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Vittoriese di Ricerche Storiche – Vittorio Veneto (Conferenze autunnali 2017)

«8 settembre 1943»
testo della conferenza di Massimo Gusso – 8 settembre 2017

Parlare dell'8 settembre 1943, settantaquattro anni dopo, ci do-



Introduzione vrebbe dare quel tanto di neutralità critica necessaria a una valu-
tazione onesta e scorgere in quella data lo specchio di una trage-
dia nazionale, ma anche il suo punto di svolta.
C'è un unico modo di vedere le cose, sull'8 settembre, quello critico, di chi vuol
capire, ma che non può prescindere da alcuni punti di partenza indiscutibili:
1) la terribile responsabilità del regime fascista di aver trascinato il paese in
guerra, causa prima di tutte le disgrazie successive, e delle conseguenze collate-
rali, armistizio compreso; 2) la codardia e l'inettitudine, figlie anch'esse del ven-
tennio fascista, che non consentirono al re, a Badoglio e agli altri di decidere
qualcosa di diverso dal non decidere nulla; 3) infine il comportamento incoeren-
te degli Alleati, che non si aspettavano la caduta del fascismo il 25 luglio, non
seppero approfittarne, relegando ben presto il teatro di guerra italiano a fronte
secondario, restando quasi diciotto mesi inchiodati dalla reazione tedesca.
Il problema dell'8 settembre è legato al giudizio da dare alla modalità di attua-
zione di un improvviso cambio di strategia e di paradigma, anche se è difficile,
nelle condizioni date, e con quegli attori sulla scena, immaginare che potesse ac-
cadere qualcosa di diverso.
Certo, abitudine italica, tutto il torto si caricò (e si carica) sui capi, certamente
responsabili e colpevoli, ma ci si rifiuta ancora di accettare il fatto sgradevole,
che il tutti a casa, splendidamente impersonato da Aberto Sordi nell'omonimo
film di Comencini, cioè la tragica dissoluzione dell'esercito italiano, sia stata sì la
più plastica dimostrazione di massa che la guerra del regime non era sentita da-
gli stessi militari chiamati a combatterla ma che portò seco come diretta conse-
guenza l'addio alle armi e alla difesa del paese davanti all'occu-
pante nazista.
I mesi
precedenti Solo dieci mesi prima della data fatidica – parlo del novembre
1942 – c'era stata una sorta di generale redde rationem per le for-
ze dell'Asse, su tutti i fronti: il 5 novembre gli italo-tedeschi, al
comando di Rommel, furono sconfitti a El Alamein, ponendo fine all'illusione di
raggiungere Alessandria d'Egitto e il Canale di Suez; tre giorni dopo ebbe inizio
l'Operazione Torch, con la quale gli Alleati occuparono, quasi senza resistenza
delle truppe di Vichy, il Nord-Africa francese, Marocco e Algeria, ponendo le basi
per l'attacco alla penisola italiana.
Tra 12 e 15 novembre, in Estremo Oriente, venne combattuta la battaglia navale
di Guadalcanal che segnò la sconfitta della flotta nipponica e soprattutto mostrò
impietosamente che da quel momento per i giapponesi sarebbe stato sempre più
difficile assicurare i rifornimenti indispensabili alle loro truppe disseminate su
uno scacchiere immenso. Il 23 novembre, infine, si chiuse la sacca di Stalingrado
attorno alla 6a armata germanica, agli ordini del generale von Paulus. Clamoro-
samente, gli assedianti erano divenuti assediati, e le sorti dell'armata erano de-
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cise. Si era dimostrato così che i tedeschi fino ad allora apparentemente invinci-
bili, alla fine si potevano battere. Di lì in avanti per l'Asse fu, strategicamente e
tatticamente, solo strada in discesa.
Vorrei ricordare che nel dicembre 1942 Mussolini si mostrò sensibile alle ipotesi
giapponesi di pace con l'Unione Sovietica. Ma l'argomento "fine della guerra con-
tro la Russia", come paradigma per riorganizzare la difesa contro gli anglo-
americani, non ricevette però alcun positivo interesse da parte di Hitler. Il Füh-
rer combatteva infatti la sua personale, irredimibile guerra ideologica, già profe-
tizzata nel Mein Kampf, trascinando alla rovina la Germania e i suoi alleati.

Il 31 gennaio 1943 Mussolini allontanò dal comando supremo il
Il 1943 generale Ugo Cavallero (considerato filo-tedesco) e lo sostituì con
Vittorio Ambrosio, che in realtà era incline a trovare una soluzio-
ne per sganciarsi dai tedeschi, oppure magari per liberarsi del
Duce. Aiutante di Ambrosio era un certo generale Giuseppe Castellano, di cui
sentiremo ancora parlare.
In realtà esisteva anche un piano romeno per uno sganciamento concertato dai
tedeschi da parte dell'Italia e di tutti i satelliti dell'Asse, che Mussolini conobbe
dal sottosegretario agli esteri Bassanini, che aveva sostituito Ciano nel febbraio
1943, senza prenderlo però in considerazione.
Certamente una cospirazione militare anti-Mussolini era in atto, rallentata dal
re, che tergiversava. Ma non c'era niente di preciso e strutturato, era uno schie-
rarsi contro, soprattutto, in attesa che ci fosse l'occasione. In realtà ciascuno
sperava che l'altro gli togliesse per primo le castagne dal fuoco. I generali spera-
vano nel re; il re nei generali; qualcuno sperava che Mussolini stesso trovasse il
coraggio di rompere con i tedeschi; molti speravano che gli Alleati li salvassero
dalla vendetta di Hitler, semmai qualcosa fosse andato per il verso sbagliato. Il re
accampava giustificazioni costituzionali alle sue esitazioni; Mussolini sperava
che i tedeschi lo avrebbero tratto ancora una volta dai guai.
Intanto, il 12 maggio 1943, era caduta Tunisi.
Circa tre mesi prima dell'8 settembre, l'11 giugno 1943, gli Alleati sbarcarono a
Pantelleria e Lampedusa, ponendo le basi per lo sbarco in Sicilia.
Il 24 giugno 1943 Mussolini pronunciò un discorso con la solita retorica, e disse
tra l’altro parole rimaste celebri: Bisogna che non appena questa gente tenterà di
sbarcare, sia congelata su questa linea che i marinai chiamano del bagnasciuga.
Il giorno successivo, 25 giugno, un mese prima della crisi del regime, si tenne, a
Palazzo Venezia, un incontro tra il Duce, il capo di stato maggiore, generale Am-
brosio, e una delegazione nipponica. I giapponesi avevano allora un singolare in-
teresse alla tenuta del fronte del Mediterraneo: lì stava inchiodata una buona
parte della flotta britannica che altrimenti sarebbe potuta essere impiegata in
ausilio agli americani nel Pacifico, e pertanto i diplomatici del Sol Levante, erano
solleciti di attenzioni e di consigli al declinante regime mussoliniano.
Il 10 luglio gli Alleati, infine, sbarcarono in Sicilia.
A quel punto Hitler decise di mettere sotto tutela il Duce, e si orga-

Mussolini e nizzò in fretta e furia una conferenza tra i due dittatori, a Feltre
Hitler a Feltre (nella settecentesca villa del senatore Gaggia), per le 11,00 del 19

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luglio 1943. Prima che iniziasse l'incontro, Mussolini venne informato delle in-
tenzioni del Führer, tutto il potere al Duce, accantonamento della dinastia, impie-
go di più rilevanti rinforzi tedeschi sotto comando superiore tedesco [parole di
Keitel]. Hitler voleva insomma porre le forze armate italiane sotto comando te-
desco, e commissariare Mussolini, pur intestandogli nominalmente il comando
supremo. Questa, se ci pensate, è la vera data di nascita della Repubblica di
Salò, anche se gli interessati ancora non lo sapevano.
L'intenzione del Duce di chiedere a Hitler di far cessare la guerra sul fronte rus-
so, si scontrò con un torrentizio monologo del Führer, che poté essere interrotto
solo verso le dodici da un drammatico messaggio che riferiva di Roma sottopo-
sta, per la prima volta, a un pesante e sanguinoso bombardamento alleato.
Durante una pausa, circondato dai suoi, spaventati dalla piega fanatica che stava
prendendo la conferenza, abbandonata al lunghissimo sfogo hitleriano – e che gli
chiedevano in vario modo di uscire dalla guerra, Mussolini, secondo l'ambascia-
tore italiano a Berlino, Alfieri, disse: Credete forse che questo problema io non lo
senta agitarsi da tempo nel mio spirito travagliato?... è un profondo assillante
tormento. Ammetto la ipotesi: sganciarsi dalla Germania. La cosa è semplice; un
giorno, ad una data ora, si lancia un messaggio radio al nemico. Quali saranno le
conseguenze? Il nemico pretenderà, giustamente, una capitolazione [sembra
davvero una predizione di quel che accadrà l'8 settembre]. Siamo disposti a
cancellare d'un tratto venti anni di regime?... A riconoscere la nostra prima scon-
fitta militare e politica? A scomparire dalla scena del mondo? E poi si fa presto a
dire: sganciarsi dalla Germania. Quale atteggiamento prenderebbe Hitler? Credete
forse che egli ci lascerebbe libertà d'azione?
Nelle memorie dell'interprete ufficiale di Hitler, Paul Schmidt, si comprende che
la delegazione italiana, che capiva assai male il tedesco, era stata sottoposta a
ore di sproloqui hitleriani, senza traduzione, e senza ben comprenderne il senso,
Mussolini per primo. Era tanto agitato – scrisse di lui Schmidt – che, subito dopo
il ritorno, chiese urgentemente... i miei appunti sui colloqui. Ci fu detto che non
aveva potuto seguirli bene, e che le misure difensive concertate avrebbero potuto
essere da lui attuate solo avendo sott'occhio il mio testo. Gli appunti gli furono
mandati con un aereo speciale dopo che Hitler li ebbe riveduti.
Il 20 luglio, di ritorno da Feltre, il generale Ambrosio decise di chiudere con il
Duce, decidendosi ad agire. Dino Grandi, ex ministro degli esteri di Mussolini,
ebbe sentore della scelta dei militari e cercò di sfruttarne il potenziale, trasfe-
rendolo in politica. Si giunse così alla convocazione del Gran Consiglio del Fasci-
smo, nella sera del 24 luglio.
Il 25 luglio Mussolini aveva accettato la riunione nonostante lui stesso non
riconoscesse più di tanto il ruolo istituzionale dell'organismo
(basti pensare che non era stato convocato nemmeno a ratificare l'ingresso in
guerra dell'Italia): il Duce era sempre convinto di dominare il corso delle cose, di
rappresentare la soluzione, per il regime e per il paese, senza rendersi conto in-
vece che ormai lui rappresentava gran parte del problema, che regime e paese
avevano e soffrivano.

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L'ordine del giorno Grandi, che in sostanza chiedeva al Re di riassumere il co-


mando supremo, fu approvato 19 voti contro 7. Erano le 2,40 del 25 luglio 1943.
Però, il giorno successivo, alle 8,00, Mussolini era a Palazzo Venezia, come tutti i
giorni: evidentemente non temeva l'esito del voto e confidava nel re, che non gli
aveva mai fatto mancare il suo sostegno.
A mezzogiorno Mussolini ricevette l'ambasciatore giapponese Hidaka, che aveva
chiesto l'udienza prima del convegno di Feltre. Dal verbale di Bassanini leggia-
mo: L'ambasciatore... chiede ...ogni possibile precisazione circa la situazione politi-
ca e militare dell'Europa, che il Giappone considera con qualche preoccupazione...
Il Duce risponde che... approvava la politica perseguita dal Giappone in Estremo
Oriente, perché egli stesso era d'avviso che, quando le armi non costituiscono più
un mezzo sufficiente per fronteggiare una situazione, ci si deve rivolgere alla poli-
tica. Tale punto di vista egli aveva ripetutamente cercato di far comprendere al
Führer, in varie occasioni, non riuscendo a persuaderlo... il Duce aveva deciso di...
indurre il Führer... a far cessare le ostilità sul fronte orientale, giungendo ad un
componimento con la Russia... il Reich avrebbe potuto far sentire tutto il peso del
suo potenziale bellico contro gli anglo-americani... ristabilendo così una situazione
oggi indubbiamente compromessa. Il Duce pregava l'ambasciatore del Giappone di
comunicare al presidente Tojo che era suo vivo desiderio che egli appoggiasse con
tutte le sue forze tale passo presso il Führer, allo scopo di giungere alla cessazione
delle ostilità contro la Russia.
Il Giappone aveva stretto con l'URSS un accordo di neutralità il 13 aprile 1941, e
Tōkyō fin da subito aveva spinto per una soluzione armistiziale russo-tedesca,
da posizioni di forza.
Ma torniamo alle parole di Mussolini, verbalizzate il 25 luglio 1943: Tale pre-
ghiera, il Duce, rivolgeva al presidente Tojo [di far pressione su Hitler per una ini-
ziativa di pace con Mosca], perché solo in questo modo egli riteneva che la situa-
zione potesse modificarsi a favore del Tripartito. Altrimenti, date le condizioni in
cui l'Italia si trovava a condurre la sua guerra, essa si sarebbe, e a breve scadenza,
trovata nella assoluta impossibilità di continuare le ostilità, e sarebbe stata co-
stretta a dover esaminare una soluzione di carattere politico.
Vi prego di considerare con estrema attenzione queste parole: è una sorta
di preannuncio di un possibile armistizio mussoliniano.
Per Hidaka non poteva che essere il chiaro preannuncio di un'imminente uscita
unilaterale dell'Italia dalla guerra. Secondo il rapporto che l'ambasciatore fece al
suo governo, e che conosciamo dalle intercettazioni americane, Mussolini disse
anche: Per quel che concerne l'Italia, il tempo è quasi finito. Certo non possiamo
più dire: "il tempo è dalla nostra parte".
Proprio nel corso del colloquio con l'ambasciatore giapponese che Mussolini eb-
be conferma che il re l'avrebbe ricevuto alle 17. Mussolini venne arrestato dopo
questo colloquio, e il re nominò al suo posto il maresciallo Badoglio, che diede
vita ad un governo militare.

[25 luglio 1943: ANNUNCIO DELLA RADIO ç]
https://www.youtube.com/watch?v=ue2SYytllNw

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Badoglio intervenne pure con supponenza e doppiezza, con un suo proclama:


Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare
del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle
sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelo-
sa custode delle sue millenarie tradizioni.
La nomina di Badoglio venne interpretata, in realtà, in tutto il paese come la
premessa per l'uscita dell'Italia dal conflitto, nonostante quelle infelici tre paro-
le, la guerra continua, che il maresciallo Badoglio aveva messo sul piatto, ovvia-
mente per cercare di tranquillizzare i tedeschi.
Il regime fascista si dissolse, come neve al sole. Non reagì la Milizia, non ci fu al-
cun tentativo di riscossa, mentre i suoi simboli, i fasci littori, i busti del duce, ve-
nivano impietosamente scalpellati dalle strade e dai palazzi, in una sorta di im-
provvisata, e liberatoria, damnatio memoriae popolare.
Chi comprese l'antifona furono i tedeschi che mantennero le intenzioni già mani-
festate a Feltre, e cominciarono a far affluire truppe in Italia.
In effetti, il Comando supremo della Wehrmacht aveva messo a punto un piano
per sostituire Badoglio con un governo fascista e occupare Roma, per prevenire
la probabile richiesta di armistizio. I tedeschi temevano soprattutto che l'esem-
pio dell'Italia potesse contagiare altri paesi satelliti.
Il 29 luglio 1943 il generale Eisenhower inviò un messaggio al popolo italiano:
Noi ci compiacciamo col popolo italiano e con Casa Savoia per essersi liberati di
Mussolini, l'uomo che li ha coinvolti in guerra come strumento di Hitler e li ha por-
tati sull'orlo del disastro. Il più grande ostacolo che divideva il popolo italiano dal-
le Nazioni Unite è stato rimosso dagli Italiani stessi. Il solo ostacolo che rimane sul-
la via della pace è l'aggressore tedesco, che tuttora si trova sul suolo italiano. Voi
volete la pace: voi potete avere la pace immediatamente e una pace alle condizioni
onorevoli... Noi veniamo come liberatori. Il vostro ruolo consiste nel cessare imme-
diatamente ogni assistenza alle forze armate tedesche nel vostro paese. Se farete
ciò, noi vi libereremo dai tedeschi e dagli orrori della guerra...
Non sappiamo quanti italiani poterono realmente conoscere il fin troppo ottimi-
stico messaggio del generale americano, ma certo ne ebbero contezza gli uomini
di Badoglio, che forse si illusero che bastasse loro tendere la ma-

Tentativi di
no. Il 31 luglio, infatti, nel corso di una riunione alla presenza del
approccio con re, con Badoglio, Ambrosio, Guariglia e il ministro della real casa,
gli Alleati Acquarone, fu presa la decisione di negoziare con gli Alleati.
Il governo Badoglio iniziò da quel momento un difficilissimo bal-
letto – cui non era per nulla preparato (e di cui forse non era neppure perfetta-
mente persuaso) – nel tentativo, da un lato, di rassicurare i tedeschi sulla conti-
nuità dell'alleanza, e, dall'altro di convincere gli Alleati a negoziare un passaggio
di fronte dell'Italia. In questo senso, sappiamo che, fin dal 1940, per gli inglesi,
l'Italia rappresentava il punto debole del fronte nemico, per l'incerto stato del
morale del popolo e la minore capacità combattiva delle sue forze armate; si do-
veva perciò puntare sull'eliminazione dell'Italia dallo scacchiere bellico, per au-
mentare la pressione militare sulla Germania. Più facile a dirsi che a farsi.
Tra 4 e 5 agosto, due diplomatici italiani furono mandati in missione presso gli

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Alleati: Blasco Lanza D'Ajeta, arrivò a Lisbona, mentre Alfredo Berio giunse a
Tangeri. Avevano disposizione di chiedere, in buona sostanza, che l'Italia cam-
biasse alleanza, e passasse dalla parte alleata; chiesero inoltre uno sbarco alleato
nella Francia meridionale così da attirare fuori d'Italia almeno parte delle truppe
tedesche. In realtà si trattava di un ballon d'essai: nessuno dei due inviati aveva
ricevuto un documento che gli desse il potere di negoziare alcunché, e gli Alleati
si rifiutarono di trattare, ribadendo che l'unica strada possibile era la resa in-
condizionata (unconditional surrender).
In ogni caso le finte quinte teatrali, che il governo Badoglio aveva eretto attorno
a sé, continuarono a restare esposte e il 6 agosto 1943, si tenne un incontro, a
Tarvisio, tra il ministro degli esteri di Badoglio, Guariglia, il capo di stato mag-
giore, generale Ambrosio per parte italiana, Joachim von Ribbentrop e Wilhelm
Keitel per parte tedesca (i giapponesi si lamentarono parecchio per non essere
stati invitati). In quell'occasione gli italiani cercarono di ottenere il rientro nella
penisola delle forze italiane d'occupazione in Francia e nei Balcani, così che il
minor numero possibile di soldati venisse sorpreso fuori dai confini al momento
decisivo. La scusa era bell'e pronta: difendere l'Italia dall'attacco alleato.
L'idea forse era buona ma non andò a buon fine. Fu ingenuità, supponenza, inca-
pacità di porre i problemi nel modo giusto? Fu forse la irrisolutezza che fece
sembrare la proposta un inganno? Non sappiamo, ma si giunse a un nulla di fat-
to, e non venne presa nessuna decisione.
È bene ricordare che Guariglia, mentre incontrava il suo omologo nazista, si sta-
va muovendo su un terreno insidioso: aveva infatti dato istruzioni all'inviato ita-
liano a Lisbona, Lanza D'Ajeta, perché pre-avvisasse gli Alleati della stessa ra-
gione dell'incontro, aprendo la strada alle successive discussioni armistiziali: il
Governo italiano si riprometteva di sopire le palesi inquietudini tedesche e guada-
gnare quel tempo necessario... Il Governo italiano pregava... gli Alleati di non frain-
tendere la portata dell'imminente incontro Guariglia-Ribbentrop.
L'11 agosto 1943, il generale Ambrosio si incontrò anche con l'addetto militare
giapponese a Roma. Il giapponese voleva essere informato dell'esito dell'incon-
tro di Tarvisio e sembrava aver chiaro che i tedeschi stessero ormai invadendo
l'Italia; Ambrosio preferì divagare lasciando intendere la debolezza della sua po-
sizione.
Anche la risposta che, il 12 agosto, all'una del mattino, Guariglia telegraferà a
Tōkyō, appare un capolavoro di ipocrisia: Mio Convegno con Ribbentrop ha avuto
luogo a Tarvisio venerdì scorso. Non ero allora informato del desiderio giapponese
di partecipare... Al mio ritorno... ho informato [l']ambasciatore del Giappone delle
conversazioni che avevo avute ..., e le quali sono partite dalla premessa che l'Italia
continua la guerra e intende tener fede ai patti.
Lo stesso 12 agosto il generale Giuseppe Castellano lasciò Roma con in tasca le
istruzioni stilate da Ambrosio, e approvate da Guariglia mentre ancora tre giorni
dopo si sarebbe tenuta, a Bologna, l'ultima conferenza militare italo-tedesca del
periodo badogliano, tra i generali Alfred Jodl ed Erwin Rommel da una parte,
Mario Roatta e Francesco Rossi dall'altra, sempre avendo cura di non coinvolge-
re i giapponesi (probabilmente per pura sciatteria organizzativa).

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I tedeschi comunicarono al Quartier generale del Führer che l'atmosfera dell'in-


contro non era stata affatto cordiale: non c'era la prova del tradimento, ma non
mancavano gli indizi per sospettarlo.
Guariglia pregò l'Incaricato d'affari italiano a Berlino di parlarne a Ribbentrop,
forse per la prima volta con accenti sinceri: Ribbentrop – scriveva Guariglia – si
renderà facilmente conto che tra l'Italia e la Germania si tratta ormai di necessità
e di realtà militari e che le situazioni politiche vecchie o nuove non possono modifi-
care tali necessità e tali realtà.
Il 1° settembre arrivò a Roma, un nuovo diplomatico tedesco, Otto Rahn (il che
avrebbe dovuto far capire che i tedeschi avevano ormai mangiato la foglia). In
ogni caso, tanto i tedeschi, quanto i giapponesi – pur avendolo di fatto ricono-
sciuto – nutrivano pesanti dubbi sulla affidabilità del governo Badoglio.
Dobbiamo riconoscere che gli stessi anglo-americani, che pure avevano tante
volte propagandisticamente invitato gli italiani a sbarazzarsi di Mussolini, rite-
nevano improbabile quell'evento, e risultarono politicamente (e purtroppo anche
militarmente) impreparati all'evento stesso, quando invece si verificò, contro le
previsioni. E anch'essi decisero che non si dovevano troppo fidare del governo
Badoglio. E ne avevano ben donde.
Da parte italiana vi era poi una sopravvalutazione del tutto infondata della pro-
pria forza contrattuale. L'idea, esaltata dal fascismo, che l'Italia fosse divenuta
una grande potenza non finì nel nulla e la dirigenza italiana s'illuse che gli Allea-
ti, pur di eliminare l'Italia dal conflitto, non avrebbero insistito sulla resa incon-
dizionata se il nuovo governo si fosse presentato con un'immagine antifascista.
Si rivelò comunque fallimentare (o mal condotta) la duplice strategia adottata di
fingere – apertamente – la continuazione dell'alleanza con i tedeschi, mentre – di
nascosto – si trattava con gli Alleati, con il retro-pensiero, però, di attendere che
essi fossero nelle condizioni di occupare Roma e difendere il re e il governo.
Questo attendismo provocò la calata, senza colpo ferire del detestato vecchio al-
leato germanico, senza ottenere, né facilitare, la risalita della penisola (o nuovi
sbarchi) del nuovo bramato alleato-protettore anglo-americano.
Il 19 agosto, arrivò presso agli Alleati un rappresentante militare

L'Armistizio italiano, il citato generale Castellano, aiutante di Ambrosio.
A questo nuovo plenipotenziario furono però fornite da Roma
credenziali insufficienti (si disse allora per poterlo sconfessare,
se fosse stato necessario), ma egli riuscì comunque a incontrare, a Lisbona, alcu-
ni alti ufficiali alleati, tra cui il generale Walter Bedell Smith, che gli lessero il te-
sto di quello che sarà poi chiamato "Corto Armistizio" (quello dell'8 settembre)
A quel punto Castellano dovette scoprire le sue carte, rispondendo di non avere
l'autorità per negoziare un armistizio, in quanto il compito che gli era stato asse-
gnato era di far conoscere la situazione militare dell'Italia. Nel resoconto degli
Alleati, leggiamo: Il generale Castellano spiega che vi è un certo errore di interpre-
tazione nel significato da dare alla sua visita perché egli è venuto per discutere in
quale modo l'Italia può unirsi alle Nazioni Unite in opposizione alla Germania, allo
scopo di espellere i tedeschi dall'Italia in collaborazione cogli alleati.
Era chiaro che, come per i due primi effimeri negoziatori civili, anche Castellano

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avrebbe dovuto negoziare semplicemente il passaggio da una alleanza ad un'al-


tra, senza resa, un rovesciamento di alleanze, insomma.
Sembrava che, per la dirigenza italiana ai suoi massimi livelli, le decisioni delle
conferenze alleate (mi riferisco in particolare a quella di Casablanca del gennaio
1943), pure note pubblicamente, non contassero, e che si potesse far come se
niente fosse accaduto, passare armi e bagagli da una parte all'altra, insalutato
ospite. Una specie di furbata, insomma.
In realtà, come spiegò Bedell Smith, i termini dell'armistizio dovevano essere ac-
cettati senza condizioni. Certamente si sarebbe tenuto conto, disse, delle attività
antitedesche messe in atto dagli italiani, e i termini di resa avrebbero potuto es-
sere modificati in favore dell'Italia sulla base della reale entità dell'aiuto che il
governo e il popolo italiano forniranno per il resto della guerra [è il c.d. Docu-
mento di Québec]. Insomma, il preannuncio di ciò che dirà Churchill poco più
avanti, che gli italiani, cioè, per il loro riscatto politico e morale, avrebbero dovu-
to pagarsi il biglietto.
Castellano cercò di informarsi sulle sorti della Marina, sulle sorti della Monar-
chia e su vari dettagli, ma tutto venne rinviato. L'accordo era che il governo ita-
liano desse il suo assenso entro il 28 agosto, per radio (a Castellano venne infatti
consegnata una trasmittente), o a Roma, attraverso il rappresentante britannico
presso la Santa Sede. La data fu spostata poi al 30 agosto.
Qui successe l'ennesimo pasticcio: il generale Roatta, che intendeva verificare
l'operato di Castellano di cui non si avevano notizie dal 12 agosto, decise di in-
viare un proprio emissario agli Alleati, il generale Giacomo Zanussi.
La missione di Zanussi suscitò sospetti negli Alleati, che pensarono non senza
qualche ragione a una lotta di fazioni nell'alto comando italiano.
A Lisbona, Zanussi scoprì che Castellano già era partito e, insieme al generale
Bedell Smith fu condotto indietro via Nord Africa, fino in Sicilia, a Cassibile, dove
poi si incontrò con Castellano che, nel frattempo, era tornato a Roma il 27 agosto
e aveva sottoposto a Badoglio e Guariglia quel che aveva saputo.
Il 30 agosto fu comunicato agli Alleati che il giorno successivo Castellano avreb-
be raggiunto in aereo Cassibile.
Le sue istruzioni mostravano che il governo italiano non aveva per nulla com-
preso la situazione: Castellano, infatti, non avrebbe dovuto accettare, ma nemme-
no respingere l'armistizio, e mettere piuttosto in chiaro che l'Italia non avrebbe
comunque annunziato l'accettazione di un armistizio prima che un consistente
numero di divisioni alleate fosse stato sbarcato a nord di Roma per difenderla dai
tedeschi, proteggere il governo, la famiglia reale e il Vaticano.
In particolare, Castellano riferì le condizioni del suo governo per un cambiamen-
to di fronte, avanzando la richiesta di uno sbarco alleato di 15 divisioni, ma ot-
tenne da Bedell Smith la significativa risposta che in quel caso le potenze alleate
non avrebbero avuto alcun bisogno di concludere un armistizio con l'Italia: in-
somma era una mobilitazione italiana a difesa del paese, che gli Alleati volevano
vedere e sostenere.
I generali alleati restarono sconcertati quando poi scoprirono che Castellano non
aveva facoltà di firmare le condizioni dell'armistizio, e si limitarono quindi a re-

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spingere le proposte di cui era latore.


In un resoconto venato di simpatia, scritto da Robert Murphy, consigliere politi-
co di Eisenhower, si legge, a proposito delle difficoltà degli emissari italiani: Il
fattore preminente è che gli italiani non sono liberi di fare quello che preferiscono,
ma è un bel problema per loro decidere se siamo noi o i loro alleati tedeschi a poter
fare i maggiori danni e rovine in Italia. Stanno letteralmente tra l'incudine e il
martello. I rappresentanti italiani nel loro primo colloquio... hanno sottolineato di
poter fare poco e di non essere pronti a firmare alcunché, termini lunghi o brevi, a
meno che noi non si possa garantire uno sbarco alleato a nord di Roma, anche solo
un po' a nord di Roma. Hanno affermato che se sbarchiamo solo a sud di Roma i
tedeschi occuperanno la città e tutto il resto a nord di essa. A loro parere ...le di-
struzioni sarebbero peggiori di ogni immaginazione. Il generale Smith non ha pre-
so impegni, ma ha detto che vi era la possibilità di uno sbarco di una nostra forza ...
per esempio a nord della città eterna. Gli italiani hanno detto che in questo caso le
loro forze avrebbero garantito che non vi sarebbe stata resistenza agli sbarchi su-
gli aeroporti di Roma e le nostre forze sarebbero state aiutate ad occuparli.
Il generale Bedell Smith, dopo consultazioni, accondiscese infatti all'invio di una
divisione aviotrasportata per proteggere Roma, sempre che gli italiani potessero
garantirne la sicurezza, e quindi controllare gli aeroporti necessari all'operazio-
ne, ma il termine ultimo per l'accettazione dell'armistizio doveva essere impro-
rogabilmente la mezzanotte del 3 settembre.
Era il 31 agosto: i generali Castellano e Zanussi ripartirono in aereo per Roma.
Zanussi era, tra l'altro, latore del testo del cosiddetto "Lungo Armistizio", conse-
gnatogli a Lisbona, di cui tuttavia non parlo qui, perché ci porterebbe lontano.
Nelle carte alleate si legge peraltro la seguente minaccia ultimativa: Tra il gene-
rale Smith e loro vi è stata l'intesa che se il quartier generale delle forze alleate
non avesse, per la mezzanotte del 1° settembre, ricevuto una risposta che sancisse
l'accettazione italiana, gli alleati avrebbero ritenuto necessario bombardare pe-
santemente Roma.
Il primo settembre, appunto, l'Alto Comando italiano accettò le proposte di or-
ganizzazione dell'operazione aviotrasportata e, tornato di nuovo a Cassibile il 3
settembre, Castellano firmò il testo del "Corto Armistizio".
Erano le 17,15 del 3 settembre quando l'Italia si arrese agli Alleati, senza condizioni.
Ma i pasticci erano tutt'altro che finiti. Intanto si deve sottolineare il fatto che
firmando l'armistizio entrambe le parti si fondavano su errate valutazioni e giu-
dizi sulla situazione italiana. A parte l'inganno e le ambiguità reciproche sulla
forza rispettiva, lo sbaglio principale di valutazione riguardò le previste reazioni
tedesche. Sia i comandi alleati che quello italiano erano a conoscenza del piano
tedesco di ritirarsi almeno agli Appennini in caso di uno sbarco in forze. Gli an-
glo-americani non tennero in considerazione il fatto che la sua attuazione di-
pendeva proprio dal numero delle truppe che loro avrebbero impegnato e dalla
loro localizzazione. In effetti la duttilità tattica tedesca ebbe maggior successo:
Kesselring riuscì infatti a modificare il proprio piano di ritirata non appena si re-
se conto della limitata consistenza delle forze anglo-americane in campo.
Per di più, tutto il tempo perduto dagli italiani, era stato guadagnato dai tedeschi

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in termini di collocazione delle truppe in punti strategici della penisola italiana.


Nello stesso tempo gli Alleati ritennero di non potersi fidare delle promesse ita-
liane e di mandare a Roma due loro ufficiali, il generale Maxwell Taylor e il co-
lonnello William Gardiner, a verificare la situazione, soprattutto degli aeroporti.
Il 6 settembre il generale Roatta si rese conto che, in realtà l'attacco principale
deciso dagli Alleati si sarebbe concentrato in uno sbarco sulle coste di Salerno, e
non vicino a Roma, e che il piano per rendere disponibili aeroporti attorno alla
capitale, per l'intervento aviotrasportato concordato, non era fattibile: manca-
vano le truppe per assicurarlo concretamente, anche se nulla era stato fatto per
provvedere a farlo.
Così la sera del 7 settembre Taylor e Gardiner arrivarono a Roma scoprendo che
gli italiani non erano pronti. Il generale Carboni, che comandava la difesa di Ro-
ma, dichiarò probabilmente esagerando in negativo che con le forze a sua dispo-
sizione non era in grado di offrire appoggio logistico adeguato all'arrivo della di-
visione aviotrasportata (l'operazione Giant Two).
Taylor, sbalordito per quel che udiva, pretese allora di parlare con Badoglio, il
quale stava dormendo (come a Caporetto, se non erro), e che appoggiò il punto
di vista di Carboni, riassumibile banalmente nella frase: attendiamo che ci venia-
te a salvare. Di fronte allo sconcerto di Taylor, Badoglio fece qualcosa che scon-
volse ancor di più il militare americano, chiese cioè, come se fosse stata la cosa
più semplice del mondo, a cui nessuno aveva ancora pensato, che si cancellasse
l'operazione di trasporto aereo e, udite, udite, che si soprassedesse addirittura
all'armistizio tout-court.
Su richiesta di Taylor, un messaggio venne mandato da Badoglio al Quartier ge-
nerale di Eisenhower, ad Algeri: Dati cambiamenti e precipitare situazione esi-
stenza forze tedesche nella Zona di Roma non è più possibile accettare l'armistizio
immediato dato che ciò porterà la capitale ad essere occupata ed il governo ad es-
sere sopraffatto dai tedeschi. Operazione Giant 2 non è più possibile dato che io
non ho forze sufficienti per garantire gli aeroporti.
Era la sera del 7 settembre, tanto per rendere l'idea: l'accordo prevedeva che l'8
la notizia dell'avvenuto armistizio sarebbe dovuta esser resa pubblica.
Il voltafaccia di Badoglio, tanto umorale quanto irricevibile, indignò il Quartier
generale Alleato, ma non lo gettò nel panico. Eisenhower avvertì anzi Badoglio
che all'ora concordata gli Alleati avrebbero trasmesso via radio l'annuncio
dell'armistizio.
La richiesta dilatoria di Badoglio fu respinta e un avvertimento preciso venne
dato: qualsiasi cedimento da parte italiana nel far fronte agli obblighi sanciti
nell'accordo avrebbe avuto gravi conseguenze. Nessuna azione futura potrebbe in
seguito restaurare la fiducia nella vostra buona fede, e quindi sarà seguita dalla
dissoluzione del vostro governo e della vostra nazione.
Arrivò la data dell'8 settembre, un mercoledì.
8 SETTEMBRE La mattina gli Alleati bombardarono pesantemente il comando
tedesco di Kesserlig, a Frascati, nel tentativo di paralizzarne le
comunicazioni. Ma non ci fu nessun invio di truppe aviotrasportate. Gli italiani si
trovarono da soli, di fronte al loro destino.

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Il Ministero degli Esteri si vide costretto nel pomeriggio a improvvisare con i te-
deschi (come leggiamo in un appunto scritto dal Segretario Generale, Augusto
Rosso, delle ore 18:25. Straordinaria la battuta finale, non so quanto involonta-
ria): Il ministro Rahn mi telefona per segnalarmi una notizia diffusa dalla radio di
New York, [ascoltata dai tedeschi alle 17:45] secondo la quale il Generale Eisen-
hower aveva informato che era stato firmato l'armistizio con l'Italia e che tutte le
truppe italiane avevano deposto le armi. Il Signor Rahn mi ha chiesto che cosa si-
gnificava tale notizia. Gli ho risposto che tutto quello che io potevo dirgli era che a
me non risultava nulla in proposito. Anche a me era stato riferito pochi minuti
prima che la notizia dell'armistizio era stata annunziata dalla Radio Algeri. Rahn
mi ha chiesto che cosa ne pensavo. Ho risposto che credevo si trattasse di una ma-
novra della propaganda nemica.
Tuttavia, pochi minuti dopo, alle 19, Guariglia ricevette Rahn, al Ministero, e gli
confermò la notizia dell'armistizio.
Verso le 19,40 Badoglio, dopo diverse riunioni, annunciò alla radio l'armistizio.

[8 settembre 1943: ANNUNCIO DELLA RADIO ç]


https://www.youtube.com/watch?v=QIb7OONY8Dc

L'ultimo periodo del proclama di Badoglio ordinava alle truppe italiane di non
attaccare le truppe alleate, ma di reagire agli attacchi di qualsiasi altra prove-
nienza, che era un modo elegante di definire i tedeschi.
Alle 20,20, Badoglio, scopriva ufficialmente le carte telegrafando a Hitler: L'Italia
non ha più forza di resistenza. Le sue maggiori città, da Milano a Palermo, sono o
distrutte o occupate dal nemico. Le sue industrie sono paralizzate. La sua rete di
comunicazioni... è sconvolta. Le sue risorse... sono completamente esaurite... In que-
ste condizioni il Governo Italiano non può assumersi più oltre la responsabilità di
continuare la guerra, che è già costata all'Italia, oltre alla perdita del suo impero
coloniale, la distruzione delle sue città, l'annientamento delle sue industrie, della
sua marina mercantile, della sua rete ferroviaria, e finalmente l'invasione del pro-
prio territorio. Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando
qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita.
L'Italia, ad evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico
una richiesta di armistizio.
L'ambasciatore tedesco avrebbe detto: Questo è tradimento alla parola data. Co-
sa imputavano all'Italia i tedeschi e poi, come vedremo, i giapponesi? Si trattava
della violazione dell'articolo 2, del Protocollo aggiuntivo al Patto Tripartito, fir-
mato a Berlino da Italia, Germania e Giappone, in data 11 dicembre 1941, in
coincidenza con la dichiarazione di guerra tedesco-italiana agli Stati Uniti. In es-
so si leggeva: L'Italia, la Germania e il Giappone si impegnano a non concludere né
un armistizio né la pace sia con gli Stati Uniti d'America che con l'Inghilterra sen-
za piena reciproca intesa. Ovvio che dell'impegno non tenne conto l'Italia quando
per prima, con l'armistizio, si sganciò dal Tripartito, l'8 settembre 1943.

Le trattative per l'armistizio furono condotte fin dall'inizio con molta incertezza
e in un clima di reciproco sospetto all'interno dei comandi militari e del governo.
Pur nella generale convinzione che la guerra ormai fosse persa, rimase l'illusione
di poter far uscire il paese dal conflitto evitando uno scontro diretto con i tede-
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schi, da tutti considerata la prospettiva più temibile. Soprattutto, all'interno dei


vertici militari l'atteggiamento prevalente era di opposizione a un cambiamento
di fronte e favorevole alla continuazione dell'alleanza. Diverse ragioni spiegano
tale orientamento: dal timore di
prendere responsabilità perso-
nali alla paura per le conseguen-
ze, dalla convinzione ideologica
al senso dell'onore verso l'allea-
to. Soltanto il re, che aveva il
controllo delle forze armate e ne
costituiva l'unico punto di rife-
rimento, avrebbe potuto teori-
camente guidare un passaggio
repentino dell'Italia dalla parte degli angloamericani. In realtà, la sua personali-
tà, il carattere indeciso, la ventennale convivenza e corresponsabilità con il fasci-
smo, la profonda diffidenza nei confronti delle forze antifasciste, erano tutti ele-
menti che rendevano molto improbabile una sua iniziativa, se non sotto la pres-
sione di circostanze eccezionali. Per mancanza di capacità decisionale e per de-
bolezza di carattere il re non era all'altezza del compito che si trovò ad affronta-
re. Così, non solo non venne presa alcuna misura per un rivolgimento di fronte,
ma fino alla fine continuò anche la preparazione militare per reagire al previsto
sbarco alleato. Il tentativo di evitare - o quanto meno limitare ad una parte del
paese - l'occupazione tedesca con un'azione offensiva avrebbe comportato una
presa di posizione contro il proprio passato e rischi personali che il re e Badoglio
non avevano nessuna intenzione di affrontare.

Le truppe tedesche si accinsero intanto ad accerchiare Roma e nelle prime ore


del mattino del 9 settembre, la famiglia reale, Badoglio e i capi militari lasciaro-
no la capitale per dirigersi a Pescara, da dove con una nave della marina rag-
giunsero Brindisi.
L'annunzio dell'armistizio e la fuga del re e del governo lasciarono senza diretti-
ve o ordini le forze armate italiane, se si esclude in qualche modo la marina, che
riuscì a organizzare l'avvio della flotta verso porti alleati: l'occasionale resisten-
za italiana, nei Balcani e in alcune isole greche, rappresentarono fatti locali, do-
vuti all'iniziativa e al coraggio di comandanti e soldati, ed ebbero esito tragico. In
molti casi gli ufficiali dissero ai loro uomini di tornarsene a casa.
Dopo alcuni giorni solo sette divisioni italiane rimasero utilizzabili dagli Alleati,
demoralizzate e male equipaggiate. Il collasso repentino dell'esercito italiano fu
un'amara sorpresa per gli anglo-americani, che non si sentirono incoraggiati ad
usare in seguito contro i tedeschi le forse superstiti.
Il 10 settembre il re e Badoglio erano a Brindisi, con lo sbarco di Salerno in cor-
so, e iniziò la formazione di un'entità politica dove il sovrano avrebbe dovuto
rappresentare tutta l'Italia mentre a mala pena aveva accesso a quattro province
pugliesi. Soltanto il giorno successivo, 11 settembre, Badoglio diede ordine a
quel che restava delle sue truppe di considerare nemiche le truppe germaniche.
Nel frattempo, il 12 settembre, Mussolini era stato liberato dai tedeschi e si ven-

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nero a profilare quindi due entità, entrambe definite "Italia" dalle rispettive pro-
pagande, una a sud col re, sostenuto e riconosciuto dagli Alleati (dove in breve
sarebbe tornato dopo tanti anni anche un embrione di dialettica politica), e una
a centro-nord che sarà governata – in regime di occupazione militare nazista –
da un sedicente governo fascista repubblicano, che non godette di una vera per-
sonalità internazionale (era un governo fantoccio) ma che si consumò soprattut-
to in vendette e repressione interna.
Quella parentesi italiana della seconda guerra mondiale ebbe senza dubbio ca-
ratteristiche anche di guerra civile.

Un telegramma di Badoglio analogo a quello inviato a Hitler, fu


8 settembre in mandato anche al governo nipponico, tramite l'ambasciata a
estremo oriente
Tōkyō. Esso risulta pervenuto il 9 settembre, alle ore 8:19 locali
ma venne materialmente recapitato all'ambasciata italiana solo
la mattina del giorno 10, dopo che la stessa era già stata messa sotto il controllo
della polizia giapponese.
Evidentemente le autorità nipponiche, a conoscenza del contenuto del tele-
gramma, avevano ponderato come comportarsi, decidendo infine per la conse-
gna. Toccò a Pasquale Jannelli, il funzionario, cioè, più alto in grado dopo l'amba-
sciatore, recarsi – sotto scorta della polizia – lo stesso 10 settembre al ministero
degli esteri giapponese, per dare lettura ufficiale del telegramma del suo gover-
no. Jannelli fu ricevuto dal vice ministro, Matsumoto e la lettura delle motivazio-
ni italiane dell'armistizio effettuata da Jannelli, davanti a una personalità secon-
daria del governo giapponese rappresentò l'ultimo atto della diplomazia italiana
nel Sol Levante, prima che gli americani mettessero piede sul suolo nipponico ai
primi di settembre 1945.
La prassi diplomatica prevedeva la consegna al diplomatico italiano di una nota
di protesta giapponese, che tuttavia, nonostante il tempo che le autorità nippo-
niche si erano prese, non era pronta. Essa venne recapitata in modo del tutto ir-
rituale solo la sera del 10 settembre, ma all'ambasciata italiana non fu consentito
di trasmetterla a Roma.
Il passo più significativo della nota suona così: ritardando la data della pubblica-
zione [dell'armistizio] –evidentemente i giapponesi avevano saputo che la firma
era stata apposta il 3 settembre–, le navi italiane alla fonda in Italia hanno avuto
il tempo di dirigersi verso i porti nemici e le navi [italiane nei porti] dell'Asia
Orientale di mettere in atto misure di sabotaggio. Tutto ciò costituisce chiaramen-
te un atto di tradimento che il governo imperiale non può assolutamente ammet-
tere. Il capitano di vascello Giuseppe Prelli, di stanza a Shanghai, si trovava per
caso a Tōkyō nei giorni antecedenti l'armistizio per contatti con l'ambasciata e le
autorità giapponesi interpretarono la visita come la prova del coinvolgimento
dei diplomatici italiani nel tentativo, in parte riuscito, di autoaffondamento del
naviglio militare italiano in acque cinesi sulla base di ordini della Marina, per
evitare di far cadere le unità nelle mani del nemico. Solo l'incrociatore Eritrea
riuscì a sottrarsi al controllo giapponese e a raggiungere l'isola di Ceylon.
Tutti gli italiani, semplici cittadini, militari, marittimi fino ai diplomatici vennero
"presi prigionieri" e internati, con diverse tempistiche e modalità, fin dal 9 set-

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tembre, quando la stessa ambasciata italiana a Tōkyō fu circondata dalla polizia,


ne venne violato l'archivio, compreso il cifrario, così come accadde ai consolati e
alla sede diplomatica di Shanghai.
Pochissimi avrebbero aderito alla Repubblica Sociale Italiana e perciò quasi tutti
finirono in campi di detenzione senza che fosse riconosciuto loro il minimo dirit-
to, con sofferenze penose (senza che si tenesse conto nemmeno della sorte dei
bambini, come Dacia Maraini allora in Giappone con i genitori e le sorelline) fino
alla fine di agosto del 1945.
Il concetto di tradimento era stato peraltro applicato dai tedeschi agli italiani ma
in questa circostanza il fanatismo del gruppo dirigente giapponese seppe rivesti-
re la parola di uno spessore assai più inquietante.


L'8 settembre non determinò di per sé la crisi italiana, quali le
considerazioni responsabilità della dirigenza politica e militare nella vicenda
finali armistiziale, ma evidenziò una condizione morale già in atto
nella stragrande maggioranza degli italiani.
È verissimo che dopo l'armistizio nacque e prese piede, specie nel nord Italia, la
resistenza al nazi-fascismo, attraverso bande armate di partigiani, che fu, specie
all'inizio, fenomeno elitario ma si estese dimostrandosi fondamentale e fondati-
vo; è vero che truppe italiane resistettero eroicamente ai tedeschi e che tra i sei-
centomila soldati internati nei campi di concentramento in Germania solo po-
chissimi accettarono di rientrare in Italia per servire la Repubblica di Salò, ma la
mole dell'assenza di reazioni e il peso della sterminata passività che caratteriz-
zarono la stragrande maggioranza degli italiani, al sud come al nord, di fronte
all'8 settembre non può essere ignorata né sottovalutata.
Gli avvenimenti del settembre 1943 dimostrarono che venti anni di regime tota-
litario avevano annullato ogni capacità della classe dirigente, e particolarmente
dei quadri militari italiani, di assumere autonome responsabilità e prendere de-
cisioni. Furono anche la prova evidente della incapacità della monarchia a guida-
re il paese fuori e oltre l'esperienza fascista. I costi del crollo dell'autorità statale
in quel momento sono stati pagati dall'intero popolo italiano. Se con la deposi-
zione di Mussolini la monarchia aveva ottenuto il consenso della maggioranza
della popolazione, questa unità nazionale si spezzò con l'8 settembre.
La scelta di un netto distacco dal passato, che il re Vittorio Emanuele III non era
riuscito a fare, ricadde sull'intero popolo. La maggioranza mantenne l'atteggia-
mento attendista, che aveva caratterizzato gli ultimi anni di guerra, cercando di
sopravvivere fino alla conclusione del conflitto e solo una minoranza rispose al ri-
chiamo del rinato partito fascista all'onore della patria e alla fedeltà alla alleanza
con la Germania, ormai attestata come forza di occupazione nel paese.
L'8 settembre costituì però anche, come si è detto, un punto di svolta perché
rappresentò l'occasione per un rilancio dei valori antifascisti. Il vuoto di potere
venutosi a creare con il tracollo di tutta una classe dirigente costrinse una parte
della popolazione a fare un bilancio del disastro cui il regime aveva portato il pae-
se. Non soltanto gli esponenti dell'opposizione antifascista, che lo stesso 9 set-
tembre dettero vita al Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche molta gente
che fino a quel momento aveva appoggiato il regime, di fronte alla occupazione
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tedesca fu spinta gradualmente a una condanna consapevole della guerra fasci-


sta fino alla esplicita adesione al movimento di resistenza. Si trattava sempre di
una minoranza, ma che via via si allargò e poté diventare espressione della vo-
lontà di rinnovamento e di riconquista della democrazia.
Il trauma dell'armistizio e la frattura nel paese che ne seguì non sono stati però
totalmente superati, non soltanto perché non è stata fatta chiarezza su quello
che veramente successe né sono state accertate le responsabilità individuali, ma
perché il nuovo stato, fondato sulla resistenza, ha finito per rimuovere il ricordo
della tragedia dell'8 settembre, simbolo (un po' come Caporetto) di sconfitta mi-
litare, inettitudine dei comandi e catastrofe morale. Invece essa meriterebbe
d'essere ancor di più studiata, per capire per quali ragioni una situazione del ge-
nere si sia verificata e comprendere gli interna corporis di una tragedia.

Davvero di tante cose non ho potuto parlare stasera, per questioni di tempo, in particolare:
- dell'Armistizio c.d. "Lungo", che priverà quasi di sovranità l'Italia, e sarà il cruccio dei primi
governi italiano, fino al trattato di pace;
- delle due inchieste e del processo penale che interessarono la vicenda dell'armistizio dell'8
settembre, con migliaia di pagine prodotte ma nessun colpevole;
- della Memoria 44, del piano italiano, cioè, che avrebbe dovuto prevedere come reagire ai te-
deschi, ma a cui non venne data attuazione (e di cui non si trova più traccia);
- del comportamento degli italiani, cioè dell'analisi sociologica e antropologica sugli atteggia-
menti, le pulsioni, le volontà e le inettitudini che precedettero l'8 settembre e lo seguirono.


questa la bibliografia ampiamente utilizzata, cui faccio riferimento, e alla quale comunque rinvio:

– Elena Aga Rossi, L'inganno Reciproco. L'armistizio tra l'Italia e gli Angloamericani del Settembre 1943, Ministero per i Beni Cul-
turali e Ambientali - Ufficio Centrale Per i Beni Archivistici, Roma 1993
www.archivi.beniculturali.it/dga/uploads/documents/Fonti/Fonti_XVI.pdf
– Frederick W. Deakin, The Brutal Friendship. Mussolini, Hitler and the Fall of Italian Fascism, Weidenfeld & Nicolson, London
1963, tr. it. Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1970
– Renzo De Felice, Mussolini e il Fascismo (6) – Mussolini l'alleato I. L'Italia in guerra 1940-1943, Tomo primo. Dalla guerra
«breve» alla guerra lunga, Einaudi, Torino (1996=) 2006
– Renzo De Felice, Mussolini e il Fascismo (7) – Mussolini l'alleato I. L'Italia in guerra 1940-1943, Tomo secondo. Crisi e agonia
del regime, Einaudi, Torino (1996=) 2006
– Renzo De Felice, Mussolini e il Fascismo (8) – Mussolini l'alleato II. 1943-1945 La guerra civile, Einaudi, Torino (1998=) 2006
Annibale Del Mare, Storia d'Italia dopo l'8 settembre '43. Rassegna degli avvenimenti e documentazione ufficiale e inedita, Fonda-
zione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2016 (e-book)
http://fondazionefeltrinelli.it/schede/ebook-storia-italia-dopo-otto-settembre-9788868352561/
– Albert N. Garland-Haward MacGaw Smyth, Sicily and the Surrender of Italy, Center of Military History - United States Army,
Washington (D.C.) 1993
– Norman Kogan, Italy and the Allies, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1961, tr. it. L'Italia e gli Alleati, Lerici editori,
Milano 1963
– Norman Kogan, A Political History of Postwar Italy, 1966, tr.it. L'Italia del Dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Laterza,
Roma-Bari (1968=) 1974
– Ministero degli Affari Esteri - Commissione per la Pubblicazione dei Documenti Diplomatici, I Documenti Diplomatici Italiani,
Nona Serie: 1939-1943, Volume X (7 febbraio-8 settembre 1943), Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990
– Ministero della Difesa – Stato Maggiore dell'Esercito – Ufficio Storico, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre
1943, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1975

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