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IL RINASCIMENTO

La grazia del Romanino


Trento ricostruisce il percorso artistico di Girolamo di Romano, detto il Romanino, artista di origini bresciane celebre anche per
la sua rapidità d'esecuzione

Trento - Girolamo di Romano detto il Romanino. Uno dei tre gloriosi pittori di Brescia nel
Cinquecento, con il coetaneo Savoldo e il più giovane Moretto. Ma una gloria "fuori serie" come
una volta si diceva delle automobili che facevano strabiliare per qualche particolare diverso o per
tutta la carrozzeria, per il motore potenziato. Fratello e cugino di pittori ha fatto il pittore, ma ai
tempi nostri avrebbe fatto il musicista, di jazz, cioè la forma d'arte che gli avrebbe permesso al
meglio di dare libero sfogo all'irrefrenabile spirito di improvvisare sul muro o sulla tela che è uno
dei suoi segni distintivi. Un'arte che per uno nato a Brescia, e non "fuori serie", si alimenta di
naturalismo lombardo, Bramantino, Foppa, di Giorgione e soprattutto Tiziano. Per il "fuori serie"
Romanino di tutte queste ispirazioni, ma anche di Lotto, Palma il Vecchio e Pordenone, del
cremonese Altobello Melone, degli oltramontani tedeschi che con Altobello aveva studiato a Venezia sulle stampe e conosciuto
direttamente nel cantiere di Trento del principe vescovo Cles. Per esprimere una pittura dal segno caratteristico anticlassico, di
una forza, in certi casi di un furore, espressionistico. Certo il Romanino aveva anche il "motore potenziato", vale a dire una
eccezionale rapidità di esecuzione a cui non facevano paura le grandi superfici, muri o tele (anche di cinque metri di altezza).
Anzi, stimolavano la dote dell'improvvisazione direttamente sull'intonaco, infischiandosene dei disegni che pure aveva
preparato.
A questo artista fuori degli schemi, anche contraddittorio, dal percorso "molto tortuoso", "sempre pronto a utilizzare diversi
registri stilistici a seconda delle occasioni", è dedicata (dal 29 luglio al 29 ottobre) una mostra a Trento, Castello del
Buonconsiglio. "Girolamo Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano". A Trento il Romanino ha affrescato e
dipinto su muro uno dei suoi cicli più importanti che, nonostante sia stato commissionato da un principe vescovo e poi
cardinale, è anche uno dei cicli profani più importanti del Rinascimento italiano. La fama della rapidità di esecuzione qui viene
esaltata dal fatto che per condurre a termine il lavoro su circa 800 metri quadri, in tempi molto stretti dalla primavera del 1531
all'autunno del 1532, il Romanino lavorò senza aiuti.
Non è la prima mostra monografica del Romanino, è la seconda dopo quella a Brescia nel 1965, e naturalmente si avvale di
tutte le nuove conoscenze e quindi certezze o meno incertezze maturate in 41 anni (che hanno anche alleggerito il catalogo di
decine e decine di dipinti) e soprattutto dei restauri condotti nel 1985-86 sui dipinti del castello di Trento, il Magno Palazzo di
Cles. Restauri che oltre a fermare situazioni difficili e molto difficili, a salvare dove era possibile salvare, a rendere più godibili
molte scene, hanno anche eliminato i "braghettoni", camicioni e drappi che nel Settecento sono stati aggiunti a certe bellezze
rese dal Romanino al naturale, come le "Tre Grazie" nella grande loggia. Mentre naturalmente hanno mantenuto quelle
coperture fiorite, introdotte dallo stesso Romanino sulle Stagioni nella stessa loggia.

I curatori della mostra (Francesco Frangi dell'Università di Pavia, Lia Camerlengo, Ezio Chini e Francesca de Grammatica del
castello del Buonconsiglio gestito dalla Provincia autonoma di Trento), hanno scelto 41 dipinti del Romanino (e 33 disegni,
importanti, ma poco conosciuti, arrivati da mezzo mondo), fra pale d'altare, ante di organo (una delle sue specialità, al punto
da diventare "il più prolifico pittore di ante d'organo" del Cinquecento italiano), scene profane, ritratti, un arazzo. Un buon
numero di queste opere sono ancora nelle chiese per cui sono state fatte. I dipinti di Romanino sono integrati dalle
testimonianze di alcuni ispiratori come Tiziano (la "Salomè" della Galleria Doria Pamphilj di grande successo); Lorenzo Lotto,
altro genio inquieto del Rinascimento (le "Nozze mistiche di Santa Caterina con santi" della Barberini, firmata e datata 1524 sul
gradino del trono); Altobello Melone (quattro dipinti); di Albrecht Altdorfer che viceversa a Ratisbona non fu insensibile alle
invenzioni del Romanino al castello di Trento; di Savoldo e Moretto ("La santa Famiglia" con santi era esposta anche alla mostra
del Romanino nel 1965: rivela influssi non solo di Lorenzo Lotto, ma di Leonardo nel Gesù e Giovannino che giocano, e di
Vincenzo Foppa nel paesaggio); ancora, di Callisto Piazza; del genero di Romanino Lattanzio Gambara che collaborò
potentemente nei dipinti e affreschi dell'ultima decina d'anni. Il catalogo è della Silvana Editoriale.
Ancora una volta la data di nascita dell'artista ondeggia: nel caso del Romanino fra 1484 e 1487, e la data di morte dovrebbe
essere intorno al 1560 dato che nel 1562 un documento afferma che il pittore era morto da due anni. Nell'edizione del 1568
delle "Vite", il Vasari si occupa del Romanino in due occasioni. Non con una biografia particolare, ma nella "Vita di Vittore
Scarpaccia et altri pittori viniziani e lombardi" e nella "Vita di Benvenuto Garofalo e di Girolamo da Carpi pittori ferraresi e
d'altri lombardi". In Brescia, dopo aver elogiato "nel lavorare in fresco Vincenzio Verchio, il quale per le opere sue s'acquistò
grandissimo nome nella patria", Vasari continua: "Il simile fece Girolamo Romanino, bonissimo pratico e disegnatore, come
apertamente dimostrano l'opere sue fatte in Brescia et intorno a molte miglia. Né fu da meno di questi, anzi gli passò,
Alessandro Moretto, delicatissimo nè colori e tanto amico della diligenza, quanto l'opere da lui fatte ne dimostrano". E nella
seconda occasione: "In Brescia ancora sono stati e sono persone eccellentissime nelle cose del disegno, e fra gl'altri Ieronimo
Romanino ha fatte in quella città infinite opere e la tavola che è in San Francesco all'altar maggiore che, assai buona pittura, è
di sua mano; e parimente i portegli che la chiudono, i quali sono dipinti a tempera di dentro e di fuori. E' similmente sua opera
un'altra tavola lavorata a olio, che è molto bella e vi si veggiono forte imitate le cose naturali. Ma più valente di costui fu

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Alessandro Moretto".
Moretto (Alessandro Bonvicino), il "Raffaello bresciano", con via, piazza e monumento innalzato nel 1898. Il Romanino se lo
troverà di mezzo in quasi tutta la carriera, in lotta per la supremazia a Brescia, prima dietro di lui, poi a suo pari lui che era più
giovane fra gli unici e gli otto anni, poi avanti quando, facendo violenza a se stesso soffrì un certo numero di anni cercando di
assomigliare, di adeguarsi al Moretto. Lavorarono anche insieme, nel 1521, alla cappella del Santissimo Sacramento nella
chiesa di san Giovanni Evangelista, considerata un grande capolavoro del rinascimento bresciano.
Fra le prime opere esposte la "Madonna col Bambino" del Louvre, del 1507-1508, dimostra la chiara influenza di Bramantino e
di Giorgione e l'assenza di ogni influsso del Tiziano. Viceversa il forte influsso del classicismo tizianesco è nella monumentale
"Pala di Santa Giustina" (quattro metri in altezza per 2,62 in larghezza), dipinta dal Romanino a Padova perché in fuga da
Brescia a causa del "Sacco" del 1512. La scena principale con la Madonna col Bambino incoronata da due angeli e fra santi, è
rimasta nel Museo civico padovano; sono presentati il tondo della cimasa col "Cristo nel sepolcro sorretto da un angelo", e due
tondi nei pennacchi, "vertici assoluti" d'arte, frutto delle meditazioni sugli affreschi di Tiziano alla Scuola del Santo. Ma si tratta
di un linguaggio che non gli era congegnale - osserva Alessandro Nova - tanto che subito dopo recupera "Giorgione e gli
interessi per Dosso e Palma il Vecchio". Nova, della Goethe-Universität di Francoforte, specialista del Romanino, ha partecipato
al progetto scientifico della mostra. Autore di una monografia sul pittore (400 pagine, edita da Umberto Allemandi), ha
riordinato il catalogo di dipinti e disegni, espellendone oltre 200, e proponendo 124 schede di opere certe.
Secondo Nova neppure i ritratti (da cavalletto) sono un genere sentito dal Romanino come espressione di azione e di realtà.
Esempio, l'uomo in armatura dall'ampio cappello, gli occhi chiari, la barba che si intuisce rossiccia, e lo spadone che gli arriva
alla spalla, che viene dal Museo Isaac Delgado di New Orleans. Questo del 1514 circa è il primo ritratto noto del Romanino, ma
"anche in seguito permarrà un contrasto inspiegabile fra la straordinaria forza icastica dei personaggi effigiati dall'artista negli
affreschi" o nelle pale, "e la sconcertante anonimità" di questi ritratti. Nel "Ritratto di gentiluomo" del 1522-1524 (dalla
Pennsylvania), il cavaliere già ruota di tre quarti mentre si rimane abbagliati dal contrasto della camicia grigio-azzurra con il
manto dorato dalle veloci lumeggiature, che assomiglia alle piastre di una corazza di animale preistorico. Una pallida
anticipazione di quello che il Romanino saprà fare nella maturità (1543-1545 circa) con la resa di una materia argentata, lucida
e luccicante, da cui ricava riflessi dorati, dei manti in seta o raso della Madonna nella "Madonna col Bambino incoronata da due
angeli" (che è in mostra, dal Palazzo della Congrega della carità apostolica) e nell'"Adorazione dei Pastori" della Pinacoteca
Tosio Martinengo, tutti e due di Brescia. Un "cromatismo straordinario", commenta Alessandro Nova: in questo periodo il
Romanino " è ossessionato dalla resa dei panni e tessuti". Nell'"Adorazione" (con un preziosismo pittorico che è un bellissimo
controsenso teologico), il realismo del Romanino è "così estremo da permettere di individuare le cuciture delle varie pezze del
tessuto".
"Scoperto tizianismo" con apporti di Palma il Vecchio e di Lorenzo Lotto: così definisce Nova le due malinconiche "Madonna col
Bambino" di Brera e della Galleria Doria Pamphilj, entrambe del 1517-1518. Romanino è ancora sotto l'influenza del Tiziano
della Scuola del Santo e questo "aveva gradualmente smorzato i toni espressionistici di cui si era caricata la sua pittura"
durante il sodalizio con Altobello.
Il "Polittico di Sant'Alessandro" diviso fra cinque pannelli alla National Gallery di Londra (due sono in mostra con i santi
Gaudioso e Filippo Benizzi) e la cimasa in una collezione privata di Firenze, dipinto nel 1524-1525, è sempre stato considerato
uno dei capisaldi della maturità del Romanino. Per il "classicismo pensoso" dello "splendido Sant'Alessandro" o "l'idillio
pastorale di matrice giorgionesco-tizianesca rivisitato nello sfondo della 'Natività'" che è il pannello al centro del polittico. Per
Nova si tratta invece di "un'involontaria battuta d'arresto sulla via che porta al Romanino più vero degli anni trenta" provocata
dall'arrivo a Brescia nel 1522 di un'opera del Tiziano che non si poteva ignorare, il "Polittico Averoldi". Ma quei temi classici o
pastorali non erano stati congegnali al Romanino in gioventù e lo erano ancora meno dopo aver sperimentato nel duomo di
Cremona "le potenzialità espressionistiche del suo linguaggio".
A fine 1517 Romanino viene infatti incaricato del "collaudo" degli affreschi dipinti da Altobello nella navata centrale della
cattedrale e nel 1519 lo sostituisce e dipinge quattro storie della "Passione". Poi tocca a lui essere licenziato nel modo più
umiliante dai nuovi massari del duomo dopo aver ricevuto l'incarico dai massari precedenti. Il Pordenone che gli viene preferito
riceverà un compenso molto più alto di quello fissato al Romanino.
Romanino specialista delle pitture sulle ante degli organi e allora in mostra vengono presentate otto ante dipinte per due chiese
di Brescia (fra cui il Duomo Nuovo), la parrocchiale di Asola in provincia di Mantova, e per San Giorgio in Braida a Verona. La
più piccola è alta 3,35 metri, ma è stata tagliata. La più grande cinque metri. La larghezza va da 2,45 a 1,75, ma tagliata. E il
Romanino le portava a buon fine in pochi mesi. La lavorazione richiedeva infatti un'esecuzione rapida con delle tempere a
guazzo su un supporto di tela di lino quasi senza preparazione. Un invito a nozze per il già veloce pittore. La noncuranza
esecutiva era tale che "a volte il Romanino stende il colore con le dita". Qualche volta però il Romanino commetteva errori
tecnici. Nei restauri è stato trovato che la "mistura gesso-colla della preparazione era troppo spessa e pertanto i pigmenti non
hanno aderito perfettamente al supporto" causando numerose cadute di colore.
Negli anni in cui il Romanino aderisce senza convinzione alla pittura del Moretto "astro nascente" (un influsso "di cui si libererà,
e non del tutto, soltanto dopo il rinnovato contatto con l'arte tedesca a Trento"), la pala della "Resurrezione di Cristo" dipinta
nel 1526 circa per la chiesa parrocchiale di Capriolo, è - come osserva Nova - "un'importante testimonianza dei sentimenti più
veri dell'artista". Lontano da Brescia, si è liberato del Moretto e del classicismo di Tiziano e dà vita ad "una parodia di grande
bellezza ed efficacia" nell'atletico Cristo "dal braccio destro malamente scorciato", nei "ceffi" dei soldati che russano, nella
"sproporzione fra i corpi possenti e il minuscolo sarcofago".
A smentire la fama di pittore esaurito, ripetitivo nel quinto decennio, c'è in mostra l'"Ultima cena" per la parrocchiale di Santa
Maria Nuova a Montichiari, datata al 1542-43 circa. Una tela di 2,93 per 1,93 in cui tavola e commensali sono presi in verticale,
in scorcio prospettico, con Gesù come centro di attrazione, sotto una volte a botte la cui parete è sfondata da una apertura
circolare nella quale navigano nuvole bianche. Sotto alla tavola un gattino in attesa.
Straordinaria la natura morta che Romanino distende su di una tavola che emette luminosità, nei particolari della materia e
nell'insieme: gli alti calici di vetro vuoti o col vino, le due alte ampolle del vino, i pani interi o divisi e sbriciolati, la mollica, i
piatti di peltro e i coltelli (uno sembra una anticipazione del moderno coltellino per il grana), tovaglioli, una curiosa coppetta
rovesciata forse con il sale e, in fondo, un grande bacile metallico per il lavaggio delle mani. Gli oggetti lasciano sulla tovaglia le
"aureole" scure delle ombre grazie ad una luce che "entra" da sinistra. Questa meticolosa resa degli oggetti si contrappone in
generale alla rapidità esecutiva della pittura di Romanino.
Montichiari, proprio sotto Brescia, non è certo lontana da Caravaggio o da Milano: Michelangelo Merisi ha avuto tutto il tempo
per osservare la pala del Romanino esposta in chiesa. Chissà se a Roma si è ricordato di quella natura morta quando dipinse
nel 1601 la prima delle due "Cena in Emmaus" ed ha voluto fare qualcosa che è il seguito dell'"Ultima cena" del Romanino con
l'istituzione dell'eucarestia.
Nella pala del Romanino Giuda è riconoscibile per essere l'apostolo in primo piano che non è in dialogo con nessun altro al
momento della terribile rivelazione di Gesù: "Uno di voi mi tradirà" ( a parte Giovanni che fa sempre testo a sé e che si è
addormentato sulla spalla del Salvatore). Meno apparente il significato dell'operazione che sta compiendo Giuda: quella di
versare acqua da una brocca, a meno che non voglia lavare i piedi all'apostolo che gli è a fianco e che sta parlando con un
dirimpettaio. In ogni caso un'iconografia non tradizionale.
A dimostrare che il Romanino ha raggiunto "altissimi livelli" di qualità nel periodo tardo c'è anche il piccolo (79 per 68

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centimetri) "Ecce Homo", di devozione privata, dipinto nel 1548-1550 circa e rientrato da Hannover per la mostra. Il dipinto "è
costruito sul contrasto fra la veste chiara del Cristo e il blu, in parte ridipinto, del cielo", e sui tre mondi separati dei personaggi
ritratti. Gesù, mani legate, la canna come scettro, la camicia slabbrata, chiuso in se stesso anche con gli occhi. Il dimesso e
canuto uomo di Pilato, in secondo piano sulla sinistra. Lo sfacciato personaggio, ben vestito, che protende la testa, antesignano
delle figure che in televisione cercano di mettersi in mostra e farsi riconoscere da amici e parenti. La corona di spine, da cui si
staccano poche gocce di sangue sulla fronte, è a vari strati, ma Romanino non ne fa l'"esagerato cespuglio che i pittori tedeschi
amano collocare sul capo del Redentore". La firma sull'arco che chiude la scena è apocrifa, ma non ci sono dubbi
sull'autografia.
La "Raccolta della manna" per il Duomo Vecchio di Brescia, una grande tela (3,15 per 2,66) su cui il Romanino ha lavorato a
tempera con finiture ad olio negli ultimi anni, 1557-1558 circa, è considerata particolarmente interessante dal punto di vista
tecnico. Data l'età il Romanino non può più salire sui ponteggi per gli affreschi allora "escogita un espediente che gli consente
di trasferire sulla tela gli effetti dell'affresco" sfruttando l'esperienza delle ante di organo. Dipinge cioè su grandi tele prive
quasi di preparazione che permettono grande rapidità di esecuzione. Solo con l'inconveniente che con il tempo il colore viene
assorbito dal supporto, ma questo è un problema che interessa chi viene dopo il Romanino e dopo i committenti del Romanino.
Preziosità di questa mostra è la compenetrazione ideale e nello stesso tempo la distanza fra dipinti mobili e dipinti su muro del
Romanino nel Magno Palazzo. Già il nome di Magno Palazzo. Si tratta della parte più imponente di quello che viene indicato
come Castello del Buonconsiglio: la dimora che il principe vescovo Bernardo Cles fece costruire dal 1327 al 1536 (dopo una
falsa partenza dei lavori alla fine del 1525), accanto alla parte più antica del castello, Castelvecchio, della prima metà del
Duecento. Accanto, non di seguito: solo nel 1686 fu costruita la Giunta Albertiana, una piccola fetta del castello che unì
Castelvecchio al Magno Palazzo.
Bernardo Cles (o Clesio), principe vescovo a 29 anni, grande diplomatico sulla scena europea a favorire il dialogo fra papato
(Clemente VII Medici) e impero (Carlo V e re Ferdinando d'Asburgo), cancelliere supremo dell'impero, cardinale, candidato
imperiale al seggio pontificio alla morte di Clemente VII nel 1534 (battuto da Paolo III Farnese), particolarmente sensibile al
mondo artistico tedesco, voleva rivitalizzare Trento e il principato con un programma di costruzioni, di simboli, di cultura
ispirato alle corti italiane del Rinascimento. In mostra Cles viene illustrato come politico e committente di artisti. Un ritratto del
fiammingo Bartel Bruyn lo ritrae a mezzo busto, chiuso nella veste rosso mattone e con berretto dello stesso colore. Un volto
potente che traspare potere non bella vita.
Per realizzare il programma Bernardo lanciò una campagna di "acquisti": architetti, pittori, lapicidi lombardi, scalpellini,
stuccatori, doratori tanto che Giulio Romano si lamentò che Mantova fosse rimasta vuota di artigiani. Il grande Dosso Dossi lo
chiese "in prestito" ad Alfonso I d'Este duca di Ferrara e a quanto sembra Dosso (col fratello Battista) si recò di malavoglia a
Trento pensando a quello che lasciava come ambiente anche se alla fine ricevette un compenso leggermente superiore, "da
vero maestro", a quello del Romanino, "da bon maestro". Dosso, col veneto Marcello Fogolino, Zaccaria Zacchi il reputato
scultore di terracotte dipinte come bronzo, doveva assicurare il versante del classicismo. E il versante anticlassico gli artisti
tedeschi (o quelli attirati dalla cultura tedesca come il Romanino).
Dallo stesso duca d'Este Cles ottenne il maestro "di condurre acque segrete per dare ornamento al giardino" che doveva essere
ricco di erbe medicinali, odorose, da sagomare. Da Federico Gonzaga, signore di Mantova, non riuscì ad ottenere Battista Covo,
architetto di fiducia della moglie, la decisissima Isabella d'Este. Altri artisti esaminati furono un pittore raccomandato di
Mantova ed uno veneziano che potrebbe essere Lotto o Pordenone dato che si era presentato come "il secondo di exellentia"
dopo Tiziano, inarrivabile anche per il principe vescovo.
A differenza degli altri artisti chiesti o esaminati, fu il Romanino ad offrirsi dimostrando, oltre alle ben note doti, anche una
dose di incoscienza se si considera che "non aveva mai affrontato un'impresa di tanta mole per superfici e complessità di
spazi". Né aveva avuto a che fare con una "committenza culturalmente e politicamente tanto prestigiosa" come Bernardo Cles.
Forse Romanino si era buttato nell'impresa perché quelli erano anni di carestie per Brescia e perché all'inizio le richieste
sembravano piuttosto semplici, sostanzialmente un fregio, nella camera da letto del principe vescovo, la "Chamara sopra la
loza" (o "Chamera del Signor"), quella che doveva essere affrontata per prima. Ed anche per la loggia (la "Loza granda") su un
lato del cortile dei Leoni con giardino interno, che pure aveva "il ruolo di fulcro del contesto architettonico e simbolico" della
nuova costruzione, il programma era una generica decorazione limitata alle vele sovrastanti archi e lunette e nella volta un
cielo azzurro "cum cosse d'oro tirate dentro", stelle stilizzate con raggi sottilissimi e irregolari. E il pensiero va subito al modello
di cielo della Sistina prima della rivoluzione di Michelangelo.
Non è ancora chiaro se al Romanino fu presentato subito tutto il programma di lavoro (appunto sugli 800 metri) o piuttosto se
Cles e i collaboratori che erano a contatto diretto con l'artista, hanno voluto vedere come Romanino si comportava, in
particolare per l'aspetto sempre spinosissimo della durata dei cantieri. E quanto a velocità di esecuzione avevano trovato
l'uomo giusto. Addirittura Romanino, si era impegnato, con scarsa prudenza, a lavorare di inverno a Trento a patto che gli
ambienti avessero le finestre e fossero riscaldati. Un impegno che non riuscì a mantenere a quelle gelide temperature.
Alla fine Romanino dipinse la "Camera delle udienze" (la "Lozeta zoe el lausloden" dal nome del balcone chiuso), al primo piano
la "Loggia", il passaggio verso la scala che porta al giardino, la scala, il "volto" sotto la "Loggia", l'andito alla cucina, l'andito al
bagno. Al piano nobile la camera da letto di Cles decorata con un fregio con busti all'antica, clipeati a monocromo, affiancati da
putti. Qui il Romanino dovette adeguarsi a schemi classici superati (che rifece nell'andito alla cucina) che non sentiva. Con
scarse soddisfazioni per se stesso e per Cles che tre anni dopo la conclusione ordinò di rinfrescare il fregio, "tocharlo de più
belli colori, figurete et oro". Il pavimento della camera aveva mattonelle di maiolica dipinta, opera di Bartholomäus Dill figlio del
celebre scultore Tilman Rimenschneider.
Ancora un lavoro di scarsa soddisfazione nella "Camera delle udienze" con gli imperatori romani. Più "spigliati" i ritratti degli
imperatori e re asburgici (Carlo V, Ferdinando) che ad ogni modo qualche anno dopo il principe vescovo fece riprendere dal
Fogolino per renderli più somiglianti. Romanino dimostrava ancora una volta l'idiosincrasia ad affrontare temi celebrativi,
cortigiani. Di fronte ai re e imperatori, sulla parte opposta della volta realizzò il "bellissimo ritratto" del Cles mentre detta una
lettera al segretario.
Ma il capolavoro del Romanino vero è la loggia del cortile dei Leoni e il lungo seguito di personaggi storici, mitologici o simbolici
e scene sparse su scale, pianerottoli, anditi ad accompagnare il signore e gli ospiti del palazzo. La sala di ingresso al Magno
Palazzo con gli affreschi dei fratelli Dossi sulla volta, incorniciati da rilievi in stucco, immette nel giardino, alla loggia a cinque
archi che si presenta con la sfilata delle lunette sul fondo. Temi sensuali, soavi e tragici di grande storia o grande mito. Le Tre
Grazie (tornate a come le aveva fatte il Romanino, senza veli), il suicidio di Cleopatra (rare sono le Cleopatre che si suicidano
vestite), Sansone e Dalida, un concerto, Lucrezia che si uccide perché insidiata dal figlio di Tarquinio, Virginia sacrificata dal
padre. Le lunette sulle pareti corte, rappresentano, a sinistra, un concerto campestre e una scena che si continua a definire
erroneamente Amore e Psiche, e a destra, un concerto di flauti (tre suonatrici attorno ad un giovane suonatore) accanto ad una
truce Giuditta intenta, finalmente più schifata che compiaciuta, a riporre la testa mozzata di Oloferne, anticipatrice delle eroine
di Caravaggio e di Artemisia Gentileschi.
Le scene già di per sé mosse o in forte azione non sono costrette entro le lunette: molte debordano con gambe o lembi di
vestito oltre la cornice. Una delle Tre Grazie è la più dinamica, sembra che stia per saltare sul pavimento della loggia. Il tutto
crea fermento aumentato dagli otto ignudi dipinti nei pennacchi superiori alle lunette, giovani e anziani, barbuti o no, di schiena
o di fronte, che si agitano, cercano di ripararsi con le braccia. Un attimo e si capisce che sono i più esposti alle correnti, ai venti

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che addirittura piegano le barbe, perché il Romanino li ha collocati fra le nuvole, perché tutta la volta della loggia è un cielo
azzurro aperto, sagomato dalle cornici, dai lunettoni bianchi dipinti con conchiglie e tratti verticali che delimitano le scene. E il
cielo è occupato, ai lati, dalle coppie delle Stagioni (su cui il Romanino ha deposto ghirlande di fiori nei punti topici), da Apollo
come il Sole e Diana come la Luna e al centro dalla grande scena del testardo Fetonte che ha ancora la frusta alzata, ma ha
ormai perso il controllo del carro del Sole. I cavalli bianchi, con sottilissimi finimenti simili a una rete, ripresi da sotto in su con
precisione anatomica, sono tre e non quattro come vuole il mito innescando una querelle sul quarto che si sarebbe salvato
dall'incenerimento perché ha rotto il morso ed ha tagliato la corda. Con grande coraggio e riuscita il Romanino ha dipinto
bianco su bianco, i cavalli sullo sfondo delle nuvole. Il colpo d'occhio generale è dominato da cielo azzurro e nuvole bianchi, dai
colori freschi delle scene.
Anche il pezzettino di volta che sovrasta la scala che conduce al secondo piano è una losanga di cielo in cui si consuma il
rapimento di Ganimede da parte dell'aquila-Giove. Neppure un centimetro della volta è lasciato scoperto: l'ultima invenzione
sono venti sculture, dipinte a monocromo, ciascuna in una finta nicchia decorata da tessere musive dorate.
Lo "Scacciaimportuni" armato di un bastone, dipinto sulla parete di fondo, è a guardia della scala che collega piano terra alla
loggia-giardino e conduce al secondo piano. Scale, pianerottoli fino al voltone ("revolto soto la loza"), sguanci delle finestre,
sono animati da una popolazione di donnoni con serpe arrotolata al braccio, cortigiane invitanti, brutti ceffi, servi intenti alla
castrazione di un gatto, dal buffone dalla faccia triste Paolo Alemanno, da un buffone che stuzzica una scimmietta con due
ciliege, personaggi impellicciati e uomini seminudi, allegorie in finte nicchie, amanti che si sono guadagnati un angolo davanti
ad una finestra, eccetera, eccetera. Una "corte dei miracoli" che è figlia straordinaria del Romanino che si è "liberato" del
Moretto e del classicismo. Indimenticabile l'uomo piumato che sul parapetto dipinto distribuisce la paga a due operai, il tutto in
sintesi di pittura e completezza di espressioni, con il soprastante che non "vede" neppure i due uomini e i due uomini che con
la testa affossata attendono i gesti del superiore. Anche le due donne nude con un uomo e le tre donne nude, fra putti che
giocano, dipinte senza difficoltà, né prima né dopo, nell'andito al bagno del principe vescovo non sono bellezze classiche. Sono
scene di genere di cultura nordica, non citazioni dalla Domus Aurea.
Romanino è sempre sorprendente dal punto di vista tecnico e non poteva non esserlo nel Magno Palazzo. I restauri hanno
dimostrato che l'intonaco è stato steso in modo perfetto da buon fresco, ma il Romanino non poteva procedere tanto per il
sottile con la fretta imposta dal principe vescovo. Dipinse così su una larga base di affresco, "utilizzando poi varie tecniche:
latte ed acqua di calce, tempera all'uovo, tempera a colla". Su uno strato a buon fresco il Romanino fece numerosi ritocchi a
tempera e numerose dorature e fece anche errori tecnici con problemi di adesione pittorica.
Confermata la disinvoltura di realizzazione: con grande rapidità dipingeva il grosso e si concentrava "su alcuni particolari con
una cura meticolosa". Per una lunetta della loggia, circa tre metri quadri di pittura, di solito gli bastava una "giornata" cioè
quello che si riesce a dipingere fino a quando l'intonaco è umido, la condizione fisica richiesta per inglobare i colori nel muro.
Secondo Nova il Romanino concluse se non tutta gran parte della volta in due mesi. Incideva direttamente sull'intonaco le linee
generali dell'esecuzione che poi non esitava a modificare in corpo d'opera. E così si comportava con i disegni preparatori. La
parete bianca non lo spaventava, lo stimolava ad improvvisare.

di Goffredo Silvestri

Notizie utili - "Girolamo Romanino. Un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano". Dal 29 luglio al 29 ottobre. Trento, Castello
del Buonconsiglio. A cura di Francesco Frangi dell'Università di Pavia, Lia Camerlengo, Ezio Chini e Francesca de Grammatica
del castello del Buonconsiglio gestito dalla Provincia autonoma di Trento. Con la partecipazione di Alessandro Nova, Goethe-
Universität di Francoforte. Catalogo Silvana Editoriale.
Biglietti: intero 6 euro, ridotto 3.
Orari: da martedì a domenica 10-18; chiuso lunedì. Gruppi e scuole, servizi educativi del museo 0461-492811. Visite guidate
alla mostra (1 euro) alle 11, 14,30 e 16. Visite guidate al castello (1 euro) alle 10,30 e 15,30.
Informazioni 0461-233770; fax 0461-239497; info@buonconsiglio.it
(1 agosto 2006)

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