane. “Che cosa sta succedendo?” chiese. “Perché Kane è là da
solo?”
Tranh scrollò le spalle. “L'ha deciso lui. Gliel'abbiamo chiesto di unirsi a
noi, ma non ha voluto.” E poi, con voce sommessa, “Se lo vuoi sapere, secondo me
si sente in imbarazzo. Dopo tutti quei discorsi che ha fatto affermando di
essere il pupillo del capitano, gli vengono ancora assegnati gli incarichi più
umili.”
“Non è colpa sua,” ribatté Sousa.
“Non mi sembra di aver detto questo,” replicò Tranh. “Personalmente, mi
dispiace molto per lui. Ma non credo che voglia la mia comprensione.”
Sousa prese una decisione. “Scusatemi,” disse. Si alzò, e attraversò la
stanza, dirizendosi verso Kane.[140..]
Il guardiamarina alzò la testa. Non sembrava cambiato. Il suo sguardo era lo
stesso di sempre, fiducioso, fiero, quasi arrogante, quello sguardo che Sousa
gli aveva invidiato da sempre. Che diavolo, lo invidiava ancora, sebbene la
fortuna dell'amico sembrava essersi esaurita.
“Salve,” gli disse. “Ti dispiace se mi siedo?”
Kane scrollò le spalle. “Fa' pure, timoniere.”
Sousa si sedette. “Come vanno le cose nella stiva di carico?”
Il suo amico sorrise, ma non si trattava del suo solito sorrisetto. Non
nascondeva quel sottile strato ironico che lo aveva contraddistinto fino a quel
momento. Sembrava una finta, una forzatura, come se Kane stesse nascondendo
qualcosa. Qualcosa che non voleva rivelare a nessuno.
“Benone. E in plancia?”
Sousa si strinse nelle spalle. “Non mi posso lamentare.”
Kane grugnì. “Certo che no.” Fece una pausa. “Questo è il tuo problema. Non
hai ambizioni. Solo per il semplice fatto di essere arrivato in plancia ti credi
di avercela fatta.” La sua espressione si fece seria. “Ma la corsa è
ancora lunga, sai? E il vincitore non è sempre quello che parte più forte degli
altri.”
Sousa scosse la testa. “Io non sono in competizione con te, Kane. Tu sei mio
amico.” Gli si avvicinò. “Se hai dei problemi, riguardano anche me. Se c’è
qualcosa che non va per te, allora non va neppure per me. Se sei arrabbiato per
come ti trattano, lo sono anch'io.”
Kane fissò l'amico per un secondo o due e poi iniziò a ridere. Si trattava di
una risata sarcastica, offensiva. E Sousa ne fu offeso.
“E bravo il mio amico Sousa. Non vorrai mica darmela a bere?”
Sousa ammiccò, perplesso. “Ascoltami un po'. Lo so come ti senti. Ti senti a
terra. Sei deluso. Ma non è detto che debba essere così per sempre, o mi
sbaglio?”
Kane sogghignò ironicamente. “Ti sbagli, amico. Ti sbagli di grosso. Non mi
sento a terra e non sono deluso.” Si alzò in piedi. “Io sono Darrin Kane e non
ho bisogno né del tuo aiuto, né di quello di nessun altro, intesi?”
Sousa si arrabbiò. Aveva tentato di aiutare quel povero cretino, e adesso si
era ritrovato in quella situazione ridicola.
Si alzò anche lui. “Lo sai, Kane. Pensavo davvero che saresti diventato uno in
gamba, anzi credevo che lo fossi già. Ma mi sbagliavo. Ti siedi qui in un angolo
e non fai altro che rimuginare. Ma non credere che non ti capisca. Non ti
illudere che chi ti sta intorno non sappia quello che stai passando.”
Kane fece una smorfia, poi si avvicinò all'amico e lo afferrò per l'uniforme.
Ma Sousa fu troppo veloce per lui; afferrò il braccio dell'amico e lo piegò
violentemente.
E forse avrebbe potuto continuare a farlo se non vi fossero state tutte quelle
persone a osservare la scena. E proprio quando i due avrebbero potuto scatenare
una rissa, notando la gente che li osservava, decisero di lasciar perdere.
“Suvvia,” bisbigliò qualcuno nell'orecchio di Sousa. “Vattene, vattene,
prima che degeneri e qualcuno decida di farti rapporto.”
Sousa si allontanò. Ma non subito, ovviamente. Era troppo arrabbiato per
farlo. Ma senza rendersene conto, venne accompagnato al tavolo dove aveva visto
Tranh e gli altri. Qualcuno gli porse qualcosa da bere.
E quando decise di rialzare lo sguardo in direzione di Kane, lui se ne era già
andato.
Geordi era stupito. Aveva terminato l'analisi spettrografica la notte
precedente. Il capitano non poteva aver avuto il tempo di studiarne gli effetti
in maniera approfondita; non era possibile che avesse deciso di convocare il suo
ingegnere capo nella sala tattica per discutere di quelle analisi.
E invece lo aveva chiamato. E quando il Capitano Picard cercava uno dei suoi
uomini, non c'era tempo da perdere. L'unica soluzione era fare ciò che lui aveva
ordinato.
Ancor prima che Geordi se ne rendesse conto, la porta del turboascensore si
aprì con un sibilo, rivelando il simmetrico ordine della plancia
dell'Enterprise-D. Riker e Troi sedevano alle loro postazioni, leggermente
defilate rispetto alla poltrona centrale del capitano. Che però non era
presente. Worf,
che occupava la stazione tattica, gli lanciò una rapida occhiata non appena
Geordi uscì dal turboascensore.
Nonostante il suo fiero sguardo, Worf tradì un certo imbarazzo. Anche il
Klingon si stava probabilmente chiedendo perché mai Geordi si fosse recato in
plancia a quell'ora. Spaesato, Geordi scrollò le spalle. Senza alcun dubbio,
tra poco avrebbe avuto qualche risposta.
La Forge si diresse verso la sala tattica del capitano, esitando prima di
entrare. Per un attimo ebbe l'impressione di aver sentito il suono di
avvertimento della porta di fronte, che avrebbe avvertito il capitano della sua
presenza. Ma forse non si era trattato altro che della sua immaginazione.
Dopotutto, quella stanza era stata progettata esclusivamente per fornire il
capitano di un minimo di privacy.
Un secondo più tardi, la porta si aprì, e Geordi si trovò a osservare il
Capitano Picard, seduto dall'altra parte della stanza. Il capitano spense il
suo monitor, e indicò la sedia vuota dalla parte opposta della scrivania.
“Prego,” disse, invitandolo a sedere. “Si accomodi, signor La Forge.”
Geordi si inoltrò nella sala, accompagnato dal rumore della porta che si
richiudeva alle sue spalle. Afferrando la sedia, disse, “Signore?”
Picard si appoggiò allo schienale della propria poltroncina, distese le
braccia sui braccioli della stessa, e congiunse le dita formando una specie di
guglia. Geordi seppe allora che il motivo della sua presenza non aveva niente a
che fare con le recenti analisi da lui ultimate. Si doveva trattare di qualcosa
di delicato di cui il capitano preferiva parlare faccia a faccia.
“Negli ultimi giorni ho spesso pensato alla vicenda della Jenolen,” disse
infine Picard. “Mi è stato fatto notare che l'equipaggio della navetta ha
condotto un'analisi approfondita della Sfera di Dyson prima di precipitare.”
Geordi annuì. “Vero, signore.”
“Siamo stati in grado di accedere ai file relativi?”
L'ingegnere sollevò le spalle. “Abbiamo cercato di scaricare il nucleo della
memoria, ma è stato danneggiato piuttosto gravemente nell'impatto. Non siamo
ancora riusciti a ricavare niente.”
“Capisco,” rispose Picard. “Forse il Capitano Scott potrebbe darci una mano
per accedere alle informazioni.”
Il Capitano... Scott? Perché non ci aveva pensato prima? Se avesse avuto
qualcosa da fare, forse non si sarebbe recato in sala macchine a dare tanti
fastidi.
“Perché no?” replicò Geordi. “Senz'altro, conosce quei sistemi molto meglio di
quanto li conosciamo noi.” Poi pensò per un attimo agli ufficiali della sua
squadra che in quel momento avrebbero dovuto essere in servizio. “Dirò al
Tenente Bartel di teletrasportarsi a bordo della Jenolen con lui,” decise.
“Potrebbero lavorare insieme al nucleo della memoria.”
Tutto qui? O a Geordi stava sfuggendo qualcosa di importante?
“Posso andare, signore?” chiese con cortesia.
Picard lo fissò seriamente. “No, signor La Forge.” Seguì una pausa. “Se devo
essere sincero, vorrei che fosse lei ad accompagnare il signor Scott.”
La prima reazione di Geordi fu di sorpresa. “Io, signore?”
E poi realizzò il motivo di quella richiesta. Il capitano doveva aver avuto
notizia del piccolo scontro verbale con Scott in sala macchine, e ora Picard
stava cercando di offrire a Geordi una possibilità per rimediare.
Picard si spostò in avanti. “Non si tratta di un ordine, Geordi. È una
richiesta, una richiesta che è liberissimo di rifiutare.”
La Forge sorrise. “Non lo farei mai, signore. Ma perché è così importante per
lei che sia io ad accompagnare il signor Scott? Se desidera che gli porga le mie
scuse per quel che è successo in sala macchine, tanto vale che lo faccia qui,
adesso. Inoltre, ho ancora del lavoro da sbrigare, e Bartel è un bravo
ingegnere...”
Picard sollevò una mano, invitando Geordi a far silenzio. Silenzio fu. Per un
istante, il capitano sembrò titubante, come se stesse cercando argomentazioni
più valide con cui convincere il suo ingegnere.
“Geordi,” iniziò, “una della cose più importanti nella vita di un uomo, è
quella di sentirsi utile. Il Capitano Scott è un ufficiale della Flotta
Stellare, anche dopo tutti questi anni. E vorrei che si sentisse di nuovo utile.
Sempre che questo sia possibile.”
Alla fine Geordi riuscì a comprendere che cosa voleva dire il capitano. Lo
capì grazie al suo sguardo, al suo atteggiamento.
Stava parlando non solo per Scott, ma anche per se stesso. E per Geordi. E per
tutti coloro che avendo trascorso una vita a sentirsi utili, un giorno,
forse, non lo sarebbero più stati. La dignità era una cosa importante, e se
volevano essere trattati di conseguenza in futuro, avrebbero fatto meglio a dare
il buon esempio ora, nel presente.
Geordi sorrise rassicurato. “Lo accompagnerò io, Capitano.”
Picard annuì, grato di quella risposta. “Grazie, signor La Forge. A meno che
non ci sia qualcos'altro, può andare.”
“Grazie, signore,” rispose Geordi. E uscendo dalla sala tattica, iniziò a
pensare a come si sarebbe potuto scusare con Scott nel modo più garbato.
Will Riker era in piedi accanto a Worf quando Geordi emerse dalla sala tattica
del capitano. L'ingegnere capo sembrava un alunno che il professore,
per una buona ragione, aveva fatto restare in classe qualche minuto in più
degli altri compagni.
Riker decise giustamente di non chiedere l'argomento della discussione. Se
fosse stato necessario saperlo, Picard avrebbe informato chi di dovere. E visto
che non l'aveva fatto. [manca]
Annuendo, Geordi entrò nel turboascensore. Poi la porta si richiuse dietro di
lui.
Worf commentò quell'intera vicenda emettendo uno strano rumore a metà tra un
grugnito e un ringhio. Ma dopotutto, quel suono non disturbò nessuno, anzi,
quella strana ingerenza, si disse Riker, servì a coprire i variopinti commenti
dei presenti in plancia.
“La penso allo stesso modo,” gli disse Riker. Poi, dopo aver invitato il
Klingon a proseguire le proprie analisi, discese dalla passerella e si recò al
centro della plancia e si sedette al suo posto.
“Comandante Riker?” Il signor Data, seduto alla consolle della postazione
operazioni, si voltò sulla sua sedia e si rivolse al primo ufficiale.
“Sì, Data?” Il primo ufficiale si sporse in avanti. “Qualcosa di
interessante?”
“Posso parlare solo per me stesso,” gli disse l'androide, “ma lo trovo molto
interessante. Credo di aver trovato qualcosa sulla superficie della sfera. È
simile a un dispositivo di comunicazione.”
Riker si alzò di nuovo. Si avvicinò a Data e analizzò i dati ricavati
dall'androide.
“C’è una piccola antenna a circa cinquecentomila chilometri a sud della nostra
posizione attuale,” spiegò l'androide. “Sta emettendo dei segnali subspaziali a
bassa frequenza. Ma sembrerebbe attiva.”
“Possiamo aprire un canale?” chiese il primo ufficiale.
Data scosse la testa. “Non dalla nostra orbita attuale, Comandante. Al
momento, il dispositivo è puntato altrove.”
Riker si voltò verso Rager, che stava occupando la postazione di timoniere.
“Ha le coordinate del dispositivo in questione, Guardiamarina?”
Rager lavorò alla sua consolle per alcuni secondi. “Sì, signore,” rispose la
donna. “Ho le coordinate.”
“Bene,” commentò il primo ufficiale. “Si prepari a portarci sopra l'antenna.”
Il guardiamarina si mise immediatamente all'opera, e Riker si chiese se quello
non fosse stato il momento giusto di aggiornare il capitano degli ultimi
sviluppi. Si rispose da solo.
“Riker a Capitano Picard,” intonò con decisione.
La risposta arrivò quasi simultaneamente. “Sì, Numero Uno?”
“Signore, sulla superficie della sfera abbiamo individuato ciò che sembra
essere un sistema di comunicazione. Ho pensato di avvertirla.”
Ci fu una pausa. “Arrivo subito,” rispose il capitano.
Quando Geordi arrivò in sala teletrasporto, non c'era nessuno, a parte
O'Brien. Giunto in prossimità della piattaforma, l'ufficiale di colore poggiò
a terra la cassetta degli attrezzi che si era portato dietro. Poi scrollò le
spalle.
“Non mi dire, sono di nuovo in anticipo!” esclamò sarcasticamente Geordi.
O'Brien consultò il suo cronometro. “Solo di trenta secondi,” commentò.
“Vedrà che il resto della squadra arriverà...”
“... in tempo,” disse Scott, avvicinandosi ai due ufficiali, oltrepassando la
porta della sala del teletrasporto. Era così pallido in volto che dava quasi
l'impressione di avere grosse borse scure sotto gli occhi.
“Si sente bene?” gli chiese Geordi.
Un po' irritato, Scott rispose, “Non ti ubriacare mai a meno di non essere
disposto a scontarla il giorno dopo. Ce la farò, non si preoccupi.”
“D'accordo,” disse Geordi. Date le circostanze, avrebbe sorvolato.
Con un piccolo sforzo, l'anziano signore salì sulla piattaforma. Poi si voltò
verso O'Brien a cui fece un cenno di assenso con la testa.
Geordi afferrò la scatola degli arnesi e affiancò Scott. “Pronti,” disse,
“energia.”
Picard osservò il visore principale, che mostrava una porzione ingrandita
della sfera sottostante. Su di essa era presente una vasta forma metallica
tondeggiante, punteggiata da svariate antenne e dischi di ricezione.
“Che cosa è quella forma circolare?” chiese.
Data, che sedeva di fronte a lui, si voltò per guardarlo. “I sensori indicano
che si tratta di un portello di ingresso di qualche sorta. Potrebbe condurre
direttamente all'interno della sfera.”
“Capisco,” disse il capitano. Scambiò un'occhiata con Riker, che se ne stava
in piedi al suo fianco. “E ha detto di aver individuato un sistema di
comunicazione?”
“Sì, signore,” replicò l'androide. “È situato vicino al portello a circa
diciassette gradi di distanza.”
Picard respirò profondamente, estasiato. “Affascinante,” commentò. “Davvero
affascinante.”
“Sembrerebbe la porta principale,” notò Riker. “Suoniamo il campanello?”
Il capitano ponderò quella possibilità per un istante, e giunse a una
decisione. “D'accordo, Numero Uno. Signor Worf, cerchi di aprire un canale di
comunicazione.”
“Sì, signore,” rispose il Klingon, mettendosi subito al lavoro alla postazione
tattica. Dopo alcuni secondi, annunciò, “Niente, signore.”
“Continui a provare,” ordinò Riker, “Ci potrebbe volere un po' di...”
“CaDitano!” urlò Rager. La donna alzò lo sguardo dalla propria consolle,
completamente allarmata. “Rilevo intense emissioni di gravitoni sulla superficie
della sfera! E si stanno dirigendo verso...”
Prima che il guardiamarina potesse terminare il suo avvertimento, la nave
venne scossa violentemente. Picard andò a sbattere contro la paratia e poi cadde
a terra, letteralmente scaraventato dalla parte opposta della plancia.
Al momento dell'impatto credette di svenire, ma riuscì a riprendersi in fretta.
Poi, con notevole sforzo fisico, si drizzò in piedi.
In plancia le luci erano saltate. Alcune consolle non funzionavano più, e i
suoi ufficiali, con la sola eccezione di Data, avevano fatta la sua stessa fine,
e stavano adesso cercando di guadagnare le proprie postazioni. Come lui,
sembravano confusi, al limite dello stato cosciente.
“Allarme rosso,” gridò, riuscendo a scandire bene la propria voce sopra il
crescente mormorio addolorato e sorpreso dei suoi uomini. Poi, si avvicinò a
Moreno, che era caduta faccia all'ingiù vicino a una consolle. L'ufficiale non
dava segni di vita.
Picard le toccò il collo, per controllarle il battito cardiaco. Era debole,
molto debole, e sulla fronte della donna si era aperta una vistosa ferita,
dalla quale continuava a uscire sangue.
“Dottor Crusher,” gridò, sperando che l'interfono non fosse stato danneggiato.
La risposta della dottoressa fu quasi immediata. “Lo so,” disse la donna.
“Ci sono dei feriti in plancia. Ma ce ne sono ovunque in tutta la nave.” Una
pausa. “Le farò avere una squadra di soccorso. Crusher, chiudo.”
“Capitano Picard?” Era Data, ancora seduto nella sua poltroncina, come se vi
fosse stato inchiodato. “Siamo stati catturati da qualche sorta di raggio
traente, signore. Ci sta attirando verso la parte esterna della superficie.”
L'androide fornì quella spiegazione con efficienza e con distacco
professionale tali da indurre a pensare che la sua vita non fosse in pericolo.
Ma lo era. La vita di tutti era in grave pericolo, e la ferita sanguinante sulla
fronte di Moreno ne era una prova tangibile.
Adesso, Riker si era seduto nella sua poltrona. “Timoniere!” urlò. “Ci
allontani da qui! Motori a impulso, a tutta forza!”
“Abbiamo perso l'energia principale,” avvisò Rager. Anche lei era stata
ferita; la sua guancia era stata lacerata dolorosamente. “L'energia ausiliaria è
giù del venti percento!”
Picard strinse i denti, contemplando l'ironia di quell'intera situazione:
erano arrivati li per salvare la Jenolen, e adesso erano loro che avevano
bisogno di essere salvati.
Sarebbero sopravvissuti all'impatto, come aveva fatto Scott? O il massiccio
scafo dell'Enterprise avrebbe permesso ai suoi occupanti di superare indenni
anche quella crisi?
“Invertire i motori,” ordinò Riker. “Se non ci possiamo allontanare, allora
cerchiamo di atterrare il più morbidamente possibile!”
Ma era troppo tardi anche per quello; il capitano lo sapeva. Più si
avvicinavano alla sfera, più la loro velocità aumentava. Anche se avessero
potuto frenare la caduta, ormai l'impatto sarebbe stato durissimo. La sfera si
stava avvicinando sempre di più...
E poi, quasi per intervento divino, la pelle della sfera si aprì, prima
impercettibilmente, e poi sempre di più. La fessura si allargò fino a divenire
un vero e proprio ingresso di enormi proporzioni.
“È un portello,” mormorò Riker.
“È vero,” confermò Picard.
All'improvviso, un fascio di luce, brillante come il sole, scaturì dalla
superficie del gigante sferico e li colpì. Il bagliore era tanto intenso da
rendere impossibile la vista. La luminosità risaltava ancora di più a contrasto
con il colore scuro della sfera sottostante. Portando una mano agli occhi per
non rimanerne accecato, Picard realizzò di cosa si trattava.
Un momento più tardi, il filtro automatico del visore ridusse l'intensità
della luce, e gli ufficiali dell'Enterprise poterono vedere da dove aveva avuto
origine il fascio di luce. Picard aveva avuto ragione.
Era la stella al centro della costruzione. Il sole che gli ideatori di quella
sfera avevano catturato, isolandolo dal resto dell'universo, come una sorta di
schiavo colossale, di mostro marino, anzi, dello spazio. Come il
mitologico Prometeo, portatore del fuoco... imprigionato per l'eternità.
Worf osservò lo schermo, il suo sguardo carico di rabbia e irritazione. “Il
raggio è troppo forte. Non possiamo resistere!”
“Non si tratta di un solo raggio traente,” osservò Data; la sua voce calma e
pacata costituiva un perfetto contrappunto al tono furente e passionale del
Klingon. “Ce ne sono sei, signore.”
Il capitano adesso poteva vederli: una mezza dozzina di tentacoli luminosi,
che emanavano dalla sfera a intervalli regolari, avevano catturato la nave e la
stavano inesorabilmente tirando all'interno della sfera stessa.
“Stiamo per essere inghiottiti dalla sfera!” gridò Worf.
E in effetti era così. Stavano ormai oltrepassando il grande portello,
scivolando attraverso l'apertura che si stava allargando sempre più, come le
fauci dell'inesorabile destino che li stava attendendo dall'altra parte.
E non c'era niente che potessero fare per impedire quella fine. Niente.
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CAPITOLO DECIMO
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CAPITOLO UNDICESIMO
Era passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno aveva utilizzato i
sensori del vascello da trasporto Jenolen* Malgrado tutto, erano in buono stato.
Lavorando al fianco di Scott, Geordi usò a pieno i sensori della nave. Ma per
quanto provasse, riusciva al massimo ad accendere qualche lucetta.
“Non li trovo in orbita da nessuna parte,” disse ad alta voce.
“Nessuna fortuna neanche qui,” replicò il suo compagno.
“Non credo che abbiano fatto semplicemente fagotto e se ne siano andati,”
insistette Geordi.
“Neanche per un'emergenza?” chiese Scott.
L'uomo più giovane scosse la testa. “Ci avrebbero teletrasportato a bordo
prima. O per lo meno ci avrebbero informati di quello che stavano facendo.”
Scott scosse la testa. “Sì. Credo che l'avrebbero fatto.” Arricciò il naso.
“Non vorrà mica dire che sono precipitati sulla sfera... proprio come la
Jenolen?”
Geordi negò subito quella possibilità. “No, o registrerei delle radiazioni di
fondo se fossero precipitati.” Si morse un labbro. “Ma allora, dove sono?
Non possono essere spariti nel nulla.”
Per un istante, nessuno dei due osò parlare. Poi Scott strinse gli occhi,
preoccupato. “C’è un'altra possibilità... potrebbero essere dentro la sfera.”
Geordi lo fissò. Inizialmente, quell'idea gli parve ridicola, assurda. Ma più
a lungo ci rifletteva, più si rendeva conto che forse Scott non aveva tutti i
torti. “Forse... forse.” Lo Scozzese protestò. “Non forse. È così. Se non sono
fuori dalla sfera, devono per forza esserci dentro, figliolo.”
L'ufficiale più giovane respirò profondamente. “Qualsiasi cosa sia successa,
li dobbiamo trovare. Sa... se riuscissimo a far tornare attivi i motori potremmo
rintracciarli seguendo la scia ionica dei loro motori a impulso.”
Scott impallidì e alzò le mani al cielo, in segno di impotenza. “Lei è un po'
tocco! Il nucleo principale è a pezzi, gli induttori sono fusi, gli
accoppiamenti d'energia sono andati... ci vorrebbe una settimana solo per
cominciare!”
Geordi stava per cedere. La rabbia lo aveva ormai sopraffatto. All'inizio,
non era riuscito a togliersi Scott di torno, e adesso non riusciva a convincerlo
che il suo aiuto era indispensabile. Nonostante la promessa fatta al
capitano, adesso ne aveva davvero abbastanza.
“Aspetti un po',” disse Scott. Si massaggiò la mascella per un paio di
secondi, e poi continuò il proprio monologo come se fosse la persona più
razionale dell'universo. “Visto che non abbiamo una settimana, non ha senso
lamentarsi. Avanti, vediamo cosa possiamo fare con il suo convertitore
d'energia!”
Allontanandosi da Geordi, Scott si avviò in direzione della sala macchine,
lasciando il giovane ufficiale quanto mai sorpreso. Dopo un istante di
esitazione, La Forge decise di seguire il suo predecessore.
Per quanto precaria fosse la loro situazione, adesso che orbitavano attorno
alla stella, imprigionata dall'immensa sfera metallica, Picard non poteva non
pensare alla missione dell'Entefprise e del suo equipaggio. Come aveva detto a
Data non molto tempo prima, stavano galoppando tra le stelle per cercare nuove
forme di vita e nuove civiltà, e i costruttori della Sfera di Dyson promettevano
di essere una razza molto interessante.
Dopo tutto, la sua legittima ed egoistica preoccupazione di rimanere in vita
era stato il motivo per cui aveva ordinato al suo secondo in comando di
analizzare l'interno della sfera per individuare forme di vita aliene.
Qualcuno si era scomodato per attirarli all'interno della sfera. E adesso
Picard aveva pensato bene di scoprire l'entità di quel qualcuno. Per
riguadagnare la libertà, sarebbe stato fondamentale mettersi in contatto con i
loro "rapitori".
Sfortunatamente, il Tenente Worf aveva già analizzato la composizione della
sfera e aveva scoperto che era composta da carbo-neutronio, una delle sostanze
più resistenti conosciute nell'universo. Perfino a massima potenza, non
avrebbero mai potuto generare un raggio laser così efficace da bucare il
rivestimento di metallo della sfera.
“Capitano?”
Picard si voltò verso le postazioni scientifiche di poppa. “Sì, Data. Ha già
trovato qualcosa di interessante?”
“Sì, signore.”
Era difficile interpretare la fredda espressione dell'androide. Riuscendo a
mascherare la propria curiosità per un momento, il capitano si avvicinò al suo
secondo in comando.
“Ho completato la bio scansione dell'interno della sfera,” lo informò Data.
Picard lanciò un'occhiata al monitor, su cui erana riportati i risultati della
ricerca. Le sue speranze morirono definitivamente. “Nessuna forma di vita,”
concluse.
L'androide lo guardò con aria quasi solidale. “Corretto, signore. La sf`era
sembra essere abbandonata. Anche se...” Accese un altro schermo, su cui era
evidenziata la mappatura della sfera. “... i nostri strumenti non sembrano
essere in grado di eseguire la scansione di una piccola area... in questo
punto.”
Picard seguì il dito di Data mentre indicava la locazione esatta. Il capitano
grugnì. “In altre parole,” disse, “non possiamo sapere se in quella zona si
nasconde o meno qualche forma di vita.”
“Esatto,” confermò l'androide. “Ma visto che sul resto della superficie non
sono state individuate forme di vita, si potrebbe concludere che anche...”
“... in quella zona specifica non ve ne siano alcune,” completò il capitano.
“D'altro canto, quella zona potrebbe essere impenetrabile dai nostri sensori
perché protetta da un campo di forza artificiale... magari costruito da un
gruppo di eletti, rimasti all'interno della sfera quando se ne sono andati gli
altri. Forse, chiunque vi si nasconda dietro ha deciso di non rivelarsi agli
eventuali visitatori.”
“Vero, signore,” concordò Data. “E non sapremo mai qual è la verità se non
inviamo una squadra di ricognizione a investigare.”
Picard gli indirizzò uno sguardo incuriosito. “Mi sta chiedendo di farlo,
Data?”
“Sto soltanto costatando un dato di fatto,” replicò l'androide.
Il capitano ponderò per un istante la possibilità di inviare una squadra in
perlustrazione. Le riserve energetiche erano ancora al minimo. Alcuni sistemi
restavano danneggiati, e la nave non era più manovrabile come avrebbe voluto.
A ogni modo, l'area impenetrabile ai sensori sarebbe stata a portata tra meno
di un'ora. Quella poteva essere la loro unica possibilità, non solo per
contattare gli eventuali nativi di quel posto, ma anche per salvare la pelle.
Cosa avrebbe fatto?
Alla fine alzò lo sguardo. “Comandante Riker, qui è il capitano.”
Il primo ufficiale non tardò a rispondere. “Non abbiamo ancora terminato.
Alcuni dei sistemi sono stati bruciati dal sovraccarico, e ci vorrà del tempo
per sostituirli.”
“Ricevuto, Numero Uno. Ma non l'ho chiamata per questo motivo.” Fece una
pausa. “Vorrei che preparasse una squadra di ricognizione.”
Riker ammutolì. Passarono alcuni secondi prima che Riker si decidesse a
rispondere. “Una squadra di ricognizione, signore?”
“Sì.” Picard si voltò verso il monitor di Data. “Ho una missione di
esplorazione per lei e suoi uomini, Will. Si prepari, e alla svelta.”
Darrin Kane si trovava nell'hangar navette uno, un luogo che stava iniziando a
odiare, così come detestava i carichi in arrivo e quelli in partenza, quando
ricevette una chiamata dal suo ufficiale preferito, Will Riker.
Quale altra umiliante tortura gli avrebbe propinato il primo ufficiale adesso?
Si sarebbe forse dovuto recare al Bar di Prora per servire le consumazioni ai
tavoli?
“Qui Kane,” rispose, sopprimendo un'imprecazione. Con la fortuna che si
ritrovava, l'interfono sarebbe probabilmente riuscito a filtrare anche quella
sua esternazione.
“A rapporto nell'hangar navette tre,” ordinò Riker. “Sto convocando una
squadra di ricognizione, e vorrei che lei ne facesse parte.”
Il guardiamarina non riuscì quasi a credere alle proprie orecchie. “Una
squadra di ricognizione?” ripeté. Si trattava di uno scherzo, ne era sicuro.
Si sarebbe recato nell'hangar navette tre e lo avrebbero informato che la
missione era stata annullata, o che Riker era già partito senza di lui.
“Signor Kane? Non starà mica dormendo?”
“Uh... no, signore,” replicò Kane.
“Cinque minuti,” gli disse il primo ufficiale. “Non arrivi in ritardo.”
“No, Comandante. CioŠ, sissignore. CioŠ...” Si rese conto che stava parlando a
una navetta. Riker aveva interrotto le comunicazioni.
Kane scosse la testa e cercò il Tenente Bridges con lo sguardo. Bridges era
l'ufficiale di più alto grado presente al momento, e stava conducendo
un'ispezione del portellone dell'hangar.
“C’è qualcosa che non va?” chiese il tenente.
“Non lo so,” disse Kane. “Il Comandante Riker mi ha chiesto di unirmi alla sua
squadra di ricognizione.”
La donna lo guardò di traverso. “Squadra di ricognizione? E dove intende
sbarcare?”
Il guardiamarina stava per rispondere quando realizzò di non poterlo fare.
“Non lo so,” le disse. “Ma devo andare.”
Poi si voltò e si diresse verso l'hangar navette tre.
Sousa era in piedi tra il Comandante Riker e il Consigliere Troi. Erano
presenti anche Bartel e Krause, della sala macchine. Adesso l'unico che mancava
era Darrin Kane.
Un momento più tardi, le porte del corridoio si aprirono con un sibilo e Kane
entrò dentro la vasta sala a grandi passi. Sembrava entusiasta, felice di essere
stato assegnato a un incarico rispettoso, dopo tanti mesi relegato a svolgere
compiti di poca importanza.
Avvicinatosi al gruppo, abbracciò il resto della squadra con uno sguardo
ammaliante, che intensificò non appena riconobbe i suoi amici. Sousa sorrise,
cercando di far capire a Kane che non portava rancore per quel che era successo.
Ma non ebbe alcuna risposta. Kane si avvicinò a Riker. Si comportò come se lui
e Sousa non fossero mai stati amici.
“Pronto, signore,” disse Kane.
Il primo ufficiale annuì, e lanciò una breve occhiata a tutti i componenti
della squadra, passandoli in rassegna uno per uno. “Ecco come procederemo.
Normalmente, ci saremmo teletrasportati nel luogo indicato. Ma la nave non può
lasciare l'orbita, e visto che la nostra destinazione è molto lontana, l'unico
modo di raggiungerla è usare una navetta.” Fece una pausa. “Sfortunatamente, i
sensori indicano che non c’è un posto abbastanza grande dove potremo atterrare
con la navetta. Perciò, ci avvicineremo il più possibile e a circa duecento
metri dalla destinazione finale ci teletrasporteremo uno alla volta usando il
teletrasporto d'emergenza. Domande?”
Sousa ne aveva una. “Come faremo a tornare indietro?”
“Ci teletrasporteremo a bordo della navetta mediante un telecomando a
distanza,” replicò Riker. “Se dovessimo teletrasportare a bordo qualcosa di
troppo grande, potremmo anche far atterrare la navetta.”
Sousa annuì. “Ricevuto, signore.”
“Bene,” disse il primo ufficiale. “Tutti a bordo.”
Nel centro operazioni della Jenolen, Geordi stava sdraiato sulla schiena,
completamente sotto una consolle da cui spuntavano fuori solo le sue gambe. A
meno di un metro di distanza, Scott era nella medesima posizione, sotto un'altra
consolle. Il pavimento era ricoperto di arnesi e strumenti vari, che non
aspettavano altro di essere usati.
Ormai erano passate alcune ore da quando Geordi aveva accettato di riparare i
motori della Jenolen. Ma in quell'arco di tempo, lui e Scott avevano fatto più
progressi di quanto avrebbe mai immaginato. Ogni condotto energetico e ogni
circuito aveva ripreso a funzionare. Se non fosse stato per l'inreparabile danno
subito dai motori, sarebbero veramente riusciti a far muovere quella vecchia
astronave.
L'anziano capitano poteva anche non avere una perfetta conoscenza della
tecnologia moderna, pensò Geordi. Ma per quanto riguardava i principi
fondamentali della scienza ingegneristica del ventitreesimo secolo, Scott non
era certo da sottovalutare. Anzi... probabilmente non c'era nessuno che ne
sapeva tanto quanto lui. In qualunque secolo...
“Devii il deuterio dalla pompa crionica principale dentro il serbatoio
ausiliare,” si raccomandò Scott.
“Il serbatoio non reggerà a tanta pressione,” riferì Geordi, facendo capolino
per un istante.
Scotty lo imitò e sporse la testa in fuori per un istante. “Come diavolo le è
venuta in mente una cosa del genere, figliolo?”
Geordi scrollò le spalls. “È scritto nelle specifiche dei motori a impulso.”
“Regolamento quarantadue quindici? "Variazioni di pressione nel serbatoio di
immagazzinamento IRC?".”
“Sì .”
“Lo dimentichi!” gli disse Scott. “L'ho scritto io.” Rintanando la testa sotto
la consolle per riprendere il lavoro, continuò il suo commento. “Un buon
ingegnere è sempre un po' preoccupato, almeno sulla carta. Basterà bypassare la
valvola di interruzione secondaria e aumentare il flusso. Funzionerà, si fidi.”
Sorridendo tra sé, Geordi si drizzò in piedi e apportò le modifiche necessarie
al pannello di controllo della sua consolle. “Va bene, sto deviando il
deuterio.”
Quell'intero piano avrebbe fatto meglio a funzionare, pensò Geordi, o
sarebbero stati presto un cumulo di gas in giro per lo spazio.
Attese alcuni secondi. Se esiteva un problema al serbatoio ausiliario,
probabilmente gli effetti si sarebbero già mostrati.
“Allora?” domandò l'ufficiale più anziano.
“Per ora, tutto a posto,” annunciò Geordi. “Mi sa proprio che aveva ragione.”
Scott sbuffò. “Certo.” Alzandosi anche lui da sotto la consolle, si scrocchiò
le dita, e con un pizzico di orgoglio spinse alcuni tasti.
“Cosa sta facendo?” chiese La Forge. “Non è ancora arrivato il momento... o
no?”
Secondo l'ingegnere di colore, avrebbero fatto meglio a eseguire ulteriori
test. Ma i metodi di Scott erano leggermente differenti.
“Bene,” disse l'uomo più anziano. “Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, i
motori dovrebbero tornare di nuovo operativi più o meno... ora.”
Per un momento osservarono il visore, ma non successe niente. Poi, lentamente,
ogni consolle che fino a un istante prima sembrava andata per sempre, e tutto il
resto del centro operazioni tornarono alla vita. Ogni angolo fu nuovamente pieno
di spie luminose.
Geordi sorrise, come un bambino soddisfatto di aver appena escogitato un nuovo
trucchetto. Controllò gli indicatori di livello. “E il serbatoio ausiliare sta
tenendo.”
Scott gli rivolse un'occhiata veloce, e poi indicò la piccola sedia di comando
della Jenolen. “A lei la plancia, comandante.”
Geordi alzò una mano, per fare obiezione. “No, no, è lei l'ufficiale anziano a
bordo.”
“Potrò anche avere il grado di capitano,” concesse Scott, “ma non ho mai
voluto essere nient'altro che un ingegnere. Prenda il comando, Geordi.”
Per un momento, Geordi si ritrovò ad ammirare intensamente il Capitano
Montgomery Scott. “Va bene,” disse infine. “Prendo il comando.”
Spostandosi verso la poltrona di comando, si sedette, mentre Scott si dirigeva
alla postazione della sala macchine. “Bene allora,” esclamò, esaminando i dati
che si succedevano sul piccolo monitor posto nel bracciolo della poltroncina.
“Mettiamoci al lavoro. Dobbiamo trovare un'astronave.”
“Sì, signore,” concordò l'ufficiale più anziano.
“Massima velocità di impuiso,” ordino Geordi.
“Massima velocità di impuiso,” gli fece eco Scott.
La Jenolen aveva ripreso il suo viaggio.
“Energia.”
Che strana cosa il teletrasporto, pensò Riker. La prima volta che ne aveva
usato uno, si era aspettato di provare una sorta di emozione durante la
transizione .. la sensazione di venire gradualmente dissolto per essere
ricomposto altrove.
Ma non era così che si era sentìta. Un attimo prima ti trovavi nella sala del
teletrasporto, e l'istante successivo ti riscoprivi su un pianeta o a bordo di
una nave stellare, o su una base spaziale. Tra i due momenti, non vi era nessuna
fase transitoria, nessun periodo intermedio. Ti ritrovavi improvvisamente là
dove desideravi recarti; tutta qui la magia del teletrasporto.
E anche questa volta era stata la stessa cosa. L'unica eccezione era rappre-
sentata dal luogo di destinazione, un luogo che Riker non aveva mai visto,
diverso da qualsiasi altro posto da lui visitato. E non esitò a dirlo.
“Se le può essere d'aiuto,” commentò Troi, “neppure io ho mai visto un posto
del genere.”
Sousa si guardò intorno, e fissò con particolare attenzione la piattaforma
perfettamente tondeggiante su cui se ne stava in piedi, il luogo scelto quale
punto migliore per l'atterraggio. Poi osservò le immense torri che si
allungavano fino a sfiorare il limpido cielo azzurro di quel mondo artificiale.
Le torri erano collegate le une alle altre da un infinito prolificarsi di rampe,
diverse perdimensioni, ma tutte ugualmente distanti da terra, quasi a
sottolineare i vertiginosi strapiombi che si aprivano tra una torre e l'altra.
Gli oggetti, del tutto artificiali, erano di un cupo viola ombroso. Non c'era
un alito di vento, né nuvole, né piante, né vegetazione di alcun tipo..
non era presente nemmeno una traccia di sporcizia. E almeno in quella
particolare zona, non vi era segno di vita senziente.
E perché mai sarebbe dovuto essere altrimenti? Dopotutto, mica si aspettavano
una festa di benvenuto. L'area in cui si erano teletrasportati faceva parte di
quella regione continentale già analizzata dai sensori dell'Enterprise, e su cui
non era stata rilevata alcuna traccia di vita. Era nell'area inaccessibile ai
sensori, a circa duecento metri di distanza, che si nascondeva la possibilità di
trovare i costruttori di quella sfera.
“Avanti,” disse Riker, lanciando un'ultima occhiata alla navetta. Gesticolando
con il tricorder, indicò la direzione verso la quale si sarebbero dovuti
dirigere “Andiamo. E facciamo attenzione. Attenti a dove mettete i piedi.”
Per fortuna, le rampe gli permisero di dirigersi nella direzione desiderata.
Ma purtroppo, le rampe erano molto strette e ricurve, come se chi le aveva
progettate avesse voluto renderne più arduo l'utilizzo.
Che pensiero ridicolo, si disse Sousa tra sé. Non tutte le altre rampe erano
così sconnesse e pericolose. E poi, se i costruttori avessero voluto impedire a
chiunque di avvicinarsi alla loro postazione, perché mai avrebbero costruito
delle rampe?
Lentamente, e con attenzione, iniziarono la loro marcia, scavalcando il
primo dei precipizi che si apriva davanti a loro. Sousa non soffriva di
vertigini, ma cercò ugualmente di non abbassare il suo sguardo. Non c'era
bisogno di guardare in basso per appurare l'effettiva profondità del precipizio.
Era abbastanza profondo.
Continuando a camminare, il guardiamarina rabbrividì a causa del silenzio
spettrale che regnava in quel luogo. Perfino il rumore dei suoi passi sembrava
essere inghiottito da quella incredibile calma.
Alla fine, raggiunsero una delle torri che esibiva una serie di ingressi ad
arco, una per ogni rampa. Ma non vi erano porte. Sousa tentò di far capolino
all'interno, ma dentro era talmente buio da impedirgli di distinguere qualsiasi
cosa.
Riker fu il primo ad avventurarsi nel posto, e Troi lo seguì con il resto
della squadra.
Perfino dopo che furono completamente avvolti dalla penombra, Sousa impiegò
alcuni istanti per abituarsi alla totale assenza della luce del sole.
La prima cosa che notò fu un gruppo di macchine, mostruose all'apparenza,
allineate lungo la parete interna della stanza. Macchine che sembravano
arrampicarsi sulla parete stessa, avvinghiandosi alla torre e sparendo
nell'oscurità.
Non c'erano altri piani, notò Sousa. Nessuna scala, nessun ascensore. Solo
spazio vuoto, a parte, ovviamente, la presenza di quelle strane macchine.
“Come fanno ad arrivare lassù, in alto?” chiese Krause.
“Le macchine?” chiese Sousa.
Krause lo fulminò con lo sguardo. “I costruttori. Non c’è niente su cui
appoggiarsi.”
“Che diavolo,” disse Bartel, “allora saranno in grado di volare.”
Sousa la guardò. “Volare?” Ripeté. “Vuol dire che hanno le ali?”
Bartel scrollò le spalle. “Con o senza ali, che differenza fa? Forse si sono
spinti lassù l'un con l'altro. Il punto è che ci sono arrivati.”
Giusto. Ma al momento, non c'era nessuno che potesse permettere loro di
arrivare là in alto. Proprio nessuno, con o senza ali. Visto che anche le
macchine sembravano spente, non c'era rimasto granché da osservare. Una volta
registrato tutto il possibile con i tricorder, continuarono la loro
esplorazione.
Furono costretti nuovamente ad avventurarsi sulle tortuose rampe di accesso,
e la camminata fu più lunga, questa volta. Visto che non era possibile camminare
a gruppi di tre, perché le rampe erano troppo strette, la squadra si divise in
tre gruppetti di due. Camminarono a intervalli, per evitare qualsiasi
inconveniente e limitare al minimo ogni pericolo. E come volle il destino,
Sousa si ritrovò al fianco di Kane.
Voltandosi verso di lui, Sousa gli bisbigliò, “C’è da aver paura, vero?”
L'altro ufficiale gli rivolse uno sguardo disinteressato, e non rispose.
Poi, afferrò il suo tricorder, e iniziò ad analizzare il materiale su cui
stavano camminando.
“E dai,” sospirò Sousa. “Mettiamo una pietra sopra a quello che è successo,
d'accordo?”
Ma Kane non ne volle sapere. La sua risposta fu soltanto un altro sguardo
tagliente.
Sousa sospirò. E allora fai come vuoi, pensò tra sé.
Ma quando si voltò per osservare il desolante panorama tutto attorno, le torri
e l'abisso sottostante, avrebbe davvero voluto parlare con qualcuno.
Almeno il resto del viaggio sarebbe stato più tollerabile.
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CAPITOLO DODICESIMO
Picard vide Data voltarsi a osservarlo da sopra la sua spalla. “Siamo entro il
raggio del teletrasporto, signore.”
Il capitano si sentì come se avesse aspettato quella risposta da sempre.
Senza un attimo di esitazione, disse, “Plancia a sala teletraspolto! Energia!”
E poi, rivolgendosi a Worf, quasi senza riprendere fiato, “Faccia fuoco con i
siluri fotonici, Tenente!”
“Sì, signore!” rispose il Klingon, eseguendo quell'ordine più velocemente
possibile. Dopo tutto, non poteva permettersi di sbagliare. Se avesse sparato
anche solo un decimo di secondo in ritardo, avrebbe colpito la Jenolen e avrebbe
causato la più impressionante esplosione che quello strano mondo avesse mai
conosciuto.
Picard osservò lo schermo di prua, mentre la nave da trasporto, ancora
imprigionata nel portello della sfera di Dyson, diveniva sempre più grande,
circondata dagli scintillanti colpi dei phaser. Ma anche allora, la coraggiosa
Jenolen si rifiutò di soccombere, di cedere alle potenti esplosioni.
Per un terribile, orrendo momento, il capitano fu convinto che non sarebbero
riusciti a distruggere quell'astronave in tempo. Fu certo che si sarebbero
schiantati su di essa, distruggendo entrambi i vascelli e i loro occupanti.
Ma per fortuna si sbagliava. In un improvviso istante di gloria, la Jenolen
esplose. Ma loro erano ormai fuori pericolo, lontani da lì.
Non appena la Jenolen fu distrutta, il portello cominciò di nuovo a chiudersi.
E sebbene l'Enterprise si fosse lanciata in direzione dell'uscita alla massima
potenza consentitagli dai suoi motori danneggiati, l'apertura era lo stesso
troppo piccola.
Ce l'avrebbero fatta? Sarebbero riusciti a uscire prima che il portello si
chiudesse, intrappolandoli all'interno, magari per sempre?
Gli occhi di Picard fiammeggiarono, mentre guardava la loro unica opportunità
di fuga divenire sempre più stretta.
“Timoniere,” gridò. “Viri a sinistra di novanta gradi!”
L'immagine sullo schermo ruotò di novanta gradi nella direzione opposta. La
previsione del capitano era stata giusta; adesso poteva passare attraverso lo
spiraglio sempre più angusto.
Trattenendo il respiro, Picard si concentrò sulla fascia di stelle visibile
attraverso la strettoia del portello, consapevole che poteva essere l'ultima
cosa che vedeva in vita sua. Dopo tutto, avevano rinunciato alla possibilità
di tornare indietro. E se non avessero centrato il bersaglio in tempo, sarebbero
morti sulla dura superficie interna della Sfera di Dyson.
Continuavano ad avvicinarsi...
E poi, prima ancora di rendersene conto, prima di poterci credere, la piccola
fessura sul portello era scomparsa, sostituita dalla vista familiare della volta
stellata.
Respirando con affanno, il capitano si aggiustò l'uniforme tirandola dalla
cintura e si voltò verso Data. “Vista posteriore, Comandante.”
L'androide eseguì l'ordine, e sul visore apparve l'immagine della scura Sfera
di Dyson, di nuovo immobile, senza più alcuna traccia di vita, imperturbata. E
forse, pensò Picard, era quello il suo destino.
All'improvviso, si ricordò dei suoi uomini: Geordi. Il Capitano Scott.
“A lei il comando,” disse a Data. E senza fornire spiegazioni, si avviò in
direzione della sala del teletrasporto.
“Forza,” brontolò il Capo O'Brien, lavorando freneticamente ai controlli del
teletrasporto. “Dopo tutto quello che abbiamo passato, non puoi cedere proprio
adesso. Maledizione, resisti!”
Continuava a brontolare come se la sua voce e quelle parole potessero cambiare
la situazione, come se le vite di Geordi e di Scott potessero essere salvate da
quella sua esternazione. Ma O'Brien si sentiva più a suo agio così,
parlando alle attrezzature, come se l'esito della missione non dipendesse da lui
ma da loro.
Al di là della consolle, dalla parte opposta della sala del teletrasporto,
due figure luminose iniziarono a scintillare con crescente intensità. O'Brien
represse un sorriso speranzoso. Forse ce l'avrebbe fatta. In un modo o
nell'altro, li aveva agganciati, e adesso era solo questione di portarli a
bordo.
Di un tratto, lo scintillio sparì e O'Brien sobbalzò in preda allo sconforto.
Ma in cuor suo sapeva che aveva ancora una possibilità. Si apprestò a
effettuare alcuni cambiamenti del dispositivo di trasmissione, e tentò di
rimaterializzarli sulla piattaforma.
Un secondo più tardi, le sagome di Scott e Geordi riapparvero, lampeggianti.
Avrebbe dovuto combattere fino alla fine. Rimodulò con calma le bobine di
transizione di fase, e diede più energia al buffer degli schemi.
Le immagini divennero più solide e ferme. Adesso, O'Brien sarebbe stato
perfino in grado di descrivere l'abbigliamento dei due ufficiali, o le loro
espressioni. Riconobbe la forma tondeggiante del VISORE di Geordi.
Proseguì il lavoro con fermezza. Dopo tutto, nel processo di teletrasporto
aveva catturato migliaia di molecole che non appartenevano né a Geordi né a
Scott, e gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per eliminarle. Se si fosse
lasciato prendere dalla frenesia, se avesse fallito nel tentativo di filtrarli
attraverso il buffer alla giusta frequenza... no, non ci voleva neppure pensare.
“Calmo,” si disse. “Calma e pazienza prima di tutto.”
Alla fine, i contorni si stabilizzarono. Assunsero colori reali, solidi. E
poi, i loro atomi, come se non avessero mai viaggiato nello spazio a velocità
inimmaginabili, si rimaterializzarono tra loro.
Rimasero fermi per un momento, forse sbalorditi nel riscoprirsi ancora vivi.
Poi si guardarono e, nonostante quello che avevano passato, iniziarono a ridere.
O risero perché consci dello scampato pericolo?
Scott prese Geordi a braccetto. “Allora, non è andata tanto male, vero?”
Geordi sorrise. “Sarebbe potuta andare peggio,” rispose scherzando. “Anche se
adesso ne ho abbastanza del teletrasporto.”
Scott spalancò gli occhi. “Come? E io cosa dovrei dire, allora? Anche se
dovessi rivedere un altro teletrasporto tra cento anni, sarebbe sempre troppo
presto.”
E come una coppia di lupi di mare ubriachi, scesero tremolanti dalla
piattaforma e si diressero verso l'uscita. O'Brien li osservò, ascoltando il
loro continuo stuzzicarsi, le reciproche punzecchiature, fino a quando le porte
della sala non si richiusero alle loro spalle.
O'Brien scosse la testa, e sogghignando disse, “Prego, ragazzi. Sono lieto di
essere stato d'aiuto.”
* * *
Al sibilo della porta, Deanna Troi spense il computer della sua scrivania.
Non stava aspettando nessuna visita...
Ma dopotutto, lei era il consigliere di bordo, e i problemi delle persone a
bordo non potevano cont`ormarsi ai suoi orari di ufficio.
“Avanti,” disse la donna.
Un momento più tardi, la porta si aprì. Il Guardiamarina Kane rimase in piedi
nell'ingresso, visibilmente a disagio, in attesa di un suo invito prima di
entrare nello studio del consigliere.
La Betazoide sorrise. “Si sieda, signor Kane.” E poi, dopo che lui si fu
seduto, chiese, “Che cosa posso fare per lei?”
Deanna conosceva la ragione della sua visita, ma per un istante fece finta di
non sapere che Kane era andato a trovarla per parlarle di ciò che era accaduto
durante la missione appena conclusa.
Kane preferì non parlarne, almeno all'inizio. “Sono stato a trovare il
Guardiamarina Sousa,” le confidò. “Sta dormendo, ma il pericolo è passato. Si
rimetterà.”
“Sì,” rispose lei. “Lo so. Anch'io gli ho fatto visita.”
“Ci ha impauriti tutti,” notò il giovanotto.
“Senza ombra di dubbio,” concesse Troi.
Kane si schiarì la gola. “A proposito... nella torre... Quella in cui Sousa è
rimasto schiacciato dal cumulo di macchinari alieni...”
“Sì...” confermò Deanna, “mi ricordo.”
Kane drizzò le spalle. “Quella macchina non si è semplicemente staccata dal
muro. Io... beh... sono stato io a causarne il crollo, sparandoci contro con il
mio phaser.” Si inumidì le labbra. “Certo, non l'ho fatto apposta. Ma è
stata colpa mia.”
“Capisco,” disse la Betazoide. “E lo ha detto a qualcun altro?”
“No,” rispose lui. “Lei è la prima. Perché già sa cosa è successo, o mi
sbaglio? E poi, è più facile parlarne con lei che con il Comandante Riker.”
Troi incontrò lo sguardo del giovanotto. “Ma non crede che lo sappia?”
Kane parve scioccato. “Il Comandante Riker? Come fa a...”
“Semplice,” disse il consigliere. “Ha dato un'occhiata alla macchina e ne ha
notato il bordo fuso.” Scosse la testa. “Solo un raggio phaser, o qualcosa di
molto simile, potrebbero aver causato una bruciatura del genere.”
Il guardiamarina deglutì. “Capisco,” disse. “Allora, forse, dovrei parlargli.
E poi, non accetterebbe mai le mie dimissioni.”
Troi aggrottò la fronte con stupore, anche se era in grado di avvertire lo
stato emozionale del giovane ufficiale. “Dimissioni? Sta dicendo che ha
intenzione di abbandonare la Flotta Stellare?”
Kane annuì. “Sì. Voglio dire, non mi rimane altra scelta... Prima o poi,
Andy dirà a tutti cosa è successo, e...”
“Non credo che lo farà,” lo interruppe l'empatica. “Dopotutto, è suo amico.”
“Lo era,” corresse il guardiamarina.
“No,” obiettò Troi. “Lo è ancora. Io sono empatica, non si ricorda? Conosco il
signor Sousa molto a fondo. Non le farà avere dei problemi.”
Kane grugnì, forse un po' sorpreso. “Anche se fosse così, dovrò vivere per il
resto della mia vita ricordando all'errore.”
Il consigliere si appoggiò allo schienale della sedia.
“Non credo che il comandante le farà avere dei problemi. Ha già compilato il
suo rapporto, e non ha fatto menzione alcuna di quanto è accaduto nella torre.”
Il guardiamarina grugnì di nuovo. Questa volta parve decisamente sorpreso.
“Davvero?”
“Davvero,” confermò Deanna. “Credo che l'abbia giudicata secondo il
comportamento che lei ha esibito durante l'intera missione. Per esempio, lei si
è
fatto volontario per accompagnarlo al luogo del teletrasporto. Lo spirito con
cui ha fronteggiato la situazione, e la prontezza con cui ha salvato la vita del
comandante. E infine, è stato lei che è voluto tornare indietro con Riker per
recuperare Sousa, quando invece avrebbe potuto semplicemente restare ad
aspettare.”
Kane pensò silenziosamente per un secondo. “Vuol dire che... mi perdona?”
“Qualcosa del genere,” concordò Troi. “E se lo fa lui, chi sono io per fare
altrimenti?”
Il guardiamarina scosse la testa. “Credevo che il Comandante Riker mi
odiasse.”
La Betazoide sorrise. “Il Comandante Riker è un tipo diretto,” concesse. “Se
non gli piaci, te lo fa sapere senza mezze parole. Ma l'odio?” Rimuginò tra sé.
“L'unica cosa che odia è non riuscire a trovare la parte migliore in ciascuno
dei suoi uomini, vuole aiutarli a farla venire a galla.”
Kane ponderò quell'affermazione per alcuni istanti. “Beh. Con me ha dovuto
faticare non poco.” Fece una pausa. “Io non sono la persona più corretta di
questa nave, Consigliere.”
Lei scosse le spalle. “La correttezza è un concetto astratto. E non riesco a
pensare a una persona più corretta di qualcuno che mette a repentaglio la
propria vita per salvare quella di qualcun altro.”
Il guardiamarina aggrottò la fronte. Per la prima volta da quando aveva
raggiunto il consigliere nel suo ufficio, la sua espressione tradì un certo
compiacimento. “Sta dicendo che io sono un altruista?” chiese, quasi incredulo.
“Mio padre ha sempre attermato che l'altruismo è pericoloso. Secondo la sua
filosofia, ogni uomo è da solo, e deve pensare solo a se stesso.”
“Non si tratta certo di una filosofia molto illuminante,” notò Troi.
“Credo di no,” concordò Kane. “E l'ho capito solo adesso.” Il giovane parve
improvvisamente rinvigorito. “Ma questo non cambia ciò che è successo al
signor Sousa.”
Il consigliere si appoggiò di nuovo allo schienale della sua sedia.
“Commettiamo tutti degli errori, Guardiamarina. Per fortuna, il suo non è
irreparabile. Se fossi in lei, cercherei di metterci una pietra sopra... e
ricomincerei da capo. Inoltre,” confessò dopo un attimo di esitazione, “il
Comandante Riker ha sempre visto in lei grandi potenzialità. Sarebbe un peccato
se il suo lavoro dovesse andare perduto.”
Kane parve d'accordo. “Dovrò rifletterci ancora un po',” disse infine.
“Si prenda tutto il tempo necessario,” replicò la donna, incoraggiandolo. Ma
già sapeva quale sarebbe stata la decisione finale.
Kane si alzò. “A ogni modo, mi devo scusare. Per il modo in cui ho agito...
per le cose che ho detto sul Comandante Riker... sul Capitano Picard...”
Imprecò tra sé, impercettibilmente. “... e anche sul Capitano Scott.”
“Il Capitano Scott?” chiese Troi.
Il guardiamarina annuì. “Quando è venuto nell'hangar navette per ammirare le
navette, io non ho fatto altro che chiamare la s4uadra di sicurezza.”
Deanna represse un sorriso. “Capisco.”
“C'era una navetta in particolar modo,” ricordò Kane, “che il capitano
sembrava adorare più delle altre. La Christophher, se non mi sbaglio.” Alzò lo
sguardo verso di lei. “Che diavolo, se dipendesse da me, gliela regalerei.”
Troi sorlise “Un pensiero ammirabile,” ammise. “Vede? È capace di essere con-
etto e gentile.”
Il guardiamarina scrollò le spalle. “Sì, forse. Grazie per il suo aiuto,
Consigliere.”
“Si figuri,” gli disse lei. “È il mio lavoro.”
Respirando profondamente, Scott attivò il terminale del computer del suo
alloggio. Non c'era motivo di continuare a evitarlo. Sarebbe potuto morire sulla
Jesiolen senza sapere la verità. E doveva saperla, per amor proprio, per quello
dei suoi amici.
Uno alla volta, richiamò i nomi dalla memoria centrale, i nomi di coloro con
cui aveva rischiato la vita cento, mille volte. E uno dopo l'altro, il computer
gli rivelò lo stato attuale dei suoi amici della vecchia Enterprise.
Finalmente ebbe delle risposte.
Ma non tutte furono positive. La morte si era abbattuta su alcuni dei suoi
compagni. Però, non si era trattato di una morte inutile per nessuno di loro.
Anzi, i suoi amici morti avevano dato la vita in maniera eroica, e Scott ne fu
orgoglioso.
In fin dei conti, il tempo aveva fatto il suo corso, e quelle risposte erano
del tutto comprensibili. In settantacinque lunghi anni ci dovevano pur essere
state delle perdite; non tutte le navi ritornavano sempre in porto. Non tutti i
marinai sopravvivevano alle proprie missioni.
Ma alcuni di loro erano vissuti a lungo. McCoy, per esempio, era divenuto un
ammiraglio. Chi mai se lo sarebbe aspettato? Di tutti loro, era sempre stato il
più refrattario alla Flotta Stellare e alla sua burocrazia; e invece, il
destino gli aveva riservato una brillante carriera.
E poi c'era Spock. Prima un rispettabile ambasciatore, proprio come suo padre.
E recentemente, era divenuto un sostenitore della riunificazione tra l'Impero
Romulano e la gente di Vulcano, e al momento si nascondeva su Romulus
per velocizzare il processo di integrazione. Il Vulcaniano non doveva essere
cambiato molto. Anche questa volta aveva deciso di battersi per una causa
difficile da vincere, quasi impossibile. E lui che lo conosceva bene, sapeva che
Spock si sarebbe dedicato anima e corpo per ottenere un successo.
Passarono le ore. Scott rovistò tra i file una, due, tre volte. E prima che
avesse terminato, li aveva imparati a memoria. Era passato una infinità di volte
dalla depressione più totale alla gioia più sfrenata, e viceversa, da sentirsi
quasi come una pallina da ping-pong.
Alla fine ne ebbe abbastanza. Chiudendo l'archivio storico, Scott si appoggiò
allo schienale della propria poltroncina e sospirò. Si sentiva come se avesse
fatto a pugni con qualcuno più forte di lui e avesse perso. Ma non aveva
rimpianti. Sapeva di aver fatto la cosa giusta.
Montgomery Scott aveva fatto pace con il passato, e solo adesso avrebbe potuto
affrontare serenamente il futuro.
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EPILOGO
Nel turboascensore assieme a Scott, Geordi non poté fare a meno di sorridere.
L'entusiasmo dello scozzese era semplicemente irresistibile.
“"Dove sono i triboli? Come se ne è liberato13 ", mi chiese il capitano. E io
gli risposi, "Signore, ho usato il teletrasporto. Dovevo pur ripulire la nave da
quelle bestie pelose". E poi mi guardò, come se fosse impaurito, un po' come lei
in questo momento, figliolo, e mi disse, "Ma Scott*... non li avrà per caso
teletrasportati nello spazio, vero?".”
Geordi lo guardò. “Allora... se ne liberò così?”
“Lei cosa ne pensa? Certo che no. Così corrucciai la fronte come se fossi
stato offeso dall'affermazione del capitano, e dissi, "Sono un brav'uomo,
signore. Sarebbe stata una crudeltà. Io ho[] dato loro una nllova dimora". E il
capitano mi chiese: "Dove li ha teletrasportati, Scott? Sputi il rospo!"
Così gli risposi di averli spediti sulla nave dei Klingon. Prima che passassero
alla curvatura, teletrasportai quell'intera matassa pelosa nella loro sala
macchine... come regalo!”
L'ingegnere più giovane scosse la testa. “Non è vero, non posso crederci!”
Scott portò la mano destra al cuore. “Che sia colpito da un fulmine se non
dico la verità!”
La porta del turboascensore si aprì, e Geordi accompagnò l'amico lungo il
corridoio. “D'accordo,” concesse.
13.- Dall'episodio della serie classica "Animaletti Pericolosi", seconda
stagione (The Trouble with Tribbles) (N.d.T.).
14- Dall'episodio della serie The Next Generation "Il figlio della Galassia".
quarta stagione (Galaxy’è Child) (N.d.T.).
poggiò una mano sulla spalla di Geordi e disse, “Lo sa, io la invidio.”
La Forge replicò prontamente. “Invidia me? Allora cosa dovrei fare io? Lei è
una leggenda vivente!”
Scott scosse la testa. “La parte più bella di un'avventura non è la fine, ma
l'avventura stessa.”
“Suvvia,” lo consolò Geordi. “Non si metta a fare il nostalgico adesso.”
L'ufficiale più anziano scrollò le spalle. “Goditi questi momenti, Geordi.
Sei l'ingegnere capo di una nave stellare, ed è un periodo della tua vita che
non tornerà più. Quando è finito... è finito.”
L'"ingegnere dei miracoli" ritrasse la mano e sospirò. Perse il suo sguardo
nel vuoto per un istante e inarcò un sopracciglio. “La pensione non è poi così
male,” commentò. “Ho sentito dire che la colonia di Norpin Cinque è molto...
tranquilla di questi tempi.”
Geordi si arrestò dinanzi alla porta del ponte navette. Scott si fermò con
lui, leggermente sorpreso.
“Pensavo che dovesse offrinmi da bere al Bar di Prora. Non vorrà mica ritirare
la sua offerta?”
Il giovane ufficiale sonrise. “Ho cambiato idea.”
Indicando la porta automatica, che si aprì alla loro presenza, Geordi entrò
nell'hangar navette. Scott lo seguì con curiosità.
E non rimase deluso. Nemmeno un po'.
Picard, Riker, Worf, la Dottoressa Crusher, Troi e Data lo stavano attendendo
al centro dell'enorme piattafonma di lancio, al fianco di una bellissima
navetta, sul cui lato risplendeva una scritta composta da un'unica parola:
Christopher.
Il portello della navetta era aperto. Sorpreso, Scott osservò la navetta per
un istante e poi rivolse lo sguardo agli ufficiali dell'Enterprise.
“Non vorrete mica fare ciò che penso?”
Riker ridacchiò. “Dipende da cosa pensa.”
“Per esempio,” disse Picard, “se pensa che si tratti di un regalo...”
“Allora ha indovinato,” terminò Worf.
Il capitano gli lanciò un'occhiata, sorpreso per quell'inaspettato entusiasmo.
Il Klingon si irrigidì. “Mi scusi, signore,”
Scott scosse la testa. “Voi... volete darmi una delle vostre navette?” Per la
prima volta lo Scozzese sembrò a disagio con le parole.
Picard sonrise caldamente. “Beh, lo consideri un prestito a tempo
indeterminato. Dal momento che lei ha perso la sua nave salvando noi, ci è
sembrato giusto ripagarla.”
L'anziano ufficiale grugnì compiaciuto. “La ringrazio per il pensiero.”
“Prego,” concordò il capitano. “Ma sfortunatamente, non posso prendermene il
merito. È stata un'idea del Consigliere Troi.”
“A dire il vero,” lo corresse la Betazoide, “a pensarci è stato il
Guardiamarina Kane. A Cesare quel che è di Cesare!”
Scott la guardò. “Ragazza mia,” iniziò, afferrandole dolcemente le mani.
“Spero che mi potrà perdonare per come l'ho trattata.”
“Oh,” replicò la donna, sorridendo. “Non lo so. Credo che mi ci vonrà un po'
di tempo, ma cercherò di perdonarla.”
“Ne sono sicuro,” ribatté Scott, ricambiando il suo sorriso, “ne sono davvero
sicuro”.
Riker accarezzò la superficie metallica della navetta. “Non è bellissima a
vederla,” disse a proposito della navetta. “E non è spaziosa come una nave
stellare, o come un vascello da trasporto.”
“Figliolo,” ribatté Scott, “ogni donna ha il suo lato fascinoso, bisogna solo
saperlo cercare.”
Geordi si avvicinò all'amico ingegnere. “È un po' lenta, ma la porterà alla
colonia di Norpin Cinque senza alcuna difficoltà.” Fece una pausa. “Se è lì
che vuole davvero arrivare.”
Scotty squadrò la navetta, e i lineamenti del suo volto assunsero un'altra
espressione. Adesso sembrava differente. Ringiovanito, pensò Geordi.
Voltandosi verso La Forge, Scott esibì il sorriso più radioso che si fosse
concesso fino a quel momento. “La colonia di Norpin è per vecchi in pensione.
Forse un giorno ci finirò anch'io... ma non ancora.”
“Oh,” esclamò Picard. “Dove ha intenzione di andare, allora?”
Scotty protrasse le mani. “Non so davvero, Capitano. C’è così molto da
vedere.” Indicò Data con un cenno della testa. “Per esempio, vorrei visitare il
pianeta del nostro amico androide.”
“Non è difficile da trovare,” assicurò Data.
“E ci sono milioni e milioni di luoghi su cui vorrei recarmi,” ammise
l'ingegnere. “Anzi, ora che ci penso, forse farei meglio a muovermi. È arrivato
il
momento di partire.”
“Di già?” chiese la Dottoressa Crusher.
Scott annuì. “Non mi vonrà mica dire di riposare, Dottoressa. Se continuo a
restare qui senza far niente, dovranno portarmi via in barella.” Inclinò la
testa. “A ogni modo, ragazza mia, lei è il dottore più affascinante che abbia
mai avuto il piacere di conoscere.”
Picard gli porse la mano. “Non posso convincerla a rimanere ancora un po'?”
“Non credo,” gli rispose Scott, afferrando la mano del capitano e stringendola
con vigore ed entusiasmo. “Ci sono troppe cose da vedere e da fare, e non posso
attardarmi ulteriormente.”
Il capitano annuì. “Capisco. Bon voyage, signor Scott”
“Grazie, signore,” ammiccò con un occhio. “Per tutto.”
Gli ufficiali salutarono uno alla volta il Capitano Scott, augurandogli a
turno ogni bene. Scott strinse la mano a tutti, e abbracciò perfino il
Consigliere Troi. Geordi fu felice nel vederlo così entusiasta.
Tenminati i saluti, Scott prese il suo nuovo amico per un braccio e lo
allontanò da eventuali orecchie indiscrete. Poi, dopo aver lanciato un'ultima
occhiata agli altri ufficiali, aggiunse, “Un buon equipaggio.”
Geordi annuì. “Lo sono davvero.”
Con lo sguardo, Scott passò l'hangar navette al setaccio. “È un'ottima nave,
questa Enterprise. Fa onore al suo nome.” Fece una pausa. “Ma ho sempre pensato
che una nave è buona quanto lo è l'ingegnere che se ne prende cura. E da quanto
ho visto, l'Enterprise è in buone mani.”
Geordi appoggiò una mano sulla spalla di Scott. “Meglio muoversi,” disse.
“Prima che il capitano cambi idea.”
“Giusto,” ammise Scott. “Con i capitani non si scherza. Cambiare idea è una
loro prerogativa.”
Dopo essere salito nella navetta, richiuse il portello dietro di sé. Geordi
rimase a guardarlo, mentre i motori della navetta si accendevano. Poi, con
Picard stesso intento ad aprire il portello dell'hangar, Scotty condusse la
navetta verso l'uscita, dove uno campo di forza invisibile separava la nave dal
vuoto spaziale circostante, impedendo all'aria respirabile dell'hangar di essere
risucchiata nell'infinito.
Geordi poté quasi scorgere lo sguardo di Scott. Una nuova vita lo aspettava là
fuori, lo attendeva per essere scoperta. E forse, un giorno, avrebbe incontrato
alcuni di quegli inseparabili amici di cui aveva incolpevolmente perduto ogni
contatto. Spock, per esempio. O McCoy. O qualcun altro ancora in vita nel
ventiquattresimo secolo.
Certo, un senso di insicurezza e di delusione lo avrebbero accompagnato
ovunque avesse deciso di dirigersi, ma anche questo faceva parte della nuova
sfida che aveva deciso di accettare.
Poi, dopo che Picard ebbe modificato il campo di forza, la navetta scivolò
attraverso di esso, abbandonando l'hangar. Geordi la fissò, in preda a una forte
sensazione di gioia melanconica. La navetta divenne presto un lontano puntino
luminoso, che si perse a sua volta nell'infinità della galassia. Scott
aveva ripreso in pugno il proprio destino, se ne era andato per sempre, e per
quanto strano potesse sembrargli, Geordi seppe di un tratto che ne avrebbe
avvertito la mancanza. E gli sarebbero probabilmente mancate anche tutte quelle
fantastiche storie che l'ingegnere dei miracoli gli aveva raccontato;
dal deltaplano ai triboli. Ma Geordi La Forge si sentiva felice, molto felice.
Perché ancora una volta Montgomery Scott, il suo amico, il suo amico, stava
volando. Libero.