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Della guerra – Carl von Clausewitz

I libro – La natura della guerra
Che cosa è la guerra?
La guerra non è che un duello più esteso: ciascuno cerca di costringere 
l’altro con la forza fisica a eseguire la sua volontà; il suo scopo più 
immediato è abbattere l’avversario e con ciò renderlo incapace di ogni 
ulteriore resistenza. La guerra dunque è un atto di violenza per 
costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà. La violenza fisica 
è il mezzo; l’imposizione della volontà al nemico è lo scopo.
La lotta tra uomini consiste in due diversi elementi: il sentimento ostile 
e l’intenzione ostile. Nei popoli primitivi dominano intenzioni dettate 
dall’emotività, mentre nei popoli civili intenzioni dettate 
dall’intelligenza, ma sarebbe comunque falso far discendere la guerra dei 
popoli civili da un mero atto dei governi e pensarla svincolata da ogni 
passione. Infatti il costante sviluppo delle armi da fuoco mostra nei 
fatti che la tendenza all’annientamento dell’avversario presente nel 
concetto di guerra non è stata per niente cancellata o modificata dalla 
crescente civilizzazione. La guerra è un atto della violenza e non c’è 
limite alcuno nel suo impiego (prima interazione e primo estremo).
Disarmare il nemico è l’obiettivo dell’atto di guerra. Se il nemico deve 
sottostare alla nostra volontà, dobbiamo metterlo in una condizione che 
gli è più svantaggiosa del sacrificio che gli viene chiesto. Gli svantaggi 
di questa condizione non possono essere transitori, altrimenti 
l’avversario attenderebbe un momento migliore e non cederebbe: la 
situazione peggiore in cui un capo militare si può trovare è quella di 
essere completamente inerme. Ma sin tanto che non si è abbattuto il 
nemico, si deve temere che sia lui ad abbattere l’altro contendente 
(seconda interazione e secondo estremo).
Se vogliamo abbattere il nostro avversario dobbiamo commisurare il nostro 
sforzo alla sua forza di resistenza, che è il prodotto di due fattori che 
non sono separabili: la grandezza dei mezzi disponibili e la forza di 
volontà. La grandezza dei mezzi disponibili potrebbe essere calcolata, ma 
non è così per l’intensità della forza di volontà. Possiamo misurare i 
nostri sforzi in modo da aumentarli sino a essere superiori rispetto a 
quelli dell’avversario oppure a renderli i più grandi possibile. Ma 
l’avversario fa lo stesso (terza interazione e terzo estremo).
Le tre interazioni che, secondo Clausewitz, portano la guerra all’estremo 
sono:
1. Ciascun contendente impone all’avversario una violenza che, proprio 
nella reciproca necessità di annientamento, non può che essere 
spinta all’estremo;
2. Lo scopo di ciascun contendente è ridurre all’impotenza 
l’avversario, abbatterlo. Ma essendoci reciprocità, i metodi per 
raggiungere il proprio obiettivo tenderanno all’estremo; 
3. Motivazione e grandezza dei mezzi costituiscono elementi reciproci 
nel conseguimento degli obiettivi. Dunque tale reciprocità porterà 
all’estremo gli sforzi di entrambe.
Nell’astrazione, in cui i due avversari non sono semplicemente orientati 
alla perfezione ma sono anche in grado di raggiungerla, questi principi 
potrebbero essere validi. Dunque l’estremo si raggiungerebbe:
a. Se la guerra fosse un atto completamente isolato, che si originasse 
all’improvviso e non si collegasse con la preesistente vita dello 
Stato;

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b. Se la guerra consistesse in un’unica decisione o in una serie di 
decisioni simultanee;
c. Se la guerra contenesse una decisione compiuta in sé e su di essa 
non retroagisse la condizione politica che seguirà alla guerra 
stessa.
Per quanto riguarda il primo punto, la guerra non nasce all’improvviso, il 
suo sviluppo non è l’opera di un attimo. Ognuno dei due avversari può 
dunque giudicare l’altro in gran parte da ciò che è e che fa, e non 
secondo quello che rigorosamente dovrebbe essere e fare. Questi fattori, 
presentandosi effettivamente in entrambe le parti, diventano un principio 
moderatore.
Per quanto riguarda il secondo punto, se la decisione (=azione risolutiva 
sul campo) in guerra fosse unica o una serie di decisioni simultanee, 
allora tutti i preparativi dovrebbero naturalmente tendere all’estremo 
perché un fallimento non troverebbe rimedio. Se invece la decisione 
consiste in più atti successivi, l’atto che precede può essere un metro di 
misura per quello successivo, moderando così la tendenza all’estremo. Del 
resto è nella natura di queste forze (ossia mezzi, uomini, atti di guerra) 
e del loro uso che non possono entrare in azione tutte contemporaneamente: 
è infatti contrario alla natura della guerra una completa concentrazione 
delle forze nel tempo.
Per quanto riguarda il terzo punto, alla fine la decisione (azione 
risolutiva) complessiva di tutta una guerra non è da considerarsi sempre 
assoluta: lo Stato soccombente vi vede spesso solo un male transitorio per 
il quale può trovare ancora un rimedio nelle situazioni politiche 
successive, moderando la violenza della tensione e la durezza della prova 
di forza.
Quanto minore è il sacrificio che chiediamo al nostro avversario, tanto 
minori saranno gli sforzi che da lui ci attendiamo per negarcelo. Ma 
quanto più modesti sono i suoi sforzi, tanto più modesti possono rimanere 
anche i nostri. Ancora: quanto più piccolo è il nostro scopo politico, 
tanto minore sarà il valore che gli attribuiamo, tanto più facilmente lo 
lasceremo perdere: dunque tanto minori diventeranno anche per questa 
ragione i nostri sforzi. Lo scopo politico in quanto motivo originario 
sarà dunque la misura sia dell’obiettivo da raggiungere con l’atto di 
guerra sia degli sforzi richiesti. Uno stesso scopo politico presso popoli 
diversi o in uno stesso popolo in tempi diversi può avere effetti 
completamente differenti. Quindi il risultato può essere completamente 
diverso a seconda che le masse siano fattori di rafforzamento o di 
indebolimento per l’azione. 
Ogni azione ha bisogno per il suo compimento di un certo tempo, ossia di 
una durata. Ogni perdita di tempo oltre questa durata, ovvero ogni 
sospensione nell’atto bellico, appare un controsenso. Se due parti si sono 
armate per la lotta devono essere state spinte necessariamente da un 
principio ostile, quindi ognuna delle parti può starsene ferma solo a una 
condizione: aspettare un momento più favorevole per agire; ma se l’una ha 
interesse ad agire, l’altra deve avere interesse ad attendere. Un completo 
equilibrio delle forze non può produrre una sospensione delle ostilità 
perché in una situazione del genere chi ha lo scopo positivo, ossia 
l’attaccante, dovrebbe essere sempre colui che avanza. In sostanza, il 
concetto dell’equilibrio non può spiegare la sospensione della lotta, ma 
deve collegarsi con l’attesa di un momento più favorevole per l’azione. 
Ma, se si verificasse realmente questa continuità dell’atto di guerra, 
tutto sarebbe di nuovo spinto all’estremo. 

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Ma c’è un’altra ragione che può interrompere l’atto bellico: la conoscenza 
incompleta della situazione. Ogni capo militare conosce con esattezza 
soltanto la propria situazione mentre quella dell’avversario gli è nota 
soltanto tramite informazioni incerte. Può quindi sbagliare nella 
valutazione e di conseguenza credere che tocchi all’avversario prendere 
l’iniziativa, mentre toccherebbe a lui. Inoltre si è più inclini a 
sovrastimare anziché sottostimare la forza dell’avversario (perché questo 
è nella natura umana) e quindi l’incompleta conoscenza della situazione in 
generale contribuisce ad arrestare l’azione bellica. 
La guerra di una comunità viene fuori sempre da una situazione politica e 
viene suscitata soltanto da un motivo politico. È dunque un atto politico. 
Se consideriamo che la guerra nasce da uno scopo politico, è naturale che 
il motivo politico che l’ha fatta esplodere, rimanga anche la prima e più 
alta preoccupazione per la sua prestazione. La politica dunque compenetra 
l’intero atto di guerra ed esercita su di esso un’influenza costante.
La guerra non è semplicemente un atto politico, ma un vero strumento 
politico. L’intenzione politica infatti è lo scopo, mentre la guerra è il 
mezzo: tanto più vengono a coincidere l’obiettivo militare e lo scopo 
politico, tanto più puramente guerriera e meno politica sembra essere la 
guerra; tanto più divergente è lo scopo politico dall’obiettivo di una 
guerra ideale, tanto più la guerra sembra diventare politica. Quindi, 
innanzitutto, la guerra deve essere concepita in ogni circostanza non come 
una realtà indipendente, ma come uno strumento politico. In secondo luogo, 
le guerre sono diverse a seconda della natura dei loro motivi e delle 
situazioni da cui nascono.

Scopo e mezzi della guerra
Vi sono tre elementi generali che compongono il concetto di guerra: la 
forza armata, il territorio e la volontà del nemico. La forza armata deve 
essere annientata, cioè messa in condizione tale da non poter più 
proseguire la lotta. Il territorio deve essere conquistato perché da esso 
potrebbero formarsi nuove forze armate. Ma anche se accade tutto ciò, la 
guerra non può considerarsi finita sin tanto che non è domata la volontà 
del nemico, ovvero il suo governo e i suoi alleati non sono stati indotti 
alla pace o il popolo alla sottomissione. 
Ci sono due elementi che possono presentarsi come motivo per la pace al 
posto dell’incapacità di sostenere una resistenza ulteriore. La prima è 
l’improbabilità del successo, la seconda è un prezzo troppo alto del 
successo. Non occorre che la guerra sia combattuta sempre sino 
all’abbattimento di una parte e si può pensare che in presenza di tensioni 
e motivi deboli basti una piccola probabilità di successo a spingere al 
cedimento la parte contro cui essa è rivolta. Se di ciò è convinta la 
parte avversaria è naturale che essa mirerà a questa probabilità e non 
cercherà la strada di un completo abbattimento del nemico. Invece, dal 
momento che la guerra è dominata dallo scopo politico, è il valore di 
quest’ultimo che deve determinare la dimensione dei sacrifici. Non appena 
il dispendio di energie diventa così grande che il valore dello scopo 
politico non può mantenere l’equilibrio con esso, si deve cedere e dar 
seguito alla pace. Si può influire sulle probabilità di successo 
attraverso: l’annientamento delle forze armate del nemico e la conquista 
delle sue provincie. Quando si attacca la forza armata nemica, è diverso 
se al primo colpo si vuole far seguire una serie di altri colpi sin tanto 
che il nemico è distrutto, oppure se ci si accontenta di una vittoria per 
spezzare il senso di sicurezza del nemico. Se si vuole questo, ci si 
impegna nell’annientamento delle forze del nemico solo nella misura 
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sufficiente a raggiungere tale obiettivo. La conquista delle provincie è 
diversa a seconda che l’obiettivo sia annientare il nemico o meno: in un 
caso l’abbattimento delle sue forze armate è l’azione efficace e la presa 
delle province ne è la conseguenza; mentre, quando non si mira 
all’abbattimento del nemico e si è convinti che il nemico non cerchi la 
strada della decisione (azione risolutiva) ma la tema, allora la conquista 
di una provincia debole è già un vantaggio in sé. Un altro mezzo per 
influire sulla probabilità di successo sono le iniziative che hanno un 
rapporto politico immediato: iniziative adatte a dividere le alleanze del 
nostro nemico o a renderle inefficaci, a procurare nuovi alleati, a 
favorire condizioni politiche vantaggiose per noi. La seconda questione 
riguarda i mezzi per provocare il dispendio delle energie del nemico o per 
alzarne i costi. Il dispendio delle energie del nemico consiste nel 
consumo delle sue forze armate e nella perdita di province.
Un’altra strada è il logoramento del nemico, ossia l’esaurimento 
progressivo delle forze fisiche e della volontà prodotto dalla durata 
dell’azione. Se si vuole superare il nemico nella durata della lotta, ci 
si deve accontentare di scopi piccoli per quanto possibile: un grande 
scopo richiede più investimento di energie. Ma lo scopo più piccolo che ci 
si può porre è la pura resistenza, ovvero la lotta senza un intento 
positivo. Questa negatività non può giungere sino alla passività assoluta; 
infatti un puro subire non sarebbe più una lotta; la resistenza invece è 
un’attività con la quale devono essere distrutte al nemico così tante 
forze che è costretto a rinunciare al suo intento. Se l’intento negativo, 
ossia la concentrazione di tutti i mezzi nella mera resistenza, fornisce 
una prevalenza nella lotta tale da compensare qualunque superiorità 
dell’avversario, allora la semplice durata della lotta basterà a portare 
il dispendio di energie del nemico gradualmente al punto in cui lo scopo 
politico per il quale l’avversario si batte non regge più l’equilibrio e 
quindi deve essere abbandonato. 

Il genio militare
Il genio guerresco non consiste in una singola qualità orientata alla 
guerra, ad esempio il coraggio, in assenza di altre qualità di 
intelligenza e di temperamento o di inclinazioni non utilizzabili per la 
guerra. Il genio è una sintesi armonica di qualità in cui può prevalere 
l’una o l’altra ma nessuna è in contrasto con l’altra. Se consideriamo un 
popolo guerriero primitivo, troviamo che lo spirito guerresco tra gli 
individui è molto più diffuso che non presso i popoli civilizzati. Ma 
presso i popoli primitivi non si trova mai un vero grande capo militare. 
La guerra è il luogo dell’incertezza e quindi tre quarti delle cose su cui 
è costruito l’agire in guerra è immerso nell’incertezza. È qui che viene 
richiesta una sottile penetrante intelligenza per percepire la verità con 
il tatto del giudizio. La guerra è il luogo del caso, che moltiplica 
l’incertezza di tutte le circostanze e disturba il corso degli 
avvenimenti. Per superare con successo questo scontro continuo con 
l’inatteso, sono indispensabili due qualità: intelligenza e coraggio.
Per guidare a un esito positivo una guerra nel suo insieme o le sue azioni 
più grandi, occorre una profonda conoscenza delle più alte relazione di 
Stato. La condotta della guerra e la politica coincidono e un comandante 
supremo diventa allo stesso tempo un uomo di Stato. Il capo militare 
diventa statista ma non può cessare di essere capo militare; da un lato, 
egli coglie l’insieme dei rapporti politici dello Stato, dall’altro è 
perfettamente consapevole di ciò che può fare in guerra con i mezzi di cui 
dispone.
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Le informazioni in guerra
Con informazione s’intende la conoscenza complessiva che abbiamo del 
nemico e del suo territorio. Essa è il fondamento di ogni nostra idea e 
iniziativa. Una grande parte delle informazioni che si ottengono in guerra 
è contraddittoria, una parte ancora più grande è falsa e la parte di gran 
lunga maggiore è incerta. Quello che si può chiedere a un ufficiale è una 
certa capacità di discernimento. In poche parole: la maggior parte delle 
notizie sono false e la paura umana rafforza la menzogna e la falsità. Di 
regola si tende a credere più alla notizia cattiva che a quella buona; si 
tende a esagerare ciò che è negativo e i pericoli che in esso sono 
segnalati: una ferma fiducia in se stesso deve armare il capo contro la 
pressione del momento.

La frizione in guerra
La frizione è l’unico concetto che corrisponde in termini abbastanza 
generali a ciò che distingue la guerra reale da quella che sta sulla 
carta. La macchina militare, l’esercito e tutto ciò che la compone è in 
fondo molto semplice e quindi sembra facile da manovrare. C’è da tener 
presente che nessuna delle sue parti è fatta di un solo pezzo bensì tutto 
è composto da individui ciascuno dei quali ha la sua frizione. Il tempo 
atmosferico è un esempio di frizione. Il comandante deve conoscere la 
frizione per vincerla, dove è possibile, e non deve aspettarsi una grande 
precisione nell’azione che non è possibile proprio per la presenza della 
frizione. L’unico mezzo per non lasciarsi confondere dalla frizione 
generale è l’abitudine alla guerra: l’abitudine rafforza il fisico nelle 
grandi fatiche, lo spirito nei grandi pericoli e il giudizio di fronte 
alla prima difficoltà.

II libro – La teoria della guerra
Classificazione dell’arte della guerra
La guerra nel suo significato vero e proprio è lotta, mentre la conduzione 
della guerra è il predisporre e il dirigere la guerra. La lotta consiste 
di un numero più o meno grande di singoli atti di lotta tra sé collegati, 
ossia i combattimenti. Vi sono dunque un’attività di predisporre e 
dirigere questi combattimenti e un’attività di collegarli tra loro secondo 
lo scopo della guerra. L’una è la tattica, l’altra è la strategia. La 
tattica è dunque la dottrina dell’impiego delle forze armate nel 
combattimento, la strategia è la dottrina dell’uso dei combattimenti per 
lo scopo della guerra.

La superiorità numerica
La superiorità numerica era un fattore materiale che veniva privilegiato 
rispetto ad ogni altro nel calcolare il prodotto finale di una vittoria, 
ma ritenere la superiorità numerica come l’unica legge e vedere tutto il 
segreto dell’arte militare nella formula della superiorità numerica su 
determinati punti in un tempo determinato era una riduzione assolutamente 
insostenibile di fronte alla vita reale.

La prima peculiarità della guerra: le forze spirituali
La lotta è originariamente l’espressione di sentimenti ostili; tuttavia in 
guerra spesso del sentimento ostile rimane soltanto l’intenzione e 
quantomeno nel singolo individuo non c’è alcun sentimento ostile contro 
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l’altro individuo. D’altro canto l’odio nazionale che raramente manca 
anche nelle nostre guerre sostituisce più o meno intensamente nel singolo 
l’ostilità individuale. Dove però anche quello manca e all’inizio del 
conflitto non c’è alcuna animosità, il sentimento ostile si accende 
durante la lotta stessa.

Seconda peculiarità della guerra: la reazione vitale
La seconda peculiarità nell’agire bellico è la reazione e l’interazione 
vitale che si produce in guerra. L’interazione per sua natura è contraria 
a ogni pianificazione. È naturale pertanto che un agire come quello 
bellico, così disturbato da imprevisti fenomeni individuali, deve essere 
lasciato più al talento e meno alla teoria.

Terza peculiarità della guerra: incertezza di tutti i dati
Una difficoltà peculiare infine è la grande incertezza di tutti i dati 
nella guerra. È dunque di nuovo il talento o il favore del caso cui si 
deve fare affidamento in mancanza di una saggezza oggettiva.

Il metodismo
Quando l’agire è determinato da procedure metodiche anziché da principi 
generali o da singole prescrizioni, si ha il metodismo. Il metodismo è 
fondato quindi sulla probabilità media dei casi che si rimandano l’un 
l’altro e tende a stabilire una verità media. Laddove nessun altro punto 
di vista può essere presupposto se non quello dei regolamenti e 
dell’esperienza, si deve ricorrere al metodismo. Esso diventa un punto di 
appoggio per il giudizio e insieme un freno per visioni distorte, che sono 
da temere soprattutto in un ambito dove l’esperienza è così preziosa. Il 
metodo viene dunque usato in modi tanto più vari da essere indispensabile 
quanto più l’attività va verso il basso, mentre verso l’alto diminuisce la 
sua importanza sino a scomparire nelle posizioni più alte. Per questo esso 
è presente più nella tattica che nella strategia.

III libro – La strategia in generale
Strategia
La strategia è l’impiego del combattimento per il raggiungere lo scopo 
della guerra, ma la sua teoria deve prendere in considerazione la forza 
armata, in sé e nelle sue relazioni principali. Se la strategia è 
l’impiego del combattimento per il raggiungimento dello scopo della 
guerra, essa deve portare con sé all’intero atto bellico un obiettivo che 
risponde allo scopo stesso. Essa cioè traccia il piano di guerra e a 
questo obiettivo collega la serie delle azioni che si devono condurre. Ne 
segue che la strategia deve entrare in campo per ordinare e fare le 
modifiche che sono assolutamente indispensabili. Per una decisione 
importante nella strategia ci vuole più forza di volontà che non nella 
tattica. In quest’ultima è il momento che trascina; l’attore deve 
reprimere i dubbi crescenti e andare avanti. Nella strategia, dove tutto 
procede molto più lentamente, è riservato molto più spazio ai dubbi, alle 
obiezioni, alle ipotesi proprie. Dal momento che nella strategia almeno la 
metà delle cose non è vista con i propri occhi come nella tattica, tutto 
deve essere supposto e indovinato, anche il convincimento è meno fermo.

Le principali potenze morali
Le principali potenze morali sono il talento del capo militare, la virtù 
guerriera dell’esercito e lo spirito del popolo. Lo spirito popolare 
dell’esercito si manifesta nel modo più forte nelle guerre di montagna 
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dove ognuno è lasciato a se stesso fino all’ultimo singolo soldato. Già 
soltanto per questo le montagne sono i posti migliori per il popolo in 
armi. Sul terreno aperto invece si rivelano al meglio la professionalità e 
il coraggio che tengono insieme una massa d’uomini come se fosse un unico 
pezzo.

La virtù guerriera dell’esercito
La virtù guerriera è diversa dalla semplice bravura e ancor più 
dall’entusiasmo per la causa della guerra.
La bravura è certamente una componente necessaria della virtù militare. 
L’entusiasmo per la causa dà alla virtù militare di un esercito vita più 
intensi ma non ne è un momento necessario. La virtù militare, invece, nel 
singolo membro dell’esercito consiste nell’essere compenetrato dallo 
spirito e dall’essenza della guerra, immedesimandosi nel ruolo assegnato. 
La virtù militare è per le singole componenti dell’esercito ciò che per il 
tutto è il genio del comandante. Questo ruolo è svolto dalle qualità 
naturali di un popolo addestrato alla guerra: valore, adattabilità, 
resistenza ed entusiasmo. Queste qualità possono sostituire lo spirito 
guerriero e viceversa. Di conseguenza: 
1. La virtù militare è tipica soltanto degli eserciti permanenti; 
2. Eserciti permanenti che affrontano altri eserciti permanenti possono 
fare a meno della virtù militare più che non eserciti permanenti che 
affrontano insurrezioni popolari. In questo caso infatti le forze 
militari sono divise e lasciate più a loro stesse. Dove invece 
l’esercito può essere tenuto compatto, il genio del comandante 
assume un rilievo maggiore e sostituisce quello che manca allo 
spirito dell’esercito.
In generale dunque la virtù militare diventa tanto più necessaria quanto 
più le circostanze della guerra rendono complicata la guerra e disperdono 
le forze. Lo spirito guerriero può nascere solo da due fonti ed essere 
prodotto solo in comune da queste. La prima è una serie di guerre e di 
risultati fortunati, l’altra è una prestazione dell’esercito spinta allo 
sforzo estremo.

La superiorità numerica (2)
La superiorità numerica presenta dei gradi: può essere doppia, tripla, 
ecc. La superiorità numerica è il fattore più importante per il risultato 
di un combattimento a patto che sia grande quanto basta per equilibrare 
altre circostanze. Laddove non si è potuta raggiungere una superiorità 
assoluta, non rimane che creare una superiorità relativa: in questo caso è 
essenziale il calcolo di spazio e tempo. La superiorità numerica deve 
considerarsi come idea fondamentale ed essere ricercata dovunque, a 
seconda delle possibilità; ma considerarla una condizione assolutamente 
necessaria per la vittoria, è un grave errore.

La sorpresa
La sorpresa sta alla base di tutte le iniziative, senza sorpresa infatti 
non è pensabile la superiorità sul punto decisivo. La sorpresa diventa 
dunque il mezzo per ottenere la superiorità, ma va vista anche come un 
effetto morale. Quando riesce le sue conseguenze sono la confusione e lo 
scoraggiamento del nemico .
Segretezza e rapidità sono due fattori di questo prodotto che 
presuppongono presso il governo e il comandante in capo una grande energia 
e presso l’esercito un forte impegno.

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Il carattere delle guerre contemporanee (insegnamenti derivanti dalle 
guerre napoleoniche)
Gli spagnoli con la loro tenace lotta hanno mostrato quello che possono 
fare di grande le sollevazioni armate nazionali e i metodi insurrezionali; 
la campagna di Russia ha dimostrato che un impero di grandi dimensioni non 
può essere conquistato; che la probabilità di successo non diminuisce 
perdendo battaglie, province e capitali ma che spesso si è più forti 
rimanendo all’interno del proprio Paese se l’offensiva del nemico si è già 
esaurita, rivelando poi con quale enorme violenza la disposizione 
difensiva si trasforma in offensiva.

IV libro – Il combattimento
Il combattimento in generale
Il combattimento è la lotta che ha per scopo l’annientamento o il 
superamento dell’avversario. Con annientamento diretto intendiamo i 
successi tattici, nel senso che soltanto grandi successi tattici possono 
condurre a grandi successi strategici; quindi i successi tattici sono di 
importanza cruciale nella conduzione della guerra. Ciò non vuol dire che 
la scelta migliore è sempre l’attacco ma che non si deve indugiare nelle 
manovre. 

La decisione del combattimento
Nessun combattimento si decide in un momento singolo, sebbene ci siano 
momenti di grande importanza che contribuiscono in modo incisivo alla 
decisione finale. Bisogna avere ben chiara la situazione per decidere se 
un combattimento possa essere ripreso utilmente con l’aiuto di nuove 
forze. Spesso vengono sacrificate invano nuove forze in combattimenti che 
non sono più rimediabili, spesso invece si manca di modificare la 
decisione mentre si è ancora in tempo. Il momento della decisione, ossia 
il momento in cui una forza fresca non può più mutare le sorti del 
combattimento sfavorevole, è:
1. Quando lo scopo del combattimento era il possesso di un qualcosa di 
mobile, la sua perdita costituisce già la decisione;
2. Quando lo scopo era il controllo di un’area;
3. Quando lo scopo principale è l’annientamento delle forze nemiche, la 
decisione ha luogo nel momento in cui le forze nemiche non si 
trovano più in uno stato di dispersione.
Dunque una battaglia nella quale l’attaccante non ha perso il suo ordine e 
le sue capacità, se non per una piccola frazione della sua potenza, mentre 
la nostra potenza si è più o meno dissoluta, questa battaglia non è più 
rimediabile, tantomeno se l’avversario ha recuperato la sua forza.

La battaglia principale (la sua decisione)
La battaglia principale è una lotta delle forze principali, ossia una 
lotta con l’impegno totale per una vittoria reale. Alla battaglia 
principale si deve rinunciare non per una qualche particolare circostanza, 
ma solo e unicamente quando le forze appaiono assolutamente insufficienti. 
Infatti, l’ordine di combattimento è solo una disposizione delle forze per 
un impiego più agevole e lo svolgimento del combattimento è un lento 
reciproco logoramento delle forze per vedere chi avrà esaurito prima il 
suo avversario. La risoluzione di abbandonare il combattimento quindi 
risponde nella battaglia principale al rapporto delle riverse fresche 
rimaste. Il risultato della battaglia generale sta nella somma dei 
risultati dei combattimenti parziali; questi ultimi dipendono da tre 
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diversi elementi. Il primo è la mera forza morale nella coscienza del 
comandante supremo (quando un generale di divisione ha visto quanto 
inferiori sono i suoi battaglioni, questo influenzerà il suo 
comportamento). In secondo luogo, il rapido confondersi delle nostre 
truppe. In terzo luogo, il terreno perduto. Tutti questi elementi servono 
come bussola al comandante supremo per riconoscere la direzione che sta 
prendendo la battaglia.

V libro – Le forze armate
Teatro di guerra
Con teatro di guerra si intende un settore dello spazio complessivo in cui 
ha luogo una guerra, che ha lati protetti e quindi consente una certa 
autonomia. Questo settore non è semplicemente un pezzo del tutto, ma un 
piccolo tutto che si trova più o meno in una condizione tale per cui i 
mutamenti che si verificano nel restante spazio della guerra non hanno su 
di esso un’influenza diretta ma solo indiretta.

Armata 
L’armata è la massa combattente che si trova in un determinato teatro. In 
un teatro di guerra dovrebbe esserci un solo comando e il comandante di un 
teatro non deve essere mai privo di un adeguato grado di autonomia.

Campagna 
Molto spesso si definiscono come campagna gli eventi bellici che accadono 
in un anno in tutti i teatri di guerra, è più normale e preciso intendere 
con tale nome gli avvenimenti di un solo teatro di guerra.

Rapporto di potenza
Gli eserciti sono molto simili in dotazione, armamento e addestramento che 
tra il migliore e il peggiore non c’è una differenza di grande rilievo. 
Quindi, al di fuori del talento del comandante in capo, soltanto 
l’esperienza di guerra può dare una significativa superiorità. Dunque 
quanto più c’è equilibrio in tutti gli altri fattori, tanto più decisivo 
diventa il rapporto di forza. Quanto più debole è la forza disponibile, 
tanto più modesti devono essere gli scopi. Inoltre quanto più debole è la 
forza, tanto più breve deve essere la durata della guerra. Per chi è 
coinvolto in una lotta diseguale, quanto più è debole nel numero delle 
forze, tanto più grandi devono diventare, sotto la pressione del pericolo, 
la sua tensione interiore e l’energia. Dove accade il contrario, dove 
invece di un’eroica disperazione subentra un disperato scoraggiamento, 
ogni arte della guerra viene meno.

Rapporto tra le armi
Vi sono tre armi principali: la fanteria, la cavalleria e l’artiglieria. 
Il combattimento ha due componenti da tenere distinte: il principio 
d’annientamento del fuoco e il combattimento individuale. L’artiglieria 
agisce solo tramite il principio di annientamento del fuoco, la cavalleria 
solo tramite il combattimento individuale, la fanteria tramite entrambi. 
Nel combattimento individuale l’essenza della difesa consiste nello stare 
attaccati al terreno; l’essenza dell’attacco è il movimento. La cavalleria 
possiede in modo preminente la seconda: essa è quindi adeguata solo 
all’attacco. La fanteria ha prevalentemente la proprietà del fermo 
radicamento al terreno ma non fa del tutto a meno del movimento. Emerge 
quindi la superiorità e l’universalità della fanteria a confronto con le 

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altre due armi, dal momento che è la sola che unisce in sé i tre 
caratteri. Quindi:
1. La fanteria è l’arma principale;
2. Con una grande arte nella conduzione della guerra si può sopperire 
alla mancanza di artiglieria e cavalleria, purché si disponga di una 
massa molto superiore di fanteria;
3. È più difficile fare a meno dell’artiglieria che della cavalleria 
perché il principio dell’annientamento e la sua prestazione in 
combattimento è meglio fusa con quella della fanteria;
4. L’artiglieria nell’azione di annientamento è la più forte delle armi 
e la cavalleria la più debole.
VI libro – La difesa
Attacco e difesa
Il concetto di difesa è respingere un attacco e la sua caratteristica è 
l’attesa di questo attacco. Un combattimento parziale è difensivo quando 
attende l’assalto del nemico. Una battaglia è difensiva quando si attende 
la comparsa del nemico davanti alla nostra posizione. Una campagna è 
difensiva quando si attende l’entrata del nemico nel nostro teatro di 
guerra. La difesa ha uno scopo negativo, il conservare, mentre l’offensiva 
ne ha uno positivo, il conquistare. Se la difesa è la forma più forte di 
conduzione della guerra basata su uno scopo negativo, ne segue che ci si 
deve servire della difesa soltanto fino a quando se ne ha bisogno a causa 
della propri debolezza, e la si deve abbandonare non appena si è 
abbastanza forti per porti lo scopo positivo (ossia, l’azione). La forma 
difensiva della conduzione della guerra non è dunque un semplice scudo, ma 
uno scudo di colpi ben diretti. 

Il rapporto tra attacco e difesa nella tattica
Le circostanze che portano alla vittoria nella battaglia sono: la 
sorpresa, il vantaggio dell’ambiente e l’attacco da più lati. La sorpresa 
si rivela efficace per il fatto che in un punto determinato si mettono 
contro al nemico più truppe di quante non si aspetta. Questo tipo di 
superiorità numerica è molto diversa da quella generale ed è l’elemento 
più importante dell’arte della guerra. Per vantaggio ambientale non 
s’intendono soltanto gli ostacoli del terreno contro i quali può urtare 
l’attaccante, ma i vantaggi offerti dall’ambiente quando offre coperture 
di schieramento. L’attacco da più lati comprende tutti gli aggiramenti 
tattici e la sua efficacia si basa in parte sull’effetto raddoppiato del 
fuoco, in parte sul timore di chi viene attaccato di rimanere tagliato 
fuori. Quindi l’attaccante a proprio favore ha soltanto una piccola parte 
del primo e dell’ultimo principio, mentre la loro parte maggiore e 
l’intero secondo principio va ad esclusivo vantaggio del difensore. 

Il rapporto tra attacco e difesa nella strategia
I fattori che favoriscono l’efficacia strategica sono:
1. Il vantaggio dell’ambiente;
2. La sorpresa in forma si un vero e proprio attacco improvviso o di un 
dispiegamento inaspettato di forze superiori in determinati punti; 
3. L’attacco da più lati. 
4. Il rafforzamento del teatro di guerra con delle fortezze;
5. L’appoggio del popolo;
6. Lo sfruttamento di grandi forze morali.

Il carattere della difesa strategica

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Un pronto passaggio all’offensiva è il momento più alto della difesa. La 
guerra infatti dipende più dal difensore che dall’invasore: l’invasione 
infatti provoca la difesa e con essa la guerra. Il conquistatore è sempre 
a favore della pace ed entrerebbe volentieri nel nostro Stato del tutto 
pacificamente. Perché non lo possa fare dobbiamo essere noi a volere la 
guerra e anche a prepararla. In altre parole: devono essere i deboli, 
costretti alla difesa, a essere sempre armati e pronti a non essere 
sorpresi.

I mezzi della difesa
I mezzi che stanno a disposizione della difesa sono:
• La Landwehr, ossia la milizia territoriale: nel concetto di Landwehr 
c’è sempre l’idea di una cooperazione straordinaria, più o meno 
volontaria, della massa del popolo alla guerra con la sua forza 
fisica, con la sua ricchezza e il sentimento; il vantaggio della 
Landwehr è una quantità di forze assai estesa e meno rigida, molto 
più facile da far crescere con lo spirito.
• Il popolo: l’influenza complessiva che gli abitanti del Paese 
esercitano sulla guerra non è irrilevante, anche quando non ha la 
forma della sollevazione popolare; infatti, tutte le prestazioni, 
grandi o piccole, che il nemico ottiene avvengono soltanto sotto la 
costrizione di una aperta violenza, mentre il difensore ottiene 
tutto grazie all’obbedienza civile che viene mantenuta con mezzi non 
coercitivi e dettati dalla paura, ma anche con la cooperazione 
volontaria che nasce da vera dedizione alla causa; la più piccola 
pattuglia, ogni posto di guardia, ogni ufficiale in missione con il 
loro bisogno di informazioni sono affidati agli abitanti del Paese; 
l’intesa con gli abitanti mette in generale il difensore in 
condizioni di superiorità rispetto all’attaccante;
• Gli alleati: sono un sostegno del difensore; naturalmente gli 
alleati normali che ha anche l’attaccante, ma a quelli che sono 
interessati in modo essenziale all’esistenza del Paese attaccato.

Il popolo in armi
Le condizioni sotto le quali la guerra di popolo può essere efficace sono 
le seguenti:
a. Che la guerra sia condotta all’interno di un paese; 
b. Che non sia decisa da una singola catastrofe; 
c. Che il teatro di guerra comprenda una superficie considerevole; 
d. Che il carattere del popolo sia di sostegno alle misure di guerra; 
e. Che il Paese sia accidentato e inaccessibile.
Non è un fatto decisivo che la popolazione sia numerosa o scarsa. Una 
caratteristica che favorisce enormemente l’azione della guerra di popolo è 
la dispersione delle abitazioni. L’impiego di gruppi popolari non deve 
aggredire il nucleo centrale del nemico ma corroderlo solo alla superficie 
e ai margini. Il Landsturm (armamento del popolo) intacca le linee di 
collegamento dell’invasore e divora i tessuti vitali della sua esistenza. 
La guerra di popolo non deve mai presentarsi in un corpo compatto, 
altrimenti il nemico dirigerà contro di esso una forza adeguata, 
distruggendolo e facendo un gran numero di prigionieri. D’altro canto è 
necessario che si condensi in certi punti in masse consistenti: questi 
punti sono le ali del teatro di guerra nemico. In questi casi le masse più 
consistenti sono destinate ad attaccare le guarnigioni più numerose che il 
nemico lascia indietro, facendo così crescere paura e preoccupazione e 
moltiplicando la pressione morale. Il comandante in capo raggiunge più 
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facilmente questa forma efficace di guerra di popolo se la sostiene con 
piccoli contingenti dell’esercito regolare, fattore che serve da 
incoraggiamento per le truppe popolari. Se le truppe regolari presenti in 
provincia sono troppo numerose, la guerra di popolo perde energia ed 
efficacia. Ciò per tre motivi: 
1. Vengono attratte troppe truppe nemiche; 
2. Gli abitanti si affidano più facilmente al proprio esercito; 
3. La presenza di masse considerevoli chiede troppo agli abitanti 
stessi in fatto di alloggiamento, vettovagliamento, ecc.
Se il Landsturm si assume la difesa di un qualche pezzo di territorio non 
deve arrivare mai a una battaglia decisiva, altrimenti sarà distrutto: una 
volta che la sua difesa è sfondata, deve disperdersi e proseguire la sua 
azione con attacchi imprevisti anziché convogliare e rinchiudersi in un 
ultimo ristretto rifugio, in una posizione difensiva. Infatti il Landsturm 
ha i tratti tipici di combattimenti di truppe scadenti: una grande 
violenza e impeto all’inizio, ma poco sangue freddo. Un piano di difesa 
strategica può contare sulla cooperazione del popolo in armi per due 
diverse vie: come estrema risorsa dopo una battaglia o come naturale aiuto 
prima di iniziare una battaglia decisiva. 

VII libro – L’offensiva
La natura dell’attacco strategico
Così come la difesa, l’attacco non è un tutto omogeneo, ma è costantemente 
mescolato con la difesa. La differenza sta nel fatto che la difesa non può 
essere pensata senza una ritorsione offensiva che ne costituisce la parte 
integrante necessaria. Così non è per l’attacco: l’atto di attacco è in sé 
un concetto completo. L’attacco non può essere condotto con continuità 
sino alla conclusione, ma richiede momenti di riposo e in questo momento 
si introduce lo stato della difesa. In secondo luogo, lo spazio che 
l’esercito avanzante lascia dietro di sé, essendo necessario per la 
propria sussistenza, non è al sicuro grazie all’attacco in sé ma deve 
essere reso sicuro con mezzi specifici. L’azione offensiva in guerra è 
contiene un legame costante tra attacco e difesa. Ma la difesa non è vista 
qui come una preparazione efficace all’attacco (come avviene nell’azione 
difensiva), ma è vista come un male necessario (come un peso che ritarda 
l’azione): ogni attacco deve finire in una difesa. Quanto ai mezzi 
d’attacco, di regola essi consistono soltanto nella forza armata e nelle 
fortificazioni. Il sostegno del popolo può essere preso in considerazione 
come mezzo dell’offensiva solo per quei casi in cui gli abitanti siano ben 
disposti più verso l’invasore che verso il proprio esercito. 

La forza decrescente dell’attacco
La forza dell’attacco si esaurisce poco alla volta: l’attaccante acquista 
vantaggi (come provincie) che gli potranno valere nelle trattative di pace 
ma che per il momento deve pagare con le sue forze armate, con la 
stanchezza e i morti. L’indebolimento della potenza assoluta nasce:
1. Dallo scopo dell’attaccante che mira a occupare il Paese nemico;
2. Dall’esigenza delle armate attaccanti di occupare il Paese per 
assicurarsi le linee di collegamento e poter disporre di risorse per 
vivere;
3. Dalle perdite subite in combattimento e per la malattia;
4. Dalla lontananza dalle fonti di rimpiazzo di tali perdite;
5. Dalle energie impiegate negli assedi e nella distruzione delle 
fortezze;
6. Dall’allentamento generale degli sforzi;
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7. Dalla defezione degli alleati.

Il punto di culminazione dell’attacco
La maggior parte degli attacchi strategici porta sino a un punto in cui le 
forze sono appena sufficienti a mantenersi in difensiva e ad attendere la 
pace. Al di là di questo punto si ha l’inversione di tendenza, ossia il 
ribaltamento (l’invaso sull’invasore). La violenza di tale ribaltamenti è 
solitamente molto più grande di quanto non sia stata la forza d’urto 
dell’attacco. Questo è il punto di culminazione dell’attacco.

Il punto di culminazione della vittoria
Tra le conseguenze della vittoria troviamo:
1. Il cambiamento dei legami politici → infatti quanto viene vinto un 
grande Stato che ha alleati minori, questi lo abbandonano presto e 
quindi il vincitore diventa più forte con ogni singolo colpo inferno 
al suo avversario; quando invece lo Stato vinto è piccolo, si 
faranno avanti molti difensori se esso è minacciato nella sua 
esistenza.
2. La resistenza crescente presso il nemico → dopo la prima sconfitta, 
infatti, la resistenza è molto più grande di prima; presso il nemico 
la vittoria produce uno stato di rilassamento,mentre sarebbero 
necessari nuovi sforzi per sostenere la vittoria.

VIII libro – Il piano di guerra
Guerra assoluta e guerra reale (?)
Il piano di guerra comprende l’intero atto di guerra: grazie ad esso la 
guerra diventa un’unica singola azione con uno scopo ultimo finale, nella 
quale si ricompongono tutti gli altri scopi particolari. Non si inizia 
nessuna guerra senza sapere che cosa con essa e che cosa in essa si vuole 
raggiungere: ossia lo scopo e l’obiettivo della guerra. La maggior parte 
delle guerre assomiglia a un’esagerazione reciproca nella quale ciascuno 
ricorre alle armi per difendersi e fare paura all’altro. Non si tratta 
quindi di due elementi che si distruggono reciprocamente incontrandosi, ma 
di tensioni di elementi ancora separati che si scaricano in singoli 
piccoli colpi. La guerra assoluta è un concetto teorico di impossibile 
realizzazione, dove la guerra non conosce limitazioni di ordine morale o 
politico per piegare un nemico alla propria volontà. La guerra reale, 
invece, si costruisce nel triangolo dei tre freni: quello politico, quello 
tattico militare e quello degli uomini che combattono (molto incisivo è il 
freno politico: la guerra è al servizio della politica).

Il nesso interno della guerra
Nella forma assoluta della guerra tutto accade per ragioni necessarie, 
tutto si intreccia rapidamente, non c’è nessuno spazio intermedio 
neutrale: c’è solo il risultato finale. Fino ad allora nulla è deciso, 
nulla è guadagnato, nulla è perduto. In questa prospettiva la guerra è un 
tutto indivisibile, le cui parti hanno valore soltanto in riferimento al 
tutto. Esempio: per Bonaparte la conquista di Mosca non era che un pezzo 
del suo piano di guerra e a questo mancava ancora un altro pezzo, ossia la 
distruzione dell’esercito russo; ma Bonaparte non poteva più raggiungere 
questa seconda parte perché l’aveva mancata in precedenza e così l’intera 
prima parte divenne per lui non solo inutile, ma dannosa. Di fronte a 
questa rappresentazione del nesso dei risultati in guerra, ce n’è un’altra 
secondo la quale tale nesso è costituito da singoli successi indipendenti. 
Se accettiamo il primo tipo, nasce la necessità che ogni guerra sia colta 
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sin dall’origine come un tutto e che sin dal primo passo il comandante in 
capo abbia davanti a sé l’obiettivo verso cui convergono tutte le linee di 
azione. Se accettiamo invece il secondo tipo, si possono perseguire 
vantaggi secondari per se stessi e il resto può essere lasciato agli 
avvenimenti che seguiranno. La differenza nell’uso delle due tipologie sta 
nell’esigenza di porre alla base sempre la prima come idea fondamentale e 
di usare la seconda soltanto come una modificazione, giustificata dalle 
circostanze. 

La grandezza dello scopo della guerra e del suo sforzo
La costrizione che si deve esercitare sull’avversario dipenderà dalla 
grandezza delle nostre richieste politiche e delle sue. Nella misura in 
cui queste sono reciprocamente note si ha lo sforzo corrispondente. Ma 
tali richieste non sono sempre così chiare: questa può essere una prima 
ragione della disparità di mezzi che le parti utilizzano. Una seconda 
ragione può essere il fatto che le situazioni e le condizioni degli Stati 
non sono tra loro identiche. Neppure la forza di volontà, il carattere, le 
capacità dei governi sono le stesse, e questa è la terza ragione. Questi 
tre elementi introducono incertezza nel calcolo della resistenza che si 
incontrerà e quindi nel calcolo dei mezzi che si devono impiegare e 
dell’obiettivo che ci si può porre. Chi intraprende la guerra è portato a 
una via di mezzo nella quale può agire secondo il principio di usa le 
forze e di porsi l’obiettivo che sono sufficienti a raggiungere lo scopo 
politico, rinunciando a ogni necessità assoluta del successo. Dunque per 
conoscere la misura dei mezzi di cui si deve disporre per la guerra si 
devono valutare lo scopo politico nostro e del nostro nemico; si devono 
tenere in considerazione le forze e le condizione del nostro Stato e del 
nemico, il carattere del suo governo, del suo popolo, le loro capacità e 
fare altrettanto per quanto ci riguarda; si devono valutare i legami 
politici di altri Stati e le conseguenze che deriverebbero ad essi dalla 
guerra.

Dalla guerra di gabinetto alla guerra di popolo
La guerra è stata un mero affare dei governi e i mezzi di cui i governi 
potevano disporre erano limitati e facilmente calcolabili come entità e 
come durata. In questa situazione, guardando i limiti delle forze nemiche 
ci si sentiva abbastanza al riparo da un disastro completo e, conoscendo i 
propri limiti, ci si vedeva costretti a un obiettivo modesto. Per 
importanza la guerra non era che una diplomazia un po’ rinforzata, in cui 
battaglie ed assedi sostituivano le note diplomatiche. Questa situazione 
tendeva a fare della guerra sempre più un puro affare del governo, 
estraniandola dall’interesse del popolo. Con la Rivoluzione francese 
improvvisamente la guerra tornò ad essere un’impresa del popolo. Dal quel 
momento i mezzi impiegati, gli sforzi che potevano essere fatti non 
avevano più limiti.

L’abbattimento del nemico
L’obiettivo della guerra è sempre l’abbattimento dell’avversario e per 
realizzarlo non è sempre necessaria la conquista totale dello Stato nemico 
e in certi caso neppure la conquista completa dello Stato è sufficiente; 
spesso sono decisive cause particolari e molte cause morali. È invece 
necessario tenere presente le condizioni dominanti dei due Stati. In 
queste condizioni si formerà una sorta di centro gravitazionale, un punto 
di forza e di movimento, da cui dipende tutto. Il centro di gravità può 
trovarsi nell’esercito: se questo fosse distrutto, l’obiettivo sarebbe 
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raggiunto. In Stati divisi da partiti interni, il centro è generalmente 
situato nella capitale; per i piccoli Stati che si appoggiano ad altri 
Stati potenti risiede nell’esercito di questi alleati; nelle alleanze sta 
nell’unione degli interessi; nell’insurrezione popolare il centro 
gravitazionale sta nella persona dei capi e nell’opinione pubblica. È 
contro questi obiettivi che deve essere diretto l’attacco. Se in 
conseguenza dell’attacco l’avversario ha perso l’equilibrio, non gli si 
deve lasciare il tempo di riacquistarlo. Si abbatterà davvero l’avversario 
andando sempre alla ricerca del nucleo della potenza nemica. 
L’abbattimento dell’avversario deve essere costituito da questi elementi:
1. Distruzione del suo esercito;
2. Conquista della capitale nemica;
3. Un colpo efficace contro l’alleato principale dell’avversario.

Obiettivo limitato
L’abbattimento del nemico è il vero scopo assoluto dell’atto di guerra, 
quando lo riteniamo fattibile. Quando ciò non è possibile, l’obiettivo 
dell’azione militare può essere soltanto di due tipi: la conquista di una 
qualche piccola parte del territorio nemico oppure la conservazione del 
proprio territorio fino a momenti migliori. L’attendere momenti migliori 
presuppone che ci affidi al futuro, ovvero la guerra di difesa. Viceversa 
la guerra offensiva, ovvero lo sfruttamento del momento presente, si 
impone quando il futuro offre prospettive migliori al nemico. Vi è poi un 
terzo caso, in cui entrambe le parti non hanno nulla da attendersi dal 
futuro. 

Influenza dello scopo politico sull’obiettivo militare
Non si vedrà mai uno Stato, entrato in azione per la causa di un altro, 
prendersi a cuore seriamente questa causa quanto la propria. Si limita a 
inviare in aiuto una modesta armata: se questa non ha fortuna, considera 
la faccenda quasi chiusa e cerca di venirne fuori nel migliore dei modi 
possibile.

La guerra è uno strumento della politica
La guerra è soltanto una parte dell’interscambio politico e dunque non è 
nulla di autonomo. Infatti la guerra viene provocata soltanto 
dall’interscambio politico tra i governi e tra i popoli, ma di solito si 
pensa che con il suo inizio ogni scambio cessi e si instauri una 
situazione completamente diversa che è sottoposta soltanto alle sue 
proprie regole. Invece la guerra non è nient’altro che una prosecuzione 
dell’interscambio politico con l’immischiarsi di altri mezzi; questo 
interscambio politico non cessa con la guerra, non muta in qualcosa di 
completamente diverso, ma continua nella sua essenza indipendentemente dai 
mezzi. Infatti tutti i mezzi che sostengono la guerra e ne determinano gli 
orientamenti (la propria potenza, la potenza dell’avversario, gli alleati) 
sono di natura politica e dipendono dall’intero interscambio politico in 
modo così stretto che è impossibile separarli. La subordinazione del punto 
di vista politico a quello militare sarebbe un controsenso: è infatti la 
politica che ha creato la guerra. Essa è l’intelligenza, mentre la guerra 
è semplicemente lo strumento, non viceversa. Nessuno dei grandi piani 
necessari per una guerra può essere steso ignorando la congiuntura 
politica. Se ogni guerra deve essere concepita secondo la probabilità dei 
suoi carattere e dei suoi tratti principali quali emergono dai rapporti e 
dalle dimensioni politiche, e che spesso la guerra deve essere trattata 
come un tutto organico, dove ogni singola attività deve confluire con il 
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tutto, allora diventa chiaro che il punto di vista superiore per la guida 
della guerra non può che essere quello della politica. Anche i cambiamenti 
effettivi dell’arte della guerra sono una conseguenza della politica 
cambiata ed essi sono una forte dimostrazione della loro intima unione. 

Obiettivo limitato. La guerra offensiva
Anche quando l’obiettivo della guerra non può essere l’abbattimento del 
nemico, ce ne può essere uno immediatamente positivo che può consistere 
nella conquista di un pezzo di territorio nemico. Infatti in occasione del 
trattato di pace il possesso di provincie nemiche è da considerarsi un 
puro guadagno perché si può conservarle oppure scambiarle con altri 
vantaggi. Tale obiettivo limitato è spesso una conseguenza del culmine 
della vittoria, nel quale l’aggressore spesso rimane indebolito 
dall’offensiva.

Obiettivo limitato. La difesa
Lo scopo positivo della difesa sta nel logoramento dell’avversario, ma 
soprattutto nel semplice mantenimento della propria posizione. Questo 
ragionamento sarebbe valido se si potesse dire che l’attaccante, dopo un 
determinato numero di vari tentativi, si stancasse ed abbandonasse. Ma 
questo non avviene necessarie e quindi, per quanto siano indebolite le 
forze avversarie, il difensore si troverebbe in svantaggio complessivo 
rispetto all’aggressore. Quindi la difesa trova il suo scopo nel concetto 
di attesa, il quale implica un cambiamento delle circostanze, ossia un 
ribaltamento del difensore sull’avversario. 

Il piano di guerra, quando l’obiettivo è l’abbattimento del nemico
Due principi fondamentali comprendono l’intero piano di guerra e orientano 
tutte le altre considerazioni. Il primo principio è quello di ridurre il 
peso della potenza nemica al minor numero possibile di punti di gravità 
(punti nevralgici), evitando molte azioni principali su di essi. Il 
secondo principio è agire rapidamente quanto possibile, quindi non fare 
nessuna interruzione senza una ragione sufficiente. Il primo principio 
della riduzione della potenza nemica ad un solo punto di gravità dipende 
da vari fattori, innanzitutto dalla sua struttura politica. Se si tratta 
dell’esercito di un solo sovrano, non c’è per lo più difficoltà; se si 
tratta di eserciti coalizzati, di cui uno agisce come semplice alleato 
senza un proprio specifico interesse, la difficoltà non è molto maggiore; 
se si tratta di alleati uniti da un obiettivo comune, allora tutto dipende 
dal grado della loro amicizia. In secondo luogo, questo primo principio, 
dipende dalla condizione del teatro di guerra in cui sono presenti i 
diversi eserciti nemici. Se le forze nemiche sono unite in un solo 
esercito in un solo teatro di guerra, esse formano un’unità; se sono su un 
teatro di guerra con eserciti separati che appartengono a potenze diverse, 
allora la loro unità non è assoluta ma esiste un collegamento tra le parti 
sufficiente per coinvolgere con un attacco deciso contro una parte anche 
l’altra; se gli eserciti sono dispiegati su teatri di guerra vicini, anche 
in questo caso, non manca un’influenza decisiva dell’uno sull’altro; se i 
teatri di guerra sono molto lontani l’influenza è improbabile; se si 
trovano in zone molto diverse dallo Stato in guerra, sparisce qualsiasi 
traccia di un collegamento. Il secondo principio riguarda il rapido 
impiego delle forze armate. Ogni inutile perdita di tempo è un dispendio 
di forze; infatti l’offensiva ha, in generale, il suo vantaggio quasi 
unico nella sorpresa: l’azione improvvisa e inarrestabile è il suo punto 
di forza. Ottenuta una grande vittoria sul campo, non si deve parlare di 
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riposo, ma solo di inseguimento, di nuovi colpi da infliggere al nemico 
dove sono necessari, di conquista della capitale nemica, dell’attacco agli 
eserciti alleati al nemico. È necessaria pertanto una rapida avanzata e 
una pressione senza soste della forza armata. Se arriva un punto in cui il 
comandante in capo non osa andare oltre, in cui ritiene di doversi 
guardare le spalle, di allargarsi a destra e a sinistra, allora molto 
probabilmente quello è il suo punto di culminazione. La spinta in avanti è 
finita e, se l’avversario non è abbattuto, con molta probabilità ci sarà 
un ribaltamento. Infatti di regola dopo una pausa necessaria non c’è un 
secondo slancio. Quindi, finché c’è la prospettiva di abbattere il nemico, 
si deve procede contro di lui senza sosta; se il comandante abbandona 
questo obiettivo perché vi vede troppo pericolo, fa bene a fermarsi e ad 
allargarsi; infatti questo comportamento è censurato solo se è preso per 
rendere più idoneo l’abbattimento dell’avversario. 

* Dal Paret – differenze tra Clausewitz e Jomini: Clausewitz insisteva 
che, nella realtà, la guerra era estremamente complessa (per quanto 
semplice in teoria); che la teoria poteva solo gettare luce su questa 
complessità, identificandone e chiarendone i rapporti (ma non prescrivere 
azioni);e che la guerra era intrinsecamente politica e deve essere 
considerata in quanto tale (non era un’attività autonoma, che aveva luogo 
all’interno di confini politici più o meno determinati).

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