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UNIVERSITÀ IUAV DI VENEZIA

FACOLTÀ DI DESIGN E ARTI

ARTI VISIVE E DELLO SPETTACOLO

NEURONI SPECCHIO.
UNA RIFLESSIONE ALL’INTERNO DELLA RAPPRESENTAZIONE TEATRALE.

CORRADO POLINI SUPERVISIORE:


MATR. 269480 CLAUDIO LONGHI
Indice

p.

2 Introduzione

1 - Teatro ed empatia. Ovvero condivisione di azioni espressive.


3 1.1 - Cosa sono i neuroni specchio
10 1.2 - Empatia e arte
19 1.3 - Condivisioni attraverso le immagini
24 1.4 - Distanza attraverso le immagini

2 - Scienza per un nuovo teatro.


29 2.1 - Sistema neuroni specchio e movimenti intransitivi
32 2.2 - Camaleontismo
36 2.3 - Aprassia, Parkinson, menzogna e simulazione

3 - L’attore per una nuova scienza teatrale.


40 3.1 - Neuroni specchio e azioni conosciute
47 3.2 - Intenzionalità
50 3.3 - Schemata
55 3.4 - Imitazione
59 3.5 - Attore ed esperienza performativa dello spettatore

65 Conclusione

67 Bibliografia

73 Sitografia

74 Abstract
Introduzione

È importante precisare fin dalle prime battute di questa nostra trattazione, che non

intendiamo ricostruire per intero né la storia dei rapporti tra arte, estetica ed empatia, né

scrivere un volume dedito allo studio dei rapporti tra scienze neurologiche e forme

artistiche.

Piuttosto, è nostra intenzione proporre al lettore una serie di considerazioni che sono state

fatte fin dal lontano 1872, anno in cui fu pubblicato il volume di Charles Darwin intitolato

L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, muovendoci nelle ricerche teatrali

soprattutto berlinesi con Brecht, e saltando poi fino ai giorni nostri trattando le più recenti

discussioni in ambito teatrale riguardo il suo rapporto con le scienze neuronali; le quali

sono nate, e maturate, a partire dagli anni Novanta dopo la scoperta del sistema dei neuroni

specchio da parte di Giacomo Rizzolatti, e team, presso l’Università di Parma. Ma soltanto

nel 2009 è stato consacrato l’inizio di un dialogo tra il teatro e le neuroscienze attraverso

un ciclo di interventi da parte di persone derivanti da studi scientifici e altre da studi

teatrali, presso l’Università Sapienza di Roma.

Ciò su cui ci concentreremo maggiormente, oltre ai dialoghi di cui sopra, è il rapporto

neuronale che si instaura tra attore e spettatore attraverso il meccanismo dei neuroni

specchio e di come questa particolarissima tipologia di neuroni può a volte spiegare, a

volte contraddire, il principio educativo e comunicativo che si esprime con l’arte

dell’attore.

2
1

Teatro ed empatia. Ovvero condivisione di azioni espressive.

1.1 Cosa sono i neuroni specchio

Agli inizi degli anni Novanta venne scoperta presso l’Università di Parma dal team

condotto dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, e che comprende Luciano Fadiga,

Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese, una nuova tipologia di neuroni situata nella corteccia

pre-motoria ventrale del macaco. La scoperta, come spesso avviene per le grandi scoperte

scientifiche con riscontri globali, è stata, si può dire, fortuita, casuale. “Siamo in

laboratorio. Accanto a noi un ricercatore mostra una serie di immagini a un macaco. La

scimmia ha un microelettrodo impiantato in un’area della corteccia specializzata nella

visione e il ricercatore ha già provveduto a collegare il microelettrodo all’oscilloscopio,

l’apparecchio che registra le variazioni di potenziale elettrico nel neurone. Nella stanza

risuona intermittente: ogni tanto si sentono dei tac... tac... tac... a qualche secondo di

distanza l’uno dall’altro, oppure una serie di tac-tac-tac più ravvicinati. [...] uno stimolo

lieve produce impulsi poco frequenti (e quindi una serie di tac... tac... tac... distanziati nel

tempo), mentre uno stimolo più efficace produce molti più impulsi ravvicinati1. [...] In

laboratorio ci sono spesso noccioline americane: a volte sono l’oggetto con cui le scimmie

compiono azioni, a volte la ricompensa per un compito appena eseguito con un oggetto

diverso.Le arachidi però fanno gola a tutti, non solo ai macachi. Così capita che, nella

pausa fra una registrazione [di impulsi, nda] e l’altra, chi segue gli esperimenti ne «rubi»

qualcuna dal contenitore preparato per gli animali. In occasione di qualcuno di questi

1G. Rizzolatti, L. Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Bologna (BO), Zanichelli,
2008, pp. 14-15.
3
«furti», proprio nel momento in cui il ricercatore di turno sta portando alla bocca una

manciata di noccioline, l’oscilloscopio che registra l’attività dei neuroni della scimmia

emette un tac-tac-tac molto singolare. Il macaco infatti è fermo e non sta interagendo con

nessun oggetto.”2 Inizialmente gli scienziati pensavano ad un errore accidentale che in

laboratorio spesso accade, ma provando a ripetere ciò che a qualcuno era parsa una

scoperta, hanno notato che a tutti gli effetti quando il macaco in questione vedeva uno

scienziato mangiare, o anche solo afferrare una nocciolina americana, in lui si attivavano

quelle aree neuronali pre-motorie che si attivano anche quando è il macaco stesso ad agire.

Dopo aver ripetuto l’esperimento a più riprese e su più soggetti, e aver notato che l’area

neuronale specchio non solo è reale, ma presente in ogni individuo, nel 2001 il team diretto

da Umiltà e altri suoi colleghi3, dopo aver avanzato l’ipotesi che la scarica del macaco

potesse rappresentare il concetto dell’azione mossa dallo scienziato, vollero sperimentare

se all’interno del concetto di azione ci fosse anche la comprensione dell’azione, il suo

significato. In altre parole si potrebbe dire che la scimmia sia quando “vede l’esecuzione

del compito che quando non vede fisicamente l’esecuzione del compito”4 emettere scariche

identiche tra loro. Gli scienziati, dopo aver individuato un neurone con proprietà specchio,

hanno fatto eseguire da uno di loro la prensione di un cubo stando di fronte alla scimmia. Il

risultato dell’attività del neurone specchio è stato positivo, avvero si è attivato come loro si

aspettavano. Successivamente l’esperimento è stato ripetuto per altre tre volte ma con

caratteristiche differenti: nel primo caso lo sperimentatore simulava di prendere l’oggetto,

anche se non era presente sul tavolo, facendo attenzione che le dita fossero nella stessa

posizione e alla stessa distanza di quando l’esperimento prevedeva l’oggetto. I risultati

2 Ibid., pp. 30-31.

3M. A. Umiltà, E. Kohler, V. Gallese, L. Fogassi, L. Fodiga, C. Keysers, G. Rizzolatti, I know what are you doing: a
neurophysiological study, in «Neuron», 2001, 32, pp. 99-101.

4 C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Editoria e spettacolo, 2011, p. 34.
4
sono che il neurone specchio non ha praticamente scaricato la sua carica elettrica. Poi il

cubo è stato riposizionato sul tavolo e coperto da uno schermo, lo scienziato muove il

braccio e la mano per prendere l’oggetto, ed ecco che anche se la scimmia non vede la

mano che afferra il cubo, nel suo cervello i neuroni che compirebbero quell’azione si

attivano. In ultima istanza lo schermo è stato lasciato e il cubo invece tolto. L’azione è stata

ripetuta e in questo caso i neuroni non si sono scaricati. Quello che Umiltà e il team hanno

concluso è che all’interno della scarica del neurone specchio vi è il concetto dell’azione.

In un altro esperimento, questa volta eseguito da Kohler e colleghi, viene ancor più

rafforzata la conclusione dell’esperimento precedente. “L’ipotesi di partenza era che se i

neuroni specchio effettivamente rappresentavano un’azione allora dovevano scaricare sia

quando viene eseguito un atto, sia quando lo si osserva che quando si sentono rumori

associati a tal atto.”5 Durante le sperimentazioni è stato dimostrato che circa il 15% dei

neuroni specchio di una scimmia riconosceva l’azione eseguita da terzi, a prescindere dal

modo con cui le si manifestava tale azione: vedendola, eseguendola, o ascoltandola6 .

All’interno di questi studi e di queste riflessioni si può leggere una sfumatura, un colore

diafano che non si lascia del tutto vedere ma che riesce lo stesso a solleticare la nostra

curiosità. Se è vero che un neurone specchio ha la capacità di capire l’azione che sta

vedendo, praticando, o sentendo – e qui rimandiamo all’esperimento eseguito dalla Umiltà

col suo team – non è poi così azzardato ipotizzare che il neurone specchio abbia anche una

qualche caratteristica che gli permetta di comprendere l’intenzionalità dell’azione, il suo

fine. A prescindere dall’intuizione che si può avere in tal senso, Fogassi e colleghi hanno

notato che non solo i neuroni specchio in base a dove si trovano svolgono funzioni diverse

– ovvero sono “specializzati” – ma quelli localizzati nella zona parietale del cervello, vale

5 Ibid., p. 35.

6E. Kohler, C. Keysers, M. A. Umiltà, L. Fogassi, V. Gallese, G. Rizzolatti, Hearing sounda, understanding actions:
action representation in mirror neurons, in «Science», 2002, 297, pp. 846-848.
5
a dire la zona dedicata alla gestione del movimento, abbia qualche cosa a che fare con

l’intenzionalità dei gesti7.

Fino ad ora però abbiamo parlato di esperimenti che riguardano la scimmia evitando la

domanda cruciale: esiste un sistema di neuroni specchio anche nell’uomo? “Fino ad oggi

[marzo 2011 nda] – scrive Giovanni Mirabella – nessuno ha mai registrato una cellula

“specchio” nel cervello dell’uomo. Tuttavia ci sono molte prove indirette che tale sistema

effettivamente esista anche nell’uomo.”8 È vero però che dopo la scoperta dei neuroni

specchio nella scimmia ci fu un’esplosione di esperimenti basati sulla tomografia ad

emissione di positroni 9 o sulla risonanza magnetica funzionale, e in entrambi i casi la

restituzione grafica consiste in un brain imaging. Gli studi hanno portato a individuare

nella zona parietale posteriore e nella corteccia premotoria delle aree che hanno proprietà

“specchio”. Insieme a queste due, durante gli esperimenti, si è notato che si attivava anche

un’altra area: quella di Broca. Quest’area nell’uomo è dedicata all’elaborazione e alla

produzione del linguaggio. In questa maniera alcuni scienziati hanno ipotizzato che

l’attivazione della zona parietale e premotoria fosse solo una conseguenza della

rappresentazione linguistica dell’azione immagazzinata nell’area di Broca e che quindi non

avesse nulla a che fare con il meccanismo dei neuroni specchio individuato nelle scimmie.

Il professor Buccino con i suoi colleghi ha dimostrato che non è così10. Mostrando a dei

soggetti sani video rappresentanti azioni dirette ad un oggetto (mordere una mela, prendere

una tazza, colpire un pallone) e azioni non dirette ad un oggetto (masticare, mimare una

7 L. Fogassi, P. F. Ferrari, B. Gesierich, S. Rozzi, F. Chersi, G. Rizzolatti, Parietal lobe: from action organisation to
intention understanding, in «Science», 2005, 308, pp. 662-667.

8 C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Editoria e spettacolo, 2011, p. 36.

9 La tomografia ad esmissione di positiorni (in ingese PET - Positron Emission Tomography) è una procedura medica
attraverso la quale si possono avere informazioni di tipo fisiologico, ovvero mappe del sistema di funzionamento del
corpo.

10G. Buccino, F. Binkofski, G. R. Fink, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, R. J. Seitz, K. Zilles, G. Rizzolatti, H. J.
Freund, Action observation activities premotor and parietal areas in a somatotopic manner: an fMRI study, in «European
Journal of Neuroscience», 2001, 13, pp. 400-404.
6
presa e mimare un calcio), hanno notato che la corteccia premotoria si attiva sempre, sia

che l’azione sia tesa ad un oggetto, sia che non lo sia; mentre si attivava anche lo corteccia

parietale posteriore solo quando l’azione era diretta ad un oggetto. Quello che però è

davvero rilevante è che nei soggetti, quando vedevano un’azione, ad esempio compiuta da

un piede, cioè lontana dalla bocca, l’area di Broca non si attivava affatto. Si attivava solo

quando i video rappresentavano azioni compiute con la bocca e si attivava limitatamente

con azioni compiute dalla mano. Quindi la tesi della “mediazione verbale” dell’azione è

venuta presto a cadere.

Crediamo sia ora necessario presentare anche un esempio di tipo teatrale, dato il tema della

nostra trattazione. Nel 2005 Calvo-Merino e colleghi hanno eseguito una serie di studi dei

neuroni specchio su ballerini di danza classica e capoeira attraverso la risonanza magnetica

funzionale. L’esperimento consisteva nel far vedere loro delle immagini di danza sia dove

loro erano professionisti, sia dove non lo erano. Il risultato è stato che quando i ballerini

vedevano passi di danza che conoscevano il loro sistema specchio era molto più in

funzione rispetto a quando vedevano passi di danza sconosciuti. Quindi esisteva un forte

legame tra il bagaglio di esperienza maturato con gli allenamenti e il sistema mirror.

Bisogna chiedersi ora a cosa può servire un tale sistema. Secondo Vittorio Gallese la

corrispondenza che vi è tra segnali nervosi che si verifica quando una persona osserva

un’azione – anche se è esso stesso ad eseguirla – e il fatto dell’azione stessa, permette la

comprensione dell’azione, e la sua intenzionalità, solamente simulando mentalmente

l’atto11. Il questa maniera si entra in connessione con “le relazioni interpersonali attraverso

un processo di simulazione, il quale genera non solo in chi agisce ma anche in chi osserva

«uno spazio d’azione condiviso», uno stesso stato di modificazioni motorie, corporee ed

11V. Gallese, Before and below ‘theory ofo mind’: embodied simulation abd the neural correlates of social cognition, in
«Philosophical Transaction of the Royal Society», 2007, 362, pp. 659-669.
7
emotive.”12 L’emozione è, per l’appunto, la tematica centrale che attorno la quale gli

studiosi si stanno confrontando da tempo, e che sembra da una parte rendere più

affascinante la ricerca dei neuroni specchio nell’uomo, e dall’altra, almeno per ora,

allontana la speranza di trovargliene come ne sono stati trovati di chiari e sicuri, nella

scimmia. C’è però da dire che una serie di esperimenti eseguiti dal dottor Gallese

sembrerebbe confermare, o almeno rendere più plausibile, la possibilità che attraverso il

sistema specchio, l’uomo possa non solo capire come comportarsi fisicamente, ma anche

emotivamente e quindi socialmente. Il professore, e team, hanno fatto provare

un’emozione a un soggetto e ne hanno monitorato le zone cerebrali che erano interessate;

poi hanno fatto a vedere allo stesso soggetto dei video di persone che stavano provando

emozioni analoghe alla sua. Il risultato è stato che alcune regioni dell’insula13 si

attivavano14 anche nel vedere qualcun’altro che percepisce sensazioni ed emozioni. A

questo punto è possibile ipotizzare che questo tipo di condivisione empatica possa

estendersi anche a tutte le altre tipologie di emozionalità umana. C’è però una cosa

importante da mettere in evidenza, ovvero che i meccanismi di condivisione emozionale,

estetica e dell’altrui intenzionalità non sono ancora stati spiegati esaustivamente da poter

dare certezza scientifica. “La prova definitiva dell’esistenza dei neuroni specchio

nell’uomo potrà avvenire solo ed esclusivamente dalla loro registrazione diretta, ottenibile

con metodiche invasive e per questo di difficile ma non impossibile realizzazione. Credo

sia solo questione di tempo.”15

12L. Mariti in Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze , a cura di C. Faletti, G. Sofia, Roma (RO), Editoria e spettacolo,
2011, p. 110.

13 Il lobo dell’insula ha a che fare con i sistemi dell’emotività, della percezione, del controllo motorio,
l’autoconsapevolezza, delle funzioni cognitive e l’esperienza interpersonale.

14B. Winker, C. Keysers, J. Plailly, J. P. Royet, V. Gallese, G. Rizzolatti, Both of us disgusted in my insula: Yhe common
neural basis of seeing and feeling disgust, in «Neuron», 2003, 40, pp. 655-664.

15 Intervento di Vittorio Gallese in Brainfactor: http://brainfactor.it/index.php?


option=com_content&view=article&id=171:neuroscienze-controverse-il-caso-dei-neuroni-specchio-brainfactor-
intervista-vittorio-gallese&catid=22:le-interviste-di-brainfactor&Itemid=3
8
Sulla condivisione di emozioni e capacità di previsione delle intenzioni si è esposto anche

il professor Luciano Mariti, storico del teatro presso l’Università della Sapienza di Roma.

Mariti, parlando dei neuroni specchio e della loro funzione “anticipatoria e predittiva”16

mette in ballo una questione molto interessante: quella della condivisione del medesimo

repertorio motorio.

Il repertorio a cui fa rifermento Mariti è quello che Vezio Ruggeri ha, insieme al suo team,

nel 1986, definito come “decodificazione imitativa”. Il professore ha eseguito una serie di

esperimenti mostrando, a dei soggetti sani, delle diapositive in cui vi era una bambina che

faceva delle smorfie. Ad ogni diapositiva la bambina metteva in moto aree differenti: ora la

bocca, ora la fronte eccetera. L’esperimento prevedeva la misurazione immediata

nell’osservatore dell’attività muscolare delle stesse aree messe in moto dalla bambina. “[...]

quando la bambina faceva delle smorfie che coinvolgevano un determinato muscolo

facciale [...] aumentava il livello di attività muscolare dello stesso distretto muscolare nel

soggetto che guardava la diapositiva. [...] Noi abbiamo chiamato questo processo

“decodificazione imitativa”17, che vuol dire che riproduco ciò che l’altro fa. Per poterlo

riprodurre è però necessario condividere con esso il repertorio di azioni che sono

socialmente riconosciute e correlate a precise significazioni, altrimenti non è possibile

giungere alla completa comprensione di ciò che si sta osservando. Il meccanismo

imitativo, che passa attraverso la condivisione di un repertorio di significati è, secondo

Ruggeri, Fiorenza e Sabatini, ciò che sta alla base dell’empatia.

16L. Mariti in Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze , a cura di C. Faletti, G. Sofia, Roma (RO), Editoria e spettacolo,
2011, p. 110.

17 V. Ruggeri in Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Edizioni Alegre, 2009, p. 40.
9
1.2 Empatia e arte

Ci sembra opportuno, per rendere più completa la comprensione di ciò che si tratterà

di seguito, accordarci col lettore – condividere con esso – il significato che oggi il

dizionario della lingua italiana Treccani da al concetto di empatia:

empatìa s. f. [comp. del gr. ἐν «in» e -patia, per calco del ted. Einfühlung (v.)]. – In

psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva

di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione

verbale. Più in partic., il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di

immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

All’interno della spiegazione si parla di Einfühlung che, letteralmente, significa

immedesimazione. Vediamo allora cosa ci dice sempre Treccani al riguardo:

immedesimazione /im:edezima'tsjone/ s. f. [der. di immedesimare]. - [il trasferirsi

idealmente nella situazione psicologica di un'altra persona] ≈ Ⓣ (filos., psicol.) empatia,

identificazione.

Appare subito chiaro, leggendo le definizioni date dall’Istituto, oggi, lo stretto rapporto che

si instaura tra comprensione, condivisione ed, in certe situazioni, estetica, che verrà

approfondito più avanti nella trattazione di questo capitolo.

Il fenomeno di “partecipazione intima” attraverso il quale “si realizzerebbe la

comprensione estetica”, lo si può applicare allo sterminato mondo dell’arte. Arte viene qui

intesa nella sua accezione più estesa in cui viene compresa anche l’espressiva arte del

10
corpo18, quella attoriale. Dunque ogni qual volta si leggerà arte o, più genericamente, opera

d’arte, si deve sempre avere ben presente il tema fondamentale della nostra trattazione,

ovvero la condivisione e l’immedesimazione attraverso l’arte dell’espressività del corpo

che passa attraverso la sapienza e lo studio e il controllo che solamente l’attore – o più

genericamente performer – possiede.

Visti i significati che i grandi studi del sapere sono in grado di darci oggi riguardo al

concetto di empatia, sembra doveroso fare un piccolo passo indietro e tornare all’inizio del

secolo scorso, ovvero al periodo in cui la sperimentazione in ambito artistico e teatrale

esplode per la prima volta su larga scala, portando così alla ricerca e alla definizione di più

concetti che fino ad allora erano rimasti un po’ all’oscuro, proprio come quello di empatia.

Ci sembra rilevante a questo proposito analizzare ciò che un grande studioso tedesco come

Wilhelm Worringer scrisse nel 1908 in un suo testo da dottorando, nei riguardi del

sentimento empatico: “L’estetica moderna, che ha compiuto il passo decisivo

dall’oggettivismo al soggettivismo – che cioè non assume più quale punto di partenza dei

propri studi la forma dell’oggetto estetico, ma la reazione che esso suscita nel soggetto che

contempla – culmina in una teoria che, con termine ampio e generico, si può definire

dell’empatia.”19

Se facciamo un altro salto indietro, più precisamente nel 1872, vediamo che il tema

dell’empatia o, per meglio dire, il tema della relazione che si instaura tra visivo ed

emotivo, fenomenico e mentale, corporeo e emozionale è stato trattato anche da un

pioniere della scienza fisiognomica quale fu Charles Darwin. Darwin nel suo testo

“L’espresione delle emozioni nell’uomo e negli animali” esprime ancora quella tendenza

scientifico-ottocentesca all’oggettivizzazione dei contenuti della trattazione; quella stessa

18 L. Mumford, Arte e Tecnica, Milano (MI), Universale ETAS, 1980, p. 20.

19 W. Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, Torino (TO), Einaudi, 1975, p. 6.
11
tendenza che Worringer ringraziava esser stata superata all’altezza del primo decennio del

XX secolo. Questo modo di approccio ha però fatto si che Darwin nel suo libro inserisse

un elevato numero di fotografie di ritratti e volti, che lui riteneva emblemi che

rappresentavano tutta l’umanità – oggettivi per l’appunto – e che sono molto utili ai fini

scientifici. Infatti attraverso le immagini utilizzate dall’autore inglese, accompagnate da

ampie analisi e descrizioni, si può notare come nelle le foto si sia impressionata

l’espressione durante la sua manifestazione fisica. È quindi per noi rilevante che lo

scrittore inglese ponga la generazione dell’emozione prima dell’esercizio del gesto: “ogni

volta che si riproduce lo stesso stato d’animo, anche se appena accennato, c’è la tendenza –

in forza dell’abitudine o per associazione – a ripetere quegli stessi movimenti”20.

L’idea che l’emozione nasca nell’uomo prima dell’agire taglia trasversalmente la scienza e

le prime forme di realizzazione registica teatrale partendo, come detto, dall’Inghilterra di

Darwin e arrivando fino in Russia nella figura di Konstantin Sergeevič Stanislavskij o, per

meglio dire, nella prima parte del suo lavoro di ricerca sugli attori che prende forma scritta

ne “Il lavoro dell’attore sul personaggio”21. Il testo fu pubblicato in Russia per la prima

volta nel 1957. Il primo Stanislavskij, quello che viene definito dell’immedesimazione,

intraprende un tipo di ricerca di verità scenica dell’attore che passa attraverso una sua

reviviscenza emotiva che gli permette di vivere le stesse interiorità del personaggio. La

ricerca del sentimento antecede quella del gesto. L’una genera e aiuta l’altra.

Nel cosiddetto “secondo Stanislavskij”, invece, quello delle “azioni fisiche”, la situazione

si ribalta, e se è vero che prima l’emozione, in qualche maniera, veniva ricercata e poi

rigenerata dall’attore prima di agire, ora la situazione è speculare. Sono le azioni, la ricerca

di movimenti e di situazioni fisiche che attuano quel processo attraverso cui l’attore può

20 C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Torino (TO), Bollati Boringhieri, 1998, p. 70.

21 K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004.


12
vivere delle emozioni le quali, poi, vengono annotate, e successivamente provate a far

riemergere attraverso la loro ripetizione; oppure l’attore può attraverso la concentrazione fa

rivivere in lui quelle azioni annotate, ripetute, ed imparate, anche senza il bisogno di

ripeterle: “Da azioni fisiche separate ed eterogenee si formano interi periodi e da periodi,

linee ininterrotte di azioni logiche e consequenziali. Esse tendono in avanti determinando il

movimento che a sua volta genera l’autentica vita interiore. In questa sensazione riconosco

verità, la verità genera la convinzione. Più ripeto la scena, più questa si rafforza. Ricordate

che noi denominiamo questa linea ininterrotta di azioni fisiche, linea della vita fisica.”22

Giunti a questo punto si potrebbe pensare che, essendo quello del secondo Stanislavskij un

metodo che inizialmente mette in moto forze emozionali centripete, allontani da noi

quell’idea di empatia che è legata all’estetica, alla manifestazione dell’atto artistico; ma se

pensassimo così cadremmo in errore poiché le forze sono centripete solo in un primo

momento, quello della generazione dell’emozione stessa che poi, attraverso l’esercizio e la

ripetizione diventano parte integrante dell’agire e quindi della dimensione effimera,

estetica dell’agire dell’attore e quindi del teatro stesso.

Sono molto importanti da analizzare “le linee ininterrotte di azioni logiche” che generano

la “linea della vita fisica”. Sono importanti nella misura in cui portano ad una conclusione,

anche se è un po’ azzardato definirla così, che è quella della vita, della vitalità e della

verità. Theodor Lipps scriveva che quello che viene empatizzato è, genericamente, vita. In

questi termini il corpo dell’uomo (dell’attore), diventa un recipiente vuoto dentro cui vi si

può inserire, attraverso il meccanismo dell’empatia, quello centripeto di cui sopra,

qualunque cosa diventi poi esperienza, vissuto, azione, vita.

Scrive Lipps: “Ciò che io empatizzo è in senso assolutamente generale vita. E vita è forza,

un interiore operare, aspirare a portare a compimento. In una parola vita è attività (...)

22 K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore sul personaggio, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 217.


13
Attività è ciò in cui esperisco un impiego di forza (...) Attività è, secondo la sua natura,

attività volitiva. È l’aspirare o il volere in movimento”23 .

L’empatia, e dunque anche la vitalità a cui essa si lega, è strettamente relazionata con

oggetti, oggetti che noi vediamo, osserviamo, e nella loro apparente fredda fissità ci

comunicano qualcosa. Quel qualcosa che ci viene comunicato dall’oggetto osservato

diventa immediatamente parte di noi, della nostra vita – della nostra esperienza sensoriale

– e quindi della soggettiva vitalità. Possiamo dunque intendere vitalità come forma

primaria di energia che ci spinge ad agire e a relazionarci prima con lo spazio che ci

circonda, e poi con le altre persone. Queste pulsioni, a dire il vero, nascono da un reciproco

rapporto tra uomo e ambiente; dove l’uomo è in qualche maniera vittima della fascinazione

e attrazione che l’ambiente che lo circonda ha su di lui tramite proprietà di tipo fisico.

Queste proprietà che forniscono all’uomo opportunità pratiche che esso è in grado di

percepire e usare vengono chiamate per la per la prima volta da James Gibson

affordance24 . Se invece guardiamo il rapporto dal punto di vista dell’uomo è chiaro che

all’interno della pulsione vi è una forte attrazione verso quelle forme che gli danno la

possibilità di agire e di scoprire. Quando il rapporto è stabilito, e avviato, si innesca quel

meccanismo di empatia che, più precisamente, si verifica quando “le mie naturali tendenze

all’autoattivazione e l’attività che mi è richiesta dall’oggetto sensibile” sono in accordo tra

di loro. Se ora provassimo a considerare come “oggetto sensibile” l’attore, ovvero l’artista

dell’azione fisica, noteremmo subito che il meccanismo di empatia che si si instaura tra

oggetto e osservatore non solo è attivo, ma più vivo che mai. L’attore, che con la sua arte

che per lo spettatore è, alternativamente, astratta e comprensibile25, cerca di instaurare quel

23T. Lipps Empatia e godimento estetico, in «Discipline filosofiche», XII, 2002, n.2, (n. monografico intitolato Una
«scienza pura della coscienza»: l’ideale della psicologia in Theodor Lipps, Macerata (MC) Quodlibet, 2002, pp. 33-34

24 J. J. Gibson, The Ecological Apporoach to Visual Perception, Boston, Houghton-Mifflin, 1979.

25Con “astratta e comprensibile” si intende l’alternanza tra azioni facilmente comprensibili ed empatizzabili dallo
spettatore poiché anch’egli le ha già eseguite o comunque esperienzializzate, a contrario di quelle astratte che lo
spettatore riconosce come estranee da sé.
14
rapporto di complicità con chi lo osserva agire. Se attraverso la sua mutevole immagine

l’attore riesce a comporre e scolpire forme che, per quanto possano apparire estranee,

vengono percepite come “belle” – ovvero, in termini generali, capaci di suscitare felicità –

la loro bellezza consiste nella libertà e nell’ideale vivere in esse 26 che lo spettatore prova

osservandole. Questo processo di espressione artistica è oggi universalmente conosciuto, e

quindi cosciente fin dai primi istanti di generazione creativa e artistica. Ma pensare che sia

sempre stato così, ovvero che gli artisti “progettavano”, ancor prima di esprimersi, in

funzione della reazione empatica del pubblico sarebbe un grande errore. Infatti il

meccanismo dell’empatia non è stato sempre utile ai fini di creatività artistica. Riegl ad

esempio fu il primo a introdurre nel metodo di analisi storica dell’arte il concetto di

«volere artistico» (Kunstwollen). “Per «volere artistico assoluto» si deve intendere quella

latente esigenza interiore che esiste per sé, completamente slegata dall’oggetto e dal modo

di espressione, e che trae la sua energia dal “sentimento del mondo”27. Secondo questo

principio ogni forma di espressione artistica non è altro che oggettivazione di quel valore

artistico che, prima di tutto, è. Il desiderio di manifestare un modo di essere è parte

integrante dell’uomo, e deriva dal suo rapporto con la natura, ovvero il desiderio che

l’uomo ha di imitare la natura stessa. Sul concetto di imitare ci esporremo in maniera più

estesa e più approfondita nel capitolo dedicatogli, nella nostra trattazione. È però

necessario fin da subito fare una piccola digressione esponendola differenza tra

l’antropologica tendenza all’imitazione e il naturalismo artistico.

L’uomo, fin dalle sue origini, ha teso sé stesso a imitare ciò che gli pareva davanti, ovvero

la natura, per cercare di riconciliare quella distanza che si è provata dopo la scissione tra

actio e significato, vale a dire la distanza tra ciò che è sensibile e ciò che appartiene al

26 W. Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, Torino (TO), Einaudi,1975, p. 9.

27 Ibid. p. 16.
15
mondo delle idee. Bisogna però fermarsi immediatamente e chiedersi se già all’epoca degli

antichi egizi, ad esempio, fosse presente in loro il sentimento di empatia che faceva

desiderare loro l’assoluzione della loro felicità interiore attraverso il godimento di

manifestazioni artistiche, se così possiamo definirle. A questo riguardo ci viene in aiuto

ancora una volta Worringer: “Il ricordo di una forma morta di una piramide [...] ci dice

subito che qui il bisogno di empatia, che per ovvie ragioni tende sempre verso l’organico,

non può aver determinato il volere artistico. Anzi, si impone l’idea che in questi casi si sia

manifestato un impulso diametralmente opposto a quello di empatia, inteso a sopprimere

proprio quanto serve ad appagare il bisogno.” Continua Worringher: “Questo polo opposto

al bisogno di empatia è a nostro avviso l’impulso di astrazione.”28

Questo impulso di astrazione corrisponde, “nella sfera religiosa, a un’accentuazione

fortemente trascendentale di tutti i concetti.”29 L’autore legge in questa astrazione una forte

inquietudine nei confronti del mondo fenomenico che invece il sentimento di empatia non

prova poiché è generato da una forte fiducia nei rapporti tra uomo e mondo che lo

circonda. Questa sarà la tendenza che l’uomo secolarizzato, e sempre più ragionevole,

seguirà sempre più assiduamente e ferocemente, fino all’affermazione del naturalismo,

ovvero avvicinamento all’organico e al verosimile.

Le prime testimonianze di imitazione della natura che possono, per lo storico dell’arte,

avere valore artistico anche se opere d’arte, in senso moderno, non sono, ma piuttosto

opere dell’abilità artistica (tekné), appartengono alla sfera dell’ornamento. I primi popoli,

attraverso una elaborazione tecnica del mondo, ne imitavano l’essenza, ne riproducevano

le leggi che attraverso un’attenta capacità di osservazione portava loro a realizzare artefatti

di varia natura e genere. I popoli antichi instauravano, attraverso questo processo, un

28 Ibid. p. 17-18.

29 Ibid. p. 18.
16
rapporto empatico con il prodotto, l’oggetto, che nulla aveva a che vedere con il concetto

estetico/estetizzante di arte30. L’ornamento e le piramidi ci sono necessarie per

comprendere la distanza e la differenza tra ciò che nell’antichità poteva essere empatico e

cosa invece poteva non esserlo, e di conseguenza poter comprendere meglio ciò che oggi è

generatore di emozione condivisa. C’è però un fattore che conferma e contraddice ogni

forma di spiegazione delle origini dell’arte, ed è proprio il principio secondo cui l’Arte è

caratterizzata da simpatia ed empatia31. Secondo questo principio, generalmente condiviso,

dovremmo considerare arte anche i reperti ornamentali, ma non è nostra intenzione aprire

in questa trattazione una querelle al riguardo, ci limiteremo quindi a porre solamente il

problema.

Con questa piccola digressione abbiamo avuto l’occasione di mettere in luce due

espressioni apparentemente contrastanti, ovvero quella riegliana secondo cui a prescindere

dal sentimento estetico/empatico l’uomo crea arte, e quella invece worringhiana,

confermata da Mumford, secondo cui l’arte è ricerca di empatia e di espressione di forme

empatiche. A questa antitesi non ci sono posizioni e risposte definitive, ma solo due modi

di osservare lo stesso problema.

Una cosa è però comune tra le due tesi, ovvero che l’uomo ha comunque una necessità,

infondo a sé, che è quella di manifestare e “allargare il campo della personalità, cosicché

sentimenti, emozioni, atteggiamenti e valori nella forma individualizzata in cui essi si

manifestano in una particolare persona, in una particolare cultura, possono essere trasmessi

con tutta la loro forza ed il loro significato ad altre persone e ad altre culture. [...] L’arte

nasce [...] dalla [...] necessità di riflettere, intensificare, e proiettare in forme più

permanenti quei preziosi elementi della sua esperienza che altrimenti gli sfuggirebbero di

30 Ibid. pp. 53-56.

31 L. Mumford, Arte e Tecnica, Milano (MI), Universale ETAS, 1980, p. 21.


17
mano troppo rapidamente o affonderebbero troppo profondamente nel suo inconscio per

essere recuperati.”32

32 Ibid., p. 21.
18
1.3 Avvicinamento attraverso le immagini

Per affrontare questo capitolo è necessario, come fatto in precedenza, accordarci con

il lettore riguardo la definizione di ciò che stiamo andando ad affrontare. Condividere,

letteralmente, significa “avere in comune con altri”33 ; e l’avere in comune con altri ha in sé

un sentore di possessione, di proprietà, che si può realizzare in due modalità differenti: la

prima presuppone che l’oggetto condiviso sia esterno ai soggetti che ne condividono la

possessione, come ad esempio una pittura o un testo, ove gli osservatori/lettori non sono

necessariamente i suoi creatori, e quindi generano due emozioni plausibilmente differenti

sulla base di una stessa opera. Il secondo invece è caratterizzato dal fatto che l’oggetto in

questione è “all’interno” di uno dei soggetti, come accade nella situazione attore-

spettatore, in cui i due condividono, attraverso il meccanismo empatico, una medesima

emozione che possibilmente risiede ugualmente in entrambi, ma che si manifesta solo

attraverso l’agire dell’attore.

Prendiamo il primo caso. Se stessimo guardando un quadro dipinto raffigurante un grido di

dolore molto espressivo e cromaticamente caricato di emotività, ad esempio attraverso

tinte scure, il nostro sistema nervoso sarebbe scosso da quell’immagine pur essendo che

non è referenziale. In questa situazione la rappresentazione “non mostra un fatto, ma una

complessità di emozioni alle quali l’artista dà immagine.”34 All’interno dei rapporti artista-

opera e osservatore-emozione prende forma un gioco di relazioni dove l’artista genera

un’immagine che si proietta nell’osservatore il quale a sua volta ne produce un’altra, che è

la propria proiezione mentale dell’originale, che infine gli fa provare emozione. Attraverso

33 Dizionario della lingua italiana Treccani.

34 G. Sofia (a cura di), Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Edizioni Alegre, 2011, pg. 117.
19
questo gioco di sensazioni, sentimenti ed emozioni si crea un luogo di tensioni all’interno

del quale l’unico dato oggettivo, fermo e stabile è la datità dell’opera manifesta.

Nel secondo caso da noi precedentemente espresso, contrariamente al primo, non vi è

nessun dato oggettivo, fermo e stabile. Intrinsecamente legata all’azione attoriale vi è

l’idea dell’inafferabilità della stessa, che poi non è altro che la proprietà intrinseca del

teatro, ovvero il suo essere effimero, passeggero. Eppure in questo secondo caso vi sono

molte più probabilità di condividere, attraverso l’immagine dell’attore, le emozioni in lui

contenute e da lui espresse, e questo anche in funzione di quel meccanismo esposto nel

capitolo precedente e che risponde al nome di empatia. Ma non solo. Darwin, nel suo libro

del 1872 in cui analizza la manifestazione delle emozioni sia nell’uomo che nell’animale,

espone una tesi alquanto curiosa35. Lo scienziato inglese mette in stretto rapporto la mente,

il corpo e l’abitudine. Per Darwin i “movimenti tendono ad associarsi ad altri movimenti o

a vari stati mentali”36. E allora, come sottolinea Freedberg nel suo saggio intitolato

“Empatia, movimento ed emozione”, “non possiamo non considerare cosa accade quando

vediamo azioni eseguite da altri, nella realtà o in immagini, che fanno venire in mente

azioni abituali compiute da noi stessi.” 37 Quelle azioni di cui parla Freedberg sono le

stesse che espone Darwin, però laddove lo studioso dell’arte si concentra sulle emozioni da

esse generate, lo scienziato ottocentesco pone attenzione sull’attività muscolare del

soggetto; dice infatti che “gli atti utili diventano abituali in associazione a determinati stati

d’animo e sono eseguiti anche se, nel caso particolare, non offrono alcun vantaggio.”38 Da

queste parole appare chiara la primaria importanza delle azioni fisiche rispetto alla

secondaria delle emozioni. Per lui ciò che è importante è riscontrare una corrispondenza tra

35 C. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Torino (TO), Bollati Boringhieri, 1998, p. 70.

36 Ibid. p. 72.

37
D. Freedberg ne, Immagini della mente - Neuroscienze, arte, filosofia, a cura di Giovanni Lucignani, Andrea Pinotti,
Milano (MI), Raffaello Cortina Editore, 2007, p. 19.

38 C. Darwin, L’espressione..., p. 69.


20
azioni – anche abituali – e stati d’animo. Darwinianamente il processo di condivisione

diventa a tutti gli effetti un processo sociale in cui tutte le parti in causa hanno

un’importanza notevole all’interno dell’esperienzialità del soggetto. Prendiamo in esame

un bambino. Quando lui impara prima dai genitori, e poi dal sistema sociale, come vivere

nel mondo, lo fa solo attraverso la sperimentazione di azioni fisiche che in lui generano

emozione che, se positiva, anche se spesso non è così, diventa presto abitudine, mentre se

negativa, e qualcuno gli fa notare l’errore compiuto, allora il sentimento a cui il bambino

assocerà tale azione sbagliata, sarà negativo. In tutti i casi il soggetto che apprende lo fa

attraverso immagini. Immagini del mondo, della natura, delle persone o di sé sia in

solitudine che inserito in un ambiente, ed è allora che le immagini sono più forti che mai,

poiché sono autogenerate e autocriticate. Spesso però queste immagini sono influenzate, o

addirittura costruite, da agenti esterni quali racconti, fiabe, invenzioni tra amici o

invenzioni e basta.

L’esempio della fiaba è quello che riteniamo più interessante per la nostra trattazione

perché è quello che sanguinetianamente è “un genere teatrale”39 . Riporteremo ora per

intero le parole di Sanguineti con cui apre il suo saggio del 1979 “«La donna serpente»

come fiaba”: “La fiaba, com’è noto, è un genere orale. La sua bellezza riposa così,

essenzialmente, sopra l’arte con cui il narratore espone e rielabora i materiali che gli sono

offerti dalla tradizione. Per godere di una fiaba, è dunque impossibile, propriamente,

affidarsi ad uno scrivente, sia pure abile scrittore e uomo di lettere. È cosa da ascoltarsi, in

cui gesto e intonazione, mimica e pause, tengono un ruolo capitale. Ancora un passo, e

diremo tranquillamente che la fiaba è un genere teatrale, che postula un recitante e un

pubblico, anche ridotto a un ascoltatore solitario.”40 All’interno di questo mondo

39 E. Sanguineti, Cultura e realtà, Milano (MI), Feltrinelli, 2010, p. 280.

40 Ibid.
21
tradizionalmente orale, la gestualità – il linguaggio del corpo – ha una importanza di primo

livello, come evidenzia Sanguineti e, come più genericamente ci dice Sartre, “il linguaggio

[...] è un prolungamento dei nostri sensi.”41 Sensi condivisi; sensi compresi; sensi intuiti;

sensi empatizzati; sensi diventati esperienza attraverso la ripetizione, l’errore,

l’accettazione, l’esecuzione e l’immaginazione. E questi sensi possono prendere forma

oltre che attraverso la fiaba, ovvero quell’esperienza miniteatrale, anche tramite la lettura,

la letteratura che si manifesta a noi come giustapposizione di segni, ma che si costruisce

nella nostra mente come immagini indefinite e llimitate. Quando si legge un testo si

“prevede, si attende. Si prevede la fine della frase, la frase seguente, la pagina successiva,

si attende che confermino o infirmino le nostre previsioni; la lettura si compone di una

moltitudine di ipotesi, di sogni seguiti da risvegli, di speranze e delusioni; i lettori son

sempre in anticipo sulla frase che leggono”42. Questo punto è per noi molto importante

perché ci permette di mettere in parallelo la genesi delle immagini mentali letterarie e

quelle teatralmente fisiche costruite attorno una drammaturgia testuale e agita. Di fatto il

testo letterario è una successione di segni – fonemi – che solo all’interno del sistema

linguistico corrente preso in esame assume un significato componendo parole che “non

sono soprattutto oggetti, ma designazioni di oggetti”43 . Allo stesso modo se consideriamo i

gesti dell’attore o, per meglio dire, la successione delle immagini che esso rappresenta,

come un flusso di segni con un significato, viene da sé che i gesti presi singolarmente non

sono altro che degli schemata 44 manifestanti una piccola parte di un tutto. L’osservatore,

sia che si tratti di un lettore di testi, sia che si tratti di un lettore di immagini teatrali in

successione è tenuto a costruire una grammatica e una sintassi di ciò a cui sta assistendo.

41 J-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, Milano (MI), Il Saggiatore Tascabili, 2004, p. 21.

42 Ibid., p. 33. [Italico nda.]

43 J-P. Sartre, Che cos’è..., p. 21.

44 Sul significato e sulla funzione degli schemata ci esporremo più avanti nella trattazione (p. 49).
22
All’interno della costruzione di tale grammatica, in cui si va in “cerca del bello”, lo

spettatore crea delle impalcature che ora costruisce e ora distrugge, utilizzando la sua

immaginazione. “L’immaginazione dello spettatore non ha solo una funzione regolatrice,

ma costitutiva; [...] L’immaginazione, così come le altre funzioni dello spirito, non può

godere di sé; è sempre proiettata al di fuori, sempre impegnata in un’impresa.”45 E tale

impresa è, per l’appunto, la costruzione e decostruzione della sintassi dell’immaginazione

che è quell’atto creatore che rende liberi46. Come esempio di quel rapporto che vi è tra

testo, ovvero parola parlata, e teatro, crediamo sia emblematico quello riportato da

Jakobson nel suo testo “Saggi di linguistica generale” a pagina 187: “Un vecchio attore di

Stanislavsky a Mosca mi raccontò come, al momento della sua audizione, quel famoso

direttore gli chiedesse di trarre quaranta messaggi diversi dell’espressione segodnja

večerom (“questa sera”) , variando le sfumature espressive. Egli fece un elenco di circa

quaranta situazioni emozionali, poi pronunziò la frase in questione in rapporto a ciascuna

di queste situazioni, che il suo uditorio doveva riconoscere soltanto dai mutamenti nella

forma fonica di quelle due parole. [...] La maggior parte dei messaggi fu decifrata

correttamente, e in tutti i particolari, da ascoltatori di origine moscovita.”47 È molto

importante evidenziare come Jakobson abbia precisato la questione originaria dell’uditorio,

ovvero erano tutti moscoviti. Secondo noi è rilevante nella misura in cui è stato rilevante

prima parlare della fiaba e del suo bagaglio tradizionale. La comprensione di un testo, di

una sinossi attoriale prende forma laddove è possibile evocare attraverso la narrazione un

immaginario e collettivo e soggettivo, ma comunque accessibile e quindi riconosciuto,

condiviso.

45 J-P., Che cos’è..., p. 38.

46 Ibid., p. 38.

47 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano (MI), Feltrinelli, 2002, p. 187.


23
1.4 Allontanamento attraverso le immagini

Nel capitolo precedente abbiamo osservato come il potere delle immagini e degli

immaginari sia importante e antropologicamente legato all’uomo e al suo modo di

costruire e rappresentare il mondo; attraverso il suo agire e il suo narrare l’uomo ha

costruito codici e linguaggi che gli permettono di tramandare il suo sapere e permettere al

fruitore di accrescere il proprio.

L’immagine, come abbiamo visto, è il principale mezzo di espressione attraverso il quale

l’uomo entra empaticamente in comunicazione con un oggetto per poterne leggere

dell’esperienza e della sapienza. Ma se questo non fosse l’unico modo con cui accedere al

mondo del sapere? Louis Marin nel suo Il potere delle immagini pubblicato postumo nel

1993, sottolinea non solo l’importanza di creare una storia delle immagini, ma anche il

potere che le immagini hanno di costruire soggettività48.

L’arte, come la poesia, il teatro, la letteratura, servono a farci conoscere il mondo da punti

vista altri rispetto a quello usuale, il nostro; possono servire addirittura a creare dei punti di

vista inesistenti attraverso dei mondi reali e irreali. Dunque questi mezzi di espressione

hanno la capacità di mettere in moto meccanismi articolati con cui interrogarci più

profondamente49 . Brecht fu un drammaturgo che capì presto che l’unico modo per sfuggire

alla crisi della forma drammatica aristotelico/naturalistica, che eliminava la possibilità di

interrogarsi d’innanzi a un problema, era costituire un nuovo “processo comunicativo, [in

cui, nds] si può cercare di agire coi mezzi intuitivi della suggestione, o con quelli

puramente razionali della persuasione”50 teatrale che lui ritrovò nella forma del teatro

48 L. Marin, Des pouvoirs de l’image, Paris, Éditions du Seuil, 1998.

49 G. Sofia (a cura di), Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Edizioni Alegre, 2011, p. 124.

50 B. Brecht, Scritti teatrali, Torino (TO), Einaudi, 2001, p. 29, nota.


24
epico. All’interno del duo suo saggio Il teatro moderno è il teatro epico51 Brecht elenca gli

“spostamenti di peso dal teatro drammatico a quello epico” che noi riportiamo qui per

intero.

FORMA DRAMMATICA DEL TEATRO FORMA EPICA DEL TEATRO

attiva narrativa
involge lo spettatore in un’azione scenica fa dello spettatore un osservatore,
e ne esaurisce l’attività però ne stimola l’attività
gli consente dei sentimenti gli stappa delle decisioni
gli procura emozioni gli procura nozioni
lo spettatore viene immesso nell’azione viene posto di fronte a un’azione
viene sottoposto a suggestioni viene sottoposto ad argomenti
le sensazioni vengono conservate vengono spinte fino alla consapevolezza
l’uomo si presuppone noto l’uomo è oggetto di indagine
l’uomo immutabile l’uomo mutabile e modificatore
tensione riguardo all’esito tensione riguardo all’andamento
una scena serve l’altra ogni scena sta per sé
corso lineare degli accadimenti a curve
natura non facit saltus facit saltus
il mondo com’è il mondo come diviene
ciò che l’uomo deve fare ciò che l’uomo non può non fare
i suoi impulsi i suoi motivi
il pensiero determina l’esistenza l’esistenza sociale determina il pensiero

“L’oggettività scientifica diventa così, in arte, oggettività epica, e pervade tutti gli elementi

dell’opera teatrale: la sua struttura e il linguaggio come la sua messinscena.”52

Una riflessione cruciale all’interno del pensiero brechtiano riguarda proprio il linguaggio

che gli attori devono utilizzare durante la rappresentazione. Secondo il drammaturgo-

regista tedesco l’attore non deve mai immedesimarsi totalmente nel personaggio che sta

rappresentando, ma deve assumere quella forma di distacco da esso che l’autore definisce

come Verfremdung, traducibile con straniante ovvero rendere estraneo, allontare. “Egli

[l’attore, nds] deve limitarsi a mostrare il suo personaggio, o – per dir meglio – non deve

limitarsi a viverlo soltanto. Ciò non significa che, avendo da raffigurare personaggi

51Ibid., p. 30.

52 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino (TO), Einaudi, 2000, p. 98.
25
passionali, egli debba restare impassibile. Ma, in via di principio, i suoi sentimenti non

dovrebbero essere quelli del suo personaggio: altrimenti anche lo spettatore identificherà

per principio i propri sentimenti con quelli del personaggio”53 . Per Brecht, dunque, ciò che

è importante non è che nello spettatore si inneschi il meccanismo dell’empatia, bensì che

egli, assistendo alla rappresentazione, si ponga nei suoi confronti in modo critico. Perché

questo? Non è nostra intenzione aprire qui una querelle sulle tecniche di messa in scena di

Brecht, ci limitiamo a rispondere a questa domanda nei limiti delle necessità della nostra

trattazione. Per il regista è necessario che lo spettatore si allontani dalla messa in scena

poiché dopo il dramma ottocentesco borghese è cambiata completamente la modalità di

costruzione della drammaturgia. In breve possiamo dire che si è finiti con l’interiorizzare

tutta la vicenda senza rendere più nulla di strettamente teatrale come lo è l’agire: in scena

nulla accade poiché tutto è il riflesso di quello che vivono, o hanno vissuto, i personaggi.

In questa maniera lo spettatore è portato a vivere, per immedesimazione non governata

dall’azione, quelle emozioni che potrebbe, forse, provare se si trovasse al posto dell’attore

o del personaggio, che qui tendono a coincidere. Come abbiamo già visto in precedenza a

Brecht non interessa un’assuefazione dettata dalla trascendenza di ciò a cui si sta

assistendo in favore di una percezione totalmente emozionale della scena, interessa bensì la

presa di una posizione critica – e poi anche emozionata – rispetto alla scena. Tutto ciò

passa attraverso una mediazione attoriale specifica (epica) che si differenzia

inevitabilmente da quella drammatica che doveva esprimersi attraverso “un momento di

reciproca complementarietà delle singole parti. Un certo tono appassionato

nell’esposizione, un forte rilievo dato al reciproco cozzare delle forze in gioco”54 che

davano una certa «drammaticità» alla rappresentazione. Per ciò che concerne l’espressione

53 B. Brecht, Breviario di estetica teatrale, in Scritti teatrali, Torino (TO), Einaudi, 1962, pp. 133-134.

54 Ibid., p. 62.
26
attoriale epica possiamo affidarci alle parole di un grande studioso, filosofo, critico,

letterato – e quant’altro – quale era Walter Benjamin. “Il teatro epico è gestuale. Si può

dire, a rigore, che il gesto è il materiale e il teatro epico l’utilizzazione di questo

materiale.” E continua più avanti dopo essersi chiesto da dove il teatro epico può trovare

questi gesti, “i gesti sono ritrovati nella realtà. E precisamente [...] nella realtà

contemporanea.”55 I gesti contemporanei di cui l’attore deve servirsi non devono essere

utili per attivare il meccanismo di immedesimazione da parte dello spettatore, come si

potrebbe pensare in un primo momento, sono bensì utili nella misura in cui servono a

parlare di un personaggio, prendendone le distanze. Ovvero. Se l’attore agisce attraverso

movimenti che a lui – e al pubblico – appaiono come riconoscibili quali gesti di ogni

giorno, e non come azioni appartenenti ad una realtà altra, il pubblico stesso non sarà

affascinato da quel tipo di movimento, bensì lo etichetterà come già conosciuto e quindi

poco attraente, nel senso letterale del termine.

Questa maniera di essere/non essere il personaggio oltre che essere una forma di

espressione efficente per i principi su cui si basa la pratica – e la teoria – brechtiana, è

un’ottimo spunto di riflessione per quanto riguarda la nostra trattazione. Infatti come

abbiamo già espresso in precedenza il meccanismo specchio (indotto dall’esterno) si attiva

nei momenti in cui il nostro cervello riconosce nell’agire dell’altro una corrispondenza con

l’agire che compone il suo repertorio di gesti. In questa maniera quello che Brecht aveva

teorizzato nel dopo seconda guerra mondiale assume oggi ancor più concretezza attraverso

le più recenti scoperte scientifiche.

In conclusione di questo capitolo ci sembra utile attuare un leggero spostamento del fuoco

dal Verfremdung brechtiano all’ostranenije šklovskiano. In realtà non si tratta di un vero e

proprio spostamento, bensì una precisazione di tipo storico e filologico.

55 W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione - Saggi sulla letteratura, Torino (TO), Einaudi, 1973, p. 173.
27
Ci sono delle teorie che dimostrano come Brecht abbia acquistato dal formalismo russo di

Šklovskij il concetto di Verfremdung, che in russo si esprime con ostranije56. Lo scrittore

russo espone le sue posizioni a tal riguardo nel 1917, mentre Brecht crea in neologismo

dopo il 1935, data in cui risiede a Mosca per tre mesi e in cui ha modo di entrare in

contatto con l’amico Tret’jakov, il quale a strette relazioni con la scuola formalista russa.

Šklovskij all’interno del suo saggio mette in relazione il concetto di arte con la sua

funzione, ovvero con il modo attraverso cui farne esperienza: “Ed ecco che per restituire il

senso della vita, per "sentire" gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che

si chiama arte. Scopo dell'arte è di trasmettere l'impressione dell'oggetto, come "visione" e

non come "riconoscimento"; procedimento dell'arte è il procedimento dello "straniamento"

degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata

della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell'arte, è fine a se stesso e deve

essere prolungato”57 . Ciò che appare chiaro da questo breve estratto è che per lo scrittore

russo l’arte non deve essere empatica, bensì esplicativa, distaccata dal fruitore cosicché la

“difficoltà della percezione”, aumentando, può rendere possibile un’aumento di criticità nei

confronti anche dell’opera stessa.

Brecht traducendo questa teoria, che si limita al campo dell’estetica, l’ha arricchita di una

componente fondamentale, quella politica, che influenzerà tutta la produzione del

drammaturgo-regista tedesco.

56L. di Tommaso, «Ostranije»/«Verfremdung»: uno studio comparativo, in «Teatro e Storia», 2008, n. 29, Roma (RO),
Bulzoni, pp. 273-297.

57V. Sklovskij, L’arte come procedimento, in Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e
metodo critico, Torino (TO), Einaudi, 1968, p. 82.
28
2

Scienza per un nuovo teatro.

2.1 Sistema neuroni specchio e movimenti intransitivi

Se, come analizzato nel capitolo precedente, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento

il rapporto tra emozione e azione fisica diviene oggetto di mirati studi scientifici (basti ricordare

Darwin), è opportuno ora considerare l’evoluzione, lo sviluppo di una simile questione nel corso

del XX e XXI secolo: in tal senso, i lavori di Paul Ekman – esperto di espressioni facciali, di

fisiologia delle emozioni e di menzogna – rappresentano un utile punto di partenza perché

permettono di analizzare le azioni spontanee, o incontrollate, inconsce, in relazione al tema della

menzogna e, più in generale, in stretto rapporto con tutto il campo emozionale.

Quando si mette in moto un’emozione, i cambiamenti sono automatici, senza una scelta o

una decisione cosciente. E sono cambiamenti immediati. [...] Non possiamo decidere

attivamente se e quando provare una certa emozione. Le emozioni sono al contrario vissute

passivamente come qualcosa che capita e, nel caso di emozioni negative come la paura o la

rabbia, ci capita nostro malgrado. Non solo c’è poca scelta quanto al momento in cui

provare un’emozione, ma spesso non possiamo nemmeno impedire che i segni espressivi

dell’emozione siano manifesti a chi ci sta di fronte. 58

È molto importante per noi tenere ben presente questo tipo di studio giacché stiamo

trattando una materia tanto delicata quanto profonda come l’emozione nell’arte e quindi

nel teatro. Infatti è molto importante, soprattutto per ciò che concerne l’arte dell’attore,

essere consapevole di come un’emozione viene manifestata dal viso di una persona

qualunque facente parte di una precisa società; più che altro non è importante la

58 P. Ekman, I volti della menzogna, Firenze (FI), Giunti, 1989, p. 36.


29
provenienza geografica di una persona, poiché le microespressioni caratterizzano – chi più chi

meno – tutto il genere umano. La manifestazione delle emozioni è legata al contesto in cui un

soggetto cresce e all’educazione ricevuta: un simile aspetto non può essere trascurato da un attore

quando cerca di suscitare nel pubblico un determinato sentimento. Lo studioso americano infatti

ha

[...] trovato, per esempio, che di fronte ad un film emozionante la mimica dei giapponesi

non differiva affatto da quella degli americani, purché fossero soli [italico, nds]. Quando era

presente un’altra persona, particolarmente una figura d’autorità, i giapponesi seguivano

molto più della maggior parte degli americani precise regole di contegno che li inducevano

a mascherare qualunque espressione di emozioni negative con un sorriso cortese59 .

Punto molto rilevante è infatti quello che riguarda la maschera che ci si mette nel momento

in cui si desidera celare un’emozione oppure quando ne si vuole esprimere una diversa da

quella provata in realtà. Pirandello in questo è maestro, e ce ne da una dimostrazione, tra le

infinite altre, ne La signora Morli, una e due, dove fa provare a Evelina, la protagonista,

due emozioni in forte contrasto tra di loro – un amore ingenuo e felice con l’ex marito

contro l’amore serio e austero che prova con l’attuale marito – ma che lei è capace di

nascondere e trasformare, mascherare, in altre emozioni60 . Il doppio volto del sentimento

della Signora Morli, ma soprattutto l’autenticità del suo comportamento, è plausibile

giacché noi “possiamo decidere deliberatamente, in piena consapevolezza, di censurare

l’espressione dei nostri veri sentimenti o di fuggire l’espressione di un’emozione che non

proviamo.”61 Come fa Morli nei confronti del suo marito avvocato e lui nei suoi. Tuttavia

esistono delle espressioni talmente piccole, rapide e ingestibili dal nostro livello conscio

59 P. Ekman, Face of Man, Scholarly Title, 1980, pp.133-136, in Ibid. p. 113.

60 L. Pirandello, Signora Morli, una e due, in Maschere nude vol. 3, Milano (MI), Mondadori, 2004.

61 P. Ekman, I volti ..., p. 113.


30
del comportamento che per quanto ci si possa sforzare di nasconderle, loro si mostrano agli

occhi di chi è in grado di individuarle, soprattutto perché nascono e muoiono in un quarto

di secondo e perché non sono comuni come le macroespressioni, e sono chiamate per

l’appunto microespressioni. Sono però queste microespressioni che esprimono la verità del

nostro essere. Infatti sono quelle che più comunemente vengono da noi soffocate: “non

appena un’espressione emerge sul viso, il soggetto sembra accorgersi di quello che rischia

di manifestare e l’interrompe bruscamente, a volte coprendola con un’espressione diversa.

Il sorriso è la copertura o maschera più comune.”62 Bisogna però considerare che ci sono

dei casi dove nonostante la persona sia sincera e onesta, si turba nel sapere di essere

sospettata di mentire. Questo tipo di errore è chiamato da Ekman l’errore di Otello63.

Senza entrare nel merito delle possibili riposte e studi che si possono fare al riguardo, ci

limitiamo ad esporre alcune domande che legano – o forse no – il volto al meccanismo dei

neuroni specchio: 1) Esiste una relazione tra espressione del volto altrui, e la generazione

di emozione in noi? Se si, che tipo do neuroni si attivano in quel momento? Quelli di tipo

specchio? È quindi un sistema che si attiva anche con microespressioni (microazioni)

facciali oltre che con macroazioni fisiche?

62 Ibid. p. 118.

63 Ibid. p. 119.
31
2.2 Camaleontismo

In precedenza abbiamo appreso che siamo capaci di nascondere le emozioni, e quindi

azioni, il che ci rende a tutti gli effetti degli animali mutevoli, adattabili alle circostanze

esterne che condizionano il nostro essere interiore, e quindi, poi, anche esteriore, legato

all’apparire. Questo fenomeno, studiato oggi soprattutto a livello sociale, viene chiamato

camaleontismo. Era però conosciuto fin dai primi anni del XIX secolo, anni in cui era già

manifesta l’effimeratezza della vita moderna, soprattutto borghese. Effimeratezza data, tra

le altre motivazioni, dalla nascita della moda e della pubblicità. L’ attenzione all’esteriorità

del vivere di inizio Novecento viene scritta in forma di commedia da Massimo

Bontempelli ne Nostra Dea; testo scritto nei primi sedici giorni del 1925 e interpretato da

una giovane Marta Abba che venne scritturata come prima attrice da Guido Salvini.64 Il

testo venne messo in scena presso a Roma, per la regia di Luigi Pirandello, nello stesso

anno. Troviamo molto interessante che una delle caratteristiche del nostro essere oggi sia

stata trattata circa un secolo fa dal teatro. E proprio attraverso il teatro, o meglio, attraverso

l’interpretazione dell’attrice, è passata tutta la forza e la mutevolezza del personaggio

vissuta dalla Abba che scrive “L’avevo profondamente studiata e ora nella mia cameretta

saggiavo battuta per battuta la mia voce in tutti i toni per trovare i disparatissimi accenti e i

diversi ritmi da imprimere a ogni scena e rendere così le innumerevoli sfaccettature della

protagonista che cambia animo cambiando vestito. E spontaneamente con gli accenti e coi

ritmi mi nascevano i gesti e i movimenti”65. Come appare chiaro da questo scritto la ricerca

del gesto viene dalla Abba subordinato alla ricerca linguistica e degli accenti linguistici.

Ricordiamo ora ciò che diceva Jakobson riguardo il lavoro che Stanislavskij fece fare ad

64 M. Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie, Torino (TO), Einaudi, 1989, p. 160.

65 M. Abba in M. Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie, Torino (TO), Einaudi, 1989, p. 162.
32
un suo attore nei confronti della ricerca di quaranta modi diversi di dire segodnja večerom

(“questa sera”), e di come questa ricerca fosse così strettamente legata alla società dentro

cui si inseriva. Viene citato dal linguista russo l’evento in cui soltanto attraverso la

modulazione vocale l’attore era in grado di esprimere circa quaranta sensazioni – e

percezioni – differenti nell’unico tipo di spettatore che fosse in grado di percepire queste

differenze: quello moscovita66.

All’interno della commedia ciò che assume importanza è la forma, il colore, il taglio e il

modello di ciò che Dea, la protagonista, indossa. Quello che veste è ciò che le determina

un essere differente. Nel primo atto viene chiaramente espresso il camaleontismo di Dea

dalla sua sarta che parla con Vulcano, un conoscente:

ANNA Col «tailleur» rosso e un garofano bianco e il cappello rosso.

VULCANO Sì, bello, ma non è per questo che dico: è lei che è cambiata [Dea,

nds], in suo modo di fare, di parlare, di muoversi; le sue risposte; non avete visto?

Altro che «sì», e che dettarle la lettera. Ora intuisco che sarà un affare serio.

Insomma, sarà lei, ma perdio è un’altra, tutta un’altra da quella di ieri, timida,

dolce...

ANNA ... vestita color tortora, con un cappellino piccolo con le ali, due

alette.

VULCANO Già. E ora...

ANNA (interrompe) Ma non ha capito?

VULCANO Io? Niente.

66 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano (MI), Feltrinelli, 2002, p. 187.


33
ANNA La mia signora è molto sensitiva.

VULCANO Che c’entra? tutte le donne sono molto sensitive. Purtroppo.

ANNA Molto sensitiva ai vestiti che porta. È un fenomeno. Se ha un vestito

vivace, è vivace, come oggi; se ha un vestito timido, è timida, come ieri: cambia

tutta, tutta: parla in un altro modo; è un’altra. Un giorno l’ho vestita da cinese, s’è

messa a parlare in cinese purissimo. Se le mettessi un vestito nero e un velo lungo,

andrebbe a singhiozzare al cimitero sopra una tomba67.

Come si può capire dalle parole di Anna, in realtà è lei che decide che cosa far essere alla

sua cliente-padrona. Infatti Dea senza dei vestiti che la caratterizzino appare vuota, apatica,

quasi robotica. Per innescare negli altri il meccanismo di empatia, e di neuroni specchio, ha

bisogno di essere qualcosa, prima di essere qualcuno. Una volta indossati gli abiti per

l’occasione, che la definiscono, ecco che si attiva imita ciò che gli altri fanno, inserendosi

quindi all’interno della comunità che li definisce fino a quando non verrà successivamente

cambiata di nuovo. All’interno della commedia, nel terzo atto, si torna sul discorso

dell’imitazione, ma questa volta il soggetto non è Dea, bensì Marcolfo, amico di Vulcano e

un più tonto di lui.

MARCOLFO È molto bella. Oggi era anche più bella. Cioè non so. E questa

mattina? Che confusione!

DEA Parlate come il vostro caro Vulcano.

MARCOLFO Può darsi. Tra amici, si finisce per imitarsi.68

67 M. Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie, Torino (TO), Einaudi, 1989, p. 99.

68 Ibid., p. 127.
34
Quello che l’autore ci sta dicendo in questo passaggio è in realtà il nocciolo della

questione: il meccanismo camaleontico, di imitazione, è un meccanismo sociale, che si

attiva con le persone che ci stanno vicine, a cui volgiamo bene e che stimiamo – come gli

amici. Ma recenti studi ci dicono che in realtà il fenomeno non si limita solo a persone

vicine come amicizie e famigliari, ma si estende anche a fonti di ispirazione69, considerato

qui nella sua accezione più estesa, e a situazioni di comunità. Quando si prova un

sentimento di profondo rispetto e di ambizione all’equiparazione, allora si tende ad

assumere non solo gli atteggiamenti del soggetto in questione, ma anche il suo modo di

parlare, la camminata, il modo di mettere le mani, i tic, le posture e il modo di approccio

nei confronti di terzi. Quando invece ci si trova a doversi confrontare con una realtà

comunitaria che non è la nostra, nella maggior parte dei casi ci si adatta, si diventa come

l’ambiente sociale che ci circonda. In questa maniera impariamo dagli impulsi che ci

arrivano dall’esterno un nuovo modo di essere, e quindi di agire. Il meccanismo dei

neuroni specchio è sicuramente molto attivo all’interno di questo processo di

apprendimento. Per ora i sistemi di studio dei sistemi mirroring non sono ancora arrivati a

confermarci questa tesi, ma date le premesse esposte fin qui crediamo sia una possibilità

molto concreta.

69Chartrand, Tanya L.; Bargh, John A., The chameleon effect: The perception–behavior link and social interaction,
Journal of Personality and Social Psychology, 1999, n . 76, giugno, pp. 893-910.
35
2.3 Aprassia, Parkinson, menzogna e simulazione

Le tecniche più utilizzate per lo studio scientifico del meccanismo specchio solo la

PET e la risonanza magnetica convenzionale, di cui abbiamo già accennato nel primo

capitolo. È per noi importante spendere qualche parola a favore di queste tecniche per

poter avvicinarci meglio al mondo della ricerca scientifica, e per comprendere meglio

come questa può influenzare quella teatrale. La PET è una tecnica invasiva poiché utilizza

un tracciante radioattivo, mentre la risonanza non utilizza traccianti esterni. In entrambi i

casi si parla dell’utilizzo di macchinari che rilevano l’attività neuronale creandone una

mappatura grafica dell’attività. Negli ultimi quindici anni oltre che essere perfezionati sono

anche stati utilizzati in laboratorio con fine di aprire un dialogo con le manifestazioni

psicologiche, artistiche70 e quindi teatrali. Da quando si è compreso che tutto il nostro io, le

nostre esperienze, il bene, il male, risiedono nel cervello, l’uomo ha sempre cercato di

comprenderne i meccanismi, anche perché da qui derivano poi una “gran parte delle

manifestazioni dello spirito umano, nelle più varie aree, dalle sensazioni elementari come

olfatto, tatto, dolore fino al movimento delle attività intellettuali come l’ascolto della

musica, il pensiero, le performance artistiche e anche teatrali”71 . Oggi è possibile, anche se

non in maniera esauriente, grazie alla PET o alla risonanza magnetica funzionale,

comprendere meglio le mappe dell’azione cerebrale.

In apertura della nostra trattazione abbiamo parlato di che cosa sono i neuroni specchio e di

dove sono situati e quale funzione svolgono. Ma cosa accadrebbe se l’area motoria e quella

premotoria dovessero subire delle lesioni? Esiste un danno cerebrale chiamato aprassia

innervatoria che si verifica laddove sia presente una lesione nell’area motoria o

70 C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Editoria e spettacolo, 2011, p. 7.

71 lIbid.
36
premotoria; consiste nella difficoltà di svolgere azioni volontarie che appaiono quindi

goffe e impacciate, anche se la sequenza dei singoli atti è abbastanza corretta72. Riguarda

invece l’impossibilità di realizzare concatenamenti di azioni che prese singolarmente sono

eseguibili aprassia ideativa. Ad esempio se si chiede al paziente che ne è affetto di

accendere una sigaretta non vi riuscirà. Egli è capace di estrarre il fiammifero dalla scatola

ed estrarre la sigaretta dal pacchetto, ma nell’agire il comando non riesce ad eseguire la

sequenza correttamente. Ad esempio può sfregare la sigaretta contro la scatola dei

fiammiferi. Questa “lesione è situata nella regione parietale posteriore dell’emisfero

sinistro dove i programmi motori vengono trasmessi durante l’apprendimento”. Ci sembra

molto rilevante ricordare qui che l’attività dei neuroni specchio è maggiore quando

l’azione che si sta percependo è già conosciuta, immagazzinata. Come terzo problema

riportiamo quello chiamato aprassia ideo-motoria. Laddove il soggetto presenti questo tipo

di lesione sarà visibile in lui l’incapacità di realizzare comandi di tipo verbale, mentre

quelli spontanei e imitati saranno attuati correttamente. È molto interessante che i

movimenti che non richiedono l’intervento dell’are di Broca, quella dedicata al linguaggio,

possano essere eseguiti senza problemi dal soggetto, e tra questi movimenti vi sono quelli

imitati – tipici del teatro – e quelli spontanei – di cui ci ha parlato Paul Ekman. Ma oltre a

questi tre problemi neuronali ce n’è un’altro molto importante per la nostra ricerca: il

morbo di Parkinson. Questa malattia si verifica tra i 50 e 60 anni di una persona, è

degenerativa, e colpisce circa 300.000 persone in Italia. Senza entrare troppo nel merito

della questione – per motivi legati alla non conoscenza dell’argomento, e anche perché non

è nostro interesse approfondire questo discorso in questa sede – possiamo dire che il MP è

causato da un’eccessiva scarica neuronale nei confronti di certe aree motorie quali mani,

72P. Pazzaglia, Clinica neurologica, Bologna (BO), Esculapio, 2008, p.108. Tutti i problemi cerebrali che seguiranno
sono tutti elencati nella stessa pagina del volume.
37
polsi, piedi, mandibola e lingua ma mai gli occhi . Il tremore che ne deriva è un tremore di

riposo: “è presente durante l’inattività muscolare e cessa durante l’azione”73. Inoltre il

paziente ha una mimica povera, non esprime più col volto e i suoi sentimenti, muove meno

gli occhi, batte meno le palpebre, quando cammina non muove le braccia. Cammina più

lentamente, e quando deve infilarsi la giacca ci mette più tempo [...] La malattia di

Parkinson non è solo perdita dei movimenti automatici: coinvolge anche la motilità

volontaria e in alcuni casi anche le attività cognitive74.

Abbiamo detto che questo tipo di malattia è per noi importante, ed ora capiamo che lo è in

funzione della sua inattività durante la fase di azione muscolare – oltre che per le

problematiche rivolte all’espressività emotiva e attiva – fase all’interno della quale il teatro

può entrare e lavorare. Nicola Modugno, neurologo specializzato nel morbo di Parkinson,

nel 2011 insieme all’attore Paolo De Vita ha messo in piedi un progetto che è affiancato dal

Parkin-zone Onlus, dove le persone affette dalla malattia possono usare il teatro per

superare il proprio disagio75. Modugno tempo prima ebbe un’intuizione: “quando ai

pazienti prescrivevano la fisioterapia per farli continuare a camminare, visto che c’è anche

una difficoltà a esprimere emozioni e un impoverimento di tipo cognitivo, perché non

proviamo a fargli svolgere anche un’attività che li impegni sul piano emotivo e

intellettivo?”76 Il palcoscenico teatrale è stato quello che gli sembrava fosse più atto per

riattivare tutte quelle attività motorie e tutto il coinvolgimento emotivo che si portano

appresso. Un problema emotivo legato alla malattia è ad esempio l’incapacità di dire bugie

(Ekman avrebbe da fare delle ricerche a tal riguardo). La menzogna e la dissimulazione

73 Ibid., p. 402.

74 C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Editoria e spettacolo, 2011, p. 8.

75F. Olivi su http://www.parkinson-italia.it. l’URL completo è http://www.parkinson-italia.it/rubriche/notizie/parkin-


zone-quando-il-parkinson-si-combatte-sul-palcoscenico

76 C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi..., p. 8.


38
sono elementi che sono alla base dell’uomo da sempre, e i parkisoniani ne sono meno

capaci. Ma perché? Secondo alcuni ricercatori, che hanno realizzato esperimenti

utilizzando le tecniche PET, lo sviluppo della malattia comprometta maggiormente certe

aree cerebrali, tra le quali quella dedicata alla simulazione. Ma non solo. Vengono infatti

intaccate zone cerebrali che governano i movimenti basilari di un uomo, quali iniziare una

marcia, passare attraverso una porta. È vero però che l’attività motoria del malato migliora

quando il programma motorio viene fornito dall’esterno.

Per esempio, se un paziente parkisoniano balla, si muove meglio che nel fare un passo per

attraversare una porta, perché i ritmo della musica, la presenza del partner che balla e delle

persone attorno a lui che svolgono questa attività lo facilitano. [...] Un altro trucco è

insegnare al paziente a introdurre un elemento artificiale nel movimento, che consenta di

trasformare un movimento automatico in un movimento voluto77 .

In questo tipo di attività il teatro ne è padrone, il che ci riporta direttamente all’intuizione

di Modugno. Il neurologo all’interno del suo progetto con gli affetti dal morbo, ha creato

dei gruppi di lavoro. Potremmo dire che è solo poiché all’interno di un gruppo ci si sente

più sicuri, ma non è così. Quando ci troviamo in situazioni a noi estranee, come abbiamo

detto in precedenza riguardo al camaleontismo, semplicemente ci adattiamo, e lo facciamo

emulando la realtà che ci viene presentata, quella agita dagli altri, anche attraverso i

neuroni specchio. I parkisoniani inseriti in una realtà di tipo teatrale tendono a riattivare

quelle aree del loro cervello che sono dedicate alla simulazione e che sono più intaccate

dalla malattia. Il teatro insegna loro a simulare delle azioni e delle emozione che altrimenti

non sarebbero in grado di esprimere autonomamente. La scienza, in questo caso più che

mai, si fa teatro.

77 Ibid.
39
3

L’attore per una nuova scienza teatrale.

3.1 Neuroni specchio e azioni conosciute

Non è la prima volta che in questa sede parliamo del fatto che i neuroni specchio

sembrano simpatizzare per le azioni che sono già registrate nel cervello. Abbiamo infatti

riscontrato che nel momento in cui una persona osserva una data azione, “una

modellazione anticipatoria e predittiva (forwards models) a livello motorio”78 si crea

all’interno del suo cervello. Ma come è possibile che ciò accada? Durante l’osservazione di

un’azione la nostra mente consulta il nostro personale “vocabolario” dei gesti, e ne verifica

un possibile riscontro. “Tra l’attivazione del programma motorio e l’esecuzione in cui si

valuta di inibire, passano millesimi di secondo, ma comunque l’impulso ha già provocato

modificazioni fisiologiche.”79 Ma cosa accade, invece, quando i movimenti osservati non

vengono identificati e riconosciuti dal “vocabolario”? In altre parole, cosa accade durante

la visione di uno spettacolo teatrale?

Lo spettatore entra fin da subito in un contatto di tipo percettivo, di condivisione, con

l’azione dell’attore il quale mette in moto la competenza drammaturgica dell’osservatore;

tra i due si instaura una sorta di corpo a corpo dove uno agisce fisicamente, l’altro

mentalmente. L’attore, all’interno del corpo a corpo, è colui che amministra e dirige la

comunicazione che attraverso il suo fisico passa, o non passa. L’interprete ha la possibilità,

e tutti gli strumenti dati dal padroneggiamento della sua arte, per dare il via ad un gioco

78 L. Mariti in, Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Gabriele Sofia (a cura di), Roma (RO) Edizioni Alegre, 2011, p. 69.

79 Ibid., p. 70.
40
scambio di significati delle azioni che ora sono riconoscibili e prevedibili e ora no. Ora

sono quello che sembrano e un secondo dopo negano tutto quello che apparivano

precedentemente. L’attore può, per dirla con un esempio di Mariti, accendere nello

spettatore la sua intenzione di brandire una spada che subito viene letta come oggetto per

combattere che però, un attimo dopo, si spegne nell’osservatore perché l’arma viene

utilizzata come crocifisso. “La stessa cosa accadrebbe se un mimo attivasse l’intenzione di

mettere al collo un foulard di seta per poi cambiare direzione, farlo prendere da una mano e

appoggiarvi sopra tutto il corpo come se fosse un solido bastone.”80 È in questo modo, e in

questo soltanto, che nella mente di chi osserva si aprono le porte dell’immaginazione che

con l’agire dell’attore si attua, non rimanendo così puro frutto della mente anche se, con la

realizzazione di nuove composizioni tra significati e azioni, nello spettatore si creano i

presupposti per una nuova immaginazione. A questo punto si creeranno nuovi spazi

temporali di millesimi di secondo, dove “lo spettatore è chiamato a completare

creativamente con la propria immaginazione”81 i vuoti, ovvero quelle “opere aperte” che

sono i non-gesti dell’attore. Attraverso il gioco di azioni messo in moto dal performer, il

fruitore impara gesti nuovi, ma soprattutto significati altri che l’azione può, in un primo

momento, esprimere. Viene da sé che tutto ciò si traduce in nuova esperienza e

apprendimento. Luca Barone, in un’intervista fatta a Rizzolatti per il manifesto del 31

ottoble 200682, chiede allo scienziato: “I neuroni specchio servono per imparare?” E

Rizzolatti risponde:

Alcuni filosofi non ci amano per questo. Pensano che minimizziamo il ruolo del linguaggio.

Noi però non diciamo che c’è una sola maniera per imparare, c’è un meccanismo arcaico

80 Ibid., p. 70.

81 V. Mejerchol’d, D. Gavrilovich (a cura di), La rivoluzione teatrale, Roma (RO), Editori riuniti, 2001, p. 101.

82 L. Barone, s.t., intervista a Giacomo Rizzolati, in «il Manifesto», 31 ottobre 2006.


41
che c’è negli animali e c’è in noi. Poi ovviamente ci sono i meccanismi di ordine cognitivo

superiore che si integrano con questo, ma grazie al neurone specchio la scimmia non solo

capisce quello che facciamo, ma lo può prevedere.

Al che Barone domanda: “ Il comprendere viene prima del linguaggio?”, e con questa

domanda arriviamo ad uno dei nodi cruciali delle querelles che si aprono attorno alla

scoperta dei neuroni specchio, dove Rizzolatti risponde:

Si, come avviene nei bambini [...] ma il linguaggio si basa anch’esso sulla capacità di

imitare, che a sua volta si basa sul sistema dei neuroni specchio. Non basta. Oggi stiamo

studiando anche i bambini autistici. E stiamo scoprendo che non solo il oro sistema

specchio è deficitario, ma anche che hanno una difficoltà nell’organizzare il loro stesso

movimento, la catena dei movimenti che negli altri porta all’attivazione dei muscoli della

bocca subito dopo aver afferrato il cibo. Un’ulteriore conferma del legame fra il

movimento, i neuroni specchio e il meccanismo di empatia fra noi e gli altri.

Dunque l’esperienza dell’agire umano passa anche, e forse soprattutto, attraverso la sua

esperienza con l’altro. Dopo questo primo passo in cui il cervello scrive sul proprio

“vocabolario” delle azioni, si passa alla fase della ripetizione. “Per accumulo di esperienze,

prove ed errori, il repertorio degli atti motori si arricchisce si arricchisce senza sosta,

soprattutto durante lo sviluppo.”83 E se per una serie di possibili casi questo tipo di verifica

e ripetizione dell’esperienzialità non si attuasse o se lo facesse in modo, per così dire,

innaturale? Del primo caso è lo stesso Rizzolatti che ne parla, continuando il proprio scritto

e citando un esempio appartenente al XIX secolo:

83G. Rizzolatti, L. Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Bologna (BO), Zanichelli,
2008, p. 25.
42
Kaspar Hauser: un ragazzo di circa sedici anni che ne l 1828 apparve come dalla luna a

Norimberga, pressoché incapace di parlare, di camminare e di mangiare se non con le mani.

Secondo quanto scrisse Anselm von Feuerbach nel 1833, Kaspar Hauser aveva sempre

vissuto in un’angusta stanzetta buia, nutrito di pane e acqua, con possibilità di movimento

estremamente ridotte.

Viene da sé che il ragazzo non aveva appreso nulla a livello motorio, perché oltre che non

avere avuto l’occasione di fare esperienza propria, non ha potuto nemmeno vivere quella

altrui, osservandola. Gli è stato privato quello che in qualche modo è un dovere, quasi più

che un diritto, al fare esperienza, agita e non, nel mondo. Ma se invece il livello

esperienziale non fosse del tutto privato, ma semplicemente deviato dal suo decorso

naturale? Prendiamo in esempio i “feral children” che in italiano viene tradotto con

“bambini inselvatichiti”. Si tratta di quei bambini che smarritisi generalmente in foreste, e

trovatisi senza alcun contatto umano, vengono trovati da animali selvatici i quali accolgono

l’infante all’interno del branco, lo nutrono e lo crescono come se fosse proprio. Succede

però che qualche volta i bambini, dopo qualche anno di vita passata a stretto contatto con

animali, escano dalla foresta e incontrino di nuovo la realtà umana. Come ci spiega John J.

Shranz, regista-pedagogo e storico del teatro:

ciò che è interessante [...] è che sembra esserci un limite nello sviluppo e nella crescita degli

esseri umani. Se succedere che un bambino venga perso prima di quella soglia – se il

bambino dovesse perdersi prima di aver appreso a parlare – e se dovesse ritornare [...]

cinque, sei, sette anni dopo, sarebbe praticamente impossibile che quel bambino possa

sviluppare la facoltà linguistica tipica dell’essere umano84.

84 J. J. Shranz in Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Gabriele Sofia (a cura di), Roma (RO), Edizioni Alegre, 2011, p. 99.
43
Non bisogna però pensare che sia solo la lingua implicata in questo meccanismo, niente

affatto! Quando i bambini vengono ritrovati non fanno solo difficoltà ad imparare a

parlare, ma anche a mangiare con le mani. Inoltre succede che quando si avvicinano ad una

persona la annusino, proprio come fanno gli animali. Nei momenti di spavento non

tendono a cercare il contatto fisico violento quale potrebbe essere un pugno o uno schiaffo,

bensì presentano una tendenza a mordere. Se un essere umano non viene a contatto con

una azio-educazione umana, ne perde completamente le facoltà. Vorremmo riportare qui

per esteso un caso molto significativo in questo senso che viene riportato sempre da Shranz

e tratta di un:

ragazzo chiamato Sabunia. Lui è ugandese. Fu perso all’età di tre anni. Un giorno, la madre

scappò via di casa, dopo aver vissuto nel terrore del marito per molti anni. Il marito trascurò

il bambino e lui scappò. La madre poi tornò a riprendere il bambino, ma non lo trovò più.

Aveva tre anni. Lui fu preso in cura ed allevato da una colonia di scimmie, che lo lasciarono

giocare e vivere con loro. Rimase li per circa quattro anni. Una volta ritrovato, all’età di

sette anni, aveva il corpo ricoperto di peli. Non è che lui abbia “imparato” dalle scimmie a

farsi crescere i peli! Si tratta di malnutrizione. Quando defecava, defecava vermi lunghi

mezzo metro. I medici affermarono che se una certa Milly, anch’essa ugandese, non

l’avesse trovato proprio il giorno in cui l’aveva trovato, nel giro di tre o quattro giorni,

sarebbe morto85.

L’incapacità da parte del bambino di trovare e preparare il cibo in maniera appropriata non

solo ebbe il curioso risultato di coprirlo di peli, ma lo avrebbe portato a morte sicura. Se è

vero che in questo caso la non esperienza avrebbe condotto un bambino alla sua fine, è

vero anche che a volte un tipo di esperienza fuggevole, incompleta e fortuita può

influenzare la vita di un uomo. L’esempio che seguirà sarà affascinante grazie al rapporto

85 Ibid., p. 100.
44
che esprime tra esperienza osservata e tecnica. Intendiamo qui la parola tecnica alla

Mumford, ovvero come secondo stadio dell’esperienza umana che traduce, attraverso

l’utilizzo di oggetti costruiti dalla mano dell’uomo, la forza mistica e nascosta del mondo

simbolico in manifestazioni concrete artistiche86. La tecnics mantiene in questo modo un

rapporto diretto con l’energia impalpabile del simbolo, al contrario dello strumento che si

distacca completamente da questa dimensione, glorificando l’autonomia umana che lavora,

in questa terzo stadio, da sé e per sé. A questo proposito non è di seconda importanza

aggiungere anche che per Mumford la massima espressione artistica si ha con la body-art,

avvero in quella forma d’arte dove tecnica e simbolico sono inserite all’interno di un ciclo

che nasce nell’uomo, e senza passare per oggetti a lui estranei, si riversa sul corpo

dell’uomo stesso. Ma tornando all’esempio, circa:

quindici anni fa furono trovati nell’Amazzonia due uomini pressappoco trentenni, quasi

coetanei. Parlavano una lingua che nessun altro in Amazzonia conosceva, forse una lingua

tutta loro, sviluppata tra di loro, perché erano in due, perché erano in rapporto. Vivevano in

una caverna sulle cui pareti c’erano centinaia di frecce, appese in modo sistematico. Circa

1800 frecce. Fabbricavano continuamente frecce. Però non sapevano usarle perché non

conoscevano l’arco.

Si pensa che furono uomini appartenenti ad un gruppo, che poi fu distrutto, in cui si

usavano frecce; oppure che scapparono e portarono con sé una freccia, la quale nella loro

mente ricordava i genitori, o comunque una sorta di affezione che li condusse a perpetrare

quel ricordo nel tempo attraverso la costruzione di frecce, chissà. Ad ogni modo è molto

importante evincere da questa esperienza che i due uomini sono riusciti a sopravvivere

nella foresta creando un loro apparato culturale composto da lingua autonoma e tecnica-

86 L. Mumford, Arte e Tecnica, Milano (MI), Universale ETAS, 1980, pp. 20-25.
45
arte attraverso le frecce. E tutto ciò fu possibile poiché erano in due.87 La situazione

dialogica che si è creata tra i due non solo ha permesso la loro sopravvivenza, ma ha reso

possibile la creazione, maturazione ed evoluzione di quel sistema culturale che li

caratterizzava, e che caratterizza ogni essere umano. La motivazione che li ha spinti a

formulare un’espressione simile fu lo spirito di sopravvivenza. Ciò che ci spinge ad agire

non è altro che una forte intenzionalità, o desiderio, che spesso non assume nemmeno una

forma di coscienza, ma solo di necessità.

87 G. Rizzolatti, Lisa Vozza, Nella mente..., p. 101.


46
3.2 Intenzionalità

In precedenza abbiamo visto come una volontà, che può essere latente e non

cosciente, può assumere forme ora prevedibili ed ora non più. Nel caso dei due uomini si

tratta ovviamente di intenzionalità non prevedibile dalla ragione umana, esteriore.

Esistono però altre forme di creazione e di espressione di una certa intenzionalità, una di

queste è sicuramente quella che passa attraverso il corpo agente dell’attore.

L’attore, all’interno del teatro di regia, ha un compito ben preciso, ed è quello di portare

con sé un messaggio, che durante lo svolgimento dell’azione prende forma per lo

spettatore. Il contenuto di tale messaggio viene pensato e trasmesso al performer da quella

figura che generalmente orchestra la messa in scena, ovvero il regista. Ma questa fase non

è altro che un primo stadio del contenuto, che per ora è solo in forma astratta. Ad un certo

punto, interprete e regista, cercano di creare, o cercare, azioni che possano andare a

riempire il vuoto che si è creato tra testo e messaggio in forma di idea. A questo punto

l’energia, o potenza, dell’idea deve cercare di essere controllata e canalizzata attraverso

quello che Luciano Mariti chiama “controllo cognitivo”88. Il controllo cognitivo non è altro

che quella forza impalpabile che è nel cervello dell’uomo e che gli permette di controllare

pienamente le proprie azioni e quindi emozioni, in scena. Quando nel processo di ricerca di

azioni viene definendosi più di un movimento solo, e quindi si crea un concatenamento di

gesti, si costituisce una partitura di azioni che devono essere svolte durante la messa in

scena dello spettacolo. L’attrice Roberta Carreri, in una scrittura autobiografica, ha definito

la partitura come “Il disegno esterno e la qualità di energia cambiano, però io conservo

intatta la in-tensione delle azioni della mia improvvisazione originale, la sequenza dei sats.

88 L. Mariti in, Dialoghi tra teatro e neuroscienze, Gabriele Sofia (a cura di), Edizioni Alegre, Roma, 2011, p. 79.
47
[...] Il sats contiene l’azione in potenza.”89 E successivamente espone che più di ogni altra

cosa sono importanti i “perché” le azioni si compiono. Mantenere le motivazioni è come

mantenere intatta la potenza iniziale che vi è nella fase di ricerca, e permette di “compiere

l’azione lenta o veloce, grande o piccola, forte o dolce”. L’importanza dell’intenzionalità si

nasconde dietro al fatto che permette di mantenere il contatto tra mente e corpo.

“Potremmo spingerci a dire che l’intenzione, il frammento che accende il programma

motorio, sia la cellula base della drammaturgia su cui è possibile costruire una diversa

teoria performativa e drammaturgica.”90 In questo senso appare chiaro che la cosa più

importante durante un agire teatrale, è lo scopo. E lo scopo prende forma nel momento in

cui lo distinguiamo dall’impulso che lo ha generato, dalla potenza generatrice iniziale.

Quando un’azione ha un fine è già materia teatrale su cui l’attore e il regista possono

lavorare drammaturgicamente per costituire un contatto con il pubblico, il famoso “spazio

d’azione condiviso” di cui abbiamo parlato in apertura della trattazione. Questo spazio

d’azione, è condiviso poiché genera modificazioni emotive e corporee non solo in chi

agisce, ma anche in chi osserva. Questo meccanismo, che passa attraverso i neuroni

specchio, crea una sorta di “simulazione incarnata” che a sua volta genera una “sintonia

intenzionale” interpersonale91. In questa maniera lo spettatore non imita quello che fa

l’attore, ma si incarna in lui e nella sue azioni; e attraverso di lui “partecipa in maniera

immediata al processo dell’azione” e, soprattutto, “attiva la sua competenza drammaturgica

in un corpo a corpo con l’attore.”92 All’interno di questo gioco-battaglia l’uno cerca di

prevedere le mosse dell’altro o, per meglio dire, di comprenderne le intenzioni. Ciò è

89R. Carrieri, La dinamica degli equivalenti, in M. De Marinis, Drammaturgia dell’atore, I quaderni del battello ebbro,
Porretta Terme (BO), 1997, pp.189-198 a p. 92.

90 L. Mariti in, Dialoghi tra.., p. 80.

91L. Mariti in C. Faletti e G. Sofia (a cura di), Nuovi dialoghi tra teatro e neuroscienze, Roma (RO), Editoria e
spettacolo, 2011, p. 110.

92 Ibid.
48
possibile in virtù del reciproco programma motorio, che precedentemente abbiamo anche

chiamato “vocabolario”, che spesso è condiviso. Come dice Mariti siamo “forse

programmati per prevedere”, e comunque capaci di derivare il meccanismo messo in moto

da chi ci sta di fronte per viverne le medesime strutture e costituire quindi una nuova forma

di condivisione incarnata, eperienziale.

49
3.3 Schemata

Se è vero che l’intenzione è la prima fase in cui i neuroni specchio si accendono, e

attivano successivamente il programma motorio, è altrettanto vero che gli schemi sono il

risultato finale del meccanismo, la parte esteriore della ricerca, nonché quella che diventa

materia culturale su cui poter studiare.

Occorre però definire cosa si intende per schema e schemata. Gli schemata in antichità

erano delle rappresentazioni vascolari, pitture, o semplicemente rappresentazioni, che

raffiguravano azioni comportamentali comuni, come una camminata, o anche non comuni,

come gesti marziali, e addirittura di travestimento, come dimostra Menippo, in un passo di

Luciano (Nec., 8, 1 ss.), il quale si traveste nella speranza di scendere indisturbato nell’Ade

e passare «come qualcosa di noto, scortato, proprio come nelle tragedie, dallo schema» 93.

Si tratta sostanzialmente di immagini dentro le quali vi sono corpi che esprimono il punto

di massima potenza e tensione; per Ammonio sono disposizioni del corpo colto nell’istante

di sospensione dal movimento, e infatti in gran numero ne troviamo in rappresentazioni di

danza. Da quello che si può evincere dalla lettura di tali immagini, e confrontandole con gli

scritti che le riguardano, è notabile che non solo contengono una sospensione dal

movimento, ma tale sospensione esprime anche una grande forza ed una grande energia

che se da una parte affascina e educa, dall’altra intimorisce e spaventa:

Una simpatica testimonianza della presenza di schemata nella danza ci viene dal teatro, dal

Ciclope di Euripide, quando il coro dei Satiri esprime al Ciclope la paura di essere da lui

divorato. Il Ciclope risponde che non ci pensa nemmeno per timore che la varietà di

93 L. Mariti in, Dialoghi tra.., p. 81.


50
schemata, che i Satiri dovessero mettersi a danzare dentro la sua pancia, potrebbero

ucciderlo94.

Uno schemata spesso utilizzato per parlare della seduzione è visto come un gesto con cui

la donna seduce: scosta il volto, con la mano, un lembo di manto. Come osserva Mariti

“Nelle pitture vascolari compaiono spesso amanti coperti da una mano, ma raramente è

una coppia eterosessuale.”95

Lo schema, potremmo dire, è una forma di espressione semplice, o semplificata, chiara, di

un complesso meccanismo comunicativo, espressivo di una cultura e di un modo di agire e

quindi di essere e di rappresentare.

Molto spesso gli schemata utilizzati in ambito teatrale sono stati poi usati e inseriti nelle

arti figurative. Ma è vero anche il contrario. Gli attori, nella loro storia, non sono rimasti

impassibili davanti a statue e pitture: questo non perché avessero nei loro confronti una

certa venerazione di tipo estetico, ma piuttosto perché dal loro potere, che nasce dalla loro

tensione, era possibile estrapolare atti motori e dunque azioni efficaci. Non si trattava però

di copiare ciò che vedevano, bensì di coglierne l’energia e quindi l’intenzionalità. Le forme

plastiche mettono sempre in moto un processo di empatia che trasmettono nient’altro se

non azioni muscolari. Anche Leonardo da Vinci in un passaggio del suo trattato della

pittura espone teorie simili, dove però ciò che è importante è il dare vita alla mente (non

anima): “Se le figure non fanno atti i quali colle membra esprimano il concetto della mente

loro, esse figure sono due volte morte, perché morte sono principalmente ché la pittura, in

sé non è viva, ma esprimitrice di cose vive senza vita, se e non le si aggiunge la vivacità

dell’atto, essa rimane morta la seconda volta.”96 L’arte dell’attore è «esprimitrice di cose

94 Ibid., p. 82.

95 Ibid., p. 83.
96 L. da Vinci, Trattato della pittura: dal Codice Urbinate Vaticano, Neuchâtel, le Bibliophile, s.d., p. 161.
51
senza vita» un po’ da sempre, ma con particolare attenzione dal Sette-Ottocento. Egli era

infatti inserito in un sistema di ruoli senza partitura registica – come la intendiamo da

Stanislavskij in poi – dove alimentava sé stesso e la sua arte leggendo e osservando i vari

modelli figurativi quali repertori iconografici, sculture, pitture, miniature e altri tipi di

documentazione che testimoniassero usi e costumi di un periodo storico.. Sarebbe molto

interessante a tal riguardo fare una ricerca mettendo in rapporto le immagini che ci sono

pervenute dell’attore della commedia dell’arte e certe immagini “in voga” a quel tempo. E

poi, dopotutto, un apprendimento inconscio che passa attraverso questo meccanismo, non è

forse quello che accade oggi a noi con la visione del cinema e della televisione?97

In precedenza abbiamo citato Stanislavskij per dire che da lui in poi sulla scena è presente

una partitura? Ma di quale partitura si tratta? In una delle sue tante ricerche il regista-

pedagogo prende nota di una serie di considerazioni che che gli vengono fatte da un suo

attore mentre sta ricercando col maestro delle azioni; azioni fisiche che gli possano

generare emozioni e sensazioni. Siamo dunque all’interno del cosiddetto “secondo

Stanislavskij”.

[L’attore] Si è concentrato nuovamente e ha evocato in sé gli impulsi scaturiti dalle azioni

fisiche nell’ordine in cui ne avevamo preso nota. Io seguivo gli appunti e suggerivo quando

dimenticava qualcosa. – Sento – dice senza interrompere il suo lavoro – che da azioni

fisiche separate ed eterogenee si formano interi periodi e da periodi, linee ininterrotte di

azioni logiche e consequenziali. Esse tendono in avanti determinando il movimento che a

sua volte genera l’autentica vita interiore. In questa sensazione riconosco la verità, la verità

genera convinzione. Più ripeto la scena, più questa linea si rafforza. Ricordate che noi

denominiamo questa linea ininterrotta di azioni fisiche, linea della vita fisica98 .

97 Consigliamo a tal proposito la lettura di V. Packard, I persuasori occulti, Torino (TO), Einaudi, 2005.

98 K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore sul personaggio, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 217.


52
Troviamo che questo breve rapporto su ciò che sta accadendo all’interno dell’attore sia

estremamente emblematico rispetto a quello che abbiamo detto in precedenza. Ciò che si

può anche leggere tra le righe di questo performer è che all’inizio del processo di ricerca si

possiede una sorta di libertà creativa che serve alla ricerca delle azioni ma poi, una volta

trovate – sempre col diritto di sostituzione – quelle rimangono, e vengono imparate e

ripetute finché non diventano parte integrante dell’attore stesso, all’interno di detta scena.

Queste conclusioni ci vengono suggerite e confermate anche dall’analisi delle performance

realizzate da Schechner. “[...] tutte le performance – definite e indefinite – hanno almeno

una qualità in comune: il comportamento sulla scena non è libero e immediato; scaturisce

invece dallo studio e dalla pratica «è recuperato», attraverso le prove, o per averlo

conosciuto in precedenza o perché lo si è appreso spontaneamente fin dalla prima infanzia,

o perché viene fuori durante la performance con l’aiuto di maestri, guide, guru, anziani, o

perché obbedisce a regole che determinano l’esito come nella improvvisazione o nello

sport. Quindi libertà e immediatezza sulla scena non fanno quasi mai parte del

comportamento personale del performer.”99 È quindi chiaro che nello svolgimento della

vita di ciascuno di noi si crea un bagaglio di immagini di azioni che vanno poi a costituire

quello che siamo, come persone, all’interno della società. Diventiamo immagini. Ci

interessa ora mettere in luce un problema che nasce direttamente da ciò che è stato detto

fin qui e che riguarda inevitabilmente le immagini, e gli immaginari, che vengono scelti da

registi e attori nel momento della loro ricerca: è possibile che la riuscita di uno spettacolo

sia dettata dal repertorio – “vocabolario”– da cui si attinge? Da quello che è uscito fin’ora

sembrerebbe di si, ma non è nostra intenzione approfondire questo discorso in questa sede.

Ci accontentiamo di aver sollevato il problema, a cui ne è legato un altro. A quale pubblico

viene rivolto un dato immaginario? Ma anche in questo caso ci limitiamo a sollevare il

99R. Schechner, La teoria della performance 1970-1983, a cura di Valentina Valentini, Roma (RO), Bulzoni Editore,
1984, p. 177.
53
problema anche se, successivamente, lo affronteremo parzialmente nell’ultima parte della

nostra ricerca.

54
3.4 Imitazione

Non si può parlare imitazione senza pensare immediatamente alla sua teorizzazione

da parte di Aristotele, nel lontano 330 a. C. (circa).

Egli scriveva all’interno della sua Poetica, che si basa su osservazioni fatte nei confronti

delle arti che gli si parevano dinnanzi, che ogni forma di poetica è, sostanzialmente,

imitazione100 . Nonostante il loro referente comune, la Natura, le varie arti si differenziano

“perché imitano con mezzi diversi, o oggetti diversi, o diversamente, cioè non allo stesso

modo”. A noi però interessa soltanto l’aspetto che riguarda il teatro. Aristotele continua il

suo scritto parlando delle forme che possono assumere le arti dell’uomo. “Ci sono poi arti

che usano tutti i mezzi (intendo il ritmo, il canto, il metro), come [...] la tragedia, la

commedia, ma si distinguono tra loro perché alcune li usano tutti insieme, altre

separatamente per diverse parti. Queste sono le differenze tra le arti relativamente ai mezzi

con cui si compie l’imitazione.”101 E nel paragrafo subito successivo approfondisce il

discorso, e qui arriviamo ad un punto per noi interessante, dicendo che “chi imita, imita

persone in azione, queste non possono che essere o serie o dappoco [...], persone cioè o

migliori di noi, o peggiori di noi, o come noi [...].” E per ciò che concerne gli autori che

trattano queste “persone in azione”, dice che “le loro opere si chiamano talvolta drammi,

perché imitano le persone che agiscono.”102

Possiamo dire, genericamente, che con imitazione si intende il tentativo – cosciente o non

cosciente – di riprodurre qualcosa che è ritenuto perfetto. Prendiamo per esempio ciò che

accade nell’attore. Egli imita le azioni del mondo attraverso movimenti che gli permettono

non solo di portarli alle estreme conseguenze, esagerandoli, ma di farli diventare chiari ed

100 Aristotele, G. Paduano (a cura di), Poetica, Bari (BA), Laterza, 1998, p. 3.

101 Ibid., p. 5.

102 Ibid., p. 7.
55
espressivi per lo spettatore che in questa maniera li legge e li apprende. Tutto questo

accade in virtù di quel famoso spazio di azione condiviso che l’attore è capace di creare tra

sé stesso e chi osserva. Ma in realtà uno spazio simile esiste già in natura tra gli uomini, ed

è quello che permette loro di comunicare quotidianamente anche senza l’utilizzo del

linguaggio verbale. E allora qual’è la particolarità del rapporto extraquotidiano che si crea

tra l’interprete e l’osservatore? “La differenza sta nel fatto che il compito dell’attore è

quello di rendere questo spazio d’azione condiviso, interessante ed attraente per mantenere

viva quella relazione tra attore e spettatore che rende unico il rapporto teatrale. Rapporto

che deve difendersi dalle insidie della noia.”103 In qualche maniera da queste parole di

Gabriele Sofia esce anche un aspetto molto importante del rapporto: quello educativo. Se

un rapporto è “interessante ed attraente”, che fugge dalla noia, non si può svincolare dal

fatto che in qualche maniera sta trasmettendo un messaggio educativo. E questo messaggio

passa attraverso l’allenamento dell’attore nei confronti del controllo del suo corpo che, nel

mentre dell’atto teatrale, diventa mezzo attraverso cui attivare o modificare, parzialmente o

per intero, le “melodie cinetiche dello spettatore”. In altre parole l’attore è libero di attivare

e interrompere, in qualunque momento, il programma motorio dello spettatore, e lo fa con

l’aiuto della conformazione a catena dei neuroni specchio, che si accendono e spengono

con una rapidità pari a un quarto di secondo, dentro il quale sono capaci di far attivare, o

disattivare, il nostro programma pre-motorio fisiologico.

Per confermare questa tesi ci viene in aiuto un esperimento pubblicato nel 2008, e

realizzato da un’équipe dell’università di Modena, a cui ha partecipato anche Giacomo

Rizzolatti. Gli scienziati hanno mostrato a degli esseri umani delle azioni di tre tipi diversi:

– Azioni mimate (come aprire un barattolo immaginato e bussare ad una porta inesistente);

– Azioni simboliche (come il dire “ok” unendo il pollice e l’indice della mano)

103 G. Sofia in, Dialoghi tra teatro e neuroscienze, a cura di G. Sofia, Roma (RO), Edizioni Alegre, 2011, p. 136.
56
– Azioni “meaningless” (senza senso).

Le conclusioni che nacquero da questo esperimento furono: “I risultati del presente studio

mostrano che nel caso delle azioni non-object-directed, solo azioni imitate portavano ad

un’attivazione centrata nel solco interparietale e nella regione adiacente del lobo parietale

inferiore” 104, ovvero dove si trovano i neuroni specchio nell’uomo. Possiamo quindi

vedere come nell’uomo il sistema dei neuroni specchio venga attivato anche da azioni

mimate, senza un vero intervento su di un oggetto, ma con intenzionalità identica. Non è di

secondo piano il fatto che, nell’esperimento descritto, le azioni non fossero eseguite da

persone di laboratorio, bensì da... un’attrice! Quindi da una persona allenata e capace di

creare intenzioni precise anche quando l’obiettivo è a livello “immaginativo”. Questo dato

non è da trascurare, perché quando negli esperimenti precedentemente citati gli esecutori

erano scienziati, qui è una persona abituata a creare “illusioni”, e questo ci porta ad una

conclusione alquanto interessante: per la prima volta un maestro di arte dell’azione viene

utilizzato per fini scientifici e quindi consacra un momento di collaborazione tra due

discipline solo in apparenza distati.

In precedenza abbiamo detto che quella dell’attore è un’arte di imitazione. Non tutti sono

però d’accordo in questo. Luciano Mariti, infatti, in uno dei suoi saggi dice che “il

meccanismo funzionale [...] è una «simulazione incarnata» [...] che a sua volta produce una

«sintonia intenzionale» interpersonale. Non si tratta di automatismo comportamentale. Non

è stampo. Non è l’odiata imitazione.”105 Quello che ci sta dicendo Mariti è che l’arte

attoriale non si basa su un mero tentativo di riproduzione del mondo esterno all’atto

teatrale, ma è bensì una ricerca di plasticità, di schemata, di gesti, attraverso cui il

performer esterna sé, e lo spettatore vive nell’attore attraverso i suddetti gesti. E il piacere

104F. Lui, G. Buccino, D. Duzzi, F. Benuzzi, G. Crisi, P. Baraldi, P. Nicchelli, C. A. Porro, G. Rizzolatti, Neural
substrates observing and imaging non-object-directed actions, in «Social Neurosciences», 2008, n.3, pp. 268-269.

105 L. Mariti in, Dialoghi tra.., p. 110.


57
di tutto ciò nasce dal fatto che il cervello “cerca schemi ricorrenti e prevedibili, ma con il

piacere della variazione imprevedibile. E così facendo distingue l’arte dal meccanismo.”106

E in qualche maniera è di questa idea anche Worringer quando dice che “l’impulso

imitativo – una delle esigenze fondamentali dell’uomo – si colloca al di là dell’estetica

vera e propria, e che la sua soddisfazione non ha di per sé nulla a che spartire con l’arte.

[...] Nei tempi remoti questo impulso era completamente distinto da quello propriamente

artistico, e si realizzava soprattutto nell’artigianato minore”107 Ed ecco che quindi

possiamo dire che “arte e meccanismo” possono essere, rispettivamente, rappresentazione

e artigianato minore, che si compone di piccoli idoli e oggetti simbolici, creati da popoli

antichi, che vanno in contrasto con l’espressione più propriamente artistica dei popoli

stessi. Infatti col secolarizzarsi di queste prime comunità, ciò che prima era completamente

soddisfatto con le piccole realizzazioni artigianali, necessita ora di una forma autonoma.

Intorno al IV secolo avanti Cristo, precisamente nella Grecia ateniese prende forma, a

partire dal rito, ciò che da quel momento in avanti viene chiamato “teatro” e che viene

considerato qui come la prima forma d’arte in senso moderno. Da allora in avanti non ci si

è più potuti sottrarre al fatto che l’arte ha bisogno di essere vista, guardata e, in qualche

modo, vissuta.

106 Ibid., p. 113.

107 W. Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, Torino (TO), Einaudi, 1975, pp. 14-15.
58
3.5 Attore ed esperienza performativa dello spettatore

Durante lo svolgimento di un atto performativo, sia esso strettamente artistico,

oppure di tipo artistico-teatrale, gli elementi che non possono venire meno sono colui che

agisce e colui – o coloro – che guarda la persona agente. Nel caso in cui lo spettatore sia

uno soltanto il problema della comunicazione si risolve in via diretta con il performer.

Mentre se lo spettatore è più di uno entrano in gioco altre forze. Prendiamo in esempio gli

applausi che vengono fatti a fine – o durante – la rappresentazione. Molti degli spettatori

sentono sicuramente, e sinceramente, il bisogno di ringraziare l’attore – o gli attori, o la

compagnia, oppure il team di lavoro – per le sensazioni fattegli provare durante la

rappresentazione. Ma pensare che è così per tutte le persone che assistono sarebbe una

grave ingenuità da parte nostra. Dobbiamo tenere presente che uno spettatore potrebbe

riconoscere nel pubblico una persona conosciuta, o stimata, e che quindi le sue azioni

potrebbero essere influenzate da tale persona. Oppure dal vicino di poltrona, per non essere

giudicato malamente. O ancora per un principio di collaborazione nella collettività: una

persona potrebbe agire poiché vede che tutti gli altri agiscono nello stesso modo, e dunque

credendo suddetto modo corretto, la persona potrebbe essere stimolata ad emularlo. Le

parti in causa sono molte, e non è nostro interesse approfondirle tutte. Lo è però il dire che

queste problematiche del comportamento all’interno di un gruppo sono state in parte

scientificamente ricercate e provate. Per il momento non ancora nell’uomo, ma in altri

animali che possiedono come lui il meccanismo specchio. Ad esempio un documentarista

della Bbc, Dylan Winter, ha studiato i moti aerei degli uccelli che anche se sono a centinaia

o migliaia, durante il volo non si scontrano mai, e rimangono sempre ben organizzati. Gli

scienziati si sono interrogati rispetto a questa organizzazione. E sembra che gli uccelli

possiedano i neuroni specchio. Però la scoperta più interessante è che “ogni uccello in uno

59
storno è in continuo rapporto con altri sette, anche se gli sono alle spalle. Ne scegli sette in

partenza e rimane in rapporto con essi.”108 E questo è possibile grazie alla presenza dei

neuroni specchio che adattano e modificano l’agire dell’uccello in funzione di ciò che

fanno gli altri sette; capisce e vive la loro azione, e di conseguenza modifica la propria. Se

questo è vero non è poi così improbabile che lo stesso accada negli esseri umani. È un po’

come quando, camminando in una strada, ci capita di incrociare i passi di un’altra persona

e notiamo subito che lei non è intenzionata a cambiare direzione. Allora attraverso questa

nostra capacità di comprensione saremo spinti a spostarci per non urtare l’altro. Se a tutto

ciò aumentiamo la complessità dicendo che nella strada non ci siamo solo noi e l’uomo

dalla direzione immutabile, ma anche altre decine o centinaia di persone, appare chiaro che

anche se non scegliamo in partenza le persone da “tenere d’occhio”, siamo comunque

capaci di schivare più traiettorie, superare e spostarci in funzione delle altrui intenzioni.

Vien da sé che l’elemento imprevisto ci farebbe scontrare con gli altri. Vi è quindi, sempre,

una stretta relazione e comunicazione tra le persone, e questo inevitabilmente accade anche

in teatro. Ma questa relazione è materia di studi e ricerche? Sì, ma non da molto tempo per

dire il vero. Fu il Living Theatre che ebbe l’interesse di combattere contro un teatro privo

di una effettiva relazione fra attori e spettatori, in cui una minoranza si imponeva a una

maggioranza: “Ogni sera centinaia di persone vengono ignorate fingendo che non esistano.

E poi ci meravigliamo che l’attore sia cresciuto lontano dalla società, e ci chiediamo

perché l’arte stessa si trascini zoppicando dietro la speranza di far parte della vita”109 .

Recentemente, invece, lo studio si è anche spostato sullo spettatore, ma non più solo come

persona che assiste e che, forse, qualcosa “si porterà a casa”, bensì come corpo incarnato in

un’azione, come condivisione di azioni e quindi sensazioni. “E finalmente possiamo dire

108J. J. Schranz in, Dialoghi tra teatro e neuroscienze, a cura di Gabriele Sofia, Roma (RO), Edizioni Alegre, 2011, p.
111.

109 J. Beck, J. Malina, Il lavoro del Living Theatre (materiali 1952-1969), Milano (MI), Ubulibri, 1982, p. 14.
60
che la percezione non è una questione ottica, ma connettiva, è lo «stare-con».”110 E questo

“stare-con” crea tra attore e spettatore quello che, a più riprese, abbiamo chiamato “spazio

d’azione condiviso”.

Pur vivendo in una spazio comune l’attore e lo spettatore, non vivono le azioni nello stesso

identico momento, poiché tra l’attivazione del programma motorio e la visione di un atto,

passano millesimi di secondo, forse mezzo secondo. All’interno di questo intervallo di

tempo, nello spettatore si accende quella caratteristica imprescindibile della percezione

della durata. Questa percezione, che nasce da microtempistiche di tipo biologico,

“sembrerebbe dar vita a una dialettica fondativa dei fenomeni temporali, delle forme

ritmiche e musicali.”111 Questa dialettica si basa sulla discontinuità che vi è tra un tempo

forte e un tempo debole, tra un accento e una pausa ecc. Basta pensare al fenomeno che

induce la mente a percepire, almeno fino a tre secondi, ad esempio il gocciolio del

rubinetto come tic tic tic tic, e che poi, passati i tre secondi, quel suono entra in un

meccanismo di tipo ritmico, come se la mente per sconfiggere la monotona della realtà

avesse bisogno di una distrazione, di un’accensione, dunque, di ritmo. Nel caso invece in

di una rappresentazione teatrale, nonché performativa, questo tipo di percezione lo governa

l’attore. Come evidenzia Schechner tutto si fonda sul rapporto vivo che c’è tra chi agisce e

chi osserva. E va anche oltre. Osserva, espandendo l’importanza dell’attore, che “le

variazioni individuali saranno tanto più apprezzate, quanto più esse trascendono e

approfondiscono il testo prestabilito: tutto dipende dagli stili peculiari dei performer.”112

Prima di tutto viene il testo, ma poi l’agire dell’interprete assume un’importanza

sacerdotale, rendendo così ogni suo gesto mezzo attraverso cui l’osservatore può

110 L. Mariti in, Dialoghi tra.., p. 109.

111 Ibid, p. 112.

112R. Schechner, La teoria della performance 1970-1983, a cura di Valentina Valentini, Roma (RO), Bulzoni Editore,
1984, p. 180.
61
trascendere l’azione stessa e viverne il significato più profondo e nascosto. Di conseguenza

più l’attore è capace di governare il suo corpo e più l’energia che scaturirà dal suo agire

sarà in grado di essere espressiva e trascendente.

Ora conviene però ricordare che l’agire espressivo del performer è solo la facciata, lo step

finale, di un lavoro pre-scenico che sta alla base dell’attore stesso. Questo tipo di ricerca,

questo processo, “è identificato come pre-espressivo”113. O, per dirla con parole di Eugenio

Barba, è: “una categoria pragmatica, una prassi che durante il processo mira a sviluppare e

organizzare il bios scenico dell’attore e a far affiorare nuove relazioni i inaspettate

possibilità di significati.”114 Esistono a questo riguardo molte teorie della pratica attoriale

in funzione dello spettatore. Una sicuramente evidenziabile è quella esposta da

Merjechol’d dove all’interno del metodo «convenzionale» si prevede anche un “quarto

creatore, dopo l’autore, il regista e l’attore: lo spettatore.”115 Diviene però necessario

spendere due parole a proposito del teatro di «convenzione» di Mejerchol’d per poter

comprendere meglio la sua poetica al riguardo. Con teatro di «convenzione» l’attore-

regista-pedagogo intende un tipo di teatro che desidera “arrestare la ramificazione del

teatro in teatri intimisti”. Egli ripudia i teatri naturalisti perché con i loro interessi

spettacolari – e spettacolarizzanti – hanno sopraffatto il teatro unitario ove solo l’attore ha

la massima importanza.

Il teatro «della convenzione» propone una tecnica semplificata, [...] libera l’attore dalla

scenografia, mettendo a sua disposizione uno spazio a tre dimensioni e la naturale plasticità

statuaria. Grazie ai metodi convenzionali della tecnica, crolla la complessa macchina

teatrale, la messinscena raggiunge una tale semplicità che l’attore può scendere in piazza e

113 V. Gallese, Il corpo teatrale: mimetismo, neuroni specchio, simulazione incarnata, in «Culture Teatrali», 2007, n. 16,
p. 14.

114 E. Barba, La canoa di carta, Bologna (BO), Il Mulino, 1993, p. 163.

115 V. Mejerchol’d, Donatela Gavrilovich (a cura di), La rivoluzione teatrale, Roma (RO), Editori riuniti, 2001, p. 101.
62
recitarvi le sue opere senza dipendere dagli scenari e dagli accessori di scena specialmente

adattati alla ribalta teatrale, insomma dagli elementi esteriori e casuali116.

In questa maniera il rapporto tra interprete e spettatore è diretto e se la funzione dell’attore

è quella di non dimenticare mai “di avere dinanzi a sé una sala, sotto i piedi un

palcoscenico e ai lati degli scenari”, quello dello spettatore è che “non dimentica neppure

per un istante di avere dinanzi a sé un attore che recita”117 . Possiamo dire che in questo

momento siamo all’interno del teatro educativo, quello che passa attraverso la plasticità

dell’attore e che viene letto, tradotto e vissuto dallo spettatore attraverso il suo

“vocabolario” dei gesti che, con l’arte dell’attore, è sempre in espansione. E lo è in virtù

del fatto che il teatro «della convenzione» desidera che l’osservatore completi

“creativamente con la propria immaginazione” gli accenni che la messinscena gli

manifesta. E non solo. Infatti lo spettatore è chiamato a partecipare attivamente all’interno

dell’azione scenica. Gli accenni di cui ci parla Merjerchol’d sono in qualche modo gli

schemata di cui abbiamo parlato in precedenza, e anche le azioni fisiche di Stanislavskij

tendono allo stesso significato, solo con mezzi e attuazioni di ricerca differenti. Ma questi

“accenni” come vengono tradotti dallo spettatore a prescindere dalla sua creatività

immaginativa? C’è chi dice che sia impossibile che un attore possa agire davanti ad uno

spettatore senza che si producano dei significati. “È vero. È materialmente impossibile

impedire allo spettatore di attribuire significati e di immaginare storie vedendo le azioni di

un attore, anche quando queste azioni non vogliono rappresentare nulla.”118 E come

osserva subito dopo lo stesso Barba tutto ciò vale dal punto di vista dello spettatore, ovvero

quando si possono osservare i risultati. E poi continua: “Ma attenzione, non è l’azione che

116 Ibid., pp. 99-100

117 L. Andreiev in una lettera rivolta a Mejerchol’d.

118 E. Barba, La canoa di carta, Bologna (BO), Il Mulino, 1993, p. 158.


63
di per sé possiede un suo significato. Il significato è sempre il frutto di una convenzione, di

una relazione. Il fatto stesso che esista la relazione attore-spettatore implica che lì si

producano significati. Il punto è se si vuole o no programmare quali precisi significati

debbano germinare nella testa dello spettatore.”119 Ed è ovvio che se si vuole poter

programmare quali significati far passare all’osservatore, l’attore deve controllare

pienamente il suo “vocabolario”, e il “vocabolario” comune, affinché possa garantire – e

garantirsi – una riuscita anche solo parziale degli obiettivi prestabiliti. Lo spettatore, una

volta concluso l’atto scenico-performativo, se ne torna a casa, e con sé probabilmente si

porta qualcosa. Attraverso la composizione dei tempi, delle immagini statuarie (o schemi),

delle musiche, delle danze e delle parole è possibile lasciare un’impronta in colui che

osserva, anche se lui non lo desidera, poiché attraverso l’abitudine a guardare, si apprende,

e il teatro è un’ottima scuola in cui imparare a guardare, e quindi a fare.

119 bid., pp. 158-159.


64
Conclusione

In apertura della nostra trattazione abbiamo stipulato una sorta di patto col lettore,

dove noi specificavamo che non era nostra intenzione esaurire l’argomento del rapporto tra

teatro e neuroscienze, e l’attore ci accordava questo diritto poiché, in quanto scientifico,

non affrontabile in ogni suo aspetto in una sola sede: la nostra. Abbiamo però sollevato una

serie di possibili argomenti su cui sarà interessante tornare. Ad esempio la contradditorietà

che vi è nell’idea di creazione artistica, dove l’opera d’arte è considerata simpatica ed

empatica, mentre l’oggetto ornamentale, frutto del desiderio (innato e naturale, quasi

simbolico) di imitazione dell’uomo, non lo è. Un altro argomento su cui sarà interessante

tornare in un’altra sede, è ciò che concerne la riuscita o non-riuscita di uno spettacolo

teatrale derivante dalla scelta degli schemata e degli immaginari, da parte dei creatori della

messa in scena.

Ciò che balza subito all’occhio di chi si interessa di questi studi è lo stretto rapporto di tipo

scientifico-neurologico che vi è tra chi agisce e chi osserva l’azione. Non solo perché tra i

due si crea uno “spazio d’azione condiviso”, ma anche perché il perno su cui far leva

affinché questo spazio si crei, è il generare immaginari nella mente dello spettatore, che a

lui siano speculari, ovvero conosciuti, e subito dopo ribaltare questa situazione per passare

ad una fase, per così dire, educativa. Infatti, attraverso l’alternanza di immagini conosciute

e immagini sconosciute, il cervello è in grado di specchiare le prime e memorizzare le

seconde. A questo punto è però importante inserire un altro elemento fondamentale per tale

fine, ovvero la metodologia di messa in scena. Se l‘attore agisce col fine di trasmettere

solamente emozioni, lo spettatore è probabile che si troverà sommerso da queste sensazioni

non potrà più essere obiettivo nelle sue considerazioni; dall’altro lato, se l’attore crea

concatenazioni di gesti per distaccare, straniare l’osservatore, quest’ultimo da una parte

65
sarà inevitabilmente inserito all’interno della scena in virtù del meccanismo specchio, e

dall’altra ne manterrà le distanze così da poter essere sempre critico nei confronti di ciò a

cui sta assistendo. Un Maestro di quest’arte è stato Bertold Brecht che, come esplicita lui

stesso in più passaggi sei suoi scritti, la scientificità che deve caratterizzare uno spettacolo

teatrale, deve sparire nel momento della messa in scena, o meglio, deve trasformarsi in

poesia, affinché si renda possibile un’altra delle caratteristiche imprescindibili del teatro

epico brechtiano, quella del divertimento a cui consegue un’apprendimento. “Il teatro

rimane teatro, anche se è teatro d’insegnamento; e, nella misura in cui è un buon teatro, è

anche divertente.”120

Un primo dialogo tra teatro e neuroscienze c’è stato, nel 2009, a Roma, e pochi altri lo

hanno susseguito, mantenendo però la stessa impronta di considerazioni personali da parte

di scienziati e uomini di scena atte generalmente a far nascere interesse nella materia

specchiata, e non proprio di generare una sintesi dialettica delle due tesi. Da un certo punto

di visto questo può essere positivo, cosicché brechtianamente ognuno ha la possibilità di

trarre le proprie conclusioni rispetto a ciò di cui si va parlando; dall’altra però non crea, se

non in rari casi quali Sofia e Mariti e altri, una vera connessione diretta, una cucitura di fili

apparentemente diversi, da cui però nasce un’unica materia stretta e perfettamente coesa.

Rimane solo da capire dove questi interessi e considerazioni porteranno, e gli studi teatrali

e gli studi neuroscientifici, e di come i due avranno intenzione di continuare a rapportarsi

l’uno nei confronti dell’altro nel nostro presente e in un futuro si spera vicino.

120 B. Brecht, Scritti teatrali, Torino (TO), Einaudi, 2001, p. 66.


66
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http://www.parkinson-italia.it/rubriche/notizie/parkin-zone-quando-il-parkinson-si-

combatte-sul-palcoscenico

http://www.parkinson-italia.it/rubriche/notizie/parkinson-cosi-il-teatro-diventa-terapia

Altro

http://explorable.com

73
Nome e cognome: Corrado Polini

Numero di matricola: 269480

Corso di laurea: Arti visive e dello spettacolo

Sessione di laurea: autunnale

Titolo tesi o elaborato finale: Neuroni specchio: una riflessione all’interno della

rappresentazione teatrale.

Docente supervisore: Claudio Longhi

Abstract in italiano

La scoperta dei neuroni specchio, databile all’altezza degli anni Novanta, fu un punto

di svolta sia per quanto riguarda l’ambito strettamente scientifico, sia per ciò che concerne

le arti. E quale arte, se non quella teatral-attoriale, poteva essere affascinata e influenzata

da tale scoperta? Avere il dato scientifico che dimostra che attraverso la visione di azioni,

si attiva in noi lo stesso processo neuronale che si attiverebbe se fossimo noi a compiere le

suddette azioni, è una realtà che non può non interessare l’ambito performativo e, in

qualche maniera, influenzarlo. In realtà l’influenza è reciproca, soprattutto negli anni più

recenti, dove neurologi, scienziati e uomini di teatro si sono seduti attorno allo stesso

tavolo e hanno iniziato a dialogare intorno ai possibili scambi tra le varie discipline.

Da qui prendono forma una serie di considerazioni che riguardano il campo della

percezione, della condivisione e dell’educazione che può passare attraverso l’arte

dell’attore. Ma non solo, e non solo negli ultimi anni. Darwin, con la sua ultima ricerca

sulla manifestazione delle espressioni negli uomini e negli animali, fu il primo a mettere in

connessione il mondo scientifico con quello percettivo, soprattutto se visto dalla

74
prospettiva dell’utilizzo di fotografie a scopo documentativo. Ciò che trattò lo stesso autore

inglese fu anche il meccanismo empatico che nasce dalle suddette espressioni. Questo tema

non poteva essere non avvicinato e trattato dal mondo estetico dell’arte, e infatti Worringer

gli dedica un saggio intero. Ma il fatto che studi di ricerca si dedichino ad uno stesso tema

non significa che si apra una comunicazione tra i due. Perché ciò avvenga, come mai prima

d’ora, dovremo aspettare gli anni 2000...

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Abstract in inglese

The discovery of mirror neurons, dating in ’90, was a turning point both in the

neuronal science, both in the arts. And which other art, if not the theatre, could be

fascinated and influenced by this discovery? This new scientific data that shows the

simmetry between our physical actions and our mental ones; is a data that interests and

influences the performing art. In reality, the influence in mutual. In the last years scientists

and men of theatre have started a discussion around the possible exchanges between their

respective disciplines.

From this moment has begun a number of considerations that concern the perception, the

sharing and the education that the actor can send through his act. but not just that and not

just in last years.

Darwin, with his latest research on the expression of emotions in humans and animals,

was the first to link the scientific world with the world of perceptions, especially when

viewed from the perspective of using of photographs for documentation purposes.

The English author also treated the emphatic mechanism that comes from these

expressions.

This theme couldn't not be approached and treated by the aesthetic world of art, and in

fact Worringer devotes to it an entire essay. But the fact that research studies are dedicated

to the same theme does not mean that it opens a communication between them. To see it

happen, as never before, we have to wait the years 2000 ...

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