von
Marco Torelli
1.1.1.-PARIGI
1.2-SULL’ARTE A PARIGI
(erste Betrachtung)
E pensare che tutta l’arte moderna è nata qui, in questo villaggio.Si, si, si...il Lapin Agile, il Moulin de la Galette, il Bateau Lavoir, le Chat Noir, il Moulin
Rouge.Tutti luoghi pieni di fascino, sicuramente.Ma quanto di quel fascino è diretto e quanto è indiretto?Forse aveva ragione il romanziere Pierre McOrlan a non
rimpiangere i tempi della butte, diversamente dagli altri artisti: la miseria non è poetica.Certo, il tempo vede e provvede: chiude ogni ferita, porta con sé la
vendetta, fa una quantità d’altre cose.Ma soprattutto il tempo è nostalgia; e fa nascere leggende: pensiamo ai favolosi anni sessanta: il ricordo e il parlare di una
cosa idealizzano la cosa stessa e l’accrescono d’importanza ma soprattutto la colorano diversamente, di un colore a dire il vero nemmeno complementare al
colore che aveva al momento.Mi è capitato di vivere un concerto rock piuttosto che un evento sportivo eppoi di leggerne il giorno dopo sul giornale: non si parla
forse di un’altra cosa?Bisogna dunque intendersi sul nome della cosa ma poi capire che non corrisponde a ciò che si è vissuto.Per questo il tempo passato e il suo
ricordo possono addirittura far apparire la miseria poetica.
Questo perché per uno scrittore fantasia e memoria sono esattamente la stessa cosa.Infatti la memoria, lungi dall’essere la rievocazione della realtà e dunque,
in ultima analisi, la realtà, è, per lo scrittore una creazione al pari di un’invenzione letteraria, una cosa viva.In realtà credo che molte cose considerate prive di
vita siano più vive di noi: la Terra sulla quale viviamo, per esempio, con tutti i suoi elementi naturali: mari fiumi montagne pianure valli e deserti.Gli oggetti
sono certamente vivi.E anche il tempo è vivo.(E’ chiaro che in questi concetti di “vita” il requisito basilare non è la riproduzione ma il dinamismo).
Probabilmente le storie su Montmartre era inevitabile che si formassero, così come il giorno segue la notte, basta aspettare.No, non dico che gli aneddoti sugli
artisti raccontati oggi siano frutto di fantasia, quelle non sono storie.Lo sono diventate, nel senso di come sono oggi vissute, del fascino che le ha permeate, come
le favole raccontate ai bambini per addormentarsi; è più importante la forma o il contenuto?
Bella domanda, se pensiamo che come si dice una cosa importa almeno quanto quello che si dice.
Ma dov’è l’ingresso del Metro?Ah, eccolo.Però, straordinario quel Guimard.Pare che questa di Abbesses sia una delle poche entrate rimaste come allora (il
metrò parigino fu inaugurato nel Luglio del 1900). Un’altra è quella di Place de l’Etoile. Se prendo per Marie d’Issy, cambio a Pigalle, Place de Clichy, Saint-
Lazare et voilà: Art et Metiers.
Ma conviene andare. A proposito:
1.3-ANGELI
Chi sono i due personaggi che compaiono da qui in avanti in questi dialoghi?Sono un uomo e una donna.Mi sono infatti illuso di poter riprodurre, sia pure a
livello di caricatura, il tipico modo di ragionare delle donne e d’inserirlo sottoforma di schermaglie con un uomo, anche perché sia presente un commento
esterno, oltre al mio, a quanto compie il personaggio principale (sempre io).Ma non svelerò chi dei due è l’uomo e chi la donna perché ritengo che sia piuttosto
evidente o forse perché non c’è differenza tra i due modi di ragionare e dunque farebbe bene il lettore ad infischiarsene.Questi due angeli (li chiamo così solo
perché sono ubiqui e atemporali, senz’alcun riferimento cristiano) vogliono essere una pausa nella narrazione, una pausa anche umoristica, perché no, anche se
credo sia solo un altro me che di tanto in tanto alza la testa dal foglio per vedere quanto ha scritto finora. (un po’ come la “vocina” di Magnum)
Aggiungo solo che donna ed uomo accompagneranno il lettore fino alla fine. A proposito:
”Pensi che ce la farà?
Che ne so?Siete voi a sapere tutto.
Smettila.Dico sul serio.
Mai discutere con voi.
Ti ho detto di smetterla.Sono preoccupato.Tutti vorremmo farcela.
Farcela a far cosa, scusa?
Mi ha detto ch’è alla ricerca del senso della vita.
Ah ah ah, ti ha detto così?Da quando in qua frequenti i matti?
O perlomeno di qualcosa per cui valga la pena vivere.
Ma non esiste.
Così dicono; ma quando si mette in testa qualcosa…
Per cui valga la pena vivere?
Ma la vuoi smettere?Non è una ricerca naturale?
Naturale è il mal di testa: quello che gli verrà a furia di speculare, ammesso ne sia capace.
Tutti ne siamo capaci.
E nessuno è giunto a niente.
Ma lui vuole trovare la sua verità.
Quand’anche assimilasse tutta la memoria del mondo, ed è impossibile, tutt’al più saprebbe d’essere un ignorante, ma resterebbe ignorante, con buona pace di
Socrate.E un ignorante, credimi, certe cose non le capisce.
Parli con cognizione di causa?
E poi sono io che dovrei smetterla?
Ma se non ti rendi nemmeno conto di quant’è inquieto.
Si arrangi, mica siamo i suoi genitori.
Anche in quel caso potremmo fare ben poco.
Dunque?
Dunque seguiamolo; saremo la sua ombra, hai da fare?
Mi prendi in giro?”
Accidenti, cioè, “zut”(siamo in Francia, Fuga per la vittoria), ho solo 80 franchi (quanto fa in euro?).Andrò alla Fontaine Gourmand: per 72 ff mi daranno
hors-d’oeuvre, viande, dessert e un bicchiere di vino.No, non sarà Bordeaux, ma mi scalderà comunque in questo giorno di pioggia.La pioggia a Maggio!E che
freddo!Fortuna che Parigi si dilata con la pioggia.Si, voglio dire: in genere il sole dilata gli spazi, allunga le distanze; la pioggia fa il contrario: le città si
“chiudono” con la pioggia.Parigi no.Sia sui Boulevards che qui si respirano gli stessi grandi spazi.Garçon?E’ maledettamente bello questo bistrot.Non come
quelli, fintamente dimessi, di Place de Vosges.E quanto mi piace mangiare.E bere.Ma ho pochi soldi.Se non m’avessero offerto un bicchiere venendo in qua...e
mi sa che chiuderò con una Marie-Brizard.Già, ma per tornare indietro?Ci penseremo.Si, mi piace stare a tavola.Intanto è una situazione tranquilla: che problemi
possono capitarti a tavola?Non ti rompono le scatole: fondamentale.Se penso alla pressione umana cui ero sottoposto solo un anno fa.Avevo tutto.Ed era tutto
quello che avevo.
Che incubo le persone, però.Sono tutti così limitati.Non hanno nessuna voglia di essere onesti, soprattutto con se stessi.Questo perché non hanno intrapreso la
mia ricerca.Ma ce la farò?; mi ronzano le orecchie: qualcuno l’ha già detto?Bè, comunque è di moda venire a Parigi, da sempre, così come da sempre si va alla
ricerca di se stessi.Ed io sono venuto a Paris alla recherche di me meme.Più di così.Sono stato anche fortunato a trovare lavoro come cameriere.L’unico
cameriere a Parigi con l’accento emiliano (laver a sec= laver a sec: è la stessa lingua).
Debbo sopportare qualche risata da parte dei clienti: ma allora non è cambiato molto da quando avevo il negozio!Ridevano i clienti e pure i negozi vicini, non
chiedetemi perché.Andavo a casa e non potevo dirlo perché rideva pure mia madre.Vedi che serve venire a Parigi?Prima non potevo capirlo: cos’è una risata?Il
servizio però è un po’ lento.Garçon?Capito tutto questo, cambia completamente il rapporto con la società, si arriva ad avere maggior fiducia in se stessi, fino a
pensare che forse il dissenso è proprio indice del fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta.Il grosso rischio è diventare talmente convinti delle proprie
idee da calpestare le altrui.Ah, ecco l’entrecote!Merci.O sono troppo drastico?Ma no.
L’addition, s’il vous plaite.
1.3-ANGELI
1.1.3-ANCORA PARIGI
(third consideration)
Brutto avere il blocco creativo.(Su questo tornerò).Sono qui nella mia camera da letto, a fine giugno, senza condizionatore, con una stilografica in una mano e
una bottiglia di whisky a portata dell’altra (è vero, non è stereotipo), e debbo farmi venire buone idee?Ma come faceva il mio amico Guy (Guy de Maupassant,
Fecamp 1850-Parigi 1893, N.d.A.)?E’ proprio vero che scrittori si nasce. O si diventa, ma col tempo.E molta lettura.Per di più ho poco tempo: debbo andare in
biblioteca a consultare i siti internet che presentano i premi e i concorsi letterari: perché io voglio vivere di scrittura, merito o demerito che sia.Già, ma non
sarebbe meglio finire il romanzo?Che sconsiderato.
Eppoi, la fretta è nociva alla creazione.Forse non dovrei pensarci e le cose mi verrebbero in mente da sé.Forse era meglio tenere il negozio.Cosa faccio fare al
mio protagonista?Cosa gli faccio pensare, soprattutto?Ma come faceva il mio amico Italo (Italo Svevo alias Ettore Schmitz, Trieste 1861-Motta di Livenza,
Treviso 1928, N.d.A.)?Come si fa a scrivere bene?Ecco, un altro attacco di panico.
E cos’è questo sonno che incombe? Troppo whisky?
1.3-ANGELI
”Ma che fa, esce dal bistrot e non torna a casa?Tra poco ha il turno al cafè.
I soldi non gl’interessano.
Nemmeno pagare l’affitto gl’interessa?E pranzare nei suoi amati bistrot?E nelle sue amate brasserie?
Si, questo si, starà andando a cercare il metro.”
Perché non ho preso il metro?Ah, già, non ho i soldi per il biglietto.E questi cosa sono?E’ proprio vero che la notte porta consiglio.Ero così assonnato
stamattina che ho preso il paio di pantaloni sbagliato.O forse era quello giusto.Voilà, nella tasca, i cinquecento franchi mensili che mi manda mia madre.Per una
volta non li spenderò tutti in alcool.Forse in puttane.O in libri.Una scelta vale l’altra.Sono come mio padre: tanti ne ho e tanti ne spendo.Poi li rimpiango.Son
fatto così.Chissenefrega dei soldi.Ti danno più libertà, questo è vero.
Ma creano nuove voglie che diventano bisogni.E questo è male.Comunque deve valere la pena guadagnarli.Nel senso che non mi va di sbattermi oltremisura
per averne di più.Comunque i sei franchi e cinquanta per il bigletto ce li ho.Vediamo, Republique, Gare de l’Est, Saint Michel, Cardinal Lemoine.
La partita dell’Italia è finita, posso tornare a scrivere.Il guaio è che la televisione ti fa diventare abulico: dopo mi mancano sempre le idee; ho la scaletta di
fronte e non riesco a svolgerla.Dovrei farmi ipnotizzare per regredire con la mente ai tempi dei miei temi di classe.L’unica cosa da fare è buttare giù l’ossatura,
poi la integreremo.A scuola si parlava di trama e d’intreccio.Qui il problema è l’intreccio.E il lessico.E la sintassi.Tutto.Avevo un negozio...Mah, il
lavoro!Quanti non preferirebbero affidarsi al libero ozio, come diceva il mio amico Arthur (Arthur Schopenauer, Danzica 1788-Francoforte sul Meno 1860,
N.d.A.), piuttosto che tribolare per vivere?
Questa è una grossa verità, è come dire, dalle mie parti si diceva quand’era tutta campagna, che la carne migliore è quella intorno all’osso. Vero niente, ma
allora c’erano solo gli ossi se non eri ricco sfondato. Per i cristiani era un lusso, per i cani, off-limit.
Così si dice che senza il lavoro, sai che noia? Vero niente: e poi nessuno si sparerebbe su una Rolls, per non rovinare la pelle Connolly (questa è vecchia). Lo
ripeto: quanti preferirebbero non lavorare?Invece, a causa dei soldi, il lavoro è la vita.Avevo un negozio...Anche solo le classiche otto ore diventano presto il tuo
modo di vivere, e di pensare, e di sentire.Alcuni pensano a queste otto ore come al part-time.Ma quale part-time, su ventiquattro in totale!Togli mangiare e
dormire, che ti resta?Per questo mi trovo qua.
Sul lavoro si deve star bene (avevo un negozio...).Il negozio penso sia un concentrato di vantaggi pratici, economici e filosofici.Non hai un padrone col quale
non andare d’accordo; non hai orari rigidi come se dovessi timbrare il cartellino; guadagni di più che da dipendente (nella maggiorparte dei casi); puoi fare
quello che vuoi tra un cliente e l’altro, non ti butti in qualcosa per la quale non sei portato (come me che tento di scrivere), ti ritagli il tuo spazio: piccolo è
bello.Sono solo due gli svantaggi pratici: la noia, ma quale lavoro alla lunga non è monotono?, e l’insicurezza di riuscire a vendere sempre, ma tanto, come si
dice, di sicuro ci sono solo le tasse e la morte, e la cattiveria dell’uomo.
Il motivo per cui ho mollato è un altro ancora però.E’ il rovescio della medaglia.Ed è questo: è un luogo comune fino a un certo punto che il commerciante ha
un’anima volgare.Io sentivo d’involgarirmi.Non solo perché penso d’essere uno spirito superiore (e lo sono), ma soprattutto per l’influenza negativa che ricevevo
da chi mi stava intorno (da mia madre ai miei colleghi).Non scendo in dettagli (è evidente che sono accadute cose spiacevoli di cui non voglio parlare), il punto
è: se si sta male, nel senso che la persona soffre durante le ore lavorative e dunque la qualità della vita scade terribilmente, vale la consolazione di avere
comunque un negozio?A questa domanda il mio sentire, più che il mio ragionare,dà una risposta negativa.
(Piccola nota- sempre per essere onesti: in un racconto di Maupassant si sostiene invece che il commercio, se va bene, è in grado di dare la perfetta felicità).
E’allora che ho capito che il negozio non va inteso come un ideale verso il quale tendere,ma come un possibile modo per potere stare un po’sereni, cioè a dire
non rappresenta il fine, ma il mezzo.E se la condizione principale non viene soddisfatta non è meglio cercare un lavoro che ti faccia star bene? Tieni duro, mi
dicevano, ma per il bene di chi? Se era per il mio, è una contraddizione in termini, perché proprio resistendo mi facevo del male.
Sii forte, mi dicevano: sicuramente la mia persona ha ceduto, ma preferisco essere forte in un altro modo: andandomene. L’andarsene è forse il supremo segno
di saggezza, in queste circostanze. E’ come etichettarsi: ”iosonosuperiore”. Ed è anche sinonimo di forza d’animo, o di pazzia, se penso che qualche anno,
all’incirca una decina, l’avevo pur investito in quell’ attività che fattori esterni ad essa e del tutto gratuiti, mi hanno fatto passare la voglia di svolgere
(Pirandello).
Che importa? Quegli anni sono passati. Tutto sommato finita la formazione è forse finita la parte più eccitante. Eppoi quella disciplina è si o no un
miliardesimo di tutte le discipline, attività, interessi di questo mondo? Lo confesso: ho sempre voluto fare il cameriere. E vivere a Parigi! E lo sto facendo.
1.3-ANGELI
”Lo senti come parla?Dopo quello che hanno fatto i suoi per sistemarlo.
Già, e rompergli i coglioni fa parte dei diritti dei suoi?
Strano che il tuo sesso parli così!Si, penso che i genitori acquistino anche questo diritto.
E pensi male.Ma te lo concedo.E lui ha il dovere di subire?
Bè, francamente no.
E allora?
Comunque è stato un po’ avventato.
Bisogna pur morire di qualcosa!
Gli vuoi molto bene, vero?
Molto.E’ troppo buono e questo mondo troppo ingiusto.
Dici che una cosa l’ha già capità?
Che non sono i soldi né l’attività il senso della vita?
Si.
Bè, penso proprio di si.
Altro blocco creativo.I romanzi di vita sono sorprendenti: da un lato sei agevolato perché non serve l’erudizione necessaria al romanzo storico o al saggio, per
esempio, né la fantasia indispensabile al romanzo giallo o nero o anche rosa. Dall’altro lato devi concentrarti sullo scriver bene se vuoi rendere i pensieri e le
esperienze del protagonista, specie se così comuni, con il rischio peraltro di compilare un diario.
Rischio che corsi davvero qualche tempo fa, quando ancora avevo il negozio e mi venne proprio voglia di scrivere, non so se per sentirmi vivo o meno come
dicono i Grandi, ma l’impulso era fortissimo.
Ne uscirono queste pagine alla “Joyce della Domenica”.La definizione sembra pretenziosa, lo so, si potrebbe anche dar del pazzo all’autore.E sarebbe
azzeccatissimo (vedi anche il Cap.24.1).
D’altra parte non ho ancora presentato il pezzo. A proposito:
======================================================================
LA MIA VITA
Visto?
Ed ecco un esempio di quale può essere il mio rapporto con una ragazza attraverso tre lettere che scrissi davvero all’epoca
della già citata Federica (poi ne mandai una sola, non ricordo quale, ovviamente rimasta senza risposta):
2.3.1.-DALLA PRIMA LETTERA ALLA FEDE
CIAO FEDE,
Ok.,Ok., di me non te ne frega niente.Debbo dire che non ti do neanche torto!
Ti scoccia se teniamo un rapporto epistolare a senso unico?
Ogni tanto ti scrivo qualcosa, fammi solo la cortesia di leggerlo (subito dopo lo puoi anche cestinare).Spero che se ti scoccia tu
me lo faccia sapere (oppure continua a prendermi in giro tout-court, tanto abbiamo fatto sessanta, facciamo sessantuno…).
Barra con una crocetta i motivi per i quali ti sto “su”:
°sono di una noia mortale
°sono sfigato al cubo
°ho troppi problemi
°sono un rompiballe
°sono brutto
°ho l’alito pesante
°non ho né il Mercedes né il fuoristrada
°non ti ho trombata (scusa per l’espressione)
°tutti i motivi precedenti
Scommetto che la risposta giusta è l’ultima!
Adesso che mi sono automassacrato, è ora di fare qualche critica a te, non credi?
Sei una delle donne più false di tutti i tempi (in gergo si dice che “la sai contare”)!
Hai un sorriso perenne sul viso che farebbe rabbia alla Gioconda (che cazzo pensi?).
Non scendi mai a compromessi e non concedi appelli.Questo depone a tuo favore, anche perché ti dà un carisma da “figa
d’acciaio”.Però, sono convinto che sei troppo dura.Troppo.Faresti bene se quest’atteggiamento ti rendesse immune da problemi,
pensieri, preoccupazioni.Invece ho idea che possa portare alla nevrosi.Sii più sportiva, cazzo!Con te non se ne esce: ti sembrava
il caso di negarmi un incontro dopo due anni che non ci sentivamo?Di che tipo di fregatura avevi paura?Non ti sembra di
esagerare?
Comunque meglio essere come te che troppo ingenui (vedi il sottoscritto), perché poi si resta fregati, soprattutto dalle donne
(ne sai qualcosa?).
Invidio il fatto che, a differenza di me, non sei per niente timida.Te che fai psicologia, cosa mi sai dire della timidezza?A
proposito, l’approccio alla stazione di Reggio, in due tempi, è stato da manuale. Complimenti per la tua pittoresca uscita dal
treno (Intrigo Internazionale, North by Northwest). Ma perché ci tenevi tanto a conoscermi?Veramente non riuscivi a stare
sola?Ti dirò le mie impressioni su questo episodio alla prossima puntata.
STAMMI BENE
Marco
P.S.ma a che età l’hai fatto la prima volta?
Ok.,Ok.,scherzavo!
CONTINUA…
(ANZI, PUO’ DARSI CHE SIA COSI’,
PUO’ DARSI CHE NON SIA COSI…)
2.3.2.-DALLA SECONDA LETTERA ALLA FEDE
CIAO FEDE! Novellara,25/5/’99
So già cosa ti stai chiedendo: chi mi scrive?
Sono MARCO, quello del treno, quello di una noia mortale, quello che non si fa mai i cazzi suoi, quello che si è comportato in
modo molto stupido (anche se la tua buona fede non era a prova di bomba!).
Ti scrivo per tentare l’ultima carta (sarebbe un vero peccato perdere un’amica come te, non credi?, la fede o l’hai o non ce
l’hai!).
Di rendermi ridicolo non me ne frega niente (non ho niente da perdere, non credi?).Invece ci tengo molto a restare in contatto
con te; il perché te lo spiegherò (se vorrai).Arrivo al punto: t’interessa un rapporto di tipo “epistolare”? (nel senso che avresti a
che fare con un “pistola”? ah,ah,ah!).Chissà, potrebbe essere divertente.
NON PREOCCUPARTI!
NON M’INTERESSANO LE CONFIDENZE!
SI PARLEREBBE DI QUELLO CHE VUOI TE.
Non ti romperei le scatole, anche perché ho realizzato che sei inattaccabile.
Se vuoi poni tu le condizioni.
Non ti sembra una buona idea?Non dovresti neanche perdere del tempo per vedermi, solo 10 minuti per una lettera.Te la
senti?
Ti prego di rispondermi comunque.
(anche per un “no”).
Marco
P.S.non abusare della scusa del moroso geloso!
Marco
P.S. PERDONAMI, MA NON HO BEVUTO LA SCUSA DEL MOROSO GELOSO!TI MANDO UN BACIO
Visto?
E queste lettere sono solo un esempio delle vette che possono raggiungere le mie paranoie nei confronti delle donne.Ma sono paranoie?E comunque, penso
anche ad un utilità della paranoia facendo il parallelo con i “morti concetti della filosofia”.I quali sono sì morti , ma nella misura in cui ci offrono la più alta
consolazione alle nostre miserie, sono forse più vivi che mai.Allo stesso modo, laddove le “pare” mi fanno evitare guai peggiori, ben vengano.Mi rendo conto
che questa possa sembrare ignavia e sappiamo cosa Dante riservi agli ignavi: la cosa non mi spaventa perché considero la Commedia Divina per poesia ed
erudizione, non mi fa simpatia la morale cristiana sulla quale è conformata.Eppoi lui è l’autore più orgoglioso della letteratura italiana (e d’altra parte io non sono
credente).
(Ogni tanto rileggo che caspita ho scritto, per “cesellarlo” e mi sembrava di aver messo una cosa che non riesco più a trovare scorrendo velocemente il testo-
farlo più lentamente mi scoccia. Così lo aggiungo ora, tanto il lettore saprà già a quest’ora che, come in un film, quello che vede-legge non è detto sia stato
scritto-girato nell’ordine in cui lo vede). La cosa è questa: Diogene di Sinope, allievo di Antistene il cinico, a sua volta allievo di Socrate, consigliava
l’autoerotismo al fine di scongiurare ogni guaio con le donne.
Un’altra cosa che mi è venuta in mente, è che il vero sesso forte, nel sesso, (io sostengo: in ogni cosa) è la donna. Come dice Rocco, il famoso pornodivo, (ma
si sapeva già, basti pensare all’incredibile capacità di avere un ulteriore orgasmo in fase di risoluzione- dunque non è neanche una risoluzione, sono sempre
pronte (!), cfr. Masterson-Johnson, L’atto sessuale nell’uomo e nella donna, Feltrinelli, 1966): “non c’è uomo che riesca a competere, specie per durata, (ma
anche per aggressività, maliziosa determinazione- lui non lo dice) con qualsivoglia donna”.
Dunque, se evito di fare sesso evito anche la figuraccia, no?
O forse ho paura, paura dell’assoggettamento, come la conquista di Felton da parte di Milady ne I tre moschettieri, o come nell’Otello di Shakespeare (so che
qui è Iago a corrompere Otello, non Desdemona; ma appunto perché si comporta da donna- lo scambio tra i sessi è uno dei temi della poetica scespiriana).
A proposito:
3.1.-INTRODUZIONE A BOLOGNA
Ma se invece che a Parigi ambientassi questo lavoro a Bologna?Avevo pensato dapprima a Parigi per una serie di motivi.Intanto bisogna mettere in conto un
indefinito e vago intento di emulare certi scrittori o quantomeno certe tradizioni letterarie, intento o per meglio dire voglia secondo la quale ambientare un libro a
Novellara (io sono di questo paese) era troppo banale.In secondo luogo a Parigi ci sono stato più di una volta e quindi ci sarebbe comunque una relazione tra il
luogo e l’autore.
Vero è che Burroughs ha scritto Tarzan senza mettere piede in Africa.
Infine, dovendo descrivere un distacco da tutto e da tutti dopo l’esperienza fallimentare del negozio, mi sembrava un’idea eccellente trasferire l’azione in una
terra lontana, addirittura in un altro paese, la Francia, perché non c’è bisogno di andare in India per raccontare uno smarrimento, come fa Hesse, anche se
“Siddartha” è sicuramente il miglior libro “laico” (non cristiano) sull’argomento, oltre ad uno dei migliori in senso lato.
Poi però mi è venuto in mente, come peraltro ho già detto, che per uno scrittore il ricordo equivale alla creazione: si tratterebbe allora di attingere a ciò che ho
vissuto, semplicemente, e il libro verrebbe fuori da sé.(Il massimo sarebbe credo spacciare un invenzione per vita reale, non per ciò che si è realmente vissuto,
ma che si sarebbe potuto vivere, coerentemente a come si è.Ma non sono un così grande scrittore, ammesso che sia uno scrittore).Ambienterò perciò il libro a
Bologna, città nella quale ho vissuto, anzi, che ho vissuto per ben due mesi (N.B.senza frequentare l’università).Nella speranza, come molti, almeno in Italia
perché all’estero è un fatto naturale dopo i diciannove anni, di riuscire a vivere da solo.Non ci sono riuscito, non credo sia nemmeno dipeso da me, e comunque
non era nemmeno lo scopo principale-o forse non era questo lo scopo.
Eppure, di quell’unico mio amore per una città, non ho saputo, né seppi mai, il perché (di quell’amore) (Eco).Bologna infatti è “double-face” (come è già stato
detto da qualcuno): in parte è un paese, anzi un villaggio medievale, in parte è una moderna metropoli.
Il perché di quest’assetto urbanistico è da ricercarsi nella sua storia. A proposito:
3.2.-STORIA DI BOLOGNA.
3.3.-MARZABOTTO
(uno scherzo)
Bologna, o i suoi dintorni, è poi sede della più grande strage nazi-fascista in territorio italiano, comunemente nota con il nome di un comune: Marzabotto. Ci
andai in gita con le Elementari, e ne voglio riparlare qui perché non si può trascurare parlando di Bologna, perché ci sono tornato recentemente e perché dire
qualcosa sul nazismo è praticamente obbligatorio oggi: è un ottimo tema.
Basta guardare quanti film e libri sono usciti e stanno uscendo dal 1995 ad oggi. D’altra parte siamo tutti figli di quegli avvenimenti, anche chi non ha avuto la
guerra in casa. Sennonché personalmente trovo che la visione delle cose andrebbe se non ribaltata, quantomeno riveduta e corretta.
E mi spiego. Prima bisogna premettere l’importanza che ha assunto il nazionalsocialismo nella storia del pensiero: nel senso che questo fascismo è da un lato
il risultato di una serie di concezioni storiche molto anteriori (vedi l’antisemitismo ma che io chiamo credo più propriamente giudeofobia), dall’altro ha in pratica
messo in atto le sue idee con una violenza mai più riscontrata ad oggi. Si faccia caso alla frequenza dell’argomento in qualsivoglia campo, anche non storico, per
tutto il dopoguerra ad oggi. Se si sta parlando di pomodori, si può star certi che Hitler fa capolino dalle pagine del libro.
E non solo qui in Italia, dove abbiamo avuto una guerra voluta e persa, ma anche nelle culture di chi la guerra la vinse, tranne forse in quella dell’Unione
Sovietica che la trattò astrattamente, come gloria nazionale per aver vinto, e cercando di rimuovere ogni altro aspetto.
(L’ultimo film su Hitler, Der Untergang, La Caduta, è stato girato in parte a San Pietroburgo: l’attore girava per le strade truccato da Fuhrer e le persone lo
guardavano con terrore; ciò non succederebbe a Miami). Ma questo potrebbe sembrare una sorta di record negativo, intendo il parlare molto di una cosa, chè
qualche neo-nazi potrebbe prenderlo come argomento per sostenere l’importanza e dunque il valore, la validità di quello ch’è successo.
Come i famosi sei milioni di ebrei uccisi (io non credo a questa stima): a forza di ripeterlo, qualcuno potrebbe dire: si poteva far meglio.
Il punto è un altro: PERCHE’ se ne parla tanto?
Io ho una mia risposta: si crede comunemente, forse, che il massimo della ferocia, della barbarie, della crudeltà, dell’essere disumani, dell’essere ingiusti,
dell’essere un’insieme di pazzi o di mostri o di demoni o del vivere una follia collettiva, per giunta di stato, del compiere stragi gratuite, del voler fare il male,
dell’essere per questo ignoranti culturalmente, dell’abbandonarsi al sangue, dell’inebriarsi del sangue, dell’essere dunque creature infernali, non uomini,
dell’essere tormentati dal dubbio e di perseverare comunque negli orrori ed errori che si stanno compiendo; si crede, l’uomo della strada crede, chiunque crede,
io stesso ho creduto, che tutto questo sia appannaggio esclusivo del Nazionalsocialismo.
Non vuole essere una difesa di questa dittatura che, solo in quanto tale, andrebbe di per sé condannata (però il primo fascismo è stato quello italiano e Hitler lo
sapeva): sto solo dicendo quanto anche Spencer Tracy ebbe a dire a Norimberga in Vincitori e Vinti: “singoli omicidi e atrocità non costituiscono il gravame di
questo processo, bensì la cosciente partecipazione ad un sistema di governo che ha elevato l’omicidio e il sopruso a propria ragion d’essere. La verità
più sconvolgente uscita da quest’aula è che persone dotate e finanche eccezionali abbiano potuto snaturare se stessi fino ad appoggiare un simile Stato”.
E vorrei continuare su questa linea.
Prima i fatti: nell’Agosto-Settembre del 1944 il maggiore Reder, di soli ventinove anni, su comando del generale Kesserling ed al comando della 16. SS
Grenadier-Panzerdivision, ed in seguito all’armistizio di circa un’anno prima, dove noi italiani facemmo un voltafaccia agli occhi dello stesso alleato che ci
eravamo scelti, schierandoci con gli angloamericani, intraprese la risalita dell’appennino tosco-emiliano dalla Versilia giungendo fino al bolognese, volendo fare
dietro di sé, come da ordini, “terra bruciata”. Dopo aver già compiuto l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, oltre cinquecento civili trucidati, dal 29 Settembre
fino ai primi giorni di Ottobre mise in atto quella strategia del terrore per la quale si era già segnalato in Polonia ed Unione Sovietica, uccidendo, in vari comuni
per la verità, non solo a Marzabotto, (Tagliadazza, Caparra, Castellano, Caviglia, Vado di Monzuno, Grizzana) complessivi milleottocentotrentasei civili; del
tutto gratuitamente dunque. Lo scopo era quello di reprimere la brigata partigiana Stella Rossa, che nella zona contava più di duemila affiliati.
I racconti dei sopravvissuti si stentano a credere. Fin qui ci siamo, no? Non si tratta ora di dire: ha fatto bene, nemmeno se un marzabottese ti tratta male
(com’è capitato a me) e ti verrebbe da pensare: “i suoi saranno tra quelli che Reder ha risparmiato, perché lasciare le cose a metà?” .
(Cfr. Schopenauer: “non c’è pagina abbastanza seria da non ammettere lo scherzo”).
In visita all’ossario-sacrario però, riflettevo sul fatto che l’uomo, (e fino a prova contraria i nazisti sono, aihmè, uomini), specie in guerra, si è sempre
abbandonato al sangue. Quando i Vichinghi presero Luni, nell’800, per prima cosa uccisero il vescovo, proprio come si è fatto col parroco di Casaglia, poi si
riversarono nelle strade ad ammazzare chiunque si trovassero innanzi, donne, vecchi, bambini. Quando i turchi ripresero Costantinopoli, nel 1453, per prima
cosa uccisero il vescovo, e per i cristiani non vi fu alcuna pietà. Quando gli americani, a guerra finita e vinta, nel 1945, decisero di prendere Dresda per
rappresaglia, vi furono tre (sic!) ondate di bombardamenti, che uccisero non meno di quattrocentomila (sic!) civili: gli uomini di Reder erano ladretti di galline,
in confronto!
E potrei continuare.
Ci si stupisce poi del fatto che non ci sia stato pentimento.
A parte che il Reder non poteva pentirsi più di quanto non si pente un cristiano che ammazza centinaia di turchi durante le crociate, su questo in effetti
clamoroso caso di impunità (mi aspettavo che lo mettessero a morte, in fondo chi ha ucciso deve pagare) avrei una mia teoria. Ed è che forse in casi simili si
sente che, per quanto abominevole, di azione di guerra s’è trattato. Ho notato, riguardo le fosse ardeatine per esempio, una bonomia e comprensione del tutto
inaspettate non nel processo- farsa che c’è stato (Priebke l’avevano già assolto ma secondo vox populi hanno poi condannato un ultraottantenne), bensì sui
quotidiani, che citavano addirittura le parole di Kappler a Gaeta: “non mi sento innocente sul piano morale e su quello religioso.SUL PIANO LEGALE
AVREI DA DISCUTERE”. E da più parti si cominciava finalmente a dire che la vergogna di quella vicenda fu il vile (e prevedibilmente inutile, anzi dannoso)
attentato di via Rasella. Fu un azione degna delle targhe di cui parlo più sotto.
Coraggio becero e goffo, animalesco. Stupido. Di una stupidità estrema. Com’erano i partigiani stessi, direbbe mio nonno.Forse si comincia a metabolizzare,
come credo sia giusto, il sangue della Seconda Guerra Mondiale; ora non è più il nostro sangue ma il sangue di tutti, anche se la RAI continua a mostrare un
ridicolo schieramento anti-fascista nei documentari sulla guerra, come per fomentare l’odio a sessant’anni di distanza. Come quando depreca il comprensibile ed
innocuo raduno annuale di ex-SS ultraottantenni austriaci. Non credo rivogliano il nazismo, a differenza dei giovani neonazi. Ricordano solo il loro servizio
militare, che ha coinciso con la loro giovinezza e purtroppo con la guerra.
La RAI invece fa di tutta l’erba un fascio, non riesce a dimenticare. Cosa piuttosto grave per una tivù di stato.
Si parla spesso di dover ricordare. E ci si dimentica l’importanza del saper dimenticare, quand’è opportuno.
L’antifascismo ha bloccato per anni (decenni?) il paese, al pari del fascismo stesso, com’era ovvio.
Il bello è che TUTTI abbiamo creduto nel Duce ed è incomprensibile come possa esserci stato il Ventennio in un paese saggio e civile quale si è poi rivelato
(?) il nostro. D’altra parte, ci si lamenta oggigiorno dei nostri politici, ELETTI DA NOI (!).
Cfr Ferrarotti: “forse abbiamo uomini al governo che non meritiamo; tuttavia, li si elegge noi, li si sceglie noi, li si rappresenta noi”.
(Ciò che segue è da intendersi tra il serio e il faceto-ma neanche tanto).
Il più grosso motivo di riflessione mi viene dalle targhe che leggo nei monumenti commemorativo-patriottici quali il sacrario di Marzabotto. Sono dettati
unicamente dal dolore, o dall’idiozia.
Non credo ci si faccia caso: la scritta all’ingresso, del tenore “ALLA PATRIA!”, o “RICORDATI DEL SACRIFICIO!”, t’inibisce di per sé la capacità di
giudizio, forse per persuaderti che ci sono morti di serie A e morti di serie B.
Accanto alla croce, cristiana, cioè simbolo di un tizio che non faceva che ripetere ama il tuo nemico, si può leggere: MEDAGLIA D’ORO AL VALOR
MILITARE A (cognome e nome), PERCHE’ STRAZIATO NELLE CARNI DALLE TORTURE E GIA’ FERITO ALLA GAMBA, AL BRACCIO, ETC.
(Rambo?) GRIDAVA IL PROPRIO ODIO ALL’INVASORE GERMANICO.
O togliete la croce, e relativo altare, o togliete la targa. Tutt’e due, non è possibile. Non è un’opinione. Gridare il proprio odio non è così cristiano, tutto
sommato. Un simile Dio, se esistesse, sarebbe lo stesso Dio partigiano dei nazisti (Gott mit Uns!). E’ il dolore che parla. D’accordo.
Ma quale esempio di distensione tra i popoli, ora che c’è un'altra guerra “medievale” di religione, Dio vs. Allah?
Un’altra targa recita: MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE A (cognome e nome), PERCHE’, AVANZANDO CONTRO LA MITRAGLIATRICE
NEMICA PIAZZATA PROPRIO DAVANTI A LUI, TIRAVA BOMBE A MANO (Rambo?) E S’IMMOLAVA COSI’ A SOLI SEDICI ANNI.
Straordinario! Un coglione. Probabilmente gli è caduta la bomba nella manica, colpito dalla mitraglia mentre cercava di tirarla. Su simili eroismi ha ragione
Pozzetto in Sturmtruppen: meglio un codardo vivo che un eroe morto!
Un’altra ancora recita: M.D.V.M. A (cognome e nome), PERCHE’, DENUNCIANDO DA SACERDOTE I CRIMINI IN FACCIA AL NEMICO, VENIVA
ABBATTUTO ANCH’EGLI.
Ma va? Pensava che ringraziassero? Allora ha fatto bene, come ha fatto, Pio XII a tacere.
L’unica targa sensata è la quarta, di un partigiano (tra parentesi non erano certo combattenti regolari, ma questo apre un altro discorso) che per oltre un anno
ostacolò l’avanzata nemica in molti comuni dell’acrocoro, per poi soccombere ovviamente.
Qui il coraggio ha avuto un’utilità. Diversamente, anche un leone è coraggioso e nessuno gli dà medaglie.
All’uscita dal sacrario poi, ho notato una cosa che avevo avuto modo di notare anche altre volte, per la verità.
Le targhe all’esterno infatti, commemorano buona parte delle stragi di guerra, passate e presenti (e future?).
L’effetto mi appare personalmente ridicolo: come dire: già che ci siamo, mettiamoci anche questa.
Mancano solo le guerre puniche. Una cosa simile è presente nell’atrio del Municipio di Goito, nel mantovano: non è un ingresso, è un libro di testo di epigrafia
retorica. Vi sono dediche per tutti, dai protagonisti delle guerre risorgimentali al fornaio del paese, caduto eroicamente su un sacco di farina (ma fortunatamente
rialzatosi).
Ricordare è un dovere: ma non sentirsi per forza “in missione per conto di Dio” (Blues Brothers), è un diritto.
A proposito:
3.3.1.-ANCORA SU BOLOGNA
A Bologna ci andai per trovare me stesso, come si suol dire, e trovai solo una magnifica città, oltre al lavoro che però lasciai perché non avevo
l’appartamento.Eppure quei due mesi a Bologna sono certamente tra le esperienze migliori, in assoluto, di tutta la mia vita (ce ne sono anche altre,
beninteso).Bisogna sapere che sono pigro, ma se decido di conoscere un testo piuttosto che una città, mi metto di buon grado a lavorare (lo stesso non si può dire,
ahimè, del lavoro manuale…).Sto leggendo la “Recherche” di Proust e se l’autore l’avesse scritta nei tempi in cui io la sto leggendo, avrebbe fatto in tempo a
vederla pubblicata tutta in vita.
Bene, tutti i giorni, alle otto in punto (di mattina ovviamente…), partivo da casa mia, avevo l’appartamento ma pagato solo per due mesi e visitavo un museo
piuttosto che un quartiere della città, avendo come riferimento quelle guide pieghevoli degli uffici turistici, che non spiegano niente ma ti danno la possibilità di
trovare il luogo (quando te la danno).Ed ogni giorno depennavo dalla guida quello che avevo visto.Dico con qualche presunzione che non credo ci sia qualcuno
che conosce Bologna quanto me. Forse un paio di persone, ovviamente non bolognesi, così come io son di Reggio e ogni volta che ci vado scopro un angolo
nuovo.Ma se fai questo sistematicamente, con tempo e soldi, per sessanta giorni circa di fila, resta ben poco da scoprire.
Questo non per rivendicare un mio ridicolo record ma sono imprese delle quali vado orgoglioso, con un contenuto, a differenza di quelle sportive dove c’è solo
la performance ed è morta lì; qui c’è la performance fisica (ch’è l’involucro) e quella non voglio dire culturale ma di aver comunque goduto di bellezze e
conoscenze che ti resteranno (ch’è la ghiotta farcitura).Non intendevo sparlare dello sport, è un discorso lungo sul quale se avrò voglia tornerò.Ma addirittura
quel viaggio mi ha permesso d’inaugurare una nuova sezione, interamente felsinea, della mia piccola biblioteca domestica, gioia paragonabile ad una nuova
conquista femminile per un dongiovanni.
Non intendevo sparlare del gioco amoroso, è un discorso lungo sul quale se avrò voglia tornerò. A proposito:
4.-SULL’ATTACCAMENTO
(sulla buddhità)
Là ho comunque capito diverse cose sull’uomo o comunque su me stesso.Per esempio, una sola cosa mi renderebbe scarsamente sopportabile la condizione di
“senza fissa dimora”, o “barbone”, o “clochard” che dir si voglia: il freddo.Forse a mangiare ci si riesce e anche a dormire, lavarsi un po’ meno, curarsi ancora
meno; ma un’esistenza del genere non comporterebbe necessariamente l’infelicità, retorica a parte.
Però dovrebbe essere sempre estate: niente ti scalda se hai freddo davvero, la fame è più fame, il sonno più sonno, la notte più lunga; se non hai calore umano,
ti scalda il sole, ma d’inverno? Senza bisogno di citare Socrate: “ma tu guarda di quante cose hanno bisogno gli ateniesi per vivere”, l’uomo è comunque un
animale, che sopporta dunque una vita non abbiente, a patto che il corpo stia bene.E’ la conditio sine qua non.
Quanto all’anima, dov’è quella sana?
Torno adesso dalle ferie, ferie un po’ particolari, dormivo in auto e mangiavo a furia di associarmi a inaugurazioni di eventi (con rinfresco) e sagre di paese,
passando per le cucine a cena ultimata e chiedendo gli avanzi.Eppure sono state gran belle ferie: perché non mi mancavano i libri?
Adesso invece che son qui nella mia camera, mi è tornato l’attaccamento ai beni materiali.
**************(PARLARE DELLA RICCHEZZA)************************************************
Com’è noto, è il buddismo a consigliare in continuazione di liberarsi dei beni terreni e a mettere in guardia sul dolore che proviene (e che proverrà, perché
costringe a rinascere) dall’attaccamento. Veramente, da questo punto di vista, il cristianesimo non è da meno, con altre motivazioni ovviamente. Però io volevo
introdurre un piccolo commento all’operato e alla vita di un italiano (al suo ragionare, veramente, se si può) che è l’esempio più recente (e piuttosto celebrato) di
persona imbevuta, vedremo a che livello, di pensiero indiano.
E’ il giornalista Tiziano Terzani.
Io non ho ancora letto nessuno dei suoi reportage, cosa che voglio fare al più presto, poiché ne parlano tutti bene, ed ha assistito personalmente alle svolte
storiche di una quantità di popoli. Mi baso su come ritengo personalmente (forse è un pregiudizio) che un occidentale possa assimilare la cultura orientale. Ed è
sempre a metà. Aihmè, Tiziano non fa eccezione.
Voglio spiegarmi meglio: ho visto (e registrato) la sua ultima intervista, Anam-il Senza nome, e l’ho rivista più e più volte.
Prima bisogna intendersi se considerare questo materiale sufficiente o meno per poter giudicare. Se ammettiamo di sì, mi sono convinto che ha sviluppato, per
abitudine, un sentire che è peculiare a quella cultura, e che ovviamente non è quello occidentale (ma non è vero neanche questo). Si vedeva che questo lo faceva
star meglio, per il semplice fatto che si sta meglio, se ci si ferma a riflettere.
Comunque, per quel che riguarda il pensiero, ha fatto la solita insalata russa (forse perché c’è stato, in Russia intendo).
Io preferisco uno così a uno che va a fare l’asino in Via Emilia. Sempre e comunque.
Però, accanto a quelli che sono i capisaldi, si può dire, dell’etica indiana, che evidentemente condivide, e fa bene, mantiene radici, di concetto intendo,
occidentali, materiali e consumistiche.
Da un lato infatti è per la non-violenza e cita Gandhi (“nell’era della bomba atomica, la non-violenza è l’unica speranza che l’umanità possiede di non
auto-distruggersi”), dall’altro fa discorsi francamente incomprensibili. P.es., sbaglia quando critica gli Stati Uniti e l’allevamento dei polli a fini alimentari, e
poi confessa di non separarsi mai dal suo “piccolo computer”.
Purtroppo, se si accetta il computer, alla fine della fiera, (mi sembra), bisogna accettare anche l’America “puzzona”.
Il Dalai Lama si guarderebbe bene dal chiamarla “puzzona”. Direbbe piuttosto che in questo momento essa può sembrare il nemico, ma i veri nemici sono
l’ignoranza e l’attaccamento (i quattro attaccamenti: alla sessualità, alla multiscienza, all’ascesi fine a se stessa, alla perduranza personale. Ma non vorrei fare il
dotto-pur essendolo).
Considero Tiziano incompleto, ecco, come uomo integrato nella società asiatica, beninteso, non come giornalista).
E’ vero che è l’uomo ad aver fatto Dio a sua immagine e somiglianza e non viceversa, ma è altrettanto vero che anche il Cristianesimo predica la totale
astensione dal mondo (il film Il Grande Silenzio è lì a dimostrarlo. Ma basterebbe il Vangelo).
E’ vero che tat twam asi, “tu sei questo” in sanscrito, cioè non c’è differenza tra me e il mio nemico, o tra me e una roccia, è tutto parte del tutto.
Ma è altrettanto vero che non è vero che in Occidente non c’è alcuna spiritualità e in Oriente alcun materialismo.
Io a Terzani scrissi persino, qualche anno fa, e mi rispose. Mi disse di continuare a cercare (chiedevo di riuscire a poter vedere la bontà nel mondo). Ciò che
scrivo non è una critica a lui. Espongo i limiti dell’andare in Asia, senza essere asiatici. Forse è una critica all’Occidentale, dunque.
E allora aveva ragione lui.
E’ stato un martire (civile, anzi umano, anche se paradossalmente era corrispondente di guerra) del giornalismo italiano. Ma quanto più sei martire, tanto meno
lo fai. Comunque è andata così.
Povero Tiziano. (Montanelli).
Ma più che un martire, forse è stato solo un bravo (anzi, bravissimo), un grande giornalista.
Mia madre mi ha chiesto la Bibbia ed io, pur avendone diverse edizioni e non servendomi in questo momento, le ho consigliato di comprarsene una. I libri mi
danno sicurezza, soprattutto a uno come me che non ha mai avuto la ragazza, e soprattutto a uno come me che non è esattamente uno studioso, non trattiene
molto a memoria e dunque ha bisogno del libro vicino per poterlo consultare spesso.
Questo libro lo sto scrivendo col computer, su Word. Avevo iniziato con carta e penna, trascrivendo per così dire in bella copia sull’hard disk, poi ho pensato
che faccio prima così, anche se la cosa ha i suoi limiti (debbo comunque buttar giù una scaletta su un foglio a parte).Il vantaggio principale è che, come si vede,
quello che scrivo non ha alcuna coerenza temporale, per un motivo molto semplice: non me l’ero nemmeno proposto e il computer mi facilita, perché spegnerlo è
fare tabula rasa ogni volta e riaccenderlo è metterci quello che mi passa per la testa in quel momento.Probabilmente non si capirà nulla alla fine, ma non me la
sentivo di scrivere una storia, o non ne ero capace.
Anche perché in questo momento della mia vita ho dei vuoti di memoria spaventosi e spezzare così la scrittura, ma anche la vita per la verità, mi dà un certo
sollievo.
Soffro perché non ho un lavoro, perché quando ce l’ho mi chiedo: a che pro?(in genere si fanno figli per rispondere a questa domanda), perché mio padre è
poco ch’è morto, perché con mia madre non va benissimo, perché sono timido con le donne, perché non ho amici, perché non ho soldi, perché m’interrogo forse
troppo su troppe cose, forse solo perché sono vivo (e i lati positivi?Mi voglio bene).Così mi rifugio, nei libri, nell’alcool, nella solitudine; da quando ce l’ho,
anche in internet, specie in Clarence, sezione big.Ma credo che il sesso in internet serva poi a questo.
Anche se è sopravvalutato come fenomeno; bisognerebbe preoccuparsi(?) di più del sesso in ogni altro ambiente: mi stupisce per esempio la RAI che, a farci
caso, non trasmette nulla condito o introdotto da nudità femminili, oppure l’editoria dei periodici. A proposito:
Precisazione: il termine più corretto è “fica”, per la somiglianza dei genitali femminili con l’omonimo frutto aperto, volto al femminile. “Figa” non è che una
forma settentrionale, con sonorizzazione della velare. Per ogni dubbio, e per una simpatica cultura sul tema, rimando al Dizionario storico del lessico erotico
italiano (TEA editrice), anche se non completissimo (non contempla “patata”, p.es., che sta per “fica” nel Veneto).
Passare davanti a un’edicola mi crea qualche imbarazzo.Bisogna sapere che “un giorno a Bologna Dante era intento a guardare la Garisenda e non
s’accorse che transitava a pochi passi una delle più celebrate bellezze della città. Adirato con se stesso, corse a scrivere una poesia, per maledire i suoi
occhi, che si erano lasciati fuorviare da sì futili motivi architettonici” (Marchi):
Cioè, per me è il contrario che per Dante: vorrei vedere le città ma c’è sempre una strafica che mi distrae.
C’è da dire che non è neanche raro il caso che io decida d’ignorarle e loro invece non me lo permettano, p.es. restando nella mia visuale qualche interminabile
secondo di più, oppure chinandosi, se sono di spalle, per aprire il lucchetto della bicicletta. Difficile credere alla loro buona fede (statisticamente parlando,
s’intende). Addirittura, poi, non so quando girarmi e quando no. A parte i casi eclatanti, tipo: culo alla torre di controllo o capezzolo a spada, z.B., dove non esito
a filmare il tutto, specie se in pubblico (scherzo), noto spesso e volentieri un certo compiacimento nella donna ad essere osservata, e un po’ mi scoccia dargliela
vinta.
Cfr. Banana Yoshimoto: “poi, passata l’infanzia, ho cominciato a piacere agli uomini, e sapere che il mio corpo fosse desiderato da qualcuno mi rendeva
felice” dice Saseko (“amore”) in Amrita. Credo sia così per tutte. Vero è che la mia parte di piacere ce l’ho anch’io… Ma spesso ti COSTRINGONO a girarti,
specie se in quel momento il desiderio carnale è l’ultima cosa alla quale stai pensando.
E questo è atroce e struggente (giusto, forse) insieme.
La donna “tenta” A PRESCINDERE.
Non è che una constatazione.
Non vorrei dare l’impressione di avercela con le donne.
Sia chiaro che è pressoché impensabile vivere senza una donna. A dire la verità, rimasi stupito da un libro che sosteneva che, anche se di solito si pensa il
contrario, in realtà una vita totalmente senza sesso è perfettamente possibile. Mentre santi, anacoreti, eremiti, stiliti lo dimostrano attivamente.
Ma lasciamo queste considerazioni al ristretto campo teorico.
La donna cerca l’uomo; non si capisce perché non dovrebbe valere il contrario. Siamo fatti per completarci.
Cfr. Gandhi: “il sesso femminile è la parte migliore dell’umanità, secondo me, non il sesso debole. E’ la più nobile delle due, perché è ancora oggi la
personificazione del sacrificio, della sopportazione silenziosa, dell’umiltà, della fede, della conoscenza. L’uomo nasce dalla donna, è carne della sua
carne e sangue del suo sangue” (Young India, 8 Dicembre 1927, p.406).
E Jules Michelet in La Femme: "l'uomo è relativo, egli deve venerare la donna e rispettarla, perchè è lei che fa l'uomo, che gli dà piacere e che, di
generazione in generazione, ha fatto sprigionare da lui, sotto la spinta dell'eterno desiderio, quei lampi di fuoco che noi chiamiamo arti o civiltà. Sera
dopo sera ella rinnova in lui le due energie vitali: infondendogli calma, gli dà armonia, respingendolo sprigiona la scintilla (dell'ispirazione). Così ella
crea il creatore, e non vi è nulla di più grande".
Io stesso ho bisogno, in verità, di contatto, di pelle, di affetto e calore femminili, come ogni uomo, checché ne dica;
anche se un innato malumore o permalosità, o che so io, m’impedisce forse di abbandonarmi col pensiero, di cedere a questa verità.
E difatti è molto più facile trovare un uomo che non voglia saperne delle donne (escludiamo ovviamente gli omosessuali) che una donna che non voglia
saperne degli uomini.
Vero è che la capacità di procreare le costringe, quasi, si potrebbe pensare. Ma in realtà, da questo punto di vista, hanno forse una marcia in più. Sanno che
nella vita BISOGNA essere in due; e questo dovrebbe valere anche per quegli uomini (come me) che vivono come una sconfitta personale il presentarglisi
innanzi di una donna palesemente migliore in uno o più campi, o semplicemente più aperta.
O forse è solo una mia paura.
“Scrutò attentamente il volto della dormiente, le spalle e il seno, i biondi capelli. Tutto ciò lo aveva affascinato, illuso, sedotto, gli aveva mentito
promettendogli piacere e felicità. Adesso basta, si era alla resa dei conti” (Hesse).
Così mi giustifico. E Confucio, a differenza di Gesù, non ha mai cercato seguito tra le donne.
Ma è più probabile che io non riesca ad avere, per natura, slanci impulsivi.
Internet: vedere siti porno su internet non è perverso ma costoso: poi c’è un distinguo da fare tra soft e hard, quest’ultimo è godibile solo in movimento (cioè
nei video), per quel che mi riguarda, dunque alla fine è meglio Clarence o addirittura usare internet come buco della serratura e spiare le giornaliste per esempio,
che non è morboso ma anzi più sicuro che in pubblico, no?(su questo tornerò).
Ma proviamo allora, dato che il computer, come ho appena detto, me ne dà la possibilità, a scrivere una storia coerente, e non può essere che un’autobiografia:
il primo libro di uno scrittore è sempre più o meno direttamente autobiografico: esasperiamo la cosa.Anche se in realtà stavo già raccontando la mia vita; sarà
una storia nella storia.
Mi sono accorto di avere precedenti illustri.Mi viene in mente il Don Chisciotte: più di una volta si ha l’impressione che il romanzo perda di vista sé stesso,
tant’è vero che, quando avviene, qualche capitolo dopo il Cervantes ci porge quasi le scuse per aver divagato.
Bè, certo, lui si chiamava Cervantes.
Ora tornano i mini-dialoghi dell’uomo e della donna, ricordate? Ecco il primo:
1.3.-ANGELI
6.1.-UN’AUTOBIOGRAFIA
Cominciamo: sono nato nei ’70 e a questo ripenso spesso.Se sapevo che poi sarebbero diventati “I ’70”, me li sarei goduti di più.Basti dire che tutte le mattine
guardo Charlie’s Angels e all’epoca non lo guardavo!Erano anni davvero peculiari: anche chi non s’interessa di costume, se gli si mostra una foto di quel
periodo, riconosce il periodo, almeno quanto i sempre citati “’60”.Io però dei primi tre o quattro anni della mia vita (e anche di più), non ricordo niente.Parte
della sofferenza di cui parlavo prima è proprio dovuta al fatto che mi ritrovo nella casa d’infanzia, dopo quattro anni passati fuori, e non mi sembra la stessa.
Non ricordo avvenimenti ma atmosfere sì, non esterne a me ma interne a me (non so se siano stati d’animo, vabbè, usiamo quest’espressione).Per meglio dire:
provo a ricordarle ma non ci riesco e mi dà una malinconia infinita.Non le sento più, forse non si possono sentire più.Ti fa sentire insicuro: come fai a raccontarti
di provare qualcosa per una fanciulla, per esempio, se hai perso i contatti con te stesso?Ma non divaghiamo.A quattro anni, andai in Spagna con la famiglia per
un mese e lì qualcosa mi ricordo, estremamente sfumato.Ah no, prima viene un’altra favola: quella della cacca e l’uva.Mio padre infatti mi raccontava spesso
che a tre anni mi fece una foto mentre seduto sul vaso mangiavo un grappolo d’uva quasi più grande di me.Gli era rimasta impressa quest’immagine.
A me invece sono rimasti i pianti solitari che facevo (me la prendevo per un nonnulla), le mie letture, come a molti bambini mi piacevano i dinosauri, la mia
pinguedine ch’è stata un problema fino a ventotto/ventinove anni, pur potendo dirsi risolta a diciassette e di tutto il resto ho solo qualche lampo, il termine
flashback è davvero azzeccato.
Le molte gite e vacanze familiari non le ricordo nitidamente, tranne alcune.A dieci anni tornai in Spagna per un mese e mi ricordo dell’infatuazione per una
ragazzina di quattordici anni di nome Maria.L’anno dopo andai a Bordighera con la nonna e al ritorno a Salsomaggiore in campeggio, e anche lì m’invaghì di una
ragazzina.Nell’’84 andai ad Andalo in Trentino.Nell’’85 ancora a Bordighera, nell’’86 non so, nell’’87 non ricordo, l’anno seguente andai a Parigi, fantastico,
l’anno dopo ancora in Spagna, nel ’90 a Roma e m’invaghì di una ragazzina.
Nel ’91 andai in Inghilterra, stavolta con amici e mi rubarono il portafogli.Nel ’92 a Bordighera (ho parenti là), gli anni seguenti sono tornato a Parigi, bello
ma ero in crisi esistenziale e rovinai le ferie a mio padre, e in altri posti che non ricordo.Dal ’97 ad oggi sono sempre andato in ferie da solo, in Toscana, e mi
sono trovato benissimo.Poi ci sono flashback di vita scolastica: le elementari sono state belle, le medie no (il primo anno una tragedia), le superiori si.
Poi ci sono gli amici: da piccolo avevo quelli di mio fratello, poi ne ho avuti di miei, sinceri, fino alle superiori; appena finite queste, ne ho avuti, ma
forzati.Ora non ne ho e mi trovo benissimo.Poi ci sono le ragazze: mai avuta una, e mi sono trovato benissimo.
Il ricordo più bello che ho è fino a dieci anni, anche s’è stato il periodo più triste e malinconico.Come detto, me la prendevo sempre, credo a ragione, mi
piaceva piangere, ero grasso, stitico e non serio, ma funereo, silenzioso ed impossibile.
Ma almeno ero io, non quello che ci prova con le ragazze, non quello che fa sport, non quello che beve, non quello che sta scrivendo un libro: tutti
questi sono piuttosto abiti che ho portato o che porto, ma non sono il vero me.
Chi sono dunque io? Io sono colui ch’è giunto, prima di averlo letto, alle stesse conclusioni cui è giunto Schopenauer (e dal quale è tratto quest’ultimo
periodo).
Amen.
(Non che io sia in grado di pensare, o di riprodurre, il procedimento attraverso il quale Arthur sviluppa la propria filosofia. Bisognerebbe studiare molto di più,
e comunque essere un genio. Ma per via intuitiva, che del resto egli riconosce quale vera fonte di ogni conoscenza, si può dire che “c’ero arrivato anch’io”;
questo almeno è quello che sembra, vista la profonda emozione che certe sue pagine in particolare mi procurarono, come p.es. la metafisica dell’amore sessuale.
Si direbbe che certe verità fossero in me prima di averle lette, come accade ad Hanno, l’ultimo dei Buddenbrooks).
Comunque, a proposito di chi io sia:
Piccola pausa al flusso di coscienza (se di questo si tratta).Oggi sono uno straccio.
Il motivo?Bè, in questo periodo di dorata noia (perché non lavoro), vedi Watching the wheels di John Lennon, rimembro torti subiti.Uno di quelli che mi brucia
come una ferita (aperta), riguarda le arti marziali, in particolare s’è il caso o meno di riprendere il karate e/o prendere in considerazione altre discipline; in
particolare m’interessano molto judo e aikido.Riguardo quest’ultimo, esiste in Carpi una scuola che aveva organizzato una dimostrazione nel Luglio 2002.In
seguito a tale evento andai ad informarmi e trovai proprio il Maestro (G.Lisco, VI dan), il quale, però, ricordo ch’ebbe un atteggiamento irrispettoso, nonché
strafottente e provocatorio nei miei confronti.
E sì che pensavo che facessero le dimostrazioni per raccogliere nuovi allievi, se poi fanno così non so perché le fanno (infatti da allora non ne ho più
viste).Comunque, ricordo che mi portai addirittura la macchina fotografica e non mi sembra d’aver avuto col Maestro (G.Lisco, VI dan), un contegno irrispettoso
quando gli parlai, anzi, un karateka che si converte all’aikido mi sembra degno di nota, anche se non rinnego il mio Maestro (G.Funakoshi, ?dan).E allora, che
cosa gli è preso?Esigo spiegazioni.
Quando poi tornai al club, lungi dallo smentirsi, anche le segretarie e gli altri insegnanti mi trattarono male.Perché?Non lo accetto, anche se non sono Maestro
(VI dan), ma voglio vederci chiaro.Sbaglio forse?
D’accordo, io non sono neanche quello che si dà al corpo-a-corpo, nel senso cazzone, giovanilistico-cinematografico e deleterio del termine, però l’offesa
solleva alla collera anche il cuore più umile.E di offesa s’è trattato.
Chiusa parentesi.
Riapro la parentesi sulle arti marziali per dire che mi hanno trattato nuovamente male, e proprio i maestri! (è passato un anno e mezzo dalla riga precedente,
N.d.A.). E’ successo questo: mi sono iscritto ad una palestra per proseguire col karate, nella speranza di prendere almeno la cintura marrone (alla nera non ci
penso). Il maestro in questione (D.Ronchetti, IV dan), mentre insegnava, mi prendeva in giro, sia verbalmente, con un giochino stupido, che, soprattutto, cosa
imperdonabile, attivamente: in altre parole, con la scusa che devo essere flessibile, mi faceva sempre fare degli esercizi incomprensibili, volutamente
incomprensibili, confidando appunto nel fatto che poi si può sempre dire: io so qual’è il metodo giusto e tu no.
Come non bastasse, diceva ad una ragazza che frequenta la palestra, e ad altri allievi, di “starmi addosso”, e anche fuori dal tatami mi sfotteva, ad esempio al
momento di pagare la retta. Succedeva poi una cosa terribilmente irritante: poiché decisi di parlargli in termini pacati di questo, all’uscita dalla lezione, non si
faceva mai trovare; viceversa, quando non ci pensavo, me lo trovavo tra i piedi. Evidentemente lo faceva apposta. Passi lo sfottò (ma poi perché “passi”?), ma
almeno insegna in modo decente, no?
Quando decisi di passare all’aikido, poi, il maestro di turno era anche peggio: oltre a prendermi in giro, diceva a tutti gli altri partecipanti di “starmi addosso”;
in particolare, ce l’avevano con me due cinture nere, un signore di cinquant’anni, che mi tormentava (addirittura mi “sburlonava” se passavo nel corridoio), e un
ragazzo che negli spogliatoi faceva il “rinco”. Ma la cosa peggiore era che, durante la pratica, almeno due volte, mi hanno fatto male.
E farsi male in allenamento è la cosa più stupida che ci sia.
So benissimo che è una palestra di arti marziali e non un circolo di cucito.
Però mi sono accorto che era il maestro stesso a dire al mio compagno di allenamento di sbattermi per terra bruscamente, cosa che non mi fa imparare meglio
l’esercizio, semmai mi fa passare la voglia di praticare. E sorvolo su altri mille “numeri” che ho subito. In poche parole, sia il maestro di karate che quello di
aikido che gli altri partecipanti, mi hanno trattato precisamente come se non mi volessero in quella palestra; non so se ciò corrisponde a verità, perché non so
cosa gli ho fatto per farli reagire così. Ma loro si sono comportati esattamente come se volessero farmi desistere dal frequentare, con una mirata, accorta e
continua persecuzione. Imperdonabile, no?
Quando dissi a quello di karate: ”tu mi hai sfottuto, ammettilo”, ebbene bisognava registrare la reazione: mi ha mangiato la faccia. L’ultima sera sembrava
che volesse picchiarmi, addirittura. Cosa che mi fa definitivamente pensare che ho ragione io. Un’ altro allievo del corso mi disse che in quella palestra “si
scherza molto”. Ora, sono il primo a cercare (e trovare, di solito) il ridicolo nelle cose; ma non era davvero questo il caso, specie se insegni male o se fai male
all’allievo, cose successe entrambe. Mi disse anche che quella è una buona palestra, perché “finora non si è mai fatto male nessuno!”. Minaccia neanche troppo
velata, sembrerebbe. Come dire: se continui a lamentarti, ci si può far male in palestra. In effetti volevo chiamare i carabinieri. Non ho voluto scoprire se è vera
la minaccia (che vigliacco); comunque chissà se smettevano di fare gli asini, anche se non mi facevano male.
La cosa è comune, per la verità: sul lavoro il capufficio può sfottere, e non è che puoi rispondergli. All’università il professore può sfottere, e non è che puoi
rispondergli. In caserma l’ufficiale può sfottere, e non è che puoi rispondergli. Forse anche nel dojo, pensano i maestri. Ma il dojo non è una caserma, e quello
che chiedevo io era legittimo, cioè frequentare serenamente un corso di karate o aikido, come vedo che fanno tutti senza subire la pressione e la cattiveria che
subivo io. Il lettore abbia fiducia in ciò che scrivo, anche se so che manca la controparte che può rispondere: il loro atteggiamento, lo ripeto, è stato
semplicemente incredibile, specie da parte di praticanti così progrediti in discipline che vorrebbero insegnare principalmente il rispetto.
Mi consolo pensando che nello stesso Giappone la gente preferisce piegarsi piuttosto che far valere i propri diritti (ricorrere a un tribunale è un disonore); e i
giapponesi considerano più corretto cedere al più forte che difendere il Giusto; e le arti marziali che ho frequentato finora (sia il karate-do che il ju-do, che l’aiki-
do), sono tutte giapponesi.
Come disse Hirohito alla fine della guerra: “(…) mi sono risolto di spianare la via ad una grande pace, soffrendo quello che non si può soffrire,
sopportando quello che non si può sopportare”.
Approfitto, già che ci sono, per tracciare una mini-storia del mio percorso bellico per così dire, cioè come mi sono trovato nelle arti marziali, sia nel senso di
come ho iniziato sia nel senso di come le varie palestre e insegnanti, mi hanno trattato. La cosa non ha la minima importanza per il lettore, per me invece è
terapeutica, dunque il lettore dovrà aver pazienza; inoltre, mi sembra in questo modo di fare come Biagio Schiavo, un poetastro mediocre ma bene informato, il
quale nel Settecento elenca tutti gli errori che contiene la traduzione di Corneille di Giuseppe Baretti. Quest’ultimo, al caffè, lo riempie di botte; e lo Schiavo si
vendica con un libello.
Infine, alcuni “motivi” del mio discorso saranno sicuramente riconosciuti da qualsiasi praticante.
Fu nel 1997. Un mio amico che era con me a fare il servizio civile, (nel ‘92/’93), parlando del più e del meno una sera che si era al ristorante cinese, mi chiese:
“perché non vieni anche tu a fare karate?”. Lui infatti si era appena iscritto. Io feci subito diverse obiezioni:
(botta e risposta):
IO: Con la gamba non ce la faccio (mi ero rotto da poco rotula e tibia sinistra in un incidente d’auto).
LUI: Ce la fai, e poi cominci con calma.
IO: A che mi servirebbe?
LUI: Ho letto sul giornale che una ragazza, uscendo dal “Due Stelle” (una discoteca della zona, N.d.A.), è stata avvicinata da un tipo che le rompeva le scatole;
al che lei gli ha detto che è cintura marrone di karate; oh, lui non l’ha voluta capire, e lei gli ha rotto una costola!
IO: Mah, se lo faccio, lo faccio per piacere e per il fisico. Ma è massacrante!
LUI: No, tant’è vero che non c’è età.
IO: Preferisco andare al cinema la sera, o fare qualcos’altro.
LUI: Ma sono solo due sere alla settimana.
IO: Io non ho l’indole del combattente, ci vuole fiducia in se stessi.
LUI: La acquisti; anch’io non è che sia cattivo -niente di più vero, quel mio amico parla come Titti (N.d.A.).
IO: Il problema più grosso per me sarebbe proprio che sarei sempre in “para”: bene, ora ho certe capacità, le uso o non le uso?
LUI: Bè, in realtà ti dai una bella calmata, sapendo che sei più forte.
E via di questo passo. Insomma, ci volle del bello e del buono per convincermi; ma tanto fece e tanto disse Steve (o Manetta, sono i soprannomi di quel mio
amico), che anch’io mi iscrissi ad un corso di Karate Sportivo Shito-Ryu.
I primi tre anni di pratica sono stati gli unici sereni. Mi piaceva proprio. Andavo in una palestra scolastica, e si faceva lezione con le scarpe da ginnastica (!).
Forse non era proprio karate tradizionale, però mi trovavo bene con la disciplina, con i maestri e con gli altri allievi. Sono arrivato fino alla blu I° grado.
Soprattutto il mio atteggiamento verso il karate e i maestri era quello giusto: dopo, sono sincero, non sono più stato in grado di tenerlo. Cerco di guardare a
questo, per soffrire meno, anche se in seguito mi hanno trattato in modo scarsamente giustificabile.
Dicevo che il karate mi è piaciuto subito, lo trovavo geniale, per una quantità di motivi: venivo da un po’ di Body Building (sempre fatto rigorosamente a
livello amatoriale) e invece lì si lavorava solo con la propria massa; mi piacevano il saluto, che è peculiare alle arti marziali; i fondamentali (kihon), che con un
po’ di fantasia t’immedesimi con i robot anni ’70 (né lo si trovi così ridicolo, se serve a stare concentrati); anche il kumitè (combattimento), così come lo si
faceva allora, con pochi scambi per volta e mirati ad una tecnica in particolare (in seguito ho visto sempre dedicare troppo tempo al kumitè “libero”), sebbene
paradossalmente combattere è quello che mi piace di meno (comunque per esser bravi bisogna fare almeno quattro sere la settimana). Soprattutto mi piacevano i
kata, che, fatti senza un compagno, sono esclusivi del karate, fra le tre grandi discipline giapponesi (karate-do, aiki-do, ju-do). Di questi ultimi sono tutt’ora
innamorato.
Nel complesso insomma era meraviglioso, anche come veniva insegnato: saluto, riscaldamento, kihon, kumitè, kata, addominali, saluto, e curando ognuna di
queste sessioni. Il karate me lo “sentivo” addosso, e, modestia a parte, ero bravino. Capitolo maestri: in parte l’avevo presa bene, perché ci sono regole non
scritte da rispettare, verso chi t’insegna. Non puoi essere invidioso perché lui è più avanti di te (rischio presente trattandosi di lotta); devi fare quello che ti si
dice, ovviamente, se no perché ci vai? Però non è raro che il maestro si lasci andare dando istruzioni irritanti (puoi raccontarti che è un modo per rafforzarti il
carattere, ma è solo uno sfottò, a volte pesante). E via di questo passo. Dicevo: in parte l’ho presa bene, in parte loro erano molto bravi e anche “buoni”, e so che
non si parla di un circolo di cucito.
Dunque, tutto bene.
Poi, cos’è successo? E’ successo che sono stato fermo qualche anno e perché ho anteposto prima il lavoro che cercavo di fare, e perché, lo dico, m’è passata la
voglia. Quando mi è tornata la voglia di praticare, è stato un penoso peregrinare di palestra in palestra, provando diverse lezioni ogni volta, alla disperata ricerca
di maestri e compagni di allenamento che non mi prendessero in giro e non mi tormentassero. Invano. Perché mi tormentavano?
Non si sa.
Già l’ultima esperienza del “primo blocco” per così dire, cioè dei primi tre anni, fu disastrosa: due allievi della palestra che frequentavamo io e Steve,
prendendo la cintura nera, divennero istruttori di un’altra associazione di karate sportivo.Mi iscrissi, ovviamente, perché avevo (e ho tutt’ora) un conto in sospeso
con la cintura marrone. Uno dei due mi prendeva in giro; l’altro aveva una ragazza, che mi seguiva in auto standomi a due cm. dal paraurti, nientemeno (se
avessi frenato, chissà che tamponamento).
Quando provai a rendere “pan per focaccia” (cioè, sfottere un po’) al primo maestro, questi, su istigazione del secondo, mi diede un mawashi-geri chudan, cioè
un calcio circolare ad altezza media, sullo stomaco. Non mi fece molto male, ma lo sentii, ed è semplicemente assurdo, soprattutto, e inaccettabile, che insistano
sul controllo del colpo se poi non lo usano i maestri stessi (!). Forse il termine “maestri” è eccessivo, nel loro caso. (Ed anche, aihmè, per parecchie persone con
più dan di loro). Alla ragazza non dissi nulla (che vigliacco).
Per colmare la misura, non mi fecero passare l’esame. Non che fossi sempre puntuale alle lezioni; ma se la negavano a me, dovevano negarla anche a tutti gli
altri (parlo della cintura). Si fa prima infatti a dire chi la merita che chi non la merita: così, per convenzione, si promuovono tutti (tranne che al passaggio al
primo dan, cioè, per prendere la cintura nera); questo è il sistema: tranne me!
Passarono altri tre o quattro anni, e mi tornò la voglia di fare arti marziali. Fu un penoso “master-shopping”, direbbero gli anglosassoni, cioè un peregrinare di
palestra in palestra alla ricerca di un maestro serio (cioè, che non mi prendesse in giro). Ogno dojo aveva la sua carica di ostilità nei miei confronti: dispetti,
sguardi, modi di parlare canzonatori, spiegazioni date male, persino percosse (ovviamente non serie-da rompere qualcosa) o comunque gesti “fisici”
terribilmente irritanti e provocatori, fino all’apoteosi della palestra di Ronchetti, di cui ho già detto.
Perché? Non saprei dire.
Non è paranoia, si comportano come se non volessero che io impari il karate, piuttosto che l’aikido o il judo. Certo, si vive bene-e forse meglio-anche senza
praticare; però mi scoccia moltissimo non avere la possibilità di addentrarmi in quelle discipline, così come mi dispiace, p.es., non poter frequentare l’università,
e forse anche di più.
Ed inoltre, sono notevolmente ossessionato dal ricordo di essere stato codardo, un po’ come il Lord Jim di Conrad.
Lascio passare un po’ di tempo e poi ci riprovo, mi dico sempre: ma stavolta so già che dovrò chiamare i carabinieri, e non sarà probabilmente neanche questa
la soluzione. A proposito:
Riprendiamo l’autobiografia: da dove?Ieri sono andato in un bar di Cella (Reggio, praticamente) e mi è rimasta impressa la barista, (Sara), veramente ci vado
apposta, che ha un seno che non ho mai visto, nemmeno nell’ambiente (hard e dintorni). Lei mi ricorda la Boule de suif di Maupassant: mora, rotondetta e
battagliera. Tra l’altro credo, ma resti tra noi, che mentre bevevo il caffè si sia strofinata la tetta destra per inturgidire il capezzolo ed esibirlo, perché quando è
tornata al bancone aveva una pallina da golf sotto la maglia(!) (sa che mi piacciono queste cose). Comunque lì non ci vado più, perché la tipa sfotte, e non poco!
E dovrebbe essere una regola di vita, pensando a questo, il non tornare in un bar o in un altro posto, solo perché c’è una ragazza che ti è piaciuta, in funzione di
una ragazza che ti è piaciuta. Perché potrebbe trattarti male, perché non tornarci è una sorta di esercizio ascetico, ma sostanzialmente perché, lo ammetto,
tornarci è piuttosto stupido; anche se piacevole (e perciò molto sfruttato dai baristi). Ma, parlo a titolo personale, anche trattenersi dà soddisfazioni. E non ne dà
alla tipa.
Ed è l’occasione per parlare ancora delle donne perché forse il sesso, come dice il vecchio Sigmund, c’entra sempre e forse, come dice “beat” Takeshi, (tra gli
altri), si lavora solo per poter fare l’amore con belle donne.
Anche Maupassant: “il primo desiderio dell’uomo è piacere alle donne, per poter così cogliere questi fiori di carne”...
Adesso ho il problema opposto che ho avuto fino a venticinque/ventisei anni e cioè, non interesso più.Prima mi negavo io, adesso loro (sarà la giusta
punizione, la legge del contrappasso).Ma il discorso voleva essere più ampio, se non mi fossi scolato mezza bottiglia di Four Roses (orribile peraltro).Ci provo lo
stesso.Mi ricordo che mi piaceva stare in casa, anche quando i miei e dunque tutto il mondo conosciuto uscivano con gli amici.In un libro del Berne (Fare
l’Amore, guarda un po’) si parla di ragazze che si auto-“castrano” perché vorrebbero (da quel punto di vista, ovvio), ma non osano e allora stanno in camera
annoiate e depresse.
Però alla fine ti ci abitui e sarà questa, parte della pudica ritrosia manifestata da loro, quando non è affettazione di puttane non dichiarate.
Ma un’attenzione nei miei confronti la mantengono ancora: per loro si tratta ora di stuzzicarmi, sono lo spasso delle ragazze, il loro zimbello, come nel
racconto di Maupassant Il verginello di Madame Husson. Le più ardite mi provocano apertamente, passando e ripassandomi davanti più volte, per ridere, per
divertirsi, mi danno appuntamento, mi propongono delle enormità.
Per poi negarsi sempre…
La mia timidezza scatena istintivamente in loro quella leggerezza per la quale sono così amate dagli uomini…
Per me invece tutto questo è così triste…
Un’autobiografia si può fare per argomenti e non cronologicamente: il prossimo argomento è:
la musica.Lo scrivo perché sto ascoltando John Lennon ed è l’occasione per parlare di quando suonavo la chitarra.
(COME SI FA A PUBBLICARE UN LIBRO DEL GENERE?- vedi il Cap.12.3. Mi riferisco a quello che sto scrivendo: ma non mancherà chi lo troverà
geniale-quale è!).
Per quel che riguarda la pubblicazione, comunque, non esistono in realtà regole, a parte l’unico pilastro di tutto il discorso: proporre il proprio “libro”
all’editore giusto (basta guardare il catalogo).
Per il resto, non si può prevedere quale testo sarà pubblicato certamente: troppe incognite; l’unica certezza è che ovviamente, se sei famoso, il libro segue il
nome, e dunque grossi problemi per trovare un editore non ce ne sono.
Potrei, me ne rendo conto, e probabilmente lo sono, sembrare un “pazzo letterario” e il mio libro dunque essere privo di qualsiasi dignità.
Proprio su questo, vorrei citare nientemeno che Umberto Eco: Che cos’è la dignità di un libro? Evidentemente la Divina Commedia è, in assoluto, più
degna delle opere dei pazzi letterari…Ma non per me, che ho scritto sui pazzi letterari e scoperto cose meravigliose. Ci possono essere libri molto brutti
e stupidi (quello di Torelli è tra questi) ma che hanno valore in quanto li hai sottolineati e hai comunque imparato qualcosa…
Dai dodici ai ventidue anni ho suonato la chitarra classica ed ero diventato bravino, a parte la velocità; poi ho preso una semiacustica e mi sono divertito un
altro po’ ma bisognerebbe suonare almeno due ore tutti i giorni (TUTTI), e c’è anche altro nella vita, no?
Ora dormo poi riprendo a scrivere.
Eccomi qua, ho dormito e riprendo.Il prossimo argomento è: sempre la musica.Piccola digressione: ho scoperto una casa editrice di Milano che dice di poter
pubblicare un esordiente con poca spesa (dell’esordiente stesso) e questo mi ha dato un po’ di carica, anche se sarò sempre l’unico che trova interessante quello
che scrivo.Pubblicare costa e bisogna rispondere perlomeno a certe categorie: ci sono rimasto di sasso quando ho saputo che anche Lucarelli scrive dei gialli: ma
non avevano rotto?Evidentemente no (se sono scritti bene).Eppoi bisogna esser furbi, per esempio anoressia e nazismo vendono garantito, ma ci ha già pensato la
Gamberale.La Santacroce almeno è originale (Fluo è un capolavoro), ma ha rotto le palle anche lei.La Ballestra è un brodino allungato. La Zungolo non la
conosco, e non m’interessa conoscerla. Ho letto un pezzo di Sotto questa cenere, e non ho capito perché ogni capitolo dura solo dalle sei alle quindici righe
(massimo). Originale? Robaccia.
Ovviamente un po’ di pregiudizio c’è, da parte mia, nel valutare le scrittrici; ma non in quanto scrittrici, bensì in quanto contemporanei.
Parlando delle donne in letteratura, è ovvio che non ci siano differenze con i maschi. Da questo punto di vista la scrittura è asessuata. Non credo sia sostenibile
seriamente che la produzione letteraria femminile sia qualitativamente inferiore di quella virile o che sia riconoscibile un modo tipicamente femmineo di
scrivere. E’ vero invece che quantitativamente la produzione letteraria femminile, specie quella poetica, fino alla fine dell’Ottocento almeno, ha rappresentato
forse meno dell’uno per cento rispetto a quella maschile. Lo stesso dicasi per la filosofia.
Ogni tanto mi diverto a cercare di riconoscere, (ovviamente senza saperlo), a indovinare se l’autore di un articolo di giornale è un uomo o una donna. Debbo
dire che sono altrettante le volte che indovino di quelle che mi sbaglio; con una piccolissima percentuale in più a favore della donna se si parla di certi argomenti
(p.es., sul sesso e sulle coppie in genere è paradossalmente meno “gentile”, più sanguigna, di solito, un’autrice).
Per molto tempo ho creduto che ad aver scritto Frankenstein fosse stato un uomo. Onore al merito, dunque.
Il mio mito è Erica Jong, LA Scrittrice. Il suo capolavoro secondo me non è Paura di volare ma Paracadute e Baci. Mi sembra che Calvino scrisse le
Cosmicomiche; ebbene, quelle della Jong sono le Pornocomiche. Per onestà debbo dire che mi convince a metà o comunque solo a tre quarti: è proprio
femminista, e una scrittrice secondo me dovrebbe esserlo per legge; sennonché la forza di una femminista è di essere tale ma è anche la sua rovina: p.es., spara
un’infinità di cazzate (una per tutte: “un essere umano puro e semplice è una donna”; un’altra: “le donne vogliono uomini senza la maschera” ; e così via).
Però ognuno sente che ha ragione quando esalta la maternità o rivendica la parità di considerazione, più che di diritti, tra i sessi (lei per la verità parla proprio
di diritti, ma questa è un’arma a doppio taglio per le donne stesse: è questo che il femminismo non riesce ad ammettere). In Fanny dimostra che un’eroina è
meno noiosa di un eroe. In generale, parla di sesso come un uomo. Anche troppo (e qui è vera, come ogni donna, è questo che l’uomo non riesce a capire!).
Stilisticamente poi, fa, se non Grande Letteratura (che significa?), Grande Narrativa, perché attraverso le pornocomiche di Isadora racconta la vita, e l’autrice
afferma giustamente che la narrativa dev’essere onnicomprensiva. La vera eroina è Erica, più che il suo alter-ego Isadora. QUIM-POWER: Potere alla Fica!
Poi c’è il caso Melissa P.: è stata furba a scrivere sul sesso, anzi a descrivere il sesso, il libro non è che una sequenza di coiti adolescenziali con un linguaggio
adeguato: non disturbante ma sufficientemente forte. Se è stata sincera, questo resta il suo merito più grande e l’unico fascino del libro. Non si tratta infatti di
dire che non ha potuto scriverlo lei: io credo che l’abbia scritto (però ci ho pensato e sta in piedi anche l’ipotesi che non sia un lavoro suo).Il punto è un altro: lo
trovo piuttosto (molto?) banale. Uno dei romanzi della saga di Emmanuelle è praticamente identico. Il titolo poi, è trito e ritrito: c’è qualcosa di simile, p.es.,
anche in Tenera è la notte, di Scott Fitzgerald (Cap. XV).
Lei è molto giovane e molto carina, diciamo pure sexy, e l’ha saputo sfruttare: il successo è tutto qui, oltrechè nella natura stessa del libro. Come letteratura
forse non resterà; come letteratura d’oggi funziona (l’autrice è ricca e famosa), e questo è quello che conta.
Col secondo libro si vede ovviamente l’inconsistenza del tutto: il titolo è semplicemente ignobile. Quanto al film poi, ha ragione Melissa ad arrabbiarsi, perché
col suo libro non c’entra realmente nulla. E’ una storia di crescita interiore adolescenziale se possibile ancora più banale e deja-vu del romanzo, ed è riuscita pure
male. La protagonista poi non è bella come l’autrice dell’opera letteraria. Per quanto riguarda il sesso rappresentato al cinema, il rischio è quello solito (ed è
elevato). Cioè, il testo risulta anche intrigante, finanche eccitante, se vogliamo. Il film, no.
Perché certe cose è meglio figurarsele nella propria mente; oppure è meglio l’hardcore addirittura nella sua crudezza ma direi anche verità, talvolta disturbante.
E’ come il jazz. A proposito:
6.4.1.-QUAND’ERO CHITARRISTA
La musica, dicevo.La cosa nacque così: alle medie avevo un prof di educazione musicale particolarmente simpatico (ce ne sono), tanto che mi venne in mente
d’imparare a suonare uno strumento e non ricordo perché ma scelsi la chitarra.In entrambe le decisioni probabilmente ebbe una parte importante mio padre che
diceva che con lo strumento mangi sempre, e ai suoi tempi credo che fosse vero, bastava salire sul pullman, come dice Ringo dei Beatles.Comunque, mia nonna
conosceva un ragazzo che suonava e suona tuttora la chitarra (poi ne parlerò) che si disse disposto ad insegnarmi.Andavo a casa sua alle cinque, una volta alla
settimana e suonavo un pezzo (rigorosamente classico) che mi aveva dato da imparare, più una lezione di solfeggio del Dacci.L’esperienza m’è rimasta come una
delle più piacevoli non perché m’entusiasmavano la chitarra che avevo, i pezzi che suonavo, come li suonavo e via dicendo, ma per l’”atmosfera”, per
l’approccio allo strumento, per il fatto di suonarne uno, per come lo suonava lui, per le chiacchiere sull’argomento che si facevano, non per la musica dunque.E’
sempre stato il mio specifico: non il lavoro, non il lavoro: la preeeeesentazione (Schindler’s List).
Cosa peraltro comune oggi: conta più la scatola del contenuto, anche, aihmè, ad alti livelli.
Non credo d’intendermi davvero di una sola cosa ch’è una.
Tuttavia, credo siano poche quelle alle quali non mi sia interessato: e tanto basta. Per dieci/dodici anni sono stato un chitarrista, no?Il mio maestro era un tipo
incredibile: postino al mattino, virtuoso dello strumento e pittore macrobiotico il resto della giornata: tipo Pino, aereo umano e suonatore di boxe. (Cochi e
Renato). Tant’è vero che adesso è andato del tutto giù di testa e si dedica al “liuto arabo con influenze flamenche, rivisitate”.
Ma lo dico con la massima bonomia.Ho imparato più da lui che al Conservatorio: primo: la chitarra nasce classica e dunque se impari il classico puoi prendere
in mano la solid body e non viceversa.La cosa non significa nulla, perché fatta apposta per essere smentita dal primo genio di passaggio.Ma quelli sono geni.E
comunque resta una grande verità.
Secondo: la velocità d’esecuzione è anche la chitarra, ma NON E’ la chitarra: è più difficile andar piano che andar forte.
Terzo: non è vero che serve un superstrumento, perché poi non lo sfrutti, ma non è neanche vero che Paco de Lucia sia così efficace con la mia Suzuki.Basta
una media chitarra di liuteria (prezzi accessibili).
Quarto: il repertorio: ascoltare musica è l’attività più impegnativa in assoluto.Ragiona come un marine: non chiederti cosa può fare il tuo paese per te ma
chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese.In altre parole, vai incontro al pubblico se devi fare concerti (eccezioni: saggi accademici, e uditorio preparato, dove
invece è obbligatorio proporre cose sconosciute e più difficili).Se suoni per te stesso, come facevo io, fa quel che ti piace e basta, anche se improponibile.
Quinto: la chitarra del solfeggio se ne potrebbe infischiare, perché la vibrazione della corda è paragonabile ai capricciosi rimbalzi della palla rotonda nel
calcio.
Sesto: la chitarra è lo strumento più difficile.Inutile tirare in ballo arpa e violino: i chitarristi mi danno ragione, e comunque il piano in confronto lo suona
anche un bassett-hound.
Settimo: il plettro è per i “gratafurmaj”, che nel mio dialetto significa grattuggiatori.
Ottavo: la chitarra, anche non amplificata, fa un casino d’inferno, è uno strumento proprio potente.
Nono: la chitarra è la tua ragazza, trattala bene, ma Decimo: nella vita non c’è solo la chitarra.
Questo è il Decalogo by Nino del chitarrista (classico), ma va bene in senso lato.
Lezioni di vita.
Vado a pranzo e poi riprendo.
Eccomi qua: è un po' che non scrivo.
1.3.-ANGELI
6.5.-QUAND’ERO CULTURISTA
“La scaletta l’invento man mano, dunque non è neanche una scaletta”
(Marco Torelli, Betrachtungen)
Avrei tante cose da dire, a volte mi balena un pensiero e dico: ne scriverò, poi non se ne fa niente.Forse è venuto il momento di rifare una scaletta degli
argomenti da trattare; per ora continuo con l'autobiografia.Dicevo che un grosso problema è stato il grasso, in particolare da piccolo e da adolescente anche se
adulto non lo sono ancora nè lo sarò mai (dormo ancora con l'orsacchiotto, ma ultimamente m'ignora).Fino a diciassette anni ero proprio denso, come dicono i
culturisti, solo che loro lo dicono a proposito dei muscoli...Le mie masse in effetti erano paragonabili a quelle di Schwarzy, specie le gambe, ma era lardo per
tigelle, e senza rosmarino.Poi a diciassette anni mi sono slanciato, intendiamoci non sono diventato Pippo ma se facessi molto più sport il fisico sarebbe davvero
notevole.La costituzione ovviamente è quella di sempre: brevilineo, nè basso nè alto, cosce grosse, tette pronunciate (mi sono anche operato di ginecomastia tre
volte-operazioni utilissime, più di tonsille e appendice, che infatti ho ancora), addome con una curiosa caratteristica: se mando giù solo tè per due giorni, sembro
Gandhi; se esagero con carne e vino (amo il Chianti) per un pranzo, sembro al sesto mese.
Sono Mr.Fantastic.
Per anni e anni ho avuto verso la parte frontale del mio corpo lo stesso pudore che immagino abbiano le donne nei confronti del seno (non tutte, vedi la barista
di Cella).Da piccolo avevo paura dei pantaloni corti, da grande delle T-shirts.Freud dovrebbe rimboccarsi le maniche con me.Poi, a vent'anni, durante il servizio
civile, la svolta.Mi sono come svegliato: proviamo a muovere il culo in quantità industriale, mi sono detto.Il mio programma era questo: sveglia alle 9, pacchetto
di cracker, palestra un paio d'ore (body building), Gatorade, pranzo: due cotolette di pollo con piselli, pomeriggio al lavoro (ero in biblioteca), sera: Martedì e
Venerdì in piscina (90-100 vasche a stile), gli altri giorni corsa (20-30 min.), cena: due cotolette di pollo con piselli, letto.
Per qualche mese ho seguito questo stile di vita, ricordo che pensavo all'addome piatto dormendo e non ho ingerito un'oliva di più di quel che ho detto, ma il
risultato fu sorprendente, soprattutto perche mi ero asciugato ed ero magro (come allora non lo sono più stato).Però era una fissazione: facevo vita da atleta.
La lezione mi è servita moltissimo sotto molti punti di vista: se vorrò tornare ad avere un superfisico, l'impegno dovrà essere assolutamente questo o superiore
(perchè ho qualche anno in più); per raggiungere gli obiettivi bisogna praticamente non pensare ad altro, la riuscita non è che la materializzazione per così dire
(che termine infelice!) di un atteggiamento mentale; terzo, forse più importante adesso che mi avvio alla vecchiaia (solo i teen-ager sono giovani) e si presume
che arrivi anche un po' di saggezza, mi chiedo: a che pro?Sostanzialmente, come dice la nonna al nipote culturista: cosa te ne fai? Però non voglio essere in
disaccordo con chi ha scelto una via "fisica" all'esistenza, penso a Mishima, il cui sviluppo fisico è durato dieci anni o anche alle arti marziali che sono forse
l'unica espressione (fisica) per un muto, cioè sono un modo d'essere che esula dalla parola (che notoriamente fa di un uomo ciò ch'egli è). Ma su quest'ultima
cosa ci vorrebbe un altro libro. Proviamo a parlarne un po’.
E’ da premettere che tutto quello che dirò è da prendere con le molle. Del resto, un libro-guida alle arti marziali sosteneva che l’aikido non serve per
difendersi, e che un karateka per difendersi con efficacia dev’essere almeno un VII° dan…
Sorvolerò sulla reale efficacia delle tecniche relative a ciascuna disciplina, che è assoluta (a patto di saper fare karate, o judo o qualsiasi altra cosa COME
RESPIRARE, cioè con l’automatismo proprio del respiro, oltre che curando i mille altri aspetti, dalla perfezione dei movimenti alla forza, che serve anche nelle
a.m., oltre ad avere determinazione e convinzione nel momento in cui si decide di reagire-e ad essere disposti a pazientare anni per acquisire le tecniche);
sebbene, forse contrariamente a quanto molti pensano, un judoka, o che so io NON E’ matematicamente al riparo da rischi fisici, il judoka p.es. si prende un
calcio in faccia da un karateka in qualsiasi momento (e il karateka di fronte a un judoka si ritrova per terra senza avere il tempo di dire “a”, se non se l’aspetta);
vorrei invece porre l’accento su quanto si esprima di se stessi attraverso le arti marziali.
Molto. Non esistono due modi identici di dare un mawashi-geri, perché non esistono due arti (gambe in questo caso) identici, e due abitudini posturali
identiche, e due indoli di combattente identiche, sebbene la tendenza unificante è evidente, se si tratta dell’identico stile.
Ma, anche nelle a.m., le possibilità del corpo sono limitate, in senso lato, rispetto a quelle della mente.
Tant’è che si dice che chi abbia poteri psichici particolarmente sviluppati (è il caso di certi monaci buddisti tibetani), abbia ragione del combattente più forte;
non sto parlando del “ki”, bensì di qualcosa di ancora superiore (non saprei di preciso definirlo).
Esistono infinite arti marziali, questo sì (gli stili di karate sono almeno una quarantina, quelli di kung-fu centinaia, ed ogni stile è una cosa a sé); però il modo
di colpire o proiettare, per quanto vario, non può competere con i milioni di collegamenti neuronali del nostro cervello. Anche perché non è che pensi a come
dare un calcio e poi lo impari a dare: al contrario, la consapevolezza di quello che sai fare viene solo DOPO che il corpo ha già imparato a tirare quel calcio alla
perfezione.
Tutto questo discorso non significa granchè: in caso di aggressione notturna con pericolo di morte, le arti marziali sono le uniche che offrono qualche garanzia
di sopravvivenza. Ma va riveduta e corretta l’affermazione che io stesso ho dato poco più sopra: l’unico modo fisico di esprimersi sono le a.m. Mi correggo e
dico: diverse, sono diverse, non migliori, da questo punto di vista.
Gli sports occidentali sono incredibilmente differenziati e soddisfacenti; a partire dalla boxe, per restare alle discipline da combattimento, alla quale peraltro
attingono gli stessi orientali, e attraverso la quale le a.m. sono giunte in Francia e poi in Occidente.
(Un modo fisico di esprimersi molto interessante è quello di quel disabile che comunicava col mondo attraverso una penna nella bocca, con la quale impartiva
ordini a un computer: una penna non ha mai volteggiato in questa maniera).
A proposito:
Ovviamente tutto questo discorso esula dalla comunicazione non verbale (interpersonale) che ognuno di noi, involontariamente, possiede, il cosiddetto
linguaggio del corpo o dell’espressioni del viso. Non voglio occuparmene pur essendo, tra le scienze umanistiche, (definizione che l’Odifreddi giustamente non
ammette), forse la più affascinante, perché riguarda tutti e in qualsiasi momento, a meno di fare vita eremitica. Non me ne voglio occupare per un motivo molto
semplice: appena padroneggi le tecniche non linguistiche, immancabilmente te ne servi per un qualche scopo, in un modo malizioso e finanche perverso. Almeno
è quello che mi è capitato di osservare sempre. Rimasi “shockato” da un corso organizzato dalla De Agostini per vendere le enciclopedie (lavoro che ben presto
abbandonai): non sapevo che spiegassero nozioni di PNL (programmazione neurolinguistica)!
Bisogna indicare sempre col mignolo, mai con l’indice; guardare la bocca, non gli occhi dell’altro; fare domande retoriche: “non ritiene che sia importante
l’insegnamento delle scienze fin da ragazzi?”; offrire false opzioni: “preferisce che veniamo al mattino o al pomeriggio?”; sorridere mentre si dà la mano, ma
capire a chi non la si deve dare (in genere alla persona già in casa; se invece rientra il marito o la moglie mentre parli alla suddetta persona, dargli la mano). E
un’infinità di altre cose anche molto più raffinate.
Tutto ciò non mi piace, mi appare malsano.
In pratica: “come metterlo nel culo al cliente, senza che se ne accorga”. Ma vero è che bisogna pur mangiare.
Mi affascinano invece gli studi che ci sono DIETRO questi “trucchi”. L’istruttore della De Agostini mi diceva che va periodicamente a Palo Alto, negli Stati
Uniti, per aggiornarsi e studiare nuove tecniche di vendita-pare che là ci sia una delle migliori università per gli studi sulla PNL, l’ipnosi, i messaggi subliminali
e tutta ‘sta bella roba.
Lì capisci che l’uomo è un animale, ci sono determinati atteggiamenti che provocano determinate reazioni, matematicamente. Come, p.es., nel lupo, che se non
vuole farsi azzannare da un suo simile, gli offre la gola (e l’altro s’impietrisce).Ma ripeto che padroneggiare queste tecniche è come con il karate: difficile non
usarlo, se senti di avere in pugno chi ti sta davanti; anzi, è peggio, perché puoi uccidere l’avversario senza colpo ferire.
Non riguarda la comunicazione non verbale ma voglio qui metterlo ugualmente: l’uomo fa scarsamente caso a quanto gli si dice: per lui conta molto di più
come lo si dice.
La donna, non ne parliamo…
Riguardano invece la comunicazione non verbale, due altre forme di espressione: il disegno ed il sesso.
Se disegno un gatto, è un gatto per me, per un inglese, per un cinese, per un eschimese. L’informazione bypassa, per così dire, la parola scritta o pronunciata.
Analogamente, se esprimo ad una donna la mia intenzione di voler fare del sesso, l’informazione è recepita da un’italiana, da un’inglese, da una cinese, da
un’eschimese. Lo stesso vale ovviamente se si invertono i sessi.
Sono, il disegno (o la figurazione in senso lato) e la sessualità, due linguaggi universali.
Ovviamente appartengono a due sfere del tutto differenti: la sessualità è come la mimica, modifica solo nel “qui e ora”.
Il disegno agisce anche a distanza di tempo e di spazio.
Solo per dire una differenza. Un’altra differenza è che il sesso riguarda la sfera più intima della persona (quella inferiore al metro tutt’intorno a noi).
Ma si vede che sto improvvisando…d’altra parte l’intero libro è improvvisato: Betrachtungen vuol dire solo “considerazioni”, e non mi risulta che bisogna
essere laureati in alcunché per fare Betrachtungen ueber verschiedene Argumente, considerazioni su diversi argomenti…
A proposito:
Altro intervallo: un deficiente ieri sera, ero al distributore, si ferma in auto davanti alla mia e, aprendo il finestrino, mi fa: BOLOGNA?, e intanto con la mano
fa il gesto: sempre dritto. E intanto mi fissa con insistenza. Al che gli faccio lo stesso gesto: sempre dritto.E lui continua a fissarmi con insistenza, al che gli
rifaccio il gesto e intanto gli dico: sempre dritto.E alla fine mi fa il pollice teso (OK), al che glielo faccio anch’io.Dopo un po’ se ne va.(E’ la mia mente, scritta
su carta)(Seven).Ora, non c’è dubbio che volesse solo prendermi per il culo, perché i miei trascorsi indicano questo, anche se a raccontarlo non si direbbe.
Infatti, Bologna è la città che preferisco e il gesto con cui rispondo ai rompicoglioni è sempre quello, anzi, i due gesti, “sempre dritto” e “OK”; e poi ero in una
tale situazione di quiete e tranquillità che non è possibile che fossero lì per caso (erano due).Ma il punto è: non sono soddisfatto di come ho reagito, come dovevo
reagire?La sua reazione propria era: VAFFANCULO STRONZO! e intanto, dito medio teso.Dubito che sarebbe rimasto a guardare: kumitè.
Ma fare kumitè in strada è difficile per via di non poter prevedere le conseguenze.(teste di cazzo, coltelli, pistole & Co.).Però anche stare a guardare non mi
soddisfa più, sono diventato così dopo quello che ho visto e credo che sia giusto, ora hanno il dovere di…(gli Intoccabili); non dovrebbero fare così, non è
giusto.Avevano la targa gialla con scritta nera, non sono riuscito a sapere di dov’erano i bastardi, forse di Olanda, è la targa che somiglia di più alla loro, ma è
del ’78.Fucking foreigns! (Fottuti stranieri).
Altra possibilità girare testa ed auto ed andarsene ma: saggi o vigliacchi?
This is the question (Shakespeare)…A proposito:
9.1.-SULLA CULTURA
(da imparare a memoria)
Ora vorrei parlare dello studio, del leggere, della cultura, e inserirli in quella sorta di autobiografia che avevo iniziato.
Ho cercato la definizione di cultura sul Devoto-Oli e con sorpresa ho notato che non si capisce (io almeno non l’ho capito) in modo chiaro cosa sia.
Paradossalmente si capisce meglio cosa siano le culture (c. primitiva, c. dei Maya, etc.) che non cosa s’intenda per cultura in senso lato.
Ed è naturale che sia così: d’altra parte: chi è colto?
Umberto Eco è necessariamente colto, però non saprebbe superare un esame di chimica farmaceutica; mentre l’ignorante dal canto suo non manca
necessariamente di luce filosofica.
E ancora: oggi non si tende più ad acquisire una cultura, ma ci s’ingegna a creare i mezzi che permettono di farsela. Che permetterebbero, per meglio dire,
perché il rischio è proprio che, paghi di questa possibilità, restiamo sostanzialmente degli “ignoranti tecnologici”.
Non importa sapere la cosa ma sapere dove trovarla, vedi internet.
Il concetto di cultura più sano è forse quello greco arcaico (non classico): “cultura intesa nel senso del quotidiano, del materiale, e solo marginalmente nel
senso alto e teorico che si dà oggi comunemente al termine.”(Storia dell’Arte italiana, Electa ed.).
Mi viene in mente un passo di Siddartha di Hesse: “no, non si può davvero tenere in poco conto tutto il sapere dei Brahmini; ma chi sono io? Questo i
Brahmini non possono dirmelo, perché la saggezza la si conquista, la si vive, ti fai portare da lei, puoi fare miracoli con essa; ma dirla e insegnarla non
si può”.
Cfr.San Francesco: “sapere tutti i libri e le cose del mondo, non puoi dire che questa sia vera letizia” (Fioretti, n.VIII).
Gandhi: “sono un ignorante”.
Eco: “Montale non è laureato, ed è un grande poeta lo stesso”.
Marchi (a proposito di Dante): “non si laureò”.
Ancora Hesse (in un raccontino del 1907): “il sapere non serve assolutamente a niente”.
E potrei continuare.
Quei modi spregiativi di vedere la conoscenza discorsiva e libresca avevano un fondamento religioso; ma comunque le cose stanno proprio così e d’altra parte
si studia per saper poi fare un mestiere, non per elevarsi spiritualmente.
Checchè se ne dica.
Le persone cosiddette colte che mi vengono in mente infatti non sono belle persone come si direbbe. Chi poi diventa filosofo assimilando nozioni (è pur
sempre possibile) non fa comunque testo, è come gli spiriti superiori, ne nasce uno ogni cento anni nel rispettivo campo. Io difendo il valore dello studio come
fonte di piacere; oppure in senso utilitaristico, per lavorare (la laurea); non credo più, come potevo crederlo dieci anni fa, ad un valore formativo della persona.
Balle.
Vale più Gandhi di Umberto Eco, che pure aveva letto un’ unico testo inglese (Unto this Last di Ruskin), al di là degli studi legali, di Tolstoj e ovviamente della
gita o meglio la bhagavadgita, cioè il mahabharata.
Mi sono fatto tatuare sul ventre il termine sanscrito ahimsa, che significa letteralmente non-uccidere, ma che nella sua accezione positiva, è l’amore per tutti
gli esseri viventi. Non è che un’aspirazione, non certo la notifica di un traguardo raggiunto. Del resto è un’arma troppo potente e pericolosa (soprattutto per chi
la possiede) per raggiungerla con facilità o maneggiarla con disinvoltura, è superiore a qualsiasi arte marziale e, aggiungo io, a qualsiasi filosofia. E’ LA
filosofia. Quante notti insonni per averla.
L’Aikido mente quando sostiene che è la via dell’amore (o dell’armonia); amore non è schivare il colpo per far capire a colui che attacca la sua follia, perché
se l’altro non sa cadere, si fa male, e molto: bisogna prenderlo, quel colpo.
Così possono farti male, certo.
E pazienza.
Mens sana in corpore sano. A proposito:
9.2.-SU GOOGLE
Torniamo al sapere: cosa porta con sé? Orgoglio, invidia, potere, ambizione e dunque dolore secondo l’etica buddista (ma anche cristiana). L’unico cervellone
che non se ne vanta è il computer: è anche vero che non potrebbe, non è che uno “scemo veloce”, come ha detto qualcuno.Io adoro internet. Prima di averlo
volevo prendere l’enciclopedia, ma con Google è del tutto inutile, anche se per adesso sono più precise quelle di carta.
Comunque è stato inventare un’altra volta non la stampa ma la scrittura, o l’apprendimento addirittura.
Si potrebbe conteggiare il tempo prima e dopo Hiroshima è stato detto, io dico: prima e dopo Google.
E’ anche impersonale, anonimo, discreto, neutrale, umile, imparziale, aggiornatissimo e completo: s’è mai visto un quotidiano così?
Per non dire di un uomo. Scriverei un’ode a questo motore di ricerca, se ne fossi capace.
La scrivo lo stesso:
Metro: endecasillabi e settenari
Rima: libera
Così è se vi pare
Bravi Eco e il commendatore
Il nocciolo che vale
Resta amore, amore, amore
Piaciuta? Bè, prima mi sono documentato, non sono mica Carducci. Ho già abbastanza disgrazie.
E torniamo alla mia vita.
A forza di usare il computer, e anche chiedendo a persone più esperte di me, sto imparando a cavarmela egregiamente (naturalmente limitatamente alle mie
esigenze).
Ho imparato a masterizzare. Non è più difficile di andare in macchina. A proposito:
Prossimo argomento: l’automobile. Mi piace guidare. Maledettamente. Ho preso la patente nel 1991 (11 Aprile) e fin da subito l’auto per me è stata
fondamentale. Tuttora non saprei come fare senza. Ho solo quattordici anni di patente e un numero superiore di problemi, danni, incidenti. Non necessariamente
nell’ordine: ho perso la patente e ho dovuto fare il duplicato; (tra l’altro da allora non la tengo più addosso ma in auto, perché rifarla è un’odissea e costa sempre
di più); ho fatto due incidenti seri (da dover buttare via la macchina) e diversi altri di lieve entità; in uno mi sono sfasciato rotula e tibia e ho ancora i ferri nella
gamba; ho preso almeno due dozzine di multe; mi hanno sospeso la patente un paio di volte; mi hanno tolto cinque punti per via delle cinture (ma era l’unica
volta ch’ero senza); forse dimentico qualcosina.
Tuttavia, mi vanto di non avere mai fatto del male ad altri utenti della strada e questo qualcosa vorrà dire. Sono solo un “po’” distratto. Il primo incidente
“sfasciacarrozze” è stato spettacolare: sono passato col rosso e un’auto venendo da destra mi ha preso in pieno, ribaltandomi su un fianco e ho fatto una
cinquantina di metri così. Mi sono solo tagliato il mignolo sinistro (giuro). Un bel culo. Ammettiamolo: è stato meglio di una strippata (Pulp Fiction). Nell’altro,
forse ero brillo, mi sono rotto la gamba sx. e ho fatto diciotto giorni d’ospedale e due mesi di gesso, a volte ho ancora qualche problema al ginocchio.
Lì mi sono divertito meno, lo ammetto.
E passiamo alla Citroen: bisogna sapere che mio padre aveva una grande passione per la Francia e per questa marca che infatti è la migliore del mondo e
comunque la più intelligente del mercato. Auto “a misura d’uomo”, forse oggi meno, anche se la finitura è migliorata.
Comunque sia, abbiamo sempre avuto Citroen in famiglia, addirittura modelli oggi dimenticati, come l’”Ami 6”, per esempio, oltre a Dyane, GS, e
ultimamente quattro o cinque BX (una l’ho sfasciata io, un’altra mio padre. La gamba però me la sono rotta su una Golf; forse se avevo la BX…). Purtroppo ci è
mancata la mitica Deèsse, mio padre la chiamava la “Squalo”. Ma lui fece in tempo a guidarla. Comunque sia, quello che piaceva e che piace del Double
Chevron erano le sospensioni idropneumatiche, che facevano letteralmente impazzire come manutenzione, ma poi potevi rilassarti viaggiando con il loro
proverbiale confort, oltre allo spazio interno, la tenuta di strada, i freni, i motori fiacchi ma robusti (la Due Cavalli faceva addirittura un bel pezzo di strada
completamente senz’olio…bè, magari poi ne vedevi qualcuna in fiamme sull’autostrada).
La storia della Marca e delle innovazioni introdotte del resto è incredibile. A proposito:
L’azienda nasce nel 1919, fondata da Andrè Citroen (non trovo la dieresi sulla tastiera), un ingegnere laureato all’Ecole Polytechnique, che aveva creato una
fabbrica d’ingranaggi a doppia spina di pesce (bi-elicoidali, double-chevron, l’emblema della Casa). In genere lo stile della carrozzeria era ispirato alla moda
americana (fino agli anni ’40), mentre tecnicamente fu da subito all’avanguardia. La Type A del 1919 fu la prima vettura europea costruita in grande serie. Aveva
capote, ruota di scorta, guida a sinistra. Il suo 4 cilindri 1327 cc. Consumava 7,5 l per 100 Km., quanto un diesel attuale. Costava meno di 8000 ff., un prezzo
molto basso. Anche la pubblicità della Casa fu da subito innovativa: nel 1922, per la prima volta un aereo scrive nel cielo: la scritta è citroen, ovviamente. La
5CV Type C del 1922 fu la prima vettura per le donne, grazie alla sua facilità di guida e manutenzione. Tra l’altro era verniciata in giallo, “Le petit citron” era
detta. Anche nelle imprese automobilistiche la Casa ha fatto storia: nel 1923 si ha la prima traversata del Sahara, da Algeri a Tumbuctù. La B 10 del 1924 è la
prima Citroen con carrozzeria tutta d’acciaio: anche le seguenti saranno così.
Dal 1925 al 1934 il nome dell’azienda illumina la Tour Eiffel con 250000 lampadine (record tutt’ora imbattuto). Sempre nel ’25 la Torpedo B 12 commercial è
la prima vettura doppio-uso (anche per trasporto merci).La B 14 del 1926 è la prima vettura “lusso” di grande serie. Nel ’27 le Citroen si affermano come taxi
(ca.700 esemplari) e s’istituiscono le giornate “porte aperte”, cioè con visita alle fabbriche (iniziativa copiata da tutti fino ai nostri giorni). Nel 1928, uscita della
C 4, che rimpiazza la B 14 e della prima Citroen a 6 cilindri, la C 6 (2442 cc.).
1929: C6 1, primo camion veloce francese.1930: C 4 “fourgon”, cioè versione commerciale.
1931: taxi C4 F (1628 cc.).
1932: “Croisiere jaune”, cioè traversata della Cina; C 4 e C 6 “Moteur Flottant”, cioè con supporto elastico di smorzamento delle vibrazioni (idea ripresa dalla
Chrysler ma primizia europea).
1933: l’8 CV “Rosalie” percorre 300000 Km. alla media di 93 Km./h. Nel 1934 è finalmente la volta della “Traction”, (il nome del modello è 7 CV): un’auto
rivoluzionaria, ch’era venuta in mente al patron dopo un giro negli USA per visitare tutte le maggiori case automobilistiche d’oltreoceano, e realizzata con l’aiuto
di un ingegnere della Renault: Andrè Lefebvre. Queste le caratteristiche dell’auto dei due Andrè: carrozzeria aerodinamica, firmata dall’italiano Flaminio
Bertoni, monoscocca autoportante tutta d’acciaio senza chassis, assenza di predellini, sospensioni a barra di torsione, quattro ruote indipendenti, ruote anteriori
motrici e direttrici, (da cui “Traction Avant”), freni a comando idraulico, motore sospeso 4 cil. valvole in testa, 1303 cc., 32 ch, 7 CV, cambio a 3 marce, 9 l per
100 Km. Si susseguiranno moltissime versioni fino al 1957.
1935: muore il fondatore. La Michelin acquisisce l’azienda.
1936: sterzo a cremagliera sulla Traction.
1937: Traction per uso commerciale.
1938: Traction 15-Six: è la gloriosa versione 6 cilindri, la vettura di serie più popolare dell’epoca.
1939: la TPV, la futura 2 CV, è pronta. Ma la guerra ne impedisce l’uscita.
1940: parziale distruzione degli stabilimenti in Francia e Belgio.
1941: si studiano carburanti alternativi, tra cui l’elettricità.
1942 e ’43: si va verso il minimo storico di produzione annuale, giunto nel 1944 con meno di 3000 vetture.
1945: la produzione riprende (ca. 10000 vetture).
1946: presentazione della 15-Six G: la G sta per gauche, perché il motore, visto dal davanti, girava verso sinistra (ma ci fu anche la D, nel ’47). E si arriva al
1948, l’anno della 2 CV. Il progetto era noto come “Toute Petite Voiture”, TPV, cioè vettura piccolissima. Infatti pesava un terzo della Traction, e costava un
terzo. Aspetto insolito (il solito Bertoni), carrozzeria d’alluminio, uso polivalente, motore 2 cil. raffreddato ad’aria, 375 cc., 9 ch., 2 CV, cambio a quattro marce,
consumo irrisorio: 4,5 l per 100 Km.(!), quanto un (ottimo) diesel attuale, furono i motivi dei quarantuno anni e nove mesi (3872583 esemplari) di produzione
ininterrotta . Un vero record. Da subito dopo la guerra alle 16 di Venerdì 27 Luglio 1990! Mi si perdoni la commozione. Mio padre ne aveva un modello piuttosto
tardo, la “Dyane”. Nel 1948 compare anche l’inconfondibile Type H, uno storico veicolo commerciale.
1949: produzione ormai a ritmo pieno, oltre 63000 veicoli.
1950: presentazione della 2 CV “fourgonnette”.
1951: commercializzazione (fino al ’78). La produzione annua supera le 100000 unità.
1952: doppio baule per la Traction.
1953: motore diesel sull’utilitaria “Type 55”.
1954: sospensione idro-pneumatica sull’asse posteriore della Traction.
Il 1955 è uno degli anni spartiacque nella storia dell’auto: al Salone di Parigi viene infatti presentata la Citroen DS 19. Non credo sia mai esistita una vettura
altrettanto precorritrice dei tempi. La linea era futuristica: soppressione della calandra, carenatura totale (anche delle ruote posteriori), carreggiata anteriore più
larga. Ovviamente opera di Flaminio Bertoni (anche gli interni). Era innovativa quanto il Caravelle, il jet al collaudo in quei giorni. Il nucleo della concezione
dell’auto stava infatti nella trazione anteriore e nel sistema idraulico centralizzato. Adottava le sospensioni idro-pneumatiche già viste sulla Traction l’anno
prima, ma su entrambi gli assi (una sfera per ruota); inoltre tutto era collegato al sistema e dunque assistito: cambio a quattro marce, frizione (senza pedale),
sterzo agente in funzione della velocità , freni (tutti a disco, prima vettura di serie), due circuiti di frenata indipendenti, ripartitore automatico della forza frenante
in funzione del carico, regolazione dell’altezza dal suolo e assetto costante. La manutenzione era difficoltosa, ma non esiste sospensione che isoli maggiormente
dalla strada, mantenendo una guida “sui binari”. Ma anche altre parti meritavano attenzione: motore 1911 cc. da 140 Km./h.(!), testata in alluminio, un unico
albero a camme; mentre il tetto della vettura dal canto suo era di plastica (!), rinforzato con fibra di vetro. La VGD, “Voiture à Grande Diffusion”, ma detta
“Dèesse” , Dea, restò in produzione ca. diciannove anni (fino all’Aprile ’75). Come non ricordarla nel film di Fantomàs, dove si trasforma in aereo? Potevano
usare un’altra auto?
1956: nuova corriera “Type 46”.
1957: ID 19 (DS col cambio meccanico); pensionamento, dopo 23 anni, della Traction.
1958: ID familiare (“Break”).
1959: la DS vince il rally di Montecarlo.
1960: DS cabriolet, carrozzata da Chapron.
1961: esce l’Ami 6, che si situa tra la 2 CV (ha lo stesso motore raddoppiato di cilindrata) e la DS. Caratteristico il lunotto inverso.
1962: ritocchi di carrozzeria per la DS (ora tocca i 160 Km./h).
1963: 2 CV potenziata: 16,5 ch.
1964: Ami 6 Break (mio padre l’ha avuta) e DS Pallas (più curata).
1965: DS 21 (2175 cc.), con fari orientabili collegati allo sterzo.
1966: il liquido idraulico LHM sostituisce l’LHS2. E’ quello che si utilizza tutt’ora.
1967: versione Dyane della 2 CV e restyling DS (con fari carenati in plexiglas).
1968: “Mehari”, la jeep della Citroen: motore dell’Ami e carrozzeria in plastica.
1969: Ami 8, più aerodinamica e DS a iniezione elettronica (prima auto di serie francese ad averla).
1970: pieno di novità: GS, 1015 cc. a quattro cil. contrapposti, 4 freni a disco, sospensioni idro-pneumatiche. SM: coupè con motore 6 cil. Maserati, 2670 cc.,
cambio a 5 marce, 4 freni a disco, sosp. Idro-pn., servosterzo con auto-riallineamento, fari orientabili. La prima sportiva (sicura) per tutti. DS con cambio a 5
marce. Infine, prototipo M 35 a motore rotativo.
1971: GS eletta vettura dell’anno (mio padre l’ha avuta) e versione break.
1972: DS 23: 2347 cc., carburatore e iniezione. L’ultimo modello.
1973: Ami a 4 cil. e GS bi-rotore, solo 847 esemplari.
1974: presentazione della sostituta della DS: la CX (è il coefficiente di penetrazione all’aria). Le solite caratteristiche Citroen alto di gamma, a partire dalle
idro-sospensioni, ma una linea particolarmente curata, motore trasversale 1985 cc., tergi mono-spazzola, lunotto concavo, plancia futuribilie (tachimetro e
contagiri a tamburo rotante).
La storia del periodo “storico” Citroen può finire qui: da aggiungere solo la CX break, diventata la macchina preferita dai giornalai (1976); la Mehari 4x4
(1979); la 2 CV “Charleston” dell’80; la gloriosa BX (1982), probabilmente l’ultimo modello a durare così tanto (11 anni), l’erede Xantia infatti ne durò 9: aveva
la carrozzeria per gran parte in plastica, le solite sospensioni idro-pn. ed era probabilmente la Citroen classica più moderna, o la moderna più classica. In famiglia
ne abbiamo avute una mezza dozzina. Sia io che mio padre ci abbiamo anche fatto un incidente (grosso, macchina distrutta) a testa: illesi. Nell’85 il rosso e il
bianco succedono al blu e al giallo nel Marchio. Resta da citare l’XM (1989), l’ultima ammiraglia ad oggi e prima Citroen a 6 cil. dagli Anni Trenta. Montava la
classica sospensione Citroen ma gestita dall’elettronica: idrattiva. A me piaceva molto, ma forse effettivamente quanto a finiture non era all’altezza della
categoria. Concettualmente era invece una vera Citroen. Forse per questo non è stata capita molto.
Non è più tempo per certa filosofia aziendale: è cambiato il mercato. Comunque con la Xantia (che ho e sono contentissimo) si capiva che sarebbe iniziato il
nuovo corso dell’azienda, la conferma è venuta poi con la Picasso e ancor più con la C 3. Infatti per la prima volta tutti hanno capito ch’è la Marca migliore del
mondo! Adesso mi sembra che sia perfettamente in linea con la concorrenza, anche come finiture e politica commerciale, mentre se tecnicamente già era
all’avanguardia, ora l’immagine della Citroen è ultra-tecnologica (meritatamente). Sono stupito dagli ultimi prodotti e attendo con impazienza la nuova “grossa”
C 6.
E’ bella la filosofia che sottende alla Maison (un tempo ancora di più), secondo me: la macchina serve per andare in giro, una Citroen può andare esattamente
dove arriva una Mercedes o una Ferrari, ma con costi irrisori e altrettanta (se non maggiore) sicurezza e comodità. Finitura? Prestazioni? Immagine? Tutte nobili
qualità, necessarie al successo di un marchio; ma la souplesse, la dolcezza, finanche la spartanità della “Deuche” (L’Attimo Fuggente), per esempio, sulla quale,
diceva la pubblicità, si può leggere Proust al volante traversando le Ardenne; no, tutto questo non si può davvero tenere in poco conto (Siddartha).
Le Alfa, per esempio, non ho mai capito come ‘mminchia sono fatte: ma la macchina la compri per farci le gare? La GTV, “Gran Tarone Veloce”, per
esempio, è l’idiozia su quattro ruote: tutta motore e niente spazio, per non dire della 33.
A proposito:
Torniamo sulla musica, poi parlerò dei viaggi. Non ho mai avuto la passione per la musica, tutto sommato, e mi dispiace, ma d’altra parte è talmente difficile;
certo, ce ne si può fregare e ascoltare quello che piace. I teenager, la maggiorparte, ascoltano musica tutto il giorno, e fanno bene, ma non sono forse loro, da
sempre (dai ’50 in poi) a determinare gli hit, cioè i successi? Ma ascoltare musica seguendo la storia degli hit significa interessarsi soltanto alla parte più
deteriore del fenomeno e trascurare invece alcuni degli esperimenti più suggestivi.Lo ha scritto Scaruffi a proposito della musica (il rock) del nostro secolo (ch’è
ancora il ‘900, con buona pace dei magazine di telefonia cellulare, a meno di esser nati negli anni ‘90).
Dunque quelli che l’ascoltano di più non contribuiscono qualitativamente, se non dal punto di vista che statisticamente spingono a fare cose nuove.
Allora preferisco scegliere a lavori ultimati.
L’ultima sferzata personale verso la musica l’ho avuta circa dieci anni fa (1996) con l’acquisto del lettore CD: avevo cominciato a collezionare i generi in
modo maniacale, poi mi sono stancato. Comunque resta il materiale migliore che ho; infatti se vuoi farti una cultura sistematica sei costretto ad attraversare il
blues, da cui tutto ebbe inizio e, come i link in internet, non finisci mai. Io partendo da Robert Johnson e Muddy Waters, sono arrivato ad ascoltare da Washboard
Sam a Scott Joplin, che si possono considerare più chicche che dischi fondamentali. E invece lo sono, fondamentali, allo stesso modo che il surrealismo utilizza
pur sempre lo stesso rosso delle grotte di Lascaux. E pensare che adesso in auto non ho il CD ma tre valigie di musicassette (e ascolto quasi solo la radio!). Ora
non compro quasi più CD, per motivi economici, ma ogni tanto ad un concerto che mi diverte li prendo: l’ultimo è stato Davide Van de Sfroos.
Parentesi sui concerti: passano generalmente per l’autentica espressione di quanto il gruppo sa fare, io credo invece che da questo punto di vista sia tutto
sommato migliore l’incisione. Ai concerti c’è la componente aggregativa ch’è fondamentale, ci si diverte di più perché la musica è solo una parte dello
spettacolo. Sia perché il gruppo tira fuori il suo lato teatrale, se lo possiede, ma anche e soprattutto perché ci si va in compagnia e si possono far follie, lasciarsi
andare. Ma dal punto di vista dell’ascolto puro la situazione non è certo ottimale. Infatti, se da un lato è presente un aspetto fondamentale, che non è presente su
disco (o comunque può essere catturato solo in minima parte), cioè l’improvvisazione dei singoli musicisti o il virtuosismo del cantante, bisogna dire che la
confusione e i rumori di fondo non permettono di cogliere tutto quello che viene eseguito.
Qui viene meno una caratteristica che non dovrebbe essere dimenticata quando si parla di musica: non si può (non si dovrebbe) fare altro quando si ascolta
musica. Se ciò appare scontato nel caso della Classica, non si capisce perché non venga quasi mai rispettato con la musica contemporanea. Si usa la musica come
riempitivo, in auto, in cucina, mentre si fa sport, sotto la doccia (col sapone nelle orecchie). Così si dà ragione a quanti distinguono ancora tra musica seria (la
classica) e leggera, commerciale: si vede che quest’ultima non merita tanta attenzione… L’ascolto è un’attività decisamente impegnativa e solo facendo molta
attenzione si può apprezzare un disco.
Come fai a fare attenzione ad un concerto? Dove importa solo sentire le canzoni che si sanno già a memoria e andare col ritmo, cantando a squarciagola?
Bruce Springsteen questo lo sa bene e, più unico che raro, spesso e volentieri chiede silenzio di tomba all’inizio della sua performance (l’ha fatto anche a
Bologna). Inoltre, è l’esecuzione stessa del gruppo che, in genere, nell’esaltazione di accontentare i fans, risulta distorta. L’ultimo esempio che ho sentito è quello
dei R.E.M. Stipe, quando canta Loose in my religion dal vivo, tende a stare un po’ troppo alto coll’intonazione, perché sentendo centinaia di migliaia di persone
che la cantano, gli viene da enfatizzare inutilmente, oltre a creare curiosi fenomeni (per esempio, su disco dice “loose”, normale, in live dice: “lllllllllloose”, con
diciotto elle davanti). Stai calmino! E’ meglio su disco. Naturalmente ci sono le eccezioni: il blues è quasi sempre meglio dal vivo, se ce la fai a resistere (è
divertente improvvisare, meno star lì ad ascoltare a lungo). Certo, dal vivo l’atmosfera è diversa, al punto che in genere essa non si perde registrata. Ma la
canzone è snaturata.
Non dimentichiamo che il rock nasce con l’industria discografica ed è solo la musica tradizionale, diremmo oggi “folk”, ch’è legittimata ad essere suonata dal
vivo.
Nel rock questo succede solo perché il live è una metà del business (l’altra metà è il disco).
Comunque, tornando a de Sfroos, è molto bravo ma soprattutto apre un discorso sul dialetto, oltre che sulla musica.Si considera in genere quello dialettale un
genere minore, più ironico o scherzoso che serio, forse perché le parlate regionali richiamano subito alla mente quello che siamo (o che eravamo), e, come la
scimmia che si guarda allo specchio, ci viene da ridere (Trilussa).Ma non è tutto.Si avverte la “provincialità” della cosa, ch’è quello che non fa digerire agli
italiani il Country, ma non per un implicito giudizio di merito, bensì per la difficoltà d’ascoltare una tradizione che non è la nostra.In realtà dal punto di vista
linguistico ogni dialetto è una lingua; la differenza con quella nazionale, nel nostro caso l’italiano, è solo che quest’ultima ha alle spalle una bandiera ed un
esercito, come qualcuno ha detto.
Un genere tradizionale di musica si può paragonare al dialetto.Non si sacrifica un’identità per un’altra se quest’ultima non ha avuto il beneplacito delle masse
(questa è la forza-limite del rock). Nel caso di una canzone dialettale poi, è un peccato che la musica sia sempre ripresa da altre tradizioni e/o forme-canzone,
mettendo l’originalità solo nel testo (de Sfroos non fa eccezione, ma neanche l’osannato De Andrè, v. la Ballata del Michè), perché anzi potrebbe essere un
discorso globale di sperimentazione (oggi si direbbe a trecentosessanta gradi, va inspiegabilmente di moda quest’infelice paragone geometrico). Quando parlo di
musica mi viene sempre in mente la Storia del Rock dello Scaruffi, che presenta, oltre ad analisi critiche particolarmente acute-un genio, un modo di ragionare
rigoroso ed utile in senso lato (un po’ come il latino, aiuta a pensare).
Cosa che non si può dire del saggio di Walter Mauro per la collana “il Sapere 1000 lire” della Newton (oggi fuori catalogo). E’ impostato male e superficiale,
sembra di leggere me. Il suo unico merito è quello di essere una fonte di curiosità molto ricca, per esempio spiega l’etimologia di molti nomi, da Tin Pan Alley al
Ragtime. Però, di ogni capitolo, eccettuato forse quello sul jazz, fa confusione temporale delle varie vicende, e ne trascura parecchie. In generale, è un
guazzabuglio, per dirla col Manzoni, tacendo la conclusione, dove pretende di prevedere il futuro del rock prendendo ad esempio solo Madonna e Prince!
E’ il tipo di analisi che sono solito fare io, superficiale, ma con due non trascurabili differenze: dove ci prendo, dico verità immense e nascoste; e soprattutto
non dirigo collane editoriali od insegno all’università, e in generale mi si legge senza pretese.
A proposito:
Io sono sempre in imbarazzo quando ascolto qualcosa di nuovo, che per me è quasi tutto, per tutta una serie di motivi nella misura in cui… (mi stavo lasciando
andare al politichese).
Cercherò di spiegare il perché.
Ovvio, una canzone è difficile che NON PIACCIA, in genere il giudizio non è così drastico. E’ sufficiente che sia ripetibile a memoria (stavo scrivendo
“orecchiabile” ma il termine, al pari di “commerciale”, a ben vedere non si sa poi cosa significhi di preciso) e/o che diverta sul momento. Se mi piace l’Whisky,
e a me piace, sono in grado di bere il Queen Margot, ch’è un ignobile prodotto da 4.99 euro in vendita al LIDL. Chiaro che il Glenlivet-il mio preferito, anche se
pare non sia il massimo-non ti lascia l’amaro in bocca il giorno dopo.
Quando ti si chiede un parere musicale, spesso la risposta è: fa schifo, mentre alla ragazzina che te l’ha chiesto fa impazzire: questione di gusti, si dirà. Chi
crede alla favola dei “gusti” non ha riflettuto abbastanza. Il mio “fa schifo” (avevo promesso di essere onesto) arriva direttamente (senza passare dal via) dalla
mia ignoranza. Accade infatti che di una cosa, di quasi tutto per la verità, mi chiedo, senza volermelo chiedere, ma succede sempre, da dove viene, che cos’è, e
dove va. Le classiche domande esistenziali. Se non possiedo un grado soddisfacente (per me, ovvio) di nozioni, sento che non “posso” apprezzare a modo una
canzone, un libro, un film (forse faccio un’eccezione in quest’ultimo caso). Ad esser precisi, “fa schifo” significa (pressappoco):
“prendo atto che ora c’è questo prodotto ma non me ne sono occupato a fondo con l’aiuto dello Scaruffi forse potrei capire a che corrente appartiene
e compiacermi della mia conoscenza dell’argomento e questo renderebbe più gradevole il tutto o forse mi farebbe apprezzare qualcosa che non mi
sarebbe piaciuto però a volte succede il contrario comunque non voglio buttarmi e fa schifo cioè me ne disinteresso finchè non avrò voglia perché mi
spaventa la vastità della materia (e la spesa necessaria) e quindi se dico mi piace ed è cibo per cani o se dico non mi piace ed è strepitoso e insomma cosa
dico e qui c’entra anche l’insicurezza e la pigrizia e tu comunque ascoltalo, baby”.
In parte mi sembra di far bene a far così: quante volte un pezzo non è che Rock’n Roll in altra salsa, per così dire?, perché cantato da un determinato
personaggio piuttosto che sull’onda di determinati eventi? (O astutamente travestito-il punk-ma la storia del rock è fatta di queste illusioni).
Però sento anche di essere troppo severo con me stesso: e qui ha decisamente ragione la ragazzina di prima. Se piace piace, se non piace non piace; poi si può
anche leggerne o, meglio in questo caso, ascoltarne di più. Senza contare che quello che ascolto, che leggo, che guardo (un po’ meno), lo ascolto, leggo, guardo
in quanto è un CLASSICO. Un esempio banale: in questo momento sto ascoltando John Lennon: a chi non piace?
Per quanto possa sembrare strano, se avessi sentito una sua canzone senza sapere ch’era sua, all’inizio, quando non me ne fregava niente del rock o avevo
appena iniziato ad interessarmene, (ma anche adesso credo) non è detto che mi sarebbe automaticamente piaciuta. Ma vedevo che intorno a me tutti ascoltavano
musica, che questa piaceva (o faceva finta) di piacere moltissimo, che nell’adolescenza scolastica cominci un mucchio di discorsi nella tua vita, a partire dal
sesso; così mi son messo lì e ho detto: vabbè, ascoltiamo sto cazzo di rock
(Mi viene in mente uno sketch tra Luis de Funes e Jean Gabin: quest’ultimo diceva: non s’inizia la giornata se la patria non si è salutata, e de Funes rispondeva
tra sé e sé: vabbè, salutiamola. Un po’ la stessa cosa: non sei giovane se non ascolti il rock: vabbè, ascoltiamolo. Io l’ho vissuta un po’ con questo spirito).
E da dove cominciare, se non dai Beatles? Poi Lennon ha fatto il solista, ed ecco perché ascolto Lennon. Ora più lo ascolto più mi piace ma più che altro più
capisco che, come ho letto, pare non sapesse la musica: di qui credo la bellezza di moltissime sue canzoni, un po’ come Vasco e Jovanotti, che sono stonati.
Voglio dire che il fatto musicale è venuto paradossalmente per ultimo: prima ho dovuto leggerlo. Questo in parte rispecchia il rock ch’è quasi sempre più un
fatto socio-economico che prettamente musicale. Però non credo che il mio sia l’approccio giusto: che se qualcuno non mi dice che il tizio merita, non lo
approccio.
E questo aihmè si è ripetuto con Hemingway in letteratura o con Kubrik al cinema.
C’è poi un problema (lo accennai già in 1.1.1.) che non so se riguardi il rock o qualsiasi altro prodotto umano, in senso lato (opterei per la seconda possibilità):
perché è tutto uguale?
Ci ho pensato l’altra sera guardando distrattamente Match Music in un pub. Moltissima musica non è riconoscibile, riconosci quella dell’autore che ami,
oppure i generi: ma in generale è tutto “casino”.
Lo pensavo appunto perché ero distratto? O succede sempre così se non conosci la materia?
Però l’industria del rock, specie ultimamente, o forse da sempre, accentua forse questo aspetto di produzione-fatta-con-lo-stampino, di canzoni uguali, di
ripetitività, più di altre espressioni artistiche. Intanto è relativamente facile, più che in altri campi, lanciare qualcuno sul mercato. Se ha il fisique du role e le
conoscenze giuste, basta mettergli in bocca una canzone già esistente (di successo, ma anche no), magari cambiando le parole e aggiungendo o togliendo un
effetto, e il gioco è fatto.
Sicuramente non ho nemmeno le doti o attitudini o che so io per valutare nella giusta misura molte cose (con qualche eccezione, p.es. Monet che mi fa
impazzire ed è anche riconosciuto tra i Grandi).Bisogna dire che appena “me lo spiegano”, (p.es: i Police devono molto o tutto al reggae e al jazz) ad un
successivo ascolto lo sento anch’io: perché non me n’ero accorto subito? Scarsa attenzione? Non saprei ora io stesso dire se in pratica, secondo quanto ho scritto,
non ho emozioni o per meglio dire se, come in Guglielmo da Baskerville, tutte le mie emozioni sono mentali, o represse (Eco).
In parte è senz’altro così, vedi il sesso.
Altre volte mi sorprendo io stesso e mi “carico” di fronte a qualcosa (basta un gruppo mediocre ma con una fanciulla terribilmente sexy per cantante, v. i
Rumorerosa). Ma in linea di massima non sono per nulla compiaciuto del mio scarso “sentire”: me lo tengo stretto unicamente perché lo vedo come un baluardo
che mi vaccina (anche se un baluardo è difficile che vaccini) contro certe manifestazioni piuttosto grottesche del tifo; mi viene in mente la caricatura
dell’adolescente che non capisce un cazzo non riesce neanche a parlare sfegatato di metal che faceva Corrado Guzzanti. Purtroppo simili trasporti sono più dietro
l’angolo di quanto non si creda, anche con altri generi musicali. Né c’è niente di male. Ma io più in là del “fumo” non vado.
Colgo l’occasione, come diceva Luca Goldoni, per riscrivere una mia storia del rock, sull’esempio del mio maestro Scaruffi.
Rock ‘n Roll, come dicono i marines (vuol dire Let’s go, ma sono marines). Al proposito, ecco la mia:
Bè, più che una storia vera e propria, chè meglio del mio Piero non saprei fare, è un insieme di considerazioni ad uso e consumo degli ignoranti
(musicalmente, come me del resto). Sto rileggendo la Storia con attenzione e mi sto accorgendo di diverse cose piuttosto interessanti. Nel far questo sono partito
dal Punk, (è meglio definirlo Punk-rock proprio per il motivo che spiegherò), perché cronologicamente e forse anche musicalmente è un po’ il cardine della
vicenda rock. Nasce infatti nel ’76, cioè circa trent’anni fa e circa trent’anni dopo il Rock ‘n Roll, che ovviamente segna l’inizio del rock, socialmente parlando –
per il ruolo nuovo assunto dai giovani (musicalmente invece-e tecnicamente, già negli anni ’40 i neri avevano inventato tutto).
Mentre dal punto di vista melodico, armonico e ritmico fa un po’ “tabula rasa” di ciò che c’era stato fino ad allora (tranne vocalmente, dove invece innova, e
anche “intellettualmente”, o meglio, grazie alla sua mancanza d’intenti-che non siano cinici e distruttivi, com’esso stesso proclamava), dal punto di vista
simbolico è forse il fenomeno più dirompente del rock. Il punk (è conosciuto così) in realtà nasce nella seconda metà dei ’60: ciò che chiamiamo punk è
l’esplosione del fenomeno in Inghilterra in seguito ad una tournèe dei Ramones.
“Punk” non significa altro che secco, marcio, molle, fradicio, miserabile, pessimo, orribile. Si chiameranno così i giovani disadattati anticonformisti dei
secondi ’70 che ascoltano questo genere di musica (spesso suonata, si fa per dire, da loro stessi). Ma musicalmente parlando, esistevano già nei Sixties band di
garage-rock sul tipo psichedelico che, ulteriormente velocizzato e scarnificato darà origine alla musica collegata al fenomeno punk, che resta sostanzialmente un
fenomeno sociale, al pari del Beat. Per questo è esemplare.
(Ovviamente, sempre in Inghilterra, il terreno era stato preparato dai mod , 1964-66, che furono il primo esempio di consumatore attivo, nel senso che
l’oggetto scelto -nel loro caso perlopiù abiti- diventa feticcio semplicemente in quanto scelto. A ciò aggiunsero il fatto di dare una primaria importanza alla
gestione del tempo libero, ispirati da motivi estetici e non etici).
Bene, si dirà, ecconciò? Bè, mi sono accorto che ogni movimento o genere o vicenda musicale ha le sue radici, se va bene, almeno quattro-cinque anni prima,
quando non è, e succede spesso, uno sfacciato revival (in questo caso si pesca addirittura negli albori, anni ’30 e ’40 e anche prima). Questa è la prima
caratteristica: dire “invenzione” nel rock è piuttosto relativo: si riprende un’idea o una musica ch’esisteva (o un suo aspetto) e ci si lavora sopra (e per questo il
Produttore ha raggiunto il suo massimo storico d’importanza nella storia della musica).
Credo che sempre per questo ci siano diversi saggi in circolazione (Simon Frith, David Buxton) a dimostrare che il rock è morto (e credo abbiano ragione),
non tanto per un venir meno ad una sua presunta purezza d’intenti (che non ha mai avuto) o per una sua palese mercificazione (che ha sempre avuto, anzi che ha,
questa sì, inventato-e oltremodo sfruttato). Proprio per un fatto “genetico”.
Sebbene le sette note, al pari delle ventisei lettere dell’alfabeto, permettano un incalcolabile numero di combinazioni e di variazioni, l’impressione è che
adesso il rock non sia più che un serpente che si morde la coda: ogni tanto cambia pelle, ma figli non ne fa più. Sono declinate nel frattempo tutte le novità che lo
avevano prodotto ed evoluto:
il ruolo del Country, il ruolo dei giovani, lo spirito pop, la psichedelica, le droghe, il rock come stile di vita, il monopolio della tecnica da parte del produttore,
il punk, il videoclip (in una parola, lo star-system).
Persino il ruolo del folk e la strumentalizzazione politica del rock sono roba vecchia.
Se sopravvive questa musica, in proporzioni tali da dare l’impressione ogni settimana di una primordiale esplosione del fenomeno, è unicamente perché c’è un
fattore che non è declinato, che è nato col rock e che è vivo e vegeto (anzi, si può discutere se non l’abbia addirittura determinato, sebbene sia come chiedersi se
è nato prima l’uovo o la gallina). Al punto che non si possono prevederne le conseguenze, presumibilmente drammatiche.
Questo fattore è la società dei consumi.
L’avvento del rock coincide con l’affermarsi, per la prima volta nella storia dell’uomo, di un tipo di società che non consuma ciò che produce, ma produce ciò
che (sta qui la novità) E’ SPINTA A VOLER CONSUMARE IN MODO SUPERFLUO ED ESPONENZIALE, come si sa. Il principale problema economico
cioè, ch’è sempre stato quello di come creare l’offerta-come produrre per soddisfare i bisogni primari, si ribalta e diviene come creare la domanda-come far
sorgere nell’animo del consumatore bisogni secondari, anzi superflui, anzi inutili. Ma utili nel senso che la produzione vi si adeguerà. E’ lo stesso e noto circolo
vizioso del rock, il “serpente” di cui parlavo più sopra. Il rock viene mantenuto in vita, in uno stato vegetativo, perché il pesce deve nuotare, per così dire, una
volta in acqua: ma come lo squalo, se si ferma affonda. O se si preferisce, questa musica non ha più motivi musicali, solo sociali.
Non è mai stata un fatto solo musicale, ma prima lo era, anche. Anzi, era l’aspetto, in sé strepitoso, che faceva sorvolare su quelli più malsani, come p.es
l’abuso di droghe. Ora questa motivazione non esiste più, secondo me. Ora si consuma. Punto. Dunque si continua a consumare, di conseguenza -e a produrre,
anche il rock.
E qui entra in ballo la seconda caratteristica fondamentale: una musica “nuova” dura un anno, massimo due, massimo tre. Una canzone molto meno (ma
questo si sapeva, né è un male). La purezza cui accennavo è semmai la sincerità dell’entusiasmo dei musicisti (o del pubblico), che per definizione brucia in un
lampo. Voglio dire che il R&R nella sua fase esplosiva (l’unica che valga nel rock), è durato tre soli anni, il Punk pure, il Grunge pure, altri ancora meno (il Surf
un anno o due, la Psichedelia pure). Benissimo, non bene, fece Lennon a sciogliere i Beatles, come si sa fu un’idea sua, quando ormai la spinta, coincidente coi
Sixtie’s, si era esaurita (il fatto che ci fossero due autentici geni nel gruppo fece sì che anche le ultime cose fossero strepitose, ma altrimenti …).
Vedere un artista o un genere che si trascina nel tempo è come vedere il Giovedì maniaci che riguardano la moviola della partita domenicale: rimestano sempre
lo stesso sugo. Ma quale sugo!, più di così, è evidente che non si può! Si scade in un manierismo irritante.
Ho il sospetto che anche Morrison abbia volutamente distrutto il complesso con il famoso concerto di Miami, perché sapeva che dopo tre anni c’era il rischio
di essere patetici.
Però, altra cosa fondamentale, il rock ribalta ogni logica. La seconda o terza generazione di una corrente, o i gruppi di un’altra area geografica della stessa,
possono essere strepitosi, chè senza di quelli si perderebbero molte sperimentazioni e reinvenzioni della per molti versi, identica musica. Del resto l’intera
musica inglese dopo il 1980 non è che la storia di ogni possibile variazione sul punk (se non va addirittura a ripescare nel folk).Questo fatto porta talmente tante
conseguenze ch’è difficile diramarle. E insieme a queste, le maggiori riserve sulla Storia dello Scaruffi (che resta comunque la migliore, anche perché è l’unica
seria).
La prima che mi viene in mente è: com’è possibile l’accavallarsi di tutti questi movimenti? Prendiamo p.es. il capitolo “il Southern rock”: prende in esame un
periodo di press’a poco vent’anni. La scelta di non interromperne la vicenda viene dall’intento dichiarato di non spezzettare la lettura, e per comodità di scrittura.
Ma musicalmente questo ha scarso significato. Il rock sudista del 1987 non può essere lo stesso di dieci anni prima, anche se ovviamente non è che prima si
facesse punk. Ma lì si lascia intendere che tutto sommato è la stessa musica, la cultura che l’ha prodotta è quella e che, insomma, è riconoscibile. E può anche
esser vero.
Contravvenendo però in questo a molti altri passi del libro, dove l’”identica” canzone passa per differente se suonata da un altro gruppo, perché quella
“epilettica”, questa “indiavolata”. Vi è un aggettivazione ridondante e un iper-tassonomia che lascia il sospetto che si spaccino per meritevoli molte cose banali,
(sul menù di un ristorante cinese c’era scritto “gelato fritto” e “dolce al latte”, ed erano lo stesso piatto-li ho presi entrambi) emulando forse in questo lo stesso
spirito del rock, che abbonda in trucchi ed illusioni, vedi p.es. i Van Halen.
Ma volevo giungere a dire un’altra cosa ancora: alla fine del capitolo (di ogni capitolo) si pensa: bene, il mondo musicale era impegnato in questa direzione, il
prossimo capitolo, se questo termina nel, mettiamo, 1969, riprenderà dal 1970, no? E invece parte dal 1965. Questo perché c’è chi fa Beat e contemporaneamente
chi fa Blues-rock, si dirà, e ognuno di questi movimenti ha una sua storia. Va bene. Ma ognuno aveva, per così dire, il paraocchi rispetto a quanto stavano
facendo gli altri? Delle due, l’una: o si procede per artisti, e si fa una storia MUSICALE delle canzoni, e a questo punto i capitoli diventano oltre cinquemila,
quanti sono quelle trattate; oppure si spiega cos’è il Blues, cos’è il Country, e le innovazioni tecniche dell’industria discografica. Segue una dettagliata
discografia.
L’eccellente catalogazione che opera lo Scaruffi presenta dei limiti non appena si esce dai generi tradizionali.
Una mia grossa difficoltà nell’ascoltare rock è infatti che, e il libro lo conferma, non si è in grado, all’ascolto, di capire quando caspita è stata fatta la canzone,
dove e spesso come. Sovente, capita di leggere, che so, nel capitolo sull’underground: “quella tale canzone R&B”; oppure, nel capitolo sull’acid jazz: “quella
tale canzone reggae-funk”. Se è vero che sono R&B e reggae, che caspita c’entrano l’underground e l’acid jazz? Allora forse si tratta di una storia SOCIALE
del rock, che ha poco (o nulla ) a che vedere col fatto prettamente sonoro e vocale (musicale).
Così come i sudditi di sua Maestà britannica si sono chiamati Commonwealth, e sono rimasti sudditi e così come i fuoristrada si sono chiamati SUV, e sono
rimasti fuoristrada, la classificazione eccessivamente dettagliata, proposta forse dalle riviste (ma in molti casi non so nemmeno dove sia potuto andarla a pescare)
che si compie in quest’opera, sa di talmente artificioso da non soddisfare appieno il comune fruitore di musica rock. Questo sia detto insieme a critica e lode di
Piero, “C’est le privilège du vrai gènie, et surtout du gènie qui oeuvre une carrière, de faire impunèment de grandes fautes.” (Voltaire).
Un’altra difficoltà nell’ascoltare il rock è che io sono italiano e il rock, checché talvolta se ne dica, non ha NULLA a che fare con l’Italia. Il rock è
un’espressione musicale praticamente esclusivamente statunitense, nella sua forma “pura” (che non esiste, forse il R&R). Poi c’è l’Inghilterra, che ha ricevuto le
mode d’oltreoceano e le ha reinventate, lanciandone altre (talora determinanti a livello mondiale, v. più sopra; p.es., i mod). Tutto qui. Non esiste una sola
cantante italiana rock, per esempio, si rifanno tutte alla riconosciuta, questa sì, grande tradizione melodica nazionale. Lo stesso vale per gli uomini. Con qualche
eccezione (Camerini).E pochi complessi (Litfiba). E questo lo dico col rischio di sentirmi rispondere ch’è un luogo comune che gli italiani non sappiano fare
rock.
E’ un grosso errore pensare che la cultura occidentale in quanto tale sia per ciò meritevole di assoluta considerazione; i ritmi africani delle foreste più sperdute,
si possono considerare il loro rock. Il fatto è che non abbiamo alcun diritto morale di prevaricare i paesi all’oscuro del rock, unicamente in virtù della nostra
ricchezza (o loro povertà) economica; l’Italia da questo punto di vista è stata Terzo Mondo fino a tempi ultra-recenti (non ha imparato la lezione rock). Senza
contare che la contaminazione di una musica tradizionale con quella statunitense è definitiva, esattamente come l’amputazione di una mano o di un piede. Si
prenda l’artista più “americano” d’Italia, forse Zucchero, in virtù della sua anima Blues. Ebbene, non fa che rispolverare le fondamenta del R&R, operazione di
per sé encomiabile. Ma mai potremmo noi avere un altro Zappa o Captain Beefheart.
E’ un’altra cultura. L’accelerazione della velocità delle percussioni non è sinonimo di rock, come penso che generalmente tutt’ora, talvolta anche tra gli addetti
ai lavori, si pensi. Gli artisti nostrani sono eccessivamente “dolci”, non musicalmente, chè la disco music è melensa, quanto “spiritualmente”. Forse i buoni
imitatori di Elvis (Little Tony) per quanto riguarda il passato o le miriadi di cover-group attuali, sono gli esponenti più rappresentativi dell’italico rock.
Non i cantanti (e soprattutto le cantanti), nonostante le definizioni delle riviste specializzate li presentino come “rocker”. Abbiamo avuto semmai grandissimi
turnisti, all’altezza degli esteri, p.es. Sergio Farina.
Ovviamente non è possibile ignorare la lezione contemporanea, specie per quel che riguarda il ritmo e l’utilizzo della chitarra, Battisti insegna. Però Battisti
(come la Nannini del resto) non è rock. L’abito dev’essere rock, ma la musica la devono capire anche a Poggiobustone (Rieti), soleva dire Lucio.
Senza contare che il rock ha una caratteristica assolutamente curiosa ed unica: la carenza tecnica, anziché limite, assurge al ruolo di Merito. Infiniti gruppi non
solo dichiaravano, ma si vantavano di non saper suonare (un esempio per tutti: i Cramps). Ma un esempio anche più grande viene dai testi del rock. Per esempio:
“Sono un anticristo, sono un anarchico, non so cosa voglio, non voglio ciò che ho”, da Anarchy in the U.K., dei Sex Pistols, è una delle liriche più
significative dell’intera storia del rock. E si badi che non dice niente.
Il che è come dire: meno impegno, più scetticismo= più importanza (ch’è un po’ quello che sto facendo io con la mia fondamentale opera, con il mio
eccellente… BO? Come si chiama? Divertissement?). A proposito:
Nessuno fin’ora ha messo per iscritto il Nulla, quello che si potrebbe dire chiacchierando al Bar dello Sport, sbagliando anche clamorosamente giudizi di
merito (ma non dimentichiamoci che i dotti hanno sempre detto anche castronerie, in qualsiasi tempo e luogo-Pascal dava all’ipotesi eliocentrica il puro carattere
di teoria), quello che viene in mente, di nessun interesse, ma ch’è la vita, ricordi personali, autocitazioni, opinioni, spiegazioni, chè qualcuna ne ho azzeccata,
interessi, passioni, tentativi di capire, imitazioni della Vera Letteratura, pseudofilosofia, filosofia, citazioni (ironiche), ricerca dell’ intero scibile, “fette di vita”,
saggi, per quel che m’è possibile con quel poco che so, impressioni, paranoie, paure, terrori, dolore, insegnamenti, TUTTO, tranne la tragedia, chè comunque
arriverà la Morte a sdrammatizzare il tutto.
Cfr. Picasso: “l’arte è una finzione che ci fa comprendere la verità”.
E Van Gogh: “che siano pure delle finzioni, se si vuole, ma più vere della realtà letterale”. E letteraria, aggiungo io.
E quando dico “Fin’ora nessuno ha mai, etc”, non è una ridicola presunzione di originalità, chè non me l’ero nemmeno proposto: qui si segue il processo
inverso: fare di necessità virtù.
Infatti, non saprei scrivere con continue dotte citazioni, alla D’Annunzio, o con continue sperimentazioni, alla Joyce; e nemmeno con quello straordinario
orecchio per il parlato che caratterizza Hemingway.
Così, non mi resta che ripiegare su un grossolano “montaggio esibito”, alla Ejsenstein, solo che il suo non era casuale!
Ho cercato di mettere la mia “mente scrivente” su carta: p.es., se un pezzo (su uno stesso argomento), lo scrivo dopo, non cambio tutta l’impostazione del
discorso (troppa fatica, scrivo per divertirmi); basta dire al lettore che quel pezzo, per l’appunto, mi è venuto in mente dopo. L’onestà compensa la mancanza di
talento, come scrissi all’inizio del mio fondamentale scritto: è un montaggio esibito. A volte sono caduto nell’errore di scrivere pagine di diario, (è uno dei pochi
difetti del mio libro) e questo non mi piace, e perché mi ero proposto di non farlo, e perché un diario non lo considero un’opera letteraria, nonostante il successo
di quello di Anna Frank-ma quello è un documento.
Apro una parentesi: nella mia libreria personale ho un libriccino (l’autore è Dietlieb Felderer) che sostiene che il suddetto Diario sia un falso (A hoax, “una
truffa”, nell’originale inglese), cioè che sia stato scritto dopo la guerra dal padre di Anna. Sebbene io abbia persino un libro dello stesso autore che sostiene che i
lager non siano mai esistiti (La fandonia di Auschwitz) quali luoghi di sterminio, ed è chiaramente un’idiozia, quello su Anna lo trovo meritevole di attenzione.
Negando l’autenticità della Sacra Sindone non si nega, evidentemente, il Cristianesimo; allo stesso modo, negando l’autenticità del Diario, non si nega
l’Olocausto. Comunque è impossibile farsi un’idea sull’autenticità o meno del diario, poiché i negazionisti del diario vengono associati tout-court, come detto, ai
negazionisti dell’Olocausto (né si capisce il perché). Per parte mia, considero probante l’esame calligrafico, così come dell’Olocausto considero probanti le
fotografie e i filmati. Come San Tommaso, per credere debbo mettere il dito nel costato; mi si dice che la calligrafia del diario è uguale a quella di altre lettere di
Anna: ben mi sta. Meglio così, perché il testo presenta davvero non poche incongruenze. Né sarebbe mancato il motivo (facilmente intuibile) per confezionare un
falso.
Chiusa parentesi.
Un altro difetto del mio libro è che uso troppo le virgolette, ma non so rendere certe espressioni senza farne uso. Qualcheduna è fuori luogo, lo riconosco.
Preferisco ammetterlo che rivedere tutto il testo.
(questo pezzo è aggiunto molto dopo):
Ma la cosa che mi piace di più del mio libro, ne ho trovato conferma nel film del 2006 Driving Lessons è che l’ho fatto io.
Nel film Ben dice a Evie, dopo averle letto un pezzo di poesia scritta da lui: “non è Shakespeare”.
Risposta: “no, caro. Ma è bello. Ed è TUO”.
Lo stesso si può dire del mio libro: non è Dante. Ma è MIO. (Rispetto al film, io toglierei persino il “bello”).
E’ mio!
A proposito:
I viaggi, si diceva. Amo viaggiare. Ho scoperto che stare in Italia è altrettanto bello che andare all’estero, anche oggi che ci sono le distanze abbreviate,
l’inglese e l’euro. Un mio grosso desiderio è quello di farmi la raccolta completa della rivista Bell’Italia, sono ormai già oltre duecento numeri, l’unico omaggio
dell’editoria periodica al nostro paese. Le prossime città che voglio vedere sono Bergamo e Prato.
Di solito faccio così: pianifico accuratamente il viaggio, prima di tutto con enciclopedie, libri d’arte e guide varie (oltre alla guida Michelin) per sapere cosa
c’è da vedere; poi viene lo studio dell’itinerario sul sito sempre della Michelin ed eventualmente delle Autostrade (che però non amo molto, le autostrade, non il
sito) e sull’Atlante stradale (sono socio Touring); infine penso al giorno o ai giorni di viaggio, ai soldi e a che la macchina sia in ordine. La sera prima cerco di
dormire entro mezzanotte e…via! Ma di solito tutto il programma viene notevolmente ampliato ed infatti anche i soldi non mi bastano mai. Per esempio, dovrei
tornare a Siena perché l’estate scorsa prima di arrivarci mi sono intrattenuto troppo a Lucca, che tra l’altro avevo già visto, e così non ho potuto vedere tutte le
cose a pagamento.
Infatti me la prendo con calma quando sono in giro,e se vedo una cosa fuori programma che m’incuriosisce non esito a volerne sapere di più, anche se so che
questo significa tempo, benzina (anzi gasolio) e soldi perché poi magari c’è una chiesetta o un museo insolito da vedere e guardacaso sono a pagamento (e in
genere non si spende poco). Quest’ultimo è un lato negativo dei viaggi. Ma poter andare in giro è un lusso, lo ammetto. Comunque, non mi sono mai pentito di
questo mio atteggiamento “randagio”.
Un'altra caratteristica dei miei viaggi è la solitudine. Vado sempre da solo (non ho amici), ormai mi sono abituato, è anzi una delle cose più piacevoli, specie in
certi momenti. Per esempio, l’immagine stereotipata del cow-boy col suo fido cavallo contro il tramonto, talvolta mi sembra di riviverla io, solo contro il
tramonto, con la mia fida Citroen.
Looooooone Rangeeeeeeeer! Vruuum vruuuum!
Un’altra caratteristica dei miei viaggi è lo scarso interesse che dò al cibo, questo in totale disaccordo (non voluto) allo stile che aveva mio padre, che anzi
pensava e faceva spesso tappe (e anche interi viaggi) in funzione di un piatto (o di un vino). Giustamente, perché no. Ma io mangio poco e male (in viaggio)
sostanzialmente per motivi economici (in genere dormo pure in auto). Ho qualche attenuante: quello che non impegno del mio spirito a tavola lo metto in
un’infaticabile (stupisce anche me) curiosità verso qualsiasi altra cosa; inoltre, quando ci vuole, contravvengo volentieri alla regola andando soprattutto alle sagre
di paese, dove i piatti tipici sono di casa spesso (ma non sempre a dire il vero) più a buon mercato che al ristorante. Basta prendere il pane del luogo per entrare
nello spirito della locale popolazione (la gastronomia dovrebbe servire a questo, se no si è solo dei mangioni golosi; tutte ottime qualità, ma si gode meno), senza
andare per forza nel “tre forchette” Michelin . All’alcool dò maggior attenzione, a volte una bottiglia di vino può sostituire un pasto. Rosso però, perché bianco
mi fa rimettere le budella, se non è il “bianchino” alla spina del bar. La birra mi piace ancora di più.
Quando sono in giro m’infastidisce la gente, vorrei essere nel Sahara, solo che là non ci sono fiumi, cattedrali e musei.
Il comportamento degli altri è del tutto incomprensibile (ed esasperante). Stanno ore a guardare o fare niente e tu devi fare una foto proprio in quella direzione;
ma le cose da vedere, in cinque minuti se le sbrigano e girano intorno a me ancora fermo in contemplazione come sciami di api. Anche una normale visita può
diventare davvero difficile se ti insegue letteralmente il custode della sala o un’improvvisata guida (ci sono sempre). Ultimamente ha fatto così persino un
sacerdote in chiesa, o forse aveva paura che gli rubassi le riviste.
Come faccio, se sta sempre lì!
Comunque la loro malafede è evidente. Il viaggio per me può anche non essere pianificato. Dato che non lavoro, mi capita spesso di andare ad un concerto e,
se esagero con la birra (quasi sempre), mi fermo a dormire in auto (ho persino il materassino gonfiabile). Bene, al mattino mi sembrerebbe assurdo rimettermi
subito sulla via di casa; così apro la guida Michelin o cerco l’ufficio turistico, ex pro-loco e mi trattengo almeno fino a pranzo. Alcune località meravigliose le ho
scoperte così, per caso.
La caratteristica dell’Italia è quella di avere, all’interno di una stessa provincia, cento patrie, storicamente siamo eguagliati dalla sola Germania, dunque un
paese di tre o quattromila anime è capace di affascinare quanto il capoluogo da centocinquantamila o più. E sovente lo fa. Per esempio, sono solo passato per
Prato, senza visitarla, ma mi stupisce che sia stata sotto Firenze fino a tempi recenti. Per non dire di Carpi, cui Modena declassa i carpigiani a provinciali (ma
loro non si sentono tali, né in effetti lo sono). Per dire di centri meno grossi, Guastalla (12000 ab.) è più bella di Reggio (che di abitanti ne ha oltre dieci volte
tanto). Ovviamente qui c’entra anche un giudizio soggettivo. Però l’Italia è così, il regno del bello. Ovunque.
Vorrei fare una graduatoria personale delle città (capoluoghi di provincia) più belle del Belpaese, graduatoria del tutto inutile per due motivi: primo perché il
luogo più bello per ognuno è quello nel quale si sente meglio, che non ha niente a che vedere con quello che c’è da vedere: basta che si sia capitati in una città
“bruttina” o “minore” mentre si era innamorati (tanto per dire una banalità), e questo luogo diventa subito bellissimo, magico. Secondo, o forse primo, perché
non conosco che la metà delle regioni italiane (non sono mai sceso sotto Roma). Ma mi diverte troppo parlare di viaggi, ed era tanto che volevo dire la mia
(potrò integrare comunque via via che vedrò anche il Mezzogiorno). Quanto dico vale dunque solo per Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto,
Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria; del Lazio non conosco che la capitale. Il Nord però lo conosco bene, con l’eccezione del
Friuli-Venezia Giulia. Del Sud rimpiango soprattutto di non aver ancora visto Napoli, la Puglia e le isole. Bene.
Le dieci città più belle d’Italia, le “splendide”, per me sono, alla rinfusa: Lucca, Bologna, Siena, Venezia, Milano, Roma, Ravenna, Ferrara, Mantova e Verona.
Non saprei metterle in ordine, anche se a rigore una Ravenna viene prima di una Milano.
Come secondo scaglionamento, le “bellissime”, direi: Modena, Parma, Pavia, Padova, Firenze, Pisa, Torino, Genova, Vicenza, Trento, Cremona, Piacenza,
Como, Brescia, Forlì-Cesena, Prato, Arezzo, La Spezia, Treviso, Novara, Vercelli, Bergamo, Pesaro-Urbino, Ascoli Piceno, Perugia, Pistoia.
In una “terra di nessuno” stanno: Aosta, Alessandria, Asti, Cuneo, Livorno, Rimini, Belluno, Lodi, Biella, Verbano-Cusio-Ossola, Monza e Brianza, Ancona,
Macerata, Fermo, Bolzano, Massa-Carrara.
Infine quelle più bruttine: Rovigo, Sondrio, Reggio Emilia, Varese, Lecco, Imperia, Savona, Grosseto, Terni.
Ribadisco che non conosco il Sud, ma so per esempio che tutte le città della Sicilia meritano di stare almeno nella seconda lista (e Palermo, Napoli e Lecce
nella prima). E so che Trieste è bellissima.
Qualche spiegazione è inoltre doverosa, poiché non ho messo Firenze nelle prime dieci, e poiché la “mia” città (Reggio nell’Emilia) è agli ultimi posti.
Per “bella città” io intendo sostanzialmente una città conservata dal tempo e nel tempo, cioè il cui assetto urbanistico è immutato almeno dal Quattrocento:
come si vede, le prime dieci lo sono, ed alcune lo sono anche di più: Siena più che una città è un museo. Lo stesso Ferrara, Ravenna e Venezia. Milano no, ma è
bella per il motivo opposto: si è conservata industriale, cioè come è nata. E’ chiaro che questa vittoria è “di misura”: anche Pavia è medievale, anzi addirittura
romana. Ovviamente anche per me c’è un motivo emotivo in queste valutazioni: frequento ben più Mantova e Verona di Pavia. Perché Firenze sia solo seconda
l’ho spiegato altrove: è zeppa di cose splendide, ma non lo considero requisito sufficiente perché la città stessa possa dirsi splendida, anche se sembra un
controsenso. Passeggiare per Bologna mi dà più la sensazione di “antico” che passeggiare per Firenze.
Le città della terza lista, prendo a modello Ancona, non sono di per sé “speciali”, però hanno almeno una cosa superba (per la città citata è il Duomo di San
Ciriaco). Rimini ha il Tempio Malatestiano, Livorno la Terrazza Mascagni, etc.
I centri dell’ultima lista hanno davvero poco, anche se talvolta di rilievo (peraltro non le ho definite “brutte” tout-court, ma “bruttine”): Reggio ha il
Municipale (Teatro Romolo Valli), uno dei più belli d’Italia; ma il resto lo trovo davvero scarso. Ci sono sì le piazze San Prospero e Fontanesi, ma sembra più un
paesone che una città, specie per chi viene dall’odiata (per ovvi motivi, cioè perché è più bella) Parma, o da Modena.
Purtroppo anche l’Italia è ovviamente cambiata, ovviamente in peggio. Me ne sono accorto a Padova, ch’è un tesoro, non solo per le emergenze monumentali,
ma anche e soprattutto per l’aspetto urbano, delle vie, del “passeggiare” (v. più avanti i capitoli su Firenze). Ovviamente anche a me interessano i capolavori per i
quali la città è famosa; a Padova essi sono la Basilica del Santo, con il monumento al Gattamelata di Donatello, e la cappella degli Scrovegni (affrescata da
Giotto), se avessimo solo 2/3 ore per fare un giro in città. Infiniti altri ce ne sono, sia chiaro (Cappella Ovetari, Orto Botanico, etc.).
Però, da un certo particolarissimo punto di vista, che spero di rendere, i grandi monumenti non sono forse così fascinosi come il semplice aspetto delle vie,
quello che io chiamo “il bello del passeggiare”, per l’appunto. Secondo me, è qui che salta fuori l’Italia, perché anche New York o Boston hanno le loro
emergenze monumentali, anche se ovviamente non medievali o rinascimentali (e per alcuni questo è anzi un vanto, v. oltre).
Scherzando, penso tra l’altro, a volte, che, così come gli svizzeri hanno tre o quattro cose per le quali sono noti nel mondo, lo stesso si può dire di gran parte
delle città italiane: p.es., loro hanno le banche, la cioccolata, gli orologi, etc., Cremona ha il torrazzo, il torrone, i violini, etc.!!
E’ solo un gioco, naturalmente, ma fino a un certo punto. Tolte queste celebrità, infatti, eccetto alcuni veri e propri scrigni di tesori, come Milano, Venezia,
Firenze, Roma, Napoli, nulla resterebbe, se l’Italia non fosse meravigliosa anche e soprattutto in un angolo di via, in una fontana, in uno scorcio tra palazzi.
Continuando su questo tono, ecco che forse le città americane sono perlomeno omogenee, essendo tutte relativamente nuove.
Mentre l’Italia è invece deturpata dalle automobili, per esempio, piuttosto che dai negozi, sempre più orribili, ma anche e soprattutto dallo sventramento
d’interi quartieri, dall’interramento di canali, dalla costruzione scriteriata.
Piazza dei Signori a Padova, per esempio, non si capisce se sia uno spazio cinquecentesco circondato da vetrine luccicanti, o un quartiere moderno dove siano
stati messi, avulsi dal contesto, il Palazzo del Capitanio e la Loggia della Gran Guardia.
Voglio dire, che ormai i tempi non sono più quelli nei quali furono costruiti quei capolavori, e si vede, eccome! E dunque il guaio dell’Italia, non sapendo
fermare il progresso ma anzi accogliendolo, è quello di avere, paradossalmente, troppo di antico, al punto che, personalmente, non mi sembrava fuori luogo
quell’orribile negozio di scarpe, brutto anche per un centro commerciale, luccicante etc. di Piazza dei Signori; bensì, mi sembrava fuori luogo, complice la
consapevolezza di essere nel XXI sec. (e le automobili, l’abbigliamento, i media ce lo ricordano continuamente), proprio il Palazzo del Capitanio. Parlo
esclusivamente dal punto di vista estetico, del buon gusto.
Almeno oggi, diversamente dagli anni ’60, ’70 e ’80, vietano l’ingresso delle auto nei luoghi più storici.
Ma neanche quarant’anni fa, però, Padova era ancora una piccola Venezia, come lo era fino all’Ottocento Bologna.
Cosa voglio dire con tutto ciò? Che il Bel Paese porta in sè un germe, per così dire; così come chi ha amato molto, ha anche sofferto molto e così come più una
donna è bella, più è triste vederla sfiorire, il paese più bello del mondo è anche, ai nostri giorni, e lo sarà sempre più, in sfacelo, triste.
Proprio come Venezia, della quale si ricorda sempre il Settecento perché fu il secolo dell’agonia, della bellezza più struggente. Alla fine di quel secolo, infatti,
la Serenissima morì.
Speriamo che le bellezze dell’Italia durino un altro po’.
Il lato naturalistico m’interessa meno. Amo il mare, vorrei prendere il brevetto da sub, ma non ho mai fatto escursioni serie di qualche giorno in un bosco, per
esempio. Ho un solo rimpianto: non essere salito fino in cima al Piz Galin, ch’è una vetta di poco più di 2000 m. che sovrasta Andalo, in trentino. Ci andai a
dodici-tredici anni ma mi fermai dove comincia l’ultima mezz’ora di scalata, quella un po’ più seria che porta proprio in cima. Il motivo? I miei al telefono prima
di partire, mi dissero che poteva essere pericoloso.
A volte bisogna fare quello che si sente (dentro, non al telefono). Ma voglio tornarci, magari quest’estate (sono sette-otto anni che vado in Versilia-Maremma).
Piccola digressione: mi sono accorto che sto scrivendo un fottuto diario ed era quello che NON mi ero ripromesso nella mia dichiarazione d’intenti(?) iniziale.
Praticamente quello che sto facendo è anti-costituzionale.
Ma sono argomenti difficili da racchiudere in sistemi di pensiero. Per esempio, l’ultima cosa che ho scritto, che per me è una delle verità della vita, potrebbe
non essere così per tutti. C’è chi non gliene frega niente di una pieve ma vuole vedere il Colosseo (il monumento italiano più visitato, N.d.A.); c’è chi guarda
solo i giardini, meglio se con bimbi dentro (mi riferisco specialmente alle vecchie babbione); c’è mia madre, che vuole sì vedere le cose, ma in auto: è chiaro che
se non si tratta di qualche torre o campanile (e belli alti) non si vede un’acca, e a questo punto i piccoli centri è difficile che abbiano la Tour Eiffel. Si potrebbe
obiettare che quella è ignoranza (magari in un museo si fermano davanti all’estintore; lo faccio anch’io, ma solo in quelli di arte contemporanea; sempre meglio
che vedere un sacco di patate bruciato- il riferimento è al Burri- scherzo, ovviamente).
Ma anch’io non è che sia un esperto d’arte o di architettura o di storia o di niente, in pratica (e quelli che se ne intendono davvero potrebbero anche non
viaggiare, d’altra parte: per loro un quadro è un documento, va al di là del bello e del brutto). Semplicemente, il livello di fruizione è sempre adeguato
all’utilizzatore, ho sempre pensato che se non si capisce una cosa è l’uomo ad essere inadeguato all’opera e mai viceversa. Però è impensabile rimandare un
viaggio in attesa di laurearsi o di aver finito tutto il Longhi, l’Arcangeli e l’Argan.
Chissenefrega!
Forse Sgarbi non sarebbe d’accordo. Io penso invece, e Schopenauer con me, che per essere compresa, una compiuta opera d’arte non deve mai avere alcun
bisogno della storia dell’arte. Poi il sapere è settoriale, anche se non a compartimenti stagni. Sgarbi non saprebbe preparare un farmaco ed Eco difendere un
brigatista; mentre Pascal dice ch’è meglio sapere un po’ di tutto che tutto di un po’: “quest’universalità è la più bella”.
Una cosa che mi piace particolarmente è studiarmi le piante delle città con attenzione: se dovessi andare all’università (la voglia ci sarebbe ma non ho i soldi)
sceglierei o lingue straniere, ma poi ho saputo ch’è meglio fare la scuola per interpreti, oppure quegli studi che fanno conoscere per l’appunto le città (non so
qual è il percorso, sicuramente tra le discipline ci sarebbe l’urbanistica). Sono arrivato al punto che rispondo agli annunci delle ragazze sulle riviste perché spero
che col tempo ci sia d’andarle a trovare e dunque potrei visitare anche la loro città!
Per la verità c’è anche un altro motivo, ed è l’investigare le sensazioni che si provano in un rapporto epistolare.
A proposito:
13.1.-SUL SESSO
(una rivelazione)
Io da sempre sostengo che l’amore non ha nulla a che fare con il sesso: quello è l’amore sessuale, che riguarda il novantanove per cento dei casi vissuti
comunemente dalla gente comune e che chiamiamo “amore”. Bene.
Ma si scindano quei rapporti dall’attrazione fisica: cosa resta? In un film americano degli anni Cinquanta, un’aspirante giornalista incontra un’uomo che ha
certe idee sul giornalismo: a un certo punto, vedendo che la ragazza è persuasa della bontà della stampa del suo paese, l’uomo le dice: “tolga dal primo
quotidiano che trova la programmazione cinematografica, i necrologi e la pubblicità e mi faccia sapere cos’è rimasto”. La nostra sul momento si mette a
ridere. Cambia la sequenza e si vede lei che la sera con un pennarello cerchia tutto ciò che le aveva suggerito il nostro; ebbene, con aria sconsolata si accorge che
non è rimasto proprio nulla, aveva ragione lui (credo Cary Grant ma non sono sicuro).
Mi sembra la stessa cosa con l’amore, coniugale o altro, che abbiamo sempre sotto gli occhi: o si tratta di sesso, o di sistemarsi economicamente, o che si sente
di non adempiere a convenzioni sociali non meglio precisate.
Si tolgano queste cose, e non resta niente.
Ma esiste l’uno per cento di amore che ritengo sia essere il solo, ed è di due specie: l’aiutare il prossimo, che posso rendere meglio dicendo: la compassione
buddista piuttosto che citando Madre Teresa di Calcutta, solo per farmi capire, (Schopenauer: “l’amore senza compassione è solo egoismo”), e questo non
riguarda l’uomo e la donna ma è universale.
C’è poi il vero amore tra i sessi ed è proprio là dove si ritiene di solito che debbano invece stare l’amicizia e il disimpegno: scrivere lettere (e spedirsele,
beninteso). Questo è l’amore tra un uomo e una donna: cerebrale, incorporeo, forse perché a quel punto non si è più uomini e donne.Questo spiega anche il
successo delle chat in internet, secondo me.
Dov’è il divertimento? L’obiezione è giusta, ma va integrata con un’altra (Severgnini): e nei rapporti normali, visto che vanno soggetti a disgrazie ed accidenti
di ogni tipo? Si sappia comunque che il fine della natura è quello di perpetuare la specie: la donna è bella (tra gli animali inferiori è più bello il maschio) affinché
l’uomo la seduca, si stia insieme e lei possa finalmente scodellare uno o più figli.Per questo il preservativo è indispensabile, (non tanto per l’AIDS, ne muoiono
di più in auto), come sembra abbiano capito persino i cardinali più globalizzati diciamo, quelli latino-americani (ma non i nostri papi, compreso l’ultimo
aihmè).E’ probabilmente l’uomo che si deve emancipare: non piangano poi le donne riguardo l’inaccessibilità al soglio pontificio: sono più utili altrove.
E ce lo teniamo per detto. Prossimo argomento: la tecnologia.
1.3.-ANGELI
14.-SUL NUCLEARE
La tecnologia, dicevo. Imparare ad usare il pc è una trappola: non si è mai finito (oltre che una “lima sorda”). Ora sò fare qualcosa.
Parlando di tecnologia e di tecnica umana (forse è una tautologia), come non dire qualcosa sul nucleare? Il pretesto mi viene da un documentario che ho visto
ieri sera in TV sugli effetti dell’esplosione di Hiroshima, ma legate all’argomento ci sono diverse interessanti considerazioni che mi tornano spesso in mente. Il
concetto dell’energia nucleare mi sembra possa riassumersi nel fatto che un’immensa potenza ( tendente all’infinitamente grande) sta racchiusa in una porzione
di materia minuscola (tendente all’infinitamente piccolo). Lo schema del grande nel piccolo si può applicare a praticamente tutte le città italiane; prendiamo
Firenze, minuscola ma dirompente nella storia dell’uomo. A Lucca esiste un ex-oratorio di dieci metri per quattro ch’è sede dell’accademia filarmonica di quella
città: ci si aspetterebbe il palazzone neoclassico per tale importante istituzione, e invece… di nuovo il grande nel piccolo. Gli esempi sono ovunque, e questo si
ricollega all’eccezionalità della situazione italiana della quale parlavo a proposito dei viaggi.
D’accordo, ma questo non c’entra con l’energia sfruttata per costruire la bomba: però la teoria iniziale di Einstein, avanzata per la prima volta nel 1939 e
sempre facente capo a E=mc2, credo avesse sostanzialmente a che fare con un’intuizione di questo tipo.
Pro o contro il nucleare? Io posso solo osservare alcuni fatti, dato che non sono un esperto e che per fortuna non ho la responsabilità di decisioni fondamentali
come quelle riguardanti l’impiego di questo tipo d’energia. In un certo senso, ed in senso lato, un arresto della scienza nella sua funzione costituzionale di ricerca
non è possibile, neppure pensabile, se no, non esisterebbe la scienza.
Secondo questo assurdo proposito, l’uomo potrebbe camminare ma non correre, gli aerei dovrebbero essere tutti ad elica, e Galileo insieme ai suoi gravi,
doveva buttare dalla torre di Pisa anche se stesso. E’ una forma nuova di energia, decisamente utile, oltre ad un’ennesima vittoria dell’uomo nella storia “del
pensiero”, anche se l’espressione è infelice ed impropria. Tutto qui. Lo scienziato, da questo punto di vista, si trova nella situazione più felice.
Tuttavia, la possibilità di utilizzare quest’energia per ordigni estremamente distruttivi (teoricamente una sola bomba H al cobalto da cinquantamila megaton
può spazzare via l’intero genere umano), fa problema. Ma, allora? Il coltello che usiamo per dividerci il pane da buoni cristiani (o mussulmani), può con facilità
uccidere un uomo. Tant’è vero, che cinesi e giapponesi non lo utilizzano a tavola, per loro è un’arma (per questo usano i bastoncini). La pistola è un bene o un
male? Nel suo piccolo, è come l’atomica: in un’attimo, con un minuscolo pezzo di piombo, uccide un uomo; del resto, proprio per questo, e proprio come
l’atomica, negli Stati Uniti essa è considerata buona, risolutrice. Allora, disarmiamo i poliziotti? Da questi pochi esempi, si capisce facilmente che un’oggetto
non è buono o cattivo, come l’uomo del resto: dipende dall’utilizzo, e l’utilizzo dipende dalle circostanze. E fermiamoci qui, per non imbarcarci in ardue
speculazioni (una per tutte: donde il male?).
Proprio qui però, si sente che il ragionamento, di per sé ineccepibile, non soddisfa, lascia con l’amaro in bocca. Come per la droga, tutto OK se la quantità è
minima e per uso personale: oltre queste condizioni, diventa reato. La potenza distruttrice, immediata e futura, di un ordigno nucleare o peggio termonucleare, è
tale da non lasciare con la coscienza pulita: oltre centomila persone morirono in una frazione di secondo quel giorno a Hiroshima: la potenza era di circa venti
chilotoni. Mi sono documentato, un chilotone equivale a mille tonnellate di tritolo, un megatone a un milione di tonnellate.
La più piccola bomba H o a fusione (termonucleare) è di cinque megatoni.E non c’è limite (teorico) alla massa e dunque alla potenza di una bomba H. I
centomila morti diventerebbero milioni e milioni. Ma forse il problema non è nemmeno questo: se fossero milioni di nazisti, chiunque oggi (anche i tedeschi),
approverebbe l’utilizzo di questo tipo di bombe. Ma qui si rischia veramente di fare come quel vescovo impegnato nella crociata contro gli albigesi, il quale, alla
domanda se si dovesse risparmiare qualcuno (nel marasma potevano esserci buoni cattolici), rispose: ammazzateli tutti: Dio riconoscerà i Suoi.
Per non dire degli effetti delle radiazioni, l’assurdità più assurda, perché, come certi giapponesi nel secondo dopoguerra, si continua la guerra anche quand’è
finita, cioè si continua a punire quando le condizioni non sono più quelle e gli eventi che spinsero a una tale risoluzione, sono ormai lontani nel tempo.
E’ la vecchia storia del gatto da meditazione: un monaco buddista aveva un gatto ch’era solito lasciare fuori dalla porta del convento affinché non disturbasse
le sue ore di raccoglimento: morto quel monaco, gli altri monaci continuarono fino alla morte del gatto a tenerlo fuori nelle ore in cui il defunto era solito
meditare! Esiste un problema di tempo: nessuno si sognerebbe di riesumare uno scheletro di un caduto delle guerre puniche per impiccarlo per i piedi. Però c’è
chi vuole imprigionare o peggio un ultranovantenne(!) per gli eventi bellici di sessanta(!) anni fa. Certo, difficile stabilire convenzioni in questi casi, c’è il dolore
delle vittime. Per quanto riguarda la presunta funzione deterrente dell’utilizzo dell’atomica, qui forse c’è qualche ragione: anche i detrattori del nucleare non
sanno in realtà dire come e quando la guerra sarebbe finita senza ricorrere a un qualcosa di così tremendamente vistoso per il mondo come il fungo atomico.
Soprattutto dopo sei anni (quattro per gli USA) e milioni di morti. Si era stanchi. Ma adesso c’è un precedente ed è talmente pericoloso che forse una soluzione
alternativa si doveva trovare, se gli americani non fossero stati così incazzati dopo Pearl Harbour. Ma lo erano, e con i se e con i ma…
Sopra tutti questi discorsi degni degli uomini di buona volontà, si viene poi a sapere che TUTTI volevano costruire la bomba atomica, anche i tedeschi e i
giapponesi (noi no, eravamo troppo impegnati a lucidare gli otto milioni di baionette; anche se tutto partì con Fermi nel 1934). Forse esiste anche un’anima nera
nell’uomo, (anche se l’esistenza dell’anima non è dimostrata quanto l’esistenza dell’atomica), sapendo che la realizzazione di una bomba atomica non può che
essere la “personificazione” della morte, né si poteva ignorarlo allora.
Piccola digressione: negli anni cinquanta, dopo il primo esperimento di esplosione di una bomba a fusione (le due sganciate in Giappone erano entrambe a
fissione)nel 1952, fu di moda per un certo periodo farsi il rifugio antiatomico in casa. Ricordo che la cosa venne trattata anche in una puntata di “Happy Days”,
telefilm degli anni Settanta ma sui “Fifty’s”. I Cunningham si fanno costruire il rifugio in giardino e tutti gli amici di Ricky, a turno, chiedono di avere un posto
in caso di bisogno. E lo chiedono in tanti e con insistenza. A tal punto che la vita diventa impossibile. Alla fine della puntata, non ricordo chi, forse Howard, dice:
Basta col rifugio, MEGLIO VIVERE ADESSO CHE SOPRAVVIVERE POI.
Mi è sempre rimasta impressa questa frase fatalista, perché si applica a tante situazioni, anche alla decisione se imparare o meno le arti marziali, per esempio.
Se vuoi impararle, forse se ti attaccheranno ti saprai difendere, ma se ci metti i soldi che spendi, la fatica, le serate impegnate, le umiliazioni da chi è più bravo,
fino alla possibilità remota ma reale di farsi male: se qualcuno non ne avesse voglia non lo biasimerei (sebbene io faccia qualcosa), dicendo con Howard: meglio
vivere adesso che sopravvivere poi.
Ed è in generale il segreto della felicità: vivere nel “qui e ora”.
Per ultimo vorrei fare una riflessione sulla “bontà” degli statunitensi, che non solo non esitarono a usare la Bomba, ma nemmeno a “coventrizzare” Dresda,
cosa del tutto gratuita, né a commettere atrocità di ogni tipo (e del resto sarà una tradizione, perché continuano tutt’oggi in Iraq, anche con noi). Vero è che
salvarono il mondo. Aldilà della qualità di libri, film, cibo e quant’altro (io vado spesso da McDonald), non vorremmo che dicessero, per così dire, noi l’abbiamo
salvato, cioè fatto, noi lo distruggiamo.
Ma forse ci stanno pensando seriamente adesso.
Nei film di Ejzenstejn spesso una scena dura non il suo tempo reale ma molto di più perché viene ripresa più volte (vedi la madre che cade disperata non una
ma diverse volte quando vede la carrozzina scappare giù per la scalinata di Odessa, e la carrozzina stessa metterci un quarto d’ora a scendere-nella realtà una
decina di secondi), così ecco di nuovo, al proposito:
“Diciamoci la verità:
Joyce è quasi illeggibile”.
(Marco Torelli, Betrachtungen)
“Garçon? Ma Marie Brizard?”
L’avevo detto che avrei finito con una Marie. Mia madre si chiama Marie (Anne-Marie per la precisione, Annamaria), la mia prima cotta non cosciente si
chiamava Marie (anzi Maria, era catalana; la seconda, o prima cosciente, nonché ultima, Chiara-di qui la famosa rivista Marie Claire), e cos’è quel Miriam che
mi sento rispondere sempre più spesso quando chiedo il nome a una ragazza, se non la solita Maria? Nome anche maschile, peraltro: Gian-Maria Volontè,
Enrico-Maria Salerno, il “Maria” tiene buono il resto del nome e l’uomo, del resto Andrea, il quarto discepolo e il preferito da Gesù, in Grecia è femminile e
Rosario, in Portogallo e Sudamerica, pure femminile. Esisterebbero pure Cinzio e Marca, ma io conosco solo marchette (metonimia per donne che le fanno).
Ma torniamo a bomba (non H).
Che dormita! Ho scelto il giorno sbagliato per smettere di bere (L’aereo più pazzo del mondo)!
Forse se smettessi di bere non mi sognerei più a Parigi che cerco di mantenermi, come all’inizio di questo scritto.
Non era che una citazione letteraria, anzi fumettistica.
Ma perché devo sempre svegliarmi? Ah, se potessi sempre dormire e sognare!, diceva Little Nemo.
Forse ho sbagliato tutto col negozio, forse dovevo tenerlo, ora non trovo un lavoro, anche se qualche ditta mi ha chiamato (ce l’hanno con me?). Forse sbaglio
atteggiamento verso il mondo, forse non dovevo venirci (al mondo).
Sto leggendo, per la prima volta a 33 anni (vergogna!) Così parlò Zarathustra. Unglaublich!Incredibile.
Io vorrei sapere chi ci ha capito qualcosa in quel libro: verrebbe da dire con Rousseau: “chi ha capito qualcosa delle mie opere me lo dica, vuol dire ch’è
bravo”. C’è tutto e il suo contrario.
Per questo è geniale.
Come il mio libro.
Personalmente nella storia del pensiero credo ci sia un prima e un dopo Zarathustra. Forse è esagerato, forse esiste una retorica di Z., così come n’esiste una di
Nice stesso, e una di Roma. Ma quando si afferma: non condivido nulla di questo libro, (che infatti è la negazione della morale cristiana), lo si è già un po’
accettato. Certamente Emilio Paolo, che deportò a Roma mille intellettuali greci, e Mummio che vi trasferì tutte le opere d’arte di Corinto, non si rendevano
conto che stavano trasformando in vittoria la disfatta della Grecia. Eppure, fu proprio così: i romani stessi poco dopo se ne accorsero e lo dissero: Graecia capta
ferum victorem cepit (Montanelli).
Cerchiamo di descrivere un po’ meglio il capolavoro niciano. Non mi soffermo sull’aspirazione superomistica perché non c’è niente da spiegare, è il chiodo
fisso dell’autore, così come per quei filosofi greci per i quali il principio e la fine di tutto è il fuoco per Tizio, l’acqua per Sempronio, eccetera, e ognuna di queste
posizioni è sostenibile.
E’ più interessante penetrare il metodo che, ho scoperto, deve tutto o quasi a Pascal, che infatti è il pensatore preferito del Nostro. Come si sa, il libro è diviso
in quattro parti. La prima parte è interamente sulla falsariga dei Pensieri : il procedimento dialettico cui s’informa è quello di non dar mai tregua al lettore, non
permettere che si arresti ad alcuna convinzione, ma distruggere via via le sue successive posizioni ideali, per mezzo di un “rovesciamento continuo dal pro al
contro”, affinché, essendo “senza stabilità e senza riposo”, abbia alla fine a riconoscere e confessare la sua impotenza a conoscere se stesso e ad adeguare le sue
forze alle sue aspirazioni (nota del Serini nell’edizione Einaudi dei Pensieri, pag. 169). E qui interviene Nice attaccando, per così dire, cioè inserendo nella
guardia abbassata del lettore un primo accenno sull’uomo che deve superare se stesso. L’onestà di un Nice non è certo paragonabile a quella di un Montaigne!
La seconda parte del Zarathustra è invece dogmatica. Per meglio dire: c’è, all’interno di ogni capitolo, una frase (un pensiero) che riassume, spiega e giustifica
il resto dell’intero discorso: è tale indicazione che ha carattere, checché se ne dica, di Dogma. Infatti, lungi dal non essere un’opera programmatica e
moralistica, come troppi hanno ritenuto, ingannati dal procedimento dialettico che ho appena descritto, si affermano nel Zarathustra posizioni certo antitetiche
alla morale quale può essere quella cristiana od al semplice sentire comune, ma ben precise. Sembra qui che si sia voluto fare come Oscar Wilde nel Ritratto di
Dorian Gray , dove chi afferma, p.es., che il tradimento coniugale è immorale si sente sistematicamente rispondere il contrario, in questo caso che non c’è vera
felicità nel matrimonio senza reciproca infedeltà! Con la differenza che Wilde era palesemente e direi dichiaratamente ironico. Invece nel capolavoro niciano si
ha la certezza che il profeta (nel senso di autore ispirato, ancor prima che in quello di vaticinatore del futuro), dice sul serio. Perché la frase “isolata”, meglio, DA
ISOLARE di cui parlavo è, senza eccezioni, una critica feroce al modo di sentire e/o di essere verso quelli che Schopenauer (il maestro di Nice) chiamava
FILISTEI .
La terza, e ancor più, la quarta parte sono invece assai più aneddotiche e prolisse. Anche in queste è però possibile isolare un pensiero riassuntivo; solo,
sovente, in forma di botta e risposta: meglio, di quesito dei discepoli di Zarathustra e sua conseguente dialettica, o viceversa.
Perché questa digressione sul libro di Nice? (orribile dire e scrivere “Nice”, ma la nostra prof. ci diceva così, e in effetti Nietzsche è poco pratico; però nessuno
chiamerebbe Schopenauer “Schopi” e Platone “Pluto”). Perché c’entra col mio libro e ancor più con la mia vita. L’intento vorrebbe essere quello di realizzare
un grande affresco che descriva il mio mondo, e che si capisce per l’appunto solo leggendo tutte le centinaia di pagine di cui il libro consterà, oppure ci
si potrà godere qualche pagina sparsa, ma in alcun modo si può pensare di capire qualcosa solo con quanto ho scritto finora, o da un singolo capitolo.
Del resto, niente è farina del mio sacco, è solo filosofia e si può trovare tutto, per deduzione o induzione, come conseguenza dei concetti esposti, in
qualche decina di libri; anche se in alcun modo è direttamente rintracciabile ciò che ho detto io in quei testi (Schopi). Pretenziosetto, eh?
Né si creda di vedere il risultato delle mie notti insonni presente l’autore ancora giovane; chè, al pari di Foglie d’Erba di Whitman, questo è un libro che andrà
riveduto e corretto per tutta una vita. Nove furono le edizioni, ognuna più ampia della precedente (io faccio praticamente lo stesso ogni volta che accendo il pc).
Come si sa, non esiste altro autore che s’identifichi a tal punto con UNA SOLA opera, tanto che si può dire che, al pari di Schopenauer, tutti i suoi scritti
esprimono un’unica idea (il Primato della Volontà per il primo, l’America come Luogo Epico per il secondo).
Nel mio caso, l’Anti-letteratura, o se si preferisce, una parodia di certa saggistica.
Però, a differenza del grande Walt, io non ho intenzione di pubblicare alcunché fino alla “Deathbed Edition”, l’edizione del letto di morte (bè, speriamo
qualche mese prima).
La mia immortale opera potrebbe persino restare incompiuta, come America o Il Castello di Kafka.
Nice, si diceva. A proposito:
15.1.-SULLA FILOSOFIA
(avvertenza per il lettore: quello che non si capirà, lo si rilegga o lo si prenda con ironia)
*******************AMPLIARE **********
Non conosco molto la filosofia, per la verità, ma qualche dritta posso darla.
Probabilmente farò la figura di Kevin Kline in A fish called Wanda, dove il suo personaggio legge Nice ma non capisce un cazzo.
Il termine come si sa è greco e vorrebbe dire: “amore della sapienza”, anche se l’accezione non va scambiata con l’essere colti.
Spesso si dice che un ragionamento è filosofico quando non è che un’arguzia popolaresca: non bisognerebbe dimenticare che la filosofia è un’arte, non una
scienza e che di filosofi ne nasce uno ogni cento anni.
Esempio: nel Cabezota, film spagnolo del 1982, si parla di una legge del 1852 che obbligava tutto il paese al primo insegnamento: il figlio del protagonista
“testa dura”, per l’appunto, che si chiama Pedrin, chiede all’unico funzionario pubblico del paese, Yeyo, se saper leggere e scrivere serva per poter poi cacciare.
Yeyo risponde che serve nella vita e la vita è una “cacerìa”.
La nota alla sceneggiatura precisa che la risposta è “filosofica”.
La filosofia non è questo: è un sistema di pensiero che dovrebbe giungere a dare una spiegazione del mondo, non nel senso di rispondere alle domande “da
dove veniamo, dove andiamo”, etc., cioè non spiegare il perché del mondo; solo che cos’è.
Che ci sia o non ci sia, il mondo non cambia di un millimetro.Questo il sentire comune. Ed è vero, forse, ma l’uomo?
Comunque proviamo a fornirne la ricetta. Nel calderone vanno messi: un intento metafisico, nel senso etimologico di “al di là della natura”, secondo la
successione dei libri di Aristotele, com’è noto. Non fermarsi all’apparenza delle cose, che anzi è ciò che si deve evitare. “Metafisica” comunque, è qualcosa che
per adesso lasciamo perdere, chè potrebbe stare per “teologia”, “ontologia”, “gnoseologia”.
Meglio dire: la capacità di meravigliarsi o la curiosità.
Platone dice che l’uomo vive nel sogno e solo il filosofo si sforza di stare sveglio. Vedere il celeberrimo mito della grotta nel VII libro, se non ricordo male,
della Repubblica.
(La metafisica è, a rigore, ogni dottrina che si presenti come scienza della realtà assoluta, che cerchi cioè di dare una spiegazione delle cause prime della
realtà prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza, secondo il Devoto-Oli. In origine il termine designò semplicemente l’ordine dato da Andronico di Rodi
alle opere di Aristotele, nelle quali egli aveva collocato i libri della “filosofia prima” dopo quelli sulla natura. Ma poiché la filosofia prima riguardava tutta la
realtà trascendente la natura, il titolo finì per definire lo stesso contenuto, cioè lo studio dell’ente in quanto ente. In senso generale una m. è possibile e valida
solo ammettendo una realtà esistente al di là della natura e allora diventa scienza delle cose ultime e dei principi supremi di tutte le cose. In questo senso la m. si
presenta come teologia, ontologia, gnoseologia, cioè la scienza di Dio, quella dell’Essere, quella del Conoscere).
Ognuno dovrebbe dire: “io credo nella metafisica”, che poi non è che lo stesso bisogno del Sacro che fa abbracciare a tanta gente una religione.
Per un Credo della metafisica, eccone qui il Decalogo:
1-è la morte che fa filosofare
2-la filosofia è per le menti adulte, la religione per i fanciulli (infatti la si inculca fin dalla più giovane età, al punto che sembra poi, nell’adulto, innata)
3-le religioni sono allegoriche, in questo senso sono meno vere (debbono sostanzialmente veicolare un messaggio) della filosofia
4-la fisica non permette di raggiungere l’inizio della catena di cause ed effetti; e se la raggiunge, arriva ad una forza comunque inspiegabile (che Schopenauer
identifica finalmente con la Volontà)
5-la fisica è il fenomeno, la metafisica la cosa in sé (in linguaggio kantiano)
6-l’inspiegabilità della cosa ultima fece ipotizzare la presenza di un’anima
7-una fisica assoluta, cioè il vero naturalismo, farebbe tornare al punto n. 4
8-pensare l’oggetto, cioè la natura, senza il soggetto che la conosce, significa scadere nel materialismo
9-i progressi della fisica non sono passi verso la metafisica, bensì fanno avvertire ancor meglio il bisogno di una m.
10-la metafisica può procedere solo dall’intuizione, non dai concetti
Si è capito ormai che io non possiedo un pensiero mio, ma ho fatto mio quello di Schopenauer; non ricordo se Goring o Goebbels, diceva: “io non ho una
coscienza: la mia coscienza si chiama Adolf Hitler”. Parafrasando, potrei dire: “io non ho un pensiero: il mio pensiero si chiama Arthur Schopenauer”. Spero che
ciò non venga inteso come apologia del nazismo.
Pitagora rende tutto ciò meglio: narra che di molti uomini che vanno al mercato, immagine della vita, alcuni sono impegnati a vendere, altri a comprare, perché
alcuni sperano in corone, altri in grandi guadagni; ma v’è anche chi giunge al mercato e non muove un dito. A chi gli chiedesse cos’è venuto a fare, costui
risponderebbe: “a osservare la natura”. Nel Simposio Platone risponde infatti a un commerciante che credeva di stare facendo grandi cose nella vita, che lo
commisera perché s’inganna, in realtà non sta facendo (leggi: per la sua anima) proprio nulla.
L’ozio viene comunemente identificato con la filosofia, e quest’ultima per questo malvista da chi è costretto a lavorare per vivere, cioè dagli uomini come sono
quasi tutti.
Ed è per questo che “bisognerebbe evitare di parlare con gli sciocchi, cioè con gli uomini come sono quasi tutti” (Schopenauer).
Ed è così: non puoi nulla per te in realtà se sei impegnato in un mestiere come “un fanciullo assorto nel gioco” (sempre Schopenauer).
Secondo, che è lo stesso, bisognerebbe giungere a “squarciare il velo di Maya”, direbbero gli Indù, cioè a superare quell’apparenza della quale parlavo sopra.
Però metafisico non significa nemmeno astratto, né divino.
Nel primo errore cade chi crede che, come lo scienziato, il filosofo abbia la testa fra le nuvole: ho già detto che la filosofia è un’arte ed è terribilmente
mondana e concreta. Talete di Mileto, a chi gli chiedeva perché non avesse figli, rispondeva: per amore dei figli. E’ forse astratto pensare e dire che si evita di
mettere al mondo una persona che si sa già per certo che soffrirà e soffrirà e soffrirà per tutta la vita, anzi solo fino al termine di questa, che tant’è vero si chiude
con la morte?
Nel secondo errore cade chiunque fa filosofia cristiana, ch’è pur sempre teologia, per esempio Hegel che identifica l’assoluto con Dio, in una falsa
identificazione ottimistica e perciò rassicurante, ma del tutto inutile oltrechè arbitraria. A chi gli facesse notare la corporeità del Cristo, Hegel, il “Sommo
Ciarlatano”, risponderebbe, con la ragguardevole dialettica che lo contraddistingue (ha solo questa): “ecco che il concetto si è ribaltato nel suo contrario”.
Se ciò potesse valere anche in tribunale!
INCISO:
Il mio giudizio su Hegel, lo confesso, è quello di Schopenauer: io ho letto solo Vita di Gesù. Però, da questo inutile libro ho capito che ha ragione colui che
considero una delle due mie guide spirituali e intellettuali (l’altra è Gandhi).
Ha ragione Schopenauer per un motivo molto semplice: di Hegel non capisco un’acca.
Come sempre in queste cose, i casi sono due: posso essere inadeguato io, perché non ci arrivo, o perché non parto da un livello di cultura adeguato (cioè sono
ignorante), o perché non presto la dovuta attenzione al testo.
Oppure, è l’autore ad essere oscuro, e qui i motivi possono essere i più svariati: nel caso di Hegel, è oscuro perché “egli non ha pensato”, dice il mio Arthur,
ha fatto un’insalata russa (aggiungo io).
Quel ch’è peggio, in buona fede (si spera).
Nel dettaglio, ecco i motivi per cui affermo questo:
-se si capisce poco di un autore, come ho detto, di solito l’introduzione (del curatore italiano) dovrebbe facilitare un po’ le cose: invece, se possibile, si fa
ancora più confusione;
-già nell’introduzione, c’è una nota con un passo di un altro scritto dello stesso Hegel: “questo mondo è il più bello che ci sia mai stato” (!): già Voltaire diceva
che è questa una tesi disperante.
-a quanto pare per Hegel il cristianesimo ha distolto i mortali da una concezione di innocenza naturalistica dell’esistenza, secondo il concetto greco. Ora,
certamente il senso del peccato è peculiare alla religione cristiana ed asfissiante, anche; ma i greci non erano così "dionisiaci" come il luogo comune vorrebbe.
Sapevano anzi che il dio nota e vendica tutti i torti che gli uomini non sono capaci di scoprire e di punire: “l’uomo paventi la gelosia di Zeus, il dio dei
supplicanti; questo sia il più profondo timore tra i mortali” (v. Storia delle religioni del Foot Moore, 1963, Vol. I, p. 474);
-entrando nel merito, a me personalmente l’intera operazione effettuata nel Das Leben Jesu appare del tutto inutile: perché fare un riassunto (piuttosto
scolastico, per la verità) del racconto evangelico, quando abbiamo il testo originale a disposizione? Ed essendo questo intoccabile, non perché sacro, ma perché
perfetto (nella forma intendo)? Mi ricorda il film Man on the Moon, con Jim Carrey, dove questi faceva le stesse cose che fece Andy Kaufman: sennonché
abbiamo i filmati originali di Taxi a disposizione, no? Eppoi è come voler capire la filosofia solo attraverso la critica;
-come non bastasse, poi, mette in testa a Gesù dei pensieri che non compaiono né nei sinottici né in Giovanni: non so dove possa averli trovati: mere
congetture dunque. P.es., una volta dipinge il Cristo (termine che però non usa mai: perché?) come tormentato dal dubbio (!); non credo proprio avesse dubbi,
semmai, essendo uomo, un’estrema sofferenza nel compiere la sua missione (Padre, se puoi, allontana da me questo calice, MA NON LA MIA, MA LA TUA
VOLONTA’ SIA FATTA, Mc, XIV, 36);
-più di una volta, sbaglia le citazioni, p.es., unisce l’episodio di Cafarnao ad un versetto che non lo contiene, quello dell’esordio del ministero di Gesù (in realtà
si trova in Gv, II, 12): Schopenauer errori così grossolani (e gravi, in questo caso) non li ha mai commessi;
-più di una volta, ammicca al lettore con le parole di Gesù, o meglio col tono delle stesse (si veda il dialogo con Nicodemo). Ciò non si addice al filosofo, è
anzi antifilosofico (solo i pensieri dovrebbero persuadere-ma egli non ha pensato);
-più di una volta, i critici ritengono che Hegel abbia ripreso espressioni di Kant: io ritengo invece che si tratti (non sempre) di coincidenze. La fortuna di Hegel
è del resto dovuta principalmente ai suoi allievi, e alla nazione tedesca (la sua parte più “istituzionale”) la quale, sostiene Arthur, è “la più stupida che ci sia” (e si
vergogna di appartenervi);
-che Hegel sia per le masse, nell’accezione più spregiativa, si capisce anche dal Leben Jesu, poiché vi sono interi capoversi che invitano gli spiriti romantici
(che verranno regolarmente delusi dal ’48, cercando consolazione-e trovandola-nel solito Schopenauer) a credere in una vaga idea di “assoluto”, che coincide
con “Dio”, che coincide col “reale”, che coincide col “razionale”, che coincide … (è chiaro che ho letto qualche manuale che spiega Hegel...);
-si vogliono trovare in Hegel significati dove non ce ne sono: il traduttore che ho presente io mette l’accento sull’assonanza dei verbi “verlassen”,
“zurucklassen”, “hinterlassen”, nell’originale di un discorso di Gesù: non riesco a capire l’utilità della cosa, non siamo in poesia, mi sembra;
-altro incredibile errore, le ultime parole di Gesù in croce. In un’opera del genere, forse l’unica cosa in cui stare attenti è l’esattezza dell’esegesi e delle
citazioni, perché forse rappresenterà anche l’unico valore di tutta l’operazione che si è voluta compiere (nel caso di Hegel, senz’altro-anzi, nemmeno del tutto).
Ebbene, per Hegel Gesù in croce si lascia andare ad un profluvio di parole degno di un comizio (secondo i medici odierni non sarebbe nemmeno possibile
parlare, in croce): Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, Tutto è compiuto, Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito.
Hegel avrebbe dovuto precisare che la prima frase compare in Mc (XV, 34) e Mt (XXVII, 46), la seconda in Gv (XIX, 30) e la terza in Lc (XXIII, 46) (tra
l’altro ha cambiato l’ordine dei vangeli).
Ma la cosa peggiore non sono nemmeno queste incredibili (ed inspiegabili, visto che ha scritto il Leben Jesu in ben undici settimane) imprecisioni. E’ che
manca un apparato critico, un commentario, o come lo si voglia chiamare, degno di questo nome. Ci si sofferma infatti di solito sul suo manoscritto, e si
riportano addirittura, nelle traduzioni, buona parte delle note personali al testo. Cose assolutamente trascurabili, p.es., chiedersi esattamente che piante fossero
quelle menzionate nei vangeli, piuttosto che dove si svolse l’interrogatorio di Caifa, se a casa di Anna o meno.
E’ lo stesso “riassunto” che vorrebbe essere la critica: se è così, io non so di preciso di cosa mi si parla, e si torna al primo punto.
Infine, digitando “Schopenauer” su Google, risultano 122000 pagine; digitando “Hegel”, 10500000 (!)
Terzo: filosofi si nasce, come artisti del resto (questa è una lunga diatriba per la verità): si potrebbe obiettare che ci sono ex-meccanici ed ex-maestri riscoperti
come eccellenti pittori: mi viene in mente l’entusiasmo del guardiano del Museo dei Naifs di Luzzara di Reggio Emilia: a suo dire un bidello di sua conoscenza
che espone in quella sede è il nuovo Cezanne: lascio giudicare il lettore su quanto un giudizio può essere falsato, anche in buona fede per carità: il cinquanta per
cento del teatro è brutto (fatto male), lo stesso si può dire della pittura: spesso è solo buon artigianato (quando lo è), spesso ci si trova di fronte ad un
imbrattatele: l’arte contemporanea poi offre il destro a che “ci si marci”.
Ma questo è un altro discorso: vero è che Morandi, lui sì degno di Cezanne, era uscito dall’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ma evidentemente era entrato
già che si chiamava Morandi. Un corso accademico per diventare filosofo poi sarebbe certamente disertato.
(Laurearsi in filosofia è tutt’altra cosa).
Dopodichè e vero: il filosofo deve formarsi anche lui: deve leggere e studiare, per potere poi pensare su quanto ha letto e studiato: è la capacità di pensare che
non si apprende, perché legata all’intuizione: chi vi si cimenta ugualmente rischia di fare come un personaggio televisivo che ironizzava proprio su questo
(Catalano): “è meglio dormire a lungo su un bel materasso, che stare svegli su un tavolaccio!”. (Tant’è che filosoficamente seriamente parlando non è vero
neanche questo: se dormi come puoi filosofare?). Del resto l’ignorante non manca necessariamente di luce filosofica.
E veniamo alla bibliografia sull’argomento. Consiglio:
Che cos’è la filosofia ? di Amalia de Maria (UTET)
Platone è meglio del Prozac, di Lou Marinoff (Marietti)
Il primo come introduzione alla filosofia, Manuale di Propedeutica Filosofica si autodefinisce; eccellente, anche se potrebbe sembrare non a torto conciliante e
dunque esso stesso anti-filosofico; in fondo c’è anche una storia sommaria della filosofia occidentale, utilissima;
Il secondo mi sembra il testo più “furbo” e avvicinabile per chi si dovesse chiedere, credo tutti, a che mi serve la filosofia? Per onestà debbo dire che io non
l’ho ancora letto. Mi difendo come l’editore Longanesi: “Che c’entra? Io l’ho pubblicato!”. Con quel titolo è una scelta sicura, ne sono sicuro.
Ma soprattutto consiglio le opere dei filosofi nella traduzione più fedele ed integrale possibile.
Una scelta è impossibile: inutile dire che il mio preferito è Schopenauer. Dei latini, vorrei dire due parole sul grande Seneca. Io l’ho scoperto da poco, son
sincero, ed è stata una vera rivelazione. E’ un grandissimo moralista, anche se non un filosofo, perché non offre spiegazioni del mondo, ma solo una precettistica
(e ciò è anzi antifilosofico). Mi piace perché s’interroga su ciò che m’interrogo io, ogni suo dialogo è una questione fondamentale dell’esistenza: l’ozio, la
felicità, l’ira, la saggezza, le offese, la brevità della vita, etc., ma soprattutto per la sua onestà, seguito in ciò solo da Montaigne e Schopenauer. Addirittura, nel
dialogo De vita beata, dove conclude che la felicità sta nella virtù, e non nel piacere, al termine delle sue considerazioni e riflessioni, si auto-accusa, per esempio
chiedendosi ciò che potrebbe chiedergli il lettore: “perché predichi bene e razzoli male?”; cioè: perché dici che la ricchezza non fa la felicità, (perché dà piacere,
non virtù), e poi hai cinquecento tripodi di cedro con i piedi d’avorio? Perché lecchi il culo a Nerone? E via dicendo.
Ma ha ragione Seneca, ovviamente, non Mario Scaffidi Abate (non è che il curatore del libriccino della Newton che riporta il dialogo, non un contemporaneo
del nostro, nonostante i tre altisonanti nomi). L’Abate sostiene infatti che male ha fatto l’autore ad aggiungere quell’autocritica, perché, testuali parole, “finisce
per avvilire un così alto discorso” (sic!). Ma senza quest’aggiunta, il dialogo non direbbe nulla di nuovo rispetto, per esempio, a ciò che insegna il vangelo. La
sua forza sta nell’esempio: ecco, io mi faccio quest’esame di coscienza e ne rendo partecipe il lettore, dimostrando quello che ho scritto, che la felicità sta nella
virtù, chè umiliarsi così è decisamente virtuoso. Questo pare aver pensato Seneca. Lo disse anche Schopenauer: sebbene abbia descritto e insegnato cos’è un
santo, non ho mai detto che io lo sia! (A chi gli rimproverava l’attaccamento al suo piccolo patrimonio). E tutto ciò sarebbe ragione di un dibattito, io non lo
sapevo e mi sembra incredibile, che dura tutt’ora e cioè sulla reale sincerità di Seneca, sul suo reale valore, in definitiva. Credo che ai grandi non si possa
eccepire davvero nulla, e lui è un grande, punto a capo.
La mediocrità della massa delle persone non permette davvero di rimproverare un pensatore così serio sulla base di un suo presunto servilismo verso
l’imperatore (mica scemo!) o di un suo presunto amore per la ricchezza (mica scemo!).
Si vogliono confondere i Grandi con i loro monumenti (Marchi).
Se furono grandi uomini, è proprio perché uomini nel senso più pieno, con tutte le loro debolezze; oggi si direbbe, non so perché, a trecentosessanta gradi:
ebbene Seneca di gradi ne aveva quattrocento.
La lettura del De vita beata ti rende, per qualche ora, beato.
E questo a me basta. Ma dovrebbe bastare a chiunque. A proposito:
Un piccolo confronto con Goethe, che S. peraltro conobbe, è però qui doveroso. Debbo dire che non conosco molto il più grande poeta di lingua tedesca. Anzi,
per niente (non ho letto nemmeno il Faust).
A me interessano i tedeschi come uomini di pensiero, nel senso letterale del termine, cioè come autori di pensieri o massime o aforismi, o appunti di viaggio
persino, che dir si voglia; dove, dopo gli antichi greci, eccellono e restano insuperati. (Benché, lo ripeto, Oscar Wilde sosteneva ch’è l’amore, e non la filosofia
tedesca, la chiave per capire il mondo). In genere si pensa che, accanto al grande letterato e al grande poeta, coesista anche un arguto osservatore della realtà e
del mondo del quale, alla sua morte, immancabilmente si scoprono notazioni, riflessioni, pensieri su ogni argomento. E si accoglie ciò come un pittoresco e
godibile effetto collaterale di una mente tanto feconda. A me sembra invece che un pensatore sia grande in funzione proprio di questi “riempibuchi” e solo in
secondo luogo, delle opere principali universalmente studiate e celebrate.
Cfr. Schopenauer, i cui Nachlass o scritti postumi sono solo recentemente apparsi in edizione completa (in Italia presso Adelphi), ma nei quali si trovano sia
Die Welt als Wille und Worstellung, sia i Parerga und Paralipomena. Poiché, come affermò lui stesso, la sua filosofia gli si delineò “come il profilo di una
montagna lontana visto attraverso la nebbia che si dirada mano a mano e ne rende il contorno sempre più nitido”. Ed è così per chiunque. Ebbene tale
nebbia sono proprio i pensieri in apparenza slegati tra loro che costituiscono i 5 voll. dei Nachlass, nel suo caso, o le centinaia di frasi sparse ovunque nelle opere
(autografe) di Goethe.
Solo che, invece di oscurare, tale nebbia rischiara in realtà la mente. Sono i libri dei filosofi a scaturire dai loro pensieri, mai viceversa, come appare ovvio del
resto: eppure le raccolte di massime di un autore si leggono in genere dopo il libro famoso. Di Goethe ho scoperto un libriccino della collana 100 pagine 1000
lire della Newton Compton (ora fuori catalogo), che, se non insegna Goethe, di certo invita a Goethe, ma soprattutto, dal mio punto di vista, chiarisce la cosa più
importante e cioè il rapporto con colui che introduce in società (ma non si può dire amico, e si vedrà il perché), Schopenauer.
Ho scoperto infatti, che Goethe, che non ritengo vada annoverato tra i filosofi, è un po’ l’esatto contrario, speculare direi, di S. (e in tal senso va forse
annoverato tra i filosofi). S. insisteva sul soggetto e l’oggetto, dicendo che non è l’oggetto che subisce l’azione del soggetto, bensì il soggetto che non potrebbe
esistere senza oggetto (“ciò non è possibile, neppure pensabile”).
Mi piace, per restare entro un facile paragone, pensare a G. come al soggetto e a S. come all’oggetto di un identico modo di vedere il mondo. E mi spiego (se
ci riesco). E’ noto che S. era un pessimista, anzi, IL pessimista, non nel senso comune d’intendere il pessimismo (scarsa speranza per il futuro), bensì per il suo
vedere il mondo in modo desolante.
Leggendo S., detto anche “il Buddha Occidentale”, lo stato d’animo che si finisce per assumere è quello più introspettivo e malinconico; in altre parole, lui,
che predicava la solitudine, l’ozio, la contemplazione estetica, la compassione e l’ascesi, è un po’ la coscienza dell’uomo che, stanco del mondo, vorrebbe darsi
una calmata e, dimenticando i torti subiti, ritirarsi a vita solitaria e santa; oppure la coscienza di chi è già d’indole solitaria e mite e si ritrova in pieno in tutto ciò
che dice questo filosofo (è il mio caso). Con quest’atteggiamento però, in effetti, cioè facendo di tutto questo il proprio Verbo, si finisce per diventare, come del
resto ammetteva lui stesso (però lui era incazzoso) un “trastullo nelle mani degli astuti”, vale a dire non sapere stare al mondo e restare, se ci si ferma a ciò,
totalmente inesperto della vita o degli uomini che dir si voglia. Orbene, l’antidoto a questo veleno potrebbe essere proprio Goethe.
Premetto che S. non va mai rinnegato secondo me, perché non è possibile andare, dopo di lui, “più in profondità nella filosofia, solo più in larghezza”.
Ma dato che al mondo ci vogliono spalle larghe, laddove Arthur consiglia la solitudine, “perché la vita ritirata dona una pace immediata”, G. raccomanda
invece l’individuo alla società, perché l’uomo è un essere relativo, dice giustamente, e perché gli errori si rivelano (a se stessi), solo per confronto (con gli altri).
Laddove S. è per il libero ozio, “perché solo esso ci fa prendere contatto con noi stessi e ci può svegliare da quel sogno nel quale il divino Platone dice
che ogni uomo vive”, G. è invece per l’azione, poiché le ferite dell’anima (cioè i torti ricevuti dagli uomini o i rovesci avuti dalla sorte), si possono guarire non
con l’intelletto (che non può nulla) ma, in ordine crescente d’efficacia, con la ragione (poco), col tempo (molto) e soprattutto con l’agire (tutto).
Laddove S. dice che il tempo dedicato alla lettura dev’essere scarso, “per non sottrarre tempo al pensare e perché il primo rischio del leggere è perdere la
capacità di giudizio, tant’è che molti uomini colti si sono istupiditi”, G. è invece per l’erudizione, e pensa che solo la persona coltissima può recepire appieno,
per esempio, il messaggio che l’arte ha da dare.
E ancora. Laddove S. è per la contemplazione, nel senso di godimento artistico o comunque estetico, “perché nella contemplazione l’uomo si fa tutto occhio
contemplante, lasciando da parte ogni interesse per la dolorosa esistenza” (il godimento passa da estetico ad estatico), e tuttavia lo pervade (intendo il nostro
Arthur) una sostanziale ed incurabile misoginia (disse peste e corna della donna e della sua capacità di mentire, e non si sposò mai), G. consiglia anch’egli il
rapimento estetico, però caldeggia la frequentazione della donna (poiché sostiene che si acquisiscono buoni costumi frequentando le donne), e finanche il
matrimonio (e difatti lui si sposò).
Un piccolo inciso: attribuisco personalmente al godimento estetico, nonché rapimento estatico (per il maschio) del corpo femminile lo stesso valore del vedere
un bel quadro o un’altra opera d’arte e per questo ho collegato le due cose. Certamente, anche i Nostri la pensavano così, conoscendoli! G. ebbe, come si sa, un
notevole successo con le donne, da Kathchen a Friederike, da Charlotte a Cristiane, da Lili a Marianne, a Ulrike; ma anche S., in gioventù, frequentava una certa
Teresa Fuga, veneziana, la quale doveva essere un pezzo di figliola come solo le venete possono essere (cfr. Anacleto Verrecchia: La Vispa Teresa di
Schopenauer, sul Resto del Carlino del 7 Marzo 1974). Poi ci fu una certa Caroline Richter, corista di Berlino, relazione durata sei anni; e solo lui sa cosa
combinò in giro per l’Europa fino ai trent’anni e cioè fino all’uscita del Welt. Forse è per questo che i restanti quarant’anni li passò in casa…
Ma in vecchiaia ci fu ancora idillio con una certa Elizabeth Ney, incaricata di fargli il busto-ritratto (!).
Continuiamo. Laddove Arthur è così sensibile alla santità, G. non sembra così interessato, in generale, alla quiete interiore del santo; forse è più interessato alla
serenità che si prova quando si ama, essendo corrisposti. Di qui il suo sentire così nuovo, rivoluzionario per la sua epoca, chiamata anche non a caso
“Goethezeit”, letteralmente il tempo di Goethe (la definizione è di H.A. Korff).
E’ lui il Romanticismo.
Di loro due (G. e S.) inoltre, si può forse dire quello che Montanelli scrisse a proposito di Voltaire e Rousseau: “fino a un certo punto della vita, quando si fa
ancora parte della massa delle persone, si segue con entusiasmo Rousseau; ma non c’è uomo che si elevi dalla massa senza cadere in braccio a Voltaire”.
Basta sostituire i due nomi, R. e V., rispettivamente con Goethe e Schopenauer.
E ce lo teniamo per detto (Verrecchia).
Schopenauer diceva che gli unici tre filosofi sono: Buddha, (per la sua concezione della vita come dolore, tra le altre cose), Platone (IL filosofo, S. lo chiamava
“divino”) e Kant (acuto come Hegel, ma non fasullo). Poi però è venuto lui, e dopo di lui Nice, sebbene per Nice, come per Voltaire, la priorità è quella di fare il
Bastiancontrario (si potrebbe dubitare che questi due siano veri filosofi, addirittura).
E non cita nemmeno un autore cristiano, forse ritenendo che in realtà non è farina del loro sacco, ed è quasi sempre vero se lo si chiede a me, basti pensare a
Boezio, letterariamente sublime ma neo-platonico, (per me si può togliere il neo), e si badi che sono andato in pellegrinaggio a Pavia; o la presunta prova
ontologica di sant’Anselmo, furba (ci cascò anche Cartesio), ma che non prova proprio nulla; per non dire della Summa dell’Aquinate, di qualche interesse solo
per un seminarista (c’è di tutto, dalla Vulgata ai film sui marziani).
Parentesi: come ogni recensione, questa è più una bandella per la verità ma la bandella vale una recensione, ed è già letteratura, come ogni recensione dicevo,
la mia su San Tommaso è fatta senza averne letto una sola riga. Eco si rivolterebbe nella tomba, se fosse morto, (spero quanto prima, per invidia mia), se
leggesse questo, perché so che a casa sua i libri di Tommaso sono immediatamente riconoscibili, perché sono tutti con la costa rotta (per averli aperti migliaia di
volte). D’altra parte lui ha più Kant di Hegel (e questo è bene), ma più Aristotele di Platone (e questo è malissimo, né poteva essere diversamente, nel suo caso).
Chiusa parentesi.
Per continuare con quanto dicevo, Platone si leverebbe il cappello, se lo portava, di fronte ai capitoli sul tempo delle Confessioni di Agostino. Sconsiglio i
vendutissimi libri di De Crescenzo, se non come divertimento.
Per un motivo molto semplice: bisogna leggere sempre e solo gli originali. Io credo che lui personalmente sappia la filosofia, come me del resto, ma non mi
sognerei mai di farne una storia. In qualche caso poi travisa e/o s’inventa le cose, forse per riuscire simpatico, come quando afferma che Platone zittisce il sofista
Gorgia con un Socrate più sofista di lui. Vera bestemmia.
Forse non ha capito bene (De Crescenzo, non Socrate). A proposito:
15.2.2.- SU NIETZSCHE
Ma si dice anche spesso: prenderla con filosofia, per rendere una funzione consolatoria della f.
Giusto, ma questo non significa necessariamente: rassegnazione. Anzi, mai. Per niente. Il non-fare del filosofo non è infatti ignavia, né sottomissione, né
voglia di tenere un atteggiamento conciliante, né complessi d’inferiorità di alcun tipo. Niente di tutto questo. E’ il motivo per il quale io non provo a darmi da
fare in altri campi che non siano l’oreficeria per la quale avevo studiato e in cui ho fallito (per il mondo, non per me), per esempio. Tralasciando ostacoli
economici e difficoltà oggettive di affermarsi con vere idee e vera capacità, o comunque di affermarsi, che pure esistono, (per esempio volendo fare cinema sarei
automaticamente deluso), forse la mia forza sta nella mia capacità di accettare il fatto che non ne ho altre.
Nice, si diceva. In una delle sue Considerazioni inattuali afferma: Nessuno che abbia degli amici sa cosa sia la vera solitudine, avesse pure come suo
avversario intorno a sé il mondo intero. Ah, lo vedo bene, voi non sapete che cosa sia l’isolamento! Dove vi sono state possenti società, governi, religioni,
opinioni pubbliche, insomma, ovunque fosse una tirannide, essa ha odiato il filosofo solitario; giacchè la filosofia schiude all’uomo un asilo dove nessuna
tirannide può penetrare, la caverna dell’intimo, il labirinto del petto: e ciò indispettisce i tiranni (leggi: gli uomini, come sono quasi tutti, N.d.R.). Là si
nascondono i solitari: ma là è appostato anche il più grande pericolo per i solitari (…): perché queste nature più della morte odiano il fatto che la parvenza
sia necessità. (…) Di tanto in tanto allora, essi escono dalla loro caverna con visi terribili, le loro parole e azioni sono esplosioni ed è possibile che, per esse,
essi stessi periscano. (…) Tuttavia vi è sempre qualche semidio che sopporta di vivere in condizioni così terribili e di vivere vittoriosamente; e se volete
sentirne i canti solitari, ascoltate la musica di Beethoven. (Piccola Biblioteca Adelphi n.184, pagg. 21-22). Voilà tout.
E’ la prima volta, e spero l’ultima, che riporto un passo così lungo, ma Nice mi ha descritto perfettamente.
Ah, se questa mia modesta prosa potesse essere il mio canto solitario, come lo era la musica per Beethoven!
Avrei dimostrato, non di essere uno scrittore, ma di aver vissuto vittoriosamente!
Come sono fatto non può essere cambiato, è il volere degli dei.
Ma se mi resta ancora un barlume di coraggio, che possa finire la mia opera!
Che la si pubblichi!
Abbiate coraggio anche voi, editori!
E voi, lettori!
Diciamoci la verità: Joyce è quasi illeggibile. D’altronde era inglese (vabbè, irlandese). A proposito:
16.-SULLA FRANCIA
(una dichiarazione d’amore)
(v. 1.1.4.) “Strano, Parigi ritorna spesso ai miei occhi, in questo periodo della mia vita. Anche adesso (per forza, ci sono!). Certo che la Marie è forte. Chissà
com’era l’assenzio. Ho sentito che lo stanno riproponendo, con la vecchia etichetta, in sei tipi diversi: ma se era tossico! Non sarà lo stesso assenzio. Mi ricordo
quando venni qui con mio padre: la prima volta fu un’esperienza molto piacevole. Poi lui amava la Francia. Parlava il francese molto bene. Una volta un
benzinaio a Macon gli chiese se andava a fare le ferie in Italia: alla risposta “mais je suis italien”, dovette guardare la targa dell’auto (una GS) per persuadersi.
Da giovane era andato in ferie a Biarritz, aveva conosciuto la Jaqueline e imparato la lingua. Non ne abbiamo mai parlato molto. Le era rimasta nel cuore, (la
Francia, non la Jaqueline), e faceva bene.
Ho scoperto che noi italiani con la Francia non abbiamo poi molto a che spartire, nel senso che ci sentiamo molto diversi, non a torto.
Però è anche assurdo: dalle mie parti “lavare a secco” si dice come in francese: “laver a sec”. Le auto sono simili, (la Règie vende quasi più da noi, in Ottobre
2005 c’è stato il giubileo DS, molto sentito anche qua), la guida è a destra, la gastronomia e l’enologia sono due religioni per entrambi i paesi. Certo, in realtà
non ci assomigliamo come popolo.
Poi però leggo su una rivista che Louis de Funes andrebbe rivalutato: ma se mio padre non ne perdeva un film! Hanno scoperto l’acqua calda.”
Della Francia si può dire questo: che è forse la madre del mondo moderno (1789, Rivoluzione Francese e dopo di essa, Napoleone) e di quello d’oggi dunque,
anche se sono gl’inglesi a considerarsi i depositari della democrazia moderna (1215, Magna Charta Libertatum; 1688, Glorious Revolution). Lo stesso Cavour
era francese. Come Garibaldi (nel 1807 Nizza apparteneva alla Francia). Senza il francese (che pure è fatto con gli scarti dell’italiano o meglio del latino) non
esisterebbe neanche l’inglese (che pure non è una lingua romanza).
Ma nemmeno il tedesco e lo spagnolo, come li conosciamo oggi.
Gli Zar dovevano sapere il francese.
L’Enciclopedia è francese.
Le culture extraeuropee, dalle arti marziali alle stampe giapponesi alla letteratura americana e a quella russa, sono giunte nel vecchio continente grazie ai
francesi. Anche la cultura germanica, (ch’è la vetta del pensiero in ogni tempo e luogo), com’ebbe a dire Goethe, è di stampo francese; Kant senza i Lumi non
sarebbe esistito (anche se Oscar Wilde sosteneva che è l’amore, non la filosofia tedesca, la chiave per capire il mondo).
L’arte moderna nasce in Francia, con l’Impressionismo, e del resto Picasso era spagnolo per pura avventura. Certo, “moderno” è variamente interpretabile.
La musica rock nasce in America (dal blues), però se non ci fossero stati i Cafè Chantant, la si suonerebbe ancora in casa con le assi da bucato, alla Washboard
Sam. Non sapremmo dove andare ad ascoltarla.
Il modo di fare le guerre è francese, grazie a Napoleone (bè, con le armi di oggi ormai non più, d’accordo). L’elenco delle cose dovute a Napoleone è peraltro
sterminato, nel bene e nel male. L’egittologia è francese (Mariette, Champollion, etc.)
La cristallografia è francese (Hauy).
La chiaroveggenza, l’Esempio che ne abbiamo, è francese (Nostradamus).
La prima calcolatrice è francese (Pascal).
Il sistema metrico decimale è francese (Delambre e Mechain).
Il cinema è francese (f.lli Lumiere), anche se il “revolver fotografico” fu degli inglesi (ma il dagherrotipo è francese, da Daguerre, mentre le elioincisioni, con
le quali tutto cominciò, sono di Joseph-Nicéphore Niépce, che le inventò nel 1824).
Il padre della paleontologia (Cuvier) è francese (e senza Lamarck non ci sarebbe stato Darwin).
Il disegno è francese (la matita di Contè, e il Contè, sinonimo del gessetto da disegno).
La prima macchina volante è francese (la mongolfiera, da Montgolfier), come il primo aereo supersonico civile (Il Concorde).
Il gotico è francese (Saint Denis, Chartres).
Voltaire è francese.
Il computer è concettualmente anche francese (il primo in senso proprio è tedesco). La sartoria non so, ma certo il contributo francese dev’essere stato
determinante, basti pensare alla seta lionese, come al giardinaggio del resto, basti pensare all’ibridazione delle rose.
La gastronomia come arte della ristorazione è francese (l’arte culinaria in senso lato invece l’avevano anche gli antichi romani). L’elenco delle pietanze e delle
sauce e dei dessert sarebbe infinito, anche e soprattutto nella storia dei nomi.
La moderna enologia è francese. Lo champagne è francese (del frate Perignon).
Il turismo è francese, oltrechè inglese. La canzone (da “chanson” ) è francese, anche se non erano le stesse canzoni.
L’automobile è tedesca, (ma il triciclo a vapore del 1770 è di Monsieur Cugnot); ma la catena di montaggio è americana (Ford) e francese (Citroen).
La Statua della Libertà è francese.
La tragedia è greca, la commedia francese.
Il grande Kenzo Tange diceva di avere due maestri: Michelangelo e Le Corbusier (svizzero ma francofono e poi parigino).
E via discorrendo. Il mondo senza la Francia, come senza la Grecia o l’Italia, non esisterebbe.
Però i francesi, unici tra i cittadini dei paesi citati, hanno una caratteristica insopportabile: il senso di essere francesi, che non è nazionalismo, non ci sono più,
non è dovuto alla lingua, potrebbe averlo la Germania, non è amore per la patria, ce l’ha persino l’Italia, non è autonomia, ce l’ha l’Inghilterra ch’è un’isola, non
è difesa dalle genti esterne, come la Spagna o la Sicilia. Si direbbe che vogliono riuscire antipatici a tutti i costi. Non so come hanno fatto ad accettare l’euro
(però all’Europa unita ed unica hanno già detto di no). E’ già qualcosa che negli aeroporti si parli inglese.
Forse è perché Giulio Cesare, prima ancora di unificare la Repubblica Romana, (il Norico, cioè l’Austria, mancava all’appello per esempio), unificò la Gallia,
dopo averla assoggettata, gettando un precedente di unità con secoli e secoli di vantaggio su di noi, per esempio, o sulla Germania. Non era ancora la Francia di
oggi, però si partiva col piede giusto per i futuri governanti, da Francesco I a De Gaulle (che si sentiva un re). Mentre qui in Italia una generazione fa c’era
ancora chi malediva Garibaldi (e io sottoscrivo).
Garibaldi. Immagino che per certe persone andare in battaglia sia un po’ una botta di vita. Per altre può essere buttarsi in caduta libera da cinquemila metri, per
altri ancora attività meno fisiche, come dipingere, scrivere, fare musica.
O andare ai concerti. A proposito:
A questo proposito vorrei confessare una storia che mi faccio da qualche tempo a questa parte e che riguarda la frequentazione dei concerti di uno dei tanti
gruppi italiani all-female, cioè composto di sole donne, di punk-rock. Al momento in cui scrivo, 2006, ci sono le bolognesi Diva Scarlet, ma le ho sentite e sono
tutt’altra cosa, molto meno orecchiabili, e di fondazione più recente; e le romane La Menade, praticamente una cover-band, solo più belle. Ci sarebbero anche
Motorama, Cioccolata Fondente, Kyuuri, Moroxygen, Miss Bit, Dunia, Big Lips, Vertigini, What’s happened, Dirty Wings, Sinsofforgiveness, Caotica, Urge
Nicotina, Valvoletts, Viper, Tulipunkers, Triacorda, Treachery Rose, Starfish, Pussy Riot, The Rokkett Queens, Le Mollette Bucate, Mentine Nere, Lamette,
Lalalayoudie, Le Doppie Punte, Jadish, Fate Ribelli, Deuxieme Sexe, Cherry Lips, Clouds of Norah, Chordewa, Babysitters on Acid, Agatha, Radyance e
sicuramente altre. Non le conosco tutte.Tra le più sexy in assoluto, oltre alle Jadish- strepitosa la bassista, e alle Rokket Queens- sono venete!, e alle androgine
Deuxieme Sexe, ci sono le carpigiane Roipnol Witch; notevole anche la batteria delle Dirty Wings, da Alessandria, e il basso delle toscane Valvolettes (Per un
commento musicale sui gruppi di sole donne, v. il Cap.13.2).
Se alla batteria c’è un maschio, è chiaro che non è più un gruppo all-female.
A questo proposito riferisco un piccolo aneddoto. Mi era piaciuta, ovviamente fisicamente, la cantante dei Roipnol, tale Giulia. Una morettina molto carina con
un bel seno e due gambe molto sensuali, tra le più sensuali che abbia mai visto- a volte mi chiedo com’è possibile che due gambe possano essere sensuali, ma è
così. Per curiosità, il giorno dopo il concerto sono andato sul loro sito internet e ho visto che la sera stessa suonavano in un altro locale, insieme a tali Dissolutio-
altra band all-female, di Cesenatico. Ci sono andato, per le Dissolutio, non per la Giulia, come ho poi detto alla stessa Giulia. Ma forse un po’ di contentezza per
rivederla c’era. Comunque sia, è accaduta una cosa pazzesca, disturbante. Confesso che non sapevo che fare. Praticamente, quando vado al bar per prendere una
birra, un tizio comincia a starmi addosso e mi fa: “ma non ti ho visto ieri sera?”, in modo arrogante, appoggiandomi le mani addosso e continuando a gridare.
Rompeva le scatole, e non poco. Faceva finta di essere ubriaco. Io stavo zitto. In quel mentre, arriva la Giulia, non potevano non essere d’accordo, forse era il
suo batterista, la quale mi fa: “ti ho visto ieri sera, sono rimasta folgorata!”. Credo proprio che mi prendesse per il culo. Sua sorella le stava al fianco,
guardandomi come Snoopy quando fa il feroce avvoltoio.“Ma io sono venuto per avere gli autografi delle Dissolutio, non per te”- era vero. “E perché non chiedi
l’autografo anche a noi?”. “Perché voi non siete un gruppo all-female. Il batterista dovrebbe essere una donna!” “Eh, noi abbiamo questo!”. “Mi piacciono le tue
gambe” Silenzio. In quel momento, il tizio di prima mi fa: “dov’è che abiti?” , ma me lo chiede sbattendo la testa contro la mia, se io non mi fossi tirato indietro.
Gli ho risposto. Mi fa: “Eeeeh?”. Gliel’ho ripetuto. E’ pericoloso contrariare i matti. La voglia era quella di fargli male. La Giulia taceva. Secondo me, hanno
voluto vedere maliziosamente se, con una tal fica al cospetto, io sarei stato più macho e dunque se avrei risposto o fatto di peggio, a quel matto. Bè, dico, il
disegno è chiaro, come direbbe il Lambertini di Gino Cervi. Poi ricomincio a parlare con g-girl: “Mi piace come giochi con le gambe”. Silenzio. “Ma c’è uno
studio dietro?” “No, è naturale!”. Balla, ovviamente. “E’ la cosa migliore della banda!”. Silenzio. “Bè, adesso devo andare” ed è andata via.
Chi ci ha capito niente. Per quanto riguarda le Dissolutio invece, volevo veramente gli autografi- è una perversione come un’altra, come ho detto a una della
band. Sono molto più carine dal vivo che in foto, specie la batteria. Una delle bionde avrà una quarta, minimo. Purtroppo non ho fatto in tempo a sentirle
suonare. Come persone sono state stronzette, ma insieme all’autografo mi hanno scritto cose meravigliose: “mitico”, “idolo”, “il più bel ragazzuolo della serata”.
(Chi ci ha capito niente).
Il gruppo in questione si chiama Bambole di Pezza e sono cinque ragazze (la cantante cambia spesso) che tengono concerti in locali di musica live e festival
estivi. All’estero questa delle cosiddette “Riot Girls” è una tradizione piuttosto consistente. Le prime furono le inglesi Slits. In Italia a far scuola sono state
soprattutto le Bambole.
Si tratta di formazioni di ragazze “tumultuose” per l’appunto (o che lo fanno) di musica punk all’inizio, l’anno è il 1976, poi via via più contaminata. Anche in
Italia abbiamo avuto qualche esempio ai tempi d’oro, intorno ai primi ’80, con il gruppo di Jo Squillo per esempio. Per la verità ormai non è più di moda questa
“corrente”, (o perlomeno, è relegata all’underground), ma è un peccato, perché di gruppi con la sola cantante (e il resto uomini) ce n’è a iosa, ma non si capisce
perché una ragazza non possa suonare il basso o la batteria. (in Italia ce n’è comunque ca. una settantina, di gruppi di sole donne, ma rispetto ai gruppi maschili
non si raggiunge forse l’uno per cento).
Spesso poi sono anche belle, meglio dei soliti fattoni maschi, e anche l’occhio vuole la sua parte, no? Ebbene, queste B.d.P. sono state una sorpresa per me,
anche se quando le ho scoperte io suonavano già da sei anni. La cosa nacque così: una sera, si era nel Gennaio 2003, ero indeciso se andare a vedere Carmen
Consoli, bravissima ma che avevo già visto (a proposito, anche lei è uno spunto per parlare di quanto influisca la bellezza nel valutare quello che fa una ragazza:
io sostengo moltissimo e anche di più) oppure queste ragazze che non conoscevo e ch’erano in un locale un po’ più vicino. Sono andato dalle B.d.P. e ho anche
fatto delle foto, “materiale da sega” direbbe un mio amico, in realtà c’è anche una componente affettiva inspiegabile.
E qui viene il nocciolo della questione. Prima devo dire come le trovai: molto brave, sorprendenti, anche se io non so giudicare bene perché ascolto troppo
poca musica e vado a troppo pochi concerti; per me suonare su un palco e non sbagliare è qualcosa di grosso (e forse lo è). Comunque non fanno che riprendere
la tipica formazione a quattro dei Beatles (più la voce, nel loro caso): basso, batteria, due chitarre. Solitamente una delle due chitarre suona in ritmica, ovvero ad
accordi, con il plettro, facendo il cosiddetto accompagnamento. L’altra invece, la più brava, alla ritmica alterna la parte solista, la “lead guitar”. Ed è responsabile
delle brevi frasi strumentali che aprono o chiudono la canzone o che precedono il ritornello finale. Sono motivi facili, non molto fantasiosi, lontani dalle svisate
alla Van Halen. Si pensi all’Harrison di And I love her, o all’assolo di Morgana in Strike: una nota ogni quarto d’ora!
Un critico punk, scrivendo delle riot girls, disse, testuali parole: anche in Italia abbiamo un piccolo esempio: le Bambole di Pezza. Mi piacerebbe parlare con
lui di quel “piccolo” ch’è senz’altro motivato, credo, vista l’esperienza di chi scrive, ma io non saprei dove nè come. In particolare, la cantante di allora la trovo
strepitosa, adesso canta in un altro gruppo in Spagna (non a caso forse). Alla Michela le altre due non si avvicinano neppure, anche se sul palco fanno la loro
porca figura (quelle che c’erano prima non le ho sentite). La chitarrista ritmica mi sembra brava, anche se quel tipo di riff alla Ramones mi ha sempre ricordato
un “gratafurmaj”, ricordate? La chitarra “solista” per così dire, sa suonare, non c’è che dire, anche se poi gli assoli non sono proprio da Jimi Hendrix, (ma
neanche quelli di un’infinità di altri gruppi). La bassista è come qualsiasi altro basso maschile, fa la sua parte. La batteria è un po’ una sorpresa; subito sembra
brava ma che fa sempre le stesse cose, magari provando mille volte riesce chiunque; invece un paio di volte mi ha fatto delle variazioni che non mi aspettavo,
(solo un paio di volte per la verità). Un limite del gruppo è proprio quello che improvvisa poco e niente.
Quanto alla presenza scenica, già in un gruppo rock la si guarda, in un gruppo femminile poi…Forse ci vado per quello. La Morgana che ancheggia di spalle lo
fa tirare a San Francesco.Ma non è solo questo. Ai loro concerti mi sento bene, anche se pensano ormai (loro stesse!): ma chi è questo sfigato che va sempre a
vedere le Bambole di Pezza? Ho anche gli autografi…
Forse è un po’ morboso. Forse cerco nel rock quello che non trovo nelle altre ragazze. Cioè attenzione, poche balle, poco impegno, fedeltà, tenerezza. Tutto
tranne il sesso, ovviamente (forse continuando ad andarci…hai visto mai?).
A proposito di morbosità, le cose più vere sono quelle dette da Carmen Consoli sul Mucchio n. 622. Lei distingue tra ammiratori e “fan di professione”. I primi
sono gli autentici fan, i secondi vivono male se stessi e dunque il loro rapporto con il personaggio che amano. Sono quelli che lei personalmente detesta, perché ti
arrivano davanti stravolti (ubriachi o peggio) e sono disposti ad insultarti, pur di poter TOCCARE in qualche modo la vita dell’artista (a lei hanno fatto anche del
“male”, mi sembra di capire); soprattutto, mantengono un dialogo col loro mito che è in realtà un monologo: litigano, poi si rappacificano con l’artista, poi ci
litigano di nuovo, poi si mandano affanculo da soli: senza, si badi bene, che lei abbia detto o fatto nulla!
Carmen ha ragione. Questi “fan” possono rovinare un po’ la vita a chi li subisce; poi, dice lei, ci sono anche le belle persone, che si limitano a stringerti la
mano e a farti un complimento. Ma qui sbaglia, secondo me, perché lascia intendere che i fan di professione, come li chiama lei, cioè gli altri, siano brutte
persone.
Poiché tra questi ultimi mi ci metto anch’io, credo invece che il fenomeno vada visto da un’angolazione diversa. A parte che è inevitabile, ch’è lo scotto da
pagare per la notorietà (anche se lei si ridimensiona, dice che fuori d’Italia non è nessuno), che ci sono sempre i disperati, etc.etc., il punto è che questo lato
“dark” del tifo è quello più autenticamente rock.
Ma qui si torna a quello che dicevo più su a proposito delle cantanti italiane: non sono rock. In questo lei è d’accordo, credo, da come l’ho sentita parlare
(anche di se stessa) qualche volta. Per il resto, la sua fotografia di come la gente segue un personaggio è estremamente chiara, lucida e precisa (ed è esatta). Ma
un gruppo Heavy Metal non si dispiacerebbe di avere davanti uno sopra le righe, anzi, magari lo cercano o lo considerano la misura del loro successo. Non dico
di vomitare addosso all’artista, però…
Tutto questo lo dico perché mi è capitato proprio quello che dice Carmen, con una delle B.d.P.: ci ho parlato, poi l’ho insultata, poi le ho donato la mia chitarra,
poi ci ho litigato, poi mi sono mandato affanculo da solo, poi ho mandato affanculo lei e…tutto DA SOLO.
Cool!
Debbo anche dire che non è che le B.d.P. siano molto carine come persone, non mi hanno mai avvicinato per farmi accorgere che si sono accorte che ci vado
(mi sembrerebbe normale: solo la bassista mi sta spesso a un paio di metri, ma non apre bocca, forse aspetta che lo faccia io: PARLA CAZZO!): per questo ho
deciso di non andarci più. La Daniela m’ignora come un cane, ma ha detto l’unica cosa sensata del Bambole- pensiero: a loro interessa solo fare le musiciste; a
differenza delle Slits, non credo che credano alla patina di maudites che si danno. Forse è questo il limite di cui Aspesi (il critico di prima) parlava. Anche se a
giudicare dal loro sito internet si prendono sempre di più sul serio, ormai a livelli preoccupanti direi (tra parentesi una vera punk forse se ne fregherebbe del
“Sociale” e dunque dell’anoressia, per esempio: che crepi di fame quella troia, m’immagino che dica Ari Upp).
Come coup-de-theatre all’ultimo concerto ho regalato loro una chitarra: ormai io non suono più e non riuscivo a venderla, spero solo che la tipa non l’abbia
buttata via. A proposito:
18.-UNA PRECISAZIONE
Volevo fare una precisazione: si sarà notato, solo un distratto non l’ha notato (Gervaso), che metto tra parentesi, mentre scrivo, il nome di un personaggio o il
titolo di un film, che apparentemente non c’entra nulla (l’ho appena fatto di nuovo). Ebbene, si tratta evidentemente della persona o del film che ha detto o dal
quale è tratta la parola o l’espressione usata. A volte però non si capisce lo stesso. Questo succede perché mi restano in testa dei “motivi”. Sarà difficile spiegare
cosa intendo.
P. es.: dove paragonavo la Citroen alle altre marche, ho citato il film L’attimo fuggente e poi il romanzo breve Siddharta. Ulteriore parentesi: cito sempre i film
e le opere straniere col titolo italiano, perché così si conoscono qui: so benissimo che dovrei dire, nella fattispecie, Dead Poet Society.
Tiro in ballo queste cose perché mentre scrivo, che so, “finitura, immagine, prestazioni? Tutte nobili qualità, necessarie al successo di un Marchio; ma la
souplesse…etc.”, mi ronzano nel cervello le parole “medicina, diritto, matematica? Tutte nobili professioni, necessarie al sostentamento; ma la dolcezza della
poesia…etc”, che sono appunto quelle del film di Weir.
Ricordo più l’”atmosfera” che le cose precise.
L’ho già detto altrove: è il mio specifico: non il lavoro, non il lavoro; la preeesentazione (Schindler’s List). Dannazione, l’ho fatto ancora! Siddharta
c’entrava perché la frase “non si può tenere in poco conto…etc.” mi ricorda sempre le analoghe parole di Hesse quando parla del sapere dei brahmini.
E’ una cosa un po’ bizzarra questa, in effetti: “è un piacere… del tutto mio” (De Andrè: Un Giudice). Così quando si parla concitatamente per spiegare le
proprie più profonde ragioni esistenziali e render conto con rabbia del perché si vuol giocare il tutto per tutto (capito?), non può farmi a meno di venire in mente
una novella del Pirandello: La patente. In particolare, una certa intonazione piuttosto attoriale con la quale va pronunciata una precisa frase di quel testo (quella
cruciale, del Chiarchiaro che vuole la patente di iettatore), ch’era il modo che aveva la nostra prof. delle superiori di leggerla. Se dovessi risentire un’intonazione
simile su una frase piuttosto lunga, anche se si parla di pomodori, mi verrebbe in mente Pirandello (e lo metterei tra parentesi). Tutto qui.
Svelo un altro trucco, l’ho imparato, tra gli altri, da Destroy, della Santacroce: lasciare spesso uno spazio bianco nello scritto. Sta bene.
Infine, non le mie scuse, ma un’altra confessione: a volte (Cap.: 3.3, 3.3.1, 23.3.2, 28 solo per fare qualche esempio) quello che dico è ben strano, quantomeno.
Tutte le mie idee sicuramente non incontrano il favore della maggiorparte delle persone: una per tutte: NON SPOSATEVI!
Però mi capita comunque di esagerare e dare l’impressione di uno mezzo matto. Basti qui ricordare che metto in dubbio l’autenticità del Diario di Anna Frank
(in 12.1) o, come si vedrà più avanti, sostengo che Nostradamus abbia, veramente e senza fallo, visto nel futuro (in 28).
Della cosa non me ne frega niente, in realtà, perché già di Schopenauer un suo visitatore, Theodor Benfey, disse: “una persona dotta e intelligente, il Dottor
Schopenauer, ma mezzo matta” (è riportato in Gespraeche, a cura di Anacleto Verrecchia, BUR).
Ma colgo l’occasione per parlare di questo genere di letteratura.
Per quel che mi riguarda, la cosa nasce dal caso, in parte, in parte dal mio orgoglio, in parte è ironia, e per la restante parte: chi può dire che le cose non
stiano realmente così?
Esempio: ad un incontro con Giorgio Celli, il noto entomologo, gli ho rivolto alcune domande che per la verità avevo già letto su alcuni libri contro
l’evoluzione. L’ho fatto in parte per provocazione, altrimenti l’incontro diventa una comune lezione accademica, in parte per confronto o comunque per
colloquio, per interagire, per dare un senso all’essermi scomodato per un incontro con Celli ed in parte perché questi libri, e ce ne sono diversi, appaiono
piuttosto convincenti. Poi è successo che anche le riposte che lui mi diede sono convincenti, ma a quel punto (la cosa credo capiti a tutti) dovevo pur difendere
comunque le mie tesi, visto che mi ero imbarcato nell’argomento e tra l’altro cresceva la rabbia per l’accorgermi della sua cultura superiore su queste cose.
Ma a ben vedere, ho poi pensato, è impossibile assistere ad una mucca (pare che i cetacei derivino da un animale simile) che a forza di nuotare diventa una
balena, vista la brevità della vita umana rispetto ai tempi geologici. Ma “scientifico” non significa proprio dimostrabile sperimentalmente, dai raggi X alla
termodinamica, al telefono e via dicendo? Proprio l’evoluzione fa eccezione?
Per questo continua a chiamarsi teoria, credo, sebbene più di un manuale sostenga che non va ormai considerata tale, bensì una certezza (vedi anche, su
questo, il capitolo dedicato).
In questo atteggiamento c’è anche un sentimento, ch’è quello di voler fare il “drago”, per così dire, lo ammetto, cioè illudersi di aprire gli occhi alle masse o
comunque fare rivelazioni non dico sensazionali ma forti o comunque rispondere ad un’indole ed un carattere che sono un po’ “arvers” o “arboff”, come si dice
dalle mie parti.
C’è un’intera letteratura, come dicevo, su questi azzardi, anche riviste periodiche e collane di libri, quest’ultime statunitensi perlopiù: fino a vedere Elvis o
Morrison ancora vivi, o immaginare complotti dove non ci sono, o ad affermare che nel Luglio ’69 non andammo sulla Luna. Difficile dipanare tutto questo
materiale: vero è che io non ero nel LEM, che ne so se ci sono andati o no? Le foto (false) sono facili da fare. Vero è che l’attentato a Kennedy fu davvero un
complotto, come afferma anche il nostro Bisiach. Vero è che Elvis non sta troppo bene, quantomeno, in quella famosa foto del ’76. Vero è che è difficile che
nessuno si sia accorto di Jim che va a spasso per Parigi nel 1980, come afferma Rochard. Difficile dire. Veramente difficile.
Rubo una frase al Mahatma (così buono, mi perdonerà): “se il lettore ha ancora fiducia nella mia lucidità, prenda l’ultima cosa che ho detto” (Harijan, 29
Aprile 1933).
E io aggiungo: pensi anche all’emozione sull’onda della quale l’Autore può aver scritto ciò che ha scritto; s’interroghi comunque, senza pregiudizi, sulla cosa,
per quanto campata in aria possa sembrare; infine, consideri che non è raro il caso in cui abbia avuto voglia di buttare lì un giudizio, con noncuranza, come se
nessuno ci stesse a sentire, come ognuno fa abitualmente nella vita del resto. Dove questo è accaduto, non sarò certo io a dirlo (!).
Se il lettore se ne risente, dirò col Manzoni che “non s’è fatto apposta”. A proposito:
E veniamo a parlare d’altro, di una cosa che mi assilla da diversi anni: riuscire a leggere la notte. Che per la verità è una cosa che non ho mai fatto: di notte si
dorme. Però, dato che mia madre mi rompe le scatole (a volte basta una domanda o una parola di più, oppure pulisce la camera quando sa che vi debbo entrare
per continuare a studiare o per scrivere questo eccellente romanzo, oppure porta mio nipote piccolo in casa), in buona o malafede non importa, o meglio non fa
differenza ai fini pratici, mi torna sempre in mente quello che mi disse un prof del Centro di Formazione Professionale di Valenza: “ti resta sempre la notte”.
Ottima risposta, sennonchè è molto difficile riuscire a stare svegli. A me poi piace fare un po’ di ginnastica la sera: cyclette o pesi e verso le ventitrè e trenta mi
viene una vera e propria emicrania, per la precisione è come se vedessi tutto attraverso una nebbia, scaturita evidentemente dal mio cervello spossato dalla
stanchezza generale. La testa diventa pesante, pesante, i muscoli si rilassano e a quel punto scatta anche una sorta di attrazione psichica verso il sonno, anche se
volendo si riesce a star svegli: ma ne vale la pena?
Attualmente cedo al sonno incombente (tanto il problema è la qualità del sonno, non la quantità) e se poi debbo svegliarmi per andare in bagno, ad esempio,
forzo un po’ la veglia per leggere qualcosa e poi mi riaddormento, se serve.
In questo modo dormi cinque o sei ore complessive e se sei fortunato, riesci a leggere tre/ quattro ore per notte. Ma non si legge sul serio (Platoon). Ma la
difficoltà più grossa è riuscire ad avere la disposizione d’animo e la serenità per divorare testi su testi.
Al momento sono alle prese con Tutto il Teatro di Shakespeare, Tutto Platone, la Madre di Gorkij, un libro su Pio XII, il corso di tedesco della De Agostini, il
ripasso di quelli di spagnolo, inglese, francese, vecchi libri di testo di latino e greco antico, gli alfabeti arabo ed ebraico, la consultazione di monografie su
Monet, e di libri in svedese, danese, nederlandese, oltre a diverse riviste (Max, Qui Touring, Citropolis, Primissima, Jesus).
Il tutto senza trascurare internet, il giapponese on-line e questo libro.
Chiaro, non tutto in una notte.
Certe cose le prendo in mano tutti i giorni, altre un paio di volte al mese. Comunque per affrontare tale enorme mole di lavoro, si debbono verificare tali e tante
condizioni, quali quelle necessarie ad un’eclissi, per rendere l’idea.
Bisogna essere non troppo stanchi ma nemmeno riposati, “disattivati”, altrimenti non prendi in mano nemmeno un libro (e non impari niente); bisogna essere
entusiasti di apprendere ma non troppo curiosi o avidi di sapere, se no ne prendi in mano troppi (e non impari niente); bisogna capire soprattutto se si è realmente
stanchi oppure no.
Sembra facile: a volte chiudo gli occhi e mi sveglio dieci ore dopo! Altre dico: non ce la faccio e bastavano dieci minuti di sonno. Poi bisogna capire quanto
spingersi in profondità nella materia: io non vado più a scuola e mi manca una grossa parte di motivazione, ma c’è dell’altro: appena sto un po’ su una cosa mi
viene da alzare la testa e, come svegliandomi da un sogno, dire: con tutte le altre cose che ci sono (da leggere) al mondo! Purtroppo si può conoscere una cosa
solo facendosene assorbire. Cioè, la materia la devi dominare, ma ti deve conquistare: un po’ come con una donna: chi possiede chi?
Però si può portare avanti il discorso unicamente dal punto di vista del leggere per piacere, come giocare a tennis; del resto la stessa poesia, contrariamente a
quello che forse si pensa di solito, non serve assolutamente a nulla, se non a dare piacere.
Lo disse Leopardi, e non è mai stato detto qualcosa di più alto sulla cosa. A proposito:
Piccola digressione: ogni tanto vado a qualche presentazione libraria, quelle dove l’autore (o chi per lui) si limita a leggere qualche brano del suo nuovo
romanzo e finge di parlare ispirato dei massimi sistemi, mentre l’intento è solo quello di vendere (a volte c’è anche un rinfresco per predisporre meglio
l’agognato compratore-io ci vado per questo, ma non compro mai niente); ebbene, l’ultimo mi stava sorprendendo, per poi scadere del tutto in zona Cesarini.
L’autore è un certo Millefoglie e presentava un testo dal titolo-ahimè solo quello piuttosto geniale (il “piuttosto” non si dovrebbe usare): Manuale per diventare
Valerio Millefoglie.
Particolarmente interessante era la presentazione della seconda di copertina, che affermava che il testo sfugge a qualsiasi definizione: un po’ romanzo di
formazione, un po’ questo, un po’ quello. Bene.
Un po’ come quello che sto scrivendo io, ho pensato. Poi però è seguita un’esibizione cabarettistica dell’autore che ha confermato i miei sospetti: il libro non è
che una “zeligata”, con qualche buona trovata. Manca di serietà. Che invece è la prima caratteristica del mio eccellente romanzo(?).
Senza contare che può succedere quello che narro in 9.3, oppure quest’altro aneddoto:
si trattava di Raul Montanari, un’autore di cui non ho mai letto nulla e di cui, dopo quello ch’è successo, non leggerò mai nulla.
Ha scritto, tra gli altri, un libro che s’intitola Che cos’hai fatto. Io, prima di presenziare alla presentazione, dovevo andare in bagno. Questo bagno era un vero
cesso, al che io, entrando, dissi: “Che cos’hai fatto!”. Sennonché il Raul era già in sala e sentì tutto perfettamente.
Al momento di fare le solite domande all’autore, poi, volevo chiedergli spiegazioni su una frase che mi aveva colpito in una sua intervista, cioè che al giorno
d’oggi si può fare a meno di leggere Virgilio, ma bisogna leggere i contemporanei (!)
Sennonché in parte ero in imbarazzo io per l’infelice frase di prima, in parte era furioso lui, nonostante il sorriso ostentato, e non se ne fece niente.
Addirittura, al momento di uscire, si alzò in piedi e si mise in posa combattiva, cioè con le mani aperte lungo i fianchi.
Stavolta non l’avevo fatto apposta, lo giuro; però non mi dispiace di com’è andata: basti dire che una delle recensioni (evidentemente non entusiastica) del suo
famoso libro, su internet finiva così: “Raul, che cos’hai fatto?”
Io ho fatto un viaggio inutile, per andare da Raul. A proposito:
E torniamo ai viaggi.
In particolare, ora ch’è estate, si ripropone l’antico dilemma: mare o montagna? Né la cosa paia di poco conto, chè penso che, come preferendo il cane o il
gatto si dica molto sulla propria persona, così avendo un’inclinazione naturale per l’acqua o le salite. In genere chi vive al mare se ne contenta e lo stesso per chi
sta in montagna. Ma scegliere l’uno o l’altra per le ferie, per esempio, è ben diverso. Ci sono motivazioni eccellenti sia in un senso che nell’altro, ed obiezioni
giuste in entrambi. Ed anche luoghi comuni ugualmente sballati. Uno per tutti: la montagna dà più solitudine, quando invece io al mare mi sento un eremita,
(vado sempre da solo), a meno di non scambiare il chiasso degli altri bagnanti, cioè il casino per compagnia.
Vediamo allora di stendere un elenco dei pro e dei contro del mare e della montagna.
Al mare ci si va perché si ama fare il bagno e dunque poter svolgere varie attività acquatiche (dal nuoto alla subaquea), oppure per la vista spesso incantevole e
per l’aria profumata e salutare, oppure perché in genere i posti di mare offrono più mondanità di quelli di montagna, una vita sociale ricca; l’abbigliamento è
leggero e pratico; la fatica fisica minima, vista l’assenza di salite e discese, finchè si sta a poca distanza dall’acqua.
In montagna ci si va perché si ha la possibilità di camminare nella natura, dunque di compiere escursioni più o meno impegnative; oppure, ugualmente al mare,
per la vista e per l’aria, oppure perché è facile isolarsi.
Sennonché, ogni pro e ogni contro di entrambi gli ambienti si possono rovesciare a favore dell’altro: al mare ci si scotta facilmente, anche in montagna, forse
di più; in montagna c’è la rottura di scatole degli scarponi, al mare quella del costume sporco di sabbia; al mare è facile fare conoscenze, ma anche in montagna
se attacchi discorso con gli altri escursionisti; se invece sei timido non ce la fai neanche al mare; in montagna devi faticare molto perché spesso c’è la salita
anche se stai in paese, però al mare devi camminare e molto per raggiungere l’acqua; d’altro canto la vita di spiaggia stanca.
Allora forse la scelta dell’uno o dell’altro ambiente è assolutamente inspiegabile, così come la scelta del cane o del gatto, dell’albergo o del campeggio, del
vino rosso o di quello bianco, dell’automobile o della moto, dell’uomo o della donna, dell’affitto o della casa propria, dello sport o della pigrizia, del matrimonio
o della convivenza, dei figli o no, del vinile o del CD, del VHS o del DVD, dell’abbigliamento, del cibo, dei viaggi, di quello che piace e di quello che non piace,
di quello che si crede che piaccia e di quello che non si ha mai provato, di quello di cui si dice: “E’ così!” e di quello che ce lo smentisce clamorosamente.
E dolorosamente. A proposito:
23.1.-INTRODUZIONE AI DINOSAURI
(qui sta la mia cultura)
Mi sono accorto che niente di ciò che ho scritto finora denota una qualche conoscenza specifica e profonda di un qualsivoglia argomento. Perciò parlerò della
passione che avevo da piccolo: i dinosauri. E mi riallaccio all’autobiografia di 6.1. Là dicevo che le scuole in generale non sono state felici per me, perché sono
sempre stato silenzioso (nei rapporti con gli altri) ed efficiente (nel profitto, senza studiare granchè) e questo distanzia le altre persone.
La timidezza viene scambiata per alterigia e il successo provoca invidia. E’ una vecchia storia. In prima media mi chiamavano “secchione”, per esempio e lo
ricordo come un atroce ritornello che mi scavava la testa: un anno intero di disperazione.
Poi c’erano diversi problemi: dai rapporti coi proff., che credo capissero la mia intelligenza, a quelli con le ragazze, (meno che da adulto però debbo dire), alle
ore (del tutto inutili, forse su questo tornerò) di educazione fisica, che mi obbligavano a scoprire le mie cosce-prosciutto. In quarta e quinta superiore le cose
andarono meglio.
Ma la vera eccezione a questa malinconia scolastica restano le elementari. Tutti i compagni di classe mi volevano bene, alcuni quando mi vedono si ricordano
ancora e mi salutano, cosa non così frequente; con le ragazze (le bambine per me non esistono intellettualmente, forse a quattro anni, mentre a quattordici sei già
donna), con le ragazze dicevo non parlavo abitualmente ma non era un problema (l’importante è questo) e se c’era da parlare non era un problema; il Sabato la
maestra non ci dava i compiti, per anni è rimasto il mio giorno preferito, oggi è la Domenica (che odiavo); e dal punto di vista dell’apprendimento vero e
proprio…uno spettacolo! Ricordo il sussidiario, che non era che un’antologia degli scritti di Gianni Rodari in realtà, più qualche stupido esperimento di chimica
–fisica-biologia e chi più ne ha…, per farci capire come vivono gli alberi per esempio. Ricordo le gite al caseificio del paese per farci capire come si fa il
parmigiano e, come attestato di partecipazione, un regalo: un pezzo di tosone a tutti i bambini e uno grosso alla maestra (oggi costa più del formaggio stesso);
ricordo in particolare qualche episodio in cui stupì la maestra col mio sapere.
Uno per tutti: un esercizio sull’articolo determinativo. Bisognava scrivere la forma singolare, la femminile e quella plurale (un classico): p.es.: la pesca, le
mele, il melone, gli uccelli, i pescegatti, lo storione e così via, con qualsiasi soggetto ci venisse in mente. Io scrissi: i tanistrofei, lo cinognato, gli pteranodonti, il
pitecantropo, le trilobiti, la smilodonte, etc. Immediatamente furono chiamati i miei genitori per chiedegli se per caso non fossi diventato matto. Poi svelai il
mistero: erano i nomi di animali preistorici che si trovavano nel secondo libro di animali preistorici che comprai e che si chiamava Animali preistorici. Avevo
nove anni. Il primo, Il mondo dei fossili, lo presi a otto anni. E’ colpa mia se alle magistrali non si fa paleontologia? Ma la cosa buffa è che in quel momento il
libro in questione si trovava in classe, a disposizione di chi volesse leggerlo (disposizione della maestra: portare qualche libro proprio e metterlo in comune).
Lo voleva in aula ma si guardava bene dal leggerlo! A proposito:
Quella dei dinosauri fu una grossa, grossissima passione. Poi mi passò, in parte perché seppi che a molti bambini piacciono i dinosauri. Il mio primo libro, Il
mondo dei fossili, lo presi che avevo otto anni. Credo sia stato il mio primo libro in assoluto, prima leggevo i fumetti dei Peanuts e di Andy Capp e di Asterix che
comprava mio padre. Appunto che un’estate, si era a Limone, sul lago di Garda, mio padre mi chiese se volevo un Topolino o un altro fumetto. Io girai un po’
quei cestelli girevoli che ci sono nelle edicole che hanno anche qualche libro: alla fine presi quel manuale della Mondadori e cominciai subito a sfogliarlo. Mia
madre era preoccupata, mio padre basito ma divertito.
Da allora non mi sono più fermato. Se capita di andare in un museo di storia naturale, in Italia i più belli sono a Milano e Verona, cerco tutt’ora
quell’Archaeopteryx lithographyca che mi faceva impazzire da piccolo. Allora si pensava fosse il primo uccello (aveva le piume ma non le ossa pneumatizzate,
cioè cave, come gli uccelli, e i denti e gli artigli come le lucertole), poi è stato scoperto un tecodonte pennuto leggermente anteriore (ma evidentemente
posteriore a Proavis). Purtroppo ce ne sono solo cinque al mondo e credo proprio che dovrò andare in Baviera, dov’è stato rinvenuto a Solnhofen nelle lastre
calcaree utilizzate in litografia (da cui il nome, archaeopterix invece significa “antica ala”).O a Berlino. O a New York.
Comunque un calco si trova in qualsiasi museo.
Certo, questo non era un dinosauro, definizione terribilmente problematica peraltro, perché vuol dire solo terribile lucertola. A proposito:
23.3.1.-SUI DINOSAURI
Il termine fu coniato da Richard Owen nel 1841, ed ebbe subito uno straordinario successo. Sistematicamente, cioè secondo la scienza che si occupa della
classificazione e definizione (nomenclatura) del regno vivente, questa parola non ha senso; infatti si preferisce parlare dei due ordini in cui si dividono i
dinosauri: saurischi ed ornitischi, a seconda della conformazione del loro bacino.
Ma la storia parte da molto più lontano. I dinosauri infatti si considerano essere rettili, ma a mio avviso andrebbe forse creata una nuova Classe apposta per
loro. Pare ormai accertato che fu da loro che si evolsero poi gli uccelli. O da antenati comuni. A questo proposito, dai tempi dell’Archaeopteryx, altri fossili di
rettili pennuti hanno confermato questa discendenza (l’ultimo, il Sinornithosaurus millennii), già avanzata del resto ai tempi di Darwin e accantonata per circa un
secolo.
Sennonché gli uccelli sono animali a sangue caldo (omeotermi) mentre i rettili sono a sangue freddo. Come si sa. Ma io non ho mai capito come si possa
passar sopra a questa cosa, chè sarebbe come dire “mammiferi con le branchie”. Certo, i dinosauri potevano essere a sangue freddo e poi, una volta divenuti
uccelli, a sangue caldo.
Così come un cane si può evolvere in un gatto (!).Favole.
” Ma l’evoluzione previene queste tue obiezioni” direbbe Giorgio Celli, col quale ho parlato, evoluzionista sfegatato.
E credo anch’io che la Teoria dell’Evoluzione sia valida, e non ho letto l’Origine delle Specie. Ma è l’unica possibile.
Ancora sull’omeotermia, bisogna qui ricordare il ritrovamento di d. in territori dal clima freddo, di d. polari in Australia, dove sopportavano sei mesi d’inverno
rigido e scuro, la scoperta di d. piumati le cui piume fornivano una regolazione per isolamento e infine l’analisi, nelle ossa di d., di strutture di vasi sanguigni che
sono tipiche di organismi endotermici.
Per finire, alcuni ricercatori di Lione hanno sfruttato l’ossigeno che si è mineralizzato nei tessuti, in particolar modo nello smalto dei denti, durante delle azioni
che i dinosauri ripetevano tutti i giorni, come bere e respirare. La composizione dell’ossigeno assorbito dai tessuti varia, a seconda della temperatura: partendo da
alcune conoscenze note nel campo fisico-chimico, i ricercatori hanno determinato la proporzione tra due isotopi di ossigeno (il 16 e il 18). La composizione
isotopica di due animali che vivono nello stesso ambiente, è differente se uno è a sangue freddo e l’altro a sangue caldo. Partendo da questo dato certo, si sono
confrontati i dati relativi ai dinosauri e altri animali rinvenuti nella stessa zona come tartarughe e coccodrilli (animali a sangue freddo).
Le differenze rilevate tra i d. e questi animali a sangue freddo sono IDENTICHE alle differenze tra gli stessi animali e i mammiferi (!) A proposito:
23.3.2.-SULL’EVOLUZIONE
(un dubbio)
Piccolo intermezzo (scritto qualche mese dopo la riga precedente): sto leggendo ora l’Origine delle specie di Darwin, (con l’introduzione del Montalenti),
insieme a un abbozzo della stessa teoria del 1842, libro che contiene anche lo scritto del Wallace del 1858, e insieme a un libriccino edito dai Testimoni di
Geova: Come ha avuto origine la vita? Per evoluzione o per creazione?, e a un libriccino del Gaudenzi, che riassume la storia del movimento evoluzionista.
Ebbene, debbo dire che è difficile dire chi ha ragione, se gli evoluzionisti o i creazionisti.
Ma forse questo avviene perché io sono un profano. Pur andando un plauso al Darwin, la cui ricerca è realmente minuziosissima e chiara, un modello per ogni
scienziato, permangono, credo, difficoltà oggettive all’accettazione della sua teoria. Tanto che mi sono convinto, che se il creazionismo richiede un atto di fede,
lo richiede anche l’evoluzionismo (in realtà il suo contrario sarebbe il fissismo, lo so). Convince soprattutto la logica di tale teoria, che sembra accomodare molte
cose, mentre apprendo dal Montalenti che la genetica, nel XX secolo, ha poi colmato le lacune che lo stesso grande scienziato riconosceva. E sia.
Credo anch’io, se proprio bisogna prender partito, all’evoluzione, proprio perché trovare un’alternativa ad un ragionamento che fila così bene è arduo (ma ciò
non è conclusivo).
Persino la dinamica di come avvenga in pratica l’evoluzione, pare aver trovato una sua soddisfacente teoria: dapprima, in una popolazione geneticamente
omogenea, si formano razze che differiscono fra di loro per le frequenze relative degli alleli di una o più coppie di geni. Differenze che insorgono soprattutto per
effetto di adattamento, tramite la selezione, ad ambienti diversi, oppure per forte limitazione del numero degli individui, o per entrambe queste ed altre cause. Se
un LUNGO periodo d’isolamento riproduttivo favorisce il mantenimento di tali differenze, può infine presentarsi, in modi che sono in parte conosciuti,
l’isolamento genetico vero e proprio, cioè l’impossibilità alla procreazione, o la sterilità degli ibridi. Con ciò è raggiunto il livello di differenziamento specifico,
l’origine delle specie (Montalenti).
Ma qui sta il punto: per definizione, l’evoluzione non è dimostrabile (sperimentalmente), resta una teoria (vedi anche più su, dove parlo della mucca che si
evolve in balena). Il Celli mi diceva che possediamo, p.es., l’intera linea evolutiva fossile del cavallo, o dell’elefante. Apprendo però sempre dal Montalenti che
ciò rende ragione delle microvariazioni delle specie, non delle macrovariazioni, epocali, delle faune e delle flore: il che è come dire che questo fatto, così da solo,
non è conclusivo quale prova della teoria evoluzionista. Su National Geographic del Novembre 2005, poi, si afferma, proprio a proposito della scientificità di
questa teoria, che si sono notate, provocate in laboratorio (non so come), “variazioni incipienti” di determinate specie. Ho chiesto al Celli che significa
quell’”incipienti”; la sua risposta fu canzonatoria (non ricordo nemmeno cosa disse di preciso), forse non ammette contestatori, perlomeno non così ignoranti
(come me cioè, e non scherzo). Certo è che tutte queste risposte, così evasive o false addirittura, non possono che confermare il giudizio che diede Muggeridge:
“i salti che la natura compie da un cranio all’altro (parlando degli “ominidi” fossili), non possono che apparire del tutto fantasiosi a chiunque non sia
succube della teoria evoluzionista”. Il vizio in questi casi è risaputo: è quello di ragionare come si sente, non come si pensa, vale a dire che anche lo scienziato,
in questo caso più che mai, è un uomo, e purtroppo qui l’accettazione dell’una o dell’altra versione è gravida di conseguenze. In soldoni, un ateo cercherà sempre
di colmare le lacune dell’evoluzionismo, e viceversa farà chi opta per il creazionismo.
Chè, a ben vedere, l’unica cosa del quale il Darwin era assolutamente certo (lo dice nell’Origine e lo s’ignora di solito, o lo si vuole ignorare), è che le specie
non sono immutabili. Il che non fa una grinza, nemmeno per i creazionisti.
Per quel che riguarda tutto il resto, il grande scienziato afferma, più di una volta, che vi sono moltissime zone oscure nella sua teoria, da un lato, e dall’altro,
che serve una bella immaginazione per arrivare dove lui non è arrivato!
Per quanto riguarda poi le PROVE della teoria dell’evoluzione, il primo compito di Darwin fu quello di mostrare che negli animali addomesticati e nelle piante
coltivate un processo formalmente identico alla selezione naturale aveva prodotto un fenomeno formalmente identico all’evoluzione. Però qui non si parla di
selezione naturale, bensì operata dall’uomo.
Sul fatto che la discontinuità dei reperti fossili potrebbe essere un argomento contro questa teoria, Darwin rispose che “occorrerebbe un tempo lunghissimo
per adattare un organismo a una forma di vita nuova e particolare (p.es. a volare nell’aria), ma non appena questo stato fosse raggiunto e, quindi,
alcune specie avessero acquistato questo grande vantaggio sugli altri organismi, basterebbe un periodo di tempo relativamente breve a produrre molte
forme divergenti, atte a diffondersi rapidamente e largamente in tutto il mondo” (Cap. IX dell’Origine). Tale osservazione è però discutibile (dovrebbe pur
restare qualche “anello di congiunzione”).
Ma era certamente la distribuzione di animali e vegetali nel tempo e nello spazio la prova più eloquente addotta da Darwin in sostegno della teoria
dell’evoluzione in generale: grandi cumuli di “fatti bruti” potevano ora essere organizzati in un solo quadro concettuale soddisfacente, cosa che una teoria
creazionista non poteva nemmeno tentare (Cap. XIII).
*******A tutt’oggi questa è la prova (teorica) più probante.*******
E’ bene ribadire “teorica”, in quanto, come ormai ripetuto più volte, esiste un problema di sperimentabilità e dunque di scientificità rispetto al Darwinismo.
SULLA SCIENTIFICITA’ di Darwin, c’è chi sostiene che “gli scienziati tendono a credere a ogni argomento passabilmente solido di carattere scientifico,
FINCHE’ NON NE SIA FORNITA UNA COSIDDETTA CONFUTAZIONE” (Jonathan Howard).
Lo stesso Howard afferma che ci sono due tipi di scienziati: scienziati sperimentali, come Newton per esempio, e scienziati teorici, come Darwin: per questo si
chiama teoria dell’evoluzione.
Darwin fu un grande teorico. (dalla teoria alla pratica…).
Il Darwinismo si fonda sostanzialmente su tre concetti-chiave:
-specie
-adattamento
-evoluzione
Come conseguenze di ciò, vi sono altrettante affermazioni generali, rispettivamente:
-che gli individui di ogni specie variano in qualche misura tra loro in molteplici caratteristiche sia strutturali sia comportamentali;
-che tale variazione è, in una certa misura, ereditaria;
-principio malthusiano: gli organismi si moltiplicano con un ritmo che supera la capacità dell’ambiente di sostentarli, con l’inevitabile conseguenza che molti
devono perire.
La naturale conclusione di tutto ciò è (Cap. IV) che le specie non sono immutabili.
Forse andrebbe rivista la Sistematica, ch’è di comodo.Le cose in realtà sono ovviamente assai più complicate.L’impressione è che i paleontologi non sappiano
in realtà che animali erano i dinosauri, cioè li sanno definire arbitrariamente ma non è detto che l’animale fosse come viene ricostruito.Un coccodrillo è più
simile a una gallina che ad un’ iguana.Secondo me il mistero non sta nella loro scomparsa (non ci s’interroga sull’estinzione di una quantità di altri Ordini del
Regno animale, competizione alimentare probabilmente), bensì nella loro natura. Semmai nella loro origine. Se erano Rettili, erano ben strani, anche
considerando la varietà di forme necessarie all’evoluzione per passare dagli Anfibi ai Mammiferi e agli Uccelli.
So benissimo che ci sono studiosi che si occupano di queste cose e non pretendo di formulare io nuove teorie o di rivoluzionare quelle esistenti; però un
contributo lo può dare anche un dilettante, a volte serve qualche considerazione da usare come “promemoria” per altri, più versati nella materia.
Burroughs, da dilettante, ha scritto cose sulla droga oggi considerate scientifiche. Certo, ne era un grande consumatore. Purtoppo io non potrò mai cavalcare un
dinosauro. A proposito:
23.4.1.-SUI RETTILI
E’ noto che gli anfibi si caratterizzano per respirare con le branchie da larve (i girini) e coi polmoni da adulti. Stando così le cose in uno stesso individuo, è del
tutto accettabile che un organismo, una volta evolutosi in altro, diventi omeotermo. Sennonché fra i primi rettili regna la più grande confusione.Rettile è una
parola con scarso significato, del tutto artificiale: si dovrebbe parlare di Amnioti, perché è l’uovo amniota che permette di affrancarsi completamente
dall’ambiente liquido, cui sono invece condannati gli Anfibi. L’amnios non è che una membrana che avvolge l’embrione e lo mantiene in un ambiente liquido:
una specie di piccola porzione dell’oceano o del fiume dove fino ad allora si erano svolte le prime fasi della crescita. Una cosa in più oltre al sacco vitellino degli
anfibi. Vi è poi l’allantoide che raccoglie i rifiuti. Un guscio poroso protegge il tutto, permettendo la “respirazione”.
Ma qui sta il punto. I caratteri rettiliani (ne parlerò dopo) non compaiono contemporaneamente, nè si possono automaticamente mettere in relazione con
l’acquisizione di un uovo amniota. Infinite forme si situano in una sorta di “terra di nessuno”, cosicché non può valere il sillogismo:
anfibi+uovo amniota=rettile;
il dinosauro fa le uova (ce ne sono di fossili);
dinosauro=rettile!
Ciò varrebbe (?) se si sapesse per certo che si parte da un anfibio: ma se l’organismo stesso dal quale si parte non si capisce che caspita sia, in quanto non può
essere definito con precisione, come si può pretendere, se non in via del tutto ipotetica, di assegnare l’animale che si evolve da quell’incerto vivente, ad una certa
Classe? Il ragionamento non regge.
Certo, non c’è solo l’uovo amniota.Ci sono una quantità di caratteri rettiliani che aiutano a definire un animale come Rettile.
Però nel caso dei dinosauri questo è un argomento a sfavore.
Al proposito, i r. infatti hanno:
23.4.2.-CARATTERISTICHE
*un tipo di epidermide che protegge il disseccamento. Cosa sappiamo della pelle dei dinosauri? Assolutamente nulla. Ne sono stati trovati campioni fossili, che
indicano un’aspetto ed una “ruvidità” effettivamente propria dei r. Ma qualche campione non fa testo per gl’interi due Ordini di d. Tra l’altro si calcola che
conosciamo un 10% scarso delle specie vissute. Comunque trovando un becco d’anatra non si può concludere che sia un’uccello: potrebbe essere un mammifero
(l’ornitorinco). Né ci sono casi fossili di “muta”, (v. i serpenti), che pure è propria dei r. Quanto alla mummia di Anatosauro trovata nel 1908 e ora a New York,
non mi risultano esserci descrizioni dell’epidermide. Si accenna solo alla presenza di tubercoli (potrebbe essere un caso di TBC fossile). In fotografia sembra
quella di un cavallo. Probabilmente molti piccoli d. avevano le piume.
*una respirazione esclusivamente polmonare.Cosa sappiamo della respirazione dei d.? La posizione delle narici. Gli antichi coccodrilli (i loro parenti, N.d.A.),
i Fitosauri, p.es., le avevano sotto gli occhi e non alla fine del muso come gli attuali coccodrilli. Ma perché il Brontosauro, che lo si vede sempre immerso in un
lago, non poteva fare i girini? E com’erano comunque i polmoni dei d.? Dopo la scoperta del cuore tetrapartito (v. oltre), si potrebbe scoprire ch’erano uguali ai
nostri.
*un collo: non tutti i generi ne erano dotati, specie i primi cheloni e i Mosasauri.
*una zampa spesso pentadattile (con cinque dita). Quasi nessun d. l’aveva. Questo può essere dovuto all’evoluzione, certo. Ma da dove provengono quelli
attuali? Dagli antenati dei coccodrilli, p.es., si dirà. Benissimo.Quelli erano r. Ma se un d. ha un “piede” tale quale quello di un uccello, (da cui il nome del
Sottordine, Ornitopodi)? C’è qualcosa che non va. Non solo, ma la posizione delle zampe, intendo il loro inserirsi sul corpo, è completamente sballata, tanto nei
Sauropodi che negli Ornitopodi. Sono troppo verticali; tutti i r. attuali le hanno laterali (o non le hanno). I primi poi, come il già citato Brontosauro, le hanno a
colonna, come gli elefanti! Come si può dire che fossero r., senza volere per forza che lo fossero, non lo so proprio.
*i denti che servono solo per afferrare la preda. L’Iguanodonte, un ornitopode del Cretaceo però, presenta molari da erbivoro; dal canto suo il Tirannosauro (e
gli altri Carnosauri) non è escluso che potesse masticare.Anzi, i r. si distinguono per poter respirare mentre mangiano.
*sessi separati. Alcuni vertebrati però, cambiano sesso a seconda della temperatura. Famoso il caso di quelle rane che oltre i 27°C, diventano, da maschi che
erano, femmine. Anzi, questa teoria è stata avanzata circa l’estinzione dei d.
*sviluppo accentuato dello sterno. Però molti d. avevano lo sterno più simile a quello degli uccelli, quasi a formare una gabbia toracica, cosa impensabile nei
coccodrilli, p.es.
*sviluppo accentuato delle aree sensoriali encefaliche: buona vista, buon udito, buon olfatto. Cosa sappiamo del cervello dei d.? Assolutamente nulla. Vorrei
ricordare che per decenni si è pensato che lo Stegosauro avesse un secondo cervello in corrispondenza del bacino, poiché troppo piccolo quello nella testa. La
cosa si rivelò erronea. I casi sono due: o erano realmente “stupidi”, e questo sarebbe incompatibile con i super-sensi di cui parlavo (e non potrebbero dunque
essere r.); o al contrario, com’è stato avanzato, non erano da meno di certi mammiferi (e ugualmente non potrebbero essere r.)
*cuore incompletamente diviso in due ventricoli, ma unico. Non è però probabile che alcuni d. avessero un secondo muscolo cardiaco atto a rifornire di sangue
l’immenso corpo? Questo spiegherebbe l’ossigenazione encefalica del Brachiosauro, la cui testa era a dodici metri dal suolo, a meno che non li si voglia come le
giraffe, con “valvole” regola-pressione sulle arterie (ma la giraffa è un mammifero).
Si tenga presente che non si possono isolare i d. come gruppo, dal resto dell’evoluzione: prima vennero le tartarughe, gl’ittiosauri, i placodonti, i sauropterigi,
i rincocefali, le lucertole, i serpenti, i tecodonti e i coccodrilli.
Ebbene, di NESSUNO di questi Ordini si conosce con precisione l’origine (!).
Si tengano poi presenti i seguenti fatti (La Settimana Enigmistica: Suspense!):
*le lucertole, con le quali tanto spesso i d. sono stati confrontati, trascorrono immobili persino il 90% della loro “vita attiva”, perché non hanno sufficiente
energia per restare costantemente sollevate sugli arti e in movimento; nel momento ottimale, infatti, un rettile può raccogliere e utilizzare meno di un decimo
dell’energia ch’è a disposizione di un mammifero dello stesso peso. Ammettendo l’eterotermia dei d., sarebbe stato necessario un riscaldamento prolungato
soltanto per fornire loro un minimo di capacità di movimento;
*le ossa dei d., a differenza di quelle dei rettili, assomigliano a quelle dei mammiferi perché sono ricche di vasi sanguigni e di canali atti a favorire gli scambi
tra il sangue e lo scheletro. Questo carattere convergente proverebbe l’esistenza di un metabolismo attivo in entrambi i gruppi di animali;
*vari d. presentano dimensioni colossali, armi potenti e una struttura scheletrica che indica una elevata capacità di lotta: questi caratteri contrasterebbero con
l’eventuale eterotermia, che li avrebbe resi pigri e quasi incapaci di muoversi;
*vari d. bipedi hanno la struttura scheletrica tipica degli animali corridori, come è reso evidente dall’allungamento e dalla disposizione degli arti: nonostante
ciò, se avessero avuto le stesse fonti di energia delle lucertole, essi avrebbero potuto superare di poco i 3 km./h. Eventualità, questa, che sembra esclusa, p.es.,
dallo Struziomimo , un d. corridore alto più di due metri e lungo tre metri e mezzo, per il quale si calcola una velocità massima non inferiore a quella dello
struzzo attuale (80 km./h ca.), del quale possiede un’analoga struttura corporea;
*alcuni adrosauri , d. provvisti di un becco simile a quello dell’anatra, sono stati scoperti in Canada nel 1973, in un’area che nel Cretaceo ricadeva all’interno
del Circolo Polare Artico: ciò mostra chiaramente che i d. erano in grado di combattere il freddo col loro metabolismo;
*la posizione sistematica dei famosi fossili del Monte San Giorgio non è ancora stata chiarita. Tanystrophaeus infatti, presenta vertebre cervicali talmente
allungate che inizialmente sono state scambiate per ossa di arti. Sebbene presumibilmente si colleghi ai Lepidosauri, in quanto diapside (con due aperture
temporali), non si può dire né rincocefalo, né ancora del tutto squamato (sottordine che comprende lucertole e serpenti attuali), per la presenza della barra ossea,
seppur ridotta, nella fenestrazione inferiore, che non libera l’osso quadrato;
*la differenza tra rettili e mammiferi, come si sa, sta infatti nella presenza delle ghiandole mammarie nei secondi e nell’omeotermia (il “sangue caldo”), che i r.
non possiedono. Tuttavia, poiché a livello fossile questi caratteri non sono individuabili, in paleontologia ci si basa sulla conformazione dell’osso quadrato
mandibolare (nei serpenti p.es., consente una spropositata apertura della bocca), nonché sulla sua posizione (nei mammiferi è spostato nella regione dell’orecchio
medio). Ebbene, tale suddivisione rettile-mammifero è del tutto ARBITRARIA. Esistono generi, come Cinognatus, che non si è certi se siano rettili o mammiferi
(si dice infatti comunemente “rettile-mammifero”, v.oltre);
*è stato ritrovato il fossile di un dinosauro (chiamato “Willo”) che, inequivocabilmente, aveva il cuore diviso in quattro ventricoli (!). La scoperta risale
all’Aprile 2000. Il fossile invece fu scoperto nel 1993. Si tratta di un celurosauro che presentava una “pietra” nella gabbia toracica: sottoposto a TAC per decine
di passaggi, la pietra si rivelò essere il cuore, tale quale quello dei mammiferi più evoluti, pulsante sangue caldo, del tutto dissimile dunque da quello dei r. che
hanno solo due ventricoli o al massimo tre come nel coccodrillo;
*l’origine dei Sauropodi, immagine classica di un d. (il Brontosauro per intenderci) non è conosciuta. Si ritiene derivi da una forma bipede di saurisco, ma
l’animale più affine, il Plateosauro, appartiene ad una linea filetica differente;
*in genere si ritiene appunto che le forme quadrupedi di d. siano nate dopo le bipedi, unicamente come espediente per sopportare meglio la massa corporea
sempre crescente; ma di r. bipedi non se ne conoscono, salvo alcune lucertole corridori; che appartengono però agli Squamati, ordine già piuttosto avanzato
nell’evoluzione dei r.;
*per i sauropodi poi si sa che la struttura delle ossa è più vicina a quella dei mammiferi che a quella dei r. ed inoltre è già stata avanzata l’ipotesi di omeotermia
per questi d. saurischi, visto il loro impedimento a muoversi. Sarebbe interessante sapere perché questa sia rimasta un’ipotesi;
*a proposito di ipotesi, leggendo con attenzione trattati di paleontologia mi accorgo che in realtà buona parte delle conclusioni cui si è giunti meriterebbero più
propriamente il nome di mere congetture: un esempio per tutti: l’Oviraptor, del quale non è per nulla certo che predasse le uova (poteva essere entomofago). Ma
partendo da questo si può arrivare a falsare buona parte dei caratteri di un organismo (l’alimentazione condiziona tutto, dalla postura all’habitat); altro luogo
comune: grande peso corporeo chiama automaticamente in causa una vita più o meno acquatica: perché? Altre ipotesi meriterebbero piuttosto seria attenzione
(forse qualcosa si sta muovendo ora, v. oltre);
*i d., questo lo si sa ormai per certo, non rappresentano un gruppo naturale: l’unica cosa in comune ai due Ordini infatti è la tendenza al gigantismo. Vale a dire
che, proprio come la Classe dei r. alla quale li si attribuisce, sono un’invenzione.
*nei Celurosauri, nonché nei Carnosauri, e chissà in quanti altri gruppi, il cervello non è minuscolo come si crede; anzi, è insolitamente sviluppato per un r.;
*tant’è vero che il paleontologo statunitense Dale Russel, ipotizzò, sull’onda del ritrovamento di Stenonychosaurus inequalus, un dinosauro bipede con dita
opponibili, che se i mammiferi non si fossero evoluti fino ad oggi, l’uomo sarebbe un “dinosauroide sapiens”, un rettile(?)-umano. Anche in senso filosofico, non
vi sarebbe differenza, faceva giustamente notare.
*perché allora non istituire una Classe intermedia tra Anfibi e Mammiferi-Uccelli?, così come gli Anfibi lo sono tra Pesci e Rettili? I d., invece di appartenere
alla Classe sistematica Reptilia, apparterebbero assai più propriamente a Dinosauria.
Ho già dichiarato che spesso mi documento su internet per avere una guida su quanto scrivere. Ebbene, solo dopo aver scritto il capitolo sui dinosauri (lo
giuro) mi sono accorto che già un altro studioso ha proposto l’introduzione della Classe Dinosauria, che raggruperebbe insieme Uccelli e Dinosauri. Pur
accogliendo molte idee di Jay Gould, l’autore della proposta, prima fra tutte quella che non è determinante il fatto che gli animali abbiano penne o che volino, o
che facciano le uova, (che infatti le fanno tutte le cinque attuali classi di Vertebrati), la mia era alquanto differente e forse più estrema: accanto alle classi
Reptilia e Avia, (tra le due per la precisione), introdurrei Dinosauria. Questo in virtù dell’eccezionalità delle caratteristiche dei d., semplificabili a fatica
raggruppandoli in classi più vaste.
Di un d. si può certamente dire solo quello che già è stato detto a proposito della Sindone di Torino: è evidente che non esiste! Sono convinto che se
tornassimo al Mesozoico, ci sentiremmo degli imbecilli: e chi sa che non vedremmo brontosauri piumati fare la ruota (come i pavoni) e correre più veloci di un
ghepardo? Infine vorrei far notare che per l’ormai certa omeotermia di almeno alcuni d. vengono presi come pietra di paragone gli uccelli: non dico sia sbagliato,
ma basterebbe invece guardare a quei r. che vennero prima dei d.: i Sinapsidi. La loro differenza coi mammiferi è a dir poco dubbia e per nulla definibile (a meno
di credere alla storiella dell’osso quadrato).
Qualcuno potrebbe trovare sterili gl’interi ultimi capitoli sui dinosauri, citando Robert Bakker, (classe 1945) il quale ha confermato definitivamente che i d.
erano animali a sangue caldo.
Tuttavia, altri, p.es John Rubben, ritengono che, come “Ciro” (Scipionix samniticus), il famoso nonché unico dinosauro italiano, nochè l’unico ad avere gli
organi interni fossilizzati (lo vidi a Milano, esposizione 2006/2007: fantastico!), i d. avessero un tipo di sistema fisiologico diverso sia da quello dei mammiferi
che da quello dei rettili, ma che funzionasse alla perfezione.
Ciro era infatti ectotermo, cioè ricavava il calore dall’esterno, non dal proprio metabolismo.
Tuttavia, come i mammiferi, era capace di sforzi sostenuti. A proposito:
23.4.3.-SULLA VIVIPARITA’
A conclusione di tutto il discorso, non ho ancora parlato dell’ovoviviparità e della viviparità, e vorrei farlo ora. I d., come si sa, si ritiene fossero piuttosto
ovipari, cioè che, come i coccodrilli e i testudinati attuali, deponessero uova. Il punto è che, se si ammette essere i d. dei rettili, solo tre dei quattro ordini
attualmente esistenti sono ovipari. I quattro quinti degli Squamati infatti, i serpenti per intenderci, sono ovovivipari, cioè tengono l’uovo in corpo fino alla
schiusa, ma non vi è collegamento nutritivo tra la madre e il piccolo (provvede in toto l’uovo). Ora, le vipere smentiscono tutto questo. Non si è certi infatti se
parlare di ovoviviparità o di viviparità. Quest’ultima si verifica non solo, come nel caso ovvio dei mammiferi, se il piccolo esce vivo già formato, ma anche in
presenza di una complessa placentazione. Persino alcuni invertebrati sono vivipari. Ovvio che questo rimette in discussione l’appartenenza dei dinosauri alla
Classe dei Rettili, poiché se le vipere fossero vivipare (tranne poche specie accertate ovipare), i d. cosa sarebbero? Anzi, si chiama “vipera” proprio in
riferimento alle modalità riproduttive. Vero è che le linee filogenetiche evolutive di Saurischi, Ornitischi e Squamati sono separate; però noi per esempio
abbiamo in comune col gorilla il 95% dei geni, con lo scimpanzè il 99% addirittura. Siamo tutti mammiferi.
I rettili cos’hanno in comune tra di loro, oltre all’”artificiale” uovo amniotico?
Affermo che i dinosauri, con ogni probabilità, non erano rettili, erano dinosauri.
A proposito:
Mi succede spesso di ricordare le cose come fossero fiabe e, nei momenti di difficoltà, di viverle come fiabe, nel senso che non ho più, in quei momenti,
contatto con la realtà e la mia capacità di concentrazione non riguarda, per esempio, il reagire ad un disturbo esterno, ma l’isolare la mia mente da quel disturbo
(è, in piccolo, ciò a cui tenderebbe anche lo Zen). Non reagisco ma assorbo, o forse vado al di là di questi problemi (è quello che mi piacerebbe!), comunque è
questa, alla fin fine, la mia reazione.
Ma volevo dire un’altra cosa ancora: ormai vivo spesso nel sogno, (Platone lo diceva di tutti gli uomini) proprio perché i brutti quarti d’ora li trasfiguro nel
ricordo (ma non li rimuovo, N.B.), e ciò anche mentre li sto vivendo, forse per soffrire meno.
Cosicché ecco la parte su Parigi, non reale, ma che potrebbe esserlo, ecco la parte sulle donne, reale, ma romanzata, ecco quella “nebbia” che avvolge il mio
scritto, simile alla descrizione dei dinosauri in Viaggio al centro della Terra di Verne. Di qui, l’apparenza di farneticazione o di allucinazione che caratterizza la
mia eccellente opera. In questo modo però non dovrebbe riuscirmi troppo difficile scrivere una vera fiaba, in omaggio, più che ad Esopo, Fedro e La Fontaine, a
Perrault, Andersen e Carroll. Per il semplice fatto che i primi tre sono favolisti. Io invece non mi pongo alcun intento didascalico. La fiaba infatti, come si sa, non
dovrebbe: insegnare una morale, parlare di animali (ma di elfi, gnomi, etc) ed essere trascritta (ma trasmessa oralmente).
Anche se la distinzione tra favola e fiaba non è poi così netta. Pinocchio è talvolta definito fiaba, ed è uno dei racconti più moralisti, mentre le fiabe di
Andersen riguardano spesso animali. L’importante è che sia rispettato l’ordine delle cosiddette funzioni (e lo è sempre), cioè di ciò che fanno i personaggi,
indipendentemente da chi lo fa e come lo fa.
Seguirò infatti l’ottimo saggio del Propp, che dal 1928 fa testo in questo campo, con la novità che voglio utilizzare tutte le trentuno funzioni descritte dallo
studioso russo. A proposito:
24.2.1.-SULLE FIABE
L’ANATRA MARTINA
(i) C’ERA UNA VOLTA UN’ ANATRA, DI NOME MARTINA, CHE AMAVA SGUAZZARE NEI FIUMI NON TROPPO GRANDI E PROFONDI.
(e3) UN GIORNO MARTINA SI ALLONTANO’ DA CASA, PER ANDARE A SPASSO.
(k1) PRIMA DI PARTIRE, LA MAMMA LE DISSE: “NON ANDARE NEL LAGO DEI CIGNI”.
(q) MA, NON VISTA, MARTINA ANDO’ IMMEDIATAMENTE NEL LAGO DEI CIGNI. IN QUEL MOMENTO GIUNSE DAL CIELO UN CIGNO.
(v2) MARTINA CHIESE AL CIGNO: “COME FAI A VOLARE COSI’ IN ALTO?” “NOI CIGNI NON VOGLIAMO, MA IO HO MANGIATO L’ERBA
VOLO. PERCHE’, TI PIACEREBBE SAPER VOLARE?”
(w1) “SI’, PERCHE’ COSI’ LA MAMMA NON SAPREBBE SEMPRE DOVE SONO”, RISPOSE MARTINA
(j1) IL CIGNO SI TRASFORMO’ IN ANATRA, E DISSE: “SEGUIMI A NUOTO, TI FACCIO VEDERE DOVE CRESCE L’ERBA VOLO”
(y1) MARTINA SEGUI’ IL CIGNO FINCHE’ NON SI RITROVO’A CASA. IL CIGNO INFATTI DALL’ALTO AVEVA VISTO DOVE ABITAVA.
(X1) L’ANATRA ALLORA TORNO’ CIGNO E RAPI’ IL FRATELLINO DI MARTINA.
(x1) MARTINA VUOLE CERCARSI UN FIDANZATO CHE L’AIUTI A RITROVARE IL FRATELLINO.
(Y1) TROVA UN ANATRA CHE SI CHIAMA MARTINO E CHE DIVENTA IL SUO FIDANZATO. MARTINA GLI CHIEDE DI CERCARE IL SUO
FRATELLINO
(W1) MARTINO ACCETTA E RISPONDE: “PERMETTIMI O MARTINA DI CERCARE IL TUO FRATELLINO.”
(undicesima funzione): MARTINO ABBANDONA LA CASA E PARTE
(D3) LUNGO IL FIUME INCONTRA UN LUCCIO MORENTE CHE LO SUPPLICA: “NON MANGIARE LA MIA CARNE MA RACCOGLI LE MIE
OSSA, METTILE IN UN FAZZOLETTO, SEPPELLISCILE NEL TUO GIARDINO E INNAFFIAMI OGNI MATTINA. IN CAMBIO SARAI IN GRADO DI
TRASFORMARTI IN QUALSIASI ANIMALE CHE VUOI”
(E3) IL LUCCIO MUORE E MARTINO FA COME GLI AVEVA DETTO
(Z4) MARTINO ACQUISTA IL POTERE MAGICO CHE GLI AVEVA PROMESSO IL LUCCIO.
(R1) DUNQUE SI TRASFORMA IN CIGNO E VOLA VERSO IL LAGO DEI CIGNI.
(L1) MARTINO INGAGGIA UNA LOTTA IN CAMPO APERTO CON IL CIGNO CATTIVO.
(M1) E RICEVE UNA FERITA SULL’ALA SINISTRA DOVUTA A UN COLPO DI BECCO
(V1) MA IL CIGNO CATTIVO E’ SCONFITTO E MUORE.
(Rm1) ALLORA MARTINO SI RITRASFORMA IN ANATRA E DICE AL FRATELLINO DI MARTINA DI SEGUIRLO A NUOTO.
(ventesima funzione) MARTINO E IL FRATELLINO TORNANO VERSO CASA.
(P1) MA LE MOGLI DEL CIGNO MORTO INSEGUONO A VOLO MARTINO PER UCCIDERLO E RIAVERE IL FRATELLINO.
(S1) MA MARTINO SI TRASFORMA IN LUCCIO, TRASCINA SOTT’ACQUA IL FRATELLINO DICENDOGLI DI TRATTENERE IL FIATO, E COSI’
SFUGGE ALLE CIGNE CHE NON LO VEDONO.
(o1) FINALMENTE MARTINO, TORNATO ANATRA, E IL FRATELLINO ARRIVANO A CASA.
(F1) MA I FRATELLI MAGGIORI DI MARTINA, GELOSI, VOGLIONO SCACCIARE MARTINO. MARTINO GLI SPIEGA DEL RAPIMENTO, DELLA
LOTTA COL CIGNO E DELLA FERITA, MA LORO NON GLI CREDONO.
(C) ALLORA ASSEGNANO A MARTINO UN COMPITO: SE RIUSCIRA’ A IMMERGERSI IN UN MASTELLO DI ACQUA BOLLENTE, POTRA’
RESTARE.
(A) MA MARTINO USA ANCORA I POTERI MAGICI CHE GLI AVEVA DONATO IL LUCCIO MORENTE: SI TRASFORMA IN UNA
SALAMANDRA, E SUPERA LA PROVA.
(I) A QUEL PUNTO I FRATELLI SI ACCORGONO CHE SULLA ZAMPA SINISTRA SANGUINA UNA FERITA, E RICONOSCONO CHE MARTINO
HA DETTO LA VERITA’.
(Sm) MA UNO DEI FRATELLI PER LA RABBIA SI TRASFORMA: E’ IL CIGNO CATTIVO CHE NON ERA MORTO.
(T) MARTINO ALLORA SI TRASFORMA IN UN COCCODRILLO.
(Pu) E IN UN SOLO BOCCONE SI MANGIA IL CIGNO CATTIVO.
(N2) FINALMENTE MARTINO PUO’ SPOSARE MARTINA. E VISSERO FELICI E CONTENTI
Ho scelto quasi sempre la prima variante di ogni funzione elencata. La numero 11 e la numero 20 richiedevano simboli che non ho trovato sulla tastiera.
Per le altre lo schema è fedele. A proposito:
24.2.2.-COMMENTO
Naturalmente il meritevolissimo studio del Propp ha il difetto di togliere la componente magica della fiaba (agli occhi di chi ha assimilato il suo saggio), nel
senso di attenuare la godibilità del racconto, e di ridurre l’intera narrazione a matematica pura.
Comunque resta ineccepibile. L’unica critica fondata venne a suo tempo dal Levi-Strauss, che contestava al Propp di essere un formalista, e di non occuparsi
del mito, a suo parere meno antico della favola di magia. Ma lo studioso russo aveva già risposto che la differenza tra forma e contenuto è solo nel nome, poiché
entrambi sono della stessa natura, e perché nelle fiabe l’intreccio, cioè il contenuto, è fatto per l’appunto di funzioni (cioè le azioni dei personaggi) e ciò
costituisce anche la forma.
Quanto al mito, a parte il fatto che il Propp se ne disinteressò aprioristicamente, per scelta, dovendo occuparsi delle favole di magia, queste ultime comunque
non hanno la componente seria e finanche storica (e di storia patria per giunta) che caratterizza, anzi che determina i miti, dunque debbono essere posteriori ad
essi.
Indipendentemente dall’elemento fantasioso o fantastico che può permeare quest’ultimi.
La dizione “favola di magia”, poi, e non fiaba, termine presente solo in traduzione, fa capire una volta di più, come ho già detto più sopra, che la distinzione tra
favola e fiaba è di fatto indeterminabile.
Semmai, aggiungo io un’osservazione: il materiale di studio del grande linguista russo è unicamente la ben nota raccolta dell’ Afanas’ev, vasta (qualche
centinaio di favole) e sufficientemente varia da permettere un semplice (anche se attento) studio comparativo, com’è in fondo quello del Propp.
Ma è indubbio che questo sia anche un limite. Forse si potrà dire l’ultima parola sulla “morfologia della fiaba” solo comparando TUTTE le favole di magia
scritte dal loro apparire ad oggi e di tutte le tradizioni del mondo. Spaziando dunque nel tempo e nella geografia. Compito immane, anche se forse non inutile
come sosteneva il grande russo; per cui il saggio in esame farà testo, e meritatamente, per moltissimo tempo e forse per sempre.
Si parlava di uccelli. A proposito:
25.-SULLE ANATRE
(un ricordo)
Ieri sera ho ricevuto una bella lezione di vita e di comportamento. Da un gruppo di anatre. Veramente non so se fossero anatre o germani (e non so se si dica
anatre o anitre). Io dico anatre perché mi piace di più, poi anitre mi ricorda il detergente per water, l’”anitra WC”. La festa dell’anitra al forno che si svolge nel
parmense non è della stessa opinione. C’erano anche dei germani, quelli dal collare verde. Comunque sia, ero sul Mincio e ho notato che all’imbrunire, poco
prima che sia proprio buio, vengono tutte su dall’acqua e stanno sulla riva silenziose, in gruppo, non ho capito a fare che cosa. Mentre le osservavo, quante cose
mi sono venute in mente! Primo, che loro se ne fregano di come si chiamano, se ne stanno nell’acqua beate a sguazzare, quando hanno fame mangiano e ogni
tanto fanno “qua-qua”. Come sono carine. Ero solo con le anatre e mi sentivo meglio di quando sto solo tra gli uomini. O tra le donne (ma quelle sono oche.
Scherzo).
Come disse già Leopardi, perché l’animale è esente dalla noia e l’uomo, se sta fermo, il tedio assale? (o qualcosa del genere). Questi uccelli ti fanno stare
proprio bene, in parte perché sono belli, almeno io li trovo tali anche se comuni, in parte perché sono tranquilli (con l’uomo). Tra di loro non so. I cigni, molto
più belli, della stessa famiglia peraltro, sono delle carogne, anche se erano uno dei simboli della Citroen (“Moteur Flottant”); mi è capitato più di una volta che
venissero verso di me quando volevo osservarli meglio, non per salutarmi, ma per “sputarmi” addosso. Il loro collo poi intimidisce quanto il tripode della
Guerra dei Mondi. La bellezza è pericolosa, vale anche tra gli umani, si pensi alle donne.Chiunque ha letto il Lorenz sa che le tortore possono essere peggio dei
lupi, ma le pagine sull’ochetta Martina ti fanno riconciliare col mondo. Per un po’ mi sono sentito il Lorenz.
Per un po’.
E’ successo infatti che, una volta assembratisi le anatre come ho detto, qualcuno, dovendo passare a piedi o in bicicletta per il sentiero che c’è su quella riva, le
abbia disperse facendole fuggire in acqua starnazzanti. Io ci sono rimasto male. Stavano così bene. Stavamo così bene, senza dar fastidio a nessuno.Ormai
eravamo intimi. E’ bello anche osservare come fuggono da un pericolo. All’avvicinarsi dell’uomo, prima , da sedute, si alzano in piedi ed è come se
bisbigliassero tra loro qualcosa. Poi, certe dell’ineluttabilità della cosa, scappano rumorosamente. Solo dopo qualche minuto (a volte un bel po’), tornano sulla
riva. Purtroppo un deficiente si è avvicinato in bicicletta e, dopo essere stato lì vicino a loro qualche secondo, ha fatto deliberatamente con cattiveria marcia
indietro per girarsi e disperdere così con la ruota posteriore tutti i miei amici. Non ho avuto il cuore di picchiarlo e di questo mi pento ancora.
Ma qui è successo qualcosa che mi fa pensare e che mi consola, anche. Forse loro non hanno sofferto. L’istinto le fa scappare ma poi, con bontà e saggezza
superiori, tornano indietro e si rimettono a far la siesta, come non fosse successo niente. Così mi piace pensare, perlomeno. In altre parole, “non si sono neanche
squassate”, come si dice dalle mie parti. E questa “Buddhità” non è forse il punto d’arrivo per qualsiasi uomo? Ma la cosa commovente è che prima di
andarmene mi sono avvicinato a mia volta e loro, con mia grande sorpresa, non si sono neanche alzate in piedi! Hanno imparato la lezione. O forse tra loro c’era
veramente l’ochetta Martina! (Kill Bill Vol.1; Mc XV, 39).
Grazie, figliole! (L’Attimo Fuggente).
Queste cose non possono succedere in città. A proposito:
26.-BERGAMO
Ancora sui viaggi. Ultimamente sono stato a Bergamo (de hura e de hota). Per la prima volta ho fatto qualche considerazione. Non farò la storia di Bergamo,
mi ha già stremato fare quella di Bologna e forse ha stancato anche il lettore.
Dico una cosa che non dovrei dire: era tutta presa da un libro scritto a più mani: Storia di Bologna, per l’appunto, delle edizioni University Press Bologna. Si
trova anche dal fornaio.Lo faccio spesso, questo di spacciare cose non mie per mie, non sempre m’informo sui libri, le notizie sulla Citroen erano tratte dal sito
internet francese: lo faccio perché mi piacciono i riassunti, mi sembra di tornare a scuola, e mi diverto. Comunque un saggista mica se le inventa le cose che
scrive (a volte sì!): l’ha pur sempre letto da qualche parte, no? E’ come lo spogliarello: non indagare come lo fanno ma goditi i risultati (Operazione Sottoveste).
Poi il lavoro è un po’ mio comunque, non si creda che tutti sappiano condensare con rara chiarezza e concisione come me…Anzi, la mia forma è migliore di
quella del libro originale.
A volte poi sono obbligato a tirarla per le lunghe per giustificare la premessa nella quale mi ero incautamente imbarcato: dicevo che a Bologna non c’è stata
grande Storia, e la storia descritta di seguito credo l’abbia confermato, sostanzialmente, con qualche eccezione.
Chiusa parentesi. Dicevo che sono stato a Bergamo di recente: indubbiamente una bella città, unica, specie per il fatto di stare su due piani; però mi aspettavo
di più. Il momento in cui si prende la funicolare per me è magico: mi piace l’idea che ci sia un dislivello da superare in città, nella stessa città, non tra città
diverse, per non dire del fascino delle carrozze e naturalmente del panorama una volta saliti, specie da alcuni punti, come Colle Aperto. Però l’impatto visivo, per
così dire, non mi ha entusiasmato come altri centri dove la storia è ancora più presente, quasi palpabile, per esempio Siena. Piazza Vecchia è molto bella (non
strepitosa come altre, per la verità), la Cappella Colleoni è un capolavoro ma nel complesso ripeto che mi aspettavo di più.
Ma nemmeno dalle ragazze mi aspetto molto. A proposito:
27.1.-SULLE BAMBINE
(contro la pedofilia)
Tornando sul sesso, chè, come dice il vecchio Sigmund, c’entra sempre, come non parlare delle bambine? Anche chi non trova i bambini simpatici (come me,
v.oltre), verso le bambine l’atteggiamento cambia. Si badi bene che non si parla di attrazione sessuale, definita pedofilia, anche se a questo riguardo c’è un
equivoco, in quanto oggi sono di moda le battaglie anti-pedofilia. (l’equivoco è sull’eta’: dopo i quattordici anni la sessualità non è né minorile, né adulta: è
umana; certo, per la legge la fanciulla è minorenne). Sto parlando di una simpatia e di un’amicizia del tutto asessuate, anche se talvolta non esenti da candide
morbosità.
Le stesse che d’altronde nutriva Lewis Carroll, l’autore di Alice: “Le bimbe nude sono così perfettamente pure e belle”, dichiarava, chiedendo alle mamme
delle loro piccole amiche il permesso, senza alcun imbarazzo, di fotografarle “in calzoncini da bagno, anche se non posso ripetere abbastanza quanto
sarebbero più carine senza”. Grazie a tale “morbosità” abbiamo una delle opere più belle della “narrativa infantile” (espressione che detesto, v.oltre).
D’altronde verso le donne teneva qualche corrispondenza epistolare di carattere amichevole, ma nessuna di amorosi sensi. Per il suo interesse verso le bambine
impuberi credo si trattasse dello stesso amore che rapisce l’osservatore del Ritratto di bambina del Velazquez, esposto all’Accademia Carrara di Bergamo. Io,
che ho frequentato l’Istituto d’Arte ma che non so niente di storia dell’arte (o forse proprio per questo), sono rimasto imbambolato, tra tutti i quadri esposti, da
questo e da un altro che in questo momento non ricordo (anche perché non sono presenti gli impressionisti). Per la verità l’attribuzione al Velazquez è dubbia, ma
la sinteticità dello studio del grazioso faccino illuminato dagli occhi profondamente seri, denuncia la mano di un maestro; e la bellezza dell’opera è dovuta anche
al soggetto. Tra l’altro, al pari di Carroll, ho qualche difficoltà a rapportarmi all’altro sesso non appena la bambina cresce (nel suo caso) e non appena la ragazza
si mostra interessata al sesso (nel mio, in un certo senso si tratta sempre di una bambina che cresce).
Comunque oggi le bambine vengono utilizzate anche nelle sfilate di moda- è pedofilia?
(Per l’interesse asessuato verso le bambine, cfr. anche Hesse, in L’ultima estate di Klingsor : “a una bella biondina dodicenne tutti dettero qualcosa, e lei
non si perse un giro. Nel fulgore delle luci la gonnellina svolazzava incantevole intorno alle belle gambe infantili”).
A proposito dei bambini maschi, sono le persone più malvagie che esistano: si osservi un ottenne che, solo per cattiveria (in genere la si chiama erroneamente
curiosità), avuta una farfalla tra le mani, comincia a strapparle le ali una ad una. Oppure, in presenza di un cane e di un gatto, si mette ad aizzarli uno contro
l’altro. Oppure si osservino i capricci, assolutamente frutto del più spietato calcolo (lo si capisce se si nota la perseveranza nel farli se il bambino capisce di
godere di impunità). Anche la letteratura ce ne dà infinite conferme; il primo esempio che mi viene in mente è Il signore delle mosche, di Goldwin. D’altronde,
se è vero, come è vero, che l’uomo è malvagio, (sia secondo Rousseau che secondo Hobbes, il risultato non cambia), non è che il bambino sia di un’altra specie,
dunque deve necessariamente avere qualcosa di malsano già da bambino (forse Rousseau si riferisce ai neonati quando dice che si nasce buoni).
Quanto alle bimbe, sono anche peggio, però in loro la malizia è deliziosamente femminile già a partire dal quarto anno (mese?) di età. La curiosità (questa sì)
verso il sesso, poi, è determinata e precoce (tutte amano esibire la nudità), anche se ovviamente non consapevole in senso adulto (ma per conoscere una lingua
straniera la grammatica si può imparare in un secondo tempo). Per questo, una volta adulte, sono irresistibili per qualsiasi uomo proprio quelle donne che più
ricordano la bambina che erano (come aspetto del viso e atteggiamento).Vedi per esempio, tra le attrici, Traci Lords, Mercedes Ambrus, Deborah Caprioglio o la
Marini.
E’ un’analisi fatta un po’ “a braccio”, ma non esente da considerazioni valide. La pedofilia non è che la punta dell’iceberg, al pari dell’uccisione seriale.
Sempre a proposito d’infanzia:
Un’accenno a quella che viene definita (si parlava dei bambini) ovunque, nelle recensioni, parlando, persino nella classificazione Dewey in biblioteca
“Narrativa per l’infanzia” o “Libri per ragazzi”.
Detesto queste espressioni, le trovo assolutamente prive di senso, ma soprattutto dubito che esistano (per meglio dire, non dovrebbero esistere).
Si prenda qualsiasi autore “per l’infanzia” e se ne analizzi seriamente l’opera: perché, Verne non ha forse scritto romanzi fantastici sì, ma per tutti? O forse è
l’adulto che vorrebbe ripudiare la fantasia?
E Stevenson? Non era che uno story-teller, come lo chiamavano i suoi isolani, cioè, molto semplicemente un narratore, un cantastorie. E Swift? E Salgari?
Solo chi scrisse con l’esplicita intenzione di destinare i suoi libri ai ragazzi, può dirsi autore per l’infanzia. P.es., Gianni Rodari.
O lo Stevenson stesso dell’Isola del Tesoro. O il Carroll di Alice (ma si sbagliavano).
Ma già Calvino no. Nemmeno le fiabe e le favole sono infantili, anzi.
Il 90% della letteratura per l’infanzia dovrebbe stare negli scaffali degli adulti.
Semmai, dato che esiste sempre una riduzione per le scuole, è quella (e solo quella) che dovrebbe stare in una sezione apposita.
Ma io sono contrario anche a queste edizioni.
L’unica produzione specificamente infantile sensata è (era, per meglio dire), quella dei fumetti americani dei primi decenni del Novecento, che comparivano
sui giornali per indurre i papà ad acquistarli più spesso, per poi passare ai figli i coloratissimi supplementi domenicali.
I bambini infatti se ne fregano di quel che accade nel mondo. O che accadrà. A proposito:
28.-SULLE PROFEZIE
Sulla scaletta che preparo man mano che vado avanti, dunque non è neanche una scaletta, mi sono segnato di scrivere piuttosto dettagliatamente singoli anni o
parti di anni (voglio continuare con la mia pseudo-biografia): per esempio, le vacanze che feci in Spagna piuttosto che al lago di Garda.
Poi è segnato anche “Profezie di Nostradamus”. Mi piacerebbe trovare il modo di collegare le due cose: si parla sostanzialmente del tempo. Anche perché per
andare avanti in stò guazzabuglio mi è venuta una buona idea, penso: cioè scrivere di quello di cui so, e questo lo misuro a seconda che abbia libri sulla cosa
oppure no, e quanti. Vale a dire, che parlo di quello che mi piace (non ho libri sul paracadutismo: non me ne frega niente)(Eco).
Unendo questo a ricordi personali e condendo il tutto con opinioni e giudizi, sempre assolutamente miei (o comunque “distillati” dalle mie letture e/o dai miei
ripensamenti), dovrei poter scrivere anche per tutta la vita. Tanto si è già visto che spesso torno sull’argomento.
Quanto se quello che ne vien fuori sia buono, è un altro paio di maniche.
Dunque, ho una dozzina di libri su Nostradamus: cosa c’entri con le mie ferie, lo dirò subito: nulla. E molto.E mi spiego.
Da un certo punto di vista infatti, tutto quello che ci accade “it is written in the stars”, come dice John Lennon, è scritto nelle stelle. E questo non ha niente a
che fare con l’astrologia, si badi bene.
La considerazione viene dall’osservazione degli avvenimenti nel tempo: quello ch’è successo, il passato, per chi lo osserva ora, è “indietro”, dunque
determinato; il futuro è “avanti”, dunque indeterminato. Già: per chi lo osserva adesso. Ma in realtà il tempo non ha un inizio, nè una fine; come si può allora
stabilire da dove guardare? In realtà il passato non esiste, come il futuro: infatti, quest’ultimo ovviamente non c’è, perché non è ANCORA; ma analogamente
anche il passato non c’è, perché non è PIU’. Il presente, dunque, esiste o no, non essendo che la separazione, senza estensione né dimensione, di due concetti
inesistenti? Problema già posto dagli antichi greci.
Sebbene allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non sia possibile costruire una macchina del tempo, si può ammettere che alcune menti vedano il
futuro già determinato, esattamente come il passato; cioè che il pensiero sia atemporale: il che il più semplice ragionamento evidenzia come vero.
Intanto, bisogna partire dal chiedersi s’è possibile o meno che l’uomo possa pensare non solo al presente, ma anche al passato e al futuro: ovviamente è
possibile (a differenza degli animali, che vivono solo nel qui e ora), poiché anzi le maggiori sofferenze non sono date all’uomo dal presente, bensì proprio dal
passato e dal futuro; ognuno sa questo, se riflette su quanto un’offesa subita (dunque già passata) lo disturbi ora, al presente, se vi torna col pensiero, o su quanto
una preoccupazione (dunque futura) lo faccia stare altrettanto male: tant’è che uno dei segreti della felicità è sforzarsi di vivere solo nell’attimo che si sta
vivendo. Gli animali, come detto, sono dunque più felici di noi.
Ma questo ovviamente non vuole ancora dire che si saprà già prima ciò che deve ancora avvenire.
Però l’aritmetica, per esempio, non consiste che in questo. Per capirlo, rimando al solito Welt, che avrà già rotto le scatole a tutti i miei lettori, a quest’ora. Il
contare, cioè, riguarda solo il tempo: non solo, ma l’intuizione nel tempo, non la riflessione in esso: le regole matematiche hanno solo il compito di facilitare un
calcolo che però riposa comunque sull’intuizione (questo perché per grandezze oltre il dieci l’intelletto comincia a mostrare difficoltà, e bisogna travasare il tutto
in concetti, dunque in astrazione, in regole); nel contare siamo poi facilitati dal fatto che il tempo ha un’unica dimensione.
Ma nel Cap. 15 del primo libro dei Supplementi, Schopenauer afferma esplicitamente che, a seconda dell’intelletto, l’orizzonte spirituale di una persona può
abbracciare tutto il giorno presente, o anche il giorno dopo, o la settimana dopo, o l’anno dopo, o il millennio dopo. Con ciò considero dimostrata la possibilità
dell’esistenza di un Nostradamus.
I due paradossi cui va incontro un ipotetico scienziato alla Ritorno al futuro sono: p. di tempo e p. di materia. Il primo è quello classico “del nonno” o “della
nonna” : se nel passato uccido un mio avo, come posso esistere e dunque viaggiare nel tempo? (vale anche per i viaggi nel futuro). Il secondo ha a che fare con
una questione di “raddoppio” o “moltiplicazione” (che avviene con il viaggio) degli atomi dell’oggetto trasportato, sì che non sarebbe chi è partito colui che
arriva….
Lasciamo perdere, perché le difficoltà stanno a monte: la tecnologia non consente p.es. l’ottenimento di buchi neri (tra i possibili corridoi spazio-temporali)
sufficientemente grossi. Mentre la fisica teorica dal canto suo ammette da tempo la possibilità dei viaggi nel tempo (accade in scala ridotta e a livello relativistico
particolare, non universale, già nei viaggi aerei transcontinentali, specie quelli supersonici). E fin qui, si dirà, ci siamo (si sapeva).
Ma il bello è che il pensiero se ne può fregare e della tecnica e dei paradossi. Non si capisce perché un viaggiatore nel tempo debba interagire per forza con
l’ambiente in cui viene a trovarsi: ho sempre immaginato piuttosto che il limite e il prezzo dei cronoviaggi e ciò che li renderà possibili, sia proprio l’impotenza:
guardare ma non toccare.
Tanto che ci se ne chiede l’opportunità. Ma questo avviene già, se si parla di viaggiare nel tempo con la mente: penso ai flashback; penso alla regressione
ipnotica; penso ai veggenti.
E Nostradamus fu uno di questi.
Non si tratta tanto d’interrogarsi, come tutti fanno, sul perché le quartine siano così oscure, o sul come decifrarle. Esistono decine di persone, tutte piuttosto
accreditate, da Mirella Corvaja a Ottavio Cesare Ramotti, a Renucio Boscolo, che sostengono di aver trovato la chiave d’interpretazione delle centurie di
Nostradamus. Comunque alcune quartine si sono verificate già mentre N. era in vita, come si sa (celeberrima quella su Enrico II); il fatidico anno 1999 (X.72) è
invece più difficile da interpretare.
Quanto alla loro difficoltà, il motivo è invece chiaro (e naturale: nessuno, p.es., vuol sapere il momento esatto della propria morte!Inoltre, N. doveva guardarsi
dal giudizio della Chiesa).
Il problema, come direbbe Piergiorgio Odifreddi, sta in due diverse concezioni del mondo: chi ammette che sia possibile vedere gli avvenimenti futuri; e chi
invece considera questa facoltà preclusa all’uomo.
Io penso che ciò sia possibile per un motivo praticamente impossibile da non riconoscere, a pensarci: ed è che accettare quest’idea non presenta maggiori
difficoltà dell’accettare una quantità di altre idee comunemente accolte.
A partire, p.es., dal fatto che un cadavere possa, con l’aiuto del padre onnipotente, tornare alla vita. Mi riferisco evidentemente all’accoglimento dell’idea della
resurrezione, per un cristiano. Per onestà debbo dire che io non sono credente e dunque non dovrei credere neanche alle profezie del Nostro (anche se c’è chi lo
inserisce in un’ottica cristiana; del resto, in quest’ottica, vi è la contemporaneità di ieri, oggi e domani, come ribadito nel Paradise Lost di Milton).
La cosa però mi sembra già più probabile del fatto prima citato (almeno per chiunque, come me, non ha ancora avuto un segno dalla Fede-e sarebbe il
benvenuto).
O no?
E non solo. Tutte le manifestazioni del paranormale, dove le mettiamo? Come, non esistono? Allora non esistono i monaci tibetani in grado di levitare, p.es., e
sono stati filmati.
E non esistono i medium, e se ne servono anche le forze di polizia di tutto il mondo.
E non esistono i pranoterapeuti, e spesso sono l’unico rimedio efficace.
Potrei continuare.
Non nego nemmeno che l’uomo comune non fa propriamente male ad avere lo stesso atteggiamento scettico che potrebbe avere verso gli oroscopi, per
esempio. Un famoso articolo di Selezione dal Reader’s Digest era intitolato: “Oroscopo come gioco”, e spiegava i motivi di questa tesi, inconfutabili
(ovviamente si parlava degli oroscopi delle riviste settimanali).
Dal fatto che in realtà i segni andrebbero scalati di un posto (io, vergine, sono in reltà una bilancia), fino al calcolo delle probabilità, cui le generiche frasi
pensate per ogni segno si attengono (in poche parole, è difficile non “prenderci” del tutto). Per tacere del fatto che, non si sa quanto spesso, i segni in redazione
vengono assegnati per sorteggio alle rispettive previsioni (!).
Ma è altrettanto innegabile che i nati di un certo segno abbiano quasi tutti determinate caratteristiche, e quelli di un altro segno, altre, differenti. Io, vergine,
sono per esempio piuttosto pignolo (e credo che si capisca anche leggendomi).
Così, abbiamo già introdotto un elemento razionale nel nostro discorso…
Poiché non stavamo parlando d’arte… A proposito:
29.1.-SULL’ARTE IN GENERALE
(saggi introduttivi)
29.2.-SUL METODO
29.3.-L’ELECTA
L’Electa poi parla pochissimo delle tecniche, credo per motivi di spazio.
Però questo è un errore macroscopico. A Firenze ero in imbarazzo perché non sapevo, in effetti, come si realizza un affresco (poi l’ho imparato). Per non dire
della pittura ad’olio, che il nostro manuale svolge in poche righe. Mentre invece forse bisognerebbe partire dalle tecniche, no? In realtà, andando poi a vedere il
dipinto al museo, ci si sorprende che il supporto sia una tavola e non la tela, anche se lo si era letto nella didascalia. A me è successo ad Urbino con la
Flagellazione di Piero della Francesca, p.es.: dedicando maggior spazio alla descrizione e alla storia delle tecniche artistiche invece, il fruitore dell’opera sarebbe
avvantaggiato.
Un altro problema che mi assilla a proposito dell’Electa è come tratta l’arte antica: meglio sarebbe eliminarla totalmente. Ma qui invece non c’è colpa: l’arte
antica è la più complessa in assoluto, e qualche buona dritta viene data. E partire dal medioevo sarebbe impensabile.
L’equivoco di fondo nello studio degli antichi è che si pensa non si rendessero conto di fare arte. Mentre invece è il ruolo sociale dell’artista ad essere cambiato
(e molto) nei secoli, non la consapevolezza di esser tale.
Fino al mille, la descrizione delle opere antiche è sempre, come schema, la stessa.
Prendiamo il tempio egizio: corridoio d’accesso, sala ipostila, sancta sanctorum. Non sto parlando degli elementi del linguaggio artistico in sé; ma di come
vengono esposti nei manuali. Sembra che allora fossero obbligati a costruire o dipingere in un certo modo, o che fossero così “pochi” da non riuscire a
concepirne un altro.
O perlomeno, ci vien detto talmente poco che sembra si parli di un’arte auto-creata. P. es., gli egizi facevano i corpi di profilo perché SCEGLIEVANO di farli
così, non per incapacità. C’è, ad onor del vero, una scheda sull’Electa che parla di questo, ma la si confronti con la descrizione dei ripensamenti di un Giovanni
Bellini, per quanto a sua volta succinta: che differenza!
Comunque io m’intendo solo d’Impressionismo. A proposito:
29.4.-SULL’IMPRESSIONISMO
(il cardine dell’arte)
Appena più sotto parlo di Firenze, e metto in evidenza che non possiede nulla o quasi di pittura impressionista.
E’ un vero peccato, perché l’impressionismo è tutto sommato più vicino all’uomo del Duemila del tanto celebrato Quattrocento, e non solo cronologicamente.
La prospettiva, p.es., invenzione rinascimentale, è artificiale, è convenzione, è matematica. E’ ricca di intenti simbolici o quantomeno didascalici. Già in 29.2 io
riportavo un dialogo forse esemplificativo su come vedere l’arte. Era una conversazione con una sorvegliante di Brera, come si ricorderà.
Tempo prima però, ebbi un altro scambio di vedute con una guida del Centro di Arte Contemporanea Pecci (a Prato), tale Francesca. Fu molto gentile, perché
cercò di spiegarmi cos’è l’arte contemporanea, lei che si era macinata tutti i volumi della Vinca Masini.
Ovviamente anche lei ne sapeva molto ma molto di più di me. Una cosa che notai fin da subito però è che, per ogni opera, doveva SPIEGARMI cosa l’artista
aveva voluto esprimere. Come l’arte in generale, del resto, quella contemporanea non si capisce se non studiandola.
Da questo punto di vista, non esiste il difficile e il facile, è tutto difficile.
Esiste però un movimento, in storia dell’arte, in cui puoi fare a meno di chiederti: “cosa avrà voluto dire l’autore?”. E’ il movimento impressionista.
Attenzione, che non sto dicendo che i quadri degli impressionisti fossero fotografie. Dunque immediati, facili. Richiede anzi un bello sforzo il rendersi conto che
tre (!) macchie di colore rappresentano una persona: una per il cappello, una per la parte superiore del corpo, una per quella inferiore. O che gli ombrelli non
hanno manico. O che, in un albero, non si capisce quali siano le foglie e quali gli sprazzi di luce che le stesse fanno filtrare.
Però si capisce che una persona con l’ombrello sta passeggiando sotto gli alberi. Punto.
COSA AVRA’ VOLUTO DIRE L’ARTISTA?
CHE UNA PERSONA CON L’OMBRELLO STA PASSEGGIANDO SOTTO GLI ALBERI.
Alla Francesca di Prato, entusiasta del suo bel museo, non entrava in testa questa differenza.
Cioè proprio che, mentre vedendo un paio di scarpe con sotto un cellophane bagnato, e a poca distanza un ombrello appeso al soffitto (con sotto un cellophane
bagnato), mi si deve spiegare che il tutto è una citazione della serie TV The Avengers, vedendo la Terrazza a Saint-Adresse di Monet, non le si deve spiegare che
trattasi, guarda un po’, di una terrazza sul mare.
Si vede.
Per questo mi piace l’impressionismo.
Cfr. Cezanne: “Monet non è che un occhio, ma che occhio!”.
Certo, tutta l’arte è, come ho detto, difficile.
Cosa ci fa la Madonna di Giovanni Bellini in mezzo a un prato?
Ma l’impressione è che dagli anni Venti-Trenta del Novecento, e certamente dai Cinquanta in poi, certi artisti, specie quelli “astratti”, anche se la definizione
pare che non significhi poi molto, giochino con la predisposizione dello spettatore dell’opera di considerare creativo oltre i propri meriti l’autore della stessa
perché la Storia dell’Arte è ormai passata attraverso un percorso che ha imposto certi concetti e criteri.
Non voglio dire che questa sia una frode. Forse spesso è fatta in buona fede.
Ma un quadro che non è che un insieme di campiture “fantasia” sovrapposte, tale quale i motivi utilizzati nel settore tessile comasco delle cravatte (quadro
realizzato da un ex-impiegato nel settore tessile comasco delle cravatte), per esempio; ebbene non credo sia questa l’“arte”.
Si è portato il lavoro a casa, tutto qui.
Sebbene in una mostra di Palazzo Reale a Milano il tizio risulti uno dei più importanti artisti astratti d’Italia, e venga messo a confronto nientemeno che con
Kandinskij (!).
Naturalmente anche questo capitolo, come l’intero libro del resto, non ha molto senso, poiché non si capisce con chi ce l’ho, quale sia l’arte che non mi piace.
Quella contemporanea? E cosa s’intende allora per “contemporanea”? Quella della nostra generazione, o meglio, di una o due generazioni fa? No, perché
Wahrol mi fa impazzire.
Quella informale? No, perché Pollock mi fa impazzire (tra l'altro diceva che un prato fiorito è bello e basta, non ci si rompe la testa per chiedersi che
significa...).
Non sto parlando di cos’è bello, è noto che il concetto cambia nello spazio e nel tempo.
M’interrogo semplicemente sul capire un’opera d’arte: cosa vuol dire? (primo) E’ giusto porsi il problema? (secondo) Quanto e cosa studiare? (terzo) E’ giusto
farlo? (quarto) Quanto queste prime quattro domande influiscono sul giudizio di un’opera- o del suo autore ?(quinto). E così via.
Come esempio prendo De Chirico: di fronte alle celeberrime Muse inquietanti, chi saprebbe dire cosa significa? Perché ha messo un castello sullo sfondo dei
manichini? Credo che nessuno saprebbe rispondere, se ovviamente prima non ha letto da qualche parte che col termine “pittura metafisica” s’intende…, oppure
una dichiarazione stessa dell’autore.
Poi magari ti può piacere lo stesso, perché i manichini sono belli, il castello è bello, la composizione è equilibrata, i colori sono belli…
Ma…che vò ddì?, come direbbe un romano. Allora la mia domanda è: perché devo studiare per guardare un quadro? Spero di aver reso cosa intendo: mi rendo
conto che non sapendo niente mi chiederei persino perché nell’antichità non si usava la prospettiva (inventata nel ‘400), dunque anche l’arte va studiata; ma
almeno fino al Novecento prima ti godevi l’opera.
Da quel punto in poi il timore è quello di dover prima macinare tomi su tomi di psicologia dell’arte, Argan, Vinca-Masini, nonché le biografie e i “manifesti”
degli autori.
Poi finalmente puoi vederti stò benedetto quadro, o scultura, e chiederti: ma che vò ddì?
(Non mi va la risposta tipica dell’astrattismo, che è compito dello spettatore cogliere nelle proprie reazioni il significato di ciò ch’è stato espresso. Nessuno mi
toglierà mai il sospetto che questa non sia che una furberia).
Tornando alla domanda di prima, qual è l’arte che non mi piace, forse è quella che tende all’astrazione pura, cioè quella “concettuale”. In altre parole: non mi
piace la difficoltà dell’arte moderna o contemporanea, (intendersi su questi termini è arduo), a meno che il risultato non stia in piedi da sé, come nel caso di
Mondrian.
Tutto ciò è risaputo: Apollonio: “non si può comprendere l’arte moderna ove si prescinda dall’intervento di una riflessione teorica”; Sgarbi: “dopo
l’Impressionismo, (che piace così tanto perché non abbisogna di studi), gli artisti complicano di nuovo tutto”.
Ma è proprio questo complicare che, salvo eccezioni, detesto.
A proposito di arte:
29.5.1.-FIRENZE
Parlando di arte, bisognerebbe partire da Firenze, ch’è la cosa dalla quale bisognerebbe partire anche se si vuole studiarla, l’arte, credo. E perché a Firenze è
nato il Rinascimento (Unità 11 dell’Electa: “Firenze, l’invenzione del Rinascimento”), e la nostra cultura affonda le proprie radici nel Rinascimento, si suole
ripetere (il chè non ha senso-ma è una convenzione accettata); e perché l’umanesimo riprende motivi classici e dunque è indifferente, nello studio, partire dalla
Grecia (come sarebbe più logico) oppure da Firenze per poi andare a ritroso (come ho fatto io). Ebbene, queste righe le scrivo da Firenze, anzi, da Sesto
Fiorentino, per la precisione.
Ma prima di parlare di Firenze vorrei dire che riprendo proprio da questa trasferta toscana a riscrivere dopo quindici giorni d’inattività (e soprattutto in
un’”altra vita”) e non sapevo cosa buttare giù. Ebbene, non sapevo cosa buttare giù e ho trovato dei vecchi fogli miei, autografi, dove si vede che anche allora
(era il ’96) non sapevo cosa buttare giù. Tuttavia, li riporto integralmente, perché io stesso mi sono stupito di quello che scrissi e che trovo buono, se non altro
per la coerenza che dimostro a dieci anni di distanza: vi sono infatti presenti molti dei motivi tipicamente “torelliani”: il non seguire un filo logico è il più
importante, e già allora spiegavo i limiti di tale operazione, se svolta in modo dilettantesco; l’introspezione; il difficile rapporto con le donne, etc. Tanto che, se
non vi fosse un preciso ed esplicito riferimento al tempo e al luogo, sono pagine che le si direbbe scritte oggi, o senza tempo, come quelle degli autori latini.
Significa che sto mantenendo la promessa di essere onesto, perché è difficile affettare la coerenza, checché se ne dica. Inoltre questa potrebbe essere la
prefazione dell’introduzione, o il prologo della prefazione, o quel che si vuole.
Ecco il pezzo:
30.-DIARIO DI VALENZA
(la mia formazione)
OTTIMA DECISIONE (O ULTIMA?) (DIARIO DI VALENZA) –Perché tenere un diario? Ma questo non è un diario; ho deciso di
scrivere perché è piacevole, rilassa e aiuta a pensare e forse ne sono capace. In data 26/04/1996, dunque, alle ore 21. 26, provo
a risolvere uno dei miei maggiori problemi (spendere attivamente il mio tempo). Mi chiedevo come fare per potermi esprimere a
livello intellettuale e creativo, per non essere “uno dei tanti” (non che ci sia niente di male!) e soprattutto per ritrovare un gusto
di saper apprendere le cose e saperle riferire e confrontare che credevo di aver perso da molto tempo (ed è così). Non mi
preoccuperò di seguire un filo logico, né le regole grammaticali (grosso errore, questo!) né un qualsiasi ordine di stesura delle
mie riflessioni (scrivo su ogni supporto cartaceo); l’ordine sarà semmai l’imporsi di buttare giù qualcosa nel momento in cui mi
viene in mente. L’idea è vecchia quanto il mondo, a ben vedere: tutti tengono un diario. Mi sono deciso a farlo solo quando ho
preso in mano i “pensieri” di Pascal. Vantaggi dello scrivere: il difficile sarà sforzarsi di considerare il “Diario” una spugna, solo
una spugna, di ogni cosa mi verrà in mente. Esprimerò opinioni, riferirò fatti che mi accadono durante la giornata, lottando
contro il desiderio di veder giudicati i miei scritti, chè così sarebbero troppo influenzati. Rimedio alla noia, volontà di migliorarsi
rileggendo a freddo i pensieri scritti a caldo e ogni altra motivazione mi sta bene, in quanto una percentuale nella scelta ce l’ha;
una più di tutte: è necessario continuare a scrivere affinché giunga ad un livello introspettivo tale da fregarmene degli altri da
un lato e migliorare invece il rapporto con gli altri dall’altro, in quanto avrò raggiunto una sicurezza totale (se esiste). Niente
date, a meno che non lo ritenga necessario.
RAPPORTO COI GENITORI. Dovrei fare un monumento ai miei genitori che mi mantengono ancora a 23 anni. Dei miei penso
che probabilmente mi capiscano meno di tutti, ma d’altra parte è così per tutti, e poi con quali doti compensano questo! Il loro
bene supera le leggi del vivere corretto (se esistono) e mi ritagliano un mondo perfetto (o almeno un mondo piacevole). E fino a
che punto ho ragione che non mi capiscono? E poi, l’abitudine di convivere non genera la necessità di andare d’accordo? E il
fatto che siano i genitori, solo questo, non basta a farli grandi e meritevoli di rispetto? Quest’ultima è la domanda più difficile,
forse ho troppo tempo per pensare e farmi dei problemi, problemi che porterebbero a dire che si è venuti al mondo per star
male e in questo caso la loro sarebbe una colpa.
A PROPOSITO DEI PROBLEMI , quali sono i problemi? Argomento bellissimo. A volte penso di non averne, altre penso
addirittura di essere io il problema. Problema di ordine di grandezze. Esiste sempre una posizione relativa alle altre;
bisognerebbe sempre, come dice mia madre, guardare chi sta peggio, mai chi sta meglio, prima considerazione. Forse sono
istintivamente abituato a guardare chi sta meglio, negli ultimi tempi, anche economicamente (ch’è l’unico punto di vista per il
quale non ne avrei motivo) ma soprattutto caratterialmente e intellettualmente o, in una parola, spiritualmente. O forse che mi
piacciono gli stati d’animo malinconici? Seconda considerazione. Niente di peggio che dover cercar di scrivere secondo la spinta
del dovere e non del piacere: non ne esce nulla di buono. Mi conviene interrompere qui e sperare che domani abbia non tanto
più soddisfazione nell’aver scritto cose valide, quanto più gusto al momento di scrivere le cose. Penso ancora solo un attimo alla
Chiara. Chi ci ha mai capito niente nella Chiara? Resto alla prima domanda sulla quale mi fissai allora: perché mi fece la corte?
Non mi sento bene mentre scrivo questo, sto ancora pensando ad un ipotetico lettore e dunque ho paura e sconforto di non
aver scritto chiaramente : ma chissenefrega? Debbo sforzarmi di essere io, almeno sul quadernone, ce la posso fare se lo voglio.
E allora, salto di palo in frasca, più oscuro sarò meglio starò, ma sì, facciamo così! Chissà che atteggiamento avrà domani la
Stefania. Possibile che se lei abbia voglia di parlarmi ed essere carina, io, tutto il contrario, e viceversa? Cosa che d’altronde
succede sempre anche con le altre. Non sono spontaneo, è questo il mio problema. Penso che sia tentata dall’avere una storia
esterna al suo ragazzo o forse ad avere un’altra storia, mollando il suo ragazzo, e non riesca a convincersene. Ma se c’è un
errore, è cercare di pensare per lei, che già si capisce poco lei, cosa posso capirci io? C’è, questo l’ho capito, una sorta di sfida
tra noi due, come chi avesse il coraggio di fissare più a lungo negli occhi l’altro/a, o qualcosa del genere, il che non mi sembra
un bene ma, se accade, sarà la nostra natura (oppure dobbiamo sforzarci di trovarne un’altra? Può essere). Parliamo allora un
po’ della Stefania. Il plurale non è maiestatis ma ho sempre la sensazione, quando sono solo, di non essere solo (chi sia l’altro
non ne ho la più pallida idea, anche se qualche volta mi ha fatto piacere pensare che potrebbe essere Dio,qualunque cosa
significhi questa parola), forse è per questo che sto bene da solo. La Stefi mi ha chiesto (il passato remoto è troppo difficile-o
colto) il 28 Settembre ’95, un Giovedì, se volevo andare a casa con lei. Ho cominciato a pensare a questo in maniera tanto
intensa quanto incomprensibile; chè probabilmente l’ha chiesto a tutti, per avere più compagnia. Eppure piano piano ho
cominciato a corteggiarla, più che per lei, all’inizio, per me stesso, per uscire dalla gabbia della timidezza, come quando si fa
l’elemosina per sentirsi buoni, ma anche se il barbone crepa non mi muovo di un centimetro. Ho scoperto così che la Stefi è
dura, terribilmente impegnativa, si vendica, e ha ragione di farlo se l’offendo perché io non ho ragione di offenderla. Andare
d’accordo con lei è per me voler andare d’accordo anche con la sua amica, perché ho la mente disposta assurdamente che non
potrei voler bene alla Stefi e litigare con la Francesca, chè sono sempre insieme.Quest’attività, se mi riuscirà, sarà già un
miracolo (dico lo scrivere disordinatamente) . Mollo la Stefi, e parlo dello stile di scrittura che sto usando. Una boiata! E’ come il
flamenco: sostanzialmente è casino, ma è un casino pulito. Sto scrivendo invece per niente pulito: non basta non seguire il filo
per fare gli originali. Oggi ho salutato la Stefi, cercando di essere carino: lei si dimostra molto fredda, non riesco a capirla; forse
non ha il coraggio di dirmi di lasciarla in pace, al contrario, si diverte a farmi soffrire (ma non posso crederlo fino in fondo). Io ho
paura di arrabbiarmi, quando le parlo, perché mi sembra di parlare al muro. Per lei sono un peso, ma quattro chiacchiere
potrebbe farle, inoltre ho capito che ci pensa anche lei, ma non so a cosa di preciso.
Questo è il pezzo di Valenza Po.
Buono mettere i capitoli senza titolo, come G.G.Marquez (nota a margine del foglio autografo di Valenza).
Ma Valenza non era bella come Firenze. A proposito:
29.5.2.-ANCORA SU FIRENZE
Ok., parliamo di arte. Sono a Firenze, in questo momento, dunque è ovvio che ci scappi qualche considerazione a proposito di questa città, partendo da questa
città, per tramite di questa città, giungendo a questa città, parliamo di arte.
La prima cosa che noto, da turista, è che Firenze è lasciata a se stessa, nel senso che è tenuta proprio male: al momento in cui scrivo (Marzo 2006) il battistero
è nero come il buco del culo di Ludovico il Moro (quello di Lorenzo, o come dicevan tutti, Renzo, non so), piazza Santa Maria Novella sembra il Vietnam (ai
tempi della guerra, ovviamente); l’inquinamento delle strade è superiore a quello dell’Arno, ch’è tutto dire, e viceversa. All’estero Firenze è forse più
considerata. In Italia bisogna essere studenti d’arte (e di studi superiori) per apprezzarla come si deve. I fiorentini naturalmente amano la loro città, i pochi che ci
sono rimasti perlomeno. Si calcola che a Roma (quattro milioni di abitanti il centro) le famiglie “romane de roma” siano non più di cinquemila. Figuriamoci F.,
che di abitanti ne ha 380000 (scarsi). Comunque F. è unica: è la città (io non lo sapevo) con la più alta concentrazione al mondo di capolavori dell’umanità
(sanciti dall’Unesco). In effetti, le tre grandi “Sante” (S.M.Novella, S.M. del Fiore, S.Croce) sono, sole, un’enciclopedia di arte, per tacere dei due maggiori
musei cittadini, gli Uffizi e il Bargello, (il secondo a mio avviso anche superiore al primo, per quello che significano simili affermazioni). Ebbene, voglio però
azzardarmi a dire qualcosa di blasfemo, per così dire, qualcosa di cui mi sono reso conto, sempre da turista, conoscendo la culla del Rinascimento poco a poco.
Ed è questo: F. non è che un villaggio medievale, dove però fortuite circostanze hanno fatto sì che vi si concentrassero, come detto, migliaia e migliaia di opere
d’arte. Non lo si dice per sminuire il ruolo della città, anzi: pochi si rendono conto che una data formella di una porta del Battistero è stata, non l’esempio più alto
di un certo stile (cosa già meritevole d’encomio e venerazione) ma addirittura il prototipo di un certo modo di fare cultura figurativa. Lo stesso dicasi per le
statue del Bargello o per certe tele degli Uffizi (non le solite, però: Botticelli è in realtà un isolato). Il punto è un altro, credo: F. è, p.es., minuscola, tra S.M.
Novella e S.Croce (ovest-est), cioè il centro cittadino, non corre un chilometro (in linea d’aria); lo stesso dicasi tra S.M. del Fiore e Palazzo Pitti (nord-sud).
Non che si misuri l’importanza dalle dimensioni, etc .
Firenze è comunque particolare: nell’800 esistevano in Francia persone (e artisti) che conoscevano l’arte solo per averla vista al Louvre, cioè conoscevano solo
il Louvre. Tuttavia, questa cosa francamente pazzesca mai è stata rimproverata ad alcuno quale limitatezza della sua cultura visiva. Analogamente, non
sogniamoci di rimproverare il quattrocentista o l’esperto del Cinquecento, però l’arte a Firenze parla questa lingua, peculiarmente: p.es., non mi risulta esserci
nemmeno UNA raccolta di quadri impressionisti. A ben vedere, così come, riferendosi alla Grecia classica, si parla di un cinquantennio, non di più (l’età di
Pericle) e così come, per quanto riguarda la Parigi fucina di Avanguardie storiche, si parla sempre di un cinquantennio, o poco più; allo stesso modo la Firenze
che detta il Nuovo in storia dell’arte, va dal 1401 (data del famoso concorso e nascita di Masaccio), alla metà del secolo, o poco meno.
Non che si misuri l’importanza dagli anni, etc.
Però, questo nuovo, me ne sono accorto sul posto, è di una specie diversa da altri “nuovi”, è molto distante dal sentire comune, nonostante il termine
“umanesimo”. Di Firenze, per meglio dire, dei suoi monumenti, si percepisce immediatamente l’ordine, e di qui deriva il bello: ma, appunto, lo si sente e basta,
non lo si capisce; per penetrarlo occorerebbe studiarlo, e ad alti livelli. Sto cercando di dire che, paradossalmente, e ovviamente, anche, la città forse più
celebrata del mondo come città d’arte è anche la meno conosciuta, capita, penetrata: piace ciò che non si sa, ciò di cui s’intravede la profondità dietro il mistero,
ma che resta mistero. Come una bella donna, del resto.Altrimenti, i milioni di pullman che giungono in visita annualmente, dovrebbero essere pieni di professori
e non di beceri ed ignoranti turisti, nell’accezione peggiore che si possa intendere.
Cioè, una cosa per specialisti, riguarda invece la massa (i logaritmi non riguardano la massa, sono appunto cose per specialisti; eppure Firenze è
universalmente apprezzata). Sarebbe appunto come se tutti s’interessassero ai logaritmi. E si badi che il Quattrocento in arte è l’equivalente dei logaritmi in
matematica, se non più difficile. E’ assurdo.
Ma è così.
Collegata a questa, non per parlare male a tutti i costi di questa città, che resta una delle glorie italiane, ma collegata a questa, v’è poi un’altra caratteristica: i
fiorentini, come i parigini, si sentono un po’ (molto?) superiori. Lo stesso Terzani, fiorentino, racconta un aneddoto nell’ultima intervista rilasciata, Anam: in
cerca di una cura (lui non volle mai chiamarla così) per il cancro, si accorse una volta di non credere ad un rimedio al quale invece tutti gli altri (che erano con
lui) credevano. Pensò, d’un tratto, d’essere, in quanto fiorentino, arrogante, perché proveniente da una città che ha già capito tutto da almeno cinquecento anni !
Sagace (e giusta) osservazione, no?
Per non dire di quanto possa apparire stucchevole al visitatore tale esplosione di cose da vedere. O di un dato artista. Come scrisse Mark Twain (Samuel
Clemens) in The Innocent Abroads: “adoro il genio straordinario di Michelangelo, ma non voglio averlo per colazione, pranzo, spuntino, tè, cena, cenone e
persino tra i pasti! A Firenze, ha dipinto o progettato tutto, e quello che non ha dipinto o progettato, era solito osservarlo stando seduto sul suo sasso
preferito!” E io aggiungo, con Twain: CHE PALLE FIRENZE!
E non mi riferisco allo stemma dei Medici. Il troppo è sgradevole, vale anche per l’arte. La cosa la notai già a Vicenza, dove hai paura di andare al cesso,
perché potrebbe essere quello del Palladio.
”Frightful”, direbbe Twain, spaventoso.
Bene, ed eccomi qua… Ricordate l’inizio del libro, dove parlavo dell’essere fuggito da un negozio? Ora sono nuovamente in procinto di fuggire, dal
benessere, per la precisione, dunque ecco a voi il solo ed unico nuovo capitolo:
(questo pezzo è scritto prima del precedente)
“chi ha sana la mente, al mondo non compete e non condanna”
(discorsi e aforismi del Buddha, Newton Compton)
Ora sto bene, non lavoro, vivo in una casa che è una reggia, da solo, con mia madre che rompe continuamente le scatole ma spesso non c’è…eppure voglio
andare via di casa, con “five thousand euro bill”, (sto ascoltando Merle), per vedere se riesco a mantenermi: perché? Non lo so. Ufficialmente è perché vorrei
stare DA SOLO (non sopporto nemmeno la mia immagine allo specchio, e sì che sono bello…), perché non ho una vita normale, non ho lavoro, non ho casa, non
ho ragazza (e questo mi pesa, sono stanco di masturbarmi), ho solo un’auto tuttofare della quale voglio assolutamente arrivare a capire come posso utilizzarla
come cesso (già ci leggo, ci mangio, ci dormo). In realtà so benissimo che, così come non trovo lavoro qui, non lo troverò a Firenze (è dove voglio andare), mi
troverò male coi coinquilini, i soldi mi basteranno un mese e mezzo scarso e mi mancherà tutto quello che ho, a partire dai libri, e dovrò tornare a casa, dove però
mia madre non mi vorrà più. E nemmeno ho più voglia di raccontarmi ch’è proprio questo che m’intriga, perché mi sento colpevole a non far niente e avere tutto,
voglio soffrire perché la sofferenza è importante, bisogna soffrire, anche secondo il concetto cristiano e via di questo passo.
Ma non è vero.
Sono fiero di non fare un cazzo, forse c’è più da vergognarsi lavorando, lo pensavano anche i greci, quanto alla sofferenza, ha ragione la Merini, quella ch’è
stata in manicomio: non serve assolutamente a nulla.
Allora? Non so, sogno di starmene un domani, come ho detto, in perfetta solitudine, mia madre, quando c’è, è impossibile; inoltre è l’abbondanza che ho
adesso che, si badi, non è che non mi rende felice, anzi, mi rende felice. Ma io diffido della felicità. Mi sembra di essere incosciente.
Comunque ho davvero intenzione di andar giù per mantenermi e chissà che non mi vada bene.
Al limite busserò a qualche convento. A proposito:
29.5.3.-SULLA CARITAS
(scritto in Toscana)
Sto cercando di mantenermi a Firenze, dormendo in auto (ma dichiarando di abitare a Sesto Fiorentino). La mia idea, di stampo piuttosto “gandhiano”, è che,
se anche vengono a sapere che dormo in auto, vedendo che dopo 1 settimana, 2 settimane, 3 settimane, 1 mese, 5 settimane, 6 settimane, 7 settimane, 2 mesi, 9
settimane, etc., qualche datore di lavoro (proprietario di officina, nella fattispecie), pensi: bè, forse questo ragazzo fa sul serio, proviamo a vedere se funziona
(d’altra parte lavorano i pakistani, i neri, i romeni), e senz’altro cercherà casa, se vede che ha un lavoro.
Infatti la mia idea era proprio questa: se vedo che qualcheduno mi prende per almeno un mese, poi mi cerco un monolocale in affitto da mantenere con i miei
soldi.
In poche parole, citando Gandhi: “il più duro metallo si arrende al grado di calore sufficiente. Nello stesso modo, il cuore più duro deve fondere
all’adeguato grado di calore della non-violenza. E non c’è limite alla capacità della non-violenza di generare calore”. (Harijan, 7 Gennaio 1939, p. 417).
Lo scriveva riguardo l’esercizio della fede (in Dio), che bisogna avere. Io lo porto, senza far violenza al pensiero del Mahatma, sul piano di quanto a lungo e
con tenacia debba insistere nella ricerca di un lavoro prima che capiscano che faccio sul serio. Ma anche il metallo più duro fonde alla temperatura adeguata,
come detto. Dunque, se fallirò, cioè se non troverò lavoro, sarà colpa mia (non avrò insistito abbastanza). Ma non posso perdere, in ogni caso. Non posso. Perché
qualche migliaio di aziende proprio non possono, tutte quante, rifiutare una persona decisa a collaborare. E a questo voglio arrivare: ad una pacifica, non-
violenta, collaborazione (v. il film).
Né debba spaventare il dormire in macchina per qualche settimana, chè in fin dei conti nella mia ho allestito un vero e proprio letto, comodo solo un filino in
meno di quello di casa (il limite più grosso è l’accessibilità, e la lunghezza non abbondante-ma comunque sufficiente); quanto al lavarsi, faccio come Messner al
Polo Nord, non ci si lava (ma al datore di lavoro chi glielo garantisce che un residente in zona si lavi più di me?). Mangiare non è un problema: cappuccino al
mattino (al bar), cena al supermercato (ho il fornello da campo) o da McDonald’s o al ristorante cinese o al forno (spesa media: 3-4 euro); mentre al mezzogiorno
vado in Caritas, cioè mangio alla mensa dei poveri. Il cibo ti tiene in vita e basta, è raro che sia buono (pasta scotta e sbrodolosa, carne poca e dura, troppe
verdure per contorno): però non costa nulla. Gli addetti sono quanto di più stronzo ci possa essere, specie quello all’ingresso, chè non capisco che criterio segua
per far passare le persone accalcate-e affamate (me compreso) davanti alla porta, o se addirittura ne abbia uno (di criteri).
Non è escluso che si diverta. Anzi, sicuramente.
E tuttavia, fanno volontariato e mangi gratis, che gli vuoi dire?
E qui apro un discorso sull’assistenza, sulla beneficenza e sul volontariato, per meglio dire, bisogna aprire tale discorso. Premetto che io sono assolutamente
incapace di prestare la mia opera gratuitamente (e del resto è ancora da vedere se sia in grado di prestarla a pagamento, cioè di lavorare, almeno per un periodo
superiore all’anno solare).
Ho provato ad andare in croce rossa, ma dopo due Domeniche mi sono rotto le balle (e meno male che non mi hanno chiamato per un’emergenza!).
Ho provato ad andare all’AVIS, ma dopo due Domeniche mi sono rotto le balle (ma qui è successo questo: prima di andare in sala trasfusioni c’è il colloquio
con un’infermiera, che vuole sapere un po’ la tua storia clinica-inutile, se gli esami stabiliscono che il sangue è sano. Fatto sta che a me capitava sempre una
strafica bionda che mi chiedeva: fai a modo? Forse si riferiva al fatto che di tanto in tanto vado a troie-però lei non l’ho mai vista. L’ho trovata una domanda
offensiva-e lei, fa a modo?).
Ho provato ad andare al bar dell’oratorio, ma mia madre ci va e non prende proprio nulla, dice, e così non ci sono proprio andato-neanche una volta.
Ma io, a prescindere dalla mia repulsione nell’aiutare gli altri (ma l’altruismo ha molte facce), vorrei ragionare sull’opportunità, addirittura, dell’assistenza, e
della beneficenza (cose da non confondere assolutamente). E’ nota, p.es., la posizione di Oscar Wilde, il quale trovava l’assistenzialismo, al pari del patriottismo,
l’ultimo rifugio delle canaglie. E io sottoscrivo.
E forse la pensava così anche Paolo VI, che nel Luglio 1971, alla nascita della Caritas, indicava per questo nuovo organismo pastorale, mete NON
assistenziali, ma pastorali e pedagogiche.
Ma mentre la beneficenza è in perdita, la Caritas, a ben vedere, non fa per niente beneficenza.
Infatti, credo che la beneficenza, per poter essere tale, debba non poter essere risarcita (in alcun modo). Es.: se al supermercato, effettuando un trasporto di
latte di pomodori, accade che il camion disposto a ciò si ribalti, e le latte si ammacchino, queste ultime non possono, per legge, essere messe in vendita. Ebbene,
mi si dice che in tal caso, i pomodori vengono donati alla Caritas, che li utilizza nella mensa dei poveri.
Questa però non è beneficenza, in quanto i soldi persi, il supermercato li riprende con la vendita dei prodotti, il cui prezzo è certamente fissato per coprire
anche questi imprevisti. Un’altro canale per la Caritas è l’Otto per Mille (o una parte di esso) che incassa la Chiesa Cattolica. Si vede bene che, di suo, la Caritas
non ci mette una lira, anzi, un’euro. Ci mette la mano d’opera, unicamente.
Però, in mancanza di sistemi automatici di somministrazione e/o distribuzione del cibo, servono persone fisiche che stiano in cucina e/o a servire i poveri (o a
chi ne fa le veci, come me).
Senza di loro, non potrei mangiare gratis. Lo debbo ammettere.
Non mi sembra opportuno aprire qui l’ovvio discorso “socialista”, vale a dire, bisognerebbe fare in modo che tutti lavorino e abbiano lo stesso, etc., discorso
che comunque, nella sua accezione pura e primitiva, marxista (nel senso letterale di “quel che ha scritto Marx”), resta ineccepibile, concettualmente.
Ma io credo, visto e giudicato il fenomeno dall’esterno (ma vivendolo), che non vada forse alla Caritas quell’ammirazione e quel plauso che le si
attribuirebbero ad un primo, frettoloso esame. Per tacere del sedicente spirito “evangelico”, pubblicizzato anche su internet, che io, fossi in loro, lascerei
decisamente da parte. (Se vuoi un’altra bistecchina, in mensa, puoi attaccarti al tram).
Vero è che le iniziative della Caritas non si limitano alla mensa per i poveri, sono molteplici, alcune meritorie, come la sistemazione ad ospizio per anziani di
antichi conventi.
Torno a dire che non avrei saputo come mantenermi, a Firenze. A proposito:
Riparliamo di F. E’ ricchissima di opere d’arte, però il tessuto urbanistico è forse meno bello di Bologna, p. es. Voglio dire che ci sono, sì, la Galleria degli
Uffizi, ch’è tra i più grandi musei del mondo, se non il più grande per certi aspetti, il Bargello e compagnia bella; ma girare per la città, per le strade del centro
storico, non ti dà un intimo godimento come girare per le strade di altre città (l’eccezione forse è rappresentata dal borgo degli Albizi), più suggestive
urbanisticamente, a partire da un altro centro toscano: Siena. Un conto è infatti l’importanza, per la storia dell’arte, di palazzi, chiese e musei; altro è l’aspetto
della città percepita e vissuta passeggiando.
Gl’interventi ottocenteschi hanno infatti trasformato radicalmente (in peggio) F. E’ stato demolito o trasformato tutto ciò che si poteva demolire o trasformare
in chiave retorica e anche qualcosa di più (ovviamente te ne accorgi leggendo la guida TCI, p.es., non girando per strada). Il risultato è una città pur splendida ma
dimessa: si pensi solo al tentativo di ricreare l’Etoile parigina a piazza Beccaria, con esiti provinciali; o al rifacimento della facciata del Duomo, pacchiana a mio
avviso (e pure fa la sua porca figura: ma quella arnolfiana era ben più elegante). Così come il monumento a Dante davanti a S.Croce, o il neo-David a piazzale
Michelangiolo. Tutti interventi tanto euforici quanto scriteriati, tipicamente post-unitari (non post-moderni, chè il termine non ha senso) nel tentativo, che si
direbbe riuscito a giudicare dal turismo, di magnificare sempre più F.e il suo ruolo nella storia d’Italia. Attenzione, perché adesso vorrei aprire il discorso, non
chiuderlo, e sottolineare la ridondanza, spesso voluta, dell’arte fiorentina.
Faccio solo un esempio: Palazzo Pitti, per meglio dire, la Galleria di detto palazzo, che si direbbe più un magazzino, un deposito di quadri in attesa di
definitiva ed organica sistemazione museale, che non una quadreria godibile e possibile da seguire all’interno di un discorso storico-artistico: o no? E difatti non
si seguì alcun ordine didattico nell’allestire le sale, (per autore, scuola o cronologia), solo decorativo. Prescindo da una personale ripugnanza estetica, di gusto
assolutamente individuale, verso le reggie: troppo oro, arazzi, stucchi, specchi, etc (sembra quasi si sia voluto spendere in qualche modo l’enorme ricchezza a
disposizione, basta che sia, come in certe manifestazioni anche odierne del lusso-il Rolex tutto pietre preziose): il risultato è quasi sempre anti-elegante, indigesto
nella sua ostentazione (eccezione: Palazzo Vecchio, che infatti non nasce come reggia). Ma qui si vuole esagerare l’esagerazione: decine su decine di dipinti per
ogni stanza: come si fa a trovare bello ciò? E si badi che il discorso si può estendere a più cose di F. di quante non si credano.
Solo che quasi sempre il senso stomacante o stomachevole-come si dice?- che si potrebbe avere non viene percepito, per via di una maggiore grazia e sobrietà
dispensate nella disposizione degli elementi del linguaggio artistico.
Ovviamente, per i quadri in sé, Pitti è stupefacente, com’ebbe a notare un altro americano, Nathaniel Hawthorne: “è la collezione più interessante che abbia
mai visto”; basti aggiungere, p.es., ch’è fondamentale per capire Raffaello (con le altre raccolte fiorentine, romane, umbre, tedesche e le opere di Milano,
Londra, Madrid, Parigi, Washington).
Ma la sobrietà, l’uniformità urbanistica è maggiormente presente in altre città che non a Firenze.
A proposito:
29.6.-MILANO
A proposito di percezione, poi, aggiungo anche un commento su Milano, vera città d’arte, come Roma, Firenze e Venezia. E’ un fatto.
Allora, perché tutti dicono che è grigia e brutta?
Per due motivi.
Primo: perché giudicano la Milano dove abitano, cioè probabilmente fuori dal centro storico (ch’è minuscolo): lì non c’è niente di bello (in senso turistico-
fiorentino, per intenderci), si pensi a Porta Venezia; a parte che la porta non c’è più (sic!), la visione di quell’incrocio appare realmente grigia. Secondo: perché la
bellezza di Milano non viene percepita, al punto che anche chi sostiene che non è città d’arte, ha ragione. Cosa succede dunque?
Succede ch’è proprio l’”urbanità” di M. la sua bellezza. E’ l’unica città di respiro europeo in Italia, (non solo economicamente), e si vede. Non è, dicevo, la
bellezza fiorentina, ovviamente. Di archi perfetti e tranquillizzanti come quelli del Brunelleschi, qui ne trovi pochi.
Però con F. ha in comune due cose. Primo: gl’interventi scriteriati, e l’elenco è infinito e continua tutt’ora, con le sculture di Gae Aulenti in Piazza Cadorna,
p.es. (ma basti pensare allo stesso Duomo, meraviglioso ma che con il Lombardo non c’entra proprio niente: è avulso dal contesto). Secondo: dicevo che F., per
apprezzarla, bisogna intendersi di Storia dell’Arte: ebbene, M. anche di più.
Per questo “è brutta”. Perché per trovare incredibilmente bella Piazza Cordusio (quale è), per esempio, bisogna prima alzare gli occhi, e ci si accorge che non
sono condomini quelli che ti circondano, e poi conoscere almeno un po’ l’urbanistica ma direi la Storia dell’Urbanizzazione, della quale M. è un documento
unico (e basterebbe questo a farla “bella”).
Cioè, a M., unica in Italia, si assiste ad una cosa straordinaria: si vede l’uomo ai raggi x. E qui il discorso si complica (ed è per questo che il turista ignorante
che avevamo lasciato a F. arriva giusto a F., se ci arriva-come apprezzamento- ma non certo fino a M.).
L’Uomo infatti, e la prova è sotto gli occhi di tutti, non è un animale come gli altri: checché si dica che di tanto in tanto rimpianga lo stato di natura, nasce in
realtà per civilizzarsi. L’intelligenza, o almeno quella in potenza, lo porta infatti ad ambire ad uno stato di civiltà. E civiltà viene da Civitas, città, nel senso di
cittadini (la città fisica, cinta da mura, era l’oppidum).
(Non sto ad approfondire se sia, e in che misura, il raziocinio piuttosto che semplicemente lo spirito, la natura o la storia o che so io, a determinare certi
comportamenti tipicamente umani, come anche quello di associarsi e non d’isolarsi.Tutto questo lo lascio a psicologi, filosofi, sociologi e teologi).
Ebbene, a M. si assiste al passaggio, alla trasformazione, alla mutazione meravigliosa della società da agricola ad industriale. Sebbene sia
un’industrializzazione sui generis, proprio “all’italiana” (si pensi alla Metropolitana, risibile per storia ed estensione rispetto ad una Londra o una Parigi), il
centro di M. (chè M. è minuscola, come tutte le città italiane) conserva i palazzi e in generale l’aspetto che ci dicono cosa combini l’Uomo quando vuole
migliorare le proprie condizioni di vita. La M. che vediamo è (parlo sempre del centro) concentrata in trenta o quarant’anni di storia, a cavallo tra Otto e
Novecento; poi c’è la M. che tutti scambiano per M., perché tutti vi abitano, e che tutti giudicano brutta e grigia: questa è invece degli anni ’50 e ’60- ma a M.
non si è mai smesso di costruire, e si continua tutt’ora.
L’unica M. che ovviamente prendo in considerazione, quando parlo di città d’arte, quella che dicevo a cavallo dei due secoli (p.es. Via Torino o Corso
Venezia), la M. che per semplificare dico, sbagliando, Liberty, non è forse straordinaria? Con le rotaie del tram ovunque? Senza le automobili e le orribili insegne
dei negozi (ma qualcuna di vecchie ne conserva!), M. non è forse una cartolina? Estremamente suggestiva? Non ti aspetti forse di vedere ancora le carrozze (ma i
tram ne fanno le veci)?
Milano E’ città d’arte. Punto a capo.
E taccio dei musei e delle chiese.
Poi c’è la M. che conferma la nomea di grigiore istituzionalizzato: ma quella non è M.
E’ M. da un unico punto di vista: dell’assorbire apparentemente ad oltranza (continua a farlo) i nuovi arrivati. Tanto che mi chiedo se esista il milanese, come
tipo umano. Ma qui, ancora, doppia considerazione:
Primo, se accoglie, e bene, tutti, è proprio per il discorso che facevo prima: è un luogo dello sviluppo spirituale, e d’altronde non possono esserci altri motivi
perché, a differenza p.es. di Roma, l’enorme territorio circostante è controllato da un centro esiguo. E il verde è decisamente scarso.
Secondo: c’è il modo di trovare “bello” anche lo scorcio più trafficato, spoglio e meramente abitativo di periferia, basta sforzarsi di sentirsi “urbani” come la
città stessa, esercizio interiore che all’Italia non appartiene di certo, questo è vero.
Anche per questo, si può amare Milano.
Certo, l’urbanità dei suoi abitanti, li rende piuttosto arroganti (contrariamente al significato del termine).
Infatti, me ne guardavo tranquillamente la vetrina di un negozio di stivali, quando la proprietaria, o la commessa, me la ritrovo davanti; era chinata un poco, di
lato, mostrandomi il culo, come per voler parlare col negoziante accanto, il quale però non era lì. Senza dubbio, voleva attirare la mia attenzione, con quel gesto
(non capisco mai perché caspita non stanno DENTRO al loro bel negozio!), facilitata già dalla sua bellezza. Infatti, aveva i capelli di un biondo dorato, lisci, e gli
occhi di un azzurro brillante, due fanali; piuttosto minuta, ma formosetta; indossava una camicetta candida, un paio di pantaloni beige e ovviamente un paio di
stivali, alti fino al ginocchio.
Non ricordo chi dei due ha attaccato discorso (credo lei, forse dovevo andarmene appena l’ho vista); a un certo punto le chiedo, in tono pacato: “girano molti
cavalli, a Milano?”, battuta degna del più brillante humour britannico. Ed ecco che mi si fa incontro un tizio con fare minaccioso, come per volermi mettere le
mani addosso: perché? Dopo un po’, se ne va. Scambio ancora qualche battuta con la tipa, saluto e me ne vado. Il suo sguardo era serio, duro, fisso: che voleva?
Stavo solo guardando la vetrina! E l’altro tizio, che voleva? Stavo solo dicendo una battuta…
Milanese are crazy!
Tornerei là, per spiegarmi, ma sarebbe un trionfo per la Bellezza della tipa; trionfo o riconoscimento che, in questo caso, lei non si merita, di certo…
Non è certo la Maddalena. A proposito:
Di sfuggita, mi capita sotto gli occhi tutto il bailamme provocato dal film Il Codice Da Vinci, sull’onda del successo del best seller dell’omonimo libro di Dan
Brown, e vorrei parlarne in questa sede.
Vi sono, a mio avviso, tre discorsi da tenere presenti:
1° discorso: la filologia, per così dire, del romanzo. Il libro io non l’ho ancora letto, né credo che lo leggerò mai, per un motivo molto semplice: ricalca, tranne
che per la splendida trovata dei dipinti leonardeschi, tutto ciò che si dice in un altro libro, i cui autori infatti hanno citato il Brown per plagio: Il Santo Graal, di
Baigent-Leigh-Lincoln. Apprendo dai giornali che poi Dan Brown è stato assolto dall’accusa di plagio, presumibilmente proprio per il lato “pittorico”
dell’intreccio, sufficiente a qualificarlo come opera originale. Ma gli “assunti” del romanzo sono gli stessi del testo citato, sostanzialmente: Gesù era sposato,
non morì sulla croce ma anzi la sua discendenza, approdata poi in Francia, costituisce quel Sang Raal, cioè Santo Graal, il cui segreto il Priorato di Sion ha poi
provveduto nei secoli a coprire. L’operazione appare semplice, almeno da comprendere: prendere un libro di successo e farne un Thriller di successo. Non credo
si sia trattato di altro.
2° discorso: è un bel romanzo o no? (la cosa più importante). Credo proprio di sì, perché 43 milioni di lettori non comprano un libro che non gli piace, anche
contando quelli (molti) spinti dalla pubblicità.
L’argomento è avvincente, i personaggi splendidi: manca solo uno stile sapiente e confacente a questo genere di libri, che, per la verità, non è- e non è mai
stato, nemmeno Sherlock Holmes- granchè in senso letterario e si può apprendere anche con un corso ( io comunque non ne sarei capace, onore al merito). Al
vecchio Dan gli è riuscito bene, onore al merito.
3° discorso: entriamo nel merito: sono bubbole o verità le cose dette nel libro? Molte cose sono state, prove alla mano, smentite come forzature e/o errori, se in
buona o-presumibilmente-mala fede non saprei dire. Si è fatto leva sull’ignoranza-non colpevole, credo, ai fini della lettura del libro, ma forse sì, dal punto di
vista del buon cattolico- del pubblico. Nell’originale, o ciò che io reputo tale, cioè il “Santo Graal” citato, vi erano già diverse tesi difficili da verificare, a partire
dallo stato civile di Gesù. Là si diceva che nei vangeli non si dice che Gesù era sposato, ed è proprio questo che fa pensare che fosse sposato, perché è come se lo
si desse per scontato. Il ragionamento non fa una grinza.
Accanto a queste ambiguità, ancora accettabili, vi sono però errori conclamati e forzature risibili, come detto.I vangeli apocrifi sono meno autorevoli degli
originali, ch’è tutto dire.
L’opera di Brown è di pura invenzione, dunque.
E da dimenticare. A proposito:
Oltre alla “scaletta” che ho in mente, mi viene in mente il viaggio che ho fatto alla fine di Aprile di quest’anno (2006) a Mauthausen, viaggio splendido da un
lato (erano tredici anni che volevo andarci!), disturbante per una cosa assurda che mi è capitata.
Riguarda una sinistra figura che non avevo considerato al momento d’iscrivermi: l’accompagnatore!
Le cose sono andate così: a Febbraio mi torna la voglia di andare finalmente a vedere il lager di Mauthausen. La curiosità mi venne durante il servizio civile.
Ero in biblioteca e naturalmente nei tempi morti leggevo diversi libri. Me ne capitò tra le mani uno di un certo Pappalettera, dal titolo Tu passerai per il camino,
sulla sua esperienza in quel campo di sterminio. Chissà perché ma me ne innamorai (del libro, non del lager). Mi colpirono soprattutto due cose: le fotografie,
agghiaccianti, e il fatto che mi chiesi dove mai fosse questo luogo, e l’autore narrava il viaggio per giungervi: è poco dopo Linz, in Austria. Ma allora, mi dissi, è
facile andare a vedere: 1° se è vero tutto quello che dice il Pappalettera (era il mio primo libro sui lager) e 2° i luoghi delle fotografie.
Da allora, tutti gli anni, sotto Aprile, cercavo di associarmi ad uno di quei “Viaggi della Memoria” regolarmente organizzati in occasione della Festa di
Liberazione. Ma i problemi erano sempre due. O non c’era più il posto (infatti ci pensavo sempre troppo tardi!), o era proibitivo come spesa; oppure potevo sì
partire, ma per andare a Dachau, Auschwitz, Buchenwald, etc. Io invece mi ero proprio fissato con Mauthausen. Quest’anno ho avuto il colpo di genio: attraverso
internet ho cercato chiunque ci andasse, anche se dovevo fare molta strada per raggiungere il pullman che poi ci avrebbe portati in Austria. E infatti ho trovato
che il Comune di Trezzo sull’Adda organizza realmente un simile viaggio, ovviamente per le scuole; però era possibile associarsi. Così ho pagato la mia retta,
neanche elevata, e sono andato.
Purtroppo mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo, senza pensare ai problemi pratici (mi riferisco alla convivenza e ai rapporti umani con gli altri
partecipanti). Un po’ come Katherine Hepburn in Indovina chi viene a cena: “mia moglie si è fatta prendere da una sorta di foschia romantica che le ha
impedito di vedere qualsiasi problema pratico che si sarebbe venuto a creare”, come dice Spencer Tracy.
Difatti è accaduto che l’accompagnatore dell’agenzia viaggi mi è stato letteralmente addosso tutto il tempo, era la mia ombra. D’accordo che è lì per seguire il
gruppo, altrimenti non salirebbe neanche sul pullman. Però, inequivocabilmente, con me, ha fatto in modo, il perché lo saprà lui, di risultare asfissiante (con un
paio di momenti realmente pesanti). Ce l’aveva con me, certe cose si vedono. Non parlo del mettermi a tavola proprio con la persona che ci guidò all’interno del
lager, (la retorica fatta uomo, realmente scocciante: “toccate i muri, prendiamoci per mano”, e altre stronzate del genere), fatto nel quale ebbe peso, mi accorsi
subito, la cattiveria liceale di tutti gli altri ragazzi. Parlo proprio dell’essere, letteralmente, la mia ombra, mi chiedo persino come facesse; oltre ad infarcire il
tutto con espressioni del viso, atteggiamenti e sguardi malevoli e anche vere e proprie prese in giro. Ma sempre fatto in modo che ad un eventuale rimostranza si
potesse rispondere in termini innocentisti e cadere dalle nuvole. P.es.: vai al primo piano che c’è la tua camera, quando sa benissimo che non c’è (ma poteva
sempre dire: “io pensavo che ci fosse”).
Confesso che non sapevo cosa fare di preciso: rivolgermi alla polizia austriaca? O al Consolato, per poter tornare in Italia con mezzi miei? O aspettare il
rientro e chiedere i danni all’agenzia viaggi? In Italia volevo chiamare i Carabinieri, se ne dev’essere accorto, perché ha allentato un po’ la pressione. Non mi
sono lamentato perché continuavo a ripetermi che litigare con l’accompagnatore forse non è saggio. Ma ripeto quello che scrissi a proposito dei maestri di arti
marziali che mi rompevano le scatole: il lettore abbia fiducia che lui, inequivocabilmente, ce l’aveva con me. Perché? E che ne so? E’ questa ovviamente la cosa
più dolorosa: perché? Non starò simpatico a molte persone. Posso anche prenderlo per un atroce scherzo, ma un paio di momenti sono stati davvero pesanti. E
comunque, in generale è stato scorrettissimo.
Se il referente per eventuali rimostranze, diventa motivo di rimostranze, è finita, no?
Su internet ho poi scoperto che ad averne voglia si potrebbe chiedere un risarcimento all’agenzia per danno morale o, come si dice, danno da vacanza rovinata.
Per fortuna che non posso in coscienza dire che la gita sia stata propriamente rovinata: la visita al lager l’ho fatta e soddisfacente, anche. Ed era quello che
volevo. Anzi, sinceramente nel lager il brutto elemento non l’ho visto, anche se all’entrata ha rotto un po’ le scatole.
Comunque si meritava quantomeno un bello “stronzo” e/o “figlio di puttana” alla discesa dal pullman a Trezzo. Questo mi è rimasto in gola, (v. il Cap. 2.2.3.
del presente capolavoro), e sarà la mia croce vita natural durante.
Ma ognuno ha la sua croce.
Gesù la porta anche al cinema. A proposito:
33.-SUL CINEMA
(senza offesa!)
Una parte molto importante della mia vita (il che non è neanche vero, ma lo è, non fosse altro che dal punto di vista del tempo che mi assorbe), è il cinema.
Vorrei qui parlarne finalmente un po’male, perché non esiste arte o comunque linguaggio altrettanto considerato, se ne parla sempre bene, automaticamente,
universalmente, inspiegabilmente.
Io credo proprio per il suo ruolo di “tappabuchi” ch’è in grado di svolgere nella vita di ognuno; come la letteratura del resto, ma con un impegno da parte del
fruitore che risulta essere un miliardesimo del leggere un libro.
Chissà se qualcuno finora ha osato parlar male del cinema: se no, questo capitolo sarebbe meritorio già solo per questo, no? A prescindere dal fatto che abbia
ragione o meno.
Si possono fare alcune considerazioni :
*senza la letteratura, il cinema non esisterebbe.
Questo non è vero, anzi, “Cos’è il cinema? Lo sguardo della macchina da presa”: i critici (alla Fornara) sono soliti esporre questo quiz durante i loro
“corsi”.
I lavoratori che escono dalla fabbrica, è cinema. Giusto. Se fossimo tutti abbastanza fuori di testa da vestirci, uscire di casa, entrare in un cinema, pagare il
biglietto, sederci e guardare per un paio d’ore i lavoratori che escono dalla fabbrica. A parte che una fabbrica così grande non esiste, in realtà il cinema racconta,
con altri mezzi, cioè principalmente per immagini, anziché attraverso la parola scritta, delle storie. Dunque, la principale fonte da cui attingere sono, ipso facto, i
libri. Certo, ci sono anche gli sceneggiatori per il cinema, spesso ex-scrittori, e comunque anche la loro è letteratura, solo, fatta per il grande schermo. La cosa è
antica, per la verità. Cabiria, del 1913, celeberrimo film che venne spacciato per creazione dannunziana, era in realtà tratto da un romanzo di Salgari (Cartagine
in fiamme): lo stesso Vate lo seppe solo in seguito!Apocalypse Now è tratto da un racconto di Conrad: il merito credo che vada a Conrad, e non a Coppola! Certo,
nessuno l’aveva fatto al cinema, per questo ha fatto scuola. Bisogna guardare sia l’idea che il mezzo per esprimerla (e come viene espressa). Siamo d’accordo.
Però torniamo sempre allo stesso discorso: la storia è di gran lunga la cosa più importante, persino nei film d’animazione (la Pixar impiega la maggior parte del
tempo per lo “storyboard”, il resto lo fanno i computer). Ed io ci sono rimasto di sasso-o peggio-quando, confesso che non lo sapevo, ho letto Cuore di Tenebra e
ho capito che il film non solo è preso da lì, ma è semplicemente identico (persino la battuta sul garzone di bottega, nonché il nome del protagonista, Kurtz)!!!
Tant’è vero che, quando uscì Platoon, divenne subito quello il mio film preferito sul Vietnam. L’altro è solo il più suggestivo, ma non il più bello.
Ecconciò?, si dirà. Voglio solo dire che il cinema nasce da una costola della pagina scritta e, fosse anche solo per questo, non dovrebbe essere così considerato,
o perlomeno: diciamo che sicuramente non dovrebbe essere sopravvalutato (quale è). P.es.: Il Signore degli Anelli non si presta a farne una riduzione
cinematografica, non si può fare tutto solo perché tanto è cinema e dunque va bene. Lo stesso dicasi per Almost Blue (persino il libro è stentato, secondo me). Ma
qui forse ci sono motivazioni meramente economiche da tener presente.
Poi c’è il rovescio (positivo) della medaglia: il cinema “pop”, p.es., senza il fumetto “graphic novel”, non esisterebbe. Questo è vero. Le trasposizioni riuscite
sono però poche. E anche questo è vero.
Inoltre, a volte il film fa accostare al libro da cui è tratto, anche perché magari non lo si conosceva: un esempio per tutti: Mash, di Richard Hooker: quanti
sapevano che il famoso e spassoso film di Altman è tratto dall’omonimo romanzo del suddetto giornalista?
*ci sono troppi festival e premi, al punto che diventa difficile attribuire un reale valore ad un film.
Si faccia caso alla recensione di un film su qualsivoglia rivista specializzata. Spesso comincia con una di queste formule: “applaudito a Berlino”; “fischiato a
Venezia”; “premiato a Toronto”; “in concorso-o fuori concorso-a Cannes, il film tratta di…”. Come fa il lettore a non restare influenzato, a livello subliminale, da
queste premesse? Eppoi lo stesso Oscar, al quale si attribuisce un’importanza esagerata, io credo perché statunitense, quante volte ha coinciso con la qualità
(tranne forse i premi tecnici) cinematografica? Cary Grant non ha mai preso un Oscar, solo uno alla carriera . E’ che incentivando festival e premi si continua a
creare domanda per dar modo a chiunque di lavorare nel cinema. Operazione tutto sommato non così colpevole, ma che determina la seguente considerazione
*i film belli, non quelli che piacciono, quelli belli sul serio, non sono che qualche centinaio su milioni e milioni. E vado subito a spiegare la differenza.
Premetto che personalmente sono di bocca buona e guardo-e mi piace-praticamente tutto.
Però le pellicole che innovano il linguaggio cinematografico sono rare. Vero è che si potrebbe sostenere che, come in arte del resto, se debbo prima studiarmi
volumi e volumi sulla materia per apprezzare l’opera, c’è qualcosa che tocca, come si dice dalle mie parti.
D’altronde non esiste un film “nuovo” senza evidenti pecche di lavorazione. Il neorealismo italiano, universalmente apprezzato, p.es., contiene anche sviste
macroscopiche. Rossellini dichiarava che se avesse dovuto scrivere prima la messa in scena, la relativa colonna sarebbe rimasta vuota. E lo stesso dicasi per la
colonna dei dialoghi, quasi improvvisati (meglio: erano scritti, ma lui li forniva agli attori solo all’ultimo momento). Si lasciava che il film si facesse da solo, per
così dire, perché si voleva che la realtà si raccontasse da sé (Zavattini: il fatto è la storia, e non la storia che lo contiene). Ecco perché “realismo” (il “neo” lo
lasciamo perdere, ai nostri fini). Ciò che però ha determinato la fine del movimento (che curiosamente, come il R&R, è durato tre anni, inteso come “germe”,
novità, esplosione, prima generazione, etc.).
E d’altronde è un merito anche riuscire a fare un film che piaccia alle masse, oggi si dice un “blockbuster” o “di cassetta”; anche se forse è più mestiere che
passione, e sicuramente non genio.
Ma il sospetto resta: trattandosi d’industria, il cinema sforna ogni anno migliaia di prodotti mediocri. Anche quello indipendente, che peraltro, come sostiene
l’attore Willem Dafoe, non esiste che nel nome. Ed io detesto i film d’essai proprio perché si confonde, quasi sempre, la povertà di mezzi con un maggiore
impegno artistico.
Diverso il discorso per quanto riguarda i cinema d’essai, che sono spesso molto raccolti e carini (nonché, ormai, gli unici esistenti in centro storico, dopo
l’avvento dei multisala)
*la maggiorparte dei film è forse di genere, nel senso proprio del termine; dunque la qualità, da un lato, ne risente, dall’altro, si può dire siano prodotti per
“maniaci”. I film erotici (non porno), per esempio, come i film dell’orrore, hanno l’unico scopo di presentare una serie di situazioni che soddisfino il voyeurismo
e la morbosità del pubblico, e che sono necessariamente tutti uguali e dunque noiosi, a meno per l’appunto di essere dei maniaci.
Come chi va ad Amsterdam sostanzialmente per vedere una splendida vetrina sul passato, e chi invece ci va per farsi tutto il giorno ed andare a puttane tutte le
sere: lo fa perché in realtà ogni singola esperienza di sesso e/o droga è diversa da un'altra. Dunque si potrebbe sostenere che i film horror (o le canzoni Country)
non sono tutti uguali, come appaiono invece alle masse. Ed è vero. A patto di essere dei maniaci, per l’appunto
*(da prendere con le molle): gli attori, come i calciatori del resto, sono socialmente persone di serie A. Perché?
Non si può fare il solito discorso puerile sul perché vengono pagati così tanto: perché c’è molta gente che li va a vedere, ovvio. E a questo punto cade anche la
diatriba sul se sia giusto o meno. Ma son pagati davvero tanto, la media è seicentomila euro al mese per un calciatore e migliaia di volte l’ingaggio di una
comparsa per un attore. Per questi ultimi, persino il minimo sindacale è un lusso. Vero è che l’attore è uno dei mestieri più difficili che ci siano, come dice Foa,
tra gli altri.
E comunque bisogna distinguere i due lati della medaglia, per così dire: cosa c’entra il risultato (il film) con il quanto sono considerati (e pagati) gli attori?
Bene.
Resta il fatto che, specie negli Stati Uniti, un attore è una persona che, se ci fossero le caste come in India, sarebbe immediatamente sotto ai Rajà, che sono
notoriamente l’aristocrazia più ricca del mondo.
Torno a chiedere: perché? Non sono “ispirati”, fanno solo il loro job, come direbbe Ben Kingsley (e lui è un grandissimo), e job vale anche se fai
l’imbianchino o l’ortolano. Non sono nemmeno virtuosi, come persone, chè non ce n’è uno che non abbia o abbia avuto problemi di alcool, droga, violenza,
matrimoni, giustizia e chi più ne ha più ne metta. Forse la gente non si sa accontentare della propria vita e della propria (spesso) ricchezza, e guarda agli attori
come ad un sogno, o forse sono le divinità del nostro tempo (e d’altra parte i centri commerciali sono i nostri luoghi di culto, secondo un convincente saggio
americano uscito qualche tempo fa);
vero è che il lato attoriale, di recitazione in senso stretto, al di fuori della macchina-industria Cinema, della produzione, della post-produzione, etc, è uno dei
due unici ma meravigliosi aspetti diciamo positivi di quest’arte industriale, non perché gli altri aspetti siano negativi, ma abbiamo visto che sono obiettivamente
piuttosto sopravvalutati.
La recitazione in senso lato è la vera ragione d’essere del cinema, secondo me, e la vetta più alta, anche. Anche al di là del risultato, meglio, del prodotto finito
(il film stesso). Parlo soprattutto di chi recita esclusivamente con la mimica, o con lo sguardo (il cinema nasce muto), oppure, oggi, con la voce. Gli esempi si
sprecano: storicamente, basta citare Buster Keaton o Charlotte; in Italia, basta citare Totò, la cui recitazione eccezionale e addirittura unica fece compiere per
decenni ai critici un errore di prospettiva (l’errore è che non dettero alla sua bravura il giusto peso e si soffermavano sui film, effettivamente di qualità modesta;
ma il suo personaggio varca i limiti della scena e dunque anche i film diventano memorabili).
L’ultimo caso analogo che ho visto è stato V per Vendetta : il film è dejà-vu e niente di speciale, ma quando penso che V porta sempre una maschera, Hugo
Weaving, l’attore, e Gabriele Lavia, la voce italiana, rendono la pellicola a mio avviso storica.
*L’altro meraviglioso aspetto, oltre alla recitazione, del cinema, è forse più nascosto: la tecnica di proiezione (e, oggi, i sistemi del suono). La storia dei
proiettori cinematografici è straordinaria; peccato che in Italia ci sia una sola (parziale) raccolta di queste macchine destinata ad esposizione museale (a Torino),
oltre ovviamente alla raccolta Minici-Zotti di Padova, sul pre-cinema; eppure da noi ci sono le maggiori aziende produttrici (Cinemeccanica, Prevost, Pio Pion,
Fedi, tutte milanesi) e i migliori montatori alla moviola.
E ancora più peccato che chi ha preso il tesserino per fare l’operatore (come me) o non trova poi da lavorare (un multiplex con nove schermi funziona con due
soli addetti), o, con la tecnica d’oggi, non ne avrà comunque alcuna soddisfazione.
Ma tornando alla tecnica, il suono lo trovo eccessivamente sviluppato: se nel film piove, e sei molto vicino all’altoparlante surround dedicato all’”effetto
pioggia”, non riesci a sentire i dialoghi. Se c’è un’esplosione, ti trema la poltrona sotto il culo…Quando c’è lo stereo, credo che ci si possa accontentare…Non
capisco questa rincorsa alla sala di registrazione…
Andrebbe invece migliorata la visione, a partire p.es. da dispositivi che garantiscono una messa a fuoco ottimale. Che spesso è invece approssimativa, e
soprattutto non uniforme su tutto lo schermo…
*Sfogliando la rivista Best Movie, mi è capitato un articolo che illustrava tutte le “scuole di cinema” esistenti in Italia (sono 14, legate ai più vari mestieri
attinenti a quest’industria), e debbo dire che faccio una pessima figura a voler denigrare qualcosa che dà a così tanta gente la “pagnotta”.
Dunque meritevole di rispetto, e la “cosa” in questione e questa gente.
Ma anche sulle scuole di cinema c’è molto da obiettare. Servono davvero? Non sono troppo care?, etc. etc. Ma su questo ci vorrebbe forse un altro libro.
*Ci sarebbe poi una considerazione alla quale non avevo pensato, me l’ha suggerita Ennio Morricone in un’intervista radiofonica: essa potrebbe essere il vero
lato meraviglioso ed oltremodo positivo del cinema, ed addirittura necessario, come linguaggio; e potrebbe far cadere nel ridicolo quest’intero capitolo. Ed è che
il cinema è un’arte onnicomprensiva, cioè che racchiude molte altre arti, o meglio linguaggi: infatti Morricone è apprezzato quale scrittore di colonne sonore
filmiche, non quale musicista compositore (c’è una bella differenza). Il profano non valuta, perché non gl’ interessa, l’influsso di Stravinskij sulla sua musica; si
limita a ricordare il “scion scion” di Giù la testa , e ad andare a noleggiare il film.
Qui c’è già la critica alla comunque utile osservazione introdotta; cioè, questo riunire molte arti insieme è forse più un limite che un pregio del cinema. Così
come quando Adso chiede a Guglielmo che lingua parla Salvatore: “tutti i linguaggi, e nessun linguaggio”…
*Oppure, questa commistione di linguaggi che è il cinema, e che influenza non poco anche il fumetto (v. anche il Cap.9.5), è sì positiva, ma non bisognerebbe
dimenticare che il cinema rientra tra le arti che sono anche mezzi di comunicazione di massa, o tra le comunicazioni di massa artistiche che dir si voglia, o tra le
arti industriali, o... spero di aver reso il concetto. Bè, chi fa il DAMS sa forse dire meglio di me cos'è esattamente il cinema; io vorrei mettere l'accento sul fatto
che è DI MASSA.
Bisogna a questo punto andarsi a rivedere i manuali d'introduzione all'arte, i quali mi sembra concordino sul fatto che la massificazione dell'opera d'arte è fatto
storicamente sconosciuto, è qualcosa di molto recente, di contemporaneo; e rimette in discussione la definizione stessa di opera d'arte. Il Kitsch, sinonimo di
"brutto" (anche se non nasce con quest'accezione), ha l'identico fondamento del cinema, cioè di voler rendere accessibile alla massa il fatto artistico, anche se
"Kitsch" significa soprattutto "falso" (brutto perchè si spaccia per vero senza esserlo) e non so in che senso il cinema si adegua al concetto; comunque infiniti
film sono "fatti in serie" e da questo punto di vista spacciano il mestiere per arte, il falso per il vero si potrebbe dire-ed è qui che forse si riaffaccia la nozione di
Kitsch;
*...............................................................................................................................
Non vorrei aver offeso gli addetti ai lavori. A proposito:
Perché non parlare un po’ della mia vita lavorativa? Lo spunto viene dalla lettura di uno dei romanzi di Svevo. All’inizio del libro c’è sempre la scheda bio-
bibliografica dell’autore. Tra i suoi racconti, figura “La storia dei miei lavori”. Però io non l’ho letto, e nemmeno internet mi sa dire di cosa tratta. Mi fermo al
titolo. E provo anch’io a fare la storia dei miei lavori.
C’è già un libro, che amo molto, incentrato sulla perenne ricerca di un lavoro: Factotum, di Bukowski.
In effetti, diversi lavori li ho mollati dopo due o tre giorni, e uno la sera stessa del giorno in cui sono entrato: proprio come capita a Henry Chinaski nel
romanzo. Già che ci sono, vorrei sottolineare l’importanza di Charles Bukowski in letteratura, poiché in lui si sente che non c’è dietro una cultura, solo uno stile.
Questo non significa che si possa fare a meno di leggere i Classici, come sosteneva Montanari (v. Cap.20). Ma sarebbe vano cercare i riferimenti in questo o
quell’autore, anche se lui ammette di avere i suoi preferiti, ovviamente; ma non è che Bukowski si sia letto decine e decine di classici, magari in lingua originale,
e poi si sia messo a scrivere; si è messo a scrivere e basta. Il risultato è lo stesso, come fa notare lui: se hai uno stile, hai il tuo metodo che continua mentre
tutte le cose vacillano.
Si può durare con l’autorità del grande autore latino, oppure solo con la piacevolezza del testo.
Bukowski è un ignorante che scrive bene.
In questo, lo sento molto vicino.
A proposito del durare in letteratura, poi, si può ancora dire qualcosa.
Il Decadentismo sentiva il crollo di una civiltà, si dice. Mi sono sempre chiesto cos’è questo clima di disfacimento che i libri di storia pretendono di attribuire
ad una data società in un dato periodo storico. Lo si fa spessissimo: non solo il secondo Ottocento, (però poi sfociato inspiegabilmente nella Belle Epoque), ma
anche il Trecento (sfociato nel Rinascimento), il Settecento (sfociato nella Rivoluzione Francese e dunque nell’età moderna), ed anche più indietro nel tempo, o
negli stessi periodi citati, sarebbero “zone oscure” nelle quali la gente, disperata, manifestava tutto questo nelle arti.
Mi chiedo semplicemente: quando mai la storia è stata rosea e felice.
La serenità è riservata solo a santi, eremiti e stiliti?
Che non sia uno stratagemma critico questa bufala dei periodi di decadenza?
E’ noto il mio punto di vista sul lavoro, assolutamente negativo. Gli attribuisco il merito, quando ci riesce, di addormentare la coscienza: poiché come si sa, la
vita oscilla tra il dolore e la noia. Ma è anche il suo delitto, poiché gli uomini si dedicano al lavoro “come fanciulli assorti nel gioco” (indovinate di chi è?
Esatto, sempre lui). Quasi tutti però debbono lavorare per vivere e anche a me piacerebbe potermi mantenere. E naturalmente è meglio mantenersi facendo quello
che piace.
Per questo avevo aperto un negozio e per questo l’incipit della mia immortale fatica (il presente testo) è dedicato a questo tema.
Ma già là si capiva che, come dice Hess, non bisogna rimpiangere nessun lavoro. Perché il lavoro non è che un mezzo, non il fine. Perché, come dice
Maupassant, bisogna istintivamente diffidare di tutto ciò che riesce ad inculcare una qualche speranza nella vita. Perché, come tutte le attività umane, il lavoro è
soggetto ad incidenti ed accidenti di ogni tipo.
Infine perché, come si dice del papa, morto uno…
E se proprio non si riesce a lavorare, sempre che si abbia un letto e un piatto di minestra, (il famoso “famiglismo italiano”), meglio così.
Il mio atteggiamento nei confronti di questa croce che tutti ci portiamo non può essere diverso da questo. (questo non significa che non mi darei da fare se
trovassi da lavorare).
Per indole, prima di tutto, chè il lavoro manuale, non ho il fisico, e quello intellettuale, non dev’essere coatto, cioè imposto. Ma anche per ragionamento,
letture, formazione. E a questo proposito davvero potrei inserire qui un volume di un migliaio di pagine di citazioni di personaggi che la pensavano come me e
che forse incontrano maggior credito presso il lettore.
Anzi, come dice S.Giovanni (XXI, 25), a volerle scrivere, il mondo non è abbastanza grande per poterne contenere tutti i libri.
Basti qui nominare gli antichi Greci, dei quali De Crescenzo dice argutamente che i nostri meridionali ne abbiano ereditato l’amore per la speculazione,
passeggiando, sulla piazza del paese. E naturalmente è difficile lavorare in queste condizioni! (ma i terroni sono i migliori operai).
Tornando alla mia vicenda personale, si può dire che nel mio piccolo ho fatto un po’ di tutto: dal commerciante, dunque lavoratore in proprio, all’operaio,
dunque lavoratore dipendente, all’orafo, dunque lavoratore artigiano, al vendemmiatore, dunque lavoratore agricolo, al consulente editoriale, dunque lavoratore
rappresentante, al disoccupato (dunque…non lavoratore). Tranne l’ultima figura, che modestamente incarno tutt’ora a 34 anni (!), le altre sono durate davvero
poco, dell’ordine di mesi-e a volte di giorni; come attenuante, non sono (quasi) mai stato io a voler abbandonare: è che mi hanno sempre, come si dice in gergo,
“silurato”. Cioè, l’ambiente di lavoro, umanamente parlando, era insostenibile.
Ovviamente, sul lavoro bisogna rendersi disponibili, per ripetere le parole di un’odiosa segretaria di una ditta che voleva assumermi. Da qui a tormentare
l’operaio, però, ce ne passa. Non sto parlando del lavoro, ma dell’ambiente di lavoro. E’ una cosa puramente psicologica, non per questo meno vera ed
importante. E terribile.
Non credo che, nel novanta per cento dei casi, al giorno d’oggi ci si possa lamentare di quant’è duro il mestiere di operaio. Da questo punto di vista,
bisognerebbe forse guardare di più alle condizioni d’inizio Novecento, p.es., e comunque pensare che alle 5 p.m., sei libero e bello. Però, scherzi a parte, a parte
il caldo d’estate, il vero problema sono gli altri operai, il caporeparto e compagnia bella.
Come sempre, l’uomo. Chi fa cosa.
Sono il primo a dispiacersi di raccontare sempre al lettore quanto mi trattano male tutti.
E perché rompo le scatole e perché francamente, me ne rendo conto, la cosa non è nemmeno verosimile.
Se non è verosimile, è però vera, mi si creda e voglio scrivere di questo un po’ per terapia mia, un po’ perché queste cose non mancano mai, o quasi, di un lato
comico.
In una delle ditte in cui ho lavorato, p.es., uno dei due caporeparto era la mia ombra (si veda il Cap.32 del mio saggio Betrachtungen), sulla linea, in sala
mensa e talvolta in bagno. Il termine “ombra” dovrebbe bastare a rendere l’idea di quanto mi stesse addosso, senza che io faccia il melodrammatico.
In queste condizioni non si può lavorare, ovvio. Un’altra volta, mi hanno fatto cambiare mansioni fino a quando non hanno trovato quella che mi ha costretto a
lamentarmi.
Nove anni prima mi ero rotto il ginocchio, e chiaramente la gamba, in certe condizioni, mi darà sempre dei problemi. Ebbene, mi han fatto portare dei coperchi
di ghisa in braccio fino a quando il ginocchio non mi ha fatto male, lo giuro.
Il medico (?) interno non si sapeva pronunciare in proposito (!)
Un’altra volta ancora, hanno accelerato il rullo trasportatore fino a farmi cadere per terra tutti i cornetti che stavo mettendo nelle teglie, con conseguente
terribile cicchetto (urla da SS) del responsabile. Aveva ragione lui, tranne che per un dettaglio: era IMPOSSIBILE per chiunque tenere il passo a quella velocità
(per questo c’è il “fungo” rosso di STOP, no?).
Altre volte persino in fase di colloquio mi si prendeva per il c…, altre volte ancora, col contratto di assunzione in mano, al mio presentarmi il primo giorno, mi
si diceva che non c’è più bisogno (quest’ultima cosa sì ch’è incredibile! Ed è vera anche questa).
Certo, leggendo tutto ciò, non sembrano cose occorse con malizia di una delle parti in causa, sembrano cose casuali, normali. Il caporeparto controlla,
semplicemente, la mansione pesante può capitare, il rullo può capitare che acceleri, quella volta del contratto è stato un semplice qui-pro-quo, e così via.
Certo…
Non capisco due cose, però: perché può capitare, ma SEMPRE A ME?;
e secondo: perché può capitare DECINE DI VOLTE?
Dalle mie parti si dice (in dialetto): “c’è qualcosa che tocca.”
Lo facevano apposta, i figli di puttana, tanto “può capitare”!
Sono del resto sicuro che queste cose, voglio dire proprio: fatte con malizia ma che non sembri, siano capitate a tutti, qualche volta. Appunto, non a uno solo, e
sempre!
Ma non mi si può biasimare, caro lettore, se poi mi licenzio/licenziano, no?
E se cerco di mantenermi scrivendo. A proposito:
Riguardo ciò che sto scrivendo, si può ancora dire qualcosa. Non è né un’opera di fantasia, e la letteratura è invece in ogni caso invenzione, anche quando è
memoria (come ho spiegato altrove), né un saggio o un libro divulgativo. A me piace proprio perché si tratta di altre due cose: ricordi personali, sia pure “sui
generis” ; e opinioni personali sui più svariati argomenti. Ma questo è il punto: a chi può interessare? (v. il Cap.22).
Un libro, infatti, o diverte, o insegna. Il mio diverte, ma solo l’autore (me stesso); e non si può dire che insegni alcunché, anche se talvolta spero faccia
riflettere.
Per questo ne vedo difficile la pubblicazione.
Per me gli autori più seri sono quelli che “formano”, tutto sommato, e non sto assolutamente cercando di sminuire chi si è prefisso “soltanto” lo scopo
d’intrattenere. La pensava così anche Maupassant. Nonché tutta la corrente dei Bildungsroman. Difficile sostenere la bontà dell’una a scapito dell’altra “scuola”
(anche se scuole non sono). Una cosa è certa: chiunque ha bisogno di esempi, oggi si dice miti e sono perlopiù attori e cantanti. Ma anche uno scrittore può dire
la sua da questo punto di vista.
Se non è “leggero”.
Ma mi sto accorgendo adesso che tutto ciò che sto scrivendo non ha senso: intanto è difficile delineare un confine: Hemingway non era certo un moralista,
dunque cosa insegnava?, i suoi erano racconti d’avventura, si può dire; e tuttavia traspare dalle pagine un senso della vita (e soprattutto della morte), una
“misura” che a ben vedere insegna qualcosa.
(Sugli obiettivi dello scrivere, inoltre, si veda quanto già detto in 22).
Ma c’è un autore che potrebbe essere, negli intenti, il mio ispiratore: Chateaubriand. La sua opera maggiore infatti, i memoires , non sono che esperienza di
vita. Ricordi.
Come i miei.
Bè, ovviamente il suo lavoro s’intreccia con la storia del suo tempo, cosa che io invece lascio da parte, perché oggi sono tutti cronisti; inoltre utilizza termini
ricercati, spesso violenti ed arcaici, cosa che io lascio perdere, visto il mio vocabolario di un centinaio di parole (ma quando parlo ne uso meno); inoltre è
pervaso dalla religione, altra cosa che trovo francamente stucchevole (su questo scriverò forse qualcosa in seguito); e ci sono anche un mucchio di parole su un
imperatore…ma c’è anche qualcosa di fantastico, di moderno ed eterno al tempo stesso.
Non mi sto paragonando al vecchio Francois-René, però ripeto che, nel fare letteratura non raccontando una storia ma raccontando la propria storia,
l’esperienza di una vita, i nostri lavori (solo in questo), sono simili…meglio, lo saranno tra qualche decina d’anni, se campo. E mi sento piuttosto vicino anche a
Bukowski, come ho appena scritto, o perlomeno, più vicino a lui che a Dante…
Non vorrei poi fare la figura del “tuttologo” come quelli che si vedono in televisione, perché mi accorgo che voglio parlare un po’ di tutto. Cerco comunque di
documentarmi molto quando affronto un argomento nuovo. Se lo facessi di più, non potrei più scrivere, o potrei farlo su di una cosa sola.
Ma ho troppi interessi.
Schopenauer, quando voleva parlare di qualcosa, doveva diventare per lui familiare. Quando volle esprimere un’opinione riguardo il teatro, studiò questo tema
per un intero inverno (!). Senza arrivare a ciò, io spero di non arrivare a dire castronerie troppo grosse.
Avrei peraltro precedenti illustri. Mi piace pensare, quando insisto sulla bontà ed unicità del mio eccellente ed immortale risultato della mia mente geniale, al
già citato (v. su questo la mia dissertazione al Cap. 22) Barone di Munchausen.
M’immagino anzi già ciò che certamente avverrà:
il mio libro sarà pubblicato da Bompiani, al che l’editore, restando impressionato, si chiederà perché mai ha sempre pubblicato Eco, che sfigura al mio
cospetto (sarebbe come paragonare la Cinquecento con la Ferrari). Gli altri editori (di tutto il mondo, e anche nella luna) faranno a gara per avermi nella loro
scuderia; ma io, già più ricco di Bill Gates, e forse dello stesso Eco, declinerò cortesemente l’offerta. Le enciclopedie mi avranno in copertina, con una bella foto
di Helmut Newton, resuscitato per l’occasione. E il mio nome sarà celebre per sempre, (non potendo più fare come Dio, che lo è sempre stato), oscurando
qualsiasi genio possa venire in mente, Platone, Tommaso e forse lo stesso Eco.
In allegato alle mie opere, un certificato di autenticità, chè qualcuno potrebbe trovare bizzarre le mie storie, senza per questo essere meno vere.
C’è poi da osservare che anche Umberto Eco fa il tuttologo sull’Espresso, quando scrive le sue famose “Bustine”. Ovvio che ha più titoli di me per poterlo
fare, ma vorrei qui far notare che nemmeno lui si può dire, a rigore, tuttologo. E mi rendo conto che è incredibile il numero di argomenti, i più disparati, sui
quali ha scritto dei saggi (e che saggi!). Però, più di una volta e più di due, ha scritto delle vere e proprie castronerie, riconosciute come tali non certo solo da
me. P.es, una bustina intitolata “Quell’ora che batte dove il tempo duole”, nella quale contestava le troppe funzioni degli orologi cosiddetti “complicati”, forse
dimenticando che, per definizione, tali orologi DEBBONO avere molte funzioni, ovviamente anche superflue (ma che tali non sono, nell’ottica del tipo di
oggetto di cui si parla).
Al punto che anche una rivista di orologi (di parte dunque, ma anche competente) sbottò: ma Eco che c… scrive? Perché non si occupa di Semiotica, ch’è la
sua materia?
E per la quale ha scritto testi fondamentali per la diffusione di questa disciplina in Italia? Un altro suo libro ignobile è A passo di gambero. Per non dire di
Storia della bellezza. Ma perché non fa il semiologo, essendo un semiologo?
Dico solo questo. Che poi la Semiotica sia la scienza dei segni (e tutto, in fondo, è segno), non dev’essere l’alibi per aprire sempre bocca.
Viene citato anche quando parla di Francesco Guccini. O della coltivazione dei pomodori.
Non che ce l’abbia con lui (non sapevo che anche in linguistica il suo contributo è determinante, vedi Opera aperta, del 1967, e s’intende anche d’arte); solo
con lo sfruttamento delle persone come lui (se volesse pubblicare la lista della spesa, troverebbe un editore).
E comunque nemmeno lui è colto (per il semplice fatto che non si può sapere tutto).
Però c’è anche un evidente difetto nel mio libro: è la meta-letteratura, o come caspita si dice. Vale a dire, il meschino, non troppo originale e tutto sommato
bruttino “trucco” dell’interrompere continuamente la “storia” per puntare la camera sull’autore che la sta sviluppando. Per esempio, ma sono infiniti, Faccia da
Picasso di Ceccherini (lì si fa meta-cinema), o il fumetto delle Bambole di Pezza (meta-fumetto).
Credo che sia la trovata preferita di chi non ne ha altre. Dunque anche mia.
Ma tant’è.
D’altra parte, come il Mariolle di Maupassant (in Notre coeur), il mio altero riserbo sembra voler dire: io non sono nulla, perché nulla ho voluto essere.
Spero di divertire comunque.
Io mi sto divertendo.
Mi diverto meno se una me la fa vedere, ma non me la dà… A proposito:
Ogni tanto riparlo di qualche donna che mi ha “sconvolto”. E in questo mi riallaccio a quella serie di capitoli-capolavoro intitolati La rabbia di….
L’ultima pu…, cioè, l’ultima puella (ragazza, in latino) che me l’ha messo nel cu…, cioè nel cultus (educazione, in latino, perché mi ha insegnato qualcosa-
cioè, a non fidarmi delle pu…, delle pulchrae-belle, sempre in latino), si chiama Valentina. Come dice il titolo, è fiorentina; anzi, è di Rimini, ma studia a
Firenze, e questo ha una certa importanza ai fini della nostra storia.
Infatti, come ho già narrato, qualche tempo fa, non avendo niente da fare e avendo qualche soldo in tasca, decisi, sui due piedi, d’imbarcarmi … nella ricerca
di un lavoro (Moby Dick). E me ne andai a Firenze.
Mi ero prima messo d’accordo con la Nostra, tramite telefonate ed e-mail, che ci saremmo visti il 5 Gennaio: perché? Ma perché a lei serviva un coinquilino,
diceva, anche se in realtà cercava una ragazza-su questo tornerò; dal canto mio, io stavo cercando un posto letto da spendere relativamente poco.
Quanto alla data, fu casuale.Trovai il suo annuncio su internet.
Già al telefono, dico la verità, ci furono problemi, perché lei faceva la stronza, cercava di litigare su dettagli: dunque mi piacque fin da subito. Qualunque cosa
voglia far credere un uomo, non resta indifferente di fronte ad una donna col piglio deciso e finanche incazzosa.(Così come qualunque cosa voglia far credere
una donna, non resta indifferente di fronte alla bellezza fisica o alla gloria).
Arriva (mi scoccia usare sempre il passato remoto) il pomeriggio dell’appuntamento: suono il campanello e mi risponde la sua amica. Così salgo e, dopo aver
stretto la mano prima alla sua amica, finalmente conosco la Valentina. Ero superagitato, per i motivi che ho detto, cioè repulsione-attrazione verso una ragazza, e
anche per voler fare bella figura. Lei, un poco più alta di me, mi stringe la mano con fare austero ed espressione gelida. Comincia subito a farmi vedere la casa,
ed io sempre scocciato, sulla difensiva (le chiedo addirittura se non ha due bagni). Poi, di ritorno dalla camera da letto verso la cucina, le cammino dietro, e
accade qualcosa che non avevo previsto, qualcosa che ha cambiato tutto, qualcosa che fa la differenza su come un uomo vede una donna.
Mi accorgo di che meraviglioso culo ha! Ovviamente lei si accorge che mi accorgo. Infatti si china un numero sconsiderato di volte mentre mi prepara il caffè,
considerato che sia il caffè che la moka, che tazzine e cucchiaini erano nella credenza sopra il lavello!
Questo però fa di me definitivamente un suo “fan”.
Qualche riga per uno dei più bei culi dell’universo conosciuto o perlomeno che io abbia mai visto, è qui doverosa. Intanto come ho detto, lei è alta, dunque il
culo non tocca per terra, cosa decisamente troppo frequente. (precisazione: scrivo queste cose non per fare il “drago”, ma perché si dimostra ancora una volta
come l’amore tra i sessi non sia altro che amore sessuale: mi sembra di volerle bene pur sapendo quanto è stronza e non piacendomi, tutto sommato; è il suo culo
che mi manda nel pallone; si vede qui facilmente quanto sia tirannica la natura).
Culo bello alto, si diceva. Dimensioni: un po’ grosso, e questo non a tutti piace. Ma le natiche DEBBONO essere carnose, per motivi fisiologici (sorreggere il
pancione quando viene il momento-si vede che ho studiato, eh?), dunque una che ha il culo magro è poco femminile (esistono anche deliziosi culetti che stanno
in una mano, a onor del vero, ma è l’eccezione che conferma la regola).
ADF: non è un dentifricio ma la sigla per ricordarsi i tre (principali) parametri per giudicare un culo. (ce ne sarebbero altri: sodezza o flaccidità, aspetto della
pelle, conformazione che assume durante i piegamenti in avanti: ma sono secondari, e, nel nostro caso, ottimi anche questi). Manca la forma.
Che dire? La visione dal vero sarebbe più eloquente e l’unica soddisfacente. Comunque è tondo da qualunque parte lo si prenda in esame, non deborda né
verso il basso (come un gavettone); né verso l’alto (a volte se ne vedono: bleah!); né, vero miracolo, verso i lati esterni, che anzi sono matematicamente tracciati,
si direbbe col CAD(!). Il passo poi (cioè la misura dello scarto tra il punto di massima sporgenza e il bicipite femorale, visti di profilo) è ideale e si avvicina alla
razza nera, così che si può godere della visione fino al tre-quarti anteriore. Incredibile!
Alto, grosso, tondo: una vera cavalla, cui la coda dei capelli peraltro rimanda. Con gli Skiantos: “sesso e carnazza”. Vederla era una gioia, non dico che mi
eccitavo sempre-ma spesso sì- ed è proprio questo il punto: mi succede, e credo sia così per tutti, che il sentimento erotico venga automaticamente ed
inconsciamente deviato verso un sentimento affettivo. Non saprei che terminologia adottare, spero di avere reso l’idea.
Non si spiegherebbe altrimenti il fatto di volerla cercare più di una volta (sapevo dove lavorava), e si badi che non avrebbe potuto trattarmi peggio: era
impossibile, mi prendeva anche in giro apertamente, sfacciatamente.
Una così non può piacere.
E invece mi piaceva. Io spiego questo con l’attrazione fisica; tra l’altro anche le tette, senza essere enormi, come piacciono a me, non erano niente male.
Una cosa non l’ho capita però: passi che mi sfotteva quando ci andavo, poteva essere infastidita: ma una sera che l’ho praticamente ignorata, me la sono poi
ritrovata all’uscita (è un cinema) che cercava di attirare l’attenzione su di me (!!) Pensavo di starle “su” (!!!)
O forse con me si diverte troppo ad essere cattiva, più semplicemente.
Perché, già che ci sono, non parlo un po’ delle mie tragicomiche avventure sessuali? Cfr. Massaccesi (Joe d’Amato): “ormai, sputtanato come sono, cerco di
fare bene il mio lavoro. Ma è mestiere, non passione”.
Avventure sessuali che hanno per protagoniste delle prostitute o, come direbbe Maupassant, incontri d’amore a due luigi l’uno. (cfr. Pilcher, uno dei più famosi
puttanoni olandesi: “un po’ della prostituta credo che ci sia in ogni donna”).
Dunque, sono donne come le altre (più o meno), anche belle persone, talvolta, perché no.
Difatti vorrei iniziare da una ragazza russa che si è dimostrata particolarmente disponibile e carina con me, senza peraltro che ciò comportasse un maggior
esborso di denaro (si parla di cinquantamila, c’era ancora la vecchia valuta- ovviamente culo escluso). Non era una bellezza russa come s’intendono le bellezze
russe- non era neanche bionda, né alta, ma comunque una bella ragazza. Aveva soprattutto un’”aria” carina, di quelle che ti fanno pensare che non c’è niente di
male a prostituirsi, e di quelle che ti eccitano fin da subito, anche. Bene, la prendo in macchina e, una volta pagato, andiamo dietro, cioè sul divanetto.
Stranamente, messo il profilattico e ciucciato un po’ il cazzo (pare che sia una legge non scritta iniziare così…), invece di penetrarla subito, ci baciamo (lei era
già sdraiata). Per chi s’intende di questo tipo di rapporti sessuali, ma anche per chi non s’intende…(Paolo Rossi), può capire la difficoltà, per una puttana, di
baciare il cliente: è molto difficile che vogliano. Giustamente. Lei invece si faceva leccare, mentre la baciavo, i denti (!). Avevo letto che è una zona erogena
anche quella, tra le secondarie (esclusi cioè clito, sedere e seno), come la nuca e le tempie, ma non l’avevo mai provato di persona. Teneva la bocca semichiusa
per facilitare lo strofinio sulle “palette”, le piaceva proprio. Intanto tenevo il palmo della mano sulla sua fica, muovendolo solo un po’ (piace a molte, ma è un
altro gesto piuttosto intimo…strana ragazza). Poi ho cominciato con le dita: un po’ la penetravo e un po’ la baciavo, un po’ la penetravo e un po’ la baciavo, un
po’…(eccetera). Ovviamente le puttane non vengono (è quasi impossibile), però è stata carina a farmi credere che questo la faceva impazzire, no? Non credo
comunque che non le piacesse. Si può dire che la sua fica grondasse. Non ricordo se l’ho penetrata “classicamente” o meno, forse no, (comunque non ha perso
granchè, vista la dotazione- ma loro se gli chiedi “troppo piccolo?” rispondono sempre “troppo grosso, semmai”) ma mi è piaciuto lo stesso perché ogni tanto
ripeteva, intervallando le parole con gli “hhh”, “hhh” delle donnine di Manara: adesso…(hhh)…ti faccio…(hhh)…una sega…(hhh)…senza preservativo. E l’ha
fatto davvero! Di solito non lo tolgono, mai. E intanto teneva le gambe spalancate per avere la sua parte di masturbo (giustamente). Veramente professionale. Mi
offerse anche un sorso di Vodka da una bottiglietta che teneva nascosta!
Io glielo chiesi: perché sei così buona con me? La sua risposta fu sorprendente: con quelli che sono buoni con me, io sono buona.
Mi piace credere che fosse sincera, fino a prova contraria, no?
La verità è che c’è il male e il bene anche nella prostituzione, come in ogni cosa: accanto a donne “malvage”, (cfr. Jim Morrison: “women seem wicked, when
you’re unwanted”), c’è anche la “puttana dal cuore d’oro”; però le buone sono ben più di una sola, o di due, o di dieci! (per fortuna!)
Quello che non accettano, comprensibilmente, è il tizio che cerca amore o anche solo affetto, e a volte ne sono profondamente disturbate, e si vede. Possono
essere carine, come quella di prima, ma si ribellano se fai mostra di avere un moto di… non saprei neanch’io cosa, nei loro confronti.
E questo lo trovo triste. E, mi si permetta, è purtroppo comune alle donne “normali”.
Non hanno tutti i torti, ovviamente, non ci si conosce nemmeno: sono solo affari.
Però è questa la differenza tra i due sessi.
Come dice Daniele Luttazzi: se bacio una sconosciuta per strada, lei dice: ma è matto? Non la conosco nemmeno!
Se una donna bacia uno sconosciuto invece, lui dice: Wow! non la conosco nemmeno!
Ed inoltre: cosa vuol dire “fare l’amore”? In che misura sei coinvolto quando lo fai? Non ci si vuole comunque bene, in quel momento?
La donna FA più l’amore? O in realtà lo FA di più l’uomo?
Sono tutte domande che saltano fuori in questo contesto, inevitabilmente. E che non credo che solitamente uno si pone. Sbagliando, secondo me; ma anche
giustamente, chè altrimenti precipiti in un’ignavia che non ti permette più di vivere.
Infatti, per alleggerire il discorso, racconto un altro gustoso episodio della putan-saga (reale? Chissà.).
Stavolta era… non ricordo di quale paese, ma comunque bianca (non italiana). Mi sorride quando passo in auto, allora mi fermo: le solite cinquanta. Va bene.
Sopra? Sopra. Sale in auto e mi sorride. Questa ragazza aveva la caratteristica di essere frenetica quando le eri dentro, non ho capito il perché. Praticamente,
prima si spoglia, mi sorride quando si scopre le tette, e io: ma perché ridi tanto? (Terence Hill, Continuavano a chiamarlo Trinità). Poi mi sale sopra, ma io non
ero sdraiato. Così, poteva aggrapparsi alle mie spalle mentre la scopavo e poteva anche “allattarmi” (cosa che adoro, il solito mammone italiano…). Ha
cominciato con un tale ritmo, mentre mi slinguazzava la lingua, che non sono sicuro che mi sia piaciuto (mi ha fatto un po’ male). Sarà stata questione di venti-
ventidue secondi: una vera galoppata.
Sembrava volesse farmi venire il più presto possibile.
Mi è piaciuto lo stesso, perché era bella la sua foga (anche la sua figa, mettiamo i puntini sulle i). Tanto che mi è rimasto il sospetto che quello fosse il suo
“pallino”, e non per sbolognare il cliente. Non sto dunque mica parlando di una chiavata dolce, di “picci picci pucci pucci”: era anche dura, potente, non solo
veloce, ma pesante, cattiva, una bordata dietro l’altra, un’imbottigliatrice automatica, ogni colpo un affondo, se la Citroen non avesse le mitiche sospensioni che
ha…Il giorno dopo mi faceva comunque male la schiena!
Per me resta una brava ragazza, un po’ troia se vogliamo…Nessuno è perfetto.
Altro giro altro regalo. Passiamo alle nere. Sono note per avere, praticamente tutte, un culo sconosciuto alle altre razze, per sodezza e perfezione di forma.
Difatti, vorrei scegliere, tra le tante, proprio una negretta che si fece inculare ma in un modo rocambolesco. Seguitemi. Innanzitutto, fu lei a suggerirmi l’idea,
perché voleva assolutamente farlo “alla pecorina” (tra parentesi, il nome scientifico, forse non tutti lo sanno, è “posizione genu-pettorale”). Bè, già che ci siamo,
perché non nel culo? Allora mi disse, avrà avuto venti-ventidue anni, “parcheggia in questa posizione”. C’era una rampa terrosa a lato della strada, piuttosto
ripida, e io punto il muso dell’auto verso la discesa e comincio a scendere cautamente. Quando l’auto è ad un angolo di ca. 40°, posso assicurare che era molto
inclinata!, metto la prima e il freno a mano. Allora lei si posiziona bocconi sul sedile del passeggero, ovviamente reclinato, in modo da offrirmi pienamente il
culo- e che culo!, sembrano finti! Io mi metto il “guanto”, non poteva farlo lei per ovvi motivi, e le apro piano piano il buco, fino a farlo entrare per un bel pezzo.
Non del tutto perché, contrariamente a quanto si pensa, le puttane non hanno rapporti anali così frequenti tutto sommato, molto meno di un’attrice porno, per
esempio. Infatti, per allargare al massimo in genere si piegano col busto fino a toccare le ginocchia, cosa che non si vede nei film hard (preferiscono lubrificare,
poi è già bello largo). Comunque invertendo l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.
L’ho sfondata. Il trucco del parcheggiare inclinati sta nel fatto che siamo entrambi facilitati: io mi appoggio con la schiena sull’airbag passeggero sperando
che, per l’eccitazione, non esploda anche lui; lei con minime stantuffate del bacino, aggrappata all’appoggiatesta, si fa riempire gl’intestini.
Comodo, no? Ed è stata una sua idea! L’unico inconveniente è un po’ d’apprensione, perché avevo paura che l’auto sprofondasse giù per la scarpata visto il
fondo melmoso, ed è un vero miracolo che non sia passata una pattuglia- tendono a notare dettagli come il posteriore dell’ auto che sembra che decolli sul ciglio
della strada, con la luce dentro, corpi nudi, versi e movimento tellurico. Nonostante questo, o forse proprio per questo, (Montanelli), lei era però praticamente in
calore. Una deliziosa vacchetta.
Senza offesa.
Altro giro altro regalo. E’ chiaro che sto parlando di sesso senza amore o per meglio dire, al limite, di amore partendo dal sesso e non viceversa. Dunque è
naturale parlarne in termini tecnici, e non, p.es., “mentre le ero dentro pensavo a…” o “c’era un’atmosfera da situazione…” (v.oltre), bensì COSA mi ha
fatto, COME, quanto A LUNGO, etc.
E, ovviamente, suddividere l’argomento per organi genitali.
Dopo il primo pezzo sulla stimolazione orale (fatta a lei), quello sul rapporto vaginale e quello sul rapporto anale, non restano che altre due grandi “branche”
per così dire di questa disciplina: la stimolazione mammellare e quella orale (stavolta fatta a me).
Partiamo dalla prima. Era un’argentina. Io mi metto seduto sul divanetto posteriore e lei a cavalcioni su di me. La penetravo ma il mio uccello era flaccido, ma
non m’importava perché avevo voglia di fare una cosa, che feci perché lei me lo permise: anzi, sembrava piacerle: allattarmi. Praticamente, le prendevo il
capezzolo in bocca e lo succhiavo, leccavo, graffiavo coi denti, lo stimolavo in tutti i modi. Prima uno, poi l’altro, alternativamente, con calma, a lungo,
massaggiando anche i seni con amore. Ovviamente non usciva latte, ma è incredibile che non mi dicesse di smettere, sarò rimasto attaccato mezz’ora e più. Ogni
tanto mi staccava per guardarsi le mammelle, toccarsele un po’, unirle, farle ballonzolare piano, in parte per eccitarmi, in parte per compiacersi di sentirsi così
donna, credo, forse anche un po’ mamma; poi mi faceva riprendere con estrema docilità. Tra l’altro mi è sembrato, ed è verosimile, che si fossero gonfiate non
poco con la stimolazione areolare. Era persino commovente. Roteava un po’ il bacino su di me per strusciare la passera, visto che, come detto, la turgidità del
membro non era apprezzabile, concentrato com’ero sulle sue tette. Venni con una sega. Ma fu meraviglioso. Solo, non voleva che ci mettessimo le dita in bocca.
A me sarebbe piaciuto.
Altro giro altro regalo: i pompini. Vorrei raccontare di un’italiana che amava farli senza preservativo: in effetti si sente molto di più, vale per il maschio ma
evidentemente anche per la donna. Comincia con la lingua e ci gira intorno, intorno, intorno, al punto che mi ero scocciato e l’ho dovuta chiavare, ovviamente
sempre senza guanto.
Un’altra invece comincia con un ritmo che si direbbe del cazzo (il termine è appropriato), cioè senza il minimo impegno…apparentemente. In realtà si trattava
di una lentezza estrema ma inesorabile, sentivo lo sperma che avanzava millimetro per millimetro dai testicoli fino all’uretra, e alla fine è stato meglio della
solita ciucciata potente.
Un’altra ancora (nera) giocava sull’aspetto visivo della prestazione: si fermava a mezz’asta, conformando le labbra a mò di succhiare un chupa-chups e
socchiudendo gli occhi, perché sapeva che la stavo guardando, e quest’espressione porno del viso in effetti era terribilmente eccitante.
Un’altra ancora alternava con la mano, notevole, ma dovrebbe prenderlo in bocca contemporaneamente alla menata per farmi godere al massimo.
Una mi ha fatto male.
Un’altra non è riuscita a farmi venire…
C’è tutto un mondo dietro al pompino, dal più bello, al più brutto.
Ma vorrei mettere l’accento sul fatto che l’amore potrebbe nascere, ad averne il coraggio, DOPO il sesso, non sarebbe necessario passare dal cuore, in teoria,
anche se indubbiamente il sesso buono viene dal cuore. Lo dice anche Willy Pasini. Pare che solo dopo aver fatto bene l’amore si attivi quell’ormone
(ossitocina) detto anche “dell’affetto” che ti fa voler bene alla persona che hai di fronte.
Ma in realtà il discorso è più intrigante, e profondo, anche. Se non sei innamorato, il sesso ti fa sì star bene, ma solo subito dopo che sei “venuto”, perché ti sei
liberato di energia in più, per così dire, quella dell’eccitazione, e se non la sai sopportare- o convogliare altrove, è meglio che te ne liberi.
Ma stai bene unicamente fisicamente, come dopo una nuotata; non spiritualmente. Qui io parlo per me: a partire da un tempo variabile dai dieci minuti alla
mezz’ora dopo il rapporto, scatta automaticamente un altro meccanismo: si comincia cioè a star male, tanto più quanto più il tempo passa. Cioè, ogni rapporto
sessuale funziona come il “flash” dell’eroina, passato il quale ripiombi in astinenza. Non è il dolore fisico e terribile dell’astinenza da droga, ma un malessere
inspiegabile.
Questo è il perverso meccanismo che posso testimoniare di ritorno dall’inferno, per così dire, cioè dopo un lungo periodo della mia vita fatto di sesso
mercenario senza amore (mi sento un po’ Burroughs, nel descrivere queste esperienze dolorose).
Oltre a questo fatto, innegabile per chiunque, anche se non l’ha vissuto, che riguarda lo star bene in generale, nell’intera persona, c’è anche un fatto “tecnico”,
a ben vedere, (se proprio non si vuol far caso al benessere, ma solo al piacere).
Ed è che, in realtà, durante il rapporto, godi molto di più se sei innamorato! Sottinteso: ricambiato.
E’ vedere e sapere la donna felice che ti fa godere.
Cfr. Casanova: “il piacere della donna ha sempre rappresentato i quattro quinti del mio piacere”.
Se lo dice lui…
In amore Casanova era praticamente laureato. A proposito:
9.3-L’UNIVERSITA’, FINALMENTE!
(una contestazione)
Alla fine sono capitolato anch’io: in Introduzione e in 9.1 mi scagliavo per così dire sull’università e dicevo che avere una laurea non vuol dire essere colti
(“chi è colto?”, il “Che cosa so?” di montaigniana memoria); comunque, anche se così fosse, essere colti non serve assolutamente a niente! Meglio essere buoni.
E lo penso ancora.
Però poi, a quanto pare, la vita, o meglio le circostanze (come direbbe Oscar Wilde) mi hanno portato non dico a laurearmi ma ad immatricolarmi. E sono
entrato, per la Giornata dell’Orientamento, per la prima volta, in un’aula universitaria. Mi sembra già qualcosa.
Sebbene queste miserie terrene non interessino più di tanto il Filosofo (e, quale umana istituzione, l’università non è immune dal meritare il disprezzo
dell’Autore), vale forse il discorso già fatto sulle arti marziali: le si prende in giro, ma poi se uno ti attacca ti sai difendere? O no? A me, p.es., piacciono le
lingue; posso anche deridere il Dottore in questi studi: ma sono in grado di sostenere una conversazione con un madrelingua tedesco? O no?
No, lo ammetto.
Ecco allora che la laurea può essere un valido aiuto in questo senso (o per trovar lavoro, ma a questo crederò se e quando lo vedrò). Anche se non è certo per
imparare una lingua che ci s’iscrive all’università (meglio vivere all’estero per il tempo necessario, ovviamente studiandola anche là), bensì per conoscerla nei
suoi diversi aspetti (grammatica, fonetica, letteratura, etc.), procedendo con metodo scientifico. Com’è ovvio.
(Per le lingue, la cosa che serve di più è la pratica: me ne accorsi al concerto di un’italiana che si esibiva con un’americana- Madame P. con Nora Keyes, e
ch’era solita dunque conversare con lei in inglese. Per tutta la sera, evitai di parlare con l’americana, perché non ne avevo voglia, ma anche perché non si
accorgesse della mia difficoltà nell’ascolto di una lingua straniera; però poi le ho chiesto l’autografo, lei mi ha detto qualcosa e la figuraccia è stata inevitabile.
Più di lei, forse, rideva l’italiana! Ho poi scoperto che quest’ultima ha vissuto un anno a San Francisco: grazie al c… ! Bisogna prendere tutto questo come
un’”amara medicina” (il solito Schopenauer) per impegnarsi di più).
Mi si permetta di descrivere un po’ le mie impressioni del mio primo giorno all’università. L’ambiente è “serio”, finora, debbo essere onesto. P.es., ci si dà del
“Lei”. (fuori di qui, a me personalmente non lo danno mai).
Pascal dice che serve , alla Fede, il contenuto, cioè credere, ma anche la forma (o la pratica), cioè andare a messa. Analogamente, la serietà la fanno anche
questi riguardi, di per sé piuttosto futili.
E la serietà è una necessità, all’Università.
Non che io mi aspetti un atteggiamento sempre corretto e rispettoso da parte di persone che dovrebbero, in teoria, tenerlo.
Sono disilluso da tempo, su questo.
Da questo punto di vista, più di una volta ho assistito a (e mi hanno personalmente fatto) “numeri” francamente semplicemente incredibili, specie da parte,
ripeto, di persone così serie.
Un esempio per tutti: la nota medievalista Chiara Frugoni una volta è stata invitata a presentare un suo libro su San Francesco. Conferenza molto interessante,
come si sapeva vista la qualità della studiosa in questo campo.
Sennonché, poco prima di andare tutti a casa, ero lì tranquillo che bevevo il mio bicchiere di spumante (c’era stato un rinfresco), la Frugoni mi si avvicina,
apparentemente per fare conversazione.
Sennonché, comincia a parlarmi in modo quantomeno ambiguo, con un’espressione del viso assurda: direi anzi che parlava in modo canzonatorio, mi prendeva
in giro (!). Ma non è finita: contemporaneamente, un omone grande e grosso (il bodyguard?)(!) sorvegliava la scena, con aria minacciosa o quantomeno vigile.
L’impressione è che, se avessi risposto per le rime alla studiosa (se lo meritava), lui sarebbe intervenuto (mi sarebbe piaciuto vedere in che modo). Ed è
sicuramente quello il “numero” che mi volevano fare (v. l’analoga scena nella “25^ ora”, di Spike Lee).
La sofferenza era atroce, in quel momento, perché lei, chissà perché, INEQUIVOCABILMENTE mi sfotteva, e io ero in imbarazzo se reagire oppure no (lo
sarei stato comunque, ma così ancora di più).
Come tutte le provocazioni, l’ideale sarebbe non riceverle, perché:
-se non reagisci, subisci, e pesantemente anche, e spesso esagerano, e soffri, e molto, e non è giusto;
-se reagisci, cadi nella “trappola” per così dire, ma soprattutto, parlo per me, perdi un sacco di tempo.
Nella fattispecie, sono stato un vigliacco, perché forse la cosa giusta da fare sarebbe almeno stata quella di andar via (un semplice “con permesso”, e filarsela
all’inglese), sempre che l’omone non avrebbe rotto le scatole anche così (persino quando alla fine di tutta la storia sono andato via davvero, mi ha guardato
male!).
Mi consolo pensando che la serata era su San Francesco, e forse lui avrebbe fatto proprio come me (ma con la differenza di non provare rabbia verso gli
oppositori).
Retroscena: durante il rinfresco che ho detto, c’era già stato uno scambio di battute con la studiosa. Si parlava proprio del suo libro, e io le facevo notare
l’utilità dello stereotipo sulla figura del santo (lei aveva messo l’accento, durante la presentazione, sugli aspetti meno conosciuti della sua vita).
Io: “E’ già qualcosa che uno si avvicini a San Francesco, sia pure alla sua caricatura sanbonaventuriana, (anche se la prima vita fu quella di Tommaso da
Celano) prima d’indagare a fondo su cos’è vero (delle tante cose che si dicono su di lui) e cosa no”.
Lei: “E non è ancora meglio trasmettere un’immagine vera? Reale? Documentata?”.
Io: “Ovvio, ovvio, ovvio”, ma detto, lo ammetto, in modo, tra il voluto e il non voluto, ambiguo: la pronuncia suonava più o meno così: Ooooooovvio! (leggi:
ma va là!).
Praticamente, credo di aver lasciato intendere che tutti questi libri su “chi era veramente Tizio”, “il vero volto di Caio”, “le verità taciute su Sempronio”, mi
lasciano piuttosto perplesso.
Che se la sia presa? (sentendo un fondo di ragionevolezza nel mio discorso?).
Per forza che dopo mi ha rotto le scatole!
Ritengo, dicevo, che il suo sia comunque stato un atteggiamento non consono alla sua persona.
Finora a Parma non è successo niente di tutto ciò, anche perché praticamente non l’ho ancora iniziata, l’università.
Però la segretaria di Lettere e Filosofia, durante l’immatricolazione, mi ha già messo in difficoltà, con due o tre cosette irritanti mentre parlava, nonché con un
“arrivederci” detto in modo davvero poco gentile e affatto indisponente.
Per tacere di vere e proprie “squadrate” che ti danno i docenti, (di cui una, terribile, la giornata dell’Orientamento), anche quelli di altre facoltà (!), coi quali
non avrai più a che fare che con un barista di Catanzaro.
D’altra parte si possono paragonare agli ufficiali nella vita militare (v. il mio saggio sulla storia dell’istituzione universitaria in 3.2).
Niente di chè, per ora (debbo dire così…): speriamo di trovarci bene quando si farà sul serio.
Per quel che riguarda l’ambiente, inteso come aule, etc., a Parma è veramente bello, non certo fatiscente. La modernità, la pulizia, l’adeguatezza in poche
parole delle strutture in cui si studia o si fa lezione, le biblioteche, etc., hanno ovviamente un’importanza enorme per lo studente.
Finora non mi sono piaciute solo le sedie, davvero scomode e con poco spazio per le gambe. Ma forse è un modo per tenere vigile l’attenzione.
Dicevo che le strutture (o infrastrutture) sono importanti ai fini pratici, di utilità, etc.
C’è poi però, ho notato, un solo apparentemente secondario aspetto che riguarda la presentazione, la facciata, l’alone di prestigio che si vuole trasmettere, e
che continuerà del resto in modo consistente anche nel mondo del lavoro (non il lavoro, non il lavoro: la preeeeeeeeesentazione!, diceva Schindler-v. il Cap.
18 di questo stesso libro).
Non c’è niente di male. Basta saperlo.
Ma veniamo al vivo del discorso: in cosa consiste l’università? L’ho poi frequentata per un tempo brevissimo (per insufficienza finanziaria), e ho capito due
cose, fondamentali.
Sono stato fortunato perché erano proprio le due cose che cercavo di capire: cosa insegna ( “lei” ) e cosa so (io).
La risposta è, rispettivamente: tutto e niente.
Ero rimasto colpito da un passo del libro di Cesare Marchi (laureato in lettere a Padova) su Dante, al capitolo “Non si laureò”. Cito testualmente: “Egli (Dante,
N.d.R.) non riuscì mai a conseguire un titolo accademico, né a Bologna né a Parigi, per insufficienza di mezzi finanziari, non per cialtronismo di
goliardo bontempone”.
Mi sono reso conto sulla mia pelle di che cosa significhi questa affermazione: prima di mettere piede in un’università potevo sempre pensare: non sono
laureato, come Dante (prima parte); dopo, invece, ho sentito che vantarsi di questo è appunto “cialtronismo di goliardo bontempone” (seconda parte).
La conoscenza profonda di una materia, parlando di istituzioni scolastiche organizzate, te la può dare solo l’università. Anche perché, per la precisione, la
cultura te la fai tu: lei non ti dà proprio niente; per meglio dire: stimoli, non nozioni.
E le possibilità di ampliamento sono infinite.
Nel caso delle lingue straniere, p.es., non si fa “francese” come alle medie e alle superiori, bensì fonetica francese, grammatica francese, letteratura francese,
etc., com’è giusto. Questo è il lato positivo della didattica. Il lato negativo ed assurdo, anche, è invece quella selva di orari scombinati e docenti “volanti” (d’altra
parte sono lì per fare ricerca, non per insegnare…) alla quale non sono riuscito ad abituarmi.
Questo è il punto centrale del discorso, che m’interessa, perché si parla di una scuola: cosa s’impara?
Il resto sono chiacchiere, per me, persino il fatto di trovare poi un lavoro ben pagato (e credo che forse sia invece la motivazione principale di chi vuole
laurearsi…). (Non uso mai il congiuntivo perché è universalmente in disuso, nel caso il lettore se lo sia chiesto). Ma questo riguarda ancora “lei”.
Parliamo un po’ di me: oggi mi sono sentito ignorante. Meglio: ho avuto la certezza di esserlo.
Chi regnò durante il secondo Impero francese (Napoleone III)?
Bo!? La Prof. non l’ha chiesto direttamente a me, ma dentro di me la risposta è stata come nei sondaggi: non so/non ricordo...Ma il punto non è nemmeno
questo, bensì che non so esporre un periodo storico come quello, p.es., con sufficiente completezza e chiarezza ed esattezza: sono ignorante. Non scherzo.E nello
stesso tempo, è importante sapere che era proprio Napoleone III , ricordarselo con esattezza, saperlo: è questa la differenza tra un professore e uno come me.
Prendiamo la Grammatica: forse anche un madrelingua la ignora, così com’è minuziosamente descritta nei manuali, anche se l’avrà studiata un po’ a scuola.
Invece è proprio questo il Sapere…
Si potrebbero comunque sostenere, credo, come direbbe il Guglielmo di Eco, entrambe le posizioni, benché antitetiche: da un lato, all’università s’insegna
poco; dall’altro, s’insegna troppo.
Nella Storia della Letteratura Inglese curata dal Bertinetti, viene riportato che Shakespeare, alla Grammar School di Stratford, imparò, come disse Ben Jonson,
“poco latino e meno greco”. Ma, si affretta ad aggiungere l’autore, il latino e il greco imparati nelle Grammar Schools dell’epoca erano di gran lunga superiori a
quello che s’impara oggi all’università.
Questo per quanto riguarda la prima posizione.
Certo, chi, come me, fa lingue, dovrebbe, a differenza di me, saperle bene già prima, nelle quattro capacità, sia pure disponendo di un lessico poco più che
turistico. Quello che viene “aggiunto” all’ateneo non sarebbe allora, in questo, forse raro, caso molto né, mi scappa detto, importante.
(Poco importa conoscere l’intera storia della trattatistica grammaticale tedesca, come mi fanno studiare, quando la fonetica, come osserva Luciano Canepari, è
tralasciata, peggio, ridotta a un gioco inutile. Le lingue invece, sono forme di comunicazione ORALE, e difatti la maggiorparte di esse non ha-ancora-una
scrittura “di cultura”, e nemmeno pratica). Lasciamo perdere, prima d’infervorarci. (vero è che la filologia mi avrebbe forse aperto nuovi orizzonti, se fossi
andato almeno nel secondo anno di corso).
La seconda posizione è invece sostenibile se si dà un’occhiata al programma di letteratura: in tre (sic!) anni si vorrebbe insegnare l’intero patrimonio culturale
(perché bisogna-bisognerebbe-essere preparati soprattutto in storia, se si vuole capire quella della letteratura o anche dell’arte, o qualsiasi altra) non di una, né di
due, ma di tre nazioni(!). Quattro, con l’Italia, la cui letteratura è impensabile affrontare senza sapere il latino(!) Oltre a ciò, ci sono: linguistica, filosofia del
linguaggio, storia moderna e, nelle intenzioni del corso di laurea, la padronanza delle tecniche informatiche (!).
Certo, è l’università, che mi aspettavo? E difatti non mi sto lamentando. Riflettevo soltanto che, per me, si pecca di megalomania: ma lo sanno questi signori
che più di uno studioso ha passato la vita non su un solo autore, ma su un solo libro di detto autore?
Senza esaurirlo?
Forse il famoso “pezzo di carta” non è realmente molto di più di un pezzo di carta…
E sorvolo sul fatto che, aihmè, i docenti non hanno mancato di prendermi in giro; proprio così: mi hanno preso in giro (!).
In particolare, durante la lezione, ad un cenno della docente di turno, c’era sempre uno/una che si girava per disturbarmi. Incredibile ma vero.
Ma io mi consolo con questo quiz:
sapete come il gruppo di amici di Federico Garcia Lorca chiamava i docenti universitari?
I “Putrefactos”.
Comunque se tornassi indietro a lamentarmi, o a chiedere ragione di come si sono comportati, o semplicemente ad insultarli, non otterrei grandi soddisfazioni.
Un po’ sì, perché mi sentirei meno vigliacco.
Ma cadrebbero dalle nuvole se dicessi quello che han fatto, come se me lo fossi inventato. Come se fosse paranoia.
Negherebbero i fatti.
E questa è una rabbia in più.
Forse superiore alla precedente.
Se cercassi di smorzare i toni del discorso, di parlare più amichevolmente, ugualmente non troverei maggior ammissione dell’incredibile modo in cui mi hanno
trattato (altrimenti non l’avrebbero neanche fatto).
Se infine volessi almeno avere la gioia d’insultarli, non mostrerebbero di prendersela; al punto che ti farebbero anche un po’ vergognare (parlo per me) di dire
simili cose- anche se sai che se le meritano.
Tutto questo lo so per esperienza: il test l’ho fatto nientemeno che in una palestra di arti marziali.
Il tipo è caduto dalle nuvole quando gli ho rinfacciato le stronzate che mi aveva fatto subire; anche se mi è piaciuto vederlo decisamente più tranquillo che
quando gliele rinfacciai mentre ancora frequentavo.
Evidentemente, non voleva che frequentassi la sua palestra. Una volta uscito, per lui il pericolo non c’è più. Se stai ancora frequentando invece, e vuoi
cambiare le cose, (nel senso, che la smettano almeno di prenderti in giro), che io sappia non c’è verso di persuaderli- e per questo s’incattiviscono anche molto (o
mostrano di farlo).
E il punto è proprio che non dovrebbero fare così, punto; una volta che la frittata è fatta, per così dire, tutto quello che puoi fare tu non serve.
E’ lo stesso discorso del voler agire contro il colpevole di una violenza già commessa: in realtà, non potendo modificare quanto successo, qualsiasi intervento
ha valore unicamente di punizione (cfr. le pagine del Welt di Schopenauer dedicate alla questione- tutto il libro IV, in part. il Cap.65).
Potrebbe funzionare in quanto deterrente, al limite.
Ma l’unica cosa ottimale da fare è impedire che ti prendano in giro. Come fare?
Il discorso ovviamente vale per l’università e le arti marziali, ma anche per il lavoro, (per le ditte che ti assumono, per le agenzie interinali), per i distributori di
benzina, per i bar, per le birrerie, per le serate di conferenza, per i backstage dei concerti, per i viaggi organizzati, per le visite mediche, per le concessionarie di
automobili, per le telefonate addirittura: ovunque ci sia l’uomo, o la donna (in ognuno di questi ambienti sociali mi hanno preso in giro, e non sembra che
abbiano intenzione di smettere).
La sopportazione può qualcosa, ma non molto, se si accaniscono su di te.
Comunque la più grossa critica, per quel che mi riguarda e per la mia età, verso l’università, viene da ciò che diceva anche Churchill, e che a Parma è riportato
sul sito internet dell’aula multimediale del Dipartimento di lingue: “I love learning. I hate being taught”.
Un’altra grossa critica verso l’insegnamento universitario delle lingue (parlo solo del mio campo, ovviamente; ad un medico va tutta la mia ammirazione- e la
medicina è uno dei pochi rami del sapere che esigono una preparazione universitaria) è che si trascura del tutto l’argomento “sesso”. Ma forse questo è un
atteggiamento scolastico universale, sia perché riguarda tutti i gradi dell’istruzione (dalle elementari all’università), sia perché riguarda tutte le discipline. Il
manuale Scrittori ed Opere, p.es., ch’era la mia antologia d’Italiano dell’ultimo biennio delle superiori, nel trafiletto che traccia la biografia di Rimbaud, dice
che egli si legò a Verlaine in un’”amicizia particolare”. Perché non hanno scritto che si trattava di omosessualità?
In Storia il silenzio su queste questioni è ancora più deciso- ed inspiegabile. “Se nel piccolo mondo di Omero Troia fu soprattutto un dramma sessuale, se
Cesare era epilettico e omosessuale, Carlo IX tubercoloso e nevrotico, Enrico VIII, si dice, sifilitico, Caterina II una ninfomane sadica, Luigi XVI
parzialmente impotente, Hitler paranoico (e, si dice, con un unico testicolo), allora, nella misura in cui questi personaggi hanno fatto la storia, bisogna
dire che la storia è legata al sesso” (Morali-Daninos, Storia della sessualità, Newton Compton 1994, p. 10).
L’errore di lasciare fuori il sesso è particolarmente grave anche nell’insegnamento delle lingue e letterature straniere, poiché, se lo scopo è (quale è, descritto
nel programma curriculare) quello di impartire al laureando il patrimonio culturale di un determinato paese, come immaginare la Francia, per esempio, senza
pensare al sesso? Il modo in cui l’Occidente vede la donna (oggetto di un’attenzione parecchio esaltata) è francese, ed è di natura unicamente, o comunque
primariamente, sensuale, non certo intellettuale o spirituale. Anche dei tedeschi non si può discorrere tralasciando l’amore carnale.
Che il Romanticismo non si tratti che di questo, travestito da sentimento- il primo grande riscatto dalla repressione sessuale medievale?
Dal momento che l’allievo universitario, poi, è una persona adulta, anche per la legge, e dimostrata l’importanza della questione, fa davvero specie che ai
massimi gradi dell’istruzione si parli di sesso solo, forse, in Medicina, se si vuol diventare ginecologi o andrologi.
E’ vero che Palla di Sego di Maupassant è nel programma d’esame di Francese fin dal primo anno; ma sarei curioso di sapere come viene affrontato questo
racconto. Dubito, p.es., che si dica che Flaubert, cui si deve la fama e l’interesse del racconto, era un grandissimo puttaniere, e forse di Palla di Sego gli è
piaciuta proprio lei, Palla di Sego (bruna, in carne, rotondetta, giovane e voluttuosa)! Dunque ecco che dice: “è un capolavoro, per composizione, comicità e
analisi!”. Se Palla di Sego fosse stata secca e vecchia, coi capelli tinti, avrebbe forse detto (dell’autore): “è fuor di dubbio che il ragazzo si sta facendo!”. Sto
scherzando, ma fino a un certo punto; l’emerito professore di turno dovrebbe, secondo me, dire a chiare lettere: ragazzi, oggi parliamo di Flaubert, il più grande
puttaniere dell’Ottocento francese! Proprio così.
Così come la pornografia è parte del patrimonio culturale di un paese: impossibile negarlo.
Non vedrei niente di male nel fatto che all’università un docente fosse libero di tenere un corso avvalendosi anche di riviste pornografiche, da visionare e
discutere in classe; corso che l’allievo è poi libero di frequentare o meno. (E’ una provocazione, ma fino a un certo punto).
Cfr. il film Kinsey : "uno dei modi per capire una cultura straniera è studiare la sua produzione pornografica; ogni paese produce un proprio
immaginario sessuale, con caratteristiche ben delineate, come la sua cucina. In Brasile prevale la zoofilia, in Italia preti e suore, in Inghilterra
l'educatrice severa (sculacciate e masturbazione), in Estremo Oriente in genere, morbide frustate con morbide verghe". Parole sacrosante.
Personalmente trovo assurdo anche che nelle biblioteche comunali si proibisca di vedere siti pornografici durante la consultazione di internet: basterebbe
disporre le postazioni in modo da essere visibili solo all’utente. Il motivo per cui affermo questo è che la pornografia è parte di internet (anzi, la parte di gran
lunga più grossa, per numero di pagine); allora, se si permette di andare su internet, si deve permettere anche di andare sui siti porno. Altrimenti, un
concessionario che ti facesse provare una macchina, dovrebbe dire: “mi raccomando, esegua solo svolte a destra”!
Vale qui la citazione di Morali-Daninos più su riportata.
L’esperienza accademica mi ha lasciato perlomeno una lista di testi sui quali, se avrò voglia, potrò farmi una discreta cultura, senza avere la spiacevole
sensazione, tipica dell’università, di essere spinto a voler “prendere la ruota davanti”, come diceva mio nonno quando vedeva un ciclista da corsa: impresa
naturalmente impossibile.
Il problema è che l’esamificio quale DI FATTO E’ l’attuale università rappresenta se non altro un forte stimolo a studiare, ti dà la motivazione; importante, se
penso che ho a casa mezza dozzina di corsi di lingue e non riesco ancora a conversare: che c… dice l’altro? (e che je dico io?...).
Pazienza.
Non mi resterà che il piacere di leggere.
O il piacere di fare sport. A proposito:
34.-SULLO SPORT
In 3.3.1. avevo promesso di tornare sullo sport. Per meglio dire, m’interessa l’etica dello sport. Dell’Ottocento in arte si è soliti dire una cosa: che la sua
caratteristica è quella di non avere caratteristiche.
Analogamente, l’etica dello sport consiste di una non-etica, mascherata per giunta. Vediamo perché dico questo.
Prendiamo gli ultimi Mondiali di calcio, Germania 2006. Abbiamo vinto, ma questa vittoria è stato quanto di più sporco ci possa essere. Per tre motivi.
1°: non avevamo un gioco superiore alla Francia, tant’è vero che anche lei è arrivata in finale, e tant’è vero che per tutto il secondo tempo non abbiamo avuto
palle, tranne quelle dei giocatori, ovviamente.
2°: vincere ai rigori non significa assolutamente niente. Se non ci fossero problemi organizzativi, è chiaro che l’ideale sarebbe far ripetere la partita, una volta
giocati i supplementari (o anche senza giocarli) e questo fino a quando non c’è un vincitore (dunque anche tre o quattro partite, perché no?).
E’ dimostrato infatti che ai rigori i più grandi possono sbagliare (e sbagliano, e hanno sbagliato), allora, se di fortuna si tratta, perché non fare un altro tipo di
sorteggio? Magari la monetina
3°: il caso Zidane-Materazzi. A me è apparso evidente che si sia trattato di una provocazione (che Zidane purtroppo non ha inteso) perché il francese si facesse
espellere. Infatti, se restava in campo, poteva essere pericoloso non ai rigori (ho appena detto che anche i campioni sbagliano), ma per i minuti supplementari che
restavano.
E quest’ultima scorrettezza è semplicemente ignobile.
Non ce l’ho col calcio, anche la F1, che mi piace di più, è ricca di scorrettezze. Basti qui nominare i duelli tra Senna e Prost.
In senso più generale, non è comunque accettabile il valore che viene attribuito allo sport per formare l’individuo e soprattutto il gruppo, cioè la società.
Infatti, bisogna considerare che l’etica dello sport s’inserisce in un discorso generale su che cos’è l’etica, in altre parole non si può parlare di sport senza
parlare del bene e del male (così come non si può, che so, parlare di internet senza partire da qualche nozione d’informatica).
“Etica” è un termine di origine greca che significa carattere, costume, abito. Essa vorrebbe rispondere a domande come “quando un’azione è giusta?”; “quando
sbagliata?”; “qual è il principio da seguire, che decide del bene e del male?”.
L’uomo è infatti un animale sociale, e da quando vive in gruppi la legittimazione morale del comportamento è divenuta necessaria per la sopravvivenza di ogni
comunità.
L’etica però non è che il tentativo di una spiegazione sistematica e complessiva delle norme di comportamento (quest’ultime costituiscono la morale), nonché
la ricerca dei principi che le giustificano. E’ puramente teorica, in quanto la pratica è espressa dalla moralità, cioè dal comportamento effettivo di una persona, e
dal rapporto tra tale comportamento e la morale ch’egli stesso riconosce (quest’ultimo influenzato a sua volta dal sentimento morale, cioè del giusto e
dell’ingiusto, che precede il ragionamento).
Questi i termini del discorso.
Oggi però si distingue tra un’etica dei principi e un’etica delle responsabilità; in soldoni, tra ciò che dovrebbe essere giusto (in questo senso non si ammettono,
p.es., le bugie “a fin di bene”) e ciò che, considerato nella sua funzione transitiva, comporta delle conseguenze. L’esempio classico è se pagare o meno il riscatto
per un sequestro di persona: l’e. dei principi risponde sì, per salvare la vita all’ostaggio; l’e. delle responsabilità risponde invece no, per non creare un precedente
dannoso.
Il punto è proprio questo: lo sport agonistico non può seguire ovviamente un’etica dei principi, perché altrimenti si dovrebbe far vincere la squadra avversaria;
quando invece si tratta proprio di far di tutto per vincere, cioè per farla perdere.
Però anche il modello di etica delle responsabilità non è pienamente applicabile. Se due squadre, A e B, che giocano una partita nella quale è in palio il
campionato, sono equivalenti, ma A ha un’attaccante che può far la differenza, e B gli rompe subito una gamba o fa in modo che si faccia espellere, si direbbe
soddisfatto il modello (la squadra B viene ammonita ma poi vince, dunque avrebbe fatto bene).
Ma, anche senza considerare il male impartito, in contrasto con l’e. dei principi (dalla quale però avevamo già escluso questa partita), se tutte le squadre nelle
condizioni di B facessero così, forse B vincerebbe lo stesso, ma perderebbe il campionato perché avrebbe perso altre partite.
In poche parole, il vantaggio non è generalizzabile.
Si vede dunque come lo sport, almeno quello competitivo, non aderisca ad alcun modello di etica.
Cioè l’involucro (l’etica) è in realtà vuoto. L’etica dello sport consiste di una non-etica, come dissi all’inizio del capitolo. Quest’involucro è proprio il
considerare comunemente lo s. una scuola di vita, dove s’impara a convivere con gli altri, a rispettare le regole, etc. etc., quando invece gli unici elementi che
riguardano davvero lo s. sono unicamente la preparazione, il benessere fisico, assaporare la vittoria (ma anche la sconfitta), e soprattutto il divertimento.
Vedere la cosa diversamente è esaltarsi per quei momenti di grottesca aggregazione parrocchiale, e ciò sia detto col massimo rispetto per la buona fede, anche
se cieca (come ogni fede) dei sacerdoti.
Grandi campioni hanno ammazzato e ottime persone invece non hanno mai nemmeno fatto una corsa. Parafrasando Epicuro (“la morte non è nulla, né per i
vivi, né per i morti”): lo sport non è nulla, né per i pigri, né per gli sportivi.
E naturalmente questo pessimistico discorso ignora volutamente, bontà mia, quelli che vengono considerati di solito problemi accidentali o quantomeno
semplici elementi di disturbo, ma che sono invece, da che mondo è mondo, connaturati alla pratica sportiva agonistica:
-la violenza nelle competizioni
-la violenza attorno allo sport
-il razzismo e le discriminazioni in genere
-la problematica del doping
-la disonestà
-la valutazione delle prestazioni non sempre imparziale
-interferenze economiche e politiche
Sport è sinonimo di salute, si pensa comunemente. A proposito:
35.1.-SULLA SALUTE
35.2.-LA PSICOSOMATICA
(questo libro è utilissimo)
Nessuno in realtà capisce perché ci si ammala. In Italia non esiste ancora un Istituto di psicosomatica.
(solo una “Società generale”).
Eppure, quando ci si rivolge al medico generico, su dieci casi , sei o sette non sono che un “mi sento…”, “credo di avere…”, “ho paura che…”, e via
farfugliando.
Quando andai a Firenze, oltre a trovare la Culla del Rinascimento (sopravvivevo comunque…), trovai anche un po’ me stesso (e questo m’interessa già di più).
Confesso infatti ora ciò che non dissi quando parlai di Firenze: che mi venne un “coccolone”.
Ero per strada e, d’un tratto, le gambe s’irrigidiscono e comincio a camminare come un automa. Non riuscivo più a tenerle in riga, avevo delle “scariche” come
quelle di Pozzetto in Mia moglie è una strega. Allora vado al Pronto Soccorso, forse è il caldo, un po’ di astenia. Mi fanno un elettrocardiogramma e mi
dimettono. Mentre torno verso l’auto torno a irrigidirmi, stavolta nella schiena. Sembravo Quasimodo, con la testa incassata tra le spalle. Così chiamo
l’ambulanza che mi riporta, ahimè, nell’ospedale di prima. Qui la stessa dottoressa, arrabbiandosi, mi dice che non ho niente(!)
Dopo un quarto d’ora di battibecco, le azzardo quello che avevo pensato: forse somatizzo il nervosismo. Tornata improvvisa calma, risponde: “allora non
deve venire al Pronto Soccorso”. Lo pensava anche lei, evidentemente. Insisto per farmi dare del Valium (avrebbero dovuto darmelo loro…) e torno all’auto.
Praticamente, lo stress per il cercare da oltre un mese a tempo pieno, un lavoro, senza trovarlo, mi aveva colpito prima alle gambe e poi alla schiena.
Somatizzavo. Erano disturbi nervosi.
Meglio, erano disturbi psicosomatici.
Il miglior libro che tratta specificamente tali disturbi è quello del 2001, Disturbi psicosomatici per l’appunto, ediz. Il Mulino (tra l’altro, è un’editore
bolognese). La discussione di questo libro credo sia un bell’esercizio mentale, perché ogni singola frase può essere approfondita enormemente, cela non un altro
libro ma un’intera biblioteca.
L’argomento non riguarda poi molto la medicina, ma è essenzialmente filosofico. Proprio così. E’ un libriccino di sole cento pagine, tra i più utili in
assoluto.Una delle recensioni a Dianetics di Hubbard sul sito Internetbookshop sosteneva che in quel libro c’è una marea di concetti confusi (un po’ come nel
mio…) e che altri sono quelli da leggere per migliorarci la vita.
Il libro in esame è tra questi.
Oltre al mio ovviamente…
Non solo riguarda la filosofia, ma il confronto tra le culture occidentale e orientale, la sociologia e una quantità di altri argomenti. Non si tratta solo di capire
che un problema di origine psicogena può essere somatizzato fino a riguardare la sfera biologica.
Quando si parla di rapporto medico-paziente, si parla di psicosomatica; quando si parla di anatomia, si parla di psicosomatica; quando si parla di dismorfofobia
(così comune negli adolescenti), si parla di p.; quando si parla di comunicazione non-verbale, specie quella madre-figlio, si parla di p.; quando si parla della
concezione orientale dell’Uomo, si parla di p.; quando si parla di bisogni affettivi, si parla di p.; quando si parla di Platone, si parla di p.; quando si parla di
Cartesio, si parla di p.; quando si parla di causalità, si parla di p.; persino quando si parla, nientemeno, che della Verità, si parla di p.!
C’è forse qualcosa, tra i grandi temi della vita, che resta fuori?
Altro che Hubbard!
La tesi principale del libro è che tutte le malattie sono psicosomatiche.
Io non sono d’accordo. Quando una gamba va in cancrena non c’è un’origine psicogena.
Ma capisco l’accezione nella quale gli autori intendono la loro affermazione.
A volte la mente ci dà la sensazione di avere un corpo, altre di essere il proprio corpo.
Voilà tout.
Non capisco invece, o vorrei saperne di più, quando gli autori scrivono che la separazione tra corpo e mente non è un concetto universale, è un concetto
platonico. I presocratici e i sofisti erano per un principio unico, (chi per il fuoco, chi per l’acqua, etc.), che spiegasse la vita, e così gli indiani e gli orientali. Il
dualismo platonico è poi diventato la base del pensiero e in particolare della scienza occidentali, attraverso il meccanicismo cartesiano.
Il discorso è chiaro e fondato. Ma mi piacerebbe parlarne con qualcuno, perché vorrebbe dire che la dottrina del Divino Platone, come lo chiamava
Schopenauer, ha determinato un errore di fondo, dal quale i libri come quello, ben noto, di Muramoto Il medico di se stesso, hanno recentemente cercato di
risollevare l’Occidente.
E una filosofia che contiene un difetto così evidente, non viene un po’, essa stessa, per intero, sminuita?
In altre parole, l’Occidente vive nell’errore?
La seconda riflessione che mi provoca la lettura di questo libro, riguarda sempre l’università (sembra che ne voglia parlare male a tutti i costi, non è così). Al
secondo capitolo, infatti, si parla del concetto di “causa”, e si distinguono relazioni causali lineari, multifattoriali, circolari e complesse. Come fanno gli autori a
parlare con questa sicurezza dei vari tipi di cause? In parte si giustificano col dire che ogni relazione causale proposta non è che un modello, suscettibile di essere
migliorato o superato. Ma alla fine si afferma che probabilmente seguono un modello complesso, lineare e circolare insieme (un po’ come le onde
elettromagnetiche, la cui natura è insieme corpuscolare e ondulatoria). Però, per esempio, l’inversione dei segni al di là dell’”uguale”, in algebra, all’apparenza
così naturale, ha richiesto secoli per essere formulata. Andrebbe ribadito il carattere teorico di quanto affermato. E ancora: le cose che dicono, se le si prende per
vere, si commette lo stesso errore che sottolinea il matematico di Jurassic Park, cioè si sale sulle spalle di quanti sono venuti prima di noi, e questo in medicina è
pericoloso; poi però, gli autori criticano ciò che fanno loro stessi- evidentemente senza rendersene conto- col dire che l’istruzione universitaria è troppo settoriale
, perché un cardiologo delega i problemi psicologici del suo paziente allo psicologo o psichiatra (qui sono d’accordo).
In senso “filosofico” la mia critica è evidente: l’unica cosa certa che afferma questo libro (o la psicosomatica, ch’è lo stesso), è che non vi sono certezze…
Terza considerazione:*****************************************************************
Un’ulcera è psicosomatica, e può venirti perché la madre ti tratta male. A proposito:
Cara mamma,
recentemente mi hai rimproverato di non avere amici. Tra le altre cose. Per la verità sono almeno dieci anni che mi soffochi e mi rimproveri. Prima non era
così.
Ricordo quand’ero piccolo e mi consolavi praticamente un giorno sì e l’altro pure (piangevo facilmente), venendo in camera mia la sera, e interrompendo
addirittura la cena per far questo. Ricordo che se non ti salutavo, quando andavi al lavoro, stavo male finchè non tornavi. Ricordo che la prima vacanza che feci
da solo (con la nonna), mi mancavi tantissimo.
Non so cos’è successo quando sono tornato da Valenza. E’ da allora che mi “stai addosso”. Adesso, quando mangiamo insieme in cucina (l’unico momento che
ci vediamo, sei sempre all’oratorio) vuoi che stia lì calmo e rispettoso, ma tu puoi fare il Vietnam sul lavello (poi devo pulire io), mi insulti se si parla di lavoro,
(per quanto ti dica che sei offensiva), mi dai “sulla voce” se ti racconto qualcosa (oppure stai zitta tutto il tempo).
Lo so che spesso non mi fai delle sfuriate che mi aspetterei. Ma è peggio così, perché e come quando uno deve venire impiccato: se viene impiccato è morto ed
è finita; ma se deve, nel mio caso, avere in casa una mina inesplosa, può soffrirne per tutta la vita. Salvo poi, nei momenti di vera quiete, tormentarmi con cose di
nessun conto, e sai che io non posso rispondere, o peggio passare a vie di fatto, perché mi verrebbero i rimorsi (e di questo te ne approfitti).
Una madre biblica, e un figlio che ha bisogno di essere rassicurato non dalla legge, ma dall’amore. Me lo dai, questo amore? Ultimamente ne dubito. Se ti
chiedo di abbonarmi ad Auto oggi lo fai, però il modo di rispondere a domande meno pretenziose è spesso disturbante. Hai un radar che ti dice quando io,
internamente, sono in pace e quando invece sono furibondo, nonché tutte le sfumature intermedie. Come fai, dato che spesso non lo so neanch’io? Quando
Roberto parla, ha ragione, però se parlo io, non perdi occasione di ricordare ad entrambi che io avevo il negozio (e adesso è suo).
Questa lettera (o abbozzo di lettera) è ovviamente sulla falsariga di quella kafkiana, (non l’ho fatta “al padre” perché purtroppo è morto), dove si possono
distinguere cinque temi principali:
-il rapporto col genitore in casa (sottotema: i ricordi dello stesso su quant’era dura ai suoi tempi la vita);
-il rapporto col genitore sul lavoro;
-il rapporto col genitore nella pratica della religione;
-lo sviluppo del figlio emotivamente, scolasticamente e professionalmente;
-il (mancato) matrimonio del figlio.
Più un tentativo di risposta del genitore, immaginato dallo stesso figlio.
Resta un esempio di grande letteratura; però, umanamente, Kafka non ha poi così ragione, credo.
E credo sia per questo che la lettera non arrivò mai a destinazione, e non perché, ormai adulto, avesse ancora paura del padre, anche se magari se lo raccontava
ancora.
Sapeva invece che il genitore, come si diceva una volta del cliente, ha sempre ragione.
Cioè, giustamente.
Semmai, secondo me, si sbaglia a voler essere genitori (e difatti io non ho- e mai avrò- figli).
Ma quando si hanno figli, non è così facile essere un cattivo genitore; oppure, si può appunto dire che è facile essere un cattivo genitore…
In entrambi i casi, il figlio dovrebbe essere molto paziente.
Portare avanti, oltre alla propria vita, quella del compagno/a… a me personalmente appare un compito improbo (e difatti non ho mai avuto- e mai avrò- la
ragazza); se a ciò aggiungiamo il portare avanti anche la vita/le vite dei figli…forse un buon genitore è l’eccezione…e un cattivo genitore è normale, se non
esagera…
No, Kafka è un grande scrittore ma ha torto, torto marcio…
Spesso l’educazione filiale è un’educazione religiosa. A proposito:
36.-SULLE RELIGIONI
Ero indeciso se inserire l’argomento nel mio ottimo libro d’esordio, perché non è un argomento ma l’Argomento, per l’importanza che ha, in questo superato
solo dal sesso e dall’economia.
Tuttavia, mi piacerebbe parlare di tutto un po’, perché è meglio sapere poco di tutto che tutto di una cosa sola (con buona pace dei docenti universitari):
“quest’universalità è la più bella” (Pascal).
Faccio un’eccezione solo per la politica. Sbagliando, perché la storia di una disciplina, qualsivoglia, s’identifica con la Storia (dunque, Politica). Ma non me ne
sono mai interessato.
Altrove dirò forse le mie idee anche su questo, poche ma in compenso confuse.
Premessa, e si vedrà che per me questa è anche la conclusione:
le religioni sono, tutte, artificiali, cioè invenzioni dell’uomo, specie le rivelate, e come ovvia conseguenza di ciò:
le religioni vorrebbero essere la risposta, ma non sono invece che la domanda.
E’incredibile (per me) constatare che non esiste produzione intellettuale occidentale da duemila anni a questa parte che sia libera della presenza di Dio (io
penso istintivamente al cristianesimo, ovvio). Schopenauer diceva: “quando mi si parla di Dio, io non so di che cosa mi si parli”.
Mi chiedo chi lo sa.
Cioè, una cosa, una nozione, un concetto, un essere, comunque lo vogliamo definire, che è ASTRATTO, (secondo la prima accezione del Devoto-Oli, che
prescinde dall’esperienza- e Dio prescinde di certo dall’esperienza, tranne che per i mistici), lo si è preso e fatto infiltrare ovunque, come una metastasi tumorale.
(Uso quest’espressione molto forte per rendere quanto sia penetrato il sacro nella cultura occidentale- non le si attribuisca l’identica valenza negativa).
Anzi, ha formato le menti di tre continenti in questi duemila anni, e sta conquistando l’Africa.
E’, lo ripeto, solo una constatazione. Il mondo è anche e soprattutto il prodotto di questa elucubrazione. Impossibile (cioè stupido ed inutile) lamentarsene.
Non so se il termine “elucubrazione” sia calzante. Intendo dire che l’Uomo, con Dio, ha sempre fatto come il fan troppo invadente di Carmen Consoli (v.
Cap.17): cioè, nel tentativo di stabilire un dialogo con chi non può rispondere, si chiede le cose e si risponde da solo.
Ci si faccia caso.
Qualsivoglia opera di teologia, è sterile; nel senso, che ha il proprio fine in se stessa.
Si ragiona, più o meno sottilmente, a volte genialmente, si risponde a un altro autore, ci si “fotte” (mi si passi la parola) la vita.
Ma tutto ciò non prova niente.Ci sembra.
Dio viene lasciato fuori.
Al punto che, ammesso che ci sia, si starà chiedendo: “ma questi qua, cosa dicono?!”
Il più grosso ostacolo al credere, mi viene, personalmente, dall’osservare il numero di religioni viventi (v. il sito del CESNUR): sarebbe veramente superbia,
da parte mia, pensare che la MIA fede sia superiore alle altre, anzi, l’unica che meriti di definirsi tale.
Io la penso come Maupassant: “Per egoismo, cattiveria o eclettismo, non voglio mai sentirmi legato a nessun partito politico, a nessuna religione, a
nessuna setta, a nessuna scuola; né aderire mai a una qualsiasi associazione che professi una qualche dottrina, né inchinarmi davanti a nessun dogma, a
nessun principio o principe, e ciò unicamente per conservare il diritto di dirne male”.
Peraltro le religioni sono riducibili a meno di una decina, partendo dai migliaia di credo esistiti o tutt’ora vivi. Quelle che a me interessano in questa sede sono
solo due: giudaismo-cristianesimo e induismo-buddismo.
Cioè, l’Occidente e l’Oriente.
E già opero una semplificazione che apparirà senz’altro demenziale a chi non abbia letto Gandhi (“non considero il buddismo separato dall’induismo”), o a
chi semplicemente non si renda ancora conto che Gesù non era che un ebreo in un mondo di ebrei.
L’Islam è religione solo in virtù del suo sviluppo storico: non v’è nel Corano alcuna idea apprezzabile, al di là di quel significativo disprezzo della morte che
lo caratterizza, ma che si ritrova anche nella laica casta dei Samurai, per esempio. L’eccezione è costituita dal misticismo Sufi.
A proposito dell’Islam, non è vero ch’è più intollerante delle altre religioni. Questo è un pregiudizio. C’è un libriccino della Laterza, Perché le religioni
scendono in guerra?, che parla per due terzi solo dei musulmani, per mostrare quando una fede esagera.
In realtà, come tutte le religioni che si presentano quale la sola, vera fede salvatrice, anche il Cristianesimo è, per sua stessa natura, intollerante, come fa notare
il Foot Moore.
E’ quella che Schopenauer chiama la “mitologia giudaica”, il rozzo Ebraismo, ad aver inculcato lo stesso atteggiamento mentale nel Cristianesimo,
ovviamente.
Non esiste altro Dio all’infuori di…
Ovviamente dovrei stare attento a dire la benché minima cosa contro l’Ebraismo; tra l’altro adesso pare si rischi di andare in galera, in Italia. Ma un giudizio
sui contenuti di un’altra religione (peraltro riporto solo il pensiero di un filosofo, non sono idee mie- ma le condivido) non equivale a dire che la propria
religione, o addirittura razza, sia superiore; e comunque non autorizza a voler sterminare i fedeli di quell’altra religione…
Il lato morale del cristianesimo è comunque eccellente.
Schopenauer diceva che si tratta di sole quindici paginette: in effetti, sono forse anche meno: i Cap. 5, 6 e 7 di Mt. sono la vera essenza, ed il compendio,
anche, di questa religione. Ma non si confonda la quantità con la qualità: il Vangelo è certamente il primo, o il secondo, tra i pochi libri che FORMANO una
persona, nel senso più proprio ed ampio del termine. Io lo porto sempre con me, anche se non lo leggo così spesso… In auto invece tengo il Welt, e una raccolta
di scritti del Mahatma. Per cercare di essere più buoni, può bastare questo materiale.
Anche se la vera consolazione mi viene unicamente dal mio essere (non dal mio agire, come pretendevano gli stoici); ma quelle letture fanno parte del mio
essere, no? Anche la vita e i fioretti di San Francesco (l’ottavo in particolare) sono molto utili.
Questi scritti aiutano a sentire: per il ragionare ce ne sono altri: sempre il Welt, i discorsi del Buddha, i grandi moralisti francesi (Pascal e Maupassant i miei
preferiti), molto Hesse, e forse qualcos’altro.
Forse il lettore si chiederà come posso apprezzare il Vangelo dichiarandomi schopenaueriano, come se lui non fosse mai nato e dunque non fosse ancora stata
dimostrata l’impossibilità dell’esistenza di un Dio oggettivo, creatore del cielo e della terra, secondo l’ottimistica e rozza mitologia giudaica, sulla quale il
cristianesimo più diffuso- specie quello protestante- è conformato.
Ma l’autentico cristianesimo, di derivazione indiana, pone l’accento sull’ascesi, al pari dei bhikku buddisti o dei sufi maomettani: dunque la conclusione a cui
si giunge, per via affatto diversa, è la medesima della mia filosofia preferita.
Ma, religione a parte, il lettore si chiederà ancora di più come mai forse talvolta io mi contraddico proprio dove mi vanto di avere invece imparato qualcosa.
Per esempio, avrò da qualche parte sicuramente affermato che una tal cosa è in me “innata”, quando so che da Kant in poi non esistono più i concetti “innati”.
Vorrei solo rifarmi qui alle prime righe del Cap. 15.1, dove si spiegava la differenza tra filosofia e pseudo-filosofia: del resto, credo che nessun filosofo (ma io
non sono un filosofo, semmai un filone) pensava per la strada come pensava al tavolo di lavoro, così come nessuno vive come pensa.
Io per esempio non sono sempre così gentile con le donne come lo spazio concesso loro in questa sede lascerebbe credere- né lo era il mio Arthur (una volta
diede uno spintone a una vecchia e dovette pagarle le cure per tutta la vita). Però lui era coerente: delle donne parlava male.
Ma a ben vedere, così come in ogni autore francese c’è un moralista, in ogni religioso- e, a maggior ragione, in ogni fondatore di religione- c’è un pensatore,
un filosofo, un genio.
Che non lascia mai, si badi bene, nulla di scritto.
Gesù e Buddha non hanno mai scritto nulla.
Socrate nemmeno, ma nel suo caso non depone del tutto a suo favore; almeno Schopenauer la pensava così. (chiarisco qui una volta per tutte che scrivo il suo
nome senza la seconda “h” per agilità, e anche per vezzo-del resto lui nel scrivere in greco tralasciava sempre spiriti e accenti).
Senza l’autorità della parola scritta, tuttavia, è difficile imporre la religione. Se a una persona non gli si parla mai di Dio, ne saprà qualcosa? Il quesito è
tutt’altro che nuovo.
E’ certo che, se fin da bambini si ascolta che c’è un Dio, l’adulto non saprà nemmeno prendere in considerazione l’idea che potrebbe non essere così. Su ciò,
anche se apparentemente non c’entra niente, vedi anche il capitolo 6.4.3. di questo stesso libro. *************************
In genere chi bazzica la teologia viene considerato colto. A proposito:
“Non ti dispiace aver buttato via tanti anni di studio?”. Ritengo che non si possa “buttar via” il sapere e mi rifiuto di considerare sprecato lo studio che non
ha una qualche immediata applicazione pratica. In realtà, un capovolgimento di valori rispetto ad una opposta tradizione millenaria, dà oggi il primato al fare
applicativo rispetto al sapere fine a se stesso. All’università, il numero chiuso viene istituito in due modi: o si regola l’accesso in base alla didattica, per evitare di
avere studenti “in parcheggio”; oppure ci si basa su quel che richiede il mercato del lavoro. La seconda possibilità è particolarmente invocata oggi come
necessaria, il che riduce l’università da luogo di produzione e diffusione della conoscenza, a semplice fabbrica di futuri impiegati.
Le discipline scientifiche soffrono questo stato di cose più di quelle umanistiche. La Medicina, p.es., non si apprezza quale pura conoscenza, e si può anche
arrivare, come per la matematica, a vantarsi di non saperla.
C’è un modo empirico molto semplice per sapere ciò che la maggioranza delle persone considera cultura: tutto ciò che ci si vergogna d’ignorare.
Il suddetto pezzo non è mio, l’ho trovato in un libro intitolato La salute consapevole, ediz. Dedalo.
Lo prendo come spunto per ribadire alcune mie convinzioni, che evidentemente non sono solo mie.
La prima è che sono, nell’intimo, sinceramente perplesso di fronte all’istituzione universitaria.
Il che non ha senso; ma si è ormai dimostrato, credo, anche se non lo si ammette, che non sia che un esamificio, una fabbrica d’impiegati, un biglietto da visita
sociale, tutto tranne che una scuola che formi la persona attraverso il gusto del sapere fine a se stesso. Ad onor del vero, quand’anche fosse quest’ultima cosa,
senza immediata utilità pratica, (del fare applicativo), probabilmente direi: “e allora, a che serve?”. Dunque non sono mai contento.
Strano, perché la mia appena bimestrale frequentazione universitaria mi ha se non altro fatto nascere un certo rispetto verso chi ha avuto la costanza nello
studio per arrivare a laurearsi. Ma il sospetto resta.
Forse leggo troppo l’Hesse di Unterm Rad. In effetti, pur se non si trattava della scuola prussiana, anch’io all’università mi sentivo un po’ “sotto la ruota”.
Comunque ingegnarsi per avere la “pagnotta” è cosa buona e giusta, scherzi a parte.
Forse sono troppo vecchio per queste stronzate.
La seconda cosa è forse più importante: mi ricorre in testa la domanda, forse è ormai un’ossessione: chi è colto?
L’autore del libro citato fa giustamente notare che persone altrimenti colte possono benissimo vantarsi d’ignorare la matematica! Aggiungendo subito dopo
che di ciò che s’ignora in genere ci se ne vergogna. Dipende dalla considerazione che si ha per la cosa stessa.
Mi vengono in mente i quiz di “cultura generale”: è una vergogna non sapere quando è nato o morto Garibaldi, però una persona che non lo sa non è vero che
sia ignorante. E’ ignorante perché ignora quando è nato o morto Garibaldi, unicamente in questo senso. Allo stesso modo, una persona che fa sfoggio di cultura
in televisione, non è vero che sia colta. O non è detto.
Che la cultura sia difficilmente definibile, che sia cioè un concetto negativo e non positivo, appare subito evidente dando un’occhiata a qualsivoglia
bibliografia.
Nel libro prima discusso, Disturbi psicosomatici, al capitolo “per saperne di più”, si afferma: “la letteratura psicosomatica è veramente molto vasta, anche
se le pubblicazioni che affrontano questo argomento con serietà non sono molte”. Io sostengo che tale affermazione si possa estendere a TUTTE le
bibliografie.
La stragrande maggioranza dei libri è come la stragrande maggioranza degli studiosi stessi: del tutto inutile. (v., p.es., il presente testo). Forse leggo troppo
Hesse.
Dei libri si può forse dire quello che dice Woody Allen dei film in Hollywood Ending: “Vuoi che faccia un film da cieco?”
Risposta: “Hai visto i film che ci sono in giro?”.
Un po’ come il mio libro: “Vuoi scrivere un libro senza saper scrivere?”
Risposta: “Hai visto i libri che si pubblicano?”.
Vorrei parlare male, per esempio, della mia docente di tedesco all’università, non perché io ce l’abbia con lei (tra l’altro è un bel donnino, e la sua scienza è
davvero libresca), ma perché ce l’ho con lei in quanto mi ha trattato in un modo francamente…Lasciamo perdere.
Ma il mio giudizio sull’unica sua cosa che ho letto (forse è troppo poco) è obiettivo, spero.
E distruttore. Si tratta di una pubblicazione che riunisce vari interventi di germanisti a proposito delle Germanie riunite, cioè di quella corrente letteraria
determinata dalla vicenda del muro di Berlino, in particolare dal suo abbattimento. Si vuole sostenere la tesi dell’Estalgia (sic!), che sarebbe la traduzione del
tedesco “Ostalgie”, a sua volta derivata da Nostalgie (nostalgia). Cioè, la “nostalgia dell’Est” che i tedeschi avrebbero dalla caduta del muro ad oggi. E che ha
prodotto una quantità di libri.
Il motivo che ricorre più spesso è quanto siano dispiaciuti, nel profondo, i tedeschi della caduta del muro, perché ormai rappresentava se non altro una stabilità
psicologica, e soprattutto perché vissero già un dramma nel 1961, al suo innalzamento; cosicché ad ogni generazione la Germania non saprebbe a cosa
aggrapparsi di preciso, se ho capito bene.
I tedeschi non so, ma gli americani di tutto questo discorso direbbero: “bullshit”. Stronzate.
I tedeschi, per esempio, appena un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, venivano già in Italia a fare i turisti (!). Hanno fatto in fretta a
riprendersi!
Ai tedeschi del muro “nun je ne po’ fregà dde meno!”, ne sono assolutamente convinto.
Per questo son tedeschi. Non si piangono addosso. Solo così possono fare le strade più lisce del mondo.
Per quanto riguarda i libri effettivamente usciti sull’argomento, essi non sono forse altro che “instant books”, come si dice con terminologia anglosassone. Un
altro esempio si ha col film Le vite degli altri, osannato ai festival per come girato, ma anche per l’argomento nuovo. E’ un ottimo tema (cfr. 3.3).
Un cambiamento (oltre a quello politico-economico) la vicenda del muro l’ha realmente portato, e sta più che altro nella lingua (la stessa parola Estalgia ne è
la prova), non tanto nelle coscienze. Per esempio, con procedimento tipico di questa lingua, è nata in tedesco un’intera famiglia di sostantivi composti su base
della parola Euro (da Europa).
Ci sarebbero altri difetti ne Le Germanie riunite, a cominciare da un linguaggio francamente non di livello universitario; è che i docenti universitari sono tenuti
alla pubblicazione di un tot di testi all’anno, e in questo caso (ed in altri, infiniti casi) questo è l’unico motivo per avere scritto tale libro, che con quelli tedeschi
ha in comune solo il fatto di essere un vero e proprio “mattone”.
Questa è anche l’occasione per parlare della mia biblioteca personale domestica. Non so se valga l’affermazione: “dimmi la biblioteca che hai e ti dirò la tua
cultura”, perché è più determinante quanto un singolo libro è penetrato nell’anima di quanti se ne sono letti.
Di certo l’elenco dei libri posseduti può dare qualche indicazione su quel che piace ad una persona, a parte quei pochi testi ricevuti in regalo o quelli che si
tengono perché hanno un valore antiquario, di mercato. In genere si compra ciò che si ha voglia di leggere (ma all’università si è costretti a procurarsi e a
studiare libri che non compreremmo mai).
Inoltre, se non serve a dire ciò che uno è, di certo può dire ciò che uno non è: io, per esempio, non sono un matematico, né un poeta, né un artista (v. oltre).
E forse qualcuno vorrà sapere che caspita ho letto per poter scrivere stò guazzabuglio…
Mi sono imposto di possedere solo i libri che stanno nella mia camera da letto, perché volerne avere di più e altrove vorrebbe dire tenere molte cose che non si
sanno, e che probabilmente non si leggeranno, o rileggeranno, mai: si terrebbero solo per un fatto affettivo, pericolosissimo nel caso dei libri (ma l’attaccamento
è dannoso sempre). Al Giugno 2007 ne possiedo ca. 950.
La parte più grossa è costituita dalla letteratura, divisa per la nazionalità degli autori: ogni “buco” della libreria contiene parte del patrimonio letterario di un
Paese. Ho quattro buchi d’italiano, un buco di storia della lingua italiana e grammatica, quattro buchi di tedesco (uno dei quali interamente consacrato a
Schopenauer, ed uno contenente anche corsi e grammatiche), quattro buchi di francese (uno contenente anche corsi e grammatiche), tre buchi d’inglese (uno
contenente anche corsi e grammatiche), due buchi di americano, un buco di spagnolo e latinoamerica, un buco di russo e altre lingue. Gli autori sono tutti
mischiati, non in ordine cronologico, né alfabetico. Fanno venti buchi, la base non della mia cultura, che peraltro non posseggo, bensì del mio piacere. Sotto
questi buchi ci sono due scaffali di storia, uno scaffale di guide turistiche, ed uno di libri di esoterismo.
Nell’altra libreria ci sono i corsi di lingue De Agostini: un buco per il tedesco, uno per il francese, uno per l’inglese e uno per lo spagnolo (comunque non
conosco nessuna di queste lingue). Inoltre ci sono tre buchi di dizionari vari, un buco di corsi di greco antico e latino, un buco di autori greci e latini, e un buco
attualmente vuoto (mi mancano altre opere di consultazione). Sotto questi dieci buchi ci sono otto cassetti di cianfrusaglie (depliants, CD-ROM, lettere, pastelli,
righelli…).
Nella terza ed ultima libreria ci sono: uno scaffale di fumetti (non molti), uno scaffale di libri d’arte e storia dell’arte, uno scaffale di musica (specie sul rock),
uno di religione (non molto fornito, giustamente, credo), uno di qualche libro sulle automobili, sulla cucina, sulla sessuologia (tutti argomenti affini), e uno
scaffale di scienze.
Inoltre ho un ripostiglio per le raccolte di varie riviste, una mensola di libri sul Giappone e le arti marziali, un mobile per i film in DVD (pochi) e uno per i CD
(pochissimi). Tutto qua.
Ma questo non rende ancora l’idea della qualità dei testi da me posseduti, solo della quantità.
Entrando nel dettaglio, dirò allora che la sezione d’italiano contiene: Dante, Boccaccio, Petrarca, Machiavelli, Manzoni, Leopardi, Fogazzaro, Cesare Marchi,
Quasimodo, Montale, Corrado Guzzanti, Carlo Levi, Pascoli, Zavattini, Ariosto, Trilussa, D’Annunzio, Vittorini, Svevo, Luciano De Crescenzo, Goldoni,
Foscolo, Aldo Busi, Buzzati, Pasolini, Casanova, Carducci, Collodi, Baricco, Verga, Tomasi de Lampedusa, Calvino, Moravia, Pirandello, Eco, Della Casa,
Pavese, Tamaro, Freak Antoni, Daniele Luttazzi, Tozzi, De Amicis, Tiziano Terzani, Ruffini, Pinketts, Maurensig e Marco Polo.
Tedesco: Schopenauer, Schmidt, Nice, Hesse, Goethe, Freud, Herrigel, Meyrink, Schiller, Grass, Boell, Lorenz, Mann, Brentano, Kleist, Buchner, Raspe &
Burger, Hegel, Kafka, Musil e Schnitzler.
Francese: Hugo, Zola, Balzac, Gide, Proust, Verne, Maupassant, Stendhal, Dumas pere, Fournier, Baudelaire, Flaubert, Voltaire, Pascal, Huysmans, Rimbaud,
Montaigne, Pergaud, Radiguet, Yourcenare e Simenon.
Inglese: De Foe, Agatha Christie, Carroll, Wodehouse, Conan Doyle, Coleridge, Stoker, Shelley, Stevenson, Jerome, Kipling, Shakespeare, Wilde, G.B.Shaw,
Chesterton, Joyce, Austen, Golding, Lawrence, Orwell, Swift, Woolf, Dickens, Conrad, Tolkien, Scott, Fleming, Milton e il Sir Gawain.
Americano: Blatty, Erica Jong, Cooper, Woody Allen, Hemingway, Benchley, Lee Masters, Kerouac, Twain, Bukowski, Bierce, Faulkner, Miller, Elmore
Leonard, W.S.Burroughs, Capote, Poe, Hawthorne, James, Melville, Whitman, Steimbeck, Scott Fitzgerald, Salinger, E.R.Burroughs, Nabokov e Hooker.
Iberico-latino: Cervantes, De Vega, Isabel Allende, Sepulveda, Amado, Garcia Lorca, Garcia Marquez, Neruda, Guimaraes Rosa.
Russo e altre lingue: Bulgakov, Asimov, Pasternak, Dostoevskij, Checov, Puskin, Ibsen, Tolstoj, Gorkij, Lermontov, Gogol, Majakovskij; Erasmo, Rosamunde
Pilcher (Olanda), Hettne & Fritz (Svezia), Kundera (rep. Ceca), Jacobsen, Jensen, Blixen (Danimarca), Hamsun (Norvegia), Bellow (russo-ebreo-canadese).
Sezione classica: Plutarco, Platone, Omero, Virgilio, Seneca, Cicerone, Ovidio, Epicuro, Sant’Agostino e Aladino e la lampada meravigliosa.
Come si vede, ho i Grandi Classici, soprattutto, più qualche divertimento (Luttazzi tra Dante e Petrarca), di cui non mi vergogno; a volte è sbagliata la
collocazione.
E non ho tutto quello che ha scritto un autore: p.es., di Goethe mi manca nientemeno che il Faust.
Comunque non mi sembra davvero niente male, come biblioteca, per uno con la maturità d’arte.
La domanda che mi sento rivolgere più spesso è, evidentemente: li hai letti tutti?
Purtroppo non ho più la raccolta di libri su Bologna: l’ho venduta!
Sono un bibliofilo, non un bibliomane.
Sulle altre “sezioni” c’è ancora qualcosa da dire: quella di storia comprende tutte le opere di Indro Montanelli, oltre ai libri sul Nazismo; quella di
consultazione manca solo di una Grammatica italiana degna di questo nome, e di un dizionario Greco antico-Italiano (per il resto è ben fornita-a parte un
dizionario etimologico di cui non sento la mancanza: Devoto-Oli, Castiglioni-Mariotti, Boch, Ragazzini, PONS, Ambruzzi); ho una cassettiera con tutte le Guide
Rosse del TCI, prima non l’ho detto; la sezione giapponese ha qualcosa di Mishima, oltre a testi di e su Funakoshi; la sezione d’arte non è molto fornita: l’Electa
e qualche monografia- però c’è molto Monet, il mio pittore preferito- ma mancano quasi tutti i saggi di psicologia dell’arte; come fumetti, ho la collana completa
di Repubblica del 2003, oltre ai Peanuts ovviamente; di musica, ho tutto lo Scaruffi, e molte “storie” e spartiti di Beatles, Rolling Stones, Doors, musica Country,
oltre ai testi sul valzer viennese; di religione, ho la bibbia della Piemme, il Corano, gli scritti di Gandhi, e diversi libri su Buddha e San Francesco; ho una mini-
biblioteca sulla Citroen; la raccolta di misteri della Hobby & Work, oltre ai libri di preastronautica (Kolosimo, von Daeniken), e quelli di Douglas Baker;
qualcosa sul sesso, soprattutto posizioni e fisiologia; qualcosa sugli alcolici, specie sull’whisky; diverse annate di riviste (Oasis, Jesus, Auto Oggi, Abstracta,
Orologi, Budo international); un centinaio di DVD registrati dalla televisione, e una manciata di CD di R&R e Country, oltre ai valzer di Strauss ovviamente.
Resta solo da aggiungere la sezione di Scienze, che da piccolo erano le mie predilette; oggi mi accorgo di non avere niente: qualcosa sui dinosauri, e tutti i testi
più completi sulla Gemmologia.
Comunque pensare di avere molti libri è soprattutto ingenuità. A proposito:
29.7.-SULL’INGENUITA’ IN ARTE
Lo spunto per parlare di questo mi viene dall’acquisto di una monografia sul pittore forse più associato all’infantilismo: Rousseau. E anche dal fatto che nella
mia terra, a ridosso (quasi) del Po, c’è il Museo Nazionale delle Arti Naives.
Dai Naifs il Doganiere può forse essere visto come un caposcuola.*****************************
Diversi quadri di Rousseau contengono un elemento voyeuristico. A proposito:
13.2.-SUL VOYEURISMO
(questo capitolo è una perla)
INTRODUZIONE
E’noto che nel maschio l’eccitazione sessuale è determinata soprattutto dal senso della vista. La femmina pare sia più cenestesica, cioè influenzata dalle
sensazioni; p.es., dal potere evocativo della parola (una persona che sappia parlare è facilmente un gran seduttore), piuttosto che dall’atmosfera della situazione
(la grande vendita di racconti romantici può essere vista come il parallelo delle riviste per soli uomini), e persino dal timbro di voce o dagli odori. Per questo si
dice che “l’uomo s’innamora con gli occhi, la donna con le orecchie”.
Non voglio entrare nel merito dell’affermazione (anche le donne hanno pensieri erotici, e a loro piace molto il sesso fine a se stesso, almeno quanto all’uomo)
per concentrare invece l’attenzione sul guardare del maschio.
Ci sono cinque aspetti da tenere presente quando il piacere di vedere il corpo femminile diventa eccessivo. Ovviamente bisogna intendersi su cosa significhi
eccessivo. Io ci sono passato. Per quel che mi riguarda, è quando ti accorgi che cerchi la visione dell’altro sesso in modo pressoché continuo, anche a casa o in
qualunque altro contesto, non solo in situazioni “normali” (come il girarsi se passa una bella ragazza per strada).
Un’altra caratteristica di “eccessivo” è che ti piace pressoché ogni donna, per meglio dire, ogni culo, ogni seno, ogni viso. Un’altra ancora è che senti che
questo ti dà sì piacere, ma un piacere dal quale sei dipendente; lo avverti bene, dentro di te, che faresti meglio, che STARESTI meglio, una volta tanto, a star
tranquillo, ad evitare di guardare proprio lì.
Ma DEVI guardare; e quando lo fai, non ti basta più averle visto il seno, ma detto seno lo vuoi vedere di profilo, p.es., chè forse offre un volume maggiore o
una forma più eccitante allo sguardo.
Più guardi, più guarderesti (come in Autofocus di Paul Schrader).
Ci ripensi, quando sei solo. Torni in un luogo IN FUNZIONE di una ragazza che ti è piaciuta (e non sto parlando della sua conversazione!). La cosa diventa
un’ossessione. Ti metti gli occhiali scuri per poter osservare meglio senza essere visto (in realtà se ne accorgono), ti arrabbi se non ti usano la cortesia di
“esibire” la parte in questione, o se ti usano la malizia (molto frequente, su queste cose sono sveglie in un modo che si direbbe innato) di non mostrarla nella
posa che vorresti, o di mostrare un’altra parte, la meno attraente; mentre una donna ti parla le guardi solo le labbra, o l’iride dell’occhio (per contemplare meglio
il colore), e assumi inconsciamente un’espressione facciale che significa, pressappoco: chissà in una data situazione come ti comporti, se sei così “quadrata”,
bella porcona! (e questo perché lo stai pensando…); cerchi pose diverse persino del viso, delle gambe, guardi l’acconciatura (“la donna è come il maiale… non si
butta niente”, arrivi a pensare), fino a spiare col binocolo una fanciulla che ti è piaciuta, e a tornare indietro per spiarla, se è solo passata velocemente; a stare con
gli occhi incollati alla barista o alla cameriera della birreria; e persino a registrare o fotografare col telefonino la ragazza, o parte di essa per meglio dire…
Bisogna, ancora una volta, intendersi sui termini del problema; il confine tra normalità e disturbo è sottile e indefinibile; e ritengo anche che la visita ad un
sexy-shop praticamente fa prendere atto di come si annulli il concetto di “perversione”, o la valenza che gli si attribuisce.
E’ normale e naturale che un uomo guardi una donna (e ovviamente anche viceversa) se le piace. Non sarebbe normale il contrario (non mi riferisco
all’omosessualità: dagli anni Settanta gli psicologi concordano sul fatto che è una normale espressione sessuale).
Vietarsi di girare la testa è francamente eccessivo; ricorda troppo il volersi imporre una condotta di vita fatta soltanto di repressione, uno sconcertante, risibile
ed odioso e disturbante etc.etc. esempio della quale, ce lo danno i puritani.
Se i siti di gran lunga più numerosi (e visitati) su internet sono quelli pornografici, non ci sarà troppo da preoccuparsi…
Se, all’affermazione di un inquirente, in un talk-show dove si parlava dei serial-killers, il quale sosteneva che forse un forte consumo di pornografia significa
un certo squilibrio, il criminologo Bruno rispondeva: “attenzione alle riviste pornografiche, che si vendono, in Italia, in MILIONI di copie”, per dire che
questo non significa niente, non ci sarà troppo da preoccuparsi…
Se basta mettere una bella donna, o qualche cm. della sua pelle, in film, periodici e trasmissioni televisive per assicurare loro il successo, non ci sarà troppo da
preoccuparsi…
Infatti credo anch’io che il problema non si ponga, soprattutto perché è difficile sapere la modalità nella quale porselo.
Semmai mi chiedo come facciano le donne che volessero, giustamente, soddisfare i loro pruriti, vista la scarsità di stimoli riservati a loro, rispetto a quelli
rivolti all’uomo: calendari maschili ce ne sono pochini, così come è pochino accontentarsi dello strip dell’8 Marzo.
Vero è che internet ha cambiato un po’ le carte in gioco: i siti di incontri sono utilizzatissimi dalle donne, e girano anche un sacco di goliardate (godibilissimo
quello delle quattro soldatesse toscane che mostrano il culo, Dicembre 2006).Forse si affidano al fare, senza tanto girarci intorno, nel senso che non hanno
bisogno di vedere un uomo nudo in calendario quando possono averlo in carne ed ossa, se si mettono in testa di sedurlo (perché a mio avviso, è sempre lei che
seduce, anche se l’uomo pensa il contrario; di certo lei guida il gioco). La donna un uomo lo trova sempre, anche se mi risulta che circoli un proverbio opposto.
Ma può anche darsi che da questo punto di vista ci siano un po’ superiori, si sanno trattenere di più; o ci pensano meno; o vattelapesca.
Ma questa è solo una digressione. Si parlava del come scindere il problema del guardare nei suoi vari aspetti. Io ne ho individuati cinque:
-religiosi
-morali
-legali
-di “pubblica decenza”
-di benessere personale
A questi andrebbero forse aggiunti aspetti culturali, poiché il bombardamento d’immagini della società attuale invoglierebbe anche un morto, si potrebbe
pensare. Ma non credo che in privato questo cambi le cose. L’Ottocento francese credo ne dia conferma: adesso in pubblico c’è meno pudore, tutto lì.
L’unico impatto culturale forte è stato riguardo il fittizio concetto di amore romantico, impostoci da Hollywood (v.oltre).
Mentre si possono semmai, trovare riferimenti nelle arti al voyeurismo. Non voglio affrontare l’argomento, poiché non mi sono proposto di trattare tutto il
sapere umano. Si pensi solo all’elefante che spia la donna nuda nel Sogno di Rousseau.
“E perché non dovrei più, sia pure con una certa insistenza, guardare le donne?”. Rispondiamo.
Gli aspetti religiosi non mi riguardano: ‘un credo in nulla, come direbbe un fiorentino.
E non si tratta di avercela col cristianesimo, chè tutte le religioni sono sessuofobiche, ovviamente e giustamente. Tutto il monachesimo medievale non era che
un fuggire dalla donna, è stato detto. Ma anche Gandhi era per il celibato, inteso come castità: “di questo non voglio nemmeno discuterne” (Discorso
all’auditorium YMCA , Madras, 16 Febbraio 1916).
Sugli aspetti morali è difficile intendersi: cos’è morale? E dunque cos’è immorale (o amorale?). Di solito vengono in aiuto gli altri aspetti elencati, cioè proprio
la religione, la legge o la psicologia. Prendiamo il genere “kaviar” , presente nelle videoteche dei sexy-shop. Si tratta di video nei quali le persone si eccitano con
gli escrementi (pare che i tedeschi siano specialisti in questo campo). Oppure le scene di zoofilia.
Sono perversioni? La domanda è sincera, non retorica.
Magari una donna giura: “non lo farò mai”; poi prova e le piace, così come forse è già avvenuto con il sesso al di fuori di un rapporto amoroso o monogamo.
Pensava: “debbo essere innamorata”, poi ha provato e ha visto che, a saperlo fare (cosa non facile), anche il sesso per il sesso può essere bello.
Io, p.es., ho un debole per il genere “pissing”, “ebony”, “fat” e per quello a tre (due donne e un uomo) però il kaviar mi ripugna.
Credo che siano contraddizioni in termini.
Degli aspetti legali ugualmente non mi curo, non posso curarmene, così come non se ne curava Burroughs nel descrivere le sue esperienze di droga ne Il pasto
nudo.
Forse l’argomento maggiore contro l’eccesso del guardare viene dalla cosiddetta “pubblica decenza”. Effettivamente, non è un bel vedere, indipendentemente
dal contesto sociale (ci sono ambienti obiettivamente più adatti, e quasi indifferenti- tralasciando ovviamente i luoghi come i club di lapdance), un uomo che
“sgolosa” davanti a una ragazza o una donna, con tanto di lingua fuori che gocciola per terra (come nei cartoni animati). Qui bisognerebbe forse trattenersi un
po’.
A meno di metterla sul ridere.
Il problema poi nasce se l’oggetto del vedere non è niente di speciale: più è bella infatti, più appare naturale guardarla a lungo, o eccitato. Ma non si dovrebbe
notare troppo, in teoria.
Ai concerti di band (interamente o quasi) femminili, p.es., è giusto enfatizzare l’osservazione, secondo me, giocandoci, ed è anzi odioso far finta di seguire la
musica; checché se ne dica, e non è un discorso maschilista, l’attrattiva di quei gruppi sta nella bellezza, e direi anche: meno male che è così.
Non dico che non sanno suonare, ma la presenza scenica eccitante fa piacere molto di più la canzone, la quale, il più delle volte, è mediocre o eseguita
mediocremente (diciamoci la verità).
E’ divertente leggere la maggior parte delle recensioni di un gruppo all-female.
L’autore si trova in grande imbarazzo.
Una recensione diceva: anche col look ci sanno fare.
Un’altra: spero non dispiaccia alle ragazze se sembra un discorso maschilista.
Un’altra ancora: escono dalla massa “tutto fumo e niente arrosto”.
Cioè, sembra che al giornalista, che prima di tutto è un uomo, dispiaccia di aver pensato: ma guarda che pezzi di f…!
A loro (a queste ragazze) non dispiace; piuttosto, sono indifferenti; o ci marciano.
Giustamente.
Né la cosa paia di poco conto: è, in un campo specifico, quello musicale, l’eterna difficoltà di relazione tra i sessi: di fronte ad una bella donna, sei ovviamente
eccitato, o comunque intrigato, o quantomeno inquieto; però ti dispiace, anche sinceramente, di questa componente tra voi due.
O che lei se ne avveda.
La cosa non paia sinistra; ma un po’ la è.
Il complimento diventa un campo minato: come esprimere interesse senza apparire eccessivo? Personalmente vado in crisi.
Anche perché si diventa francamente ridicoli.
Alla bassista delle Jadish ho detto: “hai più tette di Morgana (la chitarrista delle Bambole)!”
Pensavo almeno di andare sul sicuro.
Nel senso: a questo penso, e questo ti dico.
Nessuna, inspiegabilmente, mi ha mai apprezzato simile sincerità.
Rivedendola le dico: “sei imponente (nel senso che ti imponi sul palco); se Morgana non fosse bionda, la tua presenza scenica sarebbe migliore”.
E lei ha fatto l’offesa. Mai parlare di altre donne.
Invece era un (arzigogolato) complimento.
In realtà volevo dirle: “sei la bassista più bella che io abbia mai visto” (ed era vero), ma prima una sua amica si avvicina e le fa (per canzonarmi): sei la più
bella (…) che ci sia.
Mi è sembrato che avesse tolto alla mia frase la sua freschezza primigenia (d’altra parte l’ha fatto apposta).
Comunque Antonella (la bassista morettona) avrebbe fatto sempre la stessa faccia ieratica da statua egizia, poiché è quella che ha tenuto tutta la sera.
Probabilmente si è sbellicata dal ridere quando sono andato via.
Ma come mi sono comportato non l’ha toccata minimamente.
Ma con la batterista ero in crisi: pareva volesse continuare a parlare delle sue tette, e io invece no; o non in quel modo (sapevo che uno sviluppo della cosa era
comunque improbabile, impossibile; eppoi mi sto convincendo ch’è più bello se ci si conosce almeno un po’- su questo ci vorrebbe un altro libro).
Forse lei l’ho “toccata” un po’ di più (ma non credo- eppoi, perché voglio “toccarle”?), perché non facevo che ribadire l’importanza delle band all-female (ed
era vero).
Insistevo in particolare sul fatto che un gruppo con anche un solo maschio- in genere il batterista- non è di certo un gruppo femminile.
Ma rispondeva sempre con un riferimento alla carne, e alla sua in particolare.
Vabbè che le avevo detto che il motivo per il quale le seguo è sostanzialmente di natura visiva…
Nella fattispecie, il problema non si pone, perché non faceva che prendermi in giro, le donne con me lo fanno da anni ormai; ma riflettevo sulla cosa in senso
generale: alla Cristina Scabbia (dei Lacuna Coil) dicono: mi piacerebbe sposarti- non è vero, la frase giusta è: mi piacerebbe scoparti (cfr. An american werewolf
in London: “stai parlando della ragazza che amo”- “sto parlando della ragazza che ti vuoi scopare”-”Ahahah; vero!”); e questa indecisione ci prende tutte
le volte che una donna pronuncia una frase ambigua.
Tutto ciò potrebbe rientrare in un racconto di Maupassant, il cui titolo sarebbe IL BIVIO.
Mentre si sta conversando con una donna che ci piace, viene sempre in mente di buttare lì una frase che alluda al sesso e/o all’intimità.
Il problema nasce quando lei risponde con una frase dello stesso tenore: che significa? Sta solo prendendo in giro (come fanno sempre con me) o è realmente
intrigata?
Ecco il bivio: affondo, per così dire, insisto sulla cosa, oppure continuo a parlare d’altro?
Cfr. Jim Morrison: “ubriacarsi…ad ogni bicchiere ti chiedi: ne prendo un altro, o lascio perdere? Immagino che sia la differenza tra il suicidio, e una
lenta capitolazione…”.
Il paragone è calzante, secondo me: mi ubriaco, e lascio che lei mi catturi, o lascio perdere?
Chissà quante occasioni si perdono in continuazione per via di questo “sfasamento” degli animi, ovviamente non sto parlando dei timidi come me.
Fino al punto di credere di aver sposato l’unica persona giusta, perché l’unica ad averti dato certi segnali: non è vero, eri tu che non sapevi farteli dare…
Al limite, può esserci una con una bella voce.E occhio alla batteria. Comunque io non me ne intendo. Guardo-quasi- solo la presenza scenica. In generale mi
sembrano oneste artigiane e poco più, perché molto influenzate da una certa serialità: una grossa corrente, la maggiore, si rifanno tutte a due o tre artisti- Babes
in Toyland, L7, Courtney Love- e cantano in inglese.
Il resto canta in italiano, con riferimenti facili e sfruttati- i Ramones della Dani delle Bambole.
Poi c’è un intero filone metal, ancora più seriale. (Se proprio debbo parlare, tra quelle che ho visto, le più brave sono le Jadish e le Dissolutio; poi vengono le
Bambole, le Kyuuri, le La Menade, le Valvolettes, Dirty Wings; le Diva Scarlet saran brave ma non mi piacciono).
In QUESTO senso, essere donne è determinante, fino ad assurgere a motivo d’interesse predominante nell’economia della band.
(Parlo per un maschio, ovviamente, ma fino a mezzogiorno. La bellezza è apprezzata anche dalle donne, e nelle amicizie femminili profonde c’è sempre una
forte componente di omosessualità).
Ai concerti rock dunque osservare è “normale”.
Meno al McDonald, p.es., e ancor meno altrove. (certo che i pantaloni delle commesse del “mecc” sembrano fatti apposta per enfatizzare il culo; e non mi
stupirei se, insieme ad uno studio su quanto a lungo cuocere le patatine, ci sia dietro anche uno studio sull’abbigliamento, in apparenza molto formale, in realtà
terribilmente sexy, specie i pantaloni blu senza tasche posteriori).
(Sulla pubblica decenza, o sull’ipocrisia, che sono quasi la stessa cosa, vedi anche più avanti).
Il fattore determinante del voler smettere, credo giustamente, certi eccessi nel voler vedere l’altro sesso, sta per intero e unicamente, credo, nel benessere
personale. Sia chiaro che tutto ciò che ho descritto finora non ha niente a che fare col voyeurismo, più di quanto non abbia a che fare col voyeurismo il Grande
Fratello (la persona osservata dev’essere inconsapevole). Mentre per il Truman Show il termine sarebbe appropriato, se detto show avesse una connotazione
sessuale (e in camera da letto invece la telecamera non entra, come si ricorderà).
Da internet: si definisce voyeurismo la deviazione sessuale consistente nel ricercare l’eccitazione o la soddisfazione sessuale nello spiare, da luoghi sicuri e a
loro insaputa, coppie che fanno l’amore, o persone nude o intente a spogliarsi.
Il voyeur, di solito, ha difficoltà ad avere rapporti eterosessuali e limita perlopiù la sua attività sessuale alla masturbazione.
Mi piace osservare le donne alla luce del sole, (sia pure con un po’ troppa insistenza), dunque né nude né a loro insaputa.
Quanto al voyeurismo mediatico (i siti porno in internet), questo è un altro discorso. Ma neanche quello è voyeurismo. Certamente non lo è la pornografia.
(comunque in internet ci sono anche i siti per voyeurs).
Per quel che riguarda me, credo che si tratti della stessa differenza che c’è tra gli oppiacei (eroina e cocaina) e l’haschisch o l’LSD. Il voyeurismo sta ai primi
come il mio hobby sta ai secondi. E’ noto infatti che le canne e l’acido non provocano dipendenza fisica, solo ATTRAZIONE PSICHICA.
Se smetti di bucarti, vai in astinenza; se smetti di “fumare”, no.
Il problema si affaccia quando ci pensi troppo, e la cosa potrebbe assumere colorazioni attinenti in qualche modo a una dipendenza da droga. L’hobby diventa
mania. Cioè, fai quelle cose che ho descritto nelle prime righe di questo capitolo, subito dopo l’introduzione.
Ho notato che, non a “castrarsi” (quante virgolette sto usando!), ma ad imporsi una misura, si sta molto meglio. Molto. Se una donna mi sta intorno perché
vuole farsi notare o guardare e finanche osservare da me (mi capita spesso) posso anche darle soddisfazione, e spesso ne vale la pena.
Ma senza esagitarsi. Senza imbambolarsi. Senza cercare nuovamente l’oggetto del piacere.
Comunque, a ben vedere, tutto ciò potrebbe anche essere inteso come un omaggio all’”altra metà del cielo” (confesso che non so di chi sia quest’espressione,
ma mi piace molto). C’è infatti un argomento che non ho ancora introdotto e che invece andava messo per primo, chissà.
Ed è questo: alle donne dispiace essere guardate, e finanche osservate?
O piuttosto, non fa loro piacere? E molto?
Non tiriamo in ballo le pornostar, le quali dichiarano tutte: “sono esibizionista” (però prendiamo atto della loro affermazione, sono donne anche loro).
Partiamo da Erasmo: “Gli uomini amano le donne per la loro follia. Infatti quando Platone sembra mettere in dubbio se collocare la donna fra gli uomini o fra
le bestie, altro non vuole indicare se non la straordinaria follia di questo sesso (…). Non sarà però così folle, credo, da prendersela con me perché attribuisco loro
la follia, dato che anch’io sono donna e sono anche la follia in persona (…). Dovrebbero anzi considerare un dono la loro follia, perché sono molto più fortunate
degli uomini sotto molti aspetti. Intanto hanno il dono della bellezza, che giustamente esse giudicano la cosa più preziosa di tutte, e che permette loro di
esercitare una vera tirannia sugli stessi tiranni (…). E d’altra parte, che cosa desiderano dalla vita, se non di piacere sempre agli uomini? Non è forse
questo lo scopo a cui tendono con tante cure, tanti belletti, tanti bagni, tante acconciature, unguenti, profumi, artifici di tutti i generi coi quali sogliono
abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? “
Così Erasmo, e non credo che s’inganni. Ma ognuno se ne accorge per conto suo. Sono particolarmente brave a mettersi in mostra, ad attirare l’attenzione
conservando però un’espressione del viso contraria al piacere che stanno provando. Altrettanto spesso sono però visibilmente compiaciute ed esuberanti nel
volersi fare osservare; in particolare, a me capita questo in genere proprio nel momento in cui ho deciso che, almeno per un po’, starei bene senza pensare al
sesso e alle donne. Un uomo è quasi obbligato a guardare, specie se la bella donna insiste per farsi vedere.
E loro lo sanno. E’ il demone della carne che tenta l’uomo; anche se (cosa rara) questi dovesse già rendersi conto che spesso e volentieri nella donna,
soprattutto in un rapporto di una certa durata, ti accorgi che albergano le idee più folli, le convinzioni più sciocche, gli argomenti più capziosi, i pregiudizi più
strampalati, al punto che il solo pensiero di affrontare una nuova discussione con lei provoca uno scoramento, ed un abbattimento dello spirito.
Ma… se è tanta…o se comunque piace…
Forse leggo troppo Maupassant. Su trecentoquattordici racconti che ha scritto, solo in diciassette (sic!) di essi ho trovato una donna totalmente BUONA, e
soprattutto che non mentisse in qualche modo. Le altre duecentonovantasei novelle ci presentano sempre, in vari modi, una femme fatale, sostanzialmente
(almeno dal punto di vista dell’uomo): una donna deliziosa ma astuta e che per noi maschi risulta essere sinistra. (Ne avanza una, L’inutile bellezza, nella quale la
donna è addirittura capace di giurare il falso; ma qui non si tratta che di legittima difesa).
Persino quando ridono, apparentemente senza motivo.O quando ti fanno del bene, è chiaro in che senso (ma pronte a tagliar la testa al legittimo marito). O
quando si vendicano da morte. O quando escono da una stanza come se avessero recitato la loro parte. O quando giurano il falso. O quando non parlano, ma
sanno che i loro occhi sono molto più eloquenti. O quando respingono le “sconvenienze”, ma si dichiarano offese se non ci provi.
O quando…
Letteratura, si dirà. Però mentre leggi questo grande narratore, qualcosa ti dice sempre, forse più divertito che sgomento: “è vero, fanno proprio così…! Che
p…!”
Che io sappia, nessuna critica è mai entrata NEL MERITO di come è la donna maupassantiana. Tutte le critiche parlano della vita dell’autore, dedicando uno
spazio forse esagerato alla sua pazzia, specie dal 1890 in poi; oppure si soffermano sulla sua prolificità, sullo stile letterario (ma non quanto meriterebbe), e
fanno una suddivisione dei racconti (preferisco questo termine a “novelle”, contes in francese) per argomento: p.es., molti sono quelli ambientati in Normandia
(una sessantina, su oltre trecento).
Ma, spero di sbagliarmi clamorosamente, si ha paura di esprimere un giudizio su come la pensava, su come vedesse le donne in particolare, l’autore-filosofo;
così come Sossio Giametta, p.es, critica tranquillamente (troppo e a sproposito per la verità) la filosofia di Schopenauer.
Al limite si cita Sur l’eau, che riporta alcune riflessioni, ovviamente pessimiste, di questo spirito profondamente pessimista, influenzato dal solito
Schopenauer. Ad onor del vero, Mario Fortunato, in appendice al volume n. 275 dei Tascabili Einaudi, afferma che, vittime o carnefici, le donne in Maupassant
sono sempre doppie, prive d’innocenza. Com’è possibile, si chiede, l’amore spirituale accanto a simili creature? Ben detto.
Però poi cerca di moderare quanto appena spiegato col dire che vi è, in Maupassant, una malcelata vena romantica (?!).
Ma nessuno che si azzardi a dire che la donna di Maupassant è sostanzialmente vera. Per meglio dire, non lei; la maniera in cui viene descritta è vera.
Lei è al contrario la menzogna, la dissimulazione in terra: e Maupassant si limita a fotografarla
Io temo che un tale giudizio sull’opera dello scrittore-filosofo francese verrebbe tacciato di maschilismo; verrebbe quantomeno visto come un eccesso, una
forzatura. E non solo dalle donne.
E sarebbe giusto, credo.
In effetti, quanti sono felici nella vita grazie all’amore di una donna, e non lo sarebbero senza! Questa condizione, insieme a una vita all’aria aperta, e ad altre
tre, che non ricordo, veniva anzi indicata nell’Ottocento come una delle cinque condizioni necessarie alla felicità di un uomo.
Inoltre, come al cinema, in letteratura è evidente che non si può far vedere una donna-angelo (si cadrebbe, sebbene all’estremo opposto, ugualmente nella
macchietta), che non mente e non tradisce, pronta sempre a soddisfare l’uomo: troppo noiosa.
E bisogna anche premettere che della donna spesso l’uomo, in Maupassant, è la sua giusta metà: ugualmente ipocrita, ugualmente sensuale, ugualmente
prepotente, ugualmente indifferente al dolore.
Nel racconto La dote, il marito scappa coi soldi della moglie, che lei, innamoratissima, gli aveva affidato! E in Storia vera, l’amore di Rosa è commovente, e il
cinismo del protagonista agghiacciante.
E nel romanzo Notre Coeur, sia Michele che Elizabeth, sono decisamente “buone”.
Detto tutto ciò, tutti i lettori dei suoi racconti, uomini e donne SENTONO, checché ne dicano, che, per esempio, un certo odioso e terribile modo di fare
un’affermazione, ambiguo quanto l’affermazione stessa, è tipicamente femminile; che l’impeto della natura di voler fare figli, servendosi (non è colpa della
donna), della donna, è tipicamente femminile (come la natura stessa del resto, e come la follia);
che la bellezza, l’arma più potente del mondo, perché scatena l’istinto più potente del mondo, l’istinto sessuale, è tipicamente femminile; che l’invincibile
astuzia, messa in atto senza sforzo apparente, è tipicamente femminile; che l’approfittarsi del fatto che l’uomo, nella sua meschinità, prende spesso e volentieri le
parti di una donna, è tipicamente femminile; che il riuscire a parlare senza dire niente, ed essere eloquenti, od ambigui (con lo sguardo, con la mimica, anche non
facendo assolutamente nulla, restando immobili) è tipicamente femminile; eccetera.
In due racconti (tra gli altri) poi, L’oliveto e Una sera, la donna è un’autentica creatura infernale, un essere nero quale per M. può essere solo…una donna!
Ma non esagera.
Non si tratta di avercela con le donne, anche se quasi ad ogni “tiro” giocatoci da una di loro, si può andare a vedere il corrispondente racconto di Maupassant
(!).
L’autore stesso non riteneva opportuno esagerare.
In una novella, La porta, si dice, testuali parole, ch’è interessante e curioso constatare come gli uomini, tutti gli uomini, e anche le donne, tutte le donne, si
lascino facilmente ingannare.
L’umanità è credula.
E in molte altre si mette l’accento su quanto un momento di felicità in realtà non sia tale senza una presenza femminile, ovviamente s’intuisce per fare cosa…
Maupassant stesso cedeva, e in misura sempre maggiore con l’avanzare della maturità (piccola notazione: maturità che si risolse però in follia) all’imperioso
dominio dei sensi. Ebbe centinaia di amanti. Si sfogò spesso con donne, in via epistolare. Solo prossimo alla morte ripudiò le donne, un tempo sue predilette.
Ma in un altro suo racconto, nel quale il protagonista voleva correre dietro a una fanciulla che non le aveva detto nulla, solo perché incantato da come il sole
illuminava la peluria bionda sulla sua nuca (!), l’uomo si sente trattenere per una manica da un altro personaggio, il quale l’aveva appena messo in guardia sui
possibili rischi o comunque dolori che una storia d’amore porta con sé; allo stupore del nostro, quello risponde: “suvvia, vi ho reso un gran servigio!”.
Credo che in questa novella ci sia tutto Maupassant: ragionava come l’uomo che trattiene per la manica, ma viveva come quello che corre dietro alla bionda,
perché incapace di resistere al desiderio carnale.
E forse dietro questo racconto c’è qualsiasi uomo.
Ma probabilmente la maggior parte di essi non si pone il problema…
(a volte penso che la mia prosa, poco ricercata lessicalmente ma estremamente piana e chiara stilisticamente, si possa paragonare a quella di Maupassant,
ovviamente per quel che riguarda la lingua italiana; ma non possiedo la sua indagine psicologica, né la sua capacità descrittiva).
A volte posso usare l’arma della bellezza verso di loro, per così dire. Basta ignorarle sinceramente: ti si attaccano praticamente addosso (!). Per esempio, c’era
una strafica al supermercato che voleva farsi guardare da me, chissà perché (a volte penso di non essere poi così male!), e continuava a passarmi davanti
(doppiamente irritante: ero davanti agli whisky!), ma io continuavo a guardare le bottiglie, come per dire: non ti ho neanche notata. Sapevo che lei non avrebbe
ceduto, e sapevo anche che IO avrei ceduto, perché in fondo non mi dispiaceva squadrarla, anzi!
Tutto questo l’ho valutato in una frazione di secondo, all’inizio, quando mi è apparsa sulla scena. Ormai ho un computerino nel cervello per queste cose.
Ebbene, ho preso la bottiglia che m’interessava e sono andato a vedere l’altra cosa che m’interessava. Infatti, nell’altra corsia, ritrovo la stessa tipa in una posa
che non riferisco, altrimenti scriverei sulle riviste per soli adulti. Fregata!
Ma: chi ha fregato chi?
Ma non sempre fila tutto così liscio: è più facile che io voglio vederla e lei mi si nega, o che lei insiste e io non voglio, chissà perché; ed è ancora più facile che
siamo sfasati, a volte in buona fede, più spesso in mala fede (di entrambi, ma più spesso sua). Seghe mentali? Può essere.
Praticamente, mettiamo che sono al bar: ho il gomito destro appoggiato al bancone, e nell’altra mano il bicchiere. Giro la testa verso destra, per vederle il culo
o le tette, con nonchalance, ma lei è girata sul lato sbagliato (per me, ovvio); allora riguardo dritto, e si mette sul lato giusto; mi rigiro, sbagliato; guardo dritto,
giusto; mi rigiro, sbagliato; guardo dritto, giusto; e così via. Lo farà apposta? Comunque siamo sfasati.
Io, che sono piuttosto sensibile, la prendo male in questi casi: mi sembra che abbia voluto farmi una cattiveria gratuita. Tantopiù che a volte sono invece così
carine da darmi soddisfazione, giustamente credo: e che male c’è? (Da “a volte posso…” fino a questo punto, il discorso rientra nuovamente all’interno di quel
discorso pseudo-patologico descritto nelle prime righe di questo capitolo, dopo l’introduzione. Ma lo sketch con la barista appena descritto (così comune) fa
dubitare nuovamente di cosa sia normale e di cosa non lo sia).
Tra le volte che sono state maliziose (sono donne), ma anche molto simpatiche, ce n’è stata una con una bibliotecaria di una biblioteca di Reggio. Ero in un
periodo di disintossicazione, per così dire, dal mio hobby, e non volevo chiedere informazioni del cazzo solo per andare al banco dov’era lei, come mio solito.
Però mi ero accorto del caseificio che ha sul davanti e la cosa mi tentava, anche. Che fare?
E’ stata così carina da togliermi dall’imbarazzo: subito prima di chiudere, eravamo soli, viene verso di me per chiudere la finestra che mi stava a fianco, con il
viso compiaciuto, di chi ha capito: ha messo in mostra tutto il dècolletè. Mi ero accorto entrando, che si era accorta che mi ero accorto, insomma un po’ me lo
sentivo. E’ stata in gamba, e dimostra che è anche una bella cosa questa, secondo me; anche per la donna, che così si sente bella, no?
Ed essere bella è la cosa che le sta più a cuore, no?
Però ci ha messo una malizia: il seno era di tre-quarti anteriore e lei portava un gilet, le cui ali impedivano un po’ una certa visuale. Mi son detto: pazienza, di
ritorno dalla finestra avrò modo di fare l’en-plein. Aveva capito anche questo: chiusa la finestra, non torna indietro girandosi frontalmente verso di me, ma di
spalle. Questo sortisce due effetti: da un lato posso vederle il culo, credo che l’abbia fatto apposta. Però l’altra occhiata che m’interessava, così non posso darla.
Ancora una volta ci pensa lei (da che pianeta viene quest’angelo?). Quando faccio per andar via, lei ripassa e mi offre la meravigliosa visione del suo seno, ma
prima aveva tirato indietro il gilet e tirato la maglia in modo che fosse più aderente, DI PROFILO! In particolare, la tetta destra l’ho “fotografata” bella piena,
gonfia di latte (o forse lei era un po’ eccitata), bella sporgente, con forma a pera, perfetta, sexy, casta, materna, dolce, malvagia, invitante, troppo grossa, troppo
piccola, troppo coperta, troppo evidente, troppo caldo, troppo freddo, che giorno è?
Io credo che sia stato uno di quei gesti, ammesso che esistano, che possono tranquillamente far innamorare un uomo.
Comunque anche le donne sono attratte, e non poco, dalle caratteristiche anatomiche maschili. Ho scoperto l’acqua calda, mi si dirà. Ma una cosa che mi ha
personalmente un po’ sorpreso, anche perché ovunque si sente insistere sul presunto maggior romanticismo del bel sesso, è constatare, ormai in decine e decine
d’interviste, che la donna (quasi tutte) spesso e volentieri guarda, in un uomo, il culo. Com’è romantica!
Però loro sono maggiormente perdonate, per la precisione ignorate, o incoraggiate, se insistono un po’ troppo in un atteggiamento “eccessivo”. Credo che
questo avvenga perché è qualcosa di a sua volta eccitante, per un uomo. Veramente sono poche le cose che hanno a che fare con la donna e che non eccitano
l’uomo, a pensarci. Si pensi all’omosessualità femminile. Quella maschile non eccita le donne sessualmente, anche se provano attrazione psichica (v. dove parlo
delle droghe).
Tant’è che il tema di questa speciale “cattiveria” femminile, quella di pensare veementemente al sesso, viene sfruttato dalla pornografia (uno dei più bei film
del genere di sempre, Bad Girls, del ’79).
Forse di questa “cattiveria” io ne ho un po’ paura, lo confesso.
Del resto come sostiene Donn Byrne, dei cinque fattori responsabili dell’innamoramento, l’attrazione fisica è di gran lunga “il più pesante”; mentre il timore
della perdita “il meno significativo” (v. a riguardo la mia dissertazione sul sesso in Betrachtungen, nonché le mie righe sulla contemplazione estetica-estatica
schopenaueriana del corpo femminile nei capitoli sulla filosofia- Cap.15.1. e seguenti di questo stesso libriccino).
Dal canto suo, l’amore romantico come lo conosciamo oggi non esiste in natura, è un prodotto culturale che, nel nostro caso, si può far risalire a Hollywood
(nel Medioevo era l’amor cortese; prima del Medioevo non esisteva addirittura); ed esso non è altro che una sorta di “auto-illusione per legare la gente”.
E ce lo teniamo per detto.
Spesso poi non mi permettono nemmeno di non pensarci: proprio un secondo dopo che me lo sono imposto, passa la strafica. Come fanno? Oppure ne passa
una via l’altra: così vado nel pallone. Quest’anno non vado al motorshow: troppa figa. Ci lasci cento euro, vai a casa, ti fai una sega e finito! (John Travolta in
Pulp Fiction). Con trenta euro te la danno, proprio lì a due passi dalla fiera!
Il depliant lo puoi prendere anche in concessionaria.
Eppoi, obiettivamente, la meccanica è un tema ben separato dal sesso: perché tutta questa fica?
Ho imparato a dare una fugace occhiata, senza insistere troppo, anche se a volte è un dibattimento infernale coi propri sensi. Il lato positivo è che, in realtà,
così facendo ti resta maggiormente impressa l’immagine. In fondo, alla macchina fotografica basta una frazione di secondo, no? E la “cattura” è pressoché
eterna. Se stai un quarto d’ora su un culo, puoi star certo che alla fine resti con la sensazione di non averlo visto abbastanza bene. Più guardi, più guarderesti.
Un’occhiata invece ti lascia leggero e maggiormente intrigato, sensazione simile a quando ti alzi di prima mattina e all’aperto l’aria è amabile, non c’è quasi
nessuno in giro e il pene è ancora un po’ duro per via della ritenzione idrica…
Lungi dall’ignorarle dunque, come magari credono, così godo di più! Che figlio di p…
Comunque anch’io sono cenestesico, in grandissima misura. Faccio caso al profumo della donna, se se lo è dato ovviamente, ma anche a quello naturale del
corpo. Spesso sono naturalmente profumate.
Una volta l’ho chiesto, lei mi ha risposto “no” come se stesse mangiando della merda.
Invece si era data qualcosa. Ma può anche essere di no.
Faccio caso alla voce. Non credo che mi potrei innamorare solo grazie alla voce (qualche donna sì invece), però alcune hanno una voce meravigliosa, specie
ovviamente se vogliono fare un po’ le sexy.
Il timbro cambia enormemente, sembra un’altra persona. Forse spaventa un po’loro stesse, questo cambiamento. Alcune si mettono a ridere mentre fanno la
voce “flautata”, di certo sotto lo stimolo delle sottili punture di un residuo di coscienza (Maupassant). Per non dire dell’effetto che sortiscono le parolacce dette
da una donna. Pensavo che fosse un’invenzione della pornografia (in un sito di video di teen-agers californiane piuttosto porche, tutte non fanno che ripetere
“shit”). Invece proprio ieri sera mi passa davanti una che, in compagnia di due uomini, dice: “che puzza di merda!”, scandendo bene “merda” (l’equivalente di
“shit” del suddetto video). Non dico che ero eccitato, ma definitivamente inquietato per qualche ora, sì. Vado in un pub per distrarmi e un’altra dice, ad uno che
aveva di fronte: “sei una testa di cazzo”, scandendo bene “cazzo”. Lì ho ceduto.
Non solo faccio caso a quello che dicono, ma anche a quello che non dicono. E’ bello anche il silenzio, infatti, se condiviso. Uma Thurman in Pulp Fiction (ma
lo pensavo già ): “Chissà perché bisogna sempre parlare, quando si è soli; invece funziona quando lo puoi condividere, quel silenzio”. John Travolta: “bè,
non siamo ancora a questo punto, ma non te la prendere, ci conosciamo appena”.
Il punto è proprio questo, secondo me: una volta ho parlato ad una proprio di questo, in questi termini, eravamo seduti sulla stessa panca. Lei mi rispose che se
non conosci il ragazzo che ti sta di fianco, c’è imbarazzo a star zitti. Ovviamente. (v. oltre). E’ stata sincera. Ed è stata ancora più sincera quando, sentita la sua
risposta, io sono stato zitto e lei mi ha dimostrato quello che aveva appena detto: dopo venti-ventuno secondi di silenzio, forse meno, si è alzata ed è andata via.
M’illudo di aver fatto colpo in qualche modo (ma non l’avevo fatto per questo), perché non aveva una faccia scocciata, semmai compiaciuta e divertita. Non l’ho
più rivista. Peccato. Poteva essere un grande amore. E lo è, per quel che mi riguarda (vedi il dialogo tra Billy Cristal e Jack Palance in City Slickers).
Ma per un timido come me, il silenzio condiviso mi toglierebbe molte volte dall’imbarazzo di dover dimostrare a me stesso che sono in grado di attaccar
discorso con una donna. Forse in generale è meglio parlare, se per esempio ti siedi di fianco a una sconosciuta in un locale, anche se non ne hai tanta voglia,
perché poi quando lei si alza scocciata e va via, un po’ ti dispiace sempre.
Ma perché va via? Aspettava che rompessi il ghiaccio tu? Non mi dispiacerebbe affatto se, diciamo un trenta per cento delle volte, fossero loro a fare il primo
passo e aprire quella dannata bocca. (nei momenti di malumore mi vien da pensare una brutta cosa, dato che spesso ho la voglia di parlare ma non il coraggio, e
loro stan zitte, mi vien da pensare: ma la lingua ce l’hanno solo per fare i pompini?).
In tutta la mia vita mi è capitato due volte, che mi parlassero per prime. Tra le degne di nota, cioè con un minimo di sviluppo. Forse qualcheduna di più, nel
totale, ma comunque non più di dieci. Un po’ pochine, sulle migliaia di situazioni del tipo: sedersi di fianco a una sconosciuta. Che il maschio debba essere il
cacciatore, nel regno animale, è una bufala vera e propria.
Ma evidentemente nell’Uomo, sì.
Comunque non volevo cominciare una simile diatriba.
Dicevo piuttosto che sembrano non sopportare il silenzio con uno sconosciuto; in particolare se in quel momento io mi sto compiacendo del silenzio condiviso.
Una forma di telepatia? Trovo che sarebbe molto carino, invece, goderci proprio il fatto di stare zitti. Magari trascorso un tempo che a lei parrà interminabile, ma
forse che a me è necessario, può darsi pure che le parlerei.
Non hanno pazienza.
O forse è solo una mia scusa per la mia timidezza.
Di certo, non paiono toccate da quel dialogo di City Slickers.
Sarà per non precludersi il sesso?
Ovviamente per poter fare sesso non si può essere timidi. A proposito:
Si può uscirne
6.9-SULLA TIMIDEZZA
un consiglio
Il consiglio del sommario è il seguente: consiglio a tutti i timidi maschi di andare, di tanto in tanto, in un locale frequentato anche da lesbiche. Per il motivo
detto nell’occhiello: si può uscire dalla timidezza.
E’ infatti presumibile che un ragazzo timido sia un po’ spaventato dalle donne. Sebbene la timidezza non abbia quest’origine, e non ha nemmeno un’origine
esterna, essendo infatti (sostanzialmente) la paura del giudizio altrui, paura immotivata e dunque fobia, nel rapporto con una ragazza un maschio può essere
inconsciamente intimorito dalla possibilità teorica di (dover) fare del sesso.
Com’è il mio caso.
In presenza di una ragazza, infatti, mi sento sempre un po’ in dovere di provarci; o perlomeno, di dimostrare a me stesso prima che a lei, che sono capace di
avere a che fare con l’altro sesso.
Il problema nasce dal fatto che, insieme a questa urgenza, è contemporanea la consapevolezza di esserne del tutto incapace. Con le donne sono una frana. E’
questa dicotomia, cioè un conflitto che, per definizione, non si risolve, a far soffrire i timidi, credo.
O non ne sei capace, ma non ne hai nemmeno voglia; o ne hai voglia, ma riesci anche a fare conquiste. Ma non si può averne voglia, e non agire. E’ un po’ il
problema di Baby Herman: “ho le voglie di un cinquantenne e il pisellino di tre anni!”.
Ora, se sai già in partenza che la fanciulla è omosessuale, è chiaro che viene a cadere questa esigenza di provarci. Si tratta di annullarsi.
Ma vi è di più. Infatti, un eventuale, anzi certo, rifiuto da parte sua non comporterebbe più il lambiccarsi il cervello per chiedersi cosa c’è che non va in te.
Ma vi è di più. Infatti, una volta superata questa impellenza di dover rompere il ghiaccio, resta ancora una cosa da fare: il non sentirsi tesi se sei tu, solo, in
mezzo a decine e decine di donne. E questo è molto ma molto difficile da raggiungere. Si tratta di annullarsi.
Ricapitolando, il procedimento sarebbe: di fronte ad una donna non ci debbo provare; di fronte ad una donna non debbo essere teso. Se riesci a fare tutto ciò di
fronte ad una lesbica (non è facile, sono donne anche loro, e spesso bellissime), la seconda parte del metodo consiste nel provare a sentirsi esattamente nello
stesso modo anche di fronte ad una donna eterosessuale.
Ovviamente arriva il momento nel quale sarà lei, se ci si frequenta, a lanciare messaggi piuttosto chiari.
Bisognerà essere capaci di darsi da fare anche se si parte da una situazione di rilassatezza; del resto, la sessualità maschile è, a volerla vivere bene, molto più
passiva di quel che si vorrebbe.
Ecco allora che, per sviluppare il proprio lato femminile, per così dire, non bisogna accostarsi agli omosessuali maschi, secondo me, chè dalle donne non sono
attratti, bensì agli omosessuali femmine (!).
E’, questa, solo la punta dell’iceberg per arrivare, lo ripeto, a godere per esempio dei 2000 cm. quadrati di pelle che anche l’uomo possiede: dunque è un
consiglio, il mio, valido per tutti.
Nel caso di un timido, però, serve soprattutto ad aspettare che sia lei ad approcciarti, in prima battuta; in seconda battuta, ad essere abbastanza calmo per
provarci.
Non si tratta dunque di frequentare un club di lesbiche per eccitarsi, anche se ovviamente certe effusioni tra due donne sono, su di me, quantomeno inquietanti.
Ma nei locali visti finora le ragazze non si baciano neanche, di solito.
Quelle poche volte che le ho viste, mi hanno suscitato non eccitazione, bensì tenerezza. Infatti, già la donna è più “soft” (non voglio dire dolce perché
moltissime non si meritano l’aggettivo, secondo me) rispetto all’uomo. Non significa niente, la natura ha deciso per loro questo modo di fare.
Ma certo è che donna+donna è uguale a qualcosa di pesante, da vedere: ognuna ci mette la passione femminile, ovviamente, e la cosa può essere addirittura
disturbante (sconsigliato ai diabetici…).
(Gli omosessuali maschi sono disturbanti esattamente per lo stesso motivo: sono femminili- ma loro sono maschi!).
Forse è più eccitante la conversazione con loro, se sono abbastanza aperte da spiegarti, p.es., che per fare sesso si servono soprattutto delle dita (è quello che
mi ha raccontato una; come facciano le dita a sostituire lo stendardo, è un bel mistero- sto scherzando).
Ma ripeto che non è con quell’intento che bisogna andare in certi locali.
In certi locali poi rischi di fare delle figuracce. A proposito:
Avevo già riportato in 9.3 una brutta figura, anzi proprio una figura di m… che feci a Bologna, al cospetto nientemeno che di Madame P. (Patrizia Oliva) e
Nora Keyes, due cantanti del circuito diciamo underground.
La figuraccia riguardava la conoscenza dell’inglese: una delle due è losangelina, l’altra di “vaigevano”, ma sa l’inglese, direi bene, perché ha vissuto negli
USA, e l’avrà anche studiato, non so; infatti parla sempre in lingua con l’altra, che non sa l’italiano. Bene.
Dal canto mio, forse debbo ammettere che lo conosco ad un livello elementare (“io tarzan, tu jane”), e che non riesco ancora a conversare. Per capire,
nell’ascolto, mi affido alle cosiddette “parole chiave”, che sarebbero quelle che ti fanno percepire il senso del discorso, anche se la maggior parte degli altri
monosillabi ti sfugge. E’ un fenomeno che accade anche nella lingua materna, se per esempio il volume dell’emettente è troppo basso.
Parlare, invece, complice la mia timidezza, è un po’ un problema per me.
Lettura e scrittura non presentano particolari difficoltà. Bene.
(inciso: forse parlo poco fluentemente le lingue perché le tratto da lingue morte, anche quelle moderne. Ho visto una volta al telegiornale un professore di
glottologia giapponese che parla quattordici lingue; era in Italia per un convegno sul furlan, la lingua del Friuli (o ladino-orientale), che lui stava studiando;
ovviamente sa anche l’italiano, ma lo parla con estrema lentezza, dice una parola ogni secondo e mezzo ca.: io credo proprio per il suo approccio alle lingue da
studioso, non da turista, come me- chissà se ho reso l’idea).
Quella maledetta sera (ma si vedrà che non è proprio così…), accadde che io me ne stavo in disparte da Nora, per non fare una figuraccia e con lei e con
Patrizia.
Ma improvvisamente mi ricordai il mio Nice:
“Timidi, vergognosi, goffi, simili a una tigre cui non sia riuscito un salto: così, uomini superiori, vi vidi spesso sgusciare in disparte. Una mano di dadi
non vi riuscì. Ma, o giocatori, che importa! Non imparaste a giocare e scherzare come si deve giocare e scherzare! Non siamo sempre seduti a un tavolo
da scherzo e da gioco? E se vi riuscì male qualcosa di grande, siete voi stessi, per questo, riusciti male? E se riusciste male voi stessi, è per questo riuscito
male l’uomo? Ma se riuscì male l’uomo: suvvia! Suvvia!” (Also sprach Zarathustra, parte quarta, paragrafo 14).
La figuraccia, come detto, ci fu, e fu terribile. Io non me ne dispiaccio quasi mai, sostanzialmente per garantirmi l’effetto comico.
Ma vi è di più: sovente CERCO la figura di m… Infatti, è il modo più efficace che conosco per evitarla, la figuraccia. E mi spiego. Se capisci che lui o lei
vogliono metterti alla berlina, secondo me è più facile assecondarli che cercare di contrastarli. Suicidati. Funziona.
Un’esempio l’ho appena fatto. Volevano che parlassi male l’inglese, quelle due là: e io l’ho parlato male. Che problema c’è? Tantopiù che la figuraccia è tale
se non ne hai coscienza, se arriva inaspettata; ma se l’intera scena è quasi recitata, dov’è la sofferenza? Ma vi è di più.
Infatti, tutta questa cattiveria altrui (intendo, quando cercano di mettermi alla berlina) la posso sfruttare a mio vantaggio, esattamente come nella novella di
Pirandello La Patente. La società considera iettatore il Chiarchiaro, e lui, lungi dal dispiacersene, vuole addirittura un riconoscimento di questo suo essere
iettatore. La patente, appunto. Ne avrà un guadagno economico.
Analogamente: la società mi considera sfigato? E io voglio un riconoscimento di questo.
La patente. Purtroppo, io non ne avrò un guadagno economico. Solo spirituale.
Il discorso sulle figuraccie non manca di un lato comico. A proposito:
9.5.-SUI FUMETTI
Riprendiamo l’autobiografia.
Una grossa (grossissima) parte della mia vita riguarda la lettura: è la cosa che, da sempre, preferisco fare, forse per antica pigrizia. Un genere di letture che non
ho mai frequentato è quella che è stata anche chiamata “arte sequenziale” (la definizione è di Will Eisner, 1978), cioè, i fumetti.
Io non riesco a persuadermi della serietà dei fumetti. Eppure so che sono seri quanto la poesia, per esempio. (Ad onor del vero, infatti, non frequento neanche
la poesia).
Una prima cosa “contro” i fumetti (ma non voglio parlare contro i fumetti, tutt’altro) che si potrebbe dire, si riassume nella frase del genitore rivolto al figlio:
“stai facendo i compiti o stai leggendo Topolino?”.
E si vede subito come non abbiano la stessa importanza. Intendo, per la formazione di una persona.
In realtà, al giorno d’oggi, o forse è sempre stato così, la formazione di una persona è quella che ti potrebbe dare un lavoro; e quella che più ti piace, anche.
Per esempio, oggi è possibile vivere giocando ai videogiochi.
Che non si sostenga che valgano quanto il latino!, qualsiasi insegnante sbotterebbe.
Semplicemente, non bisogna porsi questo confronto.
“Questo è un lavoro vero; per il mio Proff. invece erano tutte cazzate” sostiene giustamente il campione italiano di Playstation, sottintendendo che si
sbagliava il Proff., non lui.
E del resto il fumetto non è, in realtà, che il risultato dell’intera storia umana dell’illustrazione; meglio: della figurazione in senso lato.
Si potrebbe parlare dei graffiti delle caverne preistoriche, dei geroglifici egizi, della Colonna Traiana a Roma, dei filatteri medievali (i cartigli degli affreschi,
antenati dei “balloons”), degli stessi rilievi delle cattedrali, della Bibbia dei Poveri, libro d’incisioni su legno del XIII sec., dell’Arazzo di Bayeux dell’XI sec.,
ricco di didascalie, del Manoscritto dell’Apocalisse conservato alla Trinity College Library di Cambridge, delle tavole illustrate dei cantastorie del Settecento,
delle stampe dei quotidiani, dei fogli illustrati (tra gli altri, le famose Images d’Epinal), degli analoghi Bilderbrogen tedeschi.
Fino ai Fliegende Blaetter, “fogli volanti” , pubblicati nel 1859, dove apparvero i veri precursori del fumetto odierno, Max e Moritz. Gli incidenti fisici che
capitavano loro, o alle vittime dei loro scherzi, vennero ripresi anche da Tex Avery della Disney, per esempio. Ma furono i giornalisti americani Pulitzer (quello
del Premio omonimo) e Hearst a dare impulso definitivo al fumetto. Il primo acquistò nel 1883 il quotidiano The World di New York, pubblicandovi dal 1893 un
supplemento domenicale a colori. Hearst, suo concorrente, acquistò invece il New York Journal, e il suo supplemento si chiamò American Humorist. I due
giornali si contesero la pubblicazione del personaggio di Outcalt, Yellow Kid, poi apparso su entrambi. Anche il New York Herald venne alla ribalta con il terzo
antesignano del fumetto (così come lo conosciamo oggi): Little Nemo, con le sue avventure sognate.
Come si sa.
Fu per aumentare le vendite dei quotidiani che il fumetto s’impose un po’ ovunque. In Italia, p.es., fu il Corriere dei Piccoli, nato nel 1908 come supplemento
domenicale al Corriere della Sera , a diffondere i fumetti americani, o a crearne di nostri, ma con le didascalie al posto delle “nuvolette” (Il signor Bonaventura).
Poi il cinema, nato quasi contemporaneamente, (1895- Max e Moritz, Yellow Kid e Little Nemo uscirono invece tra il 1865 e il 1905) influenzò il fumetto, e gli
insegnò la sceneggiatura (cioè il dialogare essenziale) e il montaggio (cioè i “piani” e il loro succedersi). Dapprima comico, il fumetto divenne aventuroso nel
1928-29 con Tarzan, Cino e Franco, e Buck Rogers. Gli anni Trenta furono l’epoca d’oro del fumetto: basti citare l’industria dei personaggi di Walt Disney e, in
Italia, il settimanale L’Avventuroso.
Nel Dopoguerra, e con la televisione, impostasi negli anni Cinquanta, il fumetto ebbe il suo posto importante nell’era dell’immagine.
Come si sa.
Dagli anni Settanta esso viene giudicato suscettibile di diventare strumento didattico, e in alcuni casi lo è stato (si pensi ai depliants informativi sulla sanità,
p.es., o all’alfabetizzazione del Terzo Mondo).
Dunque il genitore di cui parlavo più su, che ce l’aveva con Topolino, non aveva così ragione.
Anzi, sempre sul valore formativo, bisogna dire che Il Giornalino della San Paolo utilizza i fumetti da ottant’anni a questa parte quale mezzo educativo per i
ragazzi.
Anche se ovviamente i libri “solo testo” sono insostituibili, e ancora i più importanti.
Decine di personaggi dei fumetti fanno parte dell’immaginario collettivo, da Mickey Mouse ai Peanuts a Tex; del resto (v. anche il Cap.33), il fumetto è tra i
mezzi di comunicazione di massa, come la fotografia, la pubblicità, il design-e come il cinema; anzi, non è che animazione "fissa", fissata sul foglio (le strips
nacquero proprio pensando al susseguirsi dei fotogrammi della pellicola cinematografica, all'inizio i disegni non seguivano un'impostazione così logica). E come
il cinema, è una commistione di linguaggi: i dialoghi rimandanoal teatro, le didascalie al racconto letterario, le tecniche grafiche alle arti visive, le inquadrature,
le scene e la sequenza al cinema stesso.
Per questo credo che il cinema, i fumetti e la pubblicità siano così amati: perchè stordiscono.
Paradossalmente, è più difficile seguire un UNICO linguaggio, come per esempio la sola pagina scritta (un romanzo), che non un guazzabuglio com'è un film
o un albo a fumetti. Lo stesso dicasi a proposito della difficoltà del capire la pittura.
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Alcuni fumetti sono diventati miti. A proposito:
6.4.4.-SUI DOORS
(sul Mito)
Sto riascoltando i Doors, il mio gruppo preferito, e volevo trovare i “links” per inserire anche questo argomento nello “Zibaldone” che sto scrivendo. E
proseguo così quei capitoli sulla musica; e mi ricollego così agli ultimi capitoli sulle “arti”.
Avevo già detto che in Italia nessuno (e nessuna, tranne forse Laura Bono) fa rock.
Il rock è statunitense (e britannico).
E il maggior gruppo statunitense (anzi, il maggior gruppo e basta), sono i Doors.
Non credo molto alla fama di “maudit” di Morrison, fama che l’ha accompagnato fin dal Gennaio ’67, all’uscita del primo album (forse il miglior lavoro
d’esordio nella storia del rock); si diceva che amasse bere, il sesso, l’anarchia…
Questo capitolo, al pari de I Miserabili di Hugo, si basa su una documentazione vastissima.
Bisogna partire dal manuale con tutti i testi dei Doors (canzoni & poesie, Gammalibri), ovviamente; da Nessuno uscirà vivo di qui, di Danny Sugerman e Jerry
Hopkins, Kaos; dal manuale rock dell’Arcana su Jim Morrison; e da un libriccino di Wallace Fowlie, Rimbaud & Jim Morrison (Il Saggiatore), ovviamente tutti
da me posseduti.
Non ho invece, o non ho più (ma ho letto) tutti gli altri libri dedicati all’argomento: Lo spirito e il corpo, di Frank Lisciandro (Arcana);
Festa di amici, non ricordo l’autore né l’editore;
Jim Morrison. Vita e parole del Re Lucertola di Jerry Hopkins (Arcana);
Jim Morrison. Lo sciamano e il peyote di William Mandel (Kaos);
J.M. Dark Star di Dylan Jones (Kaos);
J.M. e Doors.Aspettando il sole (Kaos);
J.M. & i Doors. On the road di Greg Shaw (Giunti);
Light my fire di Ray Manzarek (Editori Riuniti);
J.M. Vivo! di Jacques Rochard (Gammalibri);
I signori & le nuove creature di Jim Morrison (Gammalibri);
Tempesta elettrica di Jim Morrison (Mondadori);
non ho letto:
I giorni del caos di John Delmonico (Selene);
J.M. An american rebel di Mario Denti (Bevivino);
J.M. Vita.Morte.Leggenda di Davis Stephen (Mondadori).
Ce ne sarebbero altri: per esempio, un libriccino della Rusconi della collana “Energie. Bookjeans”, dal titolo Jim Morrison, ovviamente;
Le canzoni dei Doors di Giulio Nannini (Editori Riuniti);
L’autostrada alla fine della notte di James Riordan e Jerry Prochnicky (Tarab);
più altre raccolte di poesie dello stesso Jim (p.es., Cavalca il serpente, 1993).
Ci sono inoltre un’infinità di capitoli o paragrafi su qualsivoglia libro o storia del rock, nonché un’infinità di articoli di giornale e servizi di periodici (forse
superati solo dai Beatles).
Ovviamente ci sono i dischi da ascoltare: i sei principali (The Doors, Strange Days, Waiting for the Sun, The Soft Parade, Morrison Hotel, L.A. Woman), più
Absolutely Live e An American Prayer;
i video musicali, i più interessanti dei quali sono The Doors in Europe e Live at the Hollywood Bowl;
e mettiamoci pure il brutto film di Oliver Stone, The Doors, del 1991.
Cercherò di stabilire se Jim Morrison meriti davvero il rispetto e l’ammirazione che gli tributano milioni di fans in tutto il mondo; oppure se non sia altro che
uno dei tanti “miti” del rock, indipendenti dal loro reale valore.
Né la cosa paia di poco conto, come testimonia la monumentale opera di Stephen (che non ho letto e spero che non sia come quella di Goldman su John
Lennon).
Per esempio, condivido il giudizio dello Scaruffi sull’osannato Bob Marley: la sua non era che musica da ballo suonata da un tardo hippy con velleità da
santone.
Ben diverso lo spessore del Re Lucertola.
Se si parla di cos’è un mito, su riviste, quotidiani, talk-shows, si può star certi che Morrison salta fuori; verrebbe davvero da dire che regge il confronto coi
miti degli antichi greci.
Del resto il professor Fowlie afferma che il miglior appellativo per Jim, e l’unico non usato, è kouros, che non indica un dio, né una divinità minore; è un
termine generico che in greco designa un uomo giovane, un adolescente; la parola viene applicata a un giovane che piace sia agli uomini che alle donne; a volte
viene usata come un apprezzamento, a volte viene rivolta quasi come un’imprecazione a quei giovani che trattano con insolenza le persone più anziane.
Morrison, in particolare, era un kouros che creava per il pubblico un momento che trascendeva la vita ordinaria, un momento donato da un Dio a coloro che
erano tristi, depressi o insoddisfatti.
Proprio in quanto adolescente comune, il kouros assurge a mito per il suo valore primigenio, archetipico.
Di Jim si suol dire che in realtà fosse un poeta, non una rockstar.*******************************
1.3.-ANGELI
Bene. Dopo essermi paragonato, od aver dato quest’impressione, a Chateaubriand, Svevo, Bukowski e chi più ne ha più ne metta, vorrei ora paragonarmi a
Leopardi.
Cosicché, rifacendomi ai capitoli su Bologna, di me si possa dire, a ragion veduta: “vai bene da Roncati”. Era, questo Roncati, il professore dei matti, vissuto
all’inizio del Novecento nel suo istituto nella zona tra le vie Saragozza e Sant’Isaia (gli sopravvivono gli Ospedali Roncati). Negli anni Cinquanta c’era ancora
chi diceva appunto “vai bene da Roncati”, per significare “è matto”.
Ma non mi voglio paragonare a Leopardi, bensì confrontare le sorprendenti analogie tra lo Zibaldone di Pensieri e questo mio lavoro. Il capitolo potrebbe
anche intitolarsi Elogio del mio scritto tris.
Più vado avanti, più vedo che non è male la struttura del mio testo, anche perché non so cosa insegnano nelle scuole di scrittura- ho solo partecipato ad un
“atelier di scrittura creativa” basato sul lavoro di Elizabeth Bing, e per quel che mi riguarda serve solo a “sbloccarsi”, vedi l’introduzione a quest’opera.
Insegnare a scrivere è come insegnare a dipingere: assurdo.
Ma su questo ci vorrebbe forse un altro libro.
Pensiamo invece a una cosa: che cos’è un libro?
In più capitoli del presente capolavoro ribadisco che, sia pure interessante, seppur superficiale (o forse proprio per questo) e divertente (a volte), esso non è
pubblicabile.
Perché, di cosa si tratta? Ad un livello (incomparabilmente) più basso, della stessa cosa degli Essais di Montaigne, delle Pensèes di Pascal, del Dictionnaire
Philosophique di Voltaire, dei frammenti di Nice. E dello Zibaldone di Pensieri di Leopardi (il di Pensieri in teoria è obbligatorio, come Vino in Vino Nobile di
Montepulciano- ma per brevità lo tralascio).
Infatti, il mio lavoro e lo Zibaldone hanno in comune:
-di essere uno “scartafaccio”, un immenso manoscritto (nel mio caso, un intero CD-ROM da 700 MB);
-di trattare gli argomenti più vari;
-di non avere un disegno preordinato;
-di essere estremamente variabile per quantità di scrittura, rispetto al periodo di tempo (Leopardi poteva scrivere 1800 pagine in un solo anno, e solo due
pagine e mezzo in tre anni- così io);
-di trovarvi dentro tutte le forme di scrittura: l’appunto, la citazione, il ricordo, il proverbio, la massima, l’aneddoto, il motto, l’aforisma, la riflessione, il
saggio;
-soprattutto, di essere PIU’ e MENO di un’opera:
-meno di un’opera, per il carattere privato, eterogeneo, provvisorio e pratico, da cui l’impossibile pubblicazione; e tuttavia oggettivo, con alcuni argomenti che
ricorrono spesso, tanto che si scorge un “disegno più vasto”;
-più di un’opera, perché ne racchiude diverse, come detto;
Altri punti in comune:
-di visualizzare il processo sul quale si delineano le opere, cioè i ripensamenti e i tormenti dell’autore;
-di essere collegato all’”Io”, di essere concreto, esperienza;
-di possedere alcuni pezzi di perfetta compiutezza, come il pensiero (3318-3326), ch’è un elogio della lingua italiana, o come il mio capitolo 13.2 sul
voyeurismo;
-di essere in parte limitato dalla censura (Leopardi non era certo un credente, mentre io mi sono talvolta trattenuto su altre questioni);
-di essere intriso di pessimismo, sia pure espresso ben diversamente: lui in modo alto e poetico, io in modo molto simile a quello di Edward Norton nella 25^
Ora: “Vaffanculo qui, Vaffanculo là…”;
-di avere un valore proprio ed autonomo rispetto all’opera edita, proprio in quanto inedita;
-di essere un’opera moderna, se frammentazione del testo equivale a modernità (e pare proprio di sì);
-di far intravvedere l’inconoscibilità della Verità (su questo vedi anche altrove, nel mio lavoro);
-di essere d’accordo sul voler essere, tuttavia, “uomo enciclopedico”, perché l’Uomo deve ambire a questo;
Da ultimo, quello che mi compiaccio di più di avere in comune con Giacomo è che tanto il mio testo che il suo, è “pieno di ripetizioni, prolissità, aridi
materiali, pensieri abbozzati, FANTASIE, cose MOLTO INSIGNIFICANTI; è insomma un prodotto grigio, frutto della necessità quotidiana” (Karl
Vossler, Leopardi, Monaco, Musarion 1923).
Spero che nessuno voglia considerare intoccabile qualcuno, per quanto grande egli sia.
Nice nello Zarathustra: “accanto al mio sapere sta la mia più nera ignoranza” (parte IV: la sanguisuga). Il Genio non è immune da errori: anzi, si sono
mantenuti degli errori per secoli, perché non ci si azzardava a toccare quanto detto da un Grande, intimoriti dalla sua autorità.
A questo proposito, d’accordo col Vossler che anche Leopardi esprime “fantasie e cose molto insignificanti”, riporto l’elenco dei pensieri che secondo me
rientrano in pieno in questa definizione, e qualche volta sono degni persino di figurare accanto ai miei, in quanto vere e proprie stronzate.
Essi sono, nello Zibaldone, i numeri: (109-111), (143-144), (162-163), (163-164), (171), (340), (353-356), (496), (646-648), (949-950), (1004), (1004-1007),
(1059-1062), (1085-1086), (1163), (1164-1165), (1175-1176), (1242), (1252-1253), (1712-1714), (1900-1902), (2073-2075), (2381-2384), (2475-2477), (2944-
2946), (3435-3440), (3472-3477), (3497-3499), (3681-3682), (3855-3863), (3887-3889), (3891), (4310-4311), (4421), (4507-4508), (4523).
L’edizione di riferimento è quella della BUR del 2002, (Tutto è nulla. Antologia dello “Zibaldone di Pensieri”) a cura di Mario Andrea Rigoni. Non riporto
un’analogo elenco dove invece raccolgo quelle che secondo me sono riflessioni talmente profonde e giuste da valere ognuna un libro o più di altri autori, e che
sono numericamente almeno altrettante.
Tuttavia quelli riportati non mi sembrano pochi.
Ma non volevo sminuire Leopardi, semmai esaltare me stesso.