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Johann Gottfried Herder

Johann Gottfried Herder (Mohrungen, 25 agosto 1744 – Weimar, 18 dicembre 1803) è stato un filosofo,
teologo e letterato tedesco.

Nato a Mohrungen nella Prussia orientale, si iscrisse nel 1762 all'Università di Königsberg per studiare
teologia e fu allievo di Immanuel Kant; qui si legò di amicizia con Johann Georg Hamann, patriota anti-
illuminista, sostenitore della prevalenza delle ragioni del sentimento su quelle dell'intelletto, il cui influsso
fu determinante per lo sviluppo delle sue teorie. Nel 1764, divenne un pastore luterano, andò a insegnare a
Riga, città baltica a sovranità russa ma che godeva di un'ampia autonomia.

Per una malattia agli occhi, è costretto a fermarsi due mesi, nel 1770, a Strasburgo, conosce Goethe,
studente nell'Università di quella città; frutto dei loro numerosi colloqui fu Intorno al carattere e all'arte dei
tedeschi, saggi pubblicati nel 1773, che costituiscono una sorta di manifesto del movimento dello "Sturm
und Drang".

Il pensiero di Herder

Lingua

Nel suo primo scritto del 1764, Über den Fleiss in mehreren gelehrten Sprachen (Sulla diligenza nello studio
delle lingue), dopo aver ricordato, da teologo quale fu, l'età dei patriarchi biblici che vissero al tempo in cui
non vi era ancora la confusione babilonese delle lingue, sostiene che la lingua è come una pianta che cresce
e si sviluppa secondo la terra e il clima nel quale è piantata e pertanto, poiché «ogni lingua ha il suo proprio
carattere nazionale», la nostra lingua materna corrisponde al nostro carattere e al nostro peculiare modo di
pensare.

Ogni lingua nazionale, in quanto sorge dall'humus della terra che la nutre, ha dunque un elemento non
controllabile dalla ragione e un elemento irrazionale è presente in quel trovare le voci profonde di ogni
altra lingua nella «propria anima».

La filosofia della storia

La storia dell'umanità appare come la vicenda di un singolo individuo: l'Oriente è l'infanzia dell'umanità - e
il dispotismo di quegli Stati sarebbe giustificato dalla necessità dell'esercizio dell'autorità nel periodo
dell'infanzia - l'Egitto ne è la fanciullezza, i Fenici ne rappresentano l'adolescenza, i Greci la giovinezza,
«gioia giovanile, grazia, gioco e amore» e i Romani sono la «maturità del destino del mondo antico».

Sembrerebbe la descrizione di un ciclo naturale e positivo; ma come spiegare la fine del mondo antico, il
crollo drammatico dell'Impero? Per Herder, l'impero romano rovinò perché volle distruggere i caratteri
nazionali, ignorare le tradizioni dei singoli popoli, organizzare come un meccanismo la vita umana: dopo la
sua caduta vi fu «un mondo completamente nuovo di lingue, di costumi, di inclinazioni». L'intervento dei
Germani nella scena della storia fu positivo, apportando nuova linfa e nuovi valori: «le belle leggi e
conoscenze romane non potevano sostituire le forze scomparse, non potevano reintegrare nervi che non
avvertivano più alcuno spirito vitale, non stimolavano più impulsi spenti e allora nacque nel Nord un uomo
nuovo» portatore di nuova forza, nuovi costumi «forti e buoni» e nuove leggi «spiranti coraggio virile,
sentimento dell'onore, fiducia nell'intelletto, onestà e timore degli dei».

La rivalutazione del Medioevo è ben esplicita ma è motivata dall'essere stato, quel periodo, una «grande
cura dell'intera specie grazie a una violenta agitazione», senza tradursi, in Herder, nell'esaltazione di un
modello politico. La critica di Herder va tuttavia al sistema politico del suo tempo, al «libero pensiero», al
cosmopolitismo, a quanto doveva rendere felici gli uomini, ridotti a un «gregge governato filosoficamente».
La felicità, per Herder, non può essere il derivato di un'unica causa valida ovunque, perché «ogni nazione ha
in sé stessa il centro della sua felicità».
Nell'animo umano si formano determinate disposizioni che, a un certo grado del loro sviluppo, si arrestano,
cristallizzandosi e impedendo all'individuo ulteriori assimilazioni: «lo si chiami pure pregiudizio, volgarità,
gretto nazionalismo, ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi,
più fiorenti alla loro maniera, più fervidi e quindi più felici nelle loro inclinazioni e nei loro obbiettivi [...] la
nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l'epoca delle immigrazioni di desideri
stranieri, dei viaggi di speranze all'estero, è già una malattia, è una pienezza d'aria, una malsana gonfiezza,
un presentimento di morte».

Herder non crede dunque alla prospettiva illuministica di un progressivo avvicinamento alla felicità e alla
virtù degli esseri umani; tuttavia, riconosce come sia ben viva nell'animo umano la ricerca della felicità e
questo suo tendere a una condizione che vada oltre il proprio stato è pure un progresso reale, un effettivo
sviluppo.

Nelle successive Idee sulla filosofia della storia dell'umanità, Herder cercò di dimostrare che l'uomo era lo
scopo autentico, «il fiore della creazione», secondo una visione che ha dei contatti con la teoria
dell'evoluzione naturale; mentre «l'intera storia dell'umanità è una pura storia naturale delle forze,
operazioni, tendenze umane secondo luogo e tempo» la sua filosofia, il suo significato, coincide con la
storia stessa dell'umanità: «la filosofia della storia, che persegue la catena della tradizione, è propriamente
la vera storia umana» e ogni storia delle singole nazioni si rapporta a un quadro complessivo a formare il
piano della Provvidenza.

William Jones

William Jones (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) è stato un filologo, orientalista e
magistrato britannico, tra i primi studiosi di lingua sanscrita e precursore dell'indoeuropeistica.

Il giovane William Jones era un prodigio nell’imparare le lingue. Oltre all’ inglese e al gallese, di cui era
madrelingua, imparò il greco, il latino, il persiano, l’arabo, l’ebraico e le basi del cinese quando era ancora
giovane. Alla fine della sua vita conosceva perfettamente otto lingue, parlava fluentemente altre otto
lingue, con un dizionario alla mano, e aveva una competenza basilare in altre venti lingue.

Laureatosi all'University College di Oxford nel 1768, si dedicò all'orientalistica, disciplina alla quale contribuì
con numerosi saggi. Lavorò come tutore e traduttore e nel 1770 pubblicò su richiesta del Re Christian VII di
Danimarca una traduzione in francese di un’opera originariamente scritta in persiano da Mirza Mehdi Khan
Astarabadi.

Sempre nel 1770 intraprese studi giuridici al Middle Temple, per dedicarsi quindi alla magistratura: prima in
Galles poi, a partire dal 1783, al Tribunale supremo di Calcutta. Nella città indiana approfondì i suoi studi
sulle lingue e sulle culture del subcontinente, scrivendo numerosi saggi su di esse e fondando, nel 1784, la
Royal Asiatic Society of Bengala, della quale fu il primo presidente.

Studiò i Veda con Rāmalocana, un maestro che insegnava all’Università Nadiya Hindu, e imparò a parlare il
sanscrito. Egli imparò il sanscrito per prepararsi alla realizzazione di un ampio riassunto riguardante la legge
hindu e musulmana. Infatti uno dei motivi che lo spinsero ad imparare il sanscrito fu legato ai problemi
incontrati nei tribunali indiani allorquando i testimoni, che non parlavano inglese, dovevano giurare sulla
Bibbia.

Jones è conosciuto soprattutto per aver notato le relazioni esistenti tra le lingue Indo-Europee.

Nel discorso che tenne in occasione del terzo anniversario dell’Asiatic Society, il 2 febbraio del 1786, suggerì
che il sanscrito, il greco e il latino avessero una radice comune e che potessero essere legate a loro volta al
gotico e al celtico, ma anche al persiano. La fonte comune da cui deriverebbero tali lingue verrà in seguito
definita proto-indo europeo. Questa data segna convenzionalmente la nascita della linguistica storica e
comparata.

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