OMBRE SULL’HUDSON
Romanzo
«Sono nato nella città di Radzymin», racconta Singer nella sua autobiografia, «vicino a Varsavia, capitale
della Polonia, il 14 luglio 1904. Mio padre, Pinchos Menachem Singer, era un rabbino, un uomo molto
religioso. Aveva la barba rossiccia, dei basettoni lunghi e neri e gli occhi celesti. Mia madre, che si
chiamava Betsabea, era figlia del rabbino di Bilgoray paese non lontano da Lublino. Aveva i capelli rossi
e li portava corti, sopra aveva una parrucca, di quelle che usavano portare le donne religiose, molto
osservanti, dopo il matrimonio. Agli inizi del 1908, quando avevo tre anni, i miei genitori si trasferirono
a Varsavia, mio padre esercitava la sua missione di rabbino in una strada di un quartiere poverissimo,
che si chiamava via Krochmalna.» A Varsavia, Singer cresce accostandosi alla lettura, giocando con i
bambini di via Krochmalna e spiando affascinato l’umanità variopinta che affolla il tribunale rabbinico
(Beth Dia) tenuto dal padre. Nel 1917 si trasferisce con la famiglia a Bilgoray, dove approfondisce i suoi
studi e sceglie lo yiddish per le sue prime prove di scrittura. Tornato a Varsavia nel 1923, comincia a
lavorare come traduttore e correttore di bozze e pubblica i primi racconti, firmandosi «Isaac Bashevis»
per non essere confuso con suo fratello Israel Joshua, anch’egli scrittore e giornalista già affermato. Nel
1935, dopo aver pubblicato il suo primo romanzo (Satana a Goray), emigra negli Stati Uniti a New
York, dove il fratello Israel lo ha preceduto di qualche anno. La madre, la sorella e il fratello minore,
rimasti in Polonia, vengono deportati dai nazisti e muoiono in un campo di concentramento. A New
York Singer, che si è sposato con Alma Wassermann, un’emigrata tedesca, lavora nella redazione del
«Jewish Daily Forward>. («Der Forverts» in yiddish), scrivendo sotto pseudonimo numerosi articoli e
racconti. Nel 1950 s’impone sulla scena letteraria americana con il romanzo La famiglia Moskat,
dedicato alla memoria dell’amato fratello Israel. E’ l’inizio di una stagione creativa che non conoscerà
più soste, che sarà confortata da un crescente successo di critica e di pubblico e che sarà coronata, nel
1978, dal conferimento del Premio Nobel. Isaac Bashevis Singer muore nel 1991, a Miami, in Florida.
Nelle edizioni TEA sono stati pubblicati i romanzi Il mago di Lublino, La famiglia Moskat, Il re dei
campi. Lo schiavo. La fortezza. Il penitente. La proprietà, Nemici, una storia d’amore. Il certificato,
Shosha, Schiuma, Alla corte di mio padre, Anime perdute e il penitente, le raccolte di racconti Gimpel
l’idiota. Passioni, La luna e la morte, Una corona di piume e Un amico di Kafka, e le memorie
autobiografiche Ricerca e perdizione.
«Quella sera gli ospiti erano riuniti nell’appartamento di Boris Makaver, nell’Upper West Side. Il palazzo
di abitazioni dove aveva appena traslocato gli ricordava Varsavia. Costruito attorno a un grandissimo
cortile, dava su Broadway da un lato e su West End Avenue dall’altro.» Siamo alla fine degli anni
Quaranta nella comunità ebraica di New York, fra coloro che hanno cercato salvezza in America e
quanti sono sopravvissuti all’Olocausto. Boris Makaver, un pio uomo d’affari, decide di diseredare la
figlia Anna, non appena scopre che ha lasciato il secondo marito, un cupo avvocato molto più anziano
di lei, per fuggire con il suo ex precettore, Hertz Grein, un uomo inquieto, a sua volta sposato e con
un’amante… Romanzo di grande respiro, comico e tragico insieme. Ombre sull’Hudson, scritto in
yiddish, apparve a puntate su rivista tra il 1957 e il 1958, e solo recentemente è stato tradotto in inglese.
La vicenda ha il suo fulcro nella casa di Boris Makaver, attorno alla quale si muove una costellazione di
personaggi eccentrici e curiosi che formano una corte dei miracoli tipica del mondo ebraico americano.
E sebbene Singer cerchi sempre una risposta di ordine mistico–religioso agli enigmi della vita, serpeggia
in quest’opera, tra le maggiori del grande scrittore, un sottile ma radicato pessimismo sulla natura
umana. Il riso amaro, e talora beffardo, che la pervade è soltanto l’altra faccia, cioè la maschera, della
disperazione.
Isaac Bashevis Singer (Radymin, Polonia, 1904 – Miami, 1991) è considerato il più grande narratore
ebraico del Novecento. Nel 1978 gli fu attribuito il Premio Nobel. Le sue opere, tradotte in italiano
dalla Longanesi a partire dagli anni Sessanta, sono pubblicate in edizione economica dalla TEA.
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Nota dell’editore.
I fatti raccontati in Ombre sull’Hudson sono ambientati nel periodo immediatamente dopo la seconda
guerra mondiale, agli inizi dell’epoca della Guerra Fredda. La vicenda si svolge tra il dicembre del 1947
e il novembre del 1949, principalmente a New York, al tempo della fondazione dello Stato di Israele. Il
libro si conclude in forma di lettera scritta nel ‘49. Isaac Bashevis Singer ne pubblicò la versione
originale in yiddish su The Forward, dove apparve due volte a puntate tra il gennaio del ‘57 e il gennaio
del ‘58. La traduzione in americano è stata realizzata dal professor Joseph Sherman della University of
Witwatersrand, e la redazione è stata curata da Jane Bobko e Robert Giroux.
PARTE PRIMA.
CAPITOLO 1.
Quella sera gli ospiti erano riuniti nell'appartamento di Boris Makaver nell’Upper West Side. Il palazzo
di abitazioni dove aveva appena traslocato gli ricordava Varsavia. Costruito attorno a un grandissimo
cortile, dava sulla Broadway da un lato e su West End Avenue dall’altro.
Il cabinet de travail, o studio, come lo chiamava sua figlia Anna, aveva una finestra che dava sul cortile,
per cui ogni volta che gettava un’occhiata fuori, Boris poteva quasi immaginare di essere di nuovo a
Varsavia. Sempre tranquillo al suo centro, il cortile racchiudeva un giardinetto circondato da uno
steccato. Di giorno il sole risaliva lentamente la parete di fronte. Bambini scorrazzavano sull’asfalto
giocando, fumo si levava dal camino, passeri svolazzavano e cinguettavano. Sembrava che mancasse
soltanto un ambulante con un sacco di mercanzia di seconda mano o un indovino con pappagallo e
organetto.
Ogni volta che gettava un’occhiata nel cortile e ne ascoltava il silenzio, il trambusto dell’America
svaporava e la mente di Boris si riempiva di pensieri europei, oziosi, divaganti, pieni di nostalgie
giovanili. Ma gli bastava spostarsi nel salon, il soggiorno, per sentire il frastuono della Broadway
riverberarsi fino al quattordicesimo piano. Lì, in piedi a guardare le rumorose auto, i bus e i camion, e a
cogliere il rombo della metropolitana attraverso le grate metalliche, gli tornavano in mente i suoi affari e
pensava di telefonare al broker e di combinare un incontro con il contabile. Di punto in bianco la
giornata si era fatta troppo corta e sentiva il bisogno di tirar fuori la stilografica per scribacchiare
qualcosa sull’agenda. In simili occasioni pensava al versetto biblico: «Il Signore non era nel terremoto.» 1
Quando fuori nevicava, invece, la Brodway si faceva confortevolmente familiare. Essendo inverno, le
finestre erano sbarrate, protette con imposte e coperte da tende.
Era una serata di quelle. Boris aveva invitato a cena sua figlia Anna e il genero Stanislaw Luria, nonché il
nipote Herman Makaver, risparmiato dall’Olocausto hitleriano. Aveva lasciato la Polonia per
combattere con i lealisti in Spagna e poi era riuscito a raggiungere Algeri e da lì, con l’aiuto di Boris,
l’America. Gli altri ospiti erano il professor Shrage, Hertz Dovid Grein, il dottor Solomon Margolin,
amico di Boris da quando erano studenti alla yeshivah di Ger, e il dottor Zadok Halperin con la sorella
Frieda Tamar.
Prima di mangiare, Boris si mise una yarmulke e, dopo aver invitato gli altri a fare come lui, si lavò le
mani recitando le prescritte benedizioni. Il rituale fu osservato scrupolosamente anche da Frieda Tamar,
vedova di un rabbino tedesco e donna colta, che aveva pubblicato un libro in inglese sul ruolo delle
donne nella cultura giudaica. Gli altri ospiti, invece, si comportavano da agnostici. Boris era vedovo, e la
cena era stata preparata dalla sua parente Reytze, che gli curava la casa dalla morte della moglie avvenuta
ventitré anni prima. Lo aveva accompagnato in tutte le sue peregrinazioni, da Varsavia a Berlino, e,
dopo la presa del potere di Hitler, da Parigi a Casablanca, L’Avana e finalmente New York.
1 Elia non sentì il Signore nel forte vento né nel terremoto, ma in un «mormorio» (Re 1, 19, 9-13). (N.d.A..)
Dopo cena si trasferirono tutti nel soggiorno. Boris aveva arredato il suo nuovo appartamento come
quelli di un tempo a Varsavia e Berlino, con pesante mobilio di mogano, ornati candelieri con prismi di
cristallo penduli, divani ricoperti di felpa e velluto e poltrone protette da appoggiatesta in pizzo e
coperture con frange. In America aveva comperato con regolarità molti volumi di erudizione rabbinica
e ogni sorta di lampade di Hanukkah, orologi con le ore in numeri ebraici, piatti per il seder pasquale,
candelieri per lo shabbath, oltre a placche metalliche, corone e bacchette che adornano i rotoli della
Torah. In un locale aveva persino realizzato una piccola casa di preghiera, con due candelabri di rame,
un’Arca Santa, un leggio e una placca a parete con un versetto dei Salmi che esortava a riflessione e
meditazione. Sebbene da giovanotto avesse cambiato il nome da Borukh in Boris per motivi d’affari,
non aveva mai abbandonato l’ebraismo. E dopo il massacro hitleriano era tornato a una rigorosa
osservanza religiosa.
Avvolto in scialle da preghiera e filatteri, recitava ogni giorno feriale la funzione mattutina e non
trascurava più le preghiere del pomeriggio e della sera. A Williamsburg aveva scoperto un rebbe
chassidico dal cui padre un tempo si recava Reb Menachem Makaver, suo padre. E ricordava ancora un
paio di pagine di Ghemarà.
Adesso, nel soggiorno, Boris citò un altro degli aforismi in rima di questo rebbe: «‘Per man dei gentili
comunque moriamo, quindi il nostro nome ebraico conserviamo.’ Anche se ci assassinano in quanto
individui, perché dovremmo decidere di morire come popolo? Rimaniamo almeno ebrei, e non
assimiliamoci.» Il dottor Margolin fece una smorfia. «A tuo modo di vedere, Boris, se non si segue ogni
pur minima prescrizione di qualsiasi scalcinato rebbe, si diventa automaticamente assimilazionisti.
Credimi, se Mosè dovesse levarsi dalla tomba per dare una bella occhiata a questi trogloditi di
Williamsburg che chiacchierano a vanvera nei loro gabbani neri, sbracciandosi di continuo come matti,
li coprirebbe di contumelie.
Ricordati: Mosè era un principe dell’Egitto, non uno shmegege con i cernecchi. Secondo Freud era un
egiziano archetipico.»
«Taci, Shloymele, taci! Freud era uno sporco tedesco. Del nostro Maestro Mosè non sappiamo che
quanto sta scritto nella Torah.»
«Ha avuto due mogli, la prima figlia di un sacerdote madianita e l’altra nera. Quindi, qui a New York
dovrebbe vivere a Harlem.»
«Blasfemo! Tieni il tuo spirito per te! Che cosa sappiamo del passato?
Ogni generazione ha i suoi usi.»
«Ti hanno convinto a furia di chiacchiere che ogni ebreo è un tabaccone ingobbito, e l’immagine ti è
rimasta ficcata in testa. Per te gli unici ebrei sono i chassidim polacchi con la loro primitiva mantella
russa, che sgraffignano qualche boccone dal tavolo di certi rebbe che passano il tempo a spaccare il
capello in quattro. E quelli di Spagna? D’Italia?
Manoello Giudeo non era forse ebreo? E Rabbi Moshe Chaim Luzzatto? E Joseph Salomon di Candia?
E Rabbi Leone da Modena? Se avessi imparato un briciolo di storia, non saresti di vedute così anguste.»
«Storia, mistero, cicoria! Che cosa dimostra tutto ciò? Io so una cosa sola, Shloymele: i nostri padri
erano ebrei, noi siamo diventati mezzi ebrei e i nostri figli sono… be’, sarà meglio che non dica niente.
Se all’altro capo del mondo ci sono giovani ebrei capaci di arruolarsi nel GPU per fucilare la gente,
dovremmo strapparci gli indumenti in segno di lutto e fare shivah… non per sette giorni, ma per tutta
la vita.»
«E tu siediti a fare shivah. Lo spirito ebraico di tuo padre e tuo nonno non esiste più e non ricomparirà
mai più. E’ stato un breve episodio nella storia ebraica.»
«Esiste ancora e continuerà a esistere!» sbraitò Boris Makaver.
«Soltanto ieri ho comperato un libro sacro stampato da studenti di una yeshivah di Shangai. Morivamo
di fame e stampavamo libri sacri.
Fuggivamo da Hitler e Stalin e pubblicavamo i commentari di Rashba. E dove? In Cina! Ti giuro,
Shloymele, mille anni dopo aver dimenticato tutti i tuoi intellettuali, saremo ancora lì a studiare la
Ghemarà.»
«Be’, se lo giuri, non c’è più niente da dire.» La stessa polemica, la stessa discussione si ripeteva con
tutte le varianti immaginabili ogni volta che si incontravano, ma né Boris né i suoi ospiti si stancavano
mai di simili controversie. La serata invernale era appena cominciata. Dei sette uomini presenti, cinque
erano senza compagna. Margolin aveva sposato vent’anni prima a Berlino una giovane tedesca che nel
‘38 lo aveva lasciato per mettersi con un nazista, portando con sé la loro figlioletta Mitzi. La moglie del
professor Shrage era morta nel ghetto di Varsavia. Herman non si era mai sposato. Hertz Grein una
famiglia ce l’aveva, ma era il tipo di uomo che quando va in visita non porta mai con sé la moglie. Era
seduto su una chaise longue a chiacchierare con Anna, figlia di Boris Makaver e moglie di Stanislaw
Luria.
Le disse sottovoce, in tono confidenziale: «Stanno riattaccando di nuovo la Questione Ebraica.»
«Sento gli stessi discorsi da quando ero una bambina grande così», rispose Anna, indicando con un
gesto quanto fosse piccola a quei tempi.
A un suo dito, sotto la luce della lampada, un enorme anello con diamante emise un lampo di tutti i
colori dell’arcobaleno.
Stanislaw Luria, il marito di Anna, stava cercando di averla vinta con il nipote del padrone di casa,
Herman. Mentre quest’ultimo rimaneva un comunista devoto, Luria vi si opponeva con durezza. La sua
unica recriminazione nei confronti dell’America era che non avesse deciso di gettare la bomba atomica
su Mosca invece che su Hiroshima.
I due, però, avevano una cosa in comune: parlavano entrambi correntemente il polacco. Luria aveva
fatto pratica di avvocato a Varsavia, e Herman aveva studiato alla facoltà di giurisprudenza prima di
andarsene a difendere Madrid.
Luria argomentò: «Prosze pana, io so esattamente che cosa pensa lei.
Conosco il marxismo meglio di tutti i marxisti messi insieme. Con mio rammarico, mi sono fatto
abbindolare io stesso per qualche tempo. Una volta credevo persino a Lenin. Ah, in gioventù si
commettono sbagli. Se un giovane non ne fa, ha qualcosa che non va. Una cosa, però, spero che me la
conceda: che senza l’aiuto dello zio Sam, senza il lendlease, la legge sui prestiti di materiali e servizi agli
Alleati, il suo compagno Stalin non sarebbe mai entrato in Berlino a passo di marcia. Questo penso che
lo ammetta anche il più fervente stalinista…» Luria parlava come se stesse implorando Herman di
vedere la ragione.
Oltre i cinquanta, era di bassa statura, con spalle ampie, e aveva un testone enorme, praticamente senza
collo, con una zazzera incolta di capelli castani striati di grigio e un viso tumido o gonfio di
presunzione. I folti sopraccigli pesavano su occhi giallastri affondati in borse bluastre e scagliose di
incrostazioni. Il naso mostrava due narici insolitamente larghe. Aveva un che di brutale e selvaggio, ma
al tempo stesso un’aria indolente, mezza addormentata. La sua fronte bassa era profondamente
incavata, difficile dire se da una ruga o da una ferita.
Herman aveva appena trentatré anni, ma sembrava più vecchio. Era basso di statura come lo zio, ma
non ugualmente affabile. Aveva una testa squadrata con capelli tagliati corti alla militare, in Spagna era
stato promosso al grado di capitano o maggiore, e occhi freddi, grigio acciaio, dietro un pince–nez.
Parlava lentamente, con la determinazione di un diplomatico che pesa ogni parola.
La sua voce aveva un ritmo legnoso. «Nessuno può sapere che cosa sarebbe successo senza la legge sul
lend–lease. E una questione accademica. Ma una cosa è fuori di dubbio: l’America ha ritardato
l’apertura di un secondo fronte finché l’Unione Sovietica non è arrivata vicina alla vittoria decisiva.»
«Intenderebbe dire che l’invasione della Francia è stata superflua?» chiese Luria.
«A quel punto i fascisti erano ormai stati schiacciati.»
«Se lasciassimo scrivere a Stalin la storia mondiale, molto probabilmente scriverebbe che gli Alleati
hanno combattuto a fianco di Hitler», ribattè acidamente Luria.
«Fino a Stalingrado, gli Alleati hanno sempre sperato in una sconfitta sovietica.» Luria inarcò i
sopraccigli. I suoi occhi gialli si accesero di furore.
La mano destra, larga, pesante, con vene gonfie e unghie come artigli, si chiuse come se stesse per tirare
un pugno. Ma non si staccò mai dal ginocchio. «Oh, Dio, guardate la forza della falsità! Di quale
incredibile vastità e potenza è! Come un pozzo senza fondo.» Boris non era un erudito, un uomo colto,
ma amava la Torah e il sapere.
Pur avendo avuto successo negli affari, aveva rimpianto più di una volta di non essere diventato
rabbino, uno studioso o anche soltanto un imbrattacarte. Basso, tarchiato, con mani e piedi troppo
grandi per la sua bassa statura, grandi occhi neri, naso adunco e labbra carnose, aveva una barbetta
appuntita e parlava con voce tonante. Insisteva a esprimersi nello yiddish di Varsavia, non avendo mai
imparato come si deve né il tedesco né l’inglese. Era in grado di capire più o meno una pagina della
Ghemarà, ma se gli capitava di scrivere in ebraico, gli veniva zeppo di errori. Era bravo a fare una cosa
sola: gli affari. Li fiutava. Quando era arrivato a New York dall’Avana non capiva una sola parola di
inglese, ma dopo quattro settimane soltanto trascorse a girare per la città sapeva già come fare soldi.
Certo, in quegli anni, arricchirsi non era una grande impresa. Washington spendeva miliardi.
Era diventato socio di una manifattura di oggetti in pelle. Lì in America conosceva uomini d’affari con
cui aveva rapporti già quando stava a Berlino, per cui non aveva faticato a ottenere credito, crearsi
legami, stabilire contatti. Affermava sempre che negli affari, come in tutti gli altri ambiti, ci sono molti
modi tortuosi di agire, ma una sola via retta. Basta semplicemente tenersi sulla strada della probità.
Ma i libri, sacri e secolari, erano un’altra cosa. Componevano un mare in cui si può nuotare tutta la vita
senza mai raggiungere alcuna isola di assennatezza. Molte volte aveva sentito di come rabbini,
professori e studiosi si insultassero a vicenda dandosi dell’analfabeta e della testa di rapa. Per quanto a
fondo un uomo possa aver studiato, c’è sempre un altro che lo schernisce.
Amava ascoltare il modo in cui questi intellettuali parlavano, polemizzavano, si irridevano e persino
calunniavano in privato. Zadok Halperin, per esempio, era una delle persone che aiutava già ai tempi di
Berlino. Era una specie di celebrità. Aveva ottenuto una laurea in filosofia in Svizzera e per qualche
tempo era stato incaricato all’Università di Berna. Le sue opere in tedesco su Kant, Salomon Maimon e
Herman Cohen erano citate in testi scolastici di filosofia. Le sue monografie in ebraico erano studiate
all’Università di Gerusalemme. La sua profonda conoscenza di Talmùd e altri testi sacri non conosceva
limiti. Se messo alla prova, sapeva recitare qualsiasi brano a memoria.
Ma da questo suo immenso sapere non era mai riuscito a trarre di che campare. Adesso era lì seduto su
una poltrona nel soggiorno di Boris: basso, corpulento, con la pancia sporgente, una gran zazzera di
capelli bianchi e un paio di folte basette che lo facevano assomigliare a Nietzsche. Occhi vagamente
ridenti e pieni di malignità adolescente sbirciavano da sotto i sopraccigli cespugliosi. Più generosamente
Boris lo aiutava, più capziosamente lui si comportava nei confronti del suo benefattore. Essendo
rimasto un Maskii, disprezzava la religione. In quel momento, come sempre, la discussione si centrava
sulla cultura ebraica, e Halperin osservò nel suo goffo yiddish germanizzato: «Che cosa vuole, caro
Herr Makaver? Non si può tirare indietro l’orologio della storia. Soltanto perché Hitler era pazzo, il
mondo dovrebbe tornare al Medioevo? Sciocchezze! Vi è una sola fonte di sapere, ed è l’esperienza: la
vecchia buona esperienza fisica di Locke e Hume. E io vado persino più in là di Hume: per me l’unico
determinante valido è la matematica empirica. Se non ci fosse alcuna linea retta, se tutto avesse gobbe,
avremmo bisogno di un’altra geometria…»
«Infatti ormai ce l’abbiamo», lo interruppe Margolin. «Ha mai sentito parlare di Lobacevskij e
Riemann?»
«Lo so, lo so. Ma io sostengo che la geometria di Euclide esisterà sempre e le altre rimarranno niente
più che giochi. Mi dia pure dell’eretico, ma non mi interessa nemmeno la teoria di Einstein.»
«Bisogna capire prima di disprezzare», ribattè Margolin. 2
«E’ senz’altro vero, ed è per questo che non mi piace. Tutto ciò che non si può capire è ciarpame a
priori. Ho conosciuto Einstein, l’ho conosciuto. Ho avuto molte discussioni con lui a Berlino. E’, mi
perdoni, un uomo privo di senso pratico.»
«Un uomo privo di senso pratico cui dobbiamo la bomba atomica.»
«La bomba atomica ci sarebbe stata anche senza lui.»
«Be’, be’. Stanno già cominciando!» intervenne Boris. «Sempre lì a discutere su mele e arance. Einstein è
un genio, e lo siete anche voi due. Perché incrociare le corna? Siccome Rockefeller è milionario, domani
non può essercene un altro? Ci sono abbastanza soldi per entrambi. E lo stesso per il sapere… Reytze,
porta il tè! Dottore, questo è strudel. Non sono un grande esperto di Einstein, ma posso dirle senza
tema di smentite che questo strudel è squisito. Lo ha preparato Reytze. Quello che fanno qui in
America non si può metterlo in bocca.»
«Sì, lo strudel è davvero una faccenda importante», convenne Halperin con un sorriso, scoprendo una
bocca di denti anneriti, rappezzati con frammenti d’oro. Gli era stata data una forchetta, ma preferiva
mangiare con le mani. Le sue dita erano corte, coperte di ciuffi di peli, e le unghie divorate. Oltre a
2 Maskii: I sostenitori della Haskalah, l’illuminismo ebraico, fondato nel diciottesimo secolo in Germania da Moses
Mendeissohn. (N.d.T.)
mangiare moltissimo, poteva passare tutta la giornata a fumare sigari. Boris diceva sempre che non li
fumava ma ingoiava. Spargeva perennemente mucchi di cenere tutto attorno a sé dalle dita chiazzate di
tabacco. Reytze gli correva dietro con portacenere e occhio attento per impedirgli di fare buchi nei
mobili. Il suo abito nero, che indossava in tutte le stagioni dell’anno e per ogni occasione, era
irrimediabilmente macchiato. Aveva grovigli di peli irti in orecchi e narici. Anche in America insisteva a
portare colletti duri all’europea, cravatte larghe e polsini staccabili. Visto che si rifiutava anche soltanto
di provare qualsiasi tipo diverso di scarpe, gli amici dovevano frugare tutta New York per trovargli
stivaletti alla caviglia con suole di gomma. Nella tasca del suo panciotto era infilato un orologio con tre
coperchi. Margolin diceva sempre che, spiritualmente e fisicamente, Halperin viveva ancora nel
diciannovesimo secolo.
Di tutti gli uomini presenti, il dottor Margolin era il più alto. Con il suo portamento sempre eretto,
superava il metro e ottanta. Aveva un lungo viso severo e i freddi occhi grigi di uno junker prussiano, e
si vestiva sempre all’ultimissima moda, con la testa rasata e le unghie curate. In Germania portava
persino il monocolo. Si diceva che si fosse arricchito praticando aborti illegali.
Era difficile credere che quarant’anni prima fosse studente nella yeshivah di Ger. Parlava il russo come
un moscovita, il tedesco come un berlinese e l’inglese con l’accento di Oxford. Era dedito da tutta la
vita ai passatempi sportivi delle classi alte, e come logica conseguenza, a Berlino, era pervenuto a curare
una clientela aristocratica. A New York era iscritto a ogni sorta di club di gentili.
Nonostante questo, però, sia a Berlino sia a New York era rimasto in rapporti intimi con Boris Makaver.
Veniva a tutte le sue cene, era il suo medico di famiglia e, nelle rare occasioni in cui la memoria faceva
un brutto scherzo al dottor Halperin nel recitare la Ghemarà, era Solomon Margolin a imbeccarlo e a
scoprire i suoi errori di latino.
Boris lo prendeva sempre in giro: «La tua non è una testa: è uno strumento musicale. Oh, Shloymele, se
non ti fossi abbandonato a tutte queste sciocchezze, avresti superato tutti i nostri saggi quanto a
talento.» Invece adesso disse soltanto: «Fa’ come dico, Shloymele, prendi un pezzo di strudel. Tutte
queste stupidaggini sulle calorie non valgono un copeco.» Il dottor Margolin lo squadrò freddamente.
«Non voglio la tua pancia.» Su una poltrona con lo schienale di vimini era seduto il professor Shrage, un
omino con la barba bianca e la faccia vizza, capelli bianchi sparsi sulla testa come erba di palude e occhi
azzurri venati di sangue e sormontati da indisciplinati sopraccigli bianchi. David Shrage, che aveva a sua
volta studiato in Svizzera, discendeva da chassidim di Varsavia, gente colta e benestante. Di dieci anni
più anziano del dottor Halperin, apparteneva a una generazione precedente e, da studente dello
scienziato Chaim Zelig Slonimski, era stato tra i primi giovani chassidici di Polonia a studiare all’estero.
Era un matematico, e per qualche tempo era anche stato lettore di questa materia all’Università di
Varsavia. Ma negli ultimi vent’anni si era dedicato alla ricerca psichica, cui applicava il suo sapere
matematico. In Polonia era stato per qualche tempo in stretti rapporti con la famosa Madame Kluski. Il
professor Shrage era venuto in America alla vigilia della seconda guerra mondiale, ma sua moglie Edzhe
era morta per mano dei nazisti.
La piangeva ancora e non cessava mai di cercare di contattare il suo spirito nell’aldilà. Prendeva
raramente parte alle discussioni in casa di Boris Makaver. Era al tempo stesso duro di udito e di voce
talmente bassa che si capiva a stento ciò che diceva. Non era in grado e non aveva nemmeno voglia di
controbattere il dottor Halperin.
E, in ogni caso, a che cosa serve discutere con un fanatico preso nella più maligna delle reti, la
convinzione della supremazia della ragione umana? Il professore aveva un’espressione di malcelata
pena. Non sopportava questo parlare magniloquente né il puzzo dei sigari e non toccava i rinfreschi che
gli venivano messi davanti. Veniva lì soltanto perché Boris lo manteneva.
Sulla poltrona di fronte alla sua c’era Frieda Tamar, la sorella minore del dottor Halperin. Prossima ai
quaranta, di carnagione chiara e con occhi bruni, portava i capelli raccolti in una crocchia antiquata, un
abito nero con le maniche fino ai polsi e un colletto che le nascondeva la gola. Era sorellastra di Zadok.
Il loro padre, il rabbino di Grawicz, si era risposato da vecchio con una donna di illustre lignaggio.
Studiando in Germania, Frieda aveva conosciuto e sposato un certo dottor Tamar, un rabbino
riformato di Magdeburgo. Il marito era morto ad Auschwitz, ma lei era sopravvissuta e aveva ottenuto
un visto per l’America. Pregava tre volte al giorno. Siccome scriveva articoli per pubblicazioni religiose,
la si poteva trovare spesso alla Biblioteca pubblica della Quarantaduesima Avenue, assorta in questo o
quel libro di cultura rabbinica. Era silenziosa quanto Halperin era chiassoso. Amava il fratello maggiore,
ma era raramente d’accordo con ciò che diceva. Non appena cominciava a parlare, lei scuoteva la testa
con vigore in segno di disapprovazione. Si diceva che Boris si stesse apprestando a sposarla. Le aveva
già fatto una proposta formale da qualche tempo, ma lei esitava. Adesso, mentre era lì china in avanti,
con le mani sulla borsetta, l’abito stretto attorno alle caviglie, senza rossetto, aveva un atteggiamento di
immobilità che a Boris ricordava le venerate donne dell’antichità, di cui aveva letto nei libri sacri. Di
quando in quando allontanava con le mani gli sboffi di fumo che suo fratello le soffiava in faccia.
Boris le mormorò: «Frieda, mia cara, se vuole apro una finestra. Suo fratello fuma come un camino.»
Ma lei rispose: «No, grazie. Che male fa il fumo? Non c’è pericolo.» Per un attimo la sua fronte si
aggrottò, e Boris capì che cosa stava pensando: il fumo di Auschwitz era ben peggiore.
In America Solomon Margolin portava di rado il monocolo, ma in quel momento era seduto nel
soggiorno di Boris Makaver con un solo occhio a fuoco e fisso davanti a sé, come se ci fosse ficcato
sopra appunto un monocolo. Sembrava rimuginare senza tregua nel cervello un unico pensiero.
Stava pensando che Boris era un vero genio nell’ottenere credito, comperare case a prezzo stracciato,
costruire attività prospere dal niente, ma del tutto incapace di vedere ciò che succedeva proprio sotto il
naso in casa sua. L’amatissima Anna, sua figlia unica, per il cui bene si era rovinato la vita, non era
contenta di aver fatto due sbagli.
Quindi si stava apprestando a compierne un terzo, che sarebbe stato il più grave.
Il suo primo errore era stato sposare l’attore galiziano Yasha Kotik. Un artista acclamato, ai tempi di
Berlino, il cui talento però consisteva nello schernire gli ebrei dell’Est europeo. Ne scimmiottava il
cattivo tedesco, sebbene lui stesso non lo parlasse meglio. Tempestato di scandali, il matrimonio era
durato meno di un anno, ma Anna era stata distrutta dall’esperienza. Le era venuta una forte
depressione. A curarla allora era stato proprio Margolin, che di conseguenza era venuto a conoscenza di
tutti i suoi segreti.
Anni dopo, mentre fuggivano da Hitler, Anna aveva compiuto un’altra tremenda sciocchezza: si era
innamorata di Stanislaw Luria, un vedovo con vent’anni più di lei, che aveva perso la moglie e due figli.
Un uomo al tempo stesso violento e malaticcio e, per giunta, un fallito e bugiardo cronico. Sebbene la
sua famiglia fosse stata annientata da Hitler, era riuscito a salvarsi, ma erano anni che non guadagnava
niente. A parte parlare correntemente il polacco e vantarsi della propria gagliardia sessuale con
un’ampia varietà di donne, era un essere inutile. A Varsavia non aveva mai ottenuto l’abilitazione a
praticare la professione legale, rimanendo un semplice praticante sino alla fine: era sua moglie ad avere
chissà quale impiego. Lì a New York era una pietra da mulino al collo di Boris, tanto che Margolin
aveva consigliato senza mezzi termini ad Anna di togliersi dai piedi quel parassita prima che la
mandasse al manicomio. Ma lei, prima ancora di liberarsi di Luria, stava preparando una terza follia.
Proprio lì, nel salon di suo padre, stava scopertamente facendo avance a Hertz Grein, un uomo con
moglie e figli grandi. Stavano vedendo tutti chiaramente quello che succedeva. Si muoveva qua e là in
tono agitato e lo riempiva di attenzioni. Prima gli si era seduta vicinissimo sulla chaise longue,
raccontandogli sottovoce chissà quale segreto all’orecchio; poi gli aveva mostrato una foto; e finalmente
gli si era piazzata proprio davanti, facendogli gli occhi dolci e sorridendo con la sfacciataggine di chi ha
ceduto totalmente alla passione. Di quando in quando Luria fissava su di lei i suoi occhi gialli. Frieda si
mordeva le labbra.
Persino il vecchio Shrage sorrideva sotto la barba bianca. Margolin aveva sollecitato più volte Boris a
smetterla di invitare Grein, a riconoscere che Anna si stava comportando in un modo sconsiderato, ma
l’amico non gli aveva dato peso: «Te lo stai immaginando, Shloymele. Che cosa vai a tirar fuori! Per lei
quell’uomo non significa niente.» E ogni volta tornava a invitare Grein.
Boris e Margolin avevano conosciuto entrambi Hertz Dovid Grein ancora a Varsavia. Quando loro
erano due giovanotti, Grein aveva soltanto cinque o sei anni, ma era un prodigio. Sapeva calcolare in un
attimo la data di qualsiasi festività ebraica caduta cent’anni prima. In pochi secondi sapeva fare
operazioni matematiche che a un contabile esperto avrebbero richiesto ore, se non addirittura giorni.
All’età di sette anni aveva giocato a scacchi all’Unione Commerciale di Varsavia contro ventiquattro
veterani del gioco, vincendo diciassette partite e pareggiandone quattro. Sia i giornali polacchi sia quello
yiddish avevano pubblicato articoli su di lui, oltre alla sua foto. Il professor Samuel Dikstein, il noto
assimilazionista, era andato a trovare il padre del ragazzo prodigio, un povero scriba religioso che
abitava in via Smocza. Ma tutto ciò era avvenuto quasi quarant’anni prima. Più o meno a quei tempi,
Solomon Margolin era andato a studiare in Germania. E Borukh Makaver, non si chiamava ancora
Boris, aveva sposato la figlia di una famiglia benestante di Varsavia, era diventato ricco, aveva perso la
moglie e, alla fine del ‘24, aveva lasciato Varsavia per trasferirsi in Germania.
Anna aveva undici anni.
Arrivato in Germania, Boris aveva appreso che Dawidek (o Hercùs, come lo chiamavano i giornali
polacchi) aveva abbandonato la Ghemarà per gli studi secolari in una scuola superiore yiddish–polacca e
poi si era iscritto all’Università di Varsavia. Era diventato un bel giovane e, quando i Makaver abitavano
ancora a Varsavia, era frequente ospite in casa loro. Per un certo periodo aveva anche aiutato Anna a
fare i compiti. Si era arruolato volontario nella guerra del ‘20 tra polacchi e bolscevichi, raggiungendo il
grado di sottufficiale. Successivamente si era innamorato di una ragazza povera di un villaggetto,
scappando con lei a Vienna e da lì in America. Aveva promesso che avrebbe scritto, ma nessuno aveva
più avuto sue notizie. Era dovuto salire al potere Hitler perché Boris Makaver e Hertz Dovid Grein si
incontrassero di nuovo.
Anche lì a New York, però, non si erano incontrati che quattro anni dopo l’arrivo di Boris in America.
Dal modo in cui Boris gli aveva parlato dell’incontro, Margolin aveva capito subito che la cosa avrebbe
portato a un pasticcio. Anna non aveva scordato il suo ex tutore. A Berlino, dopo la rottura con Yasha
Kotik, parlava continuamente di Grein durante i tentativi del medico di curarla con la psicoanalisi.
Teneva la sua foto infilata in un album dove scriveva versi affettuosi del tipo di quelli che gli adulti
compongono per i bambini. Per quanto la cosa fosse ridicola, durante la terrorizzante fuga da Berlino a
Parigi, dall’Africa a Cuba e da lì a New York, Anna aveva conservato quell’album come un tesoro,
portandolo con sé. E adesso il suo «primo amore» era ricomparso.
Ormai Hertz Grein aveva quarantasei anni, un figlio in procinto di laurearsi in ingegneria e una figlia in
età da college. Per qualche anno, a New York, aveva insegnato in una scuola elementare ebraica,
soffrendo una penosa scarsità di denaro. Infine era diventato agente di una finanziaria di Wall Street. Ma
aveva tuttora un’aria adolescenziale: alto, snello, con un ciuffo di capelli biondi che copriva un inizio di
calvizie, fronte alta, fossetta nel mento. Il naso aveva una gobba ebraica, ma poi cambiava idea e si
raddrizzava. Le labbra erano sottili, e gli occhi azzurri rivelavano un curioso misto di timidezza,
acutezza e qualcos’altro difficile da definire. Margolin diceva sempre che aveva l’aria di un ragazzo di
yeshivah scandinavo. Grein aveva studiato filosofia sia a Varsavia sia a Vienna e aveva pensato di
stabilirsi in Palestina. Lì in America aveva imparato un inglese sufficiente per pubblicare di quando in
quando un articolo su una pubblicazione di scacchi e anche per scrivere uno studio dettagliato su un
eminente studioso polacco–yiddish assassinato dai nazisti.
Il tempo libero lo dedicava alla matematica, e nelle conversazioni con Margolin esibiva una conoscenza
così profonda della nuova fisica che avrebbe potuto con facilità diventare insegnante della materia. Ma
Hertz Grein sembrava insoddisfatto di se stesso. Si esprimeva da pessimista e scettico. Avendo perso
tutta la famiglia in Polonia, aveva cessato di credere nell’umanità e nelle sue prescrizioni morali. Per
puro caso aveva comperato una quota di un fondo comune e fatto soldi vendendo azioni. Sua moglie
aveva aperto una bottega antiquaria sulla Terza Avenue, e prosperava anche lei. A questo punto Grein
viveva in un grande appartamento di Central Park West e aveva l’auto. Inoltre Margolin aveva sentito
dire che si era fatto un’amante.
E adesso lo stesso Margolin osservava il modo in cui Anna lo riempiva di attenzioni. Con distacco
scientifico notò che da qualche tempo la figlia di Boris aveva cominciato ad avere un’aria più giovanile,
quasi che la vecchia conoscenza con Grein le avesse restituito l’infanzia. Arrossiva davanti a lui e lo
stuzzicava come una bimbetta. Un attimo sorrideva e un attimo dopo era triste; ora lo salutava con la
mano, ora gli mostrava la lingua. Sembrava aver scordato che aveva un marito e si trovava tra ospiti.
Margolin la valutò con occhio esperto. Aveva ereditato la struttura fisica di Boris, ma una forza intima
aveva corretto o dissimulato i difetti fisici del padre. Era un po’ più alta di lui, con petto alto, vita sottile,
mani e piedi piccoli, anche se i polpacci erano grossi. Gli occhi erano quelli del padre, neri e scintillanti,
con sopraccigli appena staccati, ma il naso era quasi diritto. Di labbra carnose, la bocca era sporta come
quella di una bimba pronta a scoccare un bacio. I capelli erano neri e lustri come velluto, ma,
diversamente da molte persone brune, la carnagione era chiara. Nel suo aspetto c’era qualcosa di
fortemente polacco–ebraico. A Solomon Margolin faceva venire in mente i viali periferici di Varsavia e i
Giardini di Sassonia.
Non molto tempo prima, un pittore di nome Jacob Anfang aveva finito il ritratto di Anna, che Boris gli
aveva commissionato soltanto perché, ebreo polacco profugo dalla Germania, era in disperate
ristrettezze economiche. E Anna guidò Grein nella stanza dov’era appeso il quadro: la sua camera, dove
passava la notte quando le capitava di dormire dal padre. Vi teneva un po’ di libri e vestiti troppo in
buono stato per essere gettati via, anche se non li portava più. Visto che Grein esitava a seguirla, per
paura di infastidire suo padre o il marito, Anna lo prese per la manica e se lo tirò dietro per il corridoio.
Aprì la porta e accese la luce in una camera da ragazzina, con un letto stretto, una libreria molto ben
fornita, qualche foto sulle pareti e un vaso per fiori vuoto. Su un tavolo rotondo c’era una sveglia. Il
ritratto, nella sua cornice intagliata, vi era fuori posto, ma da qualche tempo Boris era diventato così
rigido nella sua osservanza religiosa da rifiutarsi di tenersi vicino qualsiasi dipinto per il timore di
trasgredire al comandamento contro le raffigurazioni. Per di più, Jacob Anfang aveva dipinto Anna
scollata. Grein osservò a lungo il quadro, mormorando: «Sì, è un ritratto molto ben riuscito.»
«Papà dice che non è somigliante.»
«Il pittore ha colto il tuo carattere.» Lo sguardo di Anna si accese a queste parole, tanto più in quanto lui
le si era rivolto con il tu.
«E quale sarebbe il mio carattere? In genere non mi sembra di averne.»
«Ha capito che di fondo sei ancora una ragazza… un’ardente e un po’ impaurita studentessa delle
superiori.»
«E’ una virtù? E’ vero che ho paura, perché c’è un fantasma che mi perseguita. Ma la mia gioventù è
finita. Spesso mi sento vecchia e a pezzi.»
«Il tuo viso non lo mostra.» Anna era in piedi di sbieco, per consentirgli di fare un confronto tra la
copia e l’originale. Era timida, ma non in un modo da adulta.
Sembrava essersi addormentata ragazzina e misteriosamente svegliata donna matura. Incontrare Grein
dopo una separazione di ventitré anni aveva portato nella sua vita speranza e sconcerto al tempo stesso.
Strati di tempo si erano invertiti e confusi come se un erpice avesse arato e rivoltato il terreno di periodi
ed epoche. Il prima e il dopo erano scomparsi. Tutto era diventato un insieme informe, un bizzarro
sogno da cui ci si continuava a svegliare di soprassalto. Prima gli dava del tu e poi del lei, ora parlando in
polacco e ora in tedesco. A volte le sembrava che lui fosse un parente: uno zio, se non addirittura un
fratello maggiore. Le faceva ricomparire davanti Varsavia, i tempi in cui aveva ancora una madre. Stare
con lui la rendeva di nuovo giovane, vivace, la figlia unica di tanto tempo prima.
Grein fece scorrere molte volte lo sguardo da lei al ritratto, mentre se ne stava lì come una scolaretta
sottomessa, come se lui esercitasse ancora il suo potere di un tempo su di lei, quando parlava di cose da
adulti con sua madre gravemente malata, le portava libri e fiori e lei, bambina, veniva mandata fuori
della stanza quando volevano discutere una questione privata.
Grein inarcò i sopraccigli. «Be’, ha talento, ma che cos’è il talento?»
«Già, che cos’è? Io non so disegnare nemmeno una papera.»
«Dio dà a ciascuno il suo dono.»
«Hai intenzione di metterti anche tu a parlare di Dio?» gridò Anna. «Oh, non sopporto di sentirne
parlare. Dopo quello che è successo in Europa, non oso nemmeno pronunciare la parola Dio… perché
se esiste davvero e ha consentito tutto ciò, è persino peggio che se non esistesse.»
«E’ una brutta cosa in entrambi i casi.»
«Guarda… fuori nevica!» Con eccitazione infantile, Anna corse alla finestra, e lui la seguì. Lei sollevò il
battente inferiore dei vetri a ghigliottina e rimasero esposti all’aria gelida. Il cortile era bianco. E lo
erano anche i rami degli alberi del giardinetto. Soltanto il cielo sopra i tetti era illuminato dal riverbero di
New York, un po’ rosso, un po’ viola, senza una sola stella, quasi stesse avvenendo una conflagrazione
cosmica. I fiocchi cadevano regolari, lenti, con grande calma invernale. Il caldo del radiatore si
diffondeva nel freddo esterno. Anna era così vicina a Grein da premergli la spalla sul braccio.
Guardarono fuori entrambi per un po’, in silenzio, confusi, come se fossero nati in un Paese tropicale e
stessero vedendo per la prima volta una nevicata. Grein era in preda a una nostalgia, a un anelito mai
provato prima, in cui si mischiavano Hanukkah, le feste natalizie, Varsavia. Avrebbe voluto abbracciare
Anna, ma si trattenne. Allungò una mano e vi si posò un fiocco di neve. Pieno di esaltazione
adolescenziale, lasciò a lungo il palmo sul davanzale, quasi volesse raffreddare il calore che si sentiva
dentro.
«L’inverno arriva ancora», mormorò.
«Sì. Molto spesso mi stupisco persino che ci sia un mondo.» Non potevano rimanere lì a lungo.
Stanislaw Luria era del tutto capace di precipitarsi lì e fare una scenata. Ma nessuno dei due riusciva a
staccarsi l’uno dall’altra e da quel paesaggio cristallino. Ai tempi in cui Grein era arrivato a New York, la
neve cadeva così forte che, per quanto la si spalasse o scopasse via, non sembrava mai di essersene
liberati. A Brownsville, dove aveva insegnato in un Talmùd Torah, c’erano sparsi ovunque enormi
mucchi di neve che gli ricordavano la Polonia. Doveva mettersi le calosce alte o persino gli scarponi da
neve.
Negli ultimi anni, invece, a New York la neve era diventata una rarità.
Alzò gli occhi per vedere da dove cadeva. I fiocchi sembravano avere origine da un rosso infuocato e
cadevano in grossi lustrini che mostravano fuggevolmente la loro forma esagonale, l’eterna struttura
della neve. Una qualche forza fuse i suoi pensieri con quelli di Anna, e capì che lei stava sentendo
esattamente ciò che provava lui: lo stesso fremito, lo stesso desiderio. Una forma di corrente elettrica
non isolabile, che lo prendeva spesso quando era a casa, nel suo letto, scorreva attraverso la manica in
seta del vestito di Anna e quella di lana della sua giacca. Per un attimo furono prigionieri di questa
strana vibrazione che veniva dall’interno e dall’esterno e sfuggiva loro come il semiconscio inizio di un
sogno.
Di punto in bianco Anna si scostò, come spaventata. «Vieni.» Chiuse la finestra e lui si asciugò le mani
con il fazzoletto. Si fermarono di nuovo davanti al ritratto.
«Pensi davvero che sia bello?»
«Sì, straordinario. Ma preferisco stare con l’originale.» Anna esitò un attimo. «Sai che è impossibile.»
«Basterebbe che tu dicessi di sì.» Lei si morse il labbro inferiore. Poi parve che deglutisse. «Supponiamo
che lo dica… poi che cosa succederebbe? Oh, è assurdo.»
«Nel mondo c’è ancora l’amore.»
«Sì, ma c’è anche qualcosa di più forte.»
«Cioè?»
«La pigrizia. La paura di muoversi da un posto dato.»
«Basta cominciare.»
«Dove mi porteresti?»
«In un albergo.»
«E poi?»
«In Tasmania.»
«Perché mai in Tasmania? Sei davvero comico. Sogno l’amore da quando ero bambina. Quando ho
visto il modo in cui vive mio padre, ho promesso a me stessa che non avrei mai seguito il suo esempio.
Ma ho fatto due penosi sbagli, e per una vita sola bastano.»
«Non devi fare altro che preparare una valigia e andartene.»
«Oh, per te è tutto facile. Parli come un avventuriero, ma sospetto che tu sia legato anima e corpo alla
tua famiglia. Ti avverto: sta’ attento.
Sono credulona per natura… capace di fare esattamente come dici.»
«Sarebbe il giorno più felice della mia vita.»
«Vieni. Non possiamo rimanere qui così a lungo. Non sei serio, ma non riesco a smettere di pensare a
te. Ti sogno persino.»
«Sei già praticamente mia.» Anna sembrò scottata dalle sue parole. Agitata, gli scoccò un’occhiata tra
l’interrogativo e il carico di rimprovero, come per dire: se non fai sul serio, perché mi torturi? Lui
avrebbe voluto stringerla tra le braccia, ma in quel momento Reytze aprì la porta.
«Anna, il papà ti sta cercando.»
«Che cosa vuole? Non importa, sto arrivando.»
«Panie Grein, venga in cucina. Voglio mostrarle il frigorifero nuovo.» Reytze aveva trovato un pretesto
per evitare che i due tornassero insieme. Conosceva ogni segreto. Era stata lei, in fondo, ad allevare
Anna.
Quando Reytze gli ebbe mostrato il frigorifero, Grein tornò nel soggiorno. Si fermò nel corridoio a
guardare uno specchio antico che vi era appeso. Da quando sua moglie aveva aperto la bottega nella
Terza Avenue, era diventato abbastanza esperto di oggetti antichi di pregio.
La cornice era un intrico di fiori, foglie e felci, mentre il vetro aveva una sfumatura bluastra simile a
quella dell’acqua in un pozzo. Vi si vide riflesso come da una grande profondità.
Perché sono così felice? si chiese. Non ne uscirà niente. Lei non lascerà il marito, né io Leah. Ed Esther,
poi? Non rovinerò nessuna famiglia. C’è un Dio in cielo. Ho appena fatto voto di osservarne i
comandamenti.
Nonostante questi pensieri, rimase in uno stato di ebbrezza. Nei primi dieci anni trascorsi in America
tutto gli era andato regolarmente sempre peggio, ma nel secondo decennio aveva altrettanto
regolarmente risalito la china. Viveva in un grande appartamento, aveva soldi in banca, portava abiti di
qualità. Le azioni del fondo comune di cui aveva comperato una quota, raccomandandolo ai suoi clienti,
era salito di molti punti dalla sera al mattino. Soltanto quel giorno, senza la minima fatica, aveva
guadagnato più di trecento dollari. C’erano stati tempi in cui per guadagnare una cifra simile era
costretto a sfacchinare in aula per due interi mesi.
Ma lei mi ama… non c’è il minimo dubbio, rifletté. Come aveva detto?
«Sono capace di fare esattamente come dici.» Entrò nel soggiorno e sentì il professor Shrage che
balbettava: «Che cosa è empirico? Dipende tutto da che cosa si chiede alla natura. Finché non abbiamo
chiesto come mai il coperchio di una pentola sobbalza quando l’acqua bolle, la natura non ci ha risposto
e non c’è stata alcuna teoria della cinetica. Ormai la gente ha smesso di chiedere le cose essenziali,
quindi perché dovremmo darle una risposta?» Il dottor Halperin si tolse di bocca il sigaro. «E quando
abbiamo chiesto, abbiamo ricevuto una risposta? Nel Medioevo ci si preoccupava delle cosiddette
questioni occulte. Che cosa si è scoperto? Quanti demoni stanno sulla capocchia di uno spillo?»
«La letteratura del Medioevo è piena di fatti che dimostrano l’esistenza di forze superiori… forze
spirituali. Dybbuk e poltergeist comparivano ogni giorno, tra gli ebrei come tra i gentili.»
«Mi scusi, professore, ma lei scambia il folclore per scienza.»
«Che cos’è la scienza? Non appena una cosa si può replicare premendo un pulsante, diventa scientifica.
Non tutto può essere replicato in laboratorio. Il mar Rosso non si può far aprire a ogni pie sospinto.»
«E chi dice che sia stato fatto aprire anche una sola volta? Quale prova lo dimostra? Il fatto che è scritto
nel Pentateuco? Sulla mia vita, professore, lei sta veramente semplificando troppo. Tutte le religioni
offrono dozzine di miracoli. In qualsiasi villaggio le vecchie siedono sulla soglia di casa a raccontare
storie di spiriti e folletti…»
«Spiriti e folletti esistono.»
«Dove sono? In solaio?»
«Forse sono qui.»
«Dove? Sotto il divano?»
«Li vede i protoni? Vede i raggi cosmici? Forse sono anch’essi sotto il divano.»
«Che paragone! Sciocchezze! Tutte sciocchezze!» E Zadok Halperin cominciò a sbuffare e agitarsi con
veemenza. «‘Un giudice non ha altro se non ciò che i suoi occhi possono vedere’», citò dal Talmùd.
«Può continuare a dirmi che in cielo c’è un mercato, ma se non posso comperarci una fascina di legna o
un sacco di patate, non sono che chiacchiere vane. Ai miei tempi la gente si illudeva con le planchette e
certe vecchiacce che scrutavano nel cristallo. Quelle che ho conosciuto io non erano che ciarlatane.
Conan Doyle era un idiota. Lombroso, mi perdoni, si è rimbambito da vecchio. Oliver Lodge era un
buon fisico, ma un semplicione incredibile. William James aveva una rotella fuori posto e niente più. Gli
anglosassoni hanno un debole per questo genere di scemenze. Hanno paura della morte, poveri scemi.»
Boris si tolse a sua volta di bocca il sigaro. «Shloymele, perché stai zitto?» Margolin tenne lo sguardo
fisso davanti a sé. «Che cosa dovrei dire? Non è il mio genere di argomenti. Dottor Halperin, lei parla
come se nessun mistero potesse sostenere un esame approfondito. Ma la telepatia è un fatto provato.»
«Non per me, niente affatto.»
«Sa perché? Perché non ha nessuna storia sentimentale. L’amore si basa totalmente sulla telepatia. Le
persone che si amano sono in contatto telepatico.»
«E’ vero, è vero!» intervenne Anna, gettando uno sguardo in tralice a Grein.
Il dottor Halperin scosse dal sigaro un mucchio di cenere, che gli cadde sul ginocchio. «Be’, be’, lei è
giovane e ne sa più di me. Io è un pezzo che non ho una storia sentimentale.» e a questo punto esplose
in una crisi di tosse, «un gran bel pezzo. Ma come chiede il Talmùd: ‘Che cosa c’entra l’agricoltura con
la rivelazione?’ Qualsiasi coppia di scemi innamorati pensa le stesse cose. Così come tutti gli affamati
pensano alla stessa cosa: il pane. Il massimo bene del genere umano continua a essere la logica. Ho letto
i resoconti degli spiritualisti. Dicono che il sordo sente ciò che il muto dice al cieco. Vacche che volano
sui tetti e posano uova di ottone. Tutto giurato da testimoni inaffidabili. Invece ecco lì un televisore:
basta che io giri un pomolo e vedrete più cose di tutti gli spiritualisti messi insieme.» Boris si diede uno
strattone alla barba. «Che cosa si può vedere in televisione? Vanità e stupidità.»
«E che cosa fanno gli spiriti alle sedute spiritiche? Dicono le stesse stupidaggini dei medium. Fanno
presagi. Perché, invece, non ci parlano dell’aldilà? Se uno va in Tibet, scrive un libro sulle sue avventure.
Invece, evochiamo cadaveri che hanno trascorso trecento anni nell’aldilà, e quelli si mettono a blaterare
di quanto abbiamo bisogno di pace in terra. Lo sappiamo anche senza il loro consiglio» – nuovo
accesso di tosse -. «Ci diano vere informazioni, piuttosto. Che cos’hanno fatto negli ultimi trecento
anni? Mangiato blintze?»
«Zadok, non dimenticare che dell’evocazione dei morti si parla nelle Scritture», gridò Frieda. «‘Saul andò
da una donna che aveva uno spirito, e lei evocò il fantasma di Samuele.’»
«Non me lo scordo, non me lo scordo. Dimostra soltanto che è un’antica superstizione. L’Ecclesiaste
dice una cosa diversa: ‘I morti non sanno nulla’.»
«Sai come interpreta la Ghemarà questo versetto?»
«So come tutti interpretano tutto, ma mi fido soltanto dei miei occhi e degli studiosi che sanno
suffragare con fatti ciò che dicono. E’ una nuova moda, la religione. Quella di destra e quella di sinistra.
Che cos’è il comunismo? Una religione anch’esso. Non è vero, Panie Herman?» Con grande
determinazione, Herman si tolse il pince–nez dal naso. «Per quanto ne so, Lenin era uno scienziato, non
un profeta.»
«Che tipo di scienza ha fondato? Basata su che cosa? La sociologia non è una scienza.»
«E’ la prima volta che lo sento dire.» La conversazione si interruppe un attimo e tutti si chiusero nei
propri pensieri. Il professor Shrage rimuginò: può essere che lo spirito di Edzhe stia ascoltando tutte
queste vane chiacchiere? Come devono apparire comiche, a uno spirito, le certezze di Halperin! Agli
spiriti non è probabilmente consentito rivelarsi. Priverebbe la gente del libero arbitrio… Boris gettò
un’occhiata a Frieda e si chiese: devo parlarle questa sera? Come? Devo invitarla in un’altra stanza?
Potrebbe considerarlo offensivo. Chissà come può reagire una donna. Però era davvero assennata. Ciò
che aveva detto a proposito di Saul e della donna con lo spirito era pieno di convinzione… Zadok
Halperin fissava un pezzetto di strudel: devo mangiarlo? Che male può farmi? Con o senza, le mie
arterie rimarranno ugualmente occluse. Non perderò comunque mai quei dieci chili. Muoiono anche i
magri. Tutte queste statistiche sono per gli allocchi. Raccattò frettolosamente il pezzo di strudel e se lo
ficcò in bocca. Una briciola gli rimase incastrata tra i baffi, e lui se la tirò destramente in bocca con la
lingua. Sarebbe la fine di tutto?
Ingozzarsi di strudel e morire? Che ambizione vacua, pensò… Luria si confrontava mentalmente con
Anna: non credere di farmi fesso! Ho visto tutto. Lo hai portato a vedere il ritratto in modo da poter
combinare un appuntamento con lui. Brutta puttana! Vivrò quanto basta per vendicarmi di te. Non sei
meglio dei nazisti. Diede di piglio di scatto alla sigaretta e la schiacciò sul bordo del portacenere,
spargendo una cascata di scintille.
Grein si era sistemato a una finestra. Sollevate le tende, guardava la Broadway sotto di sé. I semafori
passavano dal verde al rosso. Dozzine di automobili si ammassavano in tutte le direzioni. Da dove si
trovava lui sembravano piccolissime, e ne sentiva la potenza imbrigliata, l’impazienza dei motori. Sì, mi
ama! E amore sincero. Ma Anna non è Esther. Per lei dovrei rinunciare a tutto. E Luria? Lo ucciderei.
In aggiunta alle mie buone azioni, ci mancherebbe altro che uccidessi un uomo. E poi, quanto potrebbe
durare? Di qui a quindici anni sarò vecchio. Qui si muore come mosche. E Grein alzò lo sguardo. Sopra
il palazzo, in un varco tra due nuvole, brillava una luce. Era un pianeta?
Una stella? Che cosa ci faceva lassù nei cieli? Era un ente dotato di intelligenza? Guardava davvero giù
verso la terra? O era soltanto un grumo di materia? Ma che cosa conta la materia, se tutto è energia? La
formula e = mc ha ribaltato tutti i precedenti concetti. Ogni cosa vibra ed emette raggi, persino una
zolla di fango.
Anna fece una mossa verso il marito, quasi volesse dirgli qualcosa. Ma gettatogli un’occhiata e colta la
malevolenza dei suoi occhi gialli, lasciò perdere. Che cosa sta guardando Grein là fuori? Che cosa sta
cercando? si chiese. Oh, non è facile neanche per lui. Devo mettere fine a questa avventura prima che
sia troppo tardi. I suoi pensieri tornarono al marito: Luria non divorzierà mai da me. E’ un nemico
implacabile. E che cosa dirà mio padre? Avrà uno dei suoi attacchi di pressione alta.
Poi sentì il cugino Herman dire: «In definitiva, è un fatto che il capitale tende a concentrarsi in poche
mani. Persino l’agricoltura, in America, sta cadendo sotto il controllo delle grandi ditte. Marx non
poteva prevedere tutto nei dettagli, ma il sistema capitalistico sta sempre più degenerando. Continua ad
avere bisogno di essere vaccinato, per così dire. E’ davvero una pratica economica sana che il governo
federale comperi grano, burro e uova dai contadini? E definireste salutare il fatto che Washington debba
pagare ai contadini miliardi di dollari perché non coltivino la terra? Se il capitalismo è tanto buono,
perché Washington deve continuare a corrompere i governi d’Europa per mantenere il sistema
capitalistico con il terrore politico? Perché bisogna corrompere la gente perché faccia qualcosa, se
questo è così chiaramente nel loro interesse?» Luria scattò di punto in bianco dalla poltrona come una
molla. Puntò il grosso indice chiazzato di tabacco, un po’ parlando e un po’ gridando in una sorda
tonalità bassa che sembrava arrivare dalla tomba.
«Lo sa perché bisogna corromperli? Perché gli europei vogliono commettere un suicidio di massa! Sono
come quegli animaletti, mi sono dimenticato come si chiamano, che si riuniscono a milioni e migrano
per miglia sino ad affogarsi tutti nel mare… in Scandinavia, credo. Come quei pesci che si arenano
deliberatamente per morire. L’altro giorno ho visto un uomo in piedi su un tetto a gridare che si
sarebbe buttato di sotto. La gente si fermava a pregarlo di non farlo. La polizia gli ha promesso soldi,
un lavoro, qualsiasi cosa volesse, purché rientrasse. Ma lui non ne ha voluto sapere. Si era ficcato in testa
di averne abbastanza del mondo. C’era la sua foto sui giornali. Credo che fosse portoricano o cubano.»
«Se gli avessero dato un lavoro prima, non avrebbero dovuto prometterglielo dopo», replicò Herman.
«Era probabilmente disoccupato da un pezzo.»
«Le persone così di solito non hanno voglia di lavorare», interloquì Margolin.
«Dottore, non lavorerebbe duro nemmeno lei, se la pagassero diciotto dollari per la fatica di una
settimana, portandole anche via le tasse.»
«Quando ero studente in Germania, guadagnavo meno del portoricano o nero peggio pagato di qui.
Mangiavo pane intinto in salamoia di aringa salmistrata, e non abbastanza neanche di quello.»
«Però aveva un fine chiaro.»
«Chi impedisce anche a loro di averlo?»
«Il vostro beneamato sistema capitalista.»
«Lei scarica tutte le colpe sul capitalismo, anche il clima. Sento dire che in Russia le vie brulicano di
ubriaconi e prostitute. Se le masse spendessero per la cultura un decimo di ciò che spendono in liquore
e dissolutezza, il mondo sarebbe un paradiso. Lei cita libelli, io parlo per esperienza. Ragazzine
dodicenni restano incinte. Il sabato gli uomini prendono la paga e se la bevono tutta fino all’ultimo
centesimo.
E’ venuta la mania di scaricare tutte le nostre colpe sui governanti. Ma le assicuro, le masse non sono
meno corrotte dei loro capi… anzi, forse lo sono persino di più.»
«Quindi, secondo lei, che cosa dovremmo fare delle masse? Bruciarle a Treblinka?»
«Né bruciarle a Treblinka né mandarle nei campi di lavoro in Siberia.
Criminali e pazzi debbono essere sterilizzati. Altrimenti la nostra civiltà finirà come ha fatto quella di
Roma. Ovunque l’intellighentsia pratica il controllo delle nascite, e al contrario la plebaglia si moltiplica
senza freno, deve capitare una catastrofe. E’ inevitabile come la luna che eclissa il sole.»
«Mi perdoni, dottore, ma qui sento parlare Hitler.»
«Lo sapevo che avrebbe detto così. Io hitleriano? Hitler ha assassinato la mia famiglia e mi ha tolto
tutto. Lui e Stalin avevano un fine comune: sterminare l’individualità dell’uomo. Secondo lei e i suoi
libelli, nel mondo si sta combattendo una guerra di classe. Per me, invece, c’è una sola guerra perenne:
quella dei geni.»
«E’ teoria razziale appena mascherata.» Frieda Tamar si alzò dalla sua poltrona. Fece un movimento
vago con la mano. Contemporaneamente si velò del rossore proprio delle persone di mezza età timide
per natura. Il sangue le affluì precipitosamente dalla gola alla mascella e si fermò lì, quasi bloccato da un
autocontrollo più forte di ogni emozione.
«Posso dire una cosa?» Margolin annuì. «Certo, Madame. E’ stata molto paziente tutto questo tempo, ad
ascoltare i nostri sproloqui,»
«Voglio dire che la guerra di classe, o quella che lei chiama guerra dei geni, non la possiamo
controllare… Dipende dall’evoluzione. Come si è evoluto il genere umano fino a ora? Non sta nelle
nostre deboli forze… Se si pone fini tanto immensi, è inevitabile che il genere umano fallisca. Come se
volessimo prosciugare l’oceano… Se accettiamo che a dirigere il mondo è Dio, e che lo faccia è la
semplice verità, perché il genere umano dovrebbe volerlo controllare? E’ stato il peccato della
generazione che ha costruito la Torre di Babele… In senso simbolico…»
«Brava, Frieda, congratulazioni!» gridò Boris, battendo le manone. «Mi ha tolto le parole di bocca! Stavo
proprio per dire la stessa…»
«Non interrompere, Borukh», disse Margolin in tono di rimprovero.
Frieda chinò la testa. «No, è tutto ciò che volevo dire.»
«Che cosa dovremmo fare, Madame?» chiese Margolin con voce bassa, cortese. Quindi si chinò verso di
lei e inarcò un sopracciglio, come un adulto che ascolta un bambino. Anche il viso di Frieda arrossì. In
una frazione di secondo il rossore raggiunse la linea dei capelli, lasciando la zona stranamente bianca.
Mosse le labbra, ma non ne uscì nessuna parola.
Rispose per lei suo fratello Zadok: «Dovremmo recitare i Salmi! Mia sorella ha un rimedio per tutti i
mali… da quello di denti all’antisemitismo.» E Halperin esplose in una risata ragliante, facendo cadere la
cenere del sigaro in un bicchiere mezzo pieno di tè al limone.
CAPITOLO 2.
Non appena l’orologio a piramide di Boris Makaver suonò le dodici, tutti si alzarono per andarsene.
Come faceva ogni volta, il padrone di casa rimproverò gli ospiti perché se ne andavano così presto.
Proprio quando la conversazione si stava avviando bene, lamentò, tutti cominciavano a preoccuparsi di
cappotti, calosce e ombrelli. Si dichiarò sbalordito e incapace di capire. Perché avevano bisogno di tanto
sonno? Dal canto suo trovava più che sufficiente un breve pisolino. Molte volte trascorreva la notte
seduto a meditare su libri sacri o a riflettere sulle complicazioni della vita. Nonostante i suoi appelli,
però, tutti trovarono una scusa. Il dottor Halperin scriveva la sua opera di notte.
Frieda doveva alzarsi presto per presenziare alle preghiere del mattino nella sinagoga Sha’arei Tzedek
prima di tenere lezione a una classe di ragazze ortodosse. Il dottor Margolin nuotava mezz’ora in una
piscina coperta e poi sollevava pesi di ferro e si issava su e giù per scale di corda onde rafforzare
muscoli che erano già duri come acciaio. Hertz Grein aveva a casa moglie e figli. Herman lavorava come
correttore di bozze in una tipografia. Il professor Shrage non decideva da sé la propria vita. La signora
Clark, la dentista folle da cui viveva a pensione, lo comandava a bacchetta come un fattorino. Anna
avrebbe voluto rimanere lì fino a tardi, ma il suo bellicoso marito, Luria, aveva una gran voglia di
tornare a casa. Come mai tutta questa fretta di punto in bianco? Per che cosa avrebbe fatto tardi? In
definitiva, invece di una buona giornata di lavoro, non faceva altro che vantarsi delle molte meraviglie
compiute a Varsavia. Boris aveva riconosciuto da tempo di aver commesso un errore terribile: non
avrebbe mai dovuto permettere quel matrimonio. Ma quando si scappa per salvarsi la vita e non si ha
idea del guaio che porterà il giorno dopo, come si può valutare bene l’opportunità di un matrimonio? Il
primo marito di Anna, quell’attore Kotik, era un pazzo, una canaglia, un buffone, cui si potevano
applicare alla lettera le parole dei nostri Saggi: non aveva alcuna somiglianza con un essere umano. Era
un miracolo che Anna fosse sfuggita alle sue grinfie. Se era ancora vivo, chissà dove, morisse di morte
violenta. E se non era più in questo mondo, fosse punito duramente in quello a venire. Comunque,
come dice il proverbio? Dalla padella nella brace. Luria non sarebbe mai valso niente. Gli avrebbe
succhiato il sangue per tutta la vita.
«Buonanotte, signor Makaver.»
«Non abbia tanta fretta, Panie Grein, e per favore non mi chiami ‘signore’. Che ‘signore’ sarei mai?»
rispose cerimoniosamente Boris, con formalismo all’antica.
«Come devo chiamarla? Reb Borukh?»
«Perché no? Mi chiami Borukh. Se suo padre e il mio potessero vedere che cosa ne è stato di noi, non
crederebbero ai loro occhi. Ma nell’aldilà non devono più preoccuparsi di noi quaggiù. Dà ancora
qualche occhiata ai libri sacri, Reb Hertz Dovid?»
«Ne ho una libreria piena.»
«Davvero? Ricordo ancora quando scrivevano di lei sui giornali. Il ragazzo prodigio di Varsavia! Quanto
tempo fa era? Lei è ancora giovane.
Non dimostra più di quarant’anni.»
«Quarantasei.»
«Gli anni scappano. Aspetta, Khanele», riprese Boris rivolto ad Anna, «aspetta. Grein vi porterà a casa
con la sua auto. Andate nella stessa direzione, no? Quindi devierà un po’ dal percorso diritto e angusto.
Vero, Reb Hertz?»
«Con il più grande piacere.»
«E che cosa trova nei libri sacri, Panie Grein?»
«Cose utili. Ma dove si deve trovare la fede, se tutto ciò che dicono è vero?»
«Come potrebbe essere altrimenti? Il mondo funziona forse arbitrariamente?»
«No. Ma chi sa quali forze sono all’opera? C’è sicuramente un progetto, ma non sappiamo quale sia.
Sospetto che non lo sappia nemmeno l’autore della Santificazione di Levi.»
«Ed Einstein lo sa?»
«Ammette di non saperlo.»
«Chi lo sa, allora?»
«Dio, forse.»
«Quindi lei crede in Dio?»
«A modo mio.»
«Quale sarebbe il suo modo? Oh, figli miei, mi sembra un tale peccato. I gentili non hanno bisogno
della fede. Che cos’è, per loro, se cominciano una guerra dopo l’altra? Agli ebrei, invece, occorre.
Guardate che cosa sta succedendo in Israele: giovanotti ebrei sono diventati terroristi.
Fanno saltare in aria alberghi. Ragazzi ebrei sono diventati esponenti del GPU in Russia. Qui in
America abbiamo allevato una generazione di analfabeti. Ma, certo, desidero che la mia Khanele abbia
figli. Non ne ho uno maschio che reciti il Kaddish per me: che almeno abbia qualche nipote. Ma che
tipo di ebrei sono i figli americani? Non hanno la più vaga idea di che cosa significhi esserlo.»
«Non hai niente da preoccuparti, papà. Non avrò figli.»
«Perché? Non sei ancora così vecchia. E tuo marito non ha ancora cent’anni.»
«Spesso mi pare di averne duecento», osservò Stanislaw Luria.
«Sciocchezze. Che cosa dice, Panie Grein? Che cosa ne sarà del mondo?»
«Non so, Panie Makaver. Soltanto ieri, al museo, ho visto uno scheletro di cinquanta milioni di anni fa.
E’ scritto lì nero su bianco. Sembrava un elefante, quindi pare che il Signore dell’Universo stia facendo
esperimenti da un bel pezzo con quell’animale. Potrebbe averlo fatto altrettanto a lungo con gli esseri
umani.»
«Intende dire che il Signore dell’Universo fa qualche scherzetto?»
«Certe volte mi sembra proprio.»
«E’ una vera sciocchezza. Be’, non corra troppo con l’auto. Ho soltanto quest’unica figlia. E rimanga
intero anche lei. Sua moglie gestisce sempre la sua bottega antiquaria?»
«Ha avuto un gran successo da un giorno con l’altro.»
«Be’, potrei andare a trovarla. Sono anch’io molto appassionato di cose belle. Lei è sempre a Wall
Street?»
«Non parli così forte. Suo nipote potrebbe sentire.»
«Herman? No, è già andato via. Non credo che Wall Street sia un abominio. Gli affari bisogna pur farli.
Quando Re Salomone lodò la Donna Virtuosa, disse: ‘Ella è simile alle navi di un mercante, e fornisce
cinture al mercante’.3
Il mondo non può sopravvivere senza commercio. Tutti i malvagi della terra cominciano cercando di
abolire la compravendita, bolscevichi e nazisti alla stessa stregua, sia cancellata la loro memoria. Anche
il Nostro Padre Abramo era mercante. Le azioni stanno andando su, eh?»
«Sì. Oggi sono salite di nuovo. Specialmente quelle del fondo comune che raccomando.»
«Be’, c’è chi sale e chi cade», osservò Boris citando il Talmùd. «In fondo, lei è stato insegnante di
ebraico. Come lo ha scoperto, questo fondo comune? I pessimisti prevedono un nuovo crollo, come
quello del ‘29. Ma io non ci credo. Roosevelt ha salvato sia l’America sia il mondo. Qui le cose hanno
CAPITOLO 3.
Quando quella notte lasciò la casa di Boris Makaver, il professor Shrage non doveva andare lontano:
semplicemente attraversare la Broadway e avviarsi in direzione di Central Park. La signora Clark, di cui
era pensionante, abitava in un appartamento tra Columbus Avenue e Central Park West. Ma trovava
difficile ricordare il percorso. Anche se viveva a New York dal ‘39, non si era mai orientato sino in
fondo. Di norma, invece di dirigersi a est, andava a ovest. Non sapeva mai distinguere quella che era
uptown da quella che invece era downtown. Gli emigrati di Varsavia lo prendevano in giro: un
professore di matematica che non si sapeva raccapezzare tra i numeri delle vie. Personalmente era
convinto che questa sua confusione circa New York potesse essere spiegata soltanto in termini
freudiani: era radicata nel suo inconscio e doveva avere un significato simbolico. Per giunta i suoi occhi
funzionavano sempre meno. Nella sua vista non c’era niente che non andasse dal punto di vista fisico,
eppure la facoltà di vedere diminuiva di continuo.
Anche di giorno vedeva come attraverso una nebbia. Macchie nere gli aleggiavano davanti. E di notte la
vista svaniva praticamente del tutto.
Il semaforo cambiava tre volte prima che lui trovasse il coraggio di attraversare la strada. Le file di
automobili in entrambe le direzioni gli ringhiavano contro, mostrandogli i denti e sibilando come se
facessero a gara per investirlo. Pieno di timore, in ogni automezzo riconosceva un nemico: i conducenti
al volante erano soltanto lì in attesa del segnale per scagliarsi avanti. Alcune auto non volevano star
ferme, ribollendo e rombando con la furia di animali imbrigliati. Il professor Shrage ciabattava via,
picchiettando il bastone come un cieco.
Tratteneva il respiro in modo da non inspirare il puzzo di benzina e olio. Quella non era gente che
aveva fretta di tornare a casa, ma i malvagi abitanti di Sodoma, che spingevano velenosamente le loro
auto alla massima velocità, vorticando nella Fionda della Geenna.
Evidentemente non avevano scelta, visto che alla vigilia di ogni festività i giornali prevedevano con
sicurezza quanti ne sarebbero morti e quanti sarebbero rimasti mutilati; ma nonostante ciò loro
saltabeccavano qua e là in maniera insensata, scagliandosi in una frenesia di velocità come una
moltitudine di demoni. Molti di essi si definivano ebrei, mandando denaro in Palestina e portando lo
zucchetto sulle loro grinte perfettamente rasate.
Il professor Shrage attraversò lentamente e con cautela una corsia e si fermò a riposare sullo
spartitraffico. Che strano: a Varsavia non gli era venuto in mente neanche una volta di essere basso di
statura, ma lì a New York incedevano giganti, veri figli di Anak, di cui si parla nei Numeri, di fronte ai
quali alle spie inviate da Mosè sembrava di essere locuste.* Sbatacchiamenti e stridori non cessavano
mai, neanche di notte tardi, il professore si inoltrò su grate nel marciapiede illuminate da sotto, che
coprivano cavità dove sferragliavano senza tregua i treni della metropolitana. Sopra i tetti tuonò via un
aereo, facendo lampeggiare una striscia di luci e ruggendo ferocemente. Giovanotti urlavano, ragazze
ridevano stridule. Sopra i cinema, luci abbaglianti illuminavano manifesti di mostri, meretrici, tagliagola.
Così si divertivano. Rientrato rispetto alla via c’era un Automat; diverse persone si accalcavano con
violenza contro i suoi fianchi, estraendone liquori di ogni genere, come coloro che conoscevano i
segreti della Cabbala e sapevano far sgorgare vino dai muri. Direttamente di fronte c’era un’impresa di
pompe funebri che esibiva una sgargiante insegna luminosa come se fosse una bottega con qualcosa da
vendere. Dunque questa era l’America.
Il professore si reggeva sul bastone. C’era da meravigliarsi se il genere umano era diventato cieco nei
confronti delle questioni superiori? Come potevano esistere spiriti in mezzo a un simile baccanale?
Anche le anime hanno bisogno di un ambiente come si deve. Che cosa poteva pensare di un simile
carnaio, per esempio, un defunto? Be’, ho una sola cosa da chiedere ai poteri superni: non fatemi morire
qui in questo caos di anime perdute. Sarebbe meglio cadere in mare.
Il professor Shrage aveva la chiave del portone del palazzo, ma ogni volta che gli toccava usarla era
costretto a trafficare un pezzo prima di trovare il buco della serratura. La fessura sembrava sparire, e per
quanto si desse da fare non riusciva mai a trovare il passaggio. Oggetti inanimati giocavano a
nascondino con lui, mettendolo in agitazione e confondendolo. I folletti esistevano dunque davvero?
Ogni cosa era viva. Ciascun oggetto era posseduto da uno spirito: chiavi, maniglie, penne, monete.
Quanto spesso capitava che le sue ciabatte sparissero? Dieci volte le cercava sotto il letto, e non erano lì.
All’undicesima, eccole lì ben in vista davanti a lui come se niente fosse. Evidentemente ogni singola
cosa era capace di nascondersi, di vedere rimanendo invisibile. Che cos’erano, in definitiva, i raggi di
luce? Vibrazioni nell’etere, o come li si volesse descrivere. Ormai erano accettate entrambe le ipotesi, la
teoria corpuscolare di Newton e la teoria delle onde di Huygens. Ma come potevano essere vere
entrambe?
Tutta la questione della luce era pura spiritualità… Il professore trovò finalmente la chiave e aprì il
portone. Le scale erano buie come la pece. Qua o là c’era un interruttore della luce, ma dovette
ricominciare da capo tutto il suo traffico. Dov’era andato a finire? Di solito era lì a sinistra, ma adesso la
parete era liscia. Che cos’hanno contro di me, tutti questi aggeggi? Mi sono evidentemente ostili. Per
ogni forza ce n’è un’altra uguale e contraria. Non mi piacciono, quindi io non piaccio a loro. Pazienza,
salirò al buio.
Tenendo ben stretto il corrimano, il professore salì lentamente per le scale. Non sopportava le luci al
neon di New York, ma aveva anche una gran paura del buio. Aveva coscienza di tutti gli spettri in
agitazione lì intorno nel buio, appiattati in attesa, prontissimi a far del male e terrorizzare chi era
totalmente alla loro mercé. Come avrebbero potuto i malvagi conquistare il potere, se ciascuno di essi
non avesse avuto a spalleggiarlo un demonio? Attorno a ogni Hitler, attorno a ogni nazista, attorno a
ogni bolscevico si affollano innumerevoli spiriti del male, che gli infondono brutalità. Secondo la
Cabbala, lo Spirito del Male mira sempre all’alto, cercando di raggiungere addirittura la Sfera delle
Emanazioni… Il professore avvertì un ronzio, un brusio come se un numero incalcolabile di termiti
stessero divorando l’edificio, minandone le fondamenta. Chi poteva sapere? Forse proprio in quel
momento il sostegno centrale su cui si reggeva tutto il palazzo stava sbriciolandosi e sarebbe crollato
quella stessa notte.
Raggiunta la porta, il professore tirò fuori un’altra chiave, che apriva l’appartamento, ma si dava il caso
che la signora Clark non dormisse ancora, per cui fu lei ad aprire. Comparve sulla soglia in vestaglia
lunga, pianelle con i pompon, la faccia spalmata di crema da notte e i capelli tinti raccolti in una
reticella.
Bassa di statura e grossa, aveva fronte e guance piene di rughe profonde. Sopra il naso rincagnato erano
sistemati un paio di occhietti neri, astuti e untuosi. Si era già tolta la dentiera, per cui tra le sue grosse
labbra si apriva un varco.
Henrietta Clark era vedova di un aristocratico di Boston, ma era nata in Galizia o Bucovina. Suo padre
era macellaio rituale. Il suo defunto marito si era dedicato per molti anni alla ricerca psichica, ed era lui,
Edwin Clark, che il professor Shrage era venuto a trovare nel ‘39. Era stato lui a inviargli il necessario
affidavit. Ma nelle settimane in cui la sua nave attraversava il mare verso l’America, Clark era morto.
Aveva figli da un matrimonio precedente e non aveva lasciato un testamento.
Quindi Henrietta aveva ereditato molto poco della proprietà, ma esercitava la professione di dentista,
avendo studiato a New York prima del matrimonio. Vi era tornata e aveva aperto uno studio, facendosi
una clientela benestante. Nel tempo libero praticava la scrittura e pittura automatica con l’aiuto del suo
«controllo», Mudgy, e organizzava sedute spiritiche. Pubblicava lettere su riviste di ricerca psichica e su
pubblicazioni di ogni genere sull’occulto. Era stata lei a prendersi cura del professor Shrage durante i
terrificanti anni dell’Olocausto hitleriano, quando sua moglie e la sua famiglia erano morti tutti per
mano dei nazisti.
Henrietta gli parlava a volte in inglese, a volte in tedesco e di quando in quando in uno yiddish
sgrammaticato. «Santo cielo», gli disse, «stavo già cominciando a preoccuparmi che si fosse perso.»
«Perso? No.»
«Come sta quella gente di Varsavia? Sempre lì a chiacchierare tra loro?»
«Sì, sempre.»
«Entri. Si tolga il cappotto. Ho un messaggio per lei.» Qualcosa nell’intimo del professor Shrage tremò.
«Da dove?»
«Dalla scrittura automatica. Ho anche il ritratto di Edzhe.»
«Be’…» Il professore si tolse il cappotto. Era al tempo stesso curioso e profondamente irritato. Sta
giocando con la mia vita, pensò. La accompagnò nella stanza centrale, l’atelier, come lo chiamava lei. La
signora Clark accese una lampada solitària nel vasto ambiente, le cui quattro pareti erano tutte coperte
di quadri fatti da lei.
Dalla penombra emergevano oscure figure dai visi velati che si trascinavano dietro amorfi strascichi
simili a code di comete.
Diavoli con corna e scaglie protendevano lunghe dita dalle unghie acuminate. Angeli allargavano ali
d’oro. C’erano inoltre dipinti connessi con la teosofia: volti di tumescenze invisibili, ruote che
simbolizzavano differenti tipi di coscienza, nonché il Terzo Occhio, la Fune d’Argento, le Sorgenti del
Conseguimento e le Gare di Atlantide. Su una vecchia scrivania, zeppa di carte, riviste, pennelli e colori,
era aperto un taccuino con più o meno una dozzina di righe in minuta scrittura a rovescio. Henrietta
glielo diede.
«Vada allo specchio e legga la lettera.»
«Lo sa che mi risulta difficile.»
«Be’, gliela leggo io.» Mio cavissimo David, fra un mese saranno passati trent’anni da quando abbiamo
unito le nostre anime in un vincolo che non potrà mai essere reciso. Gli assassini nazisti hanno arso il
mio corpo in una cava di calce, ma la mia anima si trova con le persone che mi sono più intime e care,
con i miei genitori e i tuoi, con i miei fratelli e sorelle e con i tuoi. Anche i nostri figli sono con me.
Sono diventati grandi e qui hanno ricevuto un altissimo livello di istruzione. Sono di estrema bellezza e
straordinariamente orgogliosi del loro padre, che amano davvero moltissimo. Siamo tutti qui insieme, in
lieta congrega, e discutiamo spesso della tua situazione. Sii forte, non perdere la speranza. Hai ancora
molto da compiere nella Valle di Lacrime. I Maestri ti proteggono con amore e aspettano che riveli la
verità a chi rimane sprofondato nelle tenebre.
«E’ tutto?»
«Ecco il ritratto.» E la signora Clark estrasse dal marasma un foglio di carta rigida con dipinta ad
acquerello una figura senza gambe, che avrebbe dovuto rappresentare la moglie del professor Shrage,
Edzhe, con un’aureola attorno alla testa e ali sulla schiena, circondata da strisce rosso–verdi e da
scintillanti lustrini multicolori. Lui se lo accostò agli occhi. Non era Edzhe, anche se aveva una vaga
rassomiglianza. Ma la signora Clark aveva una sua foto. Scrutò il dipinto, respirando pesantemente
attraverso il naso come se stesse dormendo da sveglio. Sono tutte bugie, falsità e inganno, pensò, ma
non ne consegue necessariamente che Edzhe non sia qui. Forse che il Polo Nord non esiste soltanto
perché Frederick Cook ha fraudolentemente affermato di averlo scoperto? Niente affatto: il desiderio di
ingannare prova che dietro l’inganno si nasconde una verità.
Gli stessi idoli testimoniano dell’esistenza di Dio.
Posata la carta, andò in camera sua.
Sono stanco, stanco. Chissà. Forse è finalmente arrivata la mia ultima notte, gli scorse veloce nella
mente. Il professor Shrage si tolse una delle scarpe e riposò un attimo. Poi si tolse l’altra. Da qualche
parte aveva un appendino su cui sistemare l’abito. Se muoio, che almeno non mi seppelliscano in
indumenti stazzonati. L’appendino sarebbe dovuto essere dietro la porta, ma non riuscì a trovarlo. Be’,
si è rimesso a giocare a nascondino. Mise gli indumenti su una poltrona. Nella camera c’era l’elettricità,
ma non poteva sopportare la luce forte. Dovessi diventare cieco, che almeno sia abituato ad agire al
buio. Stesosi sul letto, si coprì con la coperta. Gli venne in mente un versetto da Giobbe: «Dormirei e
avrei pace.» Nella Bibbia c’è tutto.
Sentì un rumore di passi. La signora Clark aprì leggermente la porta.
«Dorme?»
«No, mi sono soltanto steso.»
«Ha appeso l’abito?»
«L’appendino è sparito.»
«Che sciocchezza! Le ho detto mille volte di appendere l’abito. Domani andrà in giro che sembrerà un
mendicante.»
«E’ steso sulla poltrona.»
«Be’, lo appenderò io. Il mio benedetto Edwin perdeva sempre tutto anche lui. Ma era la più ordinata
delle persone che la natura possa creare.» Il professore non rispose. Sentì che la signora Clark si sedeva
sulla poltrona, proprio sul vestito di cui lo stava esortando a prendersi cura.
«Che cos’ha, professore?»
«Niente, niente.»
«Le do un messaggio e lei non dice una parola. E’ arrabbiato con me?»
«Perché dovrei esserlo? Lei mi ha salvato la vita. Mi ha fatto un numero incalcolabile di cortesie. Non
riuscirò mai a ripagarla.»
«A giudicare da come si comporta, si potrebbe pensare che non le abbia fatto altro che male.»
«No, mia cara, soltanto bene. Ma occorre una forza per tutto, anche per la gratitudine.»
«Lei conosce tutte le risposte, ma le manca la voglia di essere in buona salute. Dopo la morte di Edwin,
i medici hanno dato per morta anche me.
Tutti i miei organi vitali avevano praticamente smesso di funzionare. Mi hanno raccomandato di farmi
operare di calcoli biliari, ma non potevano garantirmi che il mio cuore reggesse. Quindi ho deciso che
dovevo stare bene. Dovevo semplicemente ricostruire tutto da capo.»
«Be’, era più giovane.»
«Le manca la fede, professore, ecco che cosa le manca. Perché faccio tutto questo per lei? La gente dice
ogni genere di nequizie su di noi.
Ma lei sa la verità. Io voglio aiutarla, professore, perché il mondo ha bisogno di gente come lei. Siamo
testimoni della nascita di una nuova civiltà. Abbiamo bisogno di persone colte che conoscano la legge
di causa ed effetto. Quella del karma non basta più. Per la prima volta l’Ashram di Shambala sta
discendendo direttamente, non attraverso le gerarchie dei Maestri…»
«Sì, sì.»
«Professore, io so che cosa desidera, e presto l’avrà.»
«Che cosa desidero? Non lo so nemmeno io.»
«Edzhe le si mostrerà fisicamente. Lei le parlerà e l’abbraccerà… come se fosse viva.» Il professore
parve paralizzarsi.
«Quando? E’ possibile?»
«Sì, è possibile. E succederà prima di quanto lei pensi.»
CAPITOLO 4.
All'alba cadde altra neve, e il primo mattino era ghiacciato e soleggiato. L’inospitale camera d’albergo
era piena di una luce che stendeva una luminosità da primo mattino sulle lenzuola sgualcite, sul tappeto
logoro e sulla tappezzeria raggrinzita. Splendeva sul viso di Anna, nei suoi occhi, in ciascun puntolino
d’argento del suo cappellino di velluto. Era seduta su una poltrona, completamente vestita, in cappotto
e scarpe da neve. Grein, anche lui con cappotto e cappello, era un po’ seduto e un po’ steso sul letto.
«Sì, dobbiamo farlo», le disse.
«Niente ci impone di essere infelici per tutta la vita. Possiamo essere felici insieme. Ormai non ho più
nessun dubbio.» Dopo un attimo di pausa, Anna rispose: «Tu sei mio marito e io sono tua moglie. Sei la
persona che mi è più vicina in tutto il mondo. Tu e il papà.» Fece un’altra pausa e poi aggiunse: «Sono
sicura che Luria gli ha telefonato. In questo momento il papà mi sta probabilmente scagliando contro la
più mortale delle maledizioni. Ma farà la pace. Soltanto ieri ha detto che ti vuole bene come a un figlio.
Sono parole che non dice a caso. Chi non conosce un po’ di Talmùd, lui lo considera una mezza
persona. E c’è un’altra cosa: a tuo modo sei religioso, mentre Luria è sempre lì a vantarsi del suo
ateismo.»
«Ciò che abbiamo fatto non è molto religioso.»
«No, ma ci sposeremo. Non si può trattenere una persona con la forza. Il papà è ricco, persino più di
quanto tu possa immaginare, e tutto ciò che possiede è nostro. Potremo essere felici insieme per molti
anni.» Grein si alzò. Lo fece anche lei, e si abbracciarono e baciarono a lungo e con passione. Aperta la
bocca, lei lo morse con la voracità di un animale incapace di saziarsi per quanto divori. La stanchezza
svanì e rimasero stretti l’uno all’altra, assorti come se il desiderio li consumasse. Serrandola ancora di
più, Grein si meravigliò di se stesso. L’eccitazione erotica lo stupiva sempre per il modo come veniva al
tempo stesso dall’intimo e da fuori. Lo privava di ogni forza; attraverso essa, secondo lui, si diventava
tutt’uno con das Ding an sich, con la vera essenza dell’essere che si nasconde oltre il guscio delle
illusioni.
Per raggiungerlo, Anna doveva stare in punta di piedi. Lui si chinò verso di lei. Per un po’ parve
dimenticarsi della stanza sudicia, della notte insonne, del peccato che aveva commesso nei confronti del
marito e del padre di lei, della sua stessa famiglia, di Esther. Il corpo agisce secondo motivi propri, per
conto suo. Si erano amati tutta la notte, eppure si desideravano di nuovo. Anna si strappò da lui con
labbra di un rosso violento e lacerate come una ferita. Gli ricordò una leonessa dello zoo che alzasse
brevemente la bocca insanguinata dal blocco di carne cruda gettatole. Lo sguardo che gli rivolse era
carico dell’intensità, dell’amore.
«Non possiamo restare qui!» A lui parve che le sue parole avessero un significato recondito, come se in
realtà avesse inteso dire: dobbiamo lasciare di nostra spontanea volontà questo Giardino dell’Eden,
prima che ci scaccino. Grein rimase un attimo in silenzio, per sedare il desiderio che gli ribolliva
nell’intimo. Si scrutarono con l’angoscia e la pena di due creature che sono diventate del tutto
dipendenti l’una dall’altra.
«Che cosa vuoi fare?» le chiese.
«Non ci crederai, ma ho fame… una fame terribile.»
«Tutto per te è terribile. Vieni, presto mangeremo.»
«Che cosa mi darai? Ah, potrei mangiarti vivo!»
«Molti ragni lo fanno.»
«Su, andiamo a prendere un caffè. Dopo di che io dovrò andare o da lui o dal papà. Dovunque vada,
troverò un pandemonio.»
«Possiamo andarcene da qualche parte insieme con l’auto…»
«Non possiamo farlo senza vestiti, biancheria. Ho bisogno delle mie cose. E anche tu non puoi
scappare e basta.»
«No.»
«Andrò a casa. Lui dica pure quello che vuole. Non negherò; niente.
Non ho paura di nessuno. E’ la verità.»
«Come faccio a contattarti?»
«Telefonami.»
«E se risponde lui? E’ una cosa che non mi sento di affrontare.»
«Parlagli chiaro: digli che mi ami e che io ti amo. Non può trattenermi con la forza. E non devo essere
io a insegnarti che cosa dire a tua moglie. Ma sarà meglio che tu sappia una cosa: per me non esistono
mezze misure. Se voglio un uomo, lo voglio totalmente e completamente.» Grein la prese per il braccio
e uscirono. Non aveva niente da portare con sé se non la chiave. Si diede un’occhiata alle spalle: di lì a
poco avrebbero cambiato la biancheria del letto, pulito il bagno, e non sarebbe rimasta nessuna traccia
della straordinaria notte che avevano trascorso lì, tranne i residui o reazioni chimiche della mente che si
definiscono memoria. Nel corridoio una lampadina emanava una luminosità opaca nella luce del giorno.
Il mucchio di lenzuola e asciugamani era nello stesso posto della notte prima. Incrociarono una
cameriera nera con secchio e strofinaccio. Procedendo per la sua strada, scoccò loro un’occhiata che
sembrava echeggiare le parole dell’Ecclesiaste: «Tutte le cose sono in travaglio… Non resta più ricordo
del passato, ma neppure di ciò che sarà si conserverà memoria.» Si aprì una porta e ne uscì un’altra
coppia. L’uomo aveva una cartella azzurra con strisce rosse e bianche. Entrambe le coppie si diressero
verso l’ascensore. L’altro uomo sembrava sudamericano. Aveva un aspetto latino, con capelli neri come
la pece, baffi tagliati corti, basette e abiti dai colori sgargianti che parlavano in modo tentatore di sole e
climi tropicali. La sua compagna era bassa, con un gran petto e fianchi debordanti. I lineamenti del suo
viso rinviavano a origini indiane.
L’ascensore arrivò e, mentre espelleva una donna con un enorme fagotto di biancheria, i due uomini
ebbero una breve schermaglia su chi dovesse entrare prima. Al banco dove la notte precedente era
seduto il vecchio, adesso videro in piedi un giovanotto dai capelli ricci. Questo, il mattiniero, era vivace
ed esuberante quanto l’impiegato di notte era gelido e rigido. Valutò le due coppie con occhio esperto,
sporgendo le labbra come se stesse per fischiettare. I suoi occhi scintillanti sembravano dire: capisco,
capisco… Lascio correre, lascio correre.
Grein posò la chiave senza una parola. Prima di aprire la porta verso l’esterno guardò rapidamente a
destra e a sinistra.
In quella zona avrebbero facilmente potuto imbattersi in un conoscente di Anna. L’albergo non si
trovava molto lontano dal palazzo dove abitava Boris Makaver. Di punto in bianco nella sua mente
scorse fulmineo un brano dei Proverbi: «Tale è la condotta della donna adultera: mangia, si pulisce la
bocca e dice: ‘Non ho fatto niente di male!’» Ne trasse un certo imbarazzo. Gli era venuto in mente non
richiesto, per conto suo, senza alcun motivo apparente, come i versetti delle Scritture che ci si trova
sulle labbra qualora ci si svegli di soprassalto. Grein riconobbe l’auto. Era bloccata e parzialmente
coperta da un grosso strato di neve, come il vestigio di una civiltà ormai semisepolta.
L’auto era ansiosa di andarsene da lì, ma una ruota preferiva rimanere lì. Girava veloce sul suo asse.
Anna vi era già seduta. Si raccolse un gruppo di bambini. Grein tornò in albergo a chiedere una pala.
Era molto strano trovarsi lì, a quindici isolati dall’appartamento di Boris Makaver e tre da Central Park,
a spalare neve. Non aveva con sé occhiali da sole, e il riverbero gli abbagliava lo sguardo. Sebbene tutto
attorno a lui scricchiolasse il gelo, si inzuppò di sudore. Sulle prime lavorò con vigore, ma nel giro di
poco tempo la pala gli disse la pura verità: era un uomo di mezza età.
Come aveva modificato la Broadway, la neve! Ne erano cadute intere montagne, azzurro ghiaccio,
scintillanti come se fossero piene di gemme.
Ghiaccioli pendevano ancora da davanzali e grondaie. Gli spazzaneve erano all’opera, raccogliendola in
mucchi che le ruspe gettavano su camion. Il sole era già alto nel cielo, luminoso di una luce bianca e con
un centro di un oro delicato; dai tetti saliva verso di esso il fumo, quasi che fossero altari su cui
venissero offerti sacrifici in suo onore. L’atmosfera era pulsante e pungente. Le auto di passaggio non
ruggivano più ma emettevano un forte suono come di trombe. In distanza l’Hudson scintillava, un po’
ghiacciato e un po’ in movimento, lustro come uno specchio, pieno d’oro, di fuoco.
Sulla costa elevata del New Jersey un riverbero saliva alto in cielo nell’indaco del crepuscolo. Una
fabbrica costellata di finestre rifrangeva la luce oltre il fiume: vitrea, translucida, pura, baluginava nella
foschia come un’immagine sfuggente su una foto.
Dall’albergo qualcuno portò fuori una piccola zeppa di legno da mettere sotto la ruota. L’auto ebbe un
sobbalzo in avanti e partì. Grein non distingueva più i piedi, non sapeva più quale fosse l’acceleratore e
quale il freno. Anna gli si rannicchiò accanto come aveva fatto la sera prima. Le loro ginocchia si
toccarono. Speriamo soltanto che la mia gioia non finisca con l’ucciderla, si ammonì lui. Intendeva
andare uptown, verso la Columbia University, e invece finì per scendere verso downtown. Mentre
passava davanti al palazzo di Boris Makaver, il semaforo passò sul rosso, e lui gettò un’occhiata nel
cortile, provando le emozioni di un criminale che torna sulla scena del delitto. Il giardinetto era invaso
da alti mucchi di neve; i paletti dello steccato erano coperti da cappucci nevosi. Grumi di neve
pendevano dagli alberi come frutti. Da un momento all’altro sarebbero potuti uscire Boris o Reytze.
Grein si sentì prendere da un’irresponsabilità infantile: Dio aveva abbandonato il mondo. Era di nuovo
il regno di idoli e idolatria.
L’auto superò Lincoln Square e continuò a procedere per la Broadway. Che però non era più la
Broadway ma un quartiere nella più antica delle città pagane: Roma, Atene o addirittura Cartagine. Gli
idoli vi avevano loro fedeli e sacerdoti. Le loro effigi guardavano giù da bacheche coperte di neve:
assassini sfrenati, prostitute nude. Davanti a un cinema si sgomitavano e spintonavano alcune giovani.
Erano in attesa di vedere un idolo. In una vetrina un uomo in indumenti bianchi e con il cappello alto
arrostiva carne su carboni ardenti. In un’altra una gigantesca aragosta si torceva sopra blocchi di
ghiaccio. Musica cacofonica, urla di lascivia e strilli di torturati, rimbombava da una porta aperta.
Minuscole immagini sciamavano su tutto un palazzo, componendo quella enorme di una donna,
ciascuna delle cui gambe era alta quattro piani. Dipendenti dei negozi erano sulle soglie a sollecitare i
passanti a entrare. L’aria puzzava di fumo e scorie, di liquore e bruciato.
Grein cercò di parcheggiare l’auto, ma non c’era praticamente posto.
Stava per occupare uno spazio libero, quando un tale biondo, rosso in faccia, con capelli simili a setole
di porco, suonò rumorosamente e lo coprì di contumelie. Grein entrò in un parcheggio chiuso.
Anna gli prese il braccio. «Oggi comincia la nostra luna di miele.» Si avviarono a piedi in cerca di un
ristorante. Grein aprì una porta e tornò a chiuderla. Finalmente entrarono in un locale misto di bar e
ristorante. Il soffitto era punteggiato di lampade che attenuavano appena la penombra. Al banco era
seduto un beone solitario, che ondeggiava davanti a un bicchiere vuoto. I tavoli erano apparecchiati, ma
non vi era accomodato nessuno. Gli specchi si riflettevano a vicenda.
Grein fu preso da una malinconia dimenticata da tempo, la sensazione di chi è arrivato in fondo. «Se
non altro», mormorò ad Anna, «qui non incontreremo tuo padre.» Si sistemarono in un séparé e
ordinarono il tipo di piatti che mangia chi, in spregio al normale procedere della giornata, ha perso la
bussola. Chiesero succo d’arancia e cognac, frittata e pollo. Il cameriere, intuito quanto fossero stanchi,
si diede subito da fare.
Accese una lampada da tavolo che diffondeva ombre piuttosto che luce.
Mangiarono e bevvero nel silenzio di chi non ha più energia.
La sala vuota cominciò a riempirsi. Gli uomini che entravano erano alti, di costituzione robusta,
muscolosi, fedeli sentinelle di Baal e Astarotte. Portavano con sé le vacche di Bashan di cui racconta
Amos, donne grasse e peccaminose, colorate di henné, dipinte, con unghie color del sangue.
Accalcandosi, agitavano le mani, fumavano, blateravano.
Grein versò il liquore ad Anna e a se stesso. Lei fece tintinnare il bicchiere contro il suo. Poi accese una
sigaretta e il fumo le avvolse la faccia come un velo. Lui la sentì dire: «Se non posso essere felice con te,
la felicità non esiste.»
«Sì, saremo felici», le fece eco.
Grein appoggiò la testa alla parete, accorgendosi che i fumi dell’alcol gli salivano dallo stomaco al
cervello. Tutto di punto in bianco si fece indistinto, vago, perse coerenza. Era davvero pronto a lasciare
Leah?
Amava veramente Anna fino a quel punto? Intendeva crearsi una nuova famiglia con lei, avere altri figli
con lei? Com’era successo tutto questo? Come si incappa a precipizio in simili cose? In realtà non aveva
neanche la forza sufficiente per stupirsi. Tutta la sua vita era stata una sola lunga improvvisazione.
Avrebbe voluto studiare scienze naturali e invece si era iscritto alla facoltà di filosofia. Aveva deciso di
rimanere scapolo e invece aveva sposato la prima ragazza che lo aveva baciato.
Aveva sognato una vita accademica e invece era diventato agente di Wall Street. E adesso, senza il
minimo scrupolo, aveva portato via la moglie a Stanislaw Luria, la figlia di Boris Makaver. Sarebbe stato
maledetto per ciò che aveva fatto, e avrebbe dato dolore ad altri. Aveva annotato nel suo diario che
chiunque violi i Dieci Comandamenti si avvia sulla strada della rovina fisica e spirituale, eppure li aveva
infranti.
«Che cosa stai pensando, tesoro?»
«Oh, niente.»
«Stai pensando qualcosa, mio caro. Credimi, non è facile nemmeno per me.
E’ più difficile di quanto immagini.» Il cameriere portò il conto. Grein gli lasciò un dollaro di mancia, si
alzò e aiutò Anna a mettersi il cappotto. Si sentiva le gambe instabili, le pareti del ristorante
ondeggiavano come se fosse su una nave. Pagò e uscì con Anna. Il sole se n’era andato. La neve era
stata calpestata. Il cielo era coperto. Una grigia giornata invernale, fredda e opprimente, avvolgeva New
York e tutto il suo ossessivo rimbombare, sfregare, sbatacchiare, correre. Anna gli prese il braccio e per
un po’ camminarono in silenzio.
«Ho ancora mille cose da fare oggi!» disse lei. «Devo andare a casa subito.»
«Ti porto con l’auto.»
«No, prendo un taxi. Telefonami alle sette in punto. Sarò lì ad aspettare accanto al telefono.»
«Sì, tesoro.»
«Ricorda: non voglio favori da te. Se la consideri soltanto una relazione come tutte le altre, non
trascinarmi nel tuo sudiciume.»
«Stai dicendo una sciocchezza», replicò lui. «Questo è il giorno più felice della mia vita.» Lei lo guardò in
tralice, valutandolo, soppesando le sue parole. Il suo sguardo sembrava chiedere: se mente, che senso
ha?
Alzò la mano per chiamare un taxi, ma non se ne accostò nessuno. Si aggrappava al braccio di Grein
con inusuale forza. Lui notò quanto fosse bassa. Anche con le scarpe e gli stivaletti da neve gli arrivava
appena alla spalla. Erano lì fianco a fianco, al tempo stesso vicinissimi e distanti, con la mortificazione
di chi è stato tradito dal fato.
Un taxi accostò e Anna si strappò da lui.
«Alle sette in punto!» E gli soffiò un bacio.
Il taxi corse via. Lui la seguì per un po’ con lo sguardo. Poi tornò verso il parcheggio coperto per
prendere l’auto. Sebbene avesse fretta camminava lentamente, con la svagatezza di chi sta facendo
qualcosa contro la sua volontà, contro ogni logica, spinto da una mano aliena, guidato da una forza
nascosta.
Portò l’auto al palazzo in Central Park West dove abitava. C’era persino un posto dove parcheggiare.
Com’erano corte le giornate d’inverno!
Smontò e rimase lì un attimo. Stava già calando il crepuscolo. Avrebbe dovuto andare in banca, ma
ormai era troppo tardi. Intendeva anche telefonare in ufficio, ma era troppo stanco. Aveva freddo, si
sentiva il naso tappato e un cerchio al cranio. Ogni sua parte desiderava stendersi, riposare, dormire. Mi
sto ammalando? si chiese. L’anziano portinaio stava spalando la neve. Nell’atrio c’era il portaombrelli
che di solito, nelle giornate di pioggia, stava fuori. Grein attese davanti all’ascensore nel silenzio e
nell’umiltà prodotti da un’ansia profonda.
Leah era a casa? I figli sapevano ciò che lui aveva fatto? Non era la prima volta che non dormiva nel suo
letto, ma questa volta non aveva scuse. Non aveva nemmeno telefonato a Leah. Era veramente pronto a
lasciarla? Poteva distruggere deliberatamente una vita, coprire di vergogna coloro che gli erano fedeli?
Poteva ribaltare l’ingiustizia in giustizia, il torto in diritto?
L’ascensorista, un gentile, si mise a chiacchierare del tempo. La radio prevedeva neve, venti, gelate.
Anche così presto, era già ubriaco. Grein aprì con la chiave la sua porta di casa. L’ingresso era buio.
Sulla commode era posata la posta, e lui vi diede un’occhiata nella penombra: The Wall Street Journal,
l’indice Dow Jones, il bollettino della sinagoga dove andava a compiere le devozioni nelle Festività
Importanti, la richiesta di un’istituzione caritatevole. Già, chi dovrebbe scrivermi? accolse in silenzio la
scarsa corrispondenza. Poi rimase fermo un attimo ad ascoltare attentamente; no, Leah non era in casa.
Jack di sicuro non c’era. Anita era probabilmente in camera sua, ma il più del tempo da lei non si sentiva
arrivare il minimo rumore. L’appartamento sapeva di riscaldamento eccessivo e odori stantii di cucina;
vi aleggiava la greve immobilità di una dimora abitata soltanto da adulti.
Superata la cucina, Grein andò nella saletta da pranzo. Sul tavolo era posato un settimanale di sinistra.
Jack aveva evidentemente passato la notte e fatto la prima colazione lì. Stranamente, nel locale era
ancora viva una mosca solitària, nel cuore dell’inverno. Si aggrappava al bordo della zuccheriera,
completamente assorta in sé come lo sono gli esseri che hanno vissuto oltre il loro tempo e dovrebbero
ormai essere morti.
La finestra della cucina dava a sud, e da lì si vedevano i palazzi di Central Park South, i grattacieli del
Rockefeller Center e l’Empire State Building. La nebbia del crepuscolo si era fatta più fitta. Qua e là una
finestra era già illuminata, e la forte luce elettrica mandava un bagliore attraverso la caligine. In alto
volava un aereo solitario, stridendo come un uccello mostruoso. Il laghetto artificiale di Central Park era
incorniciato dalla neve come uno specchio d’argento. Nella mezza luce della sera New York appariva
immobile, bianca, una città senza abitanti, uno stanziamento dimenticato e chiuso tra i ghiacci sulle
coste dell’oceano Artico. Persino le file di auto che procedevano per le tortuose strade di Central Park
avevano un che di meccanicamente vacuo, come giocattoli che una volta caricati si muovono
automaticamente. La finestra era aperta di una fessura ed entrava aria fredda.
Grein guardò fuori, fissando il vuoto davanti a sé, riflettendo senza parole. Rovinare famiglie?
Distruggere persone? Era stato messo al mondo soltanto per questo? Si sentì gelare e chiuse la finestra.
Vagolò un po’ per il corridoio. Avrebbe voluto accendere le luci, ma non lo fece.
Sentì un bisogno improvviso di parlare con qualcuno di casa, quasi per provare a se stesso che abitava
ancora lì, che era ancora il capo della famiglia.
Bussò alla porta di Anita, ma non ci fu risposta. La spinse, e si aprì.
La camera era in un disordine da primo mattino, come se sua figlia si fosse appena svegliata. Il letto era
sfatto; indumenti, libri e riviste erano sparsi sulla scrivania, le sedie, il pavimento. Anita era lì in mezzo a
tutto ciò in pigiama stazzonato e ciabatte fruste, alta, spigolosa, petto piatto, i capelli castano chiaro
(quelli della nonna) scarmigliati, il viso allungato coperto di lentiggini. Ogni volta che la vedeva, Grein
rimaneva interdetto. Non assomigliava né a lui né alla madre. Ogni volta provava esattamente la stessa
sensazione: che le membra di sua figlia si stessero consumando come se fosse in coma.
Le guance erano incavate, il naso aguzzo, il mento appuntito, la fronte alta. I suoi occhi verdi lo
fissavano con la timorosità di un animale disturbato nella tana. «Oh, papà!»
«Perché non hai risposto quando ho bussato?»
«Ho risposto.»
«Perché c’è tutto questo disordine qui dentro?» Anita rimase zitta.
«Dov’è tua madre?»
«Alla bottega. Come di solito.» Padre e figlia erano ai ferri corti ormai da tempo. Da quando Anita
aveva abbandonato il college, lui si teneva alla larga da lei. Né le cose andavano meglio tra lui e Jack. Il
ragazzo era un estremista di sinistra, praticamente comunista. Correva dietro alle ragazze. Andava e
veniva come se quella casa fosse un albergo. Ma se non altro aveva conseguito qualche risultato. Era
quasi laureato in ingegneria. Gli era stato offerto un impiego. Anita invece non aveva studiato, non si
era cercata un lavoro, non aveva amiche. Era al tempo stesso egocentrica, malinconica, insolente, ribelle.
Ma che cosa voleva? Con chi ce l’aveva?
Passava giorni e giorni da sola, leggeva romanzi dozzinali, scriveva poesia scadente che i responsabili
delle riviste le restituivano. Si tappava in casa come in prigione. Secondo Leah era psicologicamente
disturbata e avrebbero dovuto mandarla da uno psichiatra, ma lui non ne aveva fiducia, e Anita non
voleva essere aiutata. A diciannove anni, non aveva prospettive.
«Che cosa ne è stato del tuo impiego?» le chiese, tanto per dire qualcosa.
Anita si tese. «E’ andato a monte.»
«Come mai?»
«Non mi pagavano come si deve.» Grein si accigliò. Perché avrebbero dovuto darle uno stipendio alto?
Quali erano le sue qualifiche? La generazione attuale da dove traeva l’idea di dover ottenere tutto ciò
che chiedeva? Gli venne una voglia improvvisa di mettersi a litigare con la figlia, ma si controllò. Non
era il momento di cominciare un’altra guerra.
«Non esci?»
«Oggi no.»
«E quando, allora?»
«Quando farà caldo.» Anita si esprimeva sempre così, con il risultato che tutti i tentativi del padre di fare
conversazione con lei finivano rapidamente nel nulla.
Le sue frasi erano secche, brusche, puntuali. Dopo un attimo Grein chiuse la porta. Saprà che non ho
passato la notte in casa? No, probabilmente no.
In quella famiglia ciascuno andava per la sua strada. Anita sembrava avere un solo desiderio: essere
lasciata in pace. Vi accennava in esagitati toni mistici. A lui, per esempio, aveva fatto intendere che le
aveva consumato la sua giusta parte di vita in questo mondo, lui, suo padre. Si era preso troppo per se
stesso, non lasciando niente a lei.
Quanto a Jack, si comportava da perfetto estraneo. Da quando aveva aperto la sua bottega antiquaria,
mettendosi in affari, Leah passava tutta la giornata là o a qualche asta. Oltre che oggetti d’arte trattava
pellicce vendute da ricche signore dopo averle usate soltanto un anno.
Lontani erano ormai i tempi in cui Leah dipendeva completamente dal marito e combatteva per stare
con lui. Lui l’aveva messa da parte per tanti di quegli anni che si era creata interessi suoi. E gli si era
messa contro anche lei, con l’opposizione passiva di chi ama ma non è riamato.
Anche se in quella casa nessuno aveva un comportamento abituale, era comunque stata stabilita una
sorta di ordine. La donna delle pulizie aveva la chiave dell’appartamento. Leah le lasciava la paga in un
cassetto e lei si serviva di cibo dal frigo. Una volta alla settimana Leah telefonava a un supermercato per
ordinare le provviste. L’addetto all’ascensore apriva la porta al ragazzo delle consegne e sistemava tutti i
prodotti deperibili, burro, formaggio, latte e carne, nel frigorifero. Ogni settimana Leah provvedeva a
rifornire la casa per un solo pasto: la prima colazione. Grein, Jack e lei stessa pranzavano e cenavano al
ristorante. Anita digiunava praticamente tutto il giorno: le bastavano un uovo, un bicchiere di latte, una
banana. Un tempo, di domenica, tutta la famiglia andava al ristorante insieme, ma da qualche anno Jack
e Anita si erano sottratti anche a questi pranzi settimanali.
No, Grein non capiva proprio l’America. Si lamentava a ogni pie’ sospinto che la mentalità americana
funzionava per categorie diverse da quelle valide in Europa, che la gente nata lì costituiva l’antitesi
biologica degli europei. Nondimeno, lo spirito dell’America gli era entrato nelle ossa.
Grein andò in camera da letto e soltanto in quel momento si rese conto di quanto fosse esausto.
Doveva stendersi immediatamente. Non scostò nemmeno il copriletto di taffettà e non si tolse giacca
né scarpe. Tra il sonno e la veglia, si abbandonò alla sua stanchezza.
Il suo matrimonio con Leah traballava da un pezzo. Aveva sempre avuto un’altra donna oltre a lei. Negli
ultimi anni, proprio a causa delle sue infedeltà, Leah si era fatta frigida e si era buttata con eccessivo
impegno nel suo commercio di oggetti antichi. Certo, non era più giovane. Lui sospettava che fosse
addirittura più anziana di lui. Nel villaggio dov’era nata, i registri dell’anagrafe erano stati incendiati
durante la Grande Guerra, per cui il suo certificato di nascita era basato su dichiarazioni di testimoni
oculari. Lui non era mai riuscito a scoprire la sua età esatta. Lei non festeggiava mai un compleanno,
non sopportava cerimonie di alcun genere che riguardassero la sua persona.
Era rimasta una donna schiva di quelle di una volta.
La loro famiglia si basava sulla tolleranza. Più di una volta Grein aveva considerato che quella di sua
moglie era un retaggio di quella della matriarca Leah, figlia di Labano, che aveva concesso al marito
Giacobbe una concubina con cui giacere e che il diritto di avere lo stesso Giacobbe lo aveva pagato alla
sorella Rachele, con le mandragore di suo figlio Reuben. Leah conservava in sé la docilità di generazioni
di mogli rese sagge dalle sofferenze di generazioni di bisnonne consapevoli che gli uomini sono fatti
così, e che, se vuole vivere con un uomo, una donna deve saper avere pazienza, devozione e umiltà.
Durante i primi anni in America, vicini e amici del paese di un tempo la rimproveravano, prendendo in
giro la sua acquiescenza di moglie appena arrivata, che lavorava duro, si sforzava di far crescere i figli
senza quasi avere un tozzo di pane in casa, ma consentiva al marito, modesto insegnante di Talmùd
Torah, di spassarsela con altre donne. Le spiegavano che in America si può portarlo in tribunale,
ottenere da lui gli alimenti e persino farlo buttare in galera. Le mostravano articoli sui giornali yiddish in
cui si raccontava di giovani spose scaltre che raggiravano i mariti, succhiando loro soldi con la
benedizione dei tribunali americani. Ma simili malintenzionate provocazioni non l’avevano influenzata
in alcun modo.
Amava profondamente Grein. Non avrebbe mai potuto scordare che lui era studente di filosofia a
Varsavia, e lei una ragazza di provincia; che lui era alto e biondo e lei bassa e bruna. Non aveva tuttora
capito che cosa lui avesse visto in lei, né perché l’avesse sposata così volentieri. Sapeva dei suoi
peccatucci, ma aveva accettato il suo occhio vagabondo come avrebbe potuto accettare una deformità
fisica. Gli perdonava tutto. Diceva che ogni giorno, alzandosi e trovandolo lì nell’altro letto, la
considerava una ricompensa sufficiente. Spesso, al mattino, si accostava al suo letto, lo baciava, gli
lisciava le coperte e mormorava: «Dormi bene, tesoro, dormi bene.» Lui le aveva fatto una promessa
solenne, che considerava sacra: qualsiasi cosa fosse successa, non avrebbe mai divorziato da lei. Era il
suo ideale di ciò che dev’essere una moglie: come sua madre e sua nonna, l’archetipo di donna virtuosa
che aveva portato con sé andandosene dalla casa paterna. Nell’intimo detestava le donne licenziose e le
disprezzava. Era uno di quegli uomini che fuori di casa abbandonano ogni ritegno, ma in casa vogliono
la castità. Era persino geloso del fatto che Leah baciasse un parente di sesso maschile a un
festeggiamento di famiglia. Questa duplicità di atteggiamento gli era stata sottolineata innumerevoli
volte, ma lui chiamava a sostegno della sua condotta la più alta autorità: la Bibbia. Forse che Abramo,
Isacco, Mosè, Davide e Salomone non avevano avuto concubine? Il discorso moderno
sull’emancipazione delle donne lo considerava una chiacchiera oziosa di eunuchi spirituali. Aveva più
volte affermato che blandire le donne, come viziare i sottosviluppati, avrebbe inevitabilmente distrutto
la civiltà contemporanea. E le prime vittime sarebbero stati proprio coloro che vi si dedicavano con
tanto impegno. Simile attività ai suoi occhi rappresentava il culto idolatra dei tempi moderni.
Ma la notte prima aveva anche fatto una promessa ad Anna: per lui aveva rotto con il marito e forse
anche con il padre. Pur essendo esausto, Grein non riusciva a addormentarsi. Ogni volta che
cominciava ad assopirsi, tornava a svegliarsi di soprassalto.
Com’è successo tutto questo? Perché le ho detto tutte quelle cose? si chiedeva. Sembrava esser stato
colpito da una specie di amnesia. Alcuni particolari li ricordava, altri erano svaniti dalla sua memoria,
lasciando un vuoto. Sentì freddo e rabbrividì. Che cos’erano tutte quelle chiacchiere sull’organizzazione
religiosa? Che esempio assurdo ho fatto? Quale folletto mi ha messo in bocca esattamente quelle parole
precisamente questa notte? Una cosa è certa: conosco il giusto e faccio ciò che è sbagliato. Come dice la
Ghemarà? «Anche se conosce il suo Signore, tuttavia egli desidera ribellarsi contro di Lui.» Bah, sono
ubriaco, si disse. Ho perso interesse per tutto tranne che per questo.
Ho abbandonato Dio anche se esecro il mondo. In ogni caso, che cosa può offrire il mondo? Niente
più di un quarto di whiskey e una puttana.
Grein rimase lì immobile, in preda agli sgradevoli effetti della sbronza. Avrebbe voluto dormire e
pensare al tempo stesso. Dolori lancinanti gli correvano a zig zag per la spina dorsale. Gli faceva male
un ginocchio. Gli aleggiavano attorno infantili sogni a occhi aperti. Un senso di vanità totale, gli esplose
un sospiro nell’intimo, un gemito come quello che sentono gli scolaretti quando si premono una
conchiglia all’orecchio per udire l’onda del mare. Sì, mi sto ammazzando! In ogni senso. Perderò tutto:
salute, famiglia, mezzi di sostentamento. Che cos’aveva detto Luria? Certe creature sono istintivamente
attratte verso il suicidio.
Cadde la notte. La camera si riempì di ombre. Attraverso la finestra sbirciava un cielo viola, illuminato
da una stella solitària. Rimase lì esausto, come in preda alla febbre. Gli era venuta in mente un’idea, ma
non sapeva quale. Gli occhi erano aperti, ma stava già sognando.
Qualcosa nel suo intimo parlava un misto sgrammaticato di yiddish, polacco, inglese, ebraico. Era al
tempo stesso a New York e a Varsavia.
Per uno scherzo della coscienza, Anna era Anna ma anche Esther. E lui era invischiato in una lunga
discussione con qualcuno, una conversazione fatta di frasi sconnesse, immagini indistinte, esempi
cretini. Si svegliò un attimo e rise delle sue visioni deformate, ma eccole subito lì di nuovo, con la forza
segreta di allucinazione e follia.
Anna si fece portare dal taxi al suo appartamento in Lexington Avenue.
Non suonò il campanello ma aprì la porta con la chiave. Pronta ad affrontare la tempesta, avrebbe
saputo replicare per le rime alla furia di Stanislaw Luria. Sulla soglia, però, fu attraversata da un pensiero
spaventoso: magari si era impiccato. Era pronta anche a questo. Come faceva sempre, attraversò il
corridoio con passo spavaldo.
Se è successo qualcosa, devo chiamare immediatamente la polizia. Entrò nel soggiorno e lo vide. In
vestaglia e ciabatte, con la barba lunga, era seduto su una poltrona, con le mani posate sui braccioli. La
barba non fatta era bianca, come se la vecchiaia si fosse abbattuta su di lui in una sola notte. I
sopraccigli sembravano essersi fatti più cespugliosi, e nei sottostanti incavi le pupille scure dei suoi
occhi erano fisse in uno sguardo vacuo di disperazione totale. Più blu e gonfie che mai, le borse sotto
gli occhi avevano nuove pieghe doppie.
Anna rimase un attimo sulla porta. Sembra un cadavere imbalsamato, fu la reazione di qualcosa nel suo
intimo. Un manichino vivente. Provò al tempo stesso disprezzo e pietà per lui. Voleva farla finita con
lui, non tanto per fargli male quanto per andare oltre l’iniziale espressione di oltraggio.
Esplose un colpetto di tosse e sorrise con freddezza. «Sono io, Anna.» Luria non rispose.
«Sei morto o paralizzato?» Lui rimase zitto.
«Se sei morto, chiamo le pompe funebri, ma se sei vivo voglio soltanto tu sappia che sono
semplicemente venuta a prendere le mie cose.» Luria non fece il minimo movimento e lei si sentì a
disagio. Forse un colpo lo ha istupidito. Era pronta ad affrontare i suoi insulti, le sue ingiurie, persino a
essere battuta, ma a quanto pareva lui aveva fatto voto di non dire una parola. Una carnosa gamba
maschile, coperta da una fitta vegetazione di peli, gli sporgeva da sotto l’orlo della vestaglia.
Sotto i peli la pelle era pallida come quella di un cadavere. Ma dopo qualche istante Anna si accorse che
respirava. La pancia si sollevava lentamente e ricadeva come un mantice. Be’, sia quel che sia, ho
sofferto abbastanza per causa sua, decise. Andò in camera da letto.
Strada facendo sbattè in un tavolino e rovesciò un portacenere. Da lui non ho avuto altro che guai! si
giustificò rivolta a una persona invisibile. Non è un marito, né uno che porti a casa i soldi per vivere,
nemmeno un amico. Vive tuttora con la prima moglie a Varsavia.
Chiuse la porta, fece girare la chiave nella toppa e cominciò subito a spogliarsi. Non aveva chiuso
occhio tutta notte. Doveva proprio dormire qualche ora, non ce la faceva quasi a stare in piedi.
Si infilò sotto le coperte, sotto il lenzuolo, affondando la faccia nei cuscini, e si rannicchiò come un
animale.
Grein si addormentò e sognò che era una notte di prima estate e si trovava in un villaggetto dell’Europa
orientale. Era nel cortile di una sinagoga. Dentro la casa di culto c’era gente in preghiera, che contava
ritualmente i giorni tra la Pasqua ebraica e la Pentecoste, ma lui era stato lasciato fuori. Splendeva una
luna enorme, cosparsa di ombre innaturali e strane cavità. Se lo stava immaginando, o vedeva il lato
buio della luna? La Creazione era arrivata al termine? Di fronte a lui comparve un caprone che gli
puntava contro aggressivamente le corna. Lui avrebbe voluto scappare, ma non c’era dove andare. Saltò
nel serbatoio dell’acqua. Potrei annegare. Avrebbe voluto entrare nella casa di preghiera, unirsi alla
congregazione, ma di punto in bianco si rese conto di essere nudo. Dove sono i miei vestiti? Perché mi
aggiro nudo nel cortile di una sinagoga? Devo essere stato rapinato! Non posso nemmeno lamentarmi:
il «non rubare» cancella forse il «non commettere adulterio?» La Legge ebraica consente persino che io
sia punito con la morte. Per quelli come me Dio non manderà un segno, come fece per Caino, per
vietare a chiunque possa incontrarmi di uccidermi.
Il caprone lo raccattò con le corna e scappò via con lui. Dov’era la briglia? C’era di sicuro… Di punto
in bianco vi fu la luce e lui aprì gli occhi. Era ormai sera, e sulla soglia della camera illuminata vide Leah:
bassa e grossa, i capelli raccolti alti sulla testa, naso piccolo, petto alto e occhi leggermente obliqui:
aveva un’aria vagamente giapponese. Era lì e lo scrutava con il sorriso tenero di una madre il cui figlio
ha gravemente peccato. Non si era ancora tolta il cappotto, segno evidente che era appena arrivata in
casa. Il sottile labbro superiore era arricciato a scoprire i denti delicati, piccoli. I suoi gioielli. C’erano
tutti ed erano bianchi, senza una sola otturazione.
Poteva ancora usarli per spezzare ghiande di prugna. Era diventata tonda come una botte, ma la dolce
ingenuità dell’adolescenza illuminava ancora il suo viso. La sentì chiedere: «Allora, hai dormito fuori?»
«Che ora è?»
«A che ora devi telefonarle?» ribattè lei in tono pungente.
Lui gettò un’occhiata alla sveglia posata sul comodino. Già, avrebbe dovuto telefonare ad Anna proprio
adesso. L’espressione di Leah si fece subito seria.
«Hertz, devo parlarti.»
«Che cosa succede?»
«Hertz, questa mattina alle sei ha telefonato qui un certo Stanislaw Luria. Sai chi è.» Grein non rispose.
Aveva in bocca un sapore amaro.
«E’ la fine, Hertz.»
«Be’, pazienza.»
«Comunque tu ti sia ficcato in una situazione del genere, tutto ciò non ha senso», ribattè Leah in tono
calmo e sereno, come se fosse una questione di scarsa importanza. Fece dietro front, aprì la porta
dell’armadio e appese il cappotto. Quindi lisciò un vestito che era scivolato via dall’appendino.
«Che cosa intendi fare?» chiese lui.
Lei si voltò a metà. «Non so. Ma non possiamo più vivere insieme. Un’ora dopo Luria, ha chiamato
Boris Makaver. Gridava così forte che ho quasi perso l’udito. Mi sono vergognata per i figli.» Grein
rimase un attimo in silenzio. «Be’, andrò a stare da un’altra parte.»
«Non ti sto cacciando. Sta a te scegliere. Ma devi trovare una soluzione.» E Leah entrò quasi
nell’armadio, dove si mise a trafficare meccanicamente, risistemando tutti i suoi abiti e raddrizzando gli
appendini. Tremava dell’emozione di chi si vergogna a mostrare il volto.
Lui si alzò e andò nel suo studio per telefonare. Le gambe sembravano improvvisamente essersi fatte
molli. Accese la luce e chiuse la porta.
Be’, meglio così, pensò. Mi risparmierò un’infinità di chiacchiere. Si lasciò quasi cadere nella seggiola
dietro la scrivania. Ma prima di comporre il numero di Anna ebbe un’esitazione. Il sonno non lo aveva
lasciato riposato ma ancora più esausto di prima. Gli ci volle più del solito per comporlo, ma rispose
Luria. Grein sentì il gridare greve e irritato di un uomo interrotto nel corso di una violenta lite.
«Pronto!» Grein avrebbe voluto rispondere, ma non gli uscì neanche una parola.
Avrebbe voluto posare la cornetta, ma non fece nemmeno questo. Ascoltò il silenzio elettrico all’altro
capo della linea. Il silenzio durò a lungo. Poi Luria cominciò a strozzarsi e sbuffare come un orologio
antico prima di battere i colpi.
«Panie Grein, lo so che è lei», disse in polacco. «Le chiamerò mia moglie fra un attimo. E’ nella toilette,
a farsi un bagno. Ma prima la prego di starmi ad ascoltare.» Lui non replicò.
«Pronto? Non appenda. Se non vuole parlare con me, così sia. Ma potrebbe almeno ascoltare ciò che
voglio dirle.»
«Sì, sto ascoltando», riuscì a balbettare raucamente Grein. Soltanto in quel momento si rese conto di
avere bocca e gola secche.
«Panie Grein, tanto per cominciare devo dirle che non ho niente contro di lei personalmente. Proprio
niente. In definitiva è stata mia moglie a giurarmi fedeltà sotto il baldacchino nuziale, non lei. Forse non
è precisamente usanza degli ebrei giurare fedeltà, ma d’altra parte, come lei sa, non sono molto edotto
della Legge ebraica. In polacco matrimonio si dice silub, e silub significa anche ‘voto’. Comunque, non
voglio impegolarmi nell’aspetto filologico della questione. Ci sia o non ci sia stato un voto, Anna è
diventata mia moglie, e nessuno l’ha costretta a farlo. Certamente sono più anziano di lei e ho perso
tutto, ma lei non deve pensare che mi sia buttato su Anna. Tanto per cominciare, non è nella mia
natura. A mio modo sono un aristocratico… come dice il proverbio, sono povero di tutto tranne che di
onore. Secondo, dopo aver perso tutta la famiglia, le persone che mi erano più care al mondo, non ero
nell’ordine di idee di ricominciare la vita da capo. La prego di credere che non le sto mentendo. Nella
mia attuale situazione, mentire non servirebbe a niente. La verità è che Anna si è innamorata di me, non
so tuttora perché, ed è stata lei a correre dietro a me. Non lo dico per umiliarla, Dio ne scampi, ma
perché è la verità, e suo padre lo sa. E’ arrivata al punto di usare il padre come tramite, quasi fosse un
sensale di matrimoni. Mi ha messo in un angolo, si potrebbe dire, perché gli uomini sono per natura più
diffidenti delle donne. In noi c’è una galanteria del tutto stupida e priva di senso pratico. Le donne non
ce l’hanno. Non riconoscono niente al di là dei loro desideri e bisogni. Ma non intendo fare una
conferenza sul femminismo, Panie Grein. Mi preme semplicemente che lei non si faccia un’idea
sbagliata e non creda che io abbia circuito Anna, o roba del genere. Sapeva tutto di me, della mia età e
del mio stato di crisi, sia fisica sia psichica. Sono un uomo distrutto, Panie Grein, e quando lo si è, si è
malati e non normali. Dio soltanto sa se sarebbe stato meglio che rimanessi in Africa o persino
all’Avana, dove un europeo istruito si sarebbe potuto adattare più facilmente. Voglio dirle un’altra cosa,
Panie Grein, e non lo faccio per vendetta o per rovinare la buona sorte di Anna, perché ormai le mie
carte le ho messe in tavola, e ciò che è successo la scorsa notte ha rovinato quanto rimaneva, qualsiasi
cosa fosse. Ho dimenticato che cosa volevo dire. Sarebbe meglio se potessimo vederci e parlare faccia a
faccia… da uomo a uomo, come si suol dire. Non deve aver paura di me.
Può essere assolutamente sicuro che non arriverò armato di pistola o coltello.» E Luria rise senza
allegria. «Almeno fino a questo punto sono ebreo. Trovo estraneo e ripugnante ogni atto di violenza
fisica. Potrei dirle molto di più, ma lei uscirà dal bagno da un momento all’altro e ci interromperà. Però
voglio senz’altro parlarle di una certa relazione che Anna ha avuto prima di mettere gli occhi su di me, e
precisamente nello stesso posto, a Casablanca. Non voglio raccontare frottole su Anna, ma visto che lei,
Grein, intende mettersi con mia moglie e distruggere la sua famiglia… qualche ora fa ho parlato con la
sua cara moglie… o forse è stato ieri. Ho perso ogni senso del tempo. Ma sarebbe magari possibile
vederci? Quando? Dove? Ecco che arriva. Mi telefona? Un momento, ecco mia moglie… la prego, la
imploro, per favore, mi chiami.
Be’…» Luria tacque di botto. Grein sentì un breve tafferuglio e un po’ di rumori metallici. Anna aveva
evidentemente cercato di strappargli la cornetta di mano.
Grein si aspettava che arrivasse Anna al telefono, ma parve che qualcuno avesse appeso o che il
collegamento fosse stato chiuso: non sentiva altro che il ronzio regolare della linea. Dopo qualche
esitazione rifece il numero, ma questa volta era occupato. Non riusciva a capire. Chi poteva star usando
il telefono, in quella casa? Aspettò qualche minuto, ma era sempre occupato.
Ebbe l’arcana sensazione che ormai la linea sarebbe stata occupata per sempre; anzi, lo seppe con una
certezza che sfidava la logica. E infatti fu così. Attese cinque minuti, dieci, ma non riuscì ad avere il
collegamento. Andò alla libreria e scrutò i dorsi dei volumi. Eccoli tutti lì, I dialoghi di Platone, L’Etica
Nicomachea di Aristotele, l’Etica di Spinoza, opere scelte di Locke, Hume, Kant, Hegel, Schopenhauer,
Nietzsche. Ciascuno di essi aveva qualcosa da insegnare, ma di quale aiuto erano nel suo attuale
impiccio? Ebbe paura. Che la cornetta pendesse appesa al cordone e Luria stesse impedendo ad Anna
di parlare? O si era magari fatto violento? Oppure all’ultimo momento Anna si era fatta prendere dal
pentimento? Gli venne in mente ciò che gli aveva detto Luria: che Anna aveva avuto una relazione a
Casablanca.
«Lei è un bel peperino, c’è poco da dire… un bel peperino», mormorò.
La rivelazione di Luria lo aveva colpito in un modo duplice. Era contento per Anna e al tempo stesso
risentito con lei per quella relazione. E si vergognava della propria ambivalenza emotiva. Un tempo una
simile scoperta gli avrebbe immediatamente dato la nausea, ma ormai la sua capacità di giudicare era
impazzita. Lei lo attraeva e gli ripugnava al tempo stesso. Se non altro, rifletté, con lei non mi annoierò.
Sposarla? Dovrò semplicemente giocare di destrezza in modo che Leah non mi conceda il divorzio.
Devo avere una casa dove tornare. Cercò ancora una volta di telefonare, ma la linea era sempre
occupata. Prese dalla libreria l’Etica di Spinoza e lesse qualche riga sul controllo delle emozioni. Perché
Dio ce le ha date, se dobbiamo continuare a controllarle? Soprattutto, qual era il senso biologico di
quell’amore in età matura? Ah, già, la notte prima Anna si era messa a chiacchierare di un figlio. Vuole
averne uno da me! Forse è ciò che sta alla base di tutto. Forse nelle sfere supreme l’immagine di nostro
figlio, o figlia, si è già formata e non possiamo fare altro che dare realtà fisica a una predeterminazione
spirituale.
Andato in cucina, trovò Leah seduta a tavola a mangiare pane con pesce marinato. Lei smise di
masticare.
«Se vuoi, ti preparo la cena.»
«No, grazie.»
«Siediti un attimo. Mi sono di sicuro guadagnata il diritto che tu mi dica qualche parola, no?»
«Non voglio disturbarti mentre mangi.»
«Che cosa importa se mangio? Hertz, voglio chiederti una cosa.»
«Be’, dimmi.»
«Che cosa ti succede, Hertz? Perché fai tutto questo? Non sei più un giovanotto. Dio sa se ti ho
perdonato tutto, e sono prontissima a farlo ancora. Ma adesso tu vuoi distruggere ogni cosa.»
«Non posso costringerti al divorzio. Se non lo vuoi, rimarrai mia moglie.»
«Che senso ha rimanerlo, in questa situazione? Non è semplicemente un’altra delle tue relazioni
clandestine. E’ un grosso scandalo.
Telefona il marito, telefona il padre. Luria ha minacciato di farti espellere dal Paese.»
«Ha detto così?»
«Non sto mentendo.»
«Be’…»
«Allora, che cos’è? Sei così innamorato di lei?»
«So soltanto una cosa: mi annoio. Mi annoio a morte. Ci sono giorni che per la pura e semplice noia mi
pianterei una pallottola in testa.»
«Anche con tutte le tue relazioni sentimentali?»
«Non ne ho nessuna.»
«E allora che cosa ne è stato di quella Esther?» Lui non rispose.
«Perché ti annoieresti così tanto? Hai una famiglia, figli, una bella casa. Grazie a Dio abbiamo un buon
reddito e anche un po’ di soldi da parte. Hai dimenticato la fatica che facevi nel Talmùd Torah di
Brownsville?»
«Non ho dimenticato niente.»
«In definitiva, dicevi sempre che quando fossi stato libero dalle preoccupazioni finanziarie avresti scritto
un libro.»
«Non ho niente da scrivere. Che cosa so che gli altri non sappiano? Mi sono messo in un campo fallito
fin dall’inizio: la filosofia è morta da due secoli. Era già quasi un cadavere quando è nata. L’enigma si fa
più grande, non più piccolo, e non c’è assolutamente modo di risolverlo. Non c’è speranza.»
«E la figlia di Boris Makaver te lo chiarirà?»
«Se non altro, con lei riesco a scordare me stesso.» Leah scostò il piatto di pesce. «Che cosa posso fare?
Non posso intrattenerti. Perché mi hai sposato, se ero così provinciale?»
«Non me ne pento, Leah. Ti amavo allora e ti amo ancora. Sei la madre dei miei figli. Ma devi lasciarmi
libero.»
«Quanto più di così? Non c’è uomo a New York più libero di te. Fai quello che vuoi e vai dove ti piace.
Credimi, non sono così stupida.
Vedo e so tutto. D’altra parte non ti preoccupi nemmeno di nascondermi le cose. Ma dev’esserci un
limite.»
«Il limite è che, qualsiasi cosa io possa dire o fare, rimaniamo marito e moglie. Nessun potere della terra
può costringerti a concedermi il divorzio. Io sto invecchiando, non ringiovanendo. Se rimaniamo marito
e moglie, prima o poi torneremo insieme.»
«Quando? Vedo chiaro in tutti i tuoi trucchi. Hertz. Tu non hai voglia di sposarla, ecco perché vuoi che
io rimanga tua moglie. Vuoi imbrogliarci entrambe… lei e me.»
«Se è questione di imbrogliare, allora tutti…»
«Non stai imbrogliando che te stesso.» Lui non rispose, e Leah accostò di nuovo a sé il piatto. Lui
guardò per un po’ la testa del pesce. Strano, un tempo quel pesce era vivo, aveva magari anche sofferto.
Se le anime vivono in eterno, come credeva il professor Shrage, quel pesce avrebbe avuto la sua parte di
immortalità.
Poi scrutò Leah, osservando ogni suo movimento. Si sentiva come un bambino seduto a contemplare la
madre. Quanto tempo era passato da quando era uno scolaretto? Suo padre sedeva alla luce di una
lampada a nafta a scrivere su fogli di pergamena con una penna d’oca. Sua madre, riposasse in pace,
pelava patate, grattava carote, impastava la farina per gli gnocchi. Nella loro soffitta il silenzio era tale
che si sentiva la penna raschiare sulla pergamena. Ora i suoi genitori erano entrambi polvere, Varsavia
era andata in fiamme e tutti gli ebrei erano cenere.
Non rimaneva che lui, il sopravvissuto Hertz Dovid, che spegneva il suo dolore in fantasie erotiche,
discorsi lascivi, desideri svergognati. Che cosa doveva fare? Recitare le preghiere della sera? Lodare
ancora una volta la misericordia di Dio e il favore che Egli mostra a Israele, il Suo popolo?
Suonò il telefono. E’ Anna! esclamò qualcosa nel suo intimo. Scattò in piedi, rovesciando la seggiola e
battendo il ginocchio. Mancò pochissimo che inciampasse nel tappeto del corridoio. Nel suo studio era
buio, e gli ci volle un po’ per trovare l’interruttore.
Quando sollevò la cornetta stava tremando, ma sentì soltanto una voce maschile che chiedeva di Anita.
Era la prima volta in assoluto che un uomo telefonava a sua figlia. Le cose erano arrivate a questo
punto? Già vogliono mia figlia? Andò nella sua camera, ma era buia come la pece, per cui tornò a dire a
chi aveva chiamato che Anita non era in casa.
«Vuole lasciare un messaggio?» chiese.
«No, grazie.» E lo sconosciuto appese. Grein tenne la cornetta sollevata ancora un attimo prima di
posarla. Non gli erano piaciuti né la voce né i toni di quell’uomo, che aveva l’aria di essere di mezza età,
con una personalità prepotente. Qualcosa nel suo intimo sorrise e rabbrividì. Be’, era inevitabile: misura
per misura. Sedutosi, fissò il telefono come se stesse cercando di scoprire semplicemente guardandolo
se Anna stesse ancora parlando o la linea fosse finalmente libera. No, era occupata. E’ meglio che
aspetti un po’. Conterò fino a cento. Cominciò a farlo, ma a venticinque si interruppe. Devo essere
paziente, paziente. Aperto di scatto un cassetto, trovò uno dei suoi manoscritti, alcuni degli
innumerevoli appunti che aveva preso in vista di un libro sulla Cabbala.
Lesse; In qual modo la completezza di Dio concorda con il Suo bisogno che l’umanità Lo serva? C’è
una sola risposta: servire Dio può avere un unico significato Per quanto illimitato possa essere il potere
di Dio, ci sono alcune pezze al tessuto lacerato della Creazione che soltanto gli esseri umani gratificati
della libertà del volere potevano mettere nel corso del tempo, il futuro è di Dio unicamente per mezzo
del potere, ma Dio ha bisogno che il genere umano Lo aiuti a portare il dramma cosmico a un finale
benefico.
Che cosa c’entra ormai tutto ciò con la mia vita? Sollevò la cornetta e ricominciò a chiamare Anna, ma
la linea continuava a essere occupata.
Gli venne il bizzarro sospetto che una forza ostile stesse tenendo in uso il telefono, una forza che
voleva cancellarlo, distruggere tutte le sue gioie, scacciare tutti coloro che gli erano più intimi: il Nemico
che lo sabotava di continuo, a volte dall’intimo e a volte dall’esterno.
Devo avere pazienza, si disse Grein. Altrimenti divento matto sul serio.
Si sedette in una poltrona, si allungò all’indietro e cercò di ricomporsi sia nell’intimo sia all’esterno. Se il
telefono era occupato, sarebbe stato occupato anche lui. Le cose seguano il loro corso.
Immaginerò di essere un fachiro, e che questo sia un albero. Ho giurato di sedere qui sino alla fine della
vita. Che cosa succederebbe se dovessi veramente rimanere seduto su questa sedia per sempre? Se non
altro non mi pioverebbe addosso. Riuscirei persino a guadagnarmi da vivere: il telefono è qui accanto.
Grein chiuse gli occhi. Era dall’infanzia che si trastullava con idee del genere. Avrebbe sempre voluto
nascondersi da qualche parte: in un solaio, una cantina, una grotta, un’isola. Da qualche anno
fantasticava di vivere su uno yacht ormeggiato vicino a una scogliera corallina deserta del Pacifico. Un
tempo avrebbe voluto avere a bordo con sé Esther, ma adesso voleva Anna.
Oh, come trovo tedioso l’inverno! Preferirei essere in un posto dove il clima è sempre mite, caldo. Mi
sdraierei su un’amaca tesa tra due piante di fico a leggere un libro che spiega l’essenza delle cose,
chiarisce gli enigmi dell’esistenza, invece di presentare una vuota teoria del sapere che non spiega niente.
Il telefono suonò stridulo, e lui balzò in piedi. Sapeva con una profonda convinzione intima che questa
volta era Anna. Precipitatosi avanti, arraffò la cornetta. Per un attimo perse il fiato.
«Pronto!» Non ci fu una risposta immediata, e lui cominciò a gridare: «Pronto! Pronto! Pronto!»
Finalmente riconobbe la voce di Anna. «Sei tu, Hertz?»
«Sì, io.» E non riuscì a dire nient’altro.
«Posso parlarti?»
«Certo, parla liberamente.»
«Sei solo?»
«Sì, solo.»
«Voglio dirti che ti amo e che ti amerò sempre», sbottò rapidamente Anna, con la voce senza fiato di chi
ha molto da dire e poco tempo per farlo. «Non posso vederti questa sera, ma sono tua, tua… Domani
verrò a te e non ti lascerò mai…» Le parole si accavallavano come se qualcuno stesse cercando di
interromperla o di trascinarla via dal telefono.
«Perché prima hai lasciato cadere la linea?» Anna tacque per un attimo.
«Hertz, carissimo, non immagini che cosa sta succedendo qui… E’ arrivato il papà… Non ho idea di
quando sarò libera questa sera…»
«Be’…»
«Ma voglio che tu sappia una cosa: non possono fermarmi né il papà né alcuna altra forza della terra.»
«Il tuo telefono è sempre stato occupato.»
«Eh? Lo so. Il papà stava parlando con il rebbe. Mi stanno facendo impazzire… Ci vediamo domani
mattina alle nove. Dove? Diciamo alla Grand Central. Potremmo magari andarcene da New York per
qualche giorno.»
«Posso fare qualsiasi cosa.»
«Aspettami alle nove. Se non arrivo, saprai che sono morta.»
«Non dire sciocchezze.»
«Questa intimidazione deve finire. Amo te e nessun altro. Adesso devo andare. Alle nove.» E appese.
Grein cercò di aggiungere un’ultima parola, ma non riuscì a sentire altro che un ronzio basso. Tenne la
cornetta accostata all’orecchio per un po’ e poi la posò. Che cosa stava succedendo in quella casa? Che
cosa voleva Boris Makaver dal rebbe? Rimase in piedi accanto alla scrivania con lo sguardo fisso sulla
parete. Non è strano? Prima di adesso non avevo mai veramente notato il disegno della tappezzeria. E’
a strisce gialle e brune. Qualsiasi cosa pur di accontentare la gente. Pensò che gli adulti vengono trattati
allo stesso modo dei bambini: gli si concede ogni sorta di giocattolo, ma mai ciò che vogliono davvero.
Tutto è concesso, tappezzeria, tappeti, lampade quadri, tutto tranne la donna che si desidera. Diede
un’occhiata all’orologio. Gli parve che ci fosse una quantità terribile di tempo fino alle nove del mattino
dopo. Che cosa doveva fare sino ad allora? Si era appena svegliato. Leggere? Che cosa? Andare al
cinema? Il solo pensiero gli faceva orrore. Gli venne in mente Esther. Doveva telefonarle. Avrebbe
dovuto farlo il giorno prima.
Non poteva scappare da lei come un ladro, e basta. Ma che cosa doveva dirle? Andò alla porta e la
chiuse. Tornando alla scrivania si fermò alla libreria e diede di nuovo un’occhiata ai dorsi dei libri, sia
sacri sia secolari. Tutto si mescolava: una Ghemarà con i commenti accanto a un dizionario Tedesco–
Inglese, una copia della Santificazione di Levi accanto a una raccolta di formule matematiche di un
certo professor Birkien. Che cosa poteva aver da dire Rabbi Levi Yitskhok di Berdichev sul suo
impiccio? Aprì La Santificazione di Levi a metà e lesse: «Bada: all’inizio è il Pensiero, e dopo viene
l’Amore, poi, quando l’Amore ha svolto il suo compito, si lascia dietro segno e cifra, e questo segno è
detto Forma…» Grein si accigliò. A che tipo di amore si alludeva, lì?
Non certamente al suo per Anna. Gli ebrei dei tempi di Rabbi Levi ne conoscevano uno solo: quello
per Dio. Perché amare Anna, quando si poteva amare Colui che l’aveva creata? Perché amare un grumo
di schiuma quando sotto di esso si gonfia un mare poderoso? Ma se siamo noi stessi un grumo di
schiuma, è difficile avere una relazione sentimentale con tutto un oceano… ecco il problema.
L’insignificanza può soltanto amare ciò che è a sua volta insignificante.
Andò alla scrivania e compose il numero di Esther. «Esther, che cosa fai questa sera?» Lei non rispose
subito. «Pensavo che ti fossi dimenticato che sono viva», disse finalmente. «Non dimentico niente.»
«Avresti dovuto telefonare ieri.»
«Non ho potuto.»
«Non ci sono telefoni a Manhattan?» Lui non rispose.
«Be’, che cosa vuoi fare? Vuoi venire qui?»
«Sì.»
«Allora vieni. Spero che tu non abbia ancora cenato.»
«Sì. No. Sarò lì tra un’ora.» E posò la cornetta.
Uscì, senza sapere dove stesse andando e perché. Fermatosi davanti all’armadio a muro si mise a cercare
una valigetta che si potesse portare facilmente. Sapeva come sarebbe finita: se andava da Esther, quella
sera non sarebbe tornato a casa. Ma se intendeva scappare con Anna, doveva portarsi dietro alcune
cose. Frugò tra le valigie, ma erano tutte troppo grosse. Aperta la più piccola, la trovò piena di diverse
carte e altre cose che erano state messe fuori posto senza che lui ne notasse la mancanza. Ne prese una
cravatta che un tempo era tra le sue preferite; c’era una camicia sbiadita con il colletto schiacciato e
sgualcito. Diede un’occhiata rapida alle carte.
Come diavolo ho fatto a dimenticarmi di tutto questo?
Era sbalordito di se stesso. Vuotata la borsa, vi mise alcune camicie fresche di bucato, fazzoletti, calze,
un golf. I suoi gesti erano vaghi, incerti, quasi stesse provando una parte che avrebbe recitato soltanto
in futuro. Sto davvero andandomene da casa? E’ così che intendo distruggere la mia Leah? E che senso
ha questa visita a Esther?
E’ una follia totale.
Nondimeno prese con sé tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno per un lungo viaggio: libretto degli
assegni, libretto bancario, documenti di cittadinanza, la chiave della cassetta di sicurezza dove teneva
azioni e obbligazioni. Andò in cucina. Leah aveva finito di mangiare e stava lavando le stoviglie al
lavello. Si fermò sulla soglia.
«Leah, io vado via.» Lei girò la testa. Muta e confusa, lo guardò con tristezza. «Dove vai?
Tornerai?»
«Sì, Leah, non essere sciocca.»
«Sono una sciocca. Che cosa devo dire se ti telefona qualcuno?»
«Di’ che sono in vacanza.»
«Per quanto tempo? Be’, il disastro lo stai provocando tu.» E Leah tornò ai piatti nel lavello. Lui prese la
borsa e uscì, chiudendo silenziosamente la porta di casa. Be’, se non altro non sta facendo una scenata,
si disse. Sentì un soprassalto di amore e gratitudine per la moglie. Ecco una vera donna! esclamò
qualcosa nel suo intimo. Non divorzierò mai da lei! Questa è la mia casa, il mio rifugio. Suonò per
chiamare l’ascensore, sentendosi come ubriaco o drogato. No, piuttosto sonnambulo, o in trance
ipnotica. Dietro tutti i suoi sobri calcoli si nascondeva qualcosa di irrazionale, disordinato, involontario
e soprattutto improvvisato. Adesso stava andando da Esther soltanto perché davanti a lui si stendeva
una lunga notte d’inverno e non sapeva che cosa farsene.
Fuori era caduto un freddo gelido. Soffiava un vento aspro. Devo prendere l’auto? Di punto in bianco
si sentì troppo fiacco per guidare.
Inoltre, la decisione di Anna di incontrarlo alla Grand Central significava che voleva viaggiare in treno.
Mentre si alzava il bavero e correva verso la metropolitana, pensò che è in quello stato d’animo che un
assassino va a uccidere la sua vittima, o un suicida a distruggere se stesso.
Grein faceva certe cose che era stupefatto di fare, quasi fosse un essere scisso in due, con una metà che
osservava l’altra. In metropolitana lasciò cadere una monetina da dieci centesimi nella fessura e spinse il
tornello. Le luci emettevano un miliardo, mille miliardi di quanti di energia che gli ferivano la rètina,
risalivano il nervo ottico e innescavano una reazione in ogni particella della materia grigia che definiamo
cervello. I titoli a caratteri cubitali delle ultime edizioni dei giornali, già con la data dell’indomani,
strillavano di una sposina cui era stato sparato nel giorno del matrimonio. Adornava la prima pagina in
abito da sposa, con velo e ghirlanda di fiori.
Accanto alla sua c’era la foto dell’istupidito colpevole, i cui occhi strabuzzati sembravano chiedere: che
cosa ha mai fatto di me un assassino? Che parte mi tocca recitare? Dio solo sa che sono innocente.
Scese le scale e montò immediatamente sul treno per Brighton. Come gli appariva tutto vecchio e
familiare: le sudicie pareti verdi, i pavimenti a quadretti rossi, le cartacce sparse, i gusci di noccioline, i
logori sedili in crine, le lampadine spoglie, le pubblicità di calze, reggipetti, cioccolato, imprese di
pompe funebri. I passeggeri leggevano i giornali freschi di stampa e, tutti all’unisono, masticavano
gomma.
Era rimasto in trappola in un sistema dove ogni cosa era predeterminata.
Sapeva già tutto. Alla Quarantatreesima Avenue la carrozza si sarebbe riempita di donne andate in
caccia di occasioni nei grandi magazzini aperti fino a sera tardi. A Union Square ci sarebbe stata una
nuova ondata. Dopo Canal Street il convoglio sarebbe uscito all’aperto per un po’ e i finestrini oscurati
dalla notte si sarebbero riempiti di immagini del limaccioso fiume su cui viaggiavano con il loro
borbottio meccanico rimorchiatori che trainavano carbone, pietre o automezzi da carico. In distanza
sarebbero scorsi via veloci fabbriche, sale da biliardo, garage. Tutta la vita non era forse un viaggio
esattamente come questo? Anna non era forse una delle tante stazioni di metropolitana in un viaggio
costante nel tempo?
Scrutò per un po’ un uomo di colore. Tutto il suo essere esprimeva l’ineluttabilità dell’ereditarietà: la
pelle nera, il naso largo con le narici grosse fatte per inalare l’aria umida dei tropici, il cuoio capelluto
con i suoi ciuffi lanosi simili a cespugli in un deserto pietroso. Il suo corpo era seduto lì, ma il suo
spirito vagava nella giungla africana. Ricambiò il suo sguardo con lo stupore istintivo con cui i suoi
antenati probabilmente guardavano gli schiavisti americani. Dopo un po’ Grein si mise a scrutare una
giovane bianca che masticava e leggeva. La gonna le era scivolata più su dei ginocchi. Pur avendo fatto il
pieno di carne e amore fisico, occhieggiò ripetutamente quei ginocchi in calze di nylon che la giovane
protendeva con impudente noncuranza. Assaporò il pensiero che fosse diversa dalle donne di cui aveva
goduto fino ad allora.
Che cosa mi succede? Sarò così finché non muoio? si chiese. E’ questo l’unico scopo della mia vita?
Qualcuno si alzò da un sedile isolato e Grein si precipitò a prendere il suo posto. Doveva riflettere sulla
sua situazione. Che cos’avrebbe detto a Esther? E come doveva sistemare le cose con Anna? Avrebbe
acconsentito a diventare soltanto la sua amante e a condurre più o meno l’esistenza di Esther? Tra le
due donne c’era una grande differenza. Esther era bohémienne per natura. Si era staccata dai parenti,
sistemandosi a Brooklyn come su un’isola. Anna invece aveva un padre, un marito, una cerchia di
conoscenze. Le spaccature gravi in famiglia erano provocate proprio da persone come lei. Seduto nella
sua nicchia, Grein rimuginava.
La panca sotto di lui si scaldò, la vettura era riscaldata, e immaginò di essere di nuovo seduto accanto
alla stufa nella vecchia casa di studio. Quanto tempo era trascorso da quando era studente di yeshivah?
Gli anni sfrecciavano via come un sogno. Era sicuro di essere innamorato di Anna? Forse che qualcuno
sapeva con precisione dove finisce il desiderio erotico e comincia l’amore? Tutto il concetto non era
forse una volgare invenzione, una miscela di fantasie di ogni genere, un’accozzaglia di illusioni di ogni
sorta?
Il convoglio uscì di nuovo da sotto terra e corse sopra i cortiletti sul retro delle case di Brooklyn:
casupole, giardinetti sassosi e lampioni che non facevano altro che infittire l’oscurità della notte. In
quella zona vivevano e allevavano figli gruppi etnici di ogni genere: ebrei, italiani, polacchi e irlandesi,
neri e gialli. In quelle abitazioni, culture mandavano gli ultimi fievoli raggi di luce e si spegnevano. I figli
crescevano senza alcun retaggio, come Jack, come Anita.
I loro padri spirituali erano inconsistenti personaggi di Hollywood, la loro letteratura romanzi dozzinali
e pubblicazioni scandalistiche. Quanto poteva durare tutto ciò? In un futuro le calotte di ghiaccio dei
poli non si sarebbero per caso sciolte, facendo sollevare di qualche centinaio di metri la superficie degli
oceani? Dopo di che la costa dell’Atlantico non sarebbe stata spazzata via completamente? Tutto era
costruito su sabbia, strati di suolo in movimento, fondamenta temporanee. Nel profondo dell’Asia
nuovi barbari erano già in marcia, voraci tribù determinate a divorare e devastare tutto ciò che
trovavano davanti a sé.
Ma che cosa devo fare? Dio che cosa vuole che faccia… io, Hertz Dovid, figlio di Reb Jacob Moshe lo
Scriba? I miei figli, Jack e Anita, sono già perduti. Non aveva insegnato loro la tradizione ebraica, né
loro volevano apprenderla. Presto se ne sarebbero andati di casa, sottraendosi del tutto al suo influsso.
Con Leah non c’era niente di cui parlare al di là di banali cosette domestiche. Ormai era tutta presa dalla
sua bottega, dalle aste, dall’annusare buone occasioni. Era circondato da banalità, avidità e tedio.
Credeva in Dio, ma non basta credere. Gli mancavano i fondamenti: la ritualità strutturata, l’ambiente
ordinato, la disciplina di ferro dei suoi nonni e bisnonni.
Non era capace di vivere con Dio, ma non aveva idea di come si potesse vivere senza di Lui.
Di fianco al treno comparve un viale di Brooklyn, fortemente illuminato, con insegne al neon, banche,
grandi magazzini con manichini in mostra nelle vetrine, file di auto. Dopo un attimo tutto tornò nero e
il convoglio si fermò a Sheepshead Bay. Quando smontò, il vento lo colpì e spinse qua e là. Il cappello
gli volò via dalla testa e lo acchiappò al volo. Non poteva arrivare da Esther con la ventiquattrore, per
cui la nascose in uno stipetto a noleggio. Avrebbe potuto andare da lei a piedi, ma faceva davvero
troppo freddo, quindi prese un taxi. La casa dove viveva Esther era vicina al mare. Grein smontò e pagò
il conducente. Nel semibuio il mare levava il suo eterno lamento, agiva nel suo solito modo. Incoronate
di schiuma, le onde sbattevano contro il frangiflutti, cedevano e si ritiravano con la paziente forza su cui
il tempo non ha alcun potere, con la sicurezza di chi ha la vittoria assicurata.
Gli spruzzi si levavano alti nell’aria e Grein si asciugò l’acqua salata dalla faccia. Chissà dove, in distanza,
ai margini dell’orizzonte, lampeggiava una luce. Da Far Rockaway il raggio di un faro fendeva il buio.
Una stella isolata baluginava in cielo, e lui la fissò con intensità. Diversamente da lui e dalle sue
preoccupazioni, era eterna. Che gioia che i cieli esistessero, e se non altro si potesse avvistare qualche
barlume delle loro luci! Senza di essi, gli esseri umani sarebbero affondati del tutto nell’irrilevanza.
Non sapeva bene perché fosse venuto da Esther, né di che cosa parlare con lei. Doveva dirle la verità?
Che era venuto lì per rompere con lei?
Era davvero pronto a porre fine a questa relazione? Le aveva devastato la vita. Se non fosse stato per
lui, Esther avrebbe avuto un altro marito da un pezzo. Si era abituato a lei, mentalmente come
fisicamente.
Da qualche tempo la loro relazione era entrata in crisi: vi si erano insinuati l’irritazione, i rimproveri e le
polemiche di una coppia che non può vivere né separata né insieme. Ma una cosa era litigare, metterci
una pezza e poi accapigliarsi di nuovo, e un’altra rompere per sempre. Era la morte. Come si rompe?
Come si pone una fine? Soltanto Dio ha un tale potere.
Rimase lì a respirare l’aria fredda, salata. Conosceva ogni casa del quartiere, ogni albero, ogni cespuglio.
Adesso che Anna era a casa sua, in Lexington Avenue, e lui si avvicinava furtivo come un ladro alla
porta di Esther, Esther era di nuovo Esther e Anna era arretrata sullo sfondo della memoria. Alzò lo
sguardo all’ultimo piano e riconobbe il profilo della donna nella finestra illuminata dietro le veneziane.
Aveva probabilmente sentito arrivare il taxi e lo stava aspettando con la benedetta fede di chi è
ingannato.
Grein non suonò ma aprì la porta con la sua chiave ed entrò. La vide subito: era lì che lo guardava con
un misto di risentimento e curiosità… Esther, la colta discendente di un’eminente famiglia di rabbini,
nipote di un uomo di profonda erudizione, una bellezza di classe mondiale che un tempo raccoglieva
tutti gli onori ai balli, l’ex nuora di una famiglia benestante, una donna che dipingeva, scriveva poesie e
si era distinta anche sul palcoscenico. Ormai aveva quarantatré anni, ma era ancora molto bella.
Continuava tuttora a raccogliere in trecce i capelli serici. Aveva la faccia di un’aristocratica di stirpe
rabbinica, pallida, con un naso classico, grandissimi occhi grigi che sfumavano nel verde e una gola di
cui la pienezza femminile non aveva sminuito il biancore. Anche se aveva ormai un certo eccesso di
petto, la vita era rimasta sottile. Quella sera i suoi capelli, tinti con delicatezza, erano avvolti alla testa in
due trecce, e dagli orecchi pendeva una coppia di preziosi orecchini all’antica, ereditati dalla nonna. Una
raffinatezza e gentilezza rare per quei tempi irradiavano da sotto la sua fronte arrotondata, dagli occhi
scintillanti e dalla bocca di taglio fine, su cui, anche prima che ne uscissero parole, aleggiava l’arguzia di
una donna di gusto e classe. Era pronto a sentirla cominciare subito a bisticciare con lui, perché avrebbe
dovuto telefonare e non lo aveva fatto, invece sembrava di umore allegro.
«Eccolo qui, il grande Casanova! Be’, ragazzino, avvicinati. Non nasconderti accanto alla porta. La
mamma non ti sculaccerà!» Gli andò incontro e lo abbracciò, sembrando quasi appenderglisi addosso
per un attimo. Lo baciò avidamente e a lungo, come se fra loro non vi fosse mai stato il minimo
battibecco. Portava un grembiule da cucina sopra un abito di seta, una combinazione in cui rifaceva il
verso a sua nonna Esther Hadas, di cui si diceva che tenesse caldo lo stufato dello shabbath
avvolgendolo in una pelliccia legata con un foulard di seta.
Sapeva di cucina e di marmellata di arancia. Allungati pollice e medio, gli piluccò via un capello dal
bavero con destrezza femminile. «Che cos’è? Una bruna.»
«Cominci già? Buttalo via!»
«Vediamo, prima, vediamo. Sono come Sherlock Holmes. Non puoi nascondermi tutti gli indizi.» Ed
Esther espose con cautela il capello alla luce della lampadina. Lui si fece istintivamente indietro.
«Buttalo via subito!»
«Aspetta, aspetta. Nero come un corvo. Che cos’è? Una nuova, eh?» Lui non rispose.
«Be’, a che cosa serve guardarlo? Oggi, quando mi sono svegliata e ho visto la neve, ho deciso che ti
avrei preparato la minestra d’avena di mia madre. Sono andata a comperare funghi secchi. A Brighton
non li si trova e nei paraggi c’è soltanto una bottega che li tiene. Avresti dovuto telefonare ieri.»
«Sì, lo so.»
«Certo che lo sai. Chi dovrebbe saperlo, se non tu? Ho aspettato tue notizie tutto il giorno. Quando ho
visto che si stava facendo buio e non avevi ancora chiamato, ho cominciato a preoccuparmi. E di punto
in bianco, alle sette, o forse persino più tardi, ecco che ti fai vivo. Che senso ha? Mi hai rovinato tutta la
giornata.»
«Come stai?»
«Come sto? Non cambiare argomento. So tutto. Lo so con la stessa chiarezza che se fossi stata presente.
Se non trovi nemmeno il tempo di telefonare, andiamo male. Ma togliti il cappotto e siediti a tavola. Sei
pallido. Non hai dormito, questa notte? Fatta come sono, ho la certezza che non appena chiudo gli
occhi vengo ossessionata dai sogni. Mi sono appena assopita ed eccomi già lì con mio padre. Non
riesco a capire.
Volevo bene anche a mia madre, riposi in pace. Come avrei potuto non volerle bene? Ma la sogno di
rado. Sono quasi sempre con mio padre, e sembra sempre che sia festa, perché ha il cappello di pelliccia
e il gabbano di raso. Mi prende per mano e mi parla della Torah e di altre cose di ogni genere. Non
ricordo mai che cosa dice, ma il tono di quelle conversazioni mi rimane addosso. Cerco di ricordare,
invece mi assopisco di nuovo, e rieccolo lì con me. A dirti il vero, Hertz, comincio a pensare che possa
avere un significato. Forse è arrivato il mio momento.»
«Non dire sciocchezze.»
«Vuoi lavarti le mani? Dammi il cappotto. Non sono sciocchezze. Nella mia famiglia si muore giovani.
Quanti anni aveva mia sorella Rosa? E mio fratello Jonathan? Ti chiedo soltanto una cosa, carissimo
Hertz: devi farmi cremare. Non voglio essere sepolta in un cimitero americano.
Meglio essere cenere.»
«Che cosa ti succede, Esther? Piantala con questa storia.»
«Siediti. Comincia con il succo di pompelmo. Per chi dovrei fare testamento? Per i miei figli? Alla mia
età mia madre aveva già nipoti, e io non faccio altro che avere relazioni cretine. In ogni caso, tu non hai
bisogno di me.»
«Davvero, Esther, se non la smetti con queste sciocchezze, me ne vado.»
«Sì, lasciamo perdere. Per il momento sono ancora viva, sono ancora viva. Sento sempre la tua
mancanza. Quando di notte resto sveglia, penso sempre che, se tu fossi lì accanto a me, non mi
mancherebbe niente. Ma ci ho rinunciato da secoli. Cerco di leggere, ma non c’è niente che lo meriti.
Una volta un libro era qualcosa di veramente prezioso, ma gli scrittori di oggi sono morti come il legno.
Ciò che scrivono non appassiona nel modo più assoluto. Manca l’essenziale… l’anima.
Hertz, voglio dirti una cosa.»
«Che cosa?»
«Voglio dirti che non troverai mai una moglie come me. Avrai una gran nostalgia di me, ma sarà troppo
tardi.»
«Perché dici così?»
«Perché parlo. Sono la nipotina di mio nonno… anche in me c’è un alito dello Spirito Divino. Mi
cercherai, Hertz, ma non mi troverai. Abbiamo le stesse radici, e le radici non si possono recidere.»
Suonò il telefono.
Esther si precipitò all’apparecchio, che era in camera da letto. Lui posò il cucchiaio e rimase seduto in
silenzio, confuso da tutto ciò che aveva detto lei. No, non posso dirglielo, decise… non questa sera.
Sarebbe meglio scriverle una lettera. Si alzò e si accostò alla finestra, che dava su un giardino con tre
alberi coperti di neve. Un po’ più in là c’era un’altra casa con due finestre fiocamente illuminate.
Qualcuno vi stava evidentemente guardando la televisione. Figure immerse nell’ombra e sedute in
poltrona, tutte prese da ciò che vedevano.
Devo prendere una decisione adesso, in un senso o nell’altro, si disse Grein. Lei scoprirà comunque
tutto. Quella sua amica, quella Liuba, sente tutti i pettegolezzi. Chissà. Magari sta proprio telefonandole
in questo momento la notizia. Dopo di che, che cosa faccio? Nego? Oh, preferirei quasi non essere
venuto qui.
Sentì Esther che tornava.
«Perché sei alla finestra? Che cosa c’è da vedere? Siediti a tavola. Mi ha telefonato Liuba.» La gola gli si
fece immediatamente secca. Si voltò verso di lei. «Che cosa voleva dirti?»
«Eh? Oh, le sue solite chiacchiere. Avrebbe voluto fare una bella spettegolata lunga, ma le ho detto che
dovevo darti la cena. Mangia il tuo pompelmo. Non sei un rebbe, non sei tenuto a lasciare qualcosa sul
piatto. Che cosa ne pensi della neve? E’ un fastidio, ma mi piace molto.
Mi ricorda il paese di un tempo, l’infanzia, tutto il meglio. Nella nostra famiglia, i soldini di Hanukkah
venivano dati anche alle bambine, non soltanto ai maschi. Non posso neanche cominciare a raccontarti
quello che succedeva a casa nostra a Hanukkah. Non c’è altra festività uguale in tutto il mondo. Che
cosa ci è successo? Dov’è finita la gioia, ormai?» Tutta consumata.»
«Perché, tesoro mio? Perché? Certe volte sfoglio la Storia degli ebrei di Graetz. Ci si trova una cosa sola:
persecuzione. Ma il mondo ha dimenticato il modo in cui esultavano gli ebrei. Secondo me, se gli ebrei
non fossero stati un popolo così gioioso, il mondo non li avrebbe odiati così tanto. Ogni inimicizia si
fonda sull’invidia.»
«Se è vero, il mondo dovrebbe amare senza riserve gli ebrei di oggi.»
«Ancora oggi gli ebrei sono più felici dei gentili. Qualche traccia di gioia è rimasta. Hertz, voglio
chiederti una cosa. E voglio una risposta diretta.»
«Che cosa?»
«Chi è lei? Che cos’è successo? Sono troppo vecchia perché tu mi prenda in giro.»
«Davvero, Esther, non so che cosa tu intenda.»
«Eh. Be’, alla fine lo scoprirò. Una volta avevamo concordato che, qualsiasi cosa fosse successa, mi
avresti detto la verità.»
«Non ho niente da dirti.»
«Se è vero, l’istinto mi inganna. Ho fatto la minestra di riso. Il riso ti piace, no?»
«Sì.»
«L’avena di mia madre la preparerò un’altra volta.» Dopo cena Esther versò due bicchieri di liquore, uno
per Grein e uno per sé. Fumò anche una sigaretta. Un tempo non beveva e non rumava, ma negli ultimi
anni si era messa a fumare trenta sigarette al giorno e aveva uno stipetto pieno di alcolici, vini, liquori.
All’inizio aveva fatto voto di non bere mai da sola, ma ormai aveva infranto il voto da un pezzo.
Adesso era seduta sul divano accanto a Grein con le gambe accavallate e una sigaretta in bocca,
sbottando anelli di fumo. Di punto in bianco gli chiese: «Raccontami una storia!» Lui sorrise. «Ancora?»
«Sì, raccontami qualcosa. Sono diventata come una bambina. Senza una storia non riesco a
addormentarmi.»
«Che cosa devo raccontarti?»
«Qualcosa che morda. Mi piacerebbe sentirne i denti. Visto che Dio non ha creato niente di buono,
dovremo trarre piacere dal male.
Chissà. Forse il male è bene. L’altro giorno ho letto su una rivista di un padre che spogliava i figli e li
picchiava ogni sera. Non ci crederai, Hertz, ma mi ha eccitato.»
«Sei sadica.»
«Sono tutto: sadica, masochista. Se dovessi offrirmi un milione di dollari per mettere le mani addosso
con violenza a un bambino, non lo accetterei. Per me i bambini sono sacri. Ma la mente umana è uno
meccanismo bizzarro. Che cosa stimola gli esseri umani, oggi? Soltanto il male. Nei film si spara. Alla
radio si massacra. Nei romanzi si commettono malvagità incredibili. Quindi ci si abitua. Nondimeno
detesto tutto ciò. Lo detesto. Raccontami qualcosa di piccante.»
«Dopo.»
«Il dopo non arriva mai. Che cos’avresti fatto se, aperta la porta, mi avessi trovata morta? Potrebbe
succedere, in definitiva. Può succedere di tutto.»
«Ne sarei stato molto sconvolto.»
«Che cosa farai la notte che sarò stesa in un salone di pompe funebri?
Con chi sarai? Con tua moglie o con l’altra?»
«Esther, stai di nuovo dicendo sciocchezze.»
«Non sono sciocchezze. Si muore come mosche ogni giorno. Ogni mattina, quando mi alzo, mi tasto il
seno per verificare che non ci sia nessun grumo. Mia madre è morta di cancro al seno, e io me ne andrò
nello stesso modo. Lo so come so che fuori è notte.»
«Come fai a saperlo? Sei diventata ipocondriaca.»
«Lo so, lo so. Quando una è sola e non fa altro che pensare giorno dopo giorno, è inevitabile che pensi
alla morte. Metà della mia famiglia è morta per cause naturali. L’altra metà è stata assassinata dai nazisti.
Basta pensare un po’ e ci si trova faccia a faccia con la morte. Spesso mi sembra di essere morta e di
vagare semplicemente per il Mondo dell’Illusione.»
«Esther, davvero, stai cedendo alla depressione.»
«Che cos’è la depressione? La verità è deprimente. Se non altro tu ti muovi… vai di qua, vai di là. Per
me invece è difficile uscire. Mi è venuta paura delle strade. Non mi piace più nemmeno il mare. Perché è
lì che si scaglia avanti e indietro da milioni di anni? Quanto continuerà ancora a sbattersi senza tregua?
Mi rendo conto che continuo a pensare le stesse cose all’infinito, e mi vergogno di me stessa.»
«Che cosa pensi, Esther? Eh?»
«Ah, niente. Fantasticherie folli. Mi immagino noi due in viaggio insieme per un’isola. Ci hanno esiliato
o qualcosa del genere. Detesto il freddo. Una volta mi piaceva l’inverno, ma non lo sopporto più. Il
caldo è meglio. Mi piacerebbe davvero leggere, ma gli scrittori di oggi hanno paura di dire la verità.
Perché ne hanno tanta paura?»
«La verità è orrenda.»
«Non lo sono anche le bugie? So esattamente come ti comporti. Dopo avermi detto le tue paroline
dolci te ne vai da un’altra, e gliele ripeti a una a una o con qualche variazione qua e là. Lo fai perché ti
annoi: ma ci annoieremmo di più insieme che separati. Te lo chiedo per l’ultima volta: chi è?»
«Ti prego, Esther, lasciami in pace.»
«Be’, amen. Ma lo scoprirò comunque. Che novità ci sono da Boris Makaver?»
«Lo stesso di sempre. E’ religioso e fa soldi.»
«Eh? Significa essere in gamba… conquista questo mondo e anche Quello a Venire. Forza. E’ sua figlia?
Hai una relazione con lei?»
«Perché proprio con lei?»
«Perché no? La conosci da quando era bambina. Con il marito è infelice.
Ai suoi occhi sei un grande eroe. Quanto a te, sei troppo pigro per guardare altrove. Sei uno di quegli
uomini che seguono la linea di minor resistenza. Dovrei essere arrabbiata con te, Hertz. Dovrei essere
la tua peggiore nemica, perché mi hai rovinato. Mi hai fatto più male di chiunque al mondo. Ma non si
può odiarti. Sei solo un grosso bambino inerme. Calpesti la gente come i bambini schiacciano rospi e
vermi. Hai una mente acuta, sei stato un bambino prodigio, ma ho la sensazione che usi soltanto un lato
del cervello. Come si può continuare a vederci anche con un occhio solo, alla stessa stregua si può
continuare a pensare con soltanto mezzo cervello. Quanto a me, ho paura di una sola cosa: l’età. Non
intendo gli ottant’anni. Per me si è vecchi anche a cinquanta. Mi piacerebbe vivere altri cinque anni, ma
devono essere buoni. Il telefono suona di nuovo!» Esther uscì dal soggiorno. Allungatosi sul divano,
Grein tese la mano verso il bicchiere di lei e bevve quanto rimaneva del liquore. Finì anche la sigaretta
di Esther. Poi chiuse gli occhi e rimase immobile, senza pensare a niente.
Be’, ogni cosa si sistemerà da sé con tutti loro, si disse. Con il tempo succedono tante cose. I fisici
scopriranno persino che il tempo è una forza come la gravità.
Di punto in bianco scoppiò a ridere. La stessa scena si ripeteva ogni volta che veniva lì: Esther si faceva
sempre più depressa, andavano a letto insieme sprofondati in un pessimismo cupo. Ma non appena le
luci erano spente, il loro spirito rinasceva come se fossero esseri capaci di vivere soltanto al buio. Poi
cominciavano i baci, le carezze, le espressioni licenziose e l’eccitazione… un intenso ardore simile alla
follia. Allora persino parlare di morte serviva a riattizzare il fuoco.
Oggi però aveva fatto una scelta. Aveva condannato a morte un grande amore o una grande passione
erotica.
Questa volta Esther parlò molto a lungo. Lui non sentiva niente della conversazione, visto che a parlare
era soprattutto chi si trovava all’altro capo della linea. Esther si limitava a esplodere di quando in
quando un’esclamazione o a fare un commento qua e là, a sospirare o aggiungere qualche parola.
Sebbene si lamentasse spesso della sua solitudine, a New York aveva ancora le sue confidenti, le amiche
del paese di un tempo, persino qualche lontano parente. Era sempre cercata da dozzine di uomini e
donne che avevano qualche legame con lei attraverso il padre, la madre e tutti i parenti venuti con il
matrimonio. Faceva regali e ne riceveva. Veniva invitata a festeggiamenti di famiglia. No, non era affatto
tagliata fuori da tutto e tutti, come cercava di fingere prima che fosse ora di andare a letto.
Di fondo era molto più socievole di lui. Questa relazione sentimentale, però, l’aveva certamente spinta
in un vicolo cieco.
Ha ragione, certo, considerò lui. Penso davvero con una sola parte della mia mente… in un’unica
dimensione, si potrebbe dire. I progetti che faccio non vanno mai più in là di un giorno.
Pensò di spegnere la lampada, prima di tutto perché Esther era capacissima di andare avanti a
chiacchierare per un’ora e nel frattempo lui avrebbe potuto fare un pisolino, e poi perché la luce era del
tutto inutile. Si alzò e lo fece. La stanza divenne subito più confortevole.
Avvertiva il sibilo del calorifero, la risacca del mare. Bianco e rosso, luce e buio, la neve dell’esterno si
rifletteva nella finestra. Si allungò di nuovo sul divano, tra la veglia e il mezzo sonno, nel silenzio
immobile di un animale cui è stato tolto il giogo.
Doveva essersi addormentato, perché quando Esther tornò lì si svegliò di soprassalto. Per un attimo
non riuscì a ricordare dove fosse.
Sentì la voce di Esther: «Perché hai spento la lampada? Hai dormito?»
«Stavo facendo un pisolino.»
«Be’, è la cosa migliore che potessi fare. Nella Bibbia in yiddish di mia madre c’era scritto che il sonno
dei malvagi è un bene per loro e anche per il mondo.» Lui fu improvvisamente all’erta. «Adesso sono
diventato anche uno dei malvagi?»
«Sì, carissimo, uno dei malvagi. I mascalzoni per bene non fanno cose simili.» Anche al buio, lui capì di
essere impallidito.
«Che cos’è successo?»
«Che cosa doveva succedere? Adesso so tutto. Tutte le tue manfrine. Che cosa credevi? Che non lo
avrebbe scoperto nessuno? Che avresti potuto fare la tua scappatella di una sola notte in segreto? Liuba
mi ha chiamato di nuovo. In città si parla di te. Tutta New York, cioè, tutta la nostra cerchia, è un
bisbiglio al tuo riguardo. Be’. Quindi…» Ed Esther tacque. Lui non riusciva a vedere dove fosse, se
ancora in piedi accanto alla porta o seduta su una poltrona. Piombò nell’immobilità senza parole che
segue al culmine di ogni crisi. Dopo un po’ vide il profilo di Esther, rigido sulla soglia come un fascio di
ombre, una figura spettrale, forse tipo quelle che evocano spiritualisti e medium. Le gettò un’occhiata
con un misto di curiosità e timore.
Quella figura indistinta era Esther: un groppo di accuse, disprezzo, forse persino odio. Fece la mossa di
alzarsi, ma la testa sembrava inchiodata al cuscino del divano come se lui soffrisse di una paralisi
nervosa.
«Be’, perché stai zitto?» chiese lei.
«Che cosa posso dire?»
«Hai piantato la tua famiglia?»
«Sì.»
«Be’, congratulazioni. Sono anni che dici che non puoi lasciare Leah.
Che le hai fatto una promessa o qualcosa del genere. Invece adesso ti è consentito. Chi ti ha liberato dal
voto? Il padre di quella là?»
«Suo padre non c’entra niente.»
«Be’, sei persino più spregevole di quanto pensassi.»
«Devo andare via?» chiese lui dopo un po’.
«Sì, vattene! Fuori!… Aspetta un attimo, torno fra un momento.» Sentì Esther che andava in bagno
sbattendo la porta. Ascoltò attentamente. Purché non si facesse del male! Sentì arrivare da là dentro
ansiti e gorgoglii, quasi Esther stesse facendo i gargarismi. Poi tutto tacque. Rimase lì muto, teso,
svuotato, in quello stato di aspettativa che, pur non attendendo niente, nondimeno occupa il fluire del
tempo. A mano a mano che i suoi occhi si abituavano al buio, a poco a poco riconobbe i contorni del
secretaire, la lampada a stelo, le cornici. Lì dentro conosceva ogni cosa. La maggior parte di quegli
oggetti erano regali suoi. Che cosa fa Esther là dentro? Perché ci mette così tanto? si chiese. Avrebbe
voluto alzarsi, bussare alla porta del bagno e chiamarla, ma gli sembrava che gli fossero stati amputati i
piedi. Il breve pisolino fatto mentre Esther era al telefono sembrava averlo svuotato dell’ultima energia.
Riusciva a stento a tenere gli occhi aperti. Adesso sarebbe un momento giusto per morire, pensò
fugacemente. La porta del bagno si aprì ed Esther tornò ad affrontarlo.
«Hertz, mi hai colpito sulla testa con un’ascia.» Lui parve raggrinzirsi. «Ti prego, Esther, aspetta un
attimo.»
«Che cosa dovrei aspettare? Be’, laverò i piatti.» E andò in cucina.
Come sono strane le donne! pensò lui. E’ il momento di lavare i piatti?
Ma era esattamente ciò che Esther stava facendo. Li sbatacchiava, facendo scorrere l’acqua dal
rubinetto. Lui chiuse gli occhi. Sia la quiete, la quiete! Vada pure avanti a lavare le padelle così per
settant’anni, come quell’altra ebrea delle favole. Mentre scivolava di nuovo in un mezzo sonno, pensò
che, per quanto piacevole fosse il buio nella stanza, e per quanto serrasse gli occhi, vi penetrava ancora
troppa luce. Oppure quel chiarore emanava dal suo intimo? Il sibilo del calorifero si trasformò in un
canto. Il caldo sembrava avvilupparlo come un piumino. Qualcosa gli danzava davanti agli occhi,
tremolando, cercando di prendere forma come una piccola sfera emersa dal caos primordiale, la prima
molecola da cui è nato l’universo. Esplose un alone dorato, una pupilla abbagliante, un’incandescenza
che non era né immaginata né reale ma esisteva chissà dove in una dimensione remota. E’ un miraggio?
Ha sostanza o no? Ne parlerò con il professor Shrage, decise.
Il suo corpo si fece ancora più ingombrante, la testa premeva sul cuscino come una pietra. Le dita
sembravano gonfiarsi. Aveva vissuto un’esperienza simile da ragazzo, quando si era ammalato di febbre
tifoidea ed era stato ricoverato all’ospedale di via Pokorna. Esther stava ancora lavando, con un gran
rumore di spruzzi, camminando avanti e indietro sul posto come un animale in gabbia. In tutto quel
lavare c’era qualcosa di demenziale. Di punto in bianco gli ricomparve accanto. Con voce tra il rotto e il
carezzevole gli chiese: «Hertz, dormi?»
«No, tesoro mio.»
«Non chiamarmi tesoro! Hertz, voglio chiederti una cosa, ma devi dirmi la verità.»
«Sono troppo debole per raccontare bugie.»
«L’ami?»
«Non so.»
«E che cosa, allora? E’ un fatto puramente fisico?»
«Non so più niente.»
«Posso stendermi un attimo accanto a te?»
«Sì, vieni.» Lei gli si stese accanto con cautela. Il divano era troppo stretto per entrambi, e le molle
gemettero. Grein avvertì il peso di Esther, la massa che la gravità attirava inarrestabilmente verso il
suolo. Le viscere di uno dei due rumoreggiarono: di chi? Che strano non distinguere la differenza tra sé
e un’altra persona! Dovette appiattirsi contro lo schienale del divano per farle più posto, ma lei avrebbe
comunque potuto cascare giù da un momento all’altro. Quando la strinse alla vita con una mano
protettiva, il suo seno premendogli contro, sembrò rinnovargli la forza.
«Hertz, ricordi che un tempo volevamo morire insieme?»
«Sì, ricordo.»
«Io adesso sarei pronta.» Lui non rispose subito. Sembrò riflettere sul significato di ciò che lei aveva
detto. «Be’, non ne sono alieno neanch’io…»
«Ricordi che una volta abbiamo aperto il gas e ci siamo seduti nella vasca da bagno insieme?»
«Sì, sì.»
«No, Hertz, tu non hai niente per cui morire.» E gli si premette contro con ancor più ardore. Gli stava
quasi stesa sopra. Lui avrebbe voluto chiederle di spostarsi un po’, ma non disse niente. Ogni parola gli
costava uno sforzo. Ormai aveva un solo desiderio: rimandare, aspettare, lasciare tutto sospeso.
Dio del cielo, doveva dormire qualche minuto. Non era mai stato stanco come adesso, in lotta con una
stanchezza irriducibile che gli toglieva funzionalità a tutte le membra. In quelle condizioni si sarebbe
potuto dormire su un marciapiede, nel fango, in mezzo a un campo di battaglia.
Inoltre Grein sapeva che quella notte non avrebbe potuto riposare.
Esther non lo avrebbe lasciato andare via. Sarebbe stata sveglia tutta notte, come faceva ogni volta che
c’era un motivo di turbamento.
Rimasero lì un pezzo stretti l’uno all’altra, cupi e scomodi, due creature stremate che si graffiavano e
mordevano da tanto di quel tempo da essere ormai entrambe mezze morte, senza rabbia, senza
recriminazioni… due masse di inerzia. Ansimavano pesantemente ma senza chiasso, tanto da ricordare
due animali al macello.
«Hertz, è la fine», mormorò di punto in bianco Esther. Era la seconda volta nella stessa sera che lui
sentiva quelle parole, prima da Leah e adesso da Esther. Entrambe avevano pronunciato la frase con la
stessa inflessione. Il parallelo lo paralizzò come un incantamento. La paura gli strozzò la voce. «Be’, se è
la fine, pazienza.» Aveva dato la stessa risposta di prima. Ebbe la sinistra premonizione di aver apposto
un sigillo al proprio destino.
«Che cosa stai facendo, Hertz? Stai assassinando un grande amore.» Lui non rispose e cominciò ad
assopirsi. Sembrava essere scivolata nel sonno anche lei. Rimasero lì come due ladroni in una grotta,
esclusi dalla vista di Dio, messi al bando dalla gente per bene. Grein si addormentò, ma Esther lo
svegliò. «Hertz, voglio dirti una cosa.»
«Che cosa?»
«Hertz, fino a ora non ho fatto una sola cosa che mi abbia giovato. Mi sono sempre sacrificata per
amore. Per me l’amore era la cosa più sacra del mondo. Mio Dio, quando mio padre, la pace sia con lui,
ha preteso che sposassi quel Piniele, ho pianto notti e notti. Ho letteralmente intriso il letto con le mie
lacrime. Quando nella mia vita sei comparso tu, ero pronta a buttarmi nel fuoco per te. Non è soltanto
un banale luogo comune, Hertz. Mi sarei fatta tagliare la gola per te. Morire per l’amore… ecco il mio
ideale di allora. Ma a questo punto ho deciso di averne abbastanza. Nel ghetto c’era un pio ebreo che
recitava continuamente salmi. Hanno trascinato tutta la sua famiglia nei forni, ma lui si è rintanato in un
buco chissà dove e ha continuato a pregare e studiare a memoria. Conosci la giustificazione: Dio sa
quello che fa.
Abbiamo peccato. Nel Mondo a Venire faremo ammenda. E’ rimasto mesi e mesi in quella cantina con
altri ebrei, tutti a morire di fame. Finché di punto in bianco un giorno non ha dato di piglio ai filatteri e
li ha fatti a pezzi. Gli ha sputato sopra e li ha calpestati, urlando: Dio, non voglio più servirti! Sei peggio
di Hitler. Non mi servi Tu e non mi serve il Tuo Mondo a Venire! Quindi ha distrutto tutto:
l’indumento rituale con le frange e i libri di preghiera, tutto. Dopo di che è uscito dal suo nascondiglio e
si è consegnato ai nazisti. Mi ha raccontato tutto Liuba, la mia amica Liuba. Io farò la stessa cosa,
Hertz. Non voglio più amore! Ci sputo sopra! Se questo è amore, è meglio la prostituzione. Farò
qualcosa di brutto, Hertz. Farò qualcosa di talmente brutto che tu riderai, piangerai e sputerai.»
«Che cosa farai?»
«Qualcosa di incredibilmente stupido.»
L’orologio segnava le tre e un quarto. Grein chiuse la porta di Esther e scese le scale. E’ la fine, la fine,
ripetè echeggiando le parole di Esther. Durante la notte era calato il gelo. Dal mare soffiava verso terra
un vento di neve, che sbatteva come tante onde contro tutto ciò che era eretto. Il cielo incombeva
basso, con vaghi bagliori. I gelidi lampioni illuminavano soltanto la loro stessa solitudine. Alzatosi il
colletto del cappotto, Grein raggiunse la linea a Brighton. Esther lo aveva cacciato via. Gli aveva dato
un ultimo bacio ingiungendogli: «Vattene e non tornare mai più. Da adesso in avanti siamo nemici.
Nemici mortali.» Si mise sulla piattaforma soprelevata ad aspettare il treno locale che sarebbe dovuto
arrivare da Coney Island. Ma i binari erano silenziosi.
Si mise a camminare avanti e indietro per tenersi caldo. Com’era tutto silente e deserto, lì sotto! I negozi
del viale erano tutti sprangati; nelle traverse le finestre erano accecate dal buio notturno. Tutto dormiva:
bottegai, clienti, persino il mare, che sembrava respirare con una pesantezza assonnata. Una raffica di
vento sollevò un foglio di giornale, facendolo turbinare interminabilmente finché non cominciò a
rotolare a caso sul marciapiede, quasi sbatacchiato qua e là da demoni che lo avessero gettato in una
Cerchia della Geenna riservata esclusivamente alla carta. Rimase un attimo appiccicato a un pilone della
linea E come in cerca di protezione dal suo tormentatore, ma fu subito strappato via con violenza e
spedito di nuovo in volo, inseguito da una schiera invisibile. Grein si avvicinò a un lampione per dare
un’occhiata all’orologio. Erano passati venti minuti e non c’era traccia di un treno. Chissà, forse i treni di
notte non viaggiavano più.
Il freddo penetrava sotto le maniche, il colletto, le gambe dei pantaloni. Incurvato per la tremenda
stanchezza, avvistò un angolo protetto dal vento dove c’era una bilancia. Chiuse un attimo gli occhi,
paragonandosi a un cavallo stanco che sonnecchia anche quando è bardato.
Be’, dovunque si posi la testa, è lì che si dorme, pensò, rabbrividendo e premendo la spalla contro la
parete. Dove devo andare, adesso? Forse nei paraggi c’era un albergo. Ma dove?
Di punto in bianco si sentì una raffica d’aria e un clamore metallico e i binari scintillarono di luce
riflessa. Arrivò un treno, ma andava nella direzione opposta. Trasportava passeggeri provenienti da
Manhattan o da chissà dove. Sebbene non fosse il suo, gli diede un certo conforto, perché se arrivavano
treni da Manhattan, ce n’erano anche altri diretti a Manhattan. Secondo lui, tutto ciò si connetteva
all’insegnamento della Cabbala secondo cui lo Spirito del Male testimonia dell’esistenza di Dio. Se esiste
un lato sinistro od oscuro, ne deve esistere anche uno destro o luminoso. Era sbarcato un passeggero
solitario, che lo sbirciò attraverso i binari. Il suo viso parve dire senza parole: io sono arrivato e tu stai
partendo… così è la vita.
Dove starà andando? si chiese Grein. Ha anche lui una Esther nei paraggi? Forse va dalla stessa Esther,
gli mormorò un folletto. Forse lei aveva sempre avuto un amante, e quando lui dormiva lo faceva
entrare.
In quel momento arrivò il treno da Coney Island. Soltanto nel silenzio della notte se ne potevano
valutare a fondo il rumore assordante, la potenza delle ruote, la forza dei fari. Le portiere si aprirono
sibilando con la generosità delle forze che non giudicano ma distribuiscono i loro doni con la parzialità
di un dio. Grein montò con insolita fretta, quasi temesse che le portiere potessero avere un
ripensamento e chiuderglisi prematuramente in faccia.
Mentre un gradito calore lo avvolgeva, cercò un sedile sopra un calorifero. Era solo nella vettura, e la
cosa al tempo stesso lo impauriva un po’ e gli dava la soddisfazione di avere tutto per sé. Gli ricordò la
sua infanzia, quando il venerdì sera, dopo il pasto dello shabbath, andava nella casa di studio chassidica
nel cortile di casa, in via Smocza, e tutte le panche, tutti i tavoli, tutti i libri sacri, tutte le candele nei
candelabri a sei braccia erano a sua completa disposizione.
A Sheepshead Bay salì un ubriaco, che gli si sedette accanto e cercò di impartirgli una conferenza
politica. Blaterava in un modo che Grein sospettò stesse predicando l’odio per gli ebrei, visto che
continuava a citare il nome Morgenthau, sebbene quell’uomo politico avesse dato le dimissioni da un
pezzo. Gli occhi vacui che lo scrutavano scaltramente sembravano dire: non c’è Costituzione per gli
ubriachi… Posso fare ciò che gli altri non osano.
Soltanto allora lui si accorse che il treno non passava per il ponte ma per il tunnel. Ogni stazione
portava nuovi passeggeri, in maggioranza neri e con occhi spiritati, in cappotto e cappello di pelo,
calosce alte e gli indumenti macchiati di grasso di chi fa un lavoro pesante. Uno di essi sembrava lo
studio per un ritratto simboleggiante il destino del proletariato. Grande e grosso, sudicio, con morchia
sotto le unghie e senza un indice, stringeva una scatola di latta con il pranzo. I suoi occhi emanavano il
silenzio sottomesso di chi porta sulle spalle un peso schiacciante senza ricompensa e speranza. Quel
treno trasportava soltanto uomini, non c’era una sola donna. Erano tutti silenziosi, persi
nell’introspezione notturna.
A Times Square Grein smontò. Che aria misteriosa aveva quella zona, d’inverno, nelle ore che
precedono il levarsi del sole! Le auto producevano soltanto un fruscio nel passare. Tutte le finestre dei
torreggianti palazzi erano sbarrate. Uno spicchio di cielo si fece lentamente verde come un campicello.
L’aria era fredda e pura. Passò barcollando un ubriaco, apparentemente in cerca di qualcuno da
accostare. A Grein parve che in quell’insolito silenzio tutto avesse acquisito di nuovo una dignità
europea: ogni palazzo, ogni lampione, le insegne sopra i negozi, gli autobus fortemente illuminati.
L’alito di Dio soffiava ancora una volta su New York. Si precipitò in un albergo vicino alla Ottava
Avenue; si era preso un raffreddore e andò direttamente a letto. Senza nemmeno curarsi di scostare il
copriletto, posò la testa sul cuscino, ma non si addormentò subito. Sentiva arrivare mormorii e stronfi
di naso dal corridoio e dalla città, che aveva già cominciato a svegliarsi.
Alle sette e mezzo suonò il telefono. Aveva chiesto lui che lo svegliassero, in modo da non arrivare tardi
all’appuntamento con Anna.
La stanza era buia, ma una luce ardeva nella finestra di fronte, dove una giovane era tutta presa a fare
toilette. Non aveva abbassato la tapparella. Del tutto spudorata si muoveva completamente nuda, come
ai tempi della Generazione del Diluvio. Prima si esibì frontalmente, poi di schiena. Sollevò le braccia
come se intendesse fare qualche esercizio ginnico, si strinse la testa e sbadigliò. Poi andò alla finestra e
abbassò lentamente la tapparella nel tono di un’attrice che fa calare il sipario dopo la sua esibizione. Di
punto in bianco Grein trasalì con forza. La sera prima aveva preso un treno fin quasi a Coney Island e
strada facendo aveva chiuso la sua ventiquattrore in uno stipetto, ma tornando indietro se n’era
dimenticato. Non gli era venuto in mente nemmeno quando era andato a letto. Le ultime ventiquattro
ore lo avevano completamente disorientato. Aveva fatto in fretta ad abituarsi a dormire in camicia e a
pagare le stanze d’albergo in anticipo.
C’era un’unica soluzione: vestirsi in tutta fretta, tornare a Coney Island, recuperare la valigia e
raggiungere da lì la Grand Central. Se tutto andava bene, nulla di tutto ciò avrebbe richiesto più di
un’ora e mezzo. Soltanto più tardi, seduto in metropolitana si rese conto che era stata una decisione
stupida, non pratica, incauta: avrebbe potuto andare là con Anna e risparmiarsi tutta quella tensione e
quel trambusto.
Avrebbe addirittura potuto non farlo affatto: abbandonare tranquillamente la valigia al suo destino e
comperarsi un pigiama e un’attrezzatura per radersi nuovi. Quando finalmente tornò a connettere, il
treno era già a metà strada. Aveva fatto una cosa stupidissima, ma secondo Freud motivata da un
desiderio inconscio di rimandare l’incontro, forse persino di evitarlo e annullarlo del tutto. Era strano e
penosamente spiacevole tornare a Brooklyn, la Brooklyn di Esther.
CAPITOLO 5.
Anna aprì gli occhi. L’aveva svegliata il sole, sospeso lassù. La sua finestra dava a est, e dall’East River si
era levato un orbe infuocato, che aveva lampeggiato nella camera come un faro. La faccia non rasata di
Stanislaw Luria era soffusa di un colore violaceo, le palpebre chiuse coperte da una ragnatela di ombre,
le grosse labbra gonfie. Le fece venire in mente un uomo assassinato. Sembrava che la sua bocca stesse
chiedendo senza parole: che cosa ho fatto esattamente? Mi sono meritato questa punizione? Gli
acquerelli alle pareti, che mandavano barbagli nella luce maculata del sole, sembravano rivelare soltanto
adesso il significato inteso dall’artista. Sembravano partecipare contemporaneamente di alba e
tramonto, come se in quel mattino presto d’inverno fossero arrivati insieme alla stessa ora. Anna aveva
dormito soltanto tre ore, ma si svegliò riposata e con la mente limpida. Ricordava ogni cosa: il
giuramento di Luria che non le avrebbe mai concesso il divorzio neanche per tutto l’oro di Fort Knox, e
le rimostranze e minacce di suo padre.
Boris aveva telefonato da quell’appartamento al suo rebbe di Williamsburg e le aveva concesso due
possibilità: o andarsene con Grein, nel qual caso l’avrebbe immediatamente diseredata e disconosciuta,
o giurare sul Pentateuco e sulle ossa della madre che non avrebbe più avuto rapporti con quel libertino.
Poi aveva dato di piglio al libretto di assegni, firmando un assegno in bianco e mettendoglielo sotto il
naso: «Scrivici la cifra che vuoi!» Quindi si era messo a infuriare per l’appartamento, stringendosi la testa
tra le mani e urlando: «Puoi scegliere tra due strade: un padre, con l’aggiunta del Mondo a Venire,
oppure marcire sulla Bowery! Ricorda quello che dico!» E si era indicato la parte sinistra del torace,
dove batteva il cuore. Anna sapeva benissimo che quello stress emotivo gli era mortale. Soffriva di
pressione pericolosamente alta e aveva già avuto un infarto all’Avana.
Sì, aveva giurato. Piangendo amaramente, aveva abbracciato il padre, baciandogli le mani, e aveva
gridato: «Papà, mi sei più caro di ogni cosa al mondo!»
«Vivrai abbastanza da ringraziarmi, figlia mia. In questo mondo e anche nel prossimo.» La voce
profonda di Boris Makaver era arrochita dalle lacrime. Si era chiuso a chiave nel bagno, e Anna lo aveva
sentito singhiozzare e tossire a lungo. Lasciava scorrere l’acqua per coprire i suoi gemiti angosciati.
Soltanto alle due del mattino suo padre si era deciso a dare la buonanotte e tornare a casa. Dopo di che
si era scatenata a tutto spiano la furia di Luria. La conclusione di tutte le sue contumelie e minacce era
stata che questa volta l’avrebbe perdonata, ma che da adesso in avanti non avrebbe più consentito a
Grein di varcare la soglia di casa sua. In preda all’ira aveva dato di piglio a una camicia e l’aveva
strappata in due. Aveva battuto i piedi, urlato come un ossesso, sfasciato portacenere, bicchieri, tutto
ciò su cui era riuscito a mettere le mani. Persino peggio dei suoi insulti erano però stati i suoi tentativi di
fare la pace. La rabbia si era convertita in lascivia, e l’aveva inseguita per le stanze al punto che si era
quasi rotta una gamba per sfuggirgli. Aveva cercato di prenderla con la forza, ma all’ultimo istante si era
ritrovato impotente. Sbraitava come un pazzo e aveva cercato di bere tintura di iodio. Dopo di che era
stato preso da un dolore trapassante al cuore e lei era stata sul punto di chiamare un’ambulanza.
La notte era trascorsa come un sogno orribile. Ma le tre ore di sonno sembravano aver rimarginato le
ferite. Anna si tirò a sedere nel letto.
Gli indumenti di Luria erano sparsi per tutta la moquette. Una delle sue scarpe era abbandonata ad
arrostire sul calorifero bollente. Anche le cose di Anna erano sparse ovunque. La camera da letto
sembrava un campo di battaglia abbandonato. Adesso che il sole stava bordando ogni cosa di una
tonalità purpurea, da una delle cravatte di Luria sembrava colare un flusso di sangue. Si alzò e andò
silenziosamente nel soggiorno. Era buio, e procedette con cautela tra cocci e schegge di vetro.
Evidentemente durante la notte aveva nevicato, perché Lexington Avenue era immersa in un biancore
che neanche i camion avevano ancora insudiciato. Sfumata di un blu elettrico, la neve era posata in un
alto strato su ogni superficie, balcone, scala antincendio.
I negozi erano tutti chiusi. Non si vedeva un solo passante.
Fari e luci di posizione dei camion erano ancora accesi, portandosi dietro il giorno prima. Anna si mise
alla finestra nella sua camicia da notte corta. Da lì non poteva vederla nessuno, tranne forse Dio, quel
Dio per cui doveva rinunciare a Grein e rimanere con Luria.
Provò improvvisamente una voglia spasmodica di caffè. Visto che tutte le sue speranze per il futuro
erano svanite, le toccava vivere il presente.
Andata in cucina, accese la luce e mise la caffettiera sulla stufa a gas. Di solito evitava gli amidacei e
mangiava di rado torte, biscotti o pane al cinnamomo, cose di cui invece a Luria piaceva tanto
ingozzarsi tutto il giorno. Ma da adesso in avanti poteva mangiare tutto ciò che le andava. Prese una
forma di pane al cinnamomo e ne tagliò una grossa fetta. Le venne in mente che forse avrebbe dovuto
recitare la benedizione. Ma che tipo di benedizione si pronuncia su una forma di pane al cinnamomo?
Ne ricordava soltanto due delle molte prescritte dalla Legge ebraica: «Che genera il pane dalla terra» e
«Tramite la cui parola tutte le cose vengono in essere.» Be’, faceva lo stesso. E’ possibile che Dio ascolti
ogni benedizione, ogni parola che si pronuncia? Avrebbe davvero fatto qualche differenza, per Lui, se
Luria le avesse concesso il pezzo di carta che si definisce divorzio, o no?
Dio non poteva essere così meschino e maniaco di documenti da quattro soldi: era tutta un’invenzione
dell’uomo. Ma suo padre ci credeva sino in fondo, per cui sarebbe morto di dolore, e lei non poteva
procedere a un simile sacrificio. Ma non poteva nemmeno consentire che tutti i beni paterni passassero
in mano di estranei. Anna versò il caffè e vi aggiunse un po’ di panna. La finestra della cucina dava su
un cortile dove le luci erano accese a moltissime finestre. Donne in vestaglia trafficavano attorno a stufe
a gas e frigoriferi. Uomini abituati a uscire presto per il lavoro stavano già facendo la prima colazione.
Una donna con uno strofinaccio lavava il linoleum.
Non avevo idea che ci si alzasse così presto, rifletté Anna con sorpresa. Ah, il fardello che portiamo…
Il pane che mangiamo non ce lo procuriamo con facilità. Be’, si consolò, se non altro ho trascorso una
notte con lui! Succeda quel che succeda, nessuno può portarmela via. E’ mia, mia.
Sorseggiò lentamente il caffè caldissimo, bevendo e sonnecchiando, sonnecchiando e bevendo. Sono
stanca, stanca. Pensò di tornare in camera da letto, ma le ripugnava Luria, che vi dormiva. La sua
avversione nei confronti del marito si era fatta più forte: non poteva più soffrire le borse che aveva
sotto gli occhi, il raschio della sua voce. Il pensiero che potesse ancora desiderarla era terrificante.
Se almeno fossi sola, sarebbe più facile! Oh, se morisse! Che gioia sarebbe! Il papà vuole bene a Grein.
Sarebbe felice di averlo come genero.
Anna si riscosse. Che cosa mi sta succedendo? E proibito desiderare la morte di chiunque. Non è colpa
sua se non posso soffrirlo. Dio del cielo, in definitiva sono stata io a corrergli dietro… ero innamorata
di lui. Anna se lo ricordò come una cosa di cui doveva vergognarsi. Oh, com’è tutto distorto e tortuoso.
Anche se fuori era ancora buio, non era più molto presto. Se doveva incontrare Grein alle nove alla
Grand Central per dirgli ciò che aveva da dirgli, bisognava che si affrettasse. Gli avrebbe detto tutto,
tutta la verità. Chissà. Forse per lui sarebbe stato un sollievo. Non è facile abbandonare una famiglia.
Seduta con le mani strette attorno alla tazza di caffè, Anna si sentì molto vecchia, quasi come se dopo il
giorno appena passato le fosse piombata addosso la vecchiaia. Non possedeva niente più di quella tazza
di caffè. Ripensò a Varsavia, a sua zia Sarah Itte, la cui cucina era sempre piena di anziane ebree, a
ciascuna delle quali offriva caffè di cicoria e una fetta di pane. Sorseggiavano grate la bevanda
caldissima, intingendovi le croste dure e masticando con bocche sdentate. Ecco, le sembrava di essere
diventata una di quelle vecchie carampane.
Andata in bagno fece scorrere acqua nella vasca, gettando via la camicia da notte con l’euforia di un
insetto che si libera del bozzolo. Scrutò la propria figura nello specchio. No, il suo corpo era giovane. I
capelli erano talmente neri da sfumare nel blu. I seni erano saldi, i fianchi stretti. Anche se stanchi, i suoi
occhi erano ancora gai. Si fece l’occhiolino. Se non altro gli ho messo le corna, pensò di Luria con
maligno piacere distruttivo. Chissà. Questo potrebbe portare al divorzio. Non gli passerà tanto in fretta.
Anna si vergognava dei suoi pensieri, ma non riusciva a scacciare la gioia che provava per essersi
concessa a Grein. Quella notte le rimaneva come un dono, un gioiello prezioso, un ricordo cui la sua
memoria sarebbe potuta tornare finché fosse vissuta. E la Geenna? La mettessero pure su un letto di
chiodi.
Entrò nella vasca e cominciò a insaponarsi, sfregarsi e spugnarsi. La notte con Grein aveva risvegliato in
lei una forte attrazione per il proprio corpo. Lui vi aveva scoperto fascini esotici che aveva lodato a
profusione, paragonandola a una pantera e abbandonandosi a considerazioni meravigliate sulla sua
capacità di baciarlo appassionatamente per minuti di seguito senza perdere il respiro. Aveva trovato in
lei meriti che soltanto un uomo poteva scoprire e apprezzare a fondo.
«Ah, lo amo! Lo amo!» esclamò ad alta voce. «Più che mai.» Poi di punto in bianco pensò che adesso,
dopo aver fatto quel sacrificio per lui, non amava più suo padre. La rinuncia l’aveva svuotata. Adesso
era pari e patta con lui e con tutti.
Che cosa mi metto? si chiese Anna. La pelliccia di castoro? Il cappotto blu? Avrebbe detto a Grein che
tutto era finito, ma voleva piacergli un’ultima volta. Almeno sappia che ha perso una bella donna. Anna
prese dall’armadio la pelliccia di castoro e si appese orecchini di diamanti ai lobi perforati. Faceva tutto
in tono languido. Avendo posto fine a ogni fretta, si sentiva la pace in testa, nel cuore, persino nel
ventre.
Una lunga tensione si era rilassata, uno stato di agitazione durato quasi due anni. Era un’esperienza
simile a quella che aveva vissuto ventitré anni prima, dopo il funerale di sua madre, quando ne aveva
undici. Avevano avuto finalmente fine visite di medici, fastidi di rabbini miracolosi, consulti di
professori. Tutto si era improvvisamente fatto silenzioso e deserto. In una simile forma mentis, pensava
adesso, si può esalare l’anima senza essere minimamente malati ma semplicemente perché le pulsazioni
non hanno più alcun motivo di battere. Ma poteva succedere anche il contrario: avrebbe potuto
continuare a vivere chissà quanto tempo, facendosi vizza e rattrappita come uno di quegli scheletri
seduti negli atri degli alberghi, attorno a cui il tempo si è bloccato.
Anna aprì un cassetto del comò, trafficò un po’, trasferì qualcosa da una borsetta a un’altra, senza
tuttavia avere un’idea chiara di che cosa stesse facendo. Luria uscì dalla camera da letto, il torace peloso
scoperto, la pancia prominente, le gambe troppo corte per il corpo.
Avvicinandosi a lei si muoveva goffamente e sbuffava come un animale. La sua rabbia mandava lampi
da sotto i sopraccigli irsuti.
«Dove stai correndo?»
«Lo sai, dove. Ti ho spiegato tutto ieri.»
«Quando torni?» Senza aspettare risposta, andò in bagno e si soffiò furiosamente il naso.
Evidentemente stava continuando a distruggere la casa, perché sul pavimento c’era una bottiglia di
vetro in frantumi.
Dio, come lo odio! Che bello liberarsi di lui! rifletté Anna.
Durante tutto il putiferio della sera prima si era abbandonata a una fantasia: Luria e Leah, la moglie di
Grein, muoiono lo stesso giorno.
Lei e lui si incontrano al funerale. Piangono e si baciano. Lui si trasferisce subito a casa di lei.
Anna uscì di casa. Be’, non dico sul serio, non dico sul serio. Luria viva pure in buona salute, si affrettò
a placare le forze invisibili che origliano i pensieri degli uomini. E non ho di sicuro niente contro la
moglie di Grein.
L’ascensore, quando arrivò, era manovrato dallo stesso tanghero di due sere prima. La squadrò con uno
sguardo in tralice e indagatore. Le parve che i suoi occhi chiedessero senza parole: è ancora qui, lei?
Quindi sporse di nuovo le labbra per fischiettare. Fuori c’era il gelo e si era fatto nuvolo. Anna si avviò
verso downtown per Lexington Avenue. Visto che era presto, si fermò a guardare le botteghe
antiquarie. Com’erano particolari tutti quegli oggetti esposti nelle vetrine: pezzi da scacchi in avorio ed
ebano, la figura scolpita di un indiano, un filarello, un pestello con mortaio di quelli che si usano per
macinare matzoth nelle pietanze, un quadro raffigurante soldati intenti a saccheggiare una dimora
olandese. Erano tedeschi? Francesi? Molto presto avrebbero probabilmente cominciato a dipingere
quadri di tedeschi che ammazzano ebrei, e coppie di sposi se li sarebbero appesi in camera da letto.
Quel mattino tutto le appariva vecchio, scolorito, opprimente: ogni passante, ogni auto, ogni palazzo. I
fiori dai fioristi erano senza vita. I pesci sistemati sul ghiaccio avevano scaglie insanguinate e occhi
vitrei. Trepestavano via donne in stivaletti da neve coperti di ghiaccio, uomini con enormi calosce. Un
poliziotto faceva segnalazioni ai conducenti, ma le sembrava che loro li ignorassero, e che da un
momento all’altro la guardia avrebbe potuto essere travolta da un’auto.
Da un camion di carne davanti a un macellaio, certi uomini ben panciuti trasportavano sulla testa quarti
scorticati di carne. In vetrina, tra i blocchi sanguinolenti di carne, era appeso un agnello intero, con il
ventre squarciato dal collo alla coda. Be’, lo potrebbero fare a chiunque. Avrebbero benissimo potuto
esporre me allo stesso modo. Non sarebbe di sicuro venuto giù il cielo.
Dopo un po’ si portò in Park Avenue, dove non c’era niente che attirasse lo sguardo. I palazzi grigi e
rosa si levavano come enormi galere in cui languissero comodamente intere tribù umane. Non vi si
vedeva crescere un solo albero, soltanto minuscoli giardinetti dove nel periodo di Natale la gente
metteva alberelli, illuminandoli con lampadine colorate. Un barboncino che una vecchia si trascinava
dietro alzò improvvisamente la zampa contro un muro per fare una sola goccia di pipì. Un anziano
portinaio dai capelli grigi in uniforme stava accudendo a una carrozzina in cui era stesa su un cuscino
una bimbetta rosea, con la faccia di un porcellino arrabbiato.
Anna entrò in stazione e si mise a cercare Grein. Avrebbero dovuto incontrarsi nel trambusto dell’atrio
principale, dove c’erano le banche, ma lui non era lì. Andò in un’altra zona, dove si levava lo stesso
frastuono. Passeggeri si precipitavano qua e là portando valigie. Agli sportelli delle biglietterie si
formavano lunghe code. Il banco delle informazioni era assediato. Attraverso un altoparlante un
annunciatore gridava il nome di stazioni che lei non aveva mai sentito nominare. La guerra era finita da
un pezzo, ma si vedevano ancora moltissimi soldati e marinai, ciascuno con sacca di ordinanza e zaino.
Russia e America adesso combattevano una guerra fredda che avrebbe potuto farsi caldissima in
qualsiasi momento. Strano, Grein non era nemmeno lì. Ci aveva ripensato anche lui? L’enorme orologio
con il quadrante illuminato indicava già le nove e dieci. Anna andò a comperare un giornale e poi si
mise a camminare avanti e indietro nella sala d’attesa. Puzzava di sigari e aveva il sentore fetido di muffa
che pervade taxi, uffici postali, treni e tutti i posti dove va e viene molta gente. Un militare guidava per
mano la giovane moglie: era poco più adulta di una scolaretta, ma il suo ventre prominente annunciava
gli ultimi mesi di gravidanza. Lui stava evidentemente tornando al campo, e la giovane moglie levava a
lui lo sguardo con espressione supplicante e con un sorrisetto in parte sottomesso e in parte malizioso
che sembrava chiedere: ricordi? Com’è successo tutto questo? In definitiva ci siamo appena conosciuti.
Ad Anna parve che lo stesso ventre chiedesse di essere guardato, ammonendoli: voi mi avete formato,
riempito; siete i miei guardiani. Se mi abbandonaste, chi mi prenderebbe? Il militare aveva il sorriso
perso di chi è stato messo al giogo. Anna si sentì a disagio: perché trascinano via tutti questi ragazzi?
Che cosa vogliono dalla loro gioventù? Perché li incitano a combattersi a vicenda? Si vergognava, lì in
pelliccia e orecchini di diamanti davanti a quel giovanotto. Chissà. Forse per colpa di sibariti come me
soffre tutto il mondo!
Erano ormai le nove e venti, ma Grein non si faceva ancora vedere. Be’, evidentemente si è tirato
indietro. Meglio così. Si accontenti pure dell’idea di essere stato lui a rinunciare a me. Nondimeno la
sbalordiva che così presto trovasse già superfluo spiegarsi o giustificarsi. Be’, dovrò mandare giù anche
questo sbaglio.
Decise di aspettare ancora dieci minuti soltanto e non un secondo di più. Aprì la borsetta e si stupì di
scoprire che ci aveva messo i gioielli, i libretti bancari, la chiave della cassetta di sicurezza, i documenti
di cittadinanza. Significa che ero pronta a scappare con lui?
A violare il mio voto? No, l’ho fatto soltanto per abitudine. Ho sempre paura che l’appartamento venga
svaligiato. E comunque Luria potrebbe benissimo stracciare e sfasciare tutto per dispetto, come ha fatto
ieri, quando ha strappato la camicia che gli ho regalato per il suo compleanno.
Si spostò a grandi passi da una panca all’altra, in inquieta ricerca di Grein. Be’, non se lo aspettava.
Questo fatto avrebbe distrutto persino il piacere datole dalla notte passata con lui. Non importa, sono
calmissima. Anna entrò ancora una volta nell’atrio principale. Lì il tempo passava un po’ più in fretta.
Le pareti erano coperte di manifesti, tabelloni, annunci. Tutti quegli striscioni e figure avevano un unico
tema: l’amore. Vi si vedeva una coppia di sposini freschi in partenza per la luna di miele. Be’, non li
invidio. Proprio no. Se non altro io non avrò figli. Senza sedersi, si mise a sfogliare i giornali.
Di solito guardava soltanto i titoli, ma questa volta cercò di concentrarsi sugli articoli. Stalin aveva
concesso un’intervista in cui affermava che comunismo e capitalismo potevano convivere. La sua
immagine squadrava il lettore dalla prima pagina. In aggiunta a tutte le sue virtù, adesso era diventato
anche un pacifista. Adesso sì che la stampa aveva qualcosa per cui agitarsi. Ma suo zio Mordechai
avrebbe continuato a marcire chissà dove in suolo russo. Nessuno avrebbe ricordato il torto che gli era
stato fatto.
Qualcosa nel suo intimo pianse. Grein non aveva motivo di darle un simile schiaffo in faccia. Non si
umilia così nemmeno una serva. Mancava un solo minuto alle nove e mezzo.
Doveva andare a casa. Ogni attimo che continuava ad aspettare la umiliava. Ma qualcosa la tratteneva lì.
Rimase in piedi irresoluta al centro dell’atrio. Perché sono così impaziente? si chiese. Non ho in ogni
caso intenzione di scappare con lui. Non sarà soltanto orgoglio?
No, aveva semplicemente una gran voglia di vederlo, di scambiare qualche parola con lui. Da ora in
avanti tutti i legami con lui si sarebbero spezzati. Era ben strano che, così poco tempo dopo essere
diventato la persona più vicina a lei, dovesse diventare la più distante. Anna teneva lo sguardo fisso
davanti a sé, perplessa di fronte alla direzione che aveva preso ogni cosa. C’era evidentemente un errore,
ma dove? Poteva violare il voto fatto? Poteva mandare il padre nella tomba per colpa della sua
passione? Poteva respingerne l’aiuto e i beni? Guardò a bocca aperta gli enormi candelieri con le loro
miriadi di lampadine. Che cosa potevano illuminare davvero? Tanta luce esterna, tanto buio interiore.
Che cosa devo fare? Dove andare? Come reagire? Andare a casa? Che cosa ci faccio? Il pensiero che
Luria fosse là ad aspettarla le diede una nausea tale che le venne voglia di vomitare. Farò un viaggio da
qualche parte. Ma dove? Nei Catskill? A Lakewood? Ad Atlantic City? Che cosa ci farò, tutta sola?
Potrei cercare di crearmi nuovi amici. Ma chi rinuncia all’uomo che adora per andare a cercare un
amore dove è probabilmente impossibile trovarlo? E che cosa succederà se dovessi effettivamente
legarmi a un altro? Di nuovo la stessa cosa: Luria non mi concederà il divorzio e il papà si metterà a
urlare che è peccato. Tutto ciò significa che devo starmene qui ad aspettare che il papà muoia.
Qualcosa nel suo intimo rise. Con quale diritto mi chiede questo sacrificio? E’ destinato a sposarsi
anche lui. Il matrimonio con Frieda Tamar era bell’e deciso. Quella rebbetzin era probabilmente ancora
in grado di avere figli, dopo di che l’eredità sarebbe stata divisa tra loro. Avrebbe persino potuto dare al
papà un maschio.
Anna si sentì confondere. Come ho fatto a non pensarci prima?
Come ho potuto fargli un giuramento sapendo tutto questo?
Cominciò per la prima volta a diffidare del padre. Non era poi quel santo cui si atteggiava. A modo suo
era scaltro, un affarista astuto, capace di averla vinta su un sasso. Se si vuole servire Dio, si dovrebbe
sicuramente sacrificare se stessi, non un’altra persona.
Di punto in bianco qualcosa in lei fece una giravolta. Aveva uno sconquasso in corpo, come se il suo
intimo fosse in preda a convulsioni per puro spirito di ribellione. Ripudio il voto, gridò qualcosa dentro
di lei. Farò come mi piace! Sputo su tutto: voto, Luria, eredità, ogni fanatismo religioso! Vivrò! Vivrò! Se
non con Grein, con un altro. Non consentirò che i miei anni vadano sprecati, non mi sacrificherò per
nessuno… proprio per nessuno! Il papà non morirà… non morirà! E’ più sano di me! Camperà fino a
ottant’anni e si riempirà la casa di figli.
Mi ha tenuto abbastanza a lungo per la gola.
Fu presa da un’insolita contrarietà. Che cosa voleva il papà da lei? Che diritto aveva di dettarle la sua
volontà? Si trattava della vita di sua figlia, non di quella di Boris Makaver. Non lo arderanno nella mia
stessa Geenna! Adesso non stava più ferma, ma camminava avanti e indietro a passi rapidi, sbattendo in
passeggeri e bagagli, carica di vigore e determinazione. Che cosa voleva tutta quella gente? Perché
avevano fatto lega contro di lei? Era una donna di trentaquattro anni… di lì a dieci il meglio della sua
vita sarebbe stato bell’e finito. Non sono la schiava di nessuno! Andrò dove voglio e farò come mi
piace! Se Grein non è l’uomo giusto, sarà un altro… rimanga pure con la sua baldracca. In tutta New
York posso di sicuro trovare uno che si interessi a me… e se nessuno vorrà avermi gratis, mi comprerò
l’amore! gridò mentalmente a chissà chi. Mi prenderò un… come lo chiamano, qui? mi sono
dimenticata. Userò l’assegno di papà per comperarmi un amante.
Userò tutto. Ogni opportunità. Non fa alcuna differenza… non sono tanto vecchia e brutta, neanche
per sogno! Per gli uomini sono ancora attraente. Scapperò con il primo che capita! Smetterò di essere
così schizzinosa! Non ho più tempo da perdere! Basta!
La parola «Basta!» la pronunciò veramente a voce alta. Tutti sentirono e la guardarono. Un facchino di
colore le fece l’occhiolino.
«Sta cercando qualcuno, signorina?» Anna gli voltò le spalle. Si sentì pervadere da vergogna e
autocommiserazione. Mi faranno diventare matta! si ammonì. Ormai l’orologio indicava le dieci meno
un quarto.
Be’, adesso che cosa faccio? si chiese. Gli telefonerò a casa, Forse è ancora là. Se risponde sua moglie, le
dirò che voglio comperare un po’ di azioni.
Si guardò attorno e vide le cabine telefoniche, ma erano tutte occupate.
Un giovanotto dalla faccia di bandito stava parlando e gesticolando. I suoi capelli neri erano lustri di
brillantina. Mentre borbottava nella cornetta faceva scorrere uno sguardo navigato sull’atrio, quasi
sospettasse che qualcuno fosse appostato ad aspettarlo con l’intenzione di fargli un’imboscata. Aveva
un anello con diamante e un orologio da polso con il cinturino a maglie; sul fermacravatte c’era ben in
vista una testa di cavallo. Nella seconda cabina una donnina tutta presa a fare la gran dama
chiacchierava e ridacchiava argentina, con un sorriso malizioso che le illuminava spesso il faccino
dipinto. Tutto in lei era bamboleggiante e artificiale: la figura esile, i capelli biondo platino appena tinti e
freschi di parrucchiere, le unghie acuminate, color rosso sangue. Persino la pelliccia di leopardo aveva
l’aria di essere falsa.
Anna si sentì pervadere da un accesso di odio nei confronti di questa personcina. Perché andava avanti
a blaterare così a lungo? Che cosa poteva aver da comunicare un personaggio così frivolo? In un’altra
cabina ancora un uomo fece cadere nella fessura una gran quantità di monetine. Stava evidentemente
parlando con qualcuno in un’altra città, o inviando un cablogramma. Tutta quella gente aveva un’aria
assolutamente sicura di sé. Nessuno di loro era nei pasticci come lei. Le sembrava che facessero parte di
un’unica cricca, tutti determinati a concionare senza fine al solo scopo di occupare le cabine. Ma di che
cosa potevano star parlando? Chi aveva la pazienza di ascoltare le loro chiacchiere?
Io sono sempre un sì o un no, e via: non parlo mai al telefono per più di un paio di minuti. Forse è per
questo che commetto errori così tragici. Se ne avessi il potere, li arresterei tutti, decise. Marciscano in
galera, feccia!
Il giovanotto che secondo lei era un bandito aprì la porta, ma invece di uscire rimase seduto. Pescò fuori
qualche altra monetina dal borsellino, sporgendo le labbra come per fischiettare. Lei fu colpita dalle sue
unghie di forma perfetta e ben curate. Ma di punto in bianco quello liberò la cabina. Entratavi
immediatamente, Anna la scoprì ancora pervasa dal suo alito, un misto di fumo di sigaretta e tabacco
stantio.
Aprì la borsetta e si mise a frugarvi in cerca di una moneta da cinque centesimi, ma aveva di tutto
tranne quella: un dieci centesimi, un penny, quarti di dollaro, un mezzo dollaro. Oggi sono proprio
sfortunata! Quindi le venne in mente che poteva inserire nella fessura un quarto di dollaro e chiedere al
centralino di connetterla, ma si era dimenticata il numero di Grein. Aprì la porta verso l’esterno per far
entrare un po’ di aria fresca e trafficò in cerca dell’agenda degli indirizzi. A quel punto c’era un’altra
persona in attesa di servirsi della cabina, e Anna avvertì con sarcasmo che era probabilmente irritata
con lei come lo era lei stessa prima con il «bandito.» L’agenda chissà dov’era finita. Ormai l’orologio
indicava le dieci precise. No, non telefono! decise. Se è capace di starsene a casa sapendo che sono qui
ad aspettarlo, è comunque tutto finito.
Uscì dalla cabina e si precipitò verso l’uscita della stazione. «La sua borsetta è aperta, signorina!» le gridò
una passante.
«Oh, moltissime grazie.» In quel momento qualcuno le mise una mano sulla spalla. Si voltò. Grein era lì
accanto a lei.
Grein e Anna uscirono dalla stazione e presero a sinistra, in direzione di Tudor City. Camminavano nel
silenzio di chi ha troppo da dire e non sa da dove cominciare. Strano… proprio mentre Anna aspettava
in stazione, il tempo si era schiarito un po’. Splendeva il sole. Anna gli si aggrappò al braccio. Come
diavolo ho fatto anche soltanto a pensare di non andare con lui? Era sbalordita di se stessa. Senza di lui
la mia vita non vale niente. Dopo qualche altro passo si fermarono.
«Posso chiederti perché sei arrivato in ritardo di un’ora?»
«Oh, ho dimenticato la ventiquattrore in uno stipetto a pagamento e sono dovuto tornare a prenderla
con la metropolitana. Durante il viaggio è mancata la corrente. Il treno ha avuto un ritardo di venti
minuti.»
«Stavo per andarmene. Hai passato la notte a casa?»
«No.»
«Dove hai dormito?»
«In un albergo vicino a Times Square.»
«Dove hai lasciato la valigia?»
«Uptown. Che cos’è successo, ieri? Perché non sei venuta al telefono?»
«Eh? Oh, è arrivato il papà e ha fatto un pandemonio. E’ entrato proprio nel momento in cui hai
telefonato tu. Che cosa ti ha detto Luria? Ero in bagno. Ti ha raccontato favole su di me, vero?»
«Dove stiamo andando? Questo è l’East Side, sai. Torniamo indietro. Devo fermarmi in banca. Ha
detto che hai avuto una relazione a Casablanca.» Anna si fermò di colpo. «Ha detto così?»
«Sì.»
«Be’, adesso posso odiarlo con tutto il cuore.»
«Andiamo in un ristorante da qualche parte. Hai mangiato?»
«Sì. Ma tu di sicuro no. Ecco lì un ristorante. No, è un self service.»
«Vuoi andare lì dentro?»
«Perché no? Per me fa lo stesso.» Entrarono. L’orario della prima colazione era finito e per quello di
pranzo ci voleva ancora un bel po’. Il self service era semivuoto, «Sediamoci qui… a questo tavolo»,
indicò Anna. «Che cosa ti porto?»
«Mi servo da me.»
«No, d’ora in avanti ti servirò io.»
«Eccoti un po’ di soldi.»
«No, offro io. Di che cosa hai voglia? Il resto lo sceglierò io stessa,» Lui si sedette al tavolo, guardando
Anna che gli prendeva succo d’arancia, fiocchi d’avena, latte, caffè e marmellata di albicocche. In quel
locale si pagava al banco. La pelliccia europea di Anna e i suoi orecchini di diamanti erano del tutto
fuori posto in quell’ambiente, stonati rispetto al vassoio che reggeva e allo squallore generale del luogo.
Le donne dietro il banco la scrutarono e borbottarono qualcosa.
Quindi gettarono un’occhiata anche a lui: in America non usava che un uomo stesse seduto mentre una
donna lo serviva. Come mai non ha con sé una valigetta? si chiese Grein. Forse ha avuto paura a fare i
bagagli.
Be’, questo pasto segna una svolta nella mia vita. Qui comincia il secondo atto, o forse persino il terzo.
Si alzò e prese il vassoio dalle mani di Anna. Era più pesante di quanto si aspettasse e lo fece quasi
cadere.
«Sta’ attento!»
«Togliti la pelliccia», replicò lui.
«Eh? Su, mangia.» Anna non si tolse la pelliccia ma si sedette a guardarlo. Lo servì, versandogli latte sui
fiocchi d’avena e aggiungendo panna al caffè, con un’espressione tra il sorridente e il preoccupato, piena
della timidezza di chi ha improvvisamente gettato via ogni ritegno e raggiunto il più familiare livello di
intimità. Anche lui era un po’ imbarazzato davanti a lei, la bambina di Boris Makaver, cui un tempo
portava dolci e che aveva aiutato a fare i compiti. Sorrideva esattamente nel modo di allora:
infantilmente, con ardore, persino un po’ stupidamente, con quell’ammirazione tipica di una ragazzina
per un’altra persona, che un uomo non arriverà mai veramente a capire. Lui aveva deciso da un pezzo
che l’idolatria è un peccato femminile: nella Bibbia è quasi sempre praticata da estranee e puttane.
«Devo metterti un po’ di zucchero?» chiese lei, poi si fece improvvisamente seria e chiese: «Che cos’ha
detto con precisione Luria?» Lui si accigliò. «Te l’ho detto.»
«Che cosa? Perché non mi chiedi se è vero?»
«Dimmi quello che vuoi.»
«Sì, è vero. Ma Luria è comunque feccia. Non credevo che potesse essere così spregevole. Pensavo che
pur con tutù i suoi difetti fosse ugualmente un gentiluomo.»
«Chi era? Quanti uomini hai avuto in vita tua?»
«Ti racconterò tutto. Forse questo non è il posto giusto, ma che differenza fa? Quando ce ne andremo
da qui, voglio che tra noi non ci siano segreti. Non da parte mia, almeno. In vita mia ho avuto tre
uomini. Oltre a te, voglio dire. Ma ne ho amato uno solo: Yasha Kotik, e anche lui soltanto per poco
tempo. Luria l’ho sposato per confusione, o forse mi ci ha indotto la mia sfortuna marcia. E stata una
follia fin dall’inizio. Già quando mi sono trovata con lui sotto il baldacchino nuziale ho capito che ero
diretta a un disastro. I greci lo definiscono con un’espressione… quando si fa qualcosa di assolutamente
inevitabile. Fato? No, non fato. Come sempre, è stata colpa di papà, ma ero abbastanza adulta da non
consentire che mi mettessero all’angolo.»
«Chi c’è stato tra Kotik e Luria?»
«Eh? Voglio tu sappia che quando Yasha Kotik e io ci siamo separati, sono rimasta completamente sola
per cinque anni. Aveva reso tutto talmente brutto che per anni non sono riuscita nemmeno a trovare il
coraggio di guardare un altro. Non sarò mai capace di descrivere che cosa mi ha fatto. E’ uno che
saprebbe offuscare il sole. Ho vissuto con lui a stento un anno, ma in quel periodo ho attraversato tutti i
sette cancelli dell’inferno. Molte volte, quando il papà mi minaccia della Geenna, penso di conoscerne
già tutti gli orrori. Per me non può essere! niente di nuovo. Sai, mi sono ammalata, e il dottor Margolin
mi ha letteralmente trascinato fuori da un abisso psicologico. Ha molti difetti, ma è un medico
straordinario. Il mondo non sa che persona notevole sia, perché la sua grandezza si fonda sulla pratica,
non sulle teorie. Ha una comprensione profonda della gente e immensi poteri ipnotici. Sa diagnosticare
un male semplicemente guardando un paziente.
Ma a suo modo è depravato e un po’ stupido. Su di lui si potrebbe scrivere un libro. Ha cercato di
sedurmi, ma mi è venuta una profonda avversione nei suoi confronti… forse perché è un amico così
intimo di papà. Né la sua ipnosi né tutti i suoi trucchetti junghiani hanno saputo vincere la mia
resistenza nei suoi confronti. Dice che per causa mia gli è venuto un complesso di inferiorità. La verità
nuda e cruda è che è tuttora innamorato di sua moglie, quella troia tedesca che è scappata a vivere con
un nazista. Ha anche una figlia, che ormai deve avere diciassette o diciotto anni. Voglio soltanto dire
una cosa: per cinque anni mi sono comportata come una vergine immacolata. Ho persino smesso di
leggere romanzi. Tutto ciò che concerneva l’amore mi rivoltava e terrorizzava. Quando volevo andare a
teatro, sceglievo rappresentazioni in cui non c’entrasse niente l’amore. Proprio allora davano I lupi di
Romain Rolland, che sembrava fatto su misura per me. Tu riderai, ma me ne stavo in casa a leggere
dizionari ed enciclopedie. Sono arrivata fino alla parte seconda del Faust. Ho persino letto le opere di
Clausewitz sulla strategia militare, anche se Dio sa quanto io odi la guerra.»
«Che cosa ne è stato di Yasha Kotik?»
«Non te l’ho detto? Si credeva che fosse stato assassinato dai nazisti, ma come dice il proverbio? La
feccia viene sempre a galla. E scappato in Russia e vi è diventato un grosso nome. Una volta sono
andata in un cinema dove davano un film russo, e ci recitava lui. Si era fatto crescere la barba, credo.
Non appena l’ho visto sono scappata via. Ho sentito dire che adesso è in Polonia, o chissà dove. Il papà
è convinto che sia morto. Non è uomo da serbare rancore, soprattutto per uno che è quasi stato
martirizzato, ma ogni volta che gli viene in mente Kotik dice sempre: ‘Possa essere l’ultimo della sua
stirpe’.»
«Hai una sua foto?»
«No, ho buttato via tutto. Perché non mangi la marmellata?»
«Chi era l’uomo di Casablanca?»
«Eh? Te lo dirò. Ma forse è meglio che rimandiamo a un altro momento.»
«No, voglio saperlo.»
«Non devi pensare che volessi nascondertelo. Ho deciso subito di non tenerti segreto niente. Voglio
venire a te pura come andrei da Dio, e se il mio passato ti disturba, dimmelo chiaro e tondo subito. Mi
rendo conto che sei uno di quegli uomini che si ingelosiscono del passato di una donna, anche se non
sei poi quel puritano nemmeno tu. Ma non voglio che tra noi ci siano bugie o malintesi. Prendimi come
sono o lasciami perdere.
«Quando sono andati al potere i nazisti, siamo scappati in Francia. Non ero mai stata a Parigi prima di
allora e mi immaginavo meraviglie di ogni genere. Sai di sicuro quello che scrivono su quella città, e
mentre abitavamo lì ho avuto più powodzenie, più successo di quanto avessi mai avuto altrove. Ai
francesi piacevo. E qualsiasi altra cosa siano, i nostri ‘francesi’ ebrei di Varsavia e Bucarest sono gente
autenticamente colta. Ma tutto sommato Parigi non aveva nessuna vera attrattiva per me.
Certo, tutto era bello, e forse ancor più interessante dal vero di quanto sembrasse nei libri, ma non ero
nello stato d’animo romantico necessario per poterne godere. Quando arrivò lo sconvolgimento di
Vichy e scappammo in Africa, però, qualcosa mi si risvegliò dentro. Se fosse il clima, o la pena e la
terribile tensione, non so. Rischiavamo di continuo la vita. Non posso dirti che tempra di giocatore è il
papà. O non ha la minima idea del terrore o è un tale santo che gli angeli lo proteggono. E’ riuscito a
salvare tutto, fino all’ultimo centesimo, e come ci si sia riuscito, e quante volte abbia messo a rischio la
vita, ho persino paura di pensarlo. Non è avido di denaro. Ha regalato grosse cifre al dottor Halperin e
al professor Shrage.
E capace di buttare via migliaia di dollari, ma quando se lo mette in testa è capace di buttarsi nel fuoco
per un groschen. Non puoi neanche cominciare a immaginare che cosa io abbia vissuto. Non ho
dormito per notti e notti. Il papà una volta mi ha raccontato una storia tratta dalla Torah: che Giacobbe
attraversò un fiume per poche brocche di olio. Forse la conosci.»
«Sì, è nella Ghemarà.»
«Il papà ha detto che è nella Bibbia.»
«Nella Bibbia si dice che, scappando davanti a Esaù, Giacobbe attrave’-‘sò il Giordano una seconda
volta, e la Ghemarà cerca di spiegare perché.»
«Be’, se non altro ricordo qualcosa. A Casablanca stavamo nello stesso albergo di una famiglia di ebrei
profughi dall’Italia: marito, moglie e un figlio di ventun anni, Cesare,»
«Quindi è stato lui il tuo amante?»
«Sì. Te lo immagini? Non capisco io stessa come sia successo. Era un bambino, e al confronto io ero
una donna matura. Erano scappati da Mussolini. Il padre, Pietro, aveva una manifattura. La madre,
Bianchina, non era ebrea: suo padre era stato macchinista di ferrovia sotto Mussolini e lo avevano
mandato in Abissinia. Cesare aveva studiato giurisprudenza a Roma, ma era un giovane raffinato, un
vero figlio di mamma, e ricordo la prima cosa che gli ho detto non appena ci siamo conosciuti: che
sarebbe diventato un avvocato scadente. In compenso era un organizzatore straordinario. Tra noi
parlavamo in francese. Non so come, ma ha messo le mani su una motocicletta e ci scorrazzava qua e là
come un matto. Dove riuscisse a procurarsi la benzina, per me è un mistero. La cosa preoccupava a
morte sua madre, perché aveva già perso un figlio maggiore in guerra.
«Non so capire come quel ragazzo abbia esercitato un simile effetto su di me. Forse era semplicemente
fame di sesso, forse soltanto rassegnazione. A Casablanca avevo la sensazione che tutto stesse per finire,
come se da un momento all’altro la terra dovesse scontrarsi con una cometa. Non appena mi ha visto si
è innamorato di me come possono farlo soltanto i ragazzi di quell’età. Era del tutto innocente: non
aveva mai avuto una donna prima di allora. Non c’era bisogno che me lo dicesse. Il tutto non è durato
più di due mesi, perché ci ho messo poco a calmarmi. La madre sapeva che cosa stava succedendo e
non voleva scandali.
A quanto pare pensava che volessi sposare suo figlio. Papà naturalmente non ne sapeva niente. Mio
Dio, se sapesse di che cosa è capace la sua piccola Anna! Ho parlato chiaro con Cesare e gli ho detto
che la storia doveva finire, ma non è stato facile. Gli è venuta la dissenteria e ha dovuto essere portato
in ospedale. Ha persino minacciato di uccidersi.
Io ho un singolare talento: tutto ciò che tocca si trasforma in caos.
Come finalmente me lo sia tolto dai piedi, non posso dirtelo adesso. Ma proprio allora è comparso in
scena con discrezione Luria. Com’è poi apparso chiaro, io stessa non c’ero con la testa. Da parte mia
non si trattava di amore, né per Luria né per Cesare, anche se era un ragazzo come si deve: sveglio,
intelligente e sensibile da far paura. Mi ritrovavo con la sensazione di essere sua madre, sebbene avessi
soltanto sei anni più di lui.»
«Adesso dov’è?»
«Perché sei così pallido? E’ a Milano, e ha moglie e due figli.»
«Sei in corrispondenza con lui?»
«Mi manda una cartolina a Capodanno. Si ricorda anche del mio compleanno.»
«E’ì tutto?»
«E’ tutto, mio carissimo. Dio stesso non potrebbe dirti di più. In realtà, non ho amato nemmeno Yasha
Kotik. Il mio vero amore sei stato tu, dal giorno in cui hai cominciato a venire in casa nostra, ma non
potevi pretendere che nei ventitré anni in cui siamo stati separati ti rimanessi fedele. Non avrei mai
immaginato che ci saremmo rincontrati.»
«Su, andiamo.»
«E’ tutto ciò che hai da dire? Ho qualche pentimento per la mia vita, ma non voglio sentire rimproveri
da te.»
«Non ne sentirai nessuno.»
«La tua espressione è cambiata… Che cosa vuoi fare? In che cosa ci stiamo imbarcando? Bada, Hertz:
se hai il minimo dubbio, non cominciamo nemmeno. Non posso raccontarti che cosa ho vissuto da
quando abbiamo parlato al telefono ieri. Non sono ancora passate ventiquattro ore, ma mi sembrano
anni. Il papà ha fatto una scenata così stupefacente che è un miracolo se sono ancora viva. Ho pensato
che non sarei mai vissuta abbastanza da rivederti. In realtà, ero venuta per dirti che dobbiamo
dividerci», disse lei improvvisamente, sbalordita dalle sue stesse parole.
«Davvero?»
«Sì, davvero. Hanno cercato di farmi sottomettere. Ma mentre ti stavo aspettando nell’ora in cui non
comparivi, mi sono resa conto che non posso vivere senza di te. Sarà bene tu sappia che sto violando il
giuramento più sacro che io abbia mai fatto, e che perderò tutto. Se credi che io sia un’ereditiera, ti
sbagli di grosso. Il papà ha giurato che non mi lascerà più di un dollaro. Non ho nient’altro che i miei
gioielli e un po’ di soldi in banca.»
«Non ho bisogno dei tuoi soldi.»
«Ho un po’ di obbligazioni di guerra che valgono qualche migliaio di dollari, ma matureranno soltanto
fra qualche anno. Sono una donna povera, e per giunta con un passato. Ah, sì, dimenticavo la cosa più
importante: Luria ha giurato che non mi concederebbe mai il divorzio. La scorsa è stata una notte di
giuramenti. Ciascuno di noi ne ha fatto uno.»
«Possiamo vivere insieme anche senza un divorzio.»
«Eh? Per te va bene, ma per me è una novità. Che cosa faremo? E tua moglie?»
«Non ha fretta neanche lei di divorziare.»
«In altre parole, tu resti con tua moglie e ti becchi anche me?»
«Posso andarmene da casa, ma non posso costringerla a concedermi il divorzio. Lo sai bene anche tu.»
«So tutto, ma come sistemeremo le cose? Se credi di poter andare avanti e indietro tra me e lei, ti sbagli.
Te l’ho detto chiaro; quando voglio un uomo, lo voglio sino in fondo. Spero che questa notte tu abbia
pensato bene a ciò che stai per fare e a quale sarà il tuo atteggiamento nei miei confronti. Tu non devi
procedere a grossi aggiustamenti. I tuoi figli sono grandi. Tua moglie non ti ha comunque mai avuto.
Ma per me si tratta di un cambiamento fondamentale. Ho sacrificato il papà per te.
Non sto parlando soltanto dei suoi soldi e di tutti gli altri vantaggi.
Per me questo passo significherà la felicità totale o una condanna a morte. Forse entrambe.»
«Se non sei decisa, non farlo.»
«Io ho deciso. Ma bisogna che decidi anche tu. Non siamo bambini. Tanto per cominciare, devi aver
voglia di fare ciò che stai facendo, e non soltanto tirare avanti sconsideratamente. Secondo, dobbiamo
avere un piano. La strada che stiamo scegliendo è piena di trappole, e se non programmiamo tutti i
particolari in anticipo, ci faremo male.»
«Non c’è nessuna trappola. Non moriremo di fame. Posso guadagnare abbastanza per entrambi. Nelle
nostre condizioni, non possiamo pensare di avere un figlio.»
«Perché no? Io voglio averne uno da te. Lo desidero più di ogni altra cosa. Sono una donna normale.
Ho sentimenti materni. Fino a ora non ho avuto un figlio perché non ho avuto il marito giusto. Ma
questo non significa che debba restare incinta subito. Possiamo aspettare qualche anno, e nel frattempo
io non starò con le mani in mano. Sono figlia di Boris Makaver. Il papà non ha mai fatto un affare senza
di me. Sia in Germania sia qui, la sua ricchezza è mia quanto sua. Ma non voglio trascinarlo in tribunale.
In America si possono fare i soldi. Basta volerlo. Se dovremo, posso vendere le obbligazioni di guerra e
i gioielli. Insieme dovrebbero rendere circa quindicimila dollari. Non è un granché, ma possiamo partire
da lì. E tu? Quanto hai?»
«Posseggo azioni per venticinquemila dollari.»
«Eh? Non è molto. Ma con i miei fanno quaranta. E tua moglie? Dovrai pagare il suo sostentamento.»
«Arriverò a un accordo con lei.»
«Se il papà pensa di poter fare affari senza di me, si sbaglia. Ma a questo penseremo più avanti. La mia
finalità è che arriviamo ad avere centomila dollari nel giro di cinque anni. Forse di più. Prima o poi
riusciremo a ottenere il divorzio entrambi… tu come me. Che progetti hai per oggi?»
«Di essere felici.»
«Io lo sono già, sciocco! Più felice di quanto sia mai stata in vita mia!»
CAPITOLO 6.
Il professor Shrage trafficava in camera sua. Era calato il crepuscolo invernale, ma non accese le
lampade. La luce elettrica non gli piaceva, prima di tutto perché era convinto che gli facesse male agli
occhi, e poi perché – come tutta la luce in genere – scacciava gli spiriti e ottundeva il sesto senso, la
coscienza delle questioni ultramondane.
Sulla scrivania teneva una bugia di ottone con una candela di cera. Per quanto possibile evitava di
servirsi delle innovazioni meccaniche degli ultimi cento anni, nella convinzione che il progresso
tecnologico era stato realizzato ai danni delle facoltà spirituali del genere umano.
Prendeva di rado la metropolitana. Non usava mai l’ascensore: per fortuna la signora Clark abitava al
secondo piano. Non parlava al telefono. Quando la signora Clark non era a casa, l’apparecchio poteva
trillare tutto il giorno e lui non sollevava mai la cornetta.
Nell’appartamento c’era una radio, ma non l’accendeva mai. A che cosa servivano tutte quelle cose
ridicole? Quale beneficio davano agli esseri umani? Certo, le onde elettromagnetiche sono una grande
meraviglia, ma lui era convinto che fosse peccato usarle a fini volgari. Perché aggiogare angeli a un
carro quando si possono usare i cavalli? Che gli angeli lo consentano è semplicemente una prova della
loro magnanimità.
Fuori era inverno, e il vapore gorgogliava nel calorifero. Al crepuscolo il cielo si era fatto viola. Stava
cadendo una neve sottile che gli ricordava Varsavia. Già, dov’era lei, adesso: Edzhe? Comunque fosse, il
suo corpo non era più qui. Era probabilmente stato ridotto in cenere dagli assassini nazisti. Ma la sua
anima? Dov’era rifugiata? Sapeva che il suo David era a New York? Sapeva che pensava a lei ogni
giorno, ogni ora, forse persino ogni minuto? O era magari in luoghi tanto eccelsi, circondata da una tale
luce, sotto una protezione tanto sublime che la terra e tutte le sue faccende non la interessavano più?
Tutto era possibile. Una cosa, però, il professore sapeva per certa: tutti questi «messaggi» che riceveva
da lei tramite la signora Clark erano bugie e falsità. Edzhe sembrava che dicesse sempre la stessa cosa:
che lassù nelle sfere supreme tutto le andava benissimo, che si prendeva cura delle anime giovani non
appena arrivavano lassù dalla terra. Pareva che fosse diventata una specie di insegnante o educatrice,
una cosa del tutto estranea alla sua datura. I segnali che offriva erano ambigui. In tutti quegli anni non
aveva mai nominato la cassetta di sicurezza che aveva pres’so la Cassa di Risparmio di Polonia. Non
aveva dato un solo segno che potesse convincerlo. Significava che la signora Clark Era semplicemente
una bugiarda? Ma a quale prò simili menzogne? Era lei a mantenere lui, non viceversa. Era innamorata
di lui? Nel qual caso, perché non si lasciava toccare? Lui era preso spesso da un desiderio virile, un
bisogno puramente fisiologico, ma lei voleva soltanto amore platonico. Desiderava soltanto confortarlo,
allietarlo ed esibirlo alle amiche intime. Personalmente sembrava essere fredda come il ghiaccio.
Manifestava apertamente una forte avversione nei confronti del sesso.
Be’, chi può capirle? La donna è un groviglio di volontà cieca. E’ come la materia: inerte, impenetrabile,
ponderosa, sinistra. Quella lì agiva senza nemmeno sapere che cosa facesse, o perché. I suoi scritti
automatici erano pieni di lui. Nei suoi dipinti, l’immagine di David Shrage compariva di continuo. Lo
aveva talmente confuso con il defunto marito, Edwin Clark, da non sapere più dove finisse uno e
cominciasse l’altro. Il professor Shrage avrebbe accettato da un pezzo l’idea che la signora Clark stesse
prendendo in giro contemporaneamente lui e se stessa, se non fosse stato che, negli anni trascorsi con
lei, erano accadute molte cose che lui non era in grado di spiegare razionalmente.
Più volte, seduto al buio con lei, aveva avuto coscienza di un vento freddo, sebbene sia la porta sia la
finestra fossero chiuse. Il tavolo su cui posavano le mani si sollevava davvero. Sebbene avesse spesso
commesso errori stupidi, lei gli aveva anche fornito una serie di risposte autentiche.
Ma le vere meraviglie, che il professore non avrebbe mai potuto scordare, riguardavano Netty, la nipote
morta della signora Clark. Gli si era materializzata davanti tre volte. Compariva dal nulla. Nel buio pesto
lui le aveva preso la mano, accarezzato i capelli. Aveva sentito le sue pulsazioni e le aveva picchiettato
sul petto. Lei gli aveva anche mormorato qualcosa e sfiorato l’orecchio con le labbra. Poi era aleggiata
via da lui, svanendo di nuovo nel nulla.
Quando la signora Clark aveva acceso la luce, nella stanza non c’era più nessuno. Durante tutta la
manifestazione di Netty, la signora era rimasta in trance. Il professore si diede uno strattone alla barba:
se si era davvero trattato di Netty, tutta la scienza era un enigma. Tutti i valori andavano riconsiderati. Se
era veramente Netty, significava che gli spiriti possono farsi corporei in qualsiasi momento, non
semplicemente assumere la forma di corpo ma acquisire anche un cuore che batte, un sangue che
scorre, membra calde e vigorose. Ma come può uno spirito produrre un simile corpo? Da dove ne
ricava la materia? Come costruisce se stesso in pochi attimi fuggenti? E che cosa ne è dopo? E c’era
un’altra cosa: se tutto ciò poteva essere, com’era possibile sapere per certo, incontrando una persona
per strada, uomo o donna, se fosse un essere umano vivo o uno spirito materializzato?
Sembrava che, sebbene dopo la morte di una persona il suo corpo fisico rimanesse qui, quelli cosiddetti
astrali fossero simili a quelli fisici sotto ogni profilo. Nel qual caso, perché Edzhe non gli si
materializzava davanti? E che cosa facevano i corpi astrali nello spazio? Ruotavano con la terra sul suo
asse e giravano attorno al sole?
O esistevano al di fuori di tempo e spazio? Oppure, forse, la signora Clark lo aveva ingannato ancora
una volta. Forse aveva nascosto prima una persona in casa e combinato le cose in modo che gli
apparisse davanti. Se le cose stavano così, la signora Clark era una volgare imbrogliona, una creatura
spregevole, un essere indegno. Ma, in definitiva, ogni crimine deve avere un motivo. Perché avrebbe
dovuto indulgere a una simile doppiezza? Per quanto ne sapeva lui, era una donna profondamente
religiosa, di animo gentile, pronta a sacrificarsi per gli altri. Pensava giorno e notte al fine ultimo del
genere umano, al motivo della sua esistenza sulla terra e al suo ruolo in questa vita come in quella a
venire. Come avrebbe potuto una simile persona fare cose più degne di un criminale? Che cosa ne
ricavava? Denaro? Onore?
Fama?
No, no, non va bene, non va bene, borbottò tra sé il professor Shrage, Tutto è creato in modo tale che
rimaniamo perpetuamente nel dubbio. A quanto pare abbiamo bisogno di tale incertezza ai fini della
libertà del volere.
La stanza si fece buia. Soltanto una luce lontana filtrava attraverso la finestra. Il professore sentì il sibilo
del vapore nelle condutture del riscaldamento centrale. Cantava un motivetto, monotono ma spavaldo.
Il fatto si è, pensò il professor Shrage, che non vi è differenza di fondo tra la vita e la cosiddetta morte.
Tutto vive: la pietra per strada, il vapore nelle tubazioni, gli occhiali sul mio naso. E’ semplicemente
questione di livello. La morte non esiste: ecco la risposta a tutte le domande circa la natura
dell’esistenza. E il fondamento su cui ogni essere pensante deve basare i propri ragionamenti.
Di punto in bianco sentì suonare alla porta d’ingresso. Chi poteva essere? Henrietta aveva la chiave.
Una raccomandata, forse? Il professore ebbe una breve esitazione: doveva aprire la porta o no? Ma il
campanello suonò di nuovo, questa volta forte e a lungo. Si alzò e ciabattò al buio fino all’ingresso.
«Chi è?» chiese con voce tremula.
«Sono io, Stanislaw Luria.» Il professore non sentì chiaramente il nome, ma la voce gli parve familiare.
Sollevò il paletto e aprì la porta.
Il professor Shrage aveva conosciuto Stanislaw Luria a Varsavia. Come lui, Luria era figlio di genitori
benestanti. Suo padre era socio di una conceria e proprietario di diversi palazzi. Luria frequentava i suoi
stessi ambienti. Aveva anche un certo interesse per la ricerca psichica, e una volta si erano trovati seduti
accanto a un tavolo che si era sollevato dal pavimento. E lì a New York avevano rinnovato la
conoscenza. Shrage incontrava spesso Luria a casa di Boris Makaver. Però non sapeva ancora niente di
ciò che c’era stato tra lui e Anna. Anche se non si considerava acuto, e capitava spesso che non si
accorgesse delle cose più evidenti, gli parve che Luria fosse cambiato da due sere prima, quando
avevano trascorso la serata insieme. Nei due giorni trascorsi sembrava essersi fatto più vecchio e curvo.
Nell’atrio non era accesa nessuna lampada, ma vi arrivava la luce del corridoio. Il professore si vide
davanti un uomo di mezza età, con gli abiti in disordine, la faccia di un giallo itterico, borse sotto gli
occhi, fronte aggrottata e una zazzera di capelli troppo scuri per essere del loro colore naturale. Un paio
di occhi bruni guardavano opachi da sotto due sopraccigli cespugliosi, dardeggianti, gonfi del dolore di
chi sta vivendo una tragedia. Tramite chissà quale facoltà extrasensoriale il professore percepì uno stato
d’animo desolato, implorante, sofferente.
Si sentì quasi disorientare.
Fece un passo indietro quasi volesse sbattere la porta in faccia al visitatore.
«Panie Luria, è lei?» balbettò. «Su, entri… prosz? bardzo. Benvenuto.»
«Spero di non averla disturbata, professore», rispose Stanislaw Luria in un risonante tono di basso che
sembrava emanare dal profondo del suo intimo e aveva una vena di aggressività.
«Come potrebbe disturbarmi? Non stavo facendo niente. Come dice Geremia: ‘Sieda costui solitario e
resti in silenzio’. Entri, entri. Fuori fa freddo, vero?»
«Perché non accende la luce?»
«Eh? Ah, sì, l’accenderò. Sto lì a sedere perduto nei miei pensieri e non mi rendo nemmeno conto che è
buio.»
«Intende dire, professore, che sta ancora seduto con il rebbe a godere l’ultimo pasto dello shabbath?»
«Eh? Può darsi. Su, entri. A dirle il vero, in realtà non so come si faccia ad accendere la luce. Dovrebbe
esserci un interruttore da qualche parte, ma non so dove. Magari lo sa lei.»
«Oh, professore, è davvero una persona priva di senso pratico», lo rimproverò bonariamente Luria. «Ho
telefonato, ma non ha risposto nessuno. Sento dire, professore, che lei evita di usare il telefono.»
«Evito? Non so venirne a capo. Quelli che chiamano parlano in inglese, e mi risulta difficile capire che
cosa dicono. L’inglese l’ho imparato da Shakespeare, ma qui lo parlano troppo in fretta ed è tutto slang.»
«Be’, si può imparare a capire tutto. Quando sono arrivato qui non sapevo una sola parola di inglese, e
adesso leggo agevolmente i giornali… cioè, tranne le pagine dove scrivono di sport, teatro e corse di
cavalli. Per quelle usano una lingua totalmente diversa.» Al buio, nel chiarore che veniva dal corridoio,
Luria si tolse le calosce e appese a un attaccapanni il cappotto di pelo con il collo di volpe. Quindi il
professore lo guidò nella sua camera. Luria lo seguì con passi malsicuri. Una volta arrivati, il professore
trovò i fiammiferi e accese la candela che era colata lungo la bugia di ottone.
Lo stoppino non prese immediatamente, e la fiammella vacillò per un po’, quasi incerta se accendersi o
spegnersi. Luria si sedette pesantemente in una poltrona imbottita. Indossava un abito estivo a scacchi
gialli e una cravatta bianco–azzurra a pois, con ghette sulle scarpe. La faccia non era rasata e scura di
stoppia. Il professore notò che uno dei suoi orecchi non aveva lobo e rimaneva attaccato alla guancia.
«Quindi lei sa anche portare la luce», disse Luria in un tono tra l’affermazione e la domanda. «Non
vuole prendere atto della civiltà, professore. E’ rimasto al diciottesimo secolo e, per quanto la concerne,
le modernità possono andare al diavolo.»
«No. Ogni epoca ha il suo ruolo», parve giustificarsi Shrage. «La luce elettrica mi fa semplicemente male
agli occhi. Persino di sera porto gli occhiali scuri.»
«E’ tutto un prodotto del pessimismo.»
«Pessimismo? Dipende soltanto dalla mia vista. Già da bambino, quando uscivo nella neve, i miei occhi
cominciavano a lacrimare. Non sono mai potuto andare al cinema», e il professore usò l’espressione
francese.
Era sempre in cerca delle parole, gli mancava perennemente la frase giusta.
«Che cosa c’è da vedere al cinema? Soltanto gangster, in continuazione.
Nei film russi fanno vedere interminabili sfilze di trattori, e nei nostri… gangster. Dipende dal fatto che
entrambe le parti esibiscono ciò di cui hanno meno. Se i russi dovessero far vedere tutti i loro banditi e
noi tutti i nostri trattori, il film non finirebbe mai.» Il professore sembrò rifletterci sopra un po’.
«Sì, ma ormai sono troppo vecchio. Quando ho un po’ di tempo libero preferisco leggere o
semplicemente riposare. Ai miei tempi, soltanto i bambini andavano agli spettacoli con la lanterna
magica. Poi, quando hanno aperto – come si chiama, qui, quella roba con Charlie Chaplin e tutti gli
altri? -, hanno cominciato ad andarci gli adulti.»
«E’ vero. Ma va tutto bene finché la gente rimane calma e tranquilla.
Quando capita una catastrofe, però, e il suolo ci si disintegra sotto i piedi, e si rimane sospesi a
mezz’aria con un piede nel mondo reale e l’altro su un abisso, non possono consolarci tutte le arti del
mondo.
Allora si capisce che si è camminato tutto il tempo su un’angusta asse a cavalcioni della Geenna.»
«Eh? Sì, è vero. Ai miei tempi…»
«Mi scusi se la interrompo, professore», disse Luria cambiando tono.
«Non sono venuto qui semplicemente per farle perdere tempo. So che è preso a fare esperimenti, o a
riflettere sulla matematica e altre materie ponderose. Non è nel mio carattere piombare addosso alla
gente in questo modo, in particolare a una persona della sua levatura. Se non risponde al telefono,
significa che non è interessato al mondo esterno ma preso dai suoi pensieri… quindi perché seccarla
con sciocchezze? Sono venuto qui, professore, per una questione che potrebbe interessarle da un punto
di vista professionale, per così dire. Rientra nel suo campo di conoscenze.»
«Eh? Lei è benvenuto in casa mia», rispose il professore. «Perché no?
Siamo in rapporti familiari da un pezzo.»
«Mah, che cosa sarebbe familiare? Secondo me tutto ci è alieno. Mi guardo un dito e mi appare del tutto
estraneo. Che cosa ne so dei complicati processi che si svolgono al suo interno? O da dove viene
l’unghia? E che cosa accadrebbe se il dito mi venisse di punto in bianco reciso? In un baleno non
sarebbe più parte di me ma un oggetto alieno, e non mi importerebbe più se lei lo pungesse, o persino
se lo desse da mangiare a un cane. E lo stesso vale per tutte le mie membra. Certo, ci sono parti senza
cui non sarei in grado di vivere. Ma anch’esse non compongono tutto l’essere umano. Che cosa ne so di
quello che succede nei miei polmoni? Come fanno a capire di aver bisogno di inspirare ossigeno? Lo
hanno fatto per milioni di anni prima che gli esseri umani arrivassero soltanto a capire che ciò accade.»
«Sì, certo. L’intelligenza dell’uomo non risiede tutta nel cervello», rispose il professore.
«E dove risiede, allora? Secondo una certa teoria, ogni organo avrebbe la sua intelligenza, e anche le
cose inanimate. Ma io sono scettico e lo rimarrò. Si possono fare mille ipotesi, ma in ultima istanza la
verità si trova su un altro pianeta.»
«Sì, sì. E evidente di per sé…»
«Professore, ho deciso di uccidermi», replicò Stanislaw Luria alzando leggermente la voce, «ed è a
questo riguardo che sono venuto da lei.
Voglio aiutarla nei suoi esperimenti. Mi piacerebbe, come si suol dire, essere un suo collaboratore. Oggi
ho destinato il mio corpo al dipartimento di anatomia della Columbia University.»
«Che cosa sta dicendo? Che cosa sta dicendo?» gridò il professore. «Dio ne scampi!»
«Due sere fa mia moglie mi ha lasciato, professore. Lei la conosce, naturalmente… la figlia di Boris
Makaver.»
«Sì, sì, certo.»
«Se n’è andata con Grein, conosce anche lui, il broker di Wall Street.»
«Non c’è bisogno che me lo rammenti. Siamo stati tutti insieme soltanto questa settimana.»
«Professore, so che è un po’ distratto. Si preoccupa delle sfere superiori. Ma è interessante anche ciò che
succede in questo mondo, molto interessante. Grein ha figli grandi. Potrebbe diventare nonno presto.
Per giunta ha un’amante, una certa Esther. Magari conosce anche lei, professore.»
«Sì, sì. Il suo primo marito si chiamava Piniele.»
«E’ lei. Un po’ eccentrica. Parla moltissimo. Be’, compare in scena un tipo così e, come si suol dire, ruba
l’agnello al poveretto. Ho perso tutto, professore, e quando si perde tutto non si ha più voglia di vivere.
Quindi ho destinato il mio corpo alla Columbia University. Hanno bisogno di cadaveri, lì. Per quanti ne
ricevano, ce ne sono sempre troppo pochi. A lei, professore, mi piacerebbe, se si può metterla in questi
termini, donare il mio spirito, ammesso che uno spirito esista. A mio modo di vedere non esiste affatto,
se non altro perché nessuno ne ha mai visto uno. In secondo luogo, dove sarebbe questo spirito? La
terra ruota sul suo asse e gira attorno al sole. Uno spirito dovrebbe perciò ruotare insieme alla terra, e
quindi essere vincolato a tempo e spazio.
Di conseguenza cesserebbe di essere uno spirito.»
«Gli spiriti non esistono in tempo o spazio.»
«Ma supponiamo che la terra dovesse spostarsi in un’altra galassia. Non è possibile che lo spirito possa
rimanere qui, chissà dove, in definitiva, o che sia su Marte.»
«No, però…»
«So, professore, so tutte le risposte che cercherà di darmi. Ma che cosa provano? Né lei né io siamo stati
in cielo. Tutto richiede una spiegazione empirica, professore, ed ecco perché sono venuto da lei. Sto per
lasciare questo mondo e, se conserverò un’identità e una memoria, farò tutto il possibile per
comunicare con lei, per darle un segno. Trascorse due settimane, professore, se non avrà avuto mie
notizie, sarà un’indicazione che o non esisto più, e ciò che non esiste non può ovviamente mantenere la
parola, o che non ho il potere o l’opportunità di mandare un segnale, e quindi me ne occorre uno da
lei.»
«Lasci perdere, non faccia niente di stupido!» si precipitò a replicare Shrage. Le parole sembrarono
costargli un grosso sforzo e furono pronunciate tutte affastellate, senza una pausa tra di esse. Si fece
rosso in faccia.
«Voglio essere perfettamente franco con lei, professore: non sono venuto a chiedere il suo consiglio. E’
fuori di dubbio che lei è un uomo colto, ma quando si tratta di questioni private nessuno può insegnare
niente a un altro. Anche mentre ce ne stiamo qui seduti, nel mondo qualcuno si sta uccidendo, e
nessuno può fermarlo. Ho sempre saputo che la mia fine sarebbe stata questa, professore. Ciascuno di
noi ha un suo destino, cui non può sfuggire. Io ci credo. Prima di sposare Anna avevo contemplato
l’eventualità del suicidio perché la mia famiglia era stata assassinata dai nazisti, e vivere solo non aveva
senso. Ma di punto in bianco Anna si è introdotta a forza nella mia vita, e un motivo per vivere è
tornato. Ero sbalordito io stesso. Possibile che il mio destino si fosse rovesciato? Di solito non cambia.
Ma adesso che Anna se n’è andata in un modo così improvviso e crudele, senza neanche un saluto,
come se la nostra vita in comune non fosse stata che uno scherzo, ho capito che le potenze mi avevano
dato una falsa speranza. Qui in America ci sono persone che sono state condannate a morte, ma stanno
chiuse a Sing Sing ad aspettare anni e anni prima che venga finalmente impartita loro la sedia elettrica.»
«No, no, non lo faccia! Non lo faccia!» Come prima, il professore parlò a precipizio e con difficoltà. «Ci
è proibito ucciderci… Che intelligenza serve per farlo? Si prende un coltello e… Non è la soluzione!»
«Ho letto Schopenhauer. Proprio oggi ho dato ancora un’occhiata ai suoi saggi. La volontà del mondo,
dice, non si può estinguere. Ma io non ho nessun desiderio di uccidere la volontà del mondo… soltanto
di mettere fine ai miei guai. Mi consenta di farle un esempio, professore. Diciamo che a casa io abbia
una radio a volume altissimo, il cui continuo frastuono mi stia rendendo sordo. Supponiamo che io
possa spegnerla.
Chiunque sia stato in Russia durante la guerra conosce molto bene simili radio. Da quelle parti
appendono altoparlanti nelle case della gente perché strepitino tutto il giorno propaganda comunista.
Non si può neanche fare un pisolino. Tutto il giorno e tutta la notte si è costretti a sentir parlare della
grandezza del Compagno Stalin e di tutto ciò che sta facendo per far progredire il socialismo. Be’, io so
di un caso in cui un tale ha preso un’ascia e ha sfasciato l’altoparlante. Anche se per un gesto del genere
si viene mandati in Siberia, quell’uomo non riusciva più a sopportare le bugie. Era lì a casa sua,
affamato, mezzo nudo, congelato, ma l’altoparlante continuava a sproloquiare sugli immensi benefici
che Stalin aveva portato al popolo russo, e su come fosse dura la vita per gli operai nell’America
capitalista. Quindi quel tale ha sfasciato l’altoparlante e l’ha fatta finita. Ma a che cosa ha messo fine?
Non allo stalinismo né alle bugie staliniste. Milioni di altri altoparlanti hanno continuato a echeggiare
per tutta la Russia. Ma costui voleva salvarsi l’udito, la mente. Forse voleva dormire un’ora. Non ero
presente di persona.»
«Un esempio mirabile. Se Schopenhauer lo avesse sentito! Davvero…»
«Professore, io di mestiere sono avvocato, non filosofo. Ma ho sempre avuto un’attrazione per i libri
colti. Capisco, capisco. Si può distruggere se stessi, ma non la vita. Nondimeno, quando si è disperati,
non si desidera migliorare il mondo, soltanto metter fine alla propria pena.»
«Sì, ma con la stessa ascia costui avrebbe potuto ammazzare un commissario… anche se personalmente
sono contrario a simili cose.»
«E quand’anche avesse ammazzato un commissario, che cosa sarebbe cambiato? Per ogni commissario
ci sono diecimila candidati che aspettano di prenderne il posto, e ciascuno di essi è probabilmente un
criminale anche peggiore, perché farebbe qualsiasi cosa pur di superare gli altri.
Ecco la lezione dell’altoparlante. A mio modo di vedere non si può distruggere nient’altro che se stessi.»
«No, neanche se stessi!»
«Be’, è proprio ciò che voglio sottoporre a esame. Se non ci si può distruggere, che cosa rischio di
perdere? Non può andarmi peggio là che qui.»
«Noi non comprendiamo il mistero della sofferenza.»
«Quale potrebbe essere questo mistero? A che scopo Dio, se un Dio c’è, aveva bisogno che sei milioni
di ebrei venissero spazzati via con una pena tremenda? Ed era necessario ardere i bambini?
Forse gli adulti avevano peccato, o Dio ha voluto metterli alla prova.
Ma i neonati di cui gli ufficiali tedeschi hanno fracassato la testa? E i bambini morti di fame? E i padri
costretti a scavare la fossa per se stessi e per i figli, mentre i nazisti erano lì attorno a trattare la faccenda
come un colossale scherzo? Che bisogno aveva Dio di tutto ciò?
Mi creda, professore, quei padri avevano attraversato l’inferno ancora prima di arrivare alla fine.»
«Sì, lo so. E un mistero, un mistero. Ma come incolpare Dio se alcuni scelgono di essere malvagi? Ha
dato loro la libertà del volere.»
«I neonati non ce l’hanno.»
«Le loro anime sono in un luogo a noi ignoto.»
«Dove sarebbero? Vorrei saperlo. Avevo anch’io due figli, e sono stati assassinati. Se esistono da qualche
parte, voglio vederli.»
«Tutti noi vedremo… quando verrà il momento… se ne saremo degni.»
«Io voglio vedere adesso. Ho forse ancora vent’anni da vivere. Per Dio è meno di un attimo, ma per me
è un sacco di tempo. Troppo. E non c’è niente che mi trattenga qui. Avevo un solo legame con la vita, e
adesso che lei se n’è andata voglio raggiungere i miei figli.»
«No, no, non lo faccia!» Il viso del professore si torse come per una profonda pena intima. «Non
possiamo sfuggire. Dio volesse che potessimo!»
«Possiamo, professore. E se non possiamo, forse vivrò in un mondo migliore, tra gente migliore. Qui
mi annoio, professore. Non ho più niente da fare. Ho, per così dire, concluso tutti i miei affari. Come
dice Shakespeare: ‘Chi muore ha pagato tutti i debiti’.» 4
CAPITOLO 7.
Il pensiero si era fatto parole e le parole azione. Appena parlato di fare un viaggio, già erano partiti.
Fuori del finestrino scorreva un paesaggio desolato: scolorito, giallastro, nebbioso, perso in una
pensosità vecchia come il Creato. A Grein sembrava che il cielo stesso fosse stupefatto: da dove vengo?
Chi mi ha steso sopra al mondo come una tenda? E da dove viene tutto il resto: alberi, fiumi, boschi?
Ogni cosa aveva una sua stupefazione particolare, ogni ramoscello, ogni vetro di finestra, ogni nuvola di
fumo sospesa sopra un camino. Per un attimo un uccello cercò di inseguire il treno, ma rimase presto
indietro.
Grein inspirò profondamente. Com’era tutto meraviglioso: essere seduto in un veloce treno espresso,
vedere il cielo e avere accanto a sé una persona di una specie diversa… un mistero di nome Anna.
Viaggiare in quel treno gli chiariva l’enigma del tempo. Si avvolge su se stesso come un rotolino; anzi,
no, come il Rotolo della Legge, che viene rapidamente riavvolto durante la Festa dell’Esultanza della
Legge, non appena sono stati cantati gli ultimi due capitoli del Deuteronomio e il lettore ricomincia da
capo con i primi sei della Genesi. Le prescritte letture settimanali dalla Torah scorrono via veloci, i
Cinque Libri di Mosè vengono letti rapidamente… ecco il Levitico, ecco i Numeri. Tutto si muove,
tutto si arrotola e tutto rimane: ogni parola, ogni lettera, ogni festività. E in questo specifico rotolo, che
cosa c’era scritto al suo riguardo? «E c’era un uomo, e si chiamava Grein; e quest’uomo abbandonò la
moglie e i figli e gli affari, e si recò in Florida con la moglie del suo amico; e nella sua licenziosità pensò
che non esistono Dio, legge, punizione, ma che tutto è caso; e, udite, i suoi giorni sulla terra erano
contati; e chi vedeva lontano aveva letto per tempo il suo epitaffio, vedendo la sua pietra tombale e
l’erba che cresceva sulla tomba; e nella sua cecità egli pensò che il suo piacere sarebbe durato per
sempre.» Si interruppe lì. Basta! Lei non è la moglie di un altro! In che senso sarebbe stata la moglie di
Luria? Semplicemente perché è stata con lui sotto un baldacchino nuziale e un rabbino ha letto un
contratto di matrimonio? Una donna è moglie soltanto dell’uomo che ama. E perché Dio esige un atto
di divorzio scritto? Non basta che una donna lasci apertamente ed esplicitamente il marito? Nessuno
può sapere che cosa ci sia scritto nel Libro Divino.
Aveva una giustificazione pronta per ciascuno dei suoi atti. Non è forse la felicità il fine unico di ogni
individuo, di ogni creatura? Fa davvero qualche differenza che uno desideri il piacere in questo mondo
o in Quello a Venire? Chi rifugge dalla felicità qui aspira ad averla là; persino chi si uccide anela al
riposo. I filosofi hanno capito che il perseguimento della felicità è il motivo centrale dell’esistenza
umana.
E lui aveva una sua filosofia: la felicità è senso del divino. Quando un essere umano è felice cessa ogni
questione, perché egli si unisce al divino. I cosiddetti oggetti inanimati sono sempre felici, per questo
non si lamentano mai. Ma la vita ha concesso un altro dono che allontana sempre più dalla felicità:
quello della libertà. La libera scelta è possibile soltanto se esistono felicità e infelicità, verità e menzogna,
successo e fallimento. La libertà va per mano con l’individualità.
Finché è rinchiusa in un corpo fisico, l’anima umana è costretta a comandare su se stessa, a cercare la
propria goccia di felicità nel grande oceano della beatitudine. L’imperversare di tale battaglia, seppure
temporaneo, rientra evidentemente nel progetto divino. La Cabbala lo spiega al meglio: onde rendere
possibile la Creazione, l’Ein–Sof dovette ritrarre Se stesso. Il mondo è un’isola di infelicità in un mare
di felicità. Il destino di ogni individuo è anelare in perpetuo all’essenza di ogni esistenza.
Anna sonnecchiava o fingeva di farlo. Era stata trascinata in ulteriori brutte scenate sia dal padre sia dal
marito. Luria non voleva lasciarle portar via le sue cose. L’aveva afferrata per la gola e aveva cercato di
strangolarla, aveva dato di piglio alla sua pelliccia di visone e l’aveva strappata. E adesso lei appoggiava
la testa all’indietro sul sedile imbottito. Gli occhi erano chiusi ma le labbra sorridevano, come a dire: ne
è valsa la pena. Ne è valsa la pena. Adesso ho ciò che desideravo. Sembrava confermare l’idea di Grein
che i guai sono puramente immaginari. L’unica realtà è il piacere. Lui scribacchiava su un taccuino con
una matita. Erano ormai anni che prendeva appunti per un libro, cercando di elaborare un nuovo tipo
4 William Shakespeare, La tempesta, atto 2, scena n. (N.d.T.)
di moralità edonistica: la felicità è das Ding an sich. Il sentiero della felicità è quello che porta a Dio.
Ciascun pianeta è un esperimento nell’ambito della felicità. Dio stesso non ha esaurito tutte le potenziali
combinazioni di felicità. Deve contare che le Sue creature sviluppino appieno tali poteri.
Ma Grein era del tutto incapace di trovare le parole giuste per esprimere tutto ciò che pensava.
Prendeva gli appunti in diverse lingue, in segni che soltanto lui sapeva decifrare e simboli di cui lui
soltanto conosceva il significato. In aggiunta tracciava figure di ogni genere, fiori, apparizioni munite di
corna, coda, scaglie, pinne. Se ogni cosa è divina come ritiene Spinoza (e deve sicuramente essere così!),
alla stessa stregua erano divini ogni sua immaginazione, ogni tocco della sua matita, ogni impulso del
suo cervello. Per un po’ scrisse nella grafia ebraica usata dagli scribi ebrei, alla maniera di suo padre, Reb
Jacob lo Scriba. Poi voltò la pagina e prese a schizzare una donna nuda. Era peccato? Tutto l’istituto del
matrimonio è un’invenzione dell’uomo.
Anzi, un vestigio di schiavitù. Non si può firmare un contratto vincolante su una questione che dipende
esclusivamente dalle emozioni.
Anna aprì gli occhi. «Che cosa stai facendo?»
«Niente, niente.»
«Con che cosa traffichi? Fammi vedere.» Anna gettò ai suoi disegni un’occhiata sospettosa, vagamente
sorridente, scientifica. Che cosa ne direbbe uno psicoanalista, per esempio? si chiese. Quest’uomo è
pieno di complessi. Chi può sapere che cosa passa per la sua mente di studente di yeshivah? E che cosa
sta pensando di me?
Avevano preso una cabina letto, ma adesso, essendo giorno, erano seduti nella carrozza bar.
Gli prese la mano. «Dunque siamo finalmente in viaggio!»
«Sì, tesoro mio, questo è certo.»
«Non ho mai creduto che sarebbe successo.»
«Chiedo a Dio una sola cosa; che Luria non faccia una stupidaggine.»
«Qualsiasi cosa faccia, non è colpa tua. Non si può costringere una persona ad amarne un’altra, così
come non si può costringere un altro a continuare a vivere.»
«Non voglio indurre nessuno a morire.»
«Vivrà, vivrà. Si vuole troppo bene. Ho più paura per il papà. Ma che cosa potevo fare? Ti dirò questo,
ma non fraintendermi: sono pronta a concederti anche la sua vita.»
«E’ un modo scioccante di esprimersi.»
«E’ assolutamente vero.» Avevano fatto l’amore il giorno prima, quello ancora prima, ogni giorno da
quando lei era venuta a lui, eppure continuavano a desiderarsi di nuovo. Le ultime parole di Anna
avevano riacceso la loro passione. Lei gli scoccò un’occhiata tra l’implorante e l’interrogativo,
facendoglisi più vicina e premendo il ginocchio contro il suo. Evidentemente la fame di carne agisce
secondo regole proprie. Le piace dissacrare il sacro, sfidare l’autorità. Le sue radici sono nei recessi bui
del cervello da cui sgorga la malvagità. Rimasero a sedere per un po’ in silenzio. Lui sembrava tutto
preso nelle sue sensazioni recondite. Leah non aveva mai pronunciato espressioni del genere. Era
sempre stata la madre di casa, anche prima di avere figli. Esther, per converso, era diventata un groviglio
sempre più intricato di dolori, recriminazioni, rimpianti.
Ormai parlava troppo di morte. Il fatto che le avesse lasciate entrambe per mettersi con Anna aveva una
sua logica ineluttabilità. Dotata di tutto com’era, giovinezza, forza, immaginazione, Anna era disposta a
dare pieno sfogo a tutti i cinque sensi. Ma lui poteva giustificare ciò che stava facendo? Dietro i suoi
sofismi e ambiguità, sapeva che stava ribellandosi al Creatore. Che cosa sarebbe successo se atti come il
suo fossero diventati la norma comune? La vita di famiglia e la paternità sarebbero cessate. Tutte le
donne sarebbero diventate puttane, tutti gli uomini libertini.
Subito dopo cena Grein e Anna tornarono al vagone letto. Le ultime notti nessuno dei due aveva
dormito più di tre o quattro ore. Che strano mettersi a letto in un treno in corsa, diretto verso un clima
caldo in una terra di palme e aranci. A cena Anna aveva ordinato champagne. Era, aveva dichiarato, il
primo giorno della loro luna di miele. A mano a mano che beveva si era fatta più sicura di sé,
scherzando con il cameriere, chiacchierando con la coppia seduta al tavolo dall’altra parte del corridoio,
ridendo troppo. Parlava correntemente in inglese, ma con accento tedesco. Gli americani nel vagone
ristorante si scambiavano occhiate. Quella profuga da Hitler portava una stola di visone sulle spalle,
orecchini di diamanti e un anello con un diamante enorme. Era difficile credere che milioni di esseri
come lei fossero stati arsi nei forni, avvelenati nelle camere a gas.
Anna accostò il bicchiere a quello di Grein e annunciò a voce altissima alla donna seduta dall’altra parte
del corridoio: «Ho atteso vent’anni questo giorno!»
«Ti prego, Anna, non parlare così forte!» mormorò lui in tono di rimprovero.
«Di che cosa hai paura? Ci è consentito essere felici!» Nel vagone letto trovarono il viaggio più
piacevole che mai. Il mattino dopo presto sarebbero stati a Miami. Non era ancora tardi, non più delle
nove, ma il giorno di viaggio, i pasti sostanziosi, il vino e la paura di imbattersi in qualche conoscente li
avevano lasciati stanchi e desiderosi di nascondersi, oltre che con un rinnovato desiderio reciproco.
Chiusero la porta e furono liberi. Spente le luci, caddero uno sull’altra con una passione carnale che
stupì persino loro. Si morsero a vicenda, con le bocche serrate l’una sull’altra come impossibilitate a
separarsi, in muta contesa per inghiottirsi a vicenda, lingua, gengive, gola e tutto il resto. Le mascelle di
Anna erano larghe come quelle di un animale, e nel modo in cui baciava c’era un’abilità piena di vigore.
Rimasero in piedi al buio come due lupi con le fauci incastrate, mentre fuori, nella notte, scorrevano via
campi di cotone, piantagioni di tabacco, riflessi di case, bagliori di fabbriche.
Diversamente dalle locomotive di un tempo, il motore diesel non fischiava ma emetteva l’ululato di un
mostro. Nel calore della loro passione, Grein sentì l’arrogante orgoglio del genere umano, dell’Homo
Sapiens che è strisciato fuori della caverna e ha soggiogato a sé e alle sue esigenze tutti i poteri nascosti
della natura. Lui e Anna erano il supremo esperimento di edonismo, impegnati a racchiudere un
massimo di esperienza in un minimo di tempo.
Non si spogliarono quanto piuttosto si strapparono gli abiti di dosso a vicenda. Grein aveva letto
proprio di recente un estratto della ricerca del dottor Kinsey, in procinto di essere pubblicata in forma
di libro, la cui conclusione era che il maschio raggiunge il massimo della potenza virile tra i cinquanta e i
sessanta, ma ciò che stava succedendo tra lui e Anna dimostrava che si trattava di un’affermazione
sbagliata. Lei aveva risvegliato in lui una vigoria che sembrava non aver mai posseduto. Come si può
trarre un’unità di misura generale della forza che sgorga dagli abissi più profondi dell’intimo,
dall’essenza che non è più apparenza ma la cosa in sé?
Un urlo simile al fragore del motore diesel si strappò dalla coppia, un grido di elementi in unione con
l’universo, con i suoi fini e i suoi poteri. Anna ripetè all’infinito le stesse parole: «Ti amo! Ti amo! Fino
alla morte! Fino alla morte!» Ansando, continuò a divagare in polacco, come ai tempi in cui lui era il suo
tutore, gemendo le espressioni violente e licenziose che sfuggono a chi è nudo fisicamente e
spiritualmente: frasi spezzate, esagerazioni folli, ripetizioni da ubriaca. L’unione non era quella di loro
due, ma di una potenza superiore che, tramite il mistero del magnetismo spirituale, dopo un lungo
anelito fosse divenuta un unico attraverso di loro. Lei e lui erano i semplici intermediari. «Voglio avere
un figlio da te!» gridò Anna. Lui le mise la mano sulla bocca in modo che non la si sentisse nel
corridoio, ma lei la strappò via e ansimò: «Ti amo! Ti amo! Voglio avere un figlio maschio con te!» E gli
morse il polso. Lui tastò i segni lasciati dai suoi denti. Si separarono e rimasero lì stesi, cercando di
riprendere fiato.
Semiaddormentato, a Grein parve che fosse la sera di Pasqua e che lui avesse bevuto i prescritti quattro
bicchieri di vino. Come suo padre, si era perduto in un atto di devozione. Simili estasi non erano
prodotto dell’aria fresca. Avevano radice chissà dove.
Mentre sonnecchiava, sentì il sordo rumore smorzato delle ruote e avvertì la carrozza ondeggiare sulle
molle. Il treno si fermò a una stazione. Evidentemente stavano smistando i vagoni, perché i respingenti
sbatterono tra loro. Mentre lui dormiva nella notte, c’erano sentinelle che montavano la guardia,
controllando gli assali, facendo segnali, accendendo fari per far luce. A modo loro, gli esseri umani
imitavano la Divina Provvidenza.
Si addormentò e sognò che era morto qualcuno. Non sapeva chi, ma era una persona intima. Chissà
perché, il morto aveva dovuto essere nascosto in una stanza con le imposte chiuse. Qualcuno stava
cercando il cadavere, ma costui non era morto. Era seduto su una seggiola nella scarsa luce del giorno,
giallo, terrorizzato, gli occhi pieni di mestizia vitrei di un istupidimento innaturale, e lui gli stava dando
una pagnotta con un uovo.
Era al tempo stesso il morto e il dolente. Ma com’era possibile? Aprì gli occhi. Il treno si stava
scagliando in avanti a una velocità insolita, quasi ne fosse stato perso il controllo. Sembrava correre in
discesa, cadere in un abisso. Anna si svegliò anche lei di soprassalto.
«Che cos’è successo?» I loro corpi potevano anche essere stesi in solitudine in un vagone letto di un
treno espresso, ma con loro viaggiavano lo spirito maschile e quello femminile da cui erano stati
posseduti. Grein parlò ad Anna di Esther, e lei gli parlò di Yasha Kotik. Lei volle sapere di Esther in
tutti i dettagli: era bionda o bruna? Snella o grassa? Che tipo di donna era? Di quale temperamento? Lui
le disse più o meno il vero. Mentì soltanto su ciò che lo faceva vergognare e metteva a nudo la sua
debolezza. Esther discendeva da una famiglia eminente. A diciotto anni era stata fatta sposare con
Piniele, giovane figlio di una famiglia di rabbini, che però aveva cominciato a non piacerle praticamente
già sotto il baldacchino nuziale. Dopo il matrimonio lei si era messa a leggere libri mondani, era
diventata una fervente attivista del movimento sionista, recitava in una compagnia teatrale dilettante,
pubblicava poesie su giornali del partito. Piniele era tornato dai genitori e lei era vissuta per un po’ a
Varsavia, poi a Lemberg, poi a Cracovia. Suo padre, uomo molto benestante e colto con l’autorità
rabbinica di insegnare la Legge ebraica, era morto d’improvviso. Sua madre aveva perduto i beni di
famiglia e lei aveva lavorato via via come insegnante, correttrice di bozze e bibliotecaria in una
biblioteca ebraica. Per qualche tempo aveva girato tutta la Polonia con una compagnia teatrale.
Poi era partita per la Palestina. Stranamente, suo marito Piniele si era secolarizzato e l’aveva seguita lì.
Però non potevano vivere insieme e avevano divorziato a Tel Aviv. Lui era rimasto in Palestina come
funzionario di chissà quale istituzione, e lei era emigrata in America, dov’era stata insegnante nello
stesso Talmùd Torah dove per un po’ aveva lavorato anche Grein, ed era lì che si erano conosciuti.
Anna ascoltava e voleva saperne sempre di più. Si era rannicchiata accanto a lui come una bambina che
non vuole che la storia che le viene raccontata finisca. Che cosa faceva Esther in Palestina?
Che cosa insegnava nel Talmùd Torah? Com’era cominciata la loro relazione? Era veramente amore?
Come ne era attratto lui? Fisicamente?
Spiritualmente? Dal fatto che lei conosceva l’ebraico? A ogni risposta che lui le dava, lei incalzava con
domande nuove, appassionate. Sembrava che conoscesse già le risposte e volesse soltanto estorcergli
una confessione, perché l’amore, come il potere, impone il tradimento.
Nell’amore si nasconde sempre furtivamente una rivalità che esige di manifestarsi. A Grein venne in
mente che in Russia giovani ebree come lei indossavano il giaccone di cuoio, si appendevano una
rivoltella alla vita e con implacabile zelo andavano in infaticabile ricerca di controrivoluzionari veri o
immaginari.
Il ritratto che Anna tracciò di Yasha Kotik era quello di un diavolo.
Era bugiardo, truffatore, ladro, ubriacone, codardo, drogato. Quando l’aveva portata in Svizzera per la
luna di miele si era anche tirato dietro di nascosto una ballerina di fila, che stava nello stesso albergo.
Quando Alfred Kerr aveva recensito male un suo spettacolo, aveva cercato di tagliarsi i polsi. Un
momento rideva e un altro piangeva; ora si vantava di essere il più grande attore del mondo, ora
lamentava di non avere un briciolo di talento. Aveva venduto i gioielli di Anna per corrompere certi
cialtroni di critici e indurli a scrivere di lui in toni entusiastici. Giocava a carte tutto ciò che possedeva; i
suoi debiti si accumulavano; scroccava soldi a turiste ricche e anziane, aveva scatoloni pieni di foto
pornografiche. In scena aveva un’unica specialità: imitare gli Ostjuden, gli ebrei dell’Europa orientale. Li
esponeva a ridicolo e disprezzo proprio mentre la Germania brulicava di nazisti. Aveva persino fatto
comunella con alcuni di essi e andava in giro a bere con loro. «Mio Dio, che feccia era! Feccia!» lamentò
Anna.
«Se non avessi avuto la disgrazia di vivere con un mostro simile, non avrei mai creduto che potesse
esistere una persona come lui.» Curiosamente, però, nel suo modo da depravato, Kotik era
superstiziosamente osservante. A Yom Kippur si infilava furtivamente in una sinagoga. Era seguace di
un meschino rabbino di Dragoner Strasse, da cui correva a farsi benedire la sera di ogni prima. Andava
in giro con ogni sorta di chiavette, elefanti, amuleti e persino piccole croci e crocefissi, tutta roba che
secondo lui gli portava fortuna.
Allo scoppio della guerra di Hitler, era scappato in Russia, dov’era immediatamente diventato
comunista, mettendosi a coprire di insulti la borghesia e i fascisti, acclamando il compagno Stalin,
facendo delazioni su altri attori che avevano cercato rifugio lì. Tramite queste denunce, in Unione
Sovietica era diventato un celebrato attore teatrale e una star del cinema.
Quanto al giovane Cesare, non c’era un granché da dire. Era un giovane adorabile, ambizioso, che
combinava l’impudenza con la timidezza e soffriva di un complesso materno. Non smetteva mai di
chiamarla madre o mamma. «Ma perché rievocare le ombre del passato?» chiese Anna. «Adesso ci
amiamo e siamo insieme. Ciò che è passato è finito e concluso.» Ma era davvero finito e concluso?
Tutte quelle ombre li accompagnavano; ciascuna recitava il suo ruolo, pretendeva la sua parte di
immortalità.
L’amore è evidentemente tutto spirito, governato da tutte le leggi dello spirito. Ciò che è passato non è
finito, ciò che è morto non è morto; le parole sono atti, i pensieri possiedono poteri magici.
Anna continuò a fargli domande fino all’alba. Oltre a Leah ed Esther, chi erano le altre donne che aveva
conosciuto? Quanti anni aveva la prima volta che era andato a letto con una donna? Con chi stava
quando aveva cominciato ad andare a casa sua per aiutarla a fare i compiti? E a ogni domanda
continuava a tornare alla madre. Lo sapeva che lo amava?
Chiedeva di lui ogni giorno. Quando ritardava per una lezione, batteva il cucchiaio delle medicine sul
bordo del letto per segnalarle di andare da lei. Chiedeva di continuo se lo studente non era ancora
arrivato.
Perché lui le portava fiori? E perché, una volta, una bomboniera? Erano particolari di cui Grein si era
dimenticato da un pezzo, ma lei ricordava tutto con precisione fotografica. Quindi gli fece giurare di
dirle la verità: aveva mai baciato la sua mamma?
«Che differenza farebbe esattamente per te?» chiese lui in tono evasivo.
«Oh, carissimo, voglio saperlo. Credimi, per il nostro amore non farà la minima differenza. Sono
soltanto curiosa.»
«Sì, in effetti l’ho baciata una volta.» Anna rimase un attimo in silenzio.
«Tutto lì?»
«Niente di più.»
«E’ la verità?»
«Lo giuro su tutto ciò che mi è sacro.»
«Quante volte l’hai baciata?»
«Diverse.»
«Perché l’hai baciata?»
«Oh, così. Era una bella donna. Il tuo papà stava via per settimane di seguito. Lei era sola e malata.»
«Ricambiava i tuoi baci?»
«Qualche volta.»
«Quando è successo? Quando ha cominciato a farlo?» Grein ricordava così poco che gli toccò
inventare. Lei cominciò ad agitarsi e a tremare.
«L’ho sempre saputo», confessò, con voce strozzata dalle lacrime.
«Come facevi a saperlo?»
«Lo sapevo e basta. Sei disgustoso! Una belva!» E di punto in bianco lo strinse tra le braccia e ansimò:
«Ti amo! Voglio amarti fino all’ultimo respiro! Finché non mi metteranno nella tomba.»
«Ma sono più vecchio di te.»
«No. Io morirò giovane come la mamma.» E Anna scoppiò in lacrime amare.
Quasi fosse stato turbato dalle cose che venivano dette in uno scompartimento del treno, il motore
diesel emise un lungo lamento, un urlo dall’intimo profondo delle sue viscere di acciaio. A Grein parve
che stesse gridando: vedi, Dio, in quali abissi sono sprofondate le tue creature; La situazione è al di là di
qualsiasi speranza. Guai al mondo!
E’ peccato! Male! Scellerataggine!
Fuori splendeva il sole. Scorrevano via palme in un paesaggio estivo che ricordava la Terra Santa. Il
treno si fermò e i passeggeri ne sciamarono fuori come un gregge per bere succo d’arancia. Grein non
abbandonò mai il finestrino. Nel cuore dell’inverno, in Florida era come Shavuot, e c’era un profumo di
Bibbia. Con scarne barbette, avvolte in stracci come sante in clausura, le palme avevano angolazioni
contorte, pronte a inginocchiarsi e inchinarsi davanti a Dio e al Suo potere. Quando soffiava una brezza
scuotevano le fronde in tutte le direzioni, prendendo atto dell’onnipotenza di Dio quasi stessero
celebrando una perpetua Festa dei Tabernacoli.
Com’è possibile che, avendo così vicina tanta bellezza, io non sia mai venuto qui in vent’anni di
America? Grein era sbalordito di se stesso.
Quanto poche iniziative si prendono! Come sono inadeguate le parole a descrivere la realtà! Quanti
splendori ci sono attorno a noi cui non prestiamo attenzione!
Il treno terminava la sua corsa a Miami. Grein e Anna smontarono, tenendo il cappotto invernale sul
braccio come gli schiavi liberati reggono le loro catene. In taxi superarono ponti che sembravano
immense autostrade, oltrepassando canali in cui si riflettevano palme, ville, oasi. Uno sciatore sull’acqua
si teneva aggrappato con una mano alla fune trainata da un motoscafo, bevendo intanto da una bottiglia
di Coca Cola con l’altra. Qui non si temono gli spiriti del male, rifletté lui.
Lì l’edonismo era già una religione affermata.
Non avendo fatto alcuna prenotazione, chiesero al conducente di portarli in un alberghetto in una zona
tranquilla della città. Il taxi superò Lincoln Road, svoltò in Collins Avenue e puntò verso uptown. Il
mare scintillava nei varchi tra gli immensi alberghi, puro, verde, vitreo e immobile come una cosmica
luce al neon. Una vela bianca vi navigava come in uno scenario d’opera. Il conducente guidava
cantando. Natura e umanità avevano agito insieme per creare un luna park pieno di canti, fischi, fiori
rari, uccelli esotici e spezie orientali. Le auto mandavano lampi al sole come giocattoli di bambini viziati
di una stirpe di giganti. Gli edifici sembravano sorti dalla terra come palazzi di favola. Su tutto e tutti
aleggiava una lievità dimenticata da tempo, un autoabbandono spensierato, quasi che per mezzo di una
formula magica gli esseri umani si fossero liberati dell’antica maledizione, tornando nel Giardino
dell’Eden. Anna non riusciva a contenere la gioia. Afferrò la mano di Grein, premendola di continuo. Lì
il clacson del taxi non gemeva ma suonava una melodia. Visi che ridevano: niente più morte,
stanchezza, dolore! I perpetui solchi erano stati abbandonati. Si era trasportati sulle onde dell’eternità. Si
conosceva la verità gioiosa.
L’albergo dove li portò il taxi si trovava nella zona delle vie numerate da quaranta a cinquanta. Un
vecchio fico – basso, grosso, nodoso e con radici pesanti – montava la sentinella alla porta, e tra i suoi
rami e i fichi che non arrivavano mai a maturazione ardeva la luce elettrica anche di giorno, un effetto
teatrale realizzato per una baldoria notturna e dimenticato lì. Su un lato sciabordava il mare, sull’altro
l’Indian River. Fu loro data una camera al secondo piano, con un balcone che dava sul patio. Grazie a
Dio l’ambiente era troppo piccolo per una piscina; un tempo quell’albergo doveva essere stato
un’abitazione privata. Vecchie sculture si sgretolavano tra cespugli e fiori. Un uccello beveva acqua da
una fontana… o era forse l’elisir della vita? Il cielo sfavillava, azzurro e trasparente. Il luogo era
immerso in una quiete da cortile di filosofo antico isolatosi dal mondo e dalle sue vanità. Grein non
credeva a ciò che vedeva: davanti ai suoi occhi c’era un cactus in fiore! Tra spine impolverate, che
sembravano colate in aspra pietra dura, si annidava un fragile fiore dai petali teneri, di forma delicata,
prova dell’eterna grazia che scorre per tutto il Creato.
Anna cominciò a disfare i bagagli. Grein rimase sul balcone. Su ogni lato torreggiavano enormi
alberghi, ma da dov’era seduto lui se ne vedevano soltanto i piani più alti: solarium, cupole, serbatoi
dell’acqua. Un uccello solitario svolazzò via, esibendosi in acrobazie ad alta quota. In una finestra di
fronte vide una figura familiare. Una donna si stava spogliando e cambiando china su valigie. Strano…
assomigliava ad Anna. La guardò a bocca aperta. Era una coincidenza?
Aveva una visione? Poi rise: era proprio Anna, riflessa nei vetri di fronte.
Grein tenne lo sguardo fisso davanti a sé. Se in questo mondo c’era la felicità, adesso doveva essere
felice; altrimenti non c’era niente cui anelare, niente su cui filosofeggiare. I suoi occhi erano aperti, ma
stava guardando in se stesso. Aveva già dimenticato alcune maglie della catena di causa ed effetto, e
rimanevano soltanto i fatti essenziali: aveva lasciato la moglie e i figli. Aveva fatto un torto a Esther.
Aveva abbandonato i propri mezzi di sostentamento. Aveva distrutto la felicità di Stanislaw Luria e
Boris Makaver. E soprattutto aveva agito contro le sue convinzioni più profonde. Si era arreso
totalmente a questo mondo, con i suoi idoli e illusioni.
Una donna dalla capigliatura biondo platino malamente tinta uscì nel patio, il viso butterato dall’acne,
con un paio di comodi pantaloni rossi, le spalle nude scottate e coperte di lentiggini. I piedi dalle unghie
dipinte erano infilati in un paio di scarpe dal tacco alto e sottile. Rimase immobile un attimo come un
antico uccello esotico, il fossile vivente di un’era scomparsa; poi alzò la testa e gli scoccò un’occhiata
come per chiedere: quale follia ha portato qui te?
Anna aprì la porta del balcone.
«Avrò bisogno di un costume da bagno nuovo. Quello vecchio è tutto scolorito.»
«Sì, sì.»
«Non hai fame? Io sto morendo.» Anna non lo disse apertamente, ma Grein avvertì che era scontenta
dell’albergo. Era troppo lontano dal mare: per arrivarci bisognava attraversare la strada. La spiaggia non
era privata, per cui non si disponeva di cabine. Lui avrebbe preferito mangiare lì, nel caffè dell’albergo,
ma strada facendo lei aveva notato un ristorante di lusso dove bisognava aspettare in fila per avere un
tavolo. Diversamente da lui, Anna non si proponeva di stare passivamente ferma in un solo posto.
Doveva andare a fare compere. Luria era esploso con tale violenza quando lei aveva cercato di fare i
bagagli, che si era lasciata indietro le cose più essenziali. Quindi adesso doveva comperare scarpe, un
reggipetto, un paio di pantaloni comodi, lozione per il corpo, una cuffia da bagno. Nell’atrio
dell’albergo erano seduti diversi clienti di entrambi i sessi a guardare la televisione. Quando passarono
loro due, alzarono tutti lo sguardo, scrutandoli in tono inquisitorio, esaminandoli minuziosamente, avidi
di penetrare a prima vista i segreti di altre persone e di starsene lì a giudicarne il valore. A Grein parve
che i loro occhi chiedessero: chi è costui, tanto per cominciare? Com’è che viene qui? E gli stessi occhi
si affrettavano a concludere: no, non è uno di noi.
La donna comparsa prima nel patio gridò ad Anna: «Com’è il tempo a New York?» Gonfia di risonanze
banali e ordinarie, nella sua voce non c’era alcuna traccia di timidezza. Era una di quelle persone per le
quali il mondo è tutto un gran bagno di vapore.
«Fa freddo.»
«Soltanto freddo? In California ha nevicato. Voialtri siete venuti in aereo o in treno?»
«In treno.»
«Chi ha più voglia di star seduto ore e ore su un treno, ormai? Io prendo l’aereo. Mio marito mi prega di
non farlo, ma io gli dico: puoi sempre trovartene una più giovane e carina!» Ed esplose una risata rauca.
«Adesso è contento: mentre sono qui può fare quello che vuole.
Non gli porto nemmeno rancore. Si goda la vita anche lui. Giusto?
Purché paghi i conti. Dove abitate, voialtri… a Brooklyn o nel Bronx?» Anna sorrise. «Al momento non
abitiamo da nessuna parte.»
«In luna di miele, eh?» Grein impallidì. Un grassone con una camicia floreale che lasciava scoperto un
torace molto peloso cominciò a sparare battute di spirito.
Si presentò anche lui: era un dentista di Philadelphia. Scendendo, Grein aveva deciso di chiacchierare
con tutti e di non evitare la gente, come faceva ogni anno in tutti gli alberghi dove andava. Doveva
liberarsi una volta per tutte del suo vacuo orgoglio. Ma non poteva ugualmente starsene lì tra loro senza
far niente, a lasciarsi rivolgere congratulazioni false e ad ascoltare le loro banali ciance. Si sentì prendere
dalla ripugnanza ed era seccato per i modi disinvolti di Anna.
Si scusò e uscì.
Erano trascorsi diversi giorni, forse persino una settimana. Sulle prime a Grein le giornate erano parse
irragionevolmente lunghe, ma poi si erano fatte più veloci ed erano scorse via in forza del loro stesso
ripetersi. Le mattinate erano riposanti. Mentre Anna andava a fare il bagno in mare, lui restava nella loro
camera. Sedeva sul balcone a leggere o scribacchiare. Da quando aveva raggiunto l’età adulta, il suo
unico giocattolo era la stilografica. Sebbene sapesse che era cattiva educazione, la tirava fuori persino a
tavola. Ogni attività della penna aveva per lui un fascino unico, sia che tracciasse simboli, disegnasse
apparizioni o prendesse appunti che non avrebbe mai saputo in alcun modo finalizzare. Questo amore
per lo strumento lo aveva ereditato dal padre, la pace fosse con lui, che tagliava regolarmente penne
d’oca con un coltellino a serramanico e le raschiava con un pezzo di vetro, sistemandosele a portata di
mano sul tavolo con moltissime altre e diversi righelli e bottigliette d’inchiostro di china.
Da bambino sosteneva con fermezza che da grande avrebbe fatto anche lui lo scriba. Più tardi avrebbe
voluto diventare scrittore, scienziato, filosofo. Sognava di trovare un libro che spiegasse tutti i segreti,
che rivelasse senza possibilità di errore la retta via. Ogni volta che andava in biblioteca cercava soltanto
quello. Nei suoi sogni a occhi aperti immaginava di star componendolo lui stesso. Invece, mentre lui
fantasticava, altri scrivevano davvero.
Si pubblicavano libri a migliaia, milioni. Venivano letti e messi da parte come giornali vecchi. Erano
posati su bancarelle della Quarta Avenue e altrove, e li si vendeva a cinque centesimi l’uno, se non a un
solo centesimo. Com’era possibile dire qualcosa di nuovo tra una simile produzione di massa? E quale
valore hanno parole che non si convertono mai in atti? Il suo amore per i libri si accompagnava a un
fastidio sempre più profondo. Con il tempo era arrivato a provare orgoglio per non essere diventato
uno scrittore, le cui parole non avrebbero fatto che aggiungere qualcosa alla montagna del ciarpame
letterario.
Ma l’abitudine di giocare con la penna era rimasta. Ogni volta che andava in un Woolworth’s comperava
un’agenda, un taccuino, una tavoletta di scrittura. Portava sempre con sé diverse stilografiche e matite.
Sentiva persino il bisogno di tenere un diario, come uno scolaretto o una vecchia zitella. Ma che cosa
aveva da annotare? Ogni volta che cominciava, scriveva qualche riga e poi lasciava lì il quaderno a
riempirsi di polvere. Prima o poi Leah lo buttava via con la spazzatura.
Stranamente, aveva cominciato a dimenticarsi il polacco. Pur avendo studiato in Germania e Austria,
non si era mai sentito a suo agio con il tedesco. In America aveva imparato l’inglese, ma per lui
rimaneva tuttora una lingua straniera. La sua lingua madre era lo yiddish, che però riteneva inadeguato
per esprimere sia i concetti astratti sia quelli precisi. Non aveva grammatica né regole di ortografia.
Conosceva l’ebraico, ma soltanto la santa lingua dei libri sacri, non quella nuova che si stava creando in
Palestina. I suoi appunti li prendeva a volte in polacco, a volte in inglese, a volte nell’ebraico biblico, e
certe volte in tutte e tre le lingue insieme. Sì, era la conseguenza inevitabile di duemila anni di esilio. Ma
che tipo di ebreo si sarebbe formato in Terra Santa, quand’anche gli inglesi se ne fossero andati e fosse
diventata uno Stato ebraico indipendente? Quali ebrei poteva chiamare fratelli in piena sincerità? Gli
stalinisti che stavano offuscando la storia ebraica? I terroristi che mettevano bombe negli alberghi? I
profughi tedeschi che passavano il tempo nei caffè di Tel Aviv, già preparandosi a tornare in Germania?
Ogni volta che faceva un ’ esame di coscienza, arrivava sempre alla stessa conclusione: eliminata la fede,
rimaneva ben poco di ebraico e ancora meno che potesse legare tra loro tutti questi ebrei moderni.
Anche se non si assimilavano loro stessi, lo facevano i figli. Che tipo di generazione, per esempio,
avrebbero allevato Jack e Anita? Un ebreo senza Dio è un gentile, anche se parla in ebraico. E che cosa
offre davvero la realtà mondana? Qualche anno di fatiche sulla terra e, dopo la morte… l’oblio eterno.
Erano anni che arrivava alle stesse conclusioni. Ma ugualmente non riusciva a diventare un ebreo
osservante che rispettasse rigorosamente tutte le leggi dello Shulchan Aruch. Per farlo non basta
credere a Dio: bisogna credere senza ombra di dubbio che Egli si è rivelato direttamente all’uomo, e che
di conseguenza ogni legge, ogni restrizione, ogni versetto dell’insegnamento sacro sono inalterabilmente
veri. Ma poteva onorare sinceramente gli infiniti divieti che rabbini e commentatori avevano accumulato
generazione dopo generazione? Poteva in tutta onestà attribuire a Dio ogni genere di capricci e
convinzioni dell’uomo? La porta si aprì ed entrò Anna con un accappatoio corto da spiaggia sopra il
costume da bagno, le gambe nude e sandali rossi ai piedi. Portava un paio di occhiali da sole e aveva con
sé un libro, un flacone di lozione solare, un giornale e alcune riviste. Si era già abbronzata. «Ah,
carissimo, oggi il mare era meraviglioso… liscio come uno specchio e un tale piacere! Non riesco a
capire perché non vuoi nuotare. Tutti gli altri uomini vengono lì con le mogli. Ti imbarazzi?
Hai un corpo più bello di tutti loro. Francamente non riesco a capirti, Hertz!»
«Vestiti. Non ha senso continuare a ripetere le stesse cose giorno dopo giorno.»
«Dimmi una volta per tutte perché eviti il mare.
Devi avere qualche motivo.»
«Non ne ho.» Anna gli scoccò un’occhiata in tralice. «Be’, farò una doccia. Poi andremo a pranzo. Sto
morendo di fame!» Mentre lei andava in bagno, Grein si mise cravatta, giacca e cappello. Aveva
conservato il pudore e la vergognosità del padre nei confronti del nudo. Per lui persino attraversare
l’atrio con Anna era una tortura. Tutti lo guardavano di sottecchi, uomini e donne, con ostilità. Seduti lì
mezzi nudi, fumavano, ridevano, guardavano la televisione come ebeti, blateravano di star del cinema,
corse di cavalli o cani, incontri di boxe e cantanti dei diversi locali. Trasudavano un senso di profano
che gli dava una continua pena. Ma d’altra parte che cosa pretendeva che facessero… che studiassero la
Mishnah? Che leggessero lo Zohar? Ciò cui anelava lui non esisteva e non poteva esistere: voleva il
timore del cielo senza dogma; religione senza rivelazione; disciplina senza divieti; Torah, preghiera e un
isolamento basato su un’esperienza religiosa pura, incontaminata. Ma sapeva anche che ciò che
desiderava non poteva esserci. Stava combattendo una guerra persa prim’ancora di cominciare. Doveva
stare attento che non gli venisse una perversione o una malattia dello spirito. Anna gli comparve davanti
nuda. «Che cos’hai fatto tutta la mattina? Ho sentito la tua mancanza.» Poi si morse le labbra. Avrebbe
potuto essere felice con lui, ma le nascondeva qualche segreto. Se ne andava attorno pallido, pensoso,
chiuso in sé. Qualcosa lo preoccupava, ma che cosa? Sentiva la mancanza di Leah? Dei figli? Non
riusciva a scordare Esther? Forse era malato.
Lei avrebbe dato la vita per aiutarlo, ma come poteva aiutare un uomo che non voleva dire che cosa
fosse ad angustiarlo? Uno così non si può neanche mandarlo da uno psicoanalista. Gli si accostò e si
alzò in punta di piedi. «Su, dammi un bacio.» Non presero l’ascensore ma scesero a piedi le due rampe
di scale.
Qua e là una porta era aperta e una cameriera passava l’aspirapolvere sulla moquette o rifaceva il letto.
Da quelle chiuse arrivavano suoni di conversazioni, risate, il brusio di una radio. Tutti i cantanti, senza
distinzione tra uomini e donne, esalavano lamenti di amore. Tutte quelle canzoni erano pianti di
nostalgia, tedio e dolore. Che cosa può essere a far soffrire loro? si chiese Grein. Può essere che
abbiano le mie stesse sofferenze? Avrebbe voluto ammonire Anna di non attardarsi nell’atrio, ma
sapeva già che non gli avrebbe dato retta. Si fermava sempre al banco, dove venivano esposte
interminabili informazioni su escursioni, biglietti a prezzo scontato per cabaret e programmi di corse di
cavalli. Trovava sempre qualcosa di cui chiacchierare con il signor Abrams, il proprietario. Si serviva di
carta per scrivere, comperava cartoline illustrate e francobolli; aveva depositato i gioielli nella cassaforte,
e di quando in quando cambiava un gingillo con un altro. Questa volta l’atrio era zeppo. Grein notò che
era appena arrivata una nuova ospite. Minuta, con un paio di zatteroni dai tacchi altissimi, era lì in piedi
in pelliccia di visone tra un gran mucchio di valigie eleganti, il viso giallastro largo e segnato da
profonde rughe, con naso a becco e occhi nocciola.
Tutto il suo aspetto emanava esperienza del modo di stare in società e una voglia indomita di provocare
la maggior confusione possibile e di fare buoni affari ovunque potesse trovarne. Anna, che stava
frugando nella borsetta in cerca di qualcosa, sembrava non averla notata. Il signor Abrams, un uomo
alto e corpulento, dal viso giovanile e dalla pelata rotonda, le gridò con voce rauca: «Abbiamo trovato il
suo ventaglio, signora Grein!» Anna stava avvicinandosi al banco quando improvvisamente arretrò,
voltando la testa e gettando a Grein uno sguardo spaventato. Impallidendo, borbottò qualcosa e cercò
di fargli un qualche segno. Lui avvertì immediatamente che era successo un disastro… ma quale? Il suo
primo pensiero fu di precipitarsi di nuovo su per le scale, ma era troppo tardi. La nuova arrivata si
guardò attorno e riconobbe Anna, al che tutte le rughe del suo viso si aprirono radiosamente nella
piacevole sorpresa di un incontro imprevisto con una vecchia conoscenza. «Signora Luria!» Urlando il
nome così forte da far ammutolire la chiassosa folla, fece scattar fuori le braccia dalle ampie maniche di
visone come per abbracciare Anna. In tutto il suo imbarazzo, Grein notò che, sebbene le unghie
fossero rosso sangue e aguzze come quelle di un predatore, le mani, solcate da un groviglio di vene
azzurre, erano quelle di una vecchia. Anna fece un altro passo indietro con l’espressione di non capire,
come se l’altra si fosse sbagliata. Ma poi, rendendosi conto di quanto ciò fosse sciocco, le tese
freddamente una mano in tono seccato, con un gesto che diceva chiaramente: avrei fatto benissimo a
meno di questo incontro. «Questa è la signora Grein, non la signora Luria», gridò il signor Abrams,
inarcando i sopraccigli stupito. «Eh? La signora Luria e io abitiamo porta a porta!» insistette la
sconosciuta. Parlava inglese con un accento e un’inflessione che la identificarono immediatamente per
lituana. Senza prendere la mano di Anna, la scrutò con espressione perplessa. «Non riconosce la sua
vicina di casa, signora Luria?» osservò in tono scherzoso il signor Abrams. Non gli era evidentemente
venuto in mente di sospettare alcunché, ma tutte le donne presenti capirono al volo ciò che stava
succedendo. Fissavano la scena con gli occhi fuori delle orbite, il collo sporto in avanti, la bocca
spalancata. Anna si ricompose. «Signora Katz!» disse a voce alta, in maniera che tutti la sentissero. «Ho
divorziato dal signor Luria.
Adesso mi chiamo Grein.» E accennò con la testa al suo compagno. Le pupille degli occhi della signora
Katz si strinsero mentre scrutava Grein da capo a piedi, esibendo una bocca piena di denti falsi. La sua
faccia si illuminò della dolce delizia dello scandalo. «Piacere, signor Grein! Si può divorziare così in
fretta in America?» Aveva cambiato tono. Adesso parlava rivolta un po’ ad Anna e un po’ a tutto l’atrio.
«Soltanto una settimana fa lei abitava ancora con suo marito, signora Luria. Neanche a Reno si può
ottenere un divorzio con una velocità così fulminea. O forse è qui a Miami che si può divorziare e
risposarsi così in fretta? In questo caso, mi consenta di congratularmi con lei. Un divorzio del genere lo
definirei ‘espresso’.» Una donna scoppiò a ridere. Un’altra tossì. Qualcuno spense il televisore. Un
omino grasso, in vestaglia a sgargianti girasoli e con i sandali, lo stesso che si era presentato come un
dentista di Philadelphia al loro arrivo, ansimò raucamente: «Per quanto ne so io, bisogna essere residenti
qui da almeno sei mesi prima di poter ottenere un divorzio. Forse addirittura da un anno. Persino a
Reno bisogna essere residenti da sei settimane. In America le cose non vanno così in fretta. Forse in
Russia si poteva divorziare immediatamente, ma tanto tempo fa. Da quelle parti si poteva andare negli
uffici municipali, dove ti timbravano un pezzo di carta ed eri divorziato. Finito. Ma come risultato di
tutti quei divorzi e matrimoni istantanei, la Russia ha cominciato a brulicare, scusate l’espressione, di
bastardi. Era diventato un tale problema che sono stati costretti a modificare la legge. Ho visto una
commedia sull’argomento… o era un film?» Il dentista parlava come se stesse tenendo una conferenza,
senza mai distogliere lo sguardo da Grein, fissandolo con un’espressione inquisitoria e con spregio,
come se fosse un pezzo che voleva fare i conti con lui. Tutti gli altri si stavano sporgendo in avanti per
sentire meglio. Una donna accostò persino la poltrona. Il signor Abrams si accigliò. «Signore e signori,
siamo qui tutti per un unico scopo: divertirci e non immischiarci nei fatti degli altri. La signora Grein è
nostra ospite ed è la benvenuta, qualsiasi cognome usi. Giusto, amici? Io le persone le giudico dalla
condotta e dall’intelligenza, non dal cognome.»
«Certo, certo», interloquì la signora Katz, con occhi che brillavano di scaltra irrisione. «Se l’ho messa in
imbarazzo, signora Luria, cioè, signora Grein, mi spiace terribilmente. Quando mi sono guardata
attorno e ho visto la mia vicina di casa, ero talmente contenta! Ci capita spesso di fare una
chiacchieratina sulla porta di casa, quando portiamo fuori entrambe la spazzatura, o quando rientriamo
alla stessa ora dall’aver fatto la spesa. Incontro spesso il signor Luria sull’ascensore, ed è sempre
cordiale. Si cava il cappello, non come gli altri profughi che stanno in ascensore con il cappello in testa a
soffiare fumo di sigaro in faccia alle signore. Be’, mi spiace davvero moltissimo. Avevo sempre avuto la
sensazione che lei, signora Luria, cioè, signora Grein, fosse particolarmente felice con suo marito.
Pensavo sempre: ecco una coppia veramente appagata, anche se il signor Luria è parecchi anni più
vecchio di lei, signora… ehm… ehm… Grein, ed è un tale peccato che lui non possa esercitare la
professione di avvocato qui in America. Be’, be’.
Come dice il vecchio proverbio? Nessuno sa bene dove la scarpa fa male come chi la porta. La prego di
consentirmi di farle le mie congratulazioni, signora Luria. Anzi, lo dirò chiaro e tondo in yiddish: mazal
tov!»
«Ecco il suo ventaglio, signora Grein!» intervenne il signor Abrams alzando la voce in tono seccato.
«L’ha trovato Joe nella sabbia, e io l’ho riconosciuto dalla sua descrizione.» Anna scrutò il ventaglio per
un paio di istanti senza vederlo. «Me lo tenga, per favore, signor Abrams. Stiamo uscendo a pranzo.
Verrò a prenderlo quando rientro.»
«Certamente. Qui non si perde niente. Basta che lei ci dica se le manca qualcosa, senza farne un
segreto.»
«Davvero, signora Luria, cioè, signora Grein, non vorrei che tra noi ci fosse qualche incomprensione»,
riattaccò da capo la signora Katz. «Visto che sono venuta qui e ho avuto la buona sorte di incontrarla,
signora Luria, vorrei che tutto rimanesse com’è sempre stato. Qui siamo tutti come un’unica grande
famiglia felice. E’ il quarto anno che vengo. Mio marito vorrebbe mandarmi soltanto negli alberghi più
grandi. Per lui i soldi non sono un problema, dice. L’importante è che io stia bene e mi diverta per i due
o tre mesi che rimango qui. Ma io, signora Luria, cioè, signora Grein, preferisco stare tra i miei simili. Se
voglio andare in un night club o a uno spettacolo, prendo un taxi e ci vado. Signor Grein», gridò poi,
«devo dirle che ha fatto un vero affare! Una bella donna, e per giunta romantica, pare. Suo padre è un
ebreo osservante, ma svelto per quanto concerne i soldi. L’ho visto diverse volte… un ometto basso
con la barba. Deve pregare ogni giorno, vero?»
«Andiamo, Hertz.» E Anna lo prese per il braccio. «Arrivederci, signora Luria… cioè, signora Grein.
Deve ritenersi fortunata di essere qui. A New York si gela, e quando fa così freddo si ghiaccia persino
l’amore, non è vero?» Il dentista riattaccò da capo la sua predica, ma Grein e Anna si fecero strada tra le
poltrone e si precipitarono fuori. La risata della donna che prima aveva esploso un risolino li seguì…
forte, acuta, graffiante. In che senso costoro sarebbero ebrei? In che senso miei simili? Che cosa
dovrebbe importarmi se massacrano tipi del genere o li bruciano in forni? La tragedia si è che hanno
distrutto i buoni e lasciato qui questa spazzatura. Grein aveva un gran caldo dappertutto.
Uno dei suoi orecchi sembrava in fiamme. Si tolse il cappello. Invece di girare a destra, andarono
entrambi a sinistra con la frettolosità mortificata di chi è stato sottoposto a pubblica vergogna. Di
punto in bianco Anna si fermò. «Be’, se sono sopravvissuta a questo, non ho più paura della Geenna.»
«Strano, stavo pensando anch’io alla Geenna», rispose lui. «Maimonide dice appunto che la Geenna è
vergogna.»
«Davvero? Dove stiamo andando? Aspetta un attimo, non riesco a camminare.»
«Che cosa c’è?»
«Hertz, potremmo magari sederci da qualche parte. Mi gira la testa!»
«Devo chiamare un taxi?»
«Dove andremmo? Non è possibile che io mi sieda in un ristorante adesso.»
«Potremmo magari farci portare al parco.»
«Hertz, devo vomitare!» Anna si guardò attorno con aria impaurita. La sua faccia era coperta di strisce
di sudore. Rimase lì in piedi a farsi vento con la borsetta, quasi cercasse di opporsi allo svenimento. Lui
cercò di sostenerla e di farle da schermo dai passanti. «Ti prego, Anna, controllati», mormorò in tono
tra l’implorazione e l’ammonimento. «Non mi sento bene, Hertz!» Anna era lì come paralizzata, in
preda a un travaglio interiore.
Sbattendo rapidamente gli occhi, prima arrossì, poi impallidì. Frugò nella borsetta in cerca di un
fazzoletto e vi sputò. «Devo andare in un bagno da qualche parte.»
«Dove? Taxi!»
«Dove mi stai portando?»
«Ovunque vuoi. Anche di nuovo a New York.»
«Fallo andare a una tavola calda.» Lui diede indicazioni al conducente, e lei appoggiò la testa all’indietro
sul sedile. Rimase a sedere a lungo con la faccia cinerea, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. A Grein
parve che le fosse d’improvviso venuta una straordinaria somiglianza con la madre morta. A un angolo
della bocca le era apparso un qualcosa di indefinibile che fino ad allora lui non aveva mai notato:
un’espressione di amarezza mista a umiltà e a un’ultra–mondana disposizione al perdono, del tipo che a
volte si vede sul viso dei morti. Un’espressione che sembrava dire: io perdono. Perdono. Sono
sopravvissuta. Ce l’ho fatta. Di punto in bianco aprì gli occhi. «Hertz, non tornerò mai in quel posto.»
«Se non vuoi, così sia.»
«Dovrai tornar là a fare le valigie.»
«E i tuoi gioielli?»
«Li darà a te. Altrimenti li lascio lì e amen.» Il taxi si fermò a una tavola calda in Lincoln Road. Anna
andò immediatamente in bagno con passo incerto. Presi due buoni per il pasto, uno per sé e uno per lei,
Grein trovò un tavolo per due. Il locale era sterminato come una stazione ferroviaria, ed essendo l’ora
di pranzo c’era un trambusto altrettanto forte. Si sedette con lo sguardo fisso davanti a sé
nell’immobilità che viene dopo uno shock. Adesso… adesso… l’amo davvero, mormorò tra sé.
Quell’espressione all’angolo della sua bocca sembrava avergli svelato una nuova Anna, quella vera. Una
misteriosa forza segreta gli aveva concesso di gettarle un’occhiata nell’anima, per così dire, e aveva visto
la nobiltà e magnanimità rinchiuse nella prigione del suo corpo. La sua espressione aveva rivelato un
segreto: gli aveva detto che dietro la facciata esterna, dietro ogni passione, ogni ambizione, ogni
sciocchezza c’era un altro essere superiore, ancora non sperimentato, con una consapevolezza superiore
e mete più elevate.
Da adesso in avanti la tratterò diversamente, promise. Le darò ciò che le è dovuto: amore, amore
autentico. E lo darò anche agli altri. Un giorno moriremo tutti. Tra vent’anni la maggioranza delle
persone presenti in questa tavola calda sarà al cimitero. Quel vecchio con il sandwich e il caffè
ghiacciato, per esempio. E quella donna con la tazzina di yogurt. Perché non ci ho pensato prima?
Perché sto sprecando la mia vita in follie e vanità? Fino a quando indulgerò in quella che la Cabbala
definisce angustia di mente? In definitiva ho sempre desiderato essere un essere umano, non un verme.
Rimase lì a sedere perso nei suoi pensieri, nel silenzio senza parole che viene dalla penitenza e
dall’anelito allo scopo essenziale della vita. E soltanto un attimo fa avevo pensieri così sconvolgenti! si
rimproverò. Ho persino giustificato l’hitlerismo! Gli scorse un brivido per la spina dorsale e si mise a
pregare. Dio del cielo, aiutami! Sono tanto piccolo. Mi è difficile. Non consentire che io langua per
sempre nella cecità. Ma che cosa ne sarà di Stanislaw Luria? Come posso essere un individuo
rispettabile se faccio un simile torto a un altro? Non trovò una risposta alla domanda, e i suoi pensieri si
interruppero bruscamente. Guardò verso il banco. Un cuoco grasso in grembiule e cappello da chef
uscì dalla cucina reggendo un tegame di arrosti. Sembrava un sacerdote di un tempio pagano dove gli
idoli venissero onorati con banchetti. Diversamente da Cofni e Pìncas, figli di Eli, questo sacerdote non
ha bisogno di rubare carne dal caldare, rifletté Grein. Ma che dire delle creature la cui carne sta
portando qui dentro? Pochi giorni fa erano vive. Hanno anch’esse un’anima. Sono anch’esse figlie di
Dio. E’ del tutto possibile che fossero fatte di una materia migliore di quella dell’uomo. Essendo senza
peccato, erano di sicuro più innocenti. Ma giorno dopo giorno vengono sacrificate ritualmente… angeli
in forma di buoi, vitelli, pecore. Una volta sarei voluto diventare vegetariano. Avrei voluto tutto… ma
non sono mai andato oltre il volere. Di punto in bianco Grein vide un uomo che gli si avvicinava,
sorridendo e salutandolo con la mano. Ne riconobbe la faccia, ma non riusciva a farsi venire in mente il
nome.
Chi era? Un omino, in America non si vedeva mai una statura così minuscola, un uomo in miniatura,
con viso giallastro, fronte ampia, vasta pelata con due ciuffi di capelli bianchi su entrambi i lati. I suoi
scintillanti occhi neri erano giovanili e pieni di una maliziosità da scolaretto. Pochi denti anneriti
sbirciavano fuori della bocca aperta in un grande sorriso. Portava una camicia floreale, sandali di
gomma e pantaloni corti gialli. Chi è? Non c’è dubbio che lo conosco… lo conosco bene! pensò Grein,
cercando di sforzare la memoria. L’altro, fermatosi di fronte a lui, cominciò a sbattere le labbra e a
roteare gli occhi. Gesti di gioia nel riconoscere qualcuno che Grein si era dimenticato da un pezzo. «Il
mondo è un villaggio, eh?» Grein rimase zitto. «Evidentemente non mi riconosci!» Mi si rivolge anche in
termini familiari, notò Grein, e rispose: «Sono in uno stato d’animo tale che non riconoscerei nemmeno
mio padre.»
«Che cosa ti succede? Testa di rapa! Sono Morris Gombiner!» Ancora prima che dicesse il suo nome,
non appena aveva pronunciato l’antiquato «testa di rapa», Grein ricordò tutto. Si alzò e il suo istinto
immediato fu di abbracciare l’omino, ma l’impulso abortì. L’uomo più anziano di lui rise come uno
studente di yeshivah, con una voce sottile, acuta, e con l’inflessione cantilenante che lui non sentiva da
decenni: un suono chiocciante che debordò negli occhi, schizzando dai denti, scorrendo su ogni grinza
del viso, conferendo ai suoi lineamenti la disinvolta familiarità di chi non ha senso pratico ed è fuori del
mondo. Grein si era quasi dimenticato che esistesse un simile modo di ridere. Tutto l’aspetto di
Gombiner rimandava all’altra costa dell’oceano, ai dibattiti talmudici nelle aule di yeshivah e ai gesti
tradizionali che li accompagnavano, un contegno che in America si dimentica senza nemmeno rendersi
conto di essersene dimenticati. «Quando sei arrivato in America?» chiese Grein.
«Come dice Israele a Giuseppe: ‘Io non pensavo più di vedere la tua faccia’.»
«Eri naturalmente convinto che Hitler avesse fatto di me un martire.»
«No, avevo sentito dire che eri riuscito a salvarti», mentì Grein. «Chi te l’ha detto? Sono arrivato
vicinissimo a diventare un mucchio di cenere, ma in un modo o nell’altro sono riuscito a cavarmela.
Nel ‘38 sono stato tra i deportati a Zbaszyn, sul confine polacco. Poi sono stato nel ghetto di Lòdz.
Non chiedere, non chiedere… ho attraversato tutti e sette i cancelli dell’inferno.»
«Dove sei stato?»
«Dove non sono stato. In fondo al pozzo di Majdanek.» Rimasero entrambi in silenzio per un bel po’.
«Sei in America da molto?» chiese infine Grein. «Appena un anno.»
«Da dove sei arrivato?»
«Da Tel Aviv.»
«Che cosa ci fai a Miami? Sei venuto a prendere un po’ di sole?»
«Mia moglie ha una casa qui. La seconda, non la prima. Fanya non è più tra noi. E morta nel ghetto di
Lòdz.» Rimasero di nuovo entrambi in silenzio un attimo. «Sapevi che ero in America?» chiese Grein.
«Sì. Ma io abito a Detroit, e tu stai a New York, chissà dove. Sono stato anche lì, ma soltanto per andare
da un medico. Ho dovuto fare un’operazione, possa non capitarti mai. Soltanto qualche mese fa. Be’, se
è destino che si viva, si vive. Chi ti ha detto che mi ero salvato?»
«Qualcuno. Non ricordo chi.»
«Vengo in questa tavola calda ogni giorno, e non ne passa uno senza che incontri qualcuno. Mezza New
York è qui. Ma francamente non mi aspettavo di imbattermi in te. Ti ho pensato spesso. Quando si sta
lì giorno dopo giorno in un campo di morte ad aspettare che una ‘selezione’ ci spinga in un forno
vengono pensieri di ogni genere. Ti ho rivolto molte volte l’ultimo addio. In definitiva, un tempo
eravamo amici intimi. E di punto in bianco ti vedo qui seduto a un tavolo! Tuo figlio ormai dev’essere
cresciuto.»
«Ho un maschio e una femmina. Il figlio sta per laurearsi in ingegneria.»
«Davvero? Come vola il tempo! E’ uno Hitler anch’esso. Distrugge tutto allo stesso modo. Come sta
tua moglie? Ho dimenticato come si chiama.»
«Leah.»
«Ah, sì, Leah.
Certo. E’ qui anche lei?»
«No.»
«E’ rimasta a New York?»
«Sì.»
«Be’, che ci si sia incontrati di nuovo è un miracolo. Anzi, mille miracoli. Avevo chiesto un visto per
l’America, ma all’ultimo momento mi hanno mandato in Palestina. Ma era destino che diventassi
americano… è saltata fuori un’americana e ci siamo sposati. Che cosa si può fare? Come è vero che mi
vedi davanti a te, ho lavorato a spaccare pietre per un’autostrada.
Ma non ero abbastanza forte. Sono più vecchio di te… molto più vecchio. Perché i nazisti mi abbiano
lasciato in vita, è incomprensibile. Gli piaceva schernirmi perché sono così basso. Hanno mandato nei
forni eroi, ma me mi hanno lasciato in vita. ‘Mezza sega’… così mi chiamavano. Mi facevano cantare gli
inni dello shabbath, e anche ballare. Be’, gente del genere non c’era mai stata. Chi non l’abbia visto con
i suoi occhi non sa che cosa sia veramente il genere umano. Se gli faceva piacere, ci ordinavano, scusa se
ne parlo, di calarci i pantaloni e fare cose orrende di ogni genere. Non sei cambiato per niente. In
America si resta giovani.»
«Ho qualche capello grigio.»
«Non li vedo. Hai un’aria agitata. C’è qualcosa che non va?»
«Perché porti una camicia piena di fiori dappertutto?» chiese Grein, pentendosi subito della sua
scortesia. Morris Gombiner rise. «E’ colpa di mia moglie.
Vuole fare di me un americano. Sarà qui tra un attimo… è andata a mettere un po’ di soldi nel
parchimetro. Bisogna pagare per tutto. Siamo venuti qui in auto da Detroit. Che viaggio lungo! Be’,
quand’è stata l’ultima volta che ci siamo visti? Vent’anni fa, direi.»
«Sì, vent’anni.»
«Avevi promesso che avresti scritto, ma non l’hai mai fatto.
Be’, fanno così tutti gli americani. Adesso che sono qui anch’io, lascio a mia volta inevasa qualche
lettera. Qui l’Inclinazione al Male si esprime in inglese, e ha sempre fretta. Non sono rimasto molto a
Vienna.
Siamo partiti per la Svizzera, dove Fanya ha studiato per qualche tempo.
Ma è rimasta incinta, e quando ci si avvia per quella strada si deve smettere di studiare. Poi siamo andati
a Berlino. A dirti il vero, non riesco più a ricordare la sequenza giusta dei fatti. Rammento che il dottor
Halperin stava pubblicando un’enciclopedia, per la quale avrei dovuto fare un pezzo sul chassidismo.
Sento dire che adesso è anche lui a New York.»
«Il dottor Halperin? Sì.»
«Campa sempre alle spalle di Boris Makaver?» L’espressione di Grein cambiò. «Conosci anche Boris
Makaver?»
«Certo. Li conosco tutti. Ma hanno lasciato tutti quanti Berlino in tempo, e io invece sono stato
deportato a Zbaszyn. Makaver è sempre molto ricco?»
«Sì, ha soldi.»
«Li vedi ancora?» Grein continuava a tenere d’occhio la scala che portava al bagno. «Morris, voglio dirti
una cosa.»
«Che cosa?»
«Sono qui con la figlia di Boris Makaver. Forse te la ricordi… Anna.»
«Sì, me la ricordo. Ha sposato un attore, che però ha continuato anche allora ad avere altre donne. In
che senso sei qui con lei?»
«Esattamente come ho detto.»
«Be’, non sono un poliziotto di Dio. Ma mia moglie è, come si dice?, insomma, una moglie ebrea.
Non credo che la cosa le possa andare.»
«Forse sarebbe meglio che ci vedessimo un’altra volta. Dammi il tuo indirizzo.»
«Eh? Ho dimenticato la via. Tu dove stai? Ti cercherò io. Mi è venuta l’amnesia, possa tu non conoscere
mai quello che soffro io. Ho preso nota del mio indirizzo, non so dove. Aspetta, tiro fuori l’agenda. Ah,
non l’ho con me. Pensavo di avere la giacca. Qui fa un caldo tale che si va in giro in camicia.
Dove stai?»
«Riderai, ma non sto da nessuna parte.»
«Cioè?»
«Abbiamo appena lasciato un albergo e non ne abbiamo ancora trovato un altro.»
«Dove sono le vostre cose?»
«Ancora là.»
«Be’, probabilmente sapranno dove vi siete trasferiti.»
«No. Non voglio aver più niente a che fare con quella gente.»
«Allora che cosa dobbiamo fare esattamente? Non posso perderti di vista, Hertz. Qui vado alla deriva
come se fossi nel Mondo del Caos. Ho incontrato un bel po’ di conoscenze di un tempo. Ne ho persino
scherzato con mia moglie: se il Messia arriva, ho detto, verrà in questa tavola calda di Miami. Ma tu sei
tutta un’altra cosa. In definitiva eravamo come fratelli. Sai cosa? Presentala come tua moglie.
Chi se ne importa? Visto che vivi con lei, è tua moglie. Ho sentito che più tardi aveva sposato un
avvocato.»
«Chi te l’ha detto?»
«Non riesco a ricordare. Qualcuno a Tel Aviv, credo. Ci si incontra e si chiacchiera.
Dimentico cose successe ieri, mentre mi rimangono ficcate nella memoria mille vecchie scemenze.
Capiti quel che capiti, non ti lascerò andar via. Per me è un grande evento. Mia moglie è un po’
volgarotta, ma nella mia posizione non si può essere schizzinosi. Nei campi ho fatto molto in fretta a
imparare a non fare lo snob. Il desiderio che esprimiamo nelle Diciotto Benedizioni – ‘Possa la mia
anima essere umile in tutto come la polvere’, per me si è avverato alla lettera. Se così non fosse stato,
sarei cenere da un pezzo. Mi sono anche imposto di imparare un’altra cosa, ma non la capirai.»
«Cioè?»
«Di non pensare.» Entrò Anna, ma non dalla direzione dove la stava cercando Grein. Reggeva un
bicchiere di succo d’arancia. Quando vide che lui stava parlando con qualcuno, rallentò il passo e fece
persino la mossa incerta di andare altrove.
Aveva ancora un’aria tesa, ma si era sistemata il viso e i capelli.
Grein si precipitò ad alzarsi, sbattendo contro il tavolo nel farlo.
«Anna, questo è un mio vecchio amico, Morris Gombiner. Ci conosciamo dai tempi di Vienna. Non ci
vedevamo da oltre vent’anni.» Il bicchiere di succo d’arancia le tremò in mano. Anna gli scoccò
un’occhiata tra l’interrogativo e l’impaurito, rimanendo in piedi accanto al tavolo con il viso cinereo di
chi combatte un malessere. Morris Gombiner, con la faccia soffusa di bonomia infantile mista a
imbarazzo, sorrise e fece un piccolo inchino buffo. Il suo atteggiamento si fece immediatamente
sottomesso, agitato, intimidito. Sbattè i tacchi e tese una manina ad Anna, che lei non potè prendere
subito per via del bicchiere che reggeva. Quindi Morris cominciò a balbettarle qualcosa in tedesco,
mangiando le parole nel parlare: «Profondamente, profondamente onorato.
E’ un immenso piacere fare la sua conoscenza. Suo marito e io eravamo amici… amici intimi. Sì,
proprio. Come fratelli. Esattamente come fratelli. Ormai da vent’anni… Un piacere. Veramente un
grande piacere.
Per caso. Per puro caso…» E, del tutto inaspettatamente, di punto in bianco aggiunse in inglese:
«Moltissime grazie!» Era evidentemente l’unico brandello d’inglese che conosceva. «Morris, non devi
parlare ad Anna in tedesco. Sa lo yiddish. Anna, posa quel bicchiere.» Lei posò il succo d’arancia e diede
la mano a Morris Gombiner. Lui la baciò all’europea. «Molto, moltissimo piacere.»
«Su, Anna, siediti. Aspetta, ti porto una sedia. Dovremmo magari trovare un tavolo più grande», disse
Grein. «Qui non c’è posto per un’altra sedia.»
«Ecco una sedia!» E Morris Gombiner ne accostò una. «E’ arrivato dall’Europa?» chiese Anna.
«No, dalla Palestina. Ma prima ero in Europa. Però non è più l’Europa. Il mondo è diventato una
giungla piena di belve.»
«E’ un sopravvissuto dei campi», spiegò Grein. «Ho visto tutto. Come dice Geremia: ‘Io sono l’uomo
che ha provato la miseria’. Ma a che cosa serve parlarne? Oggi per me è un giorno di festa, una grande
festa. Suo marito e io eravamo amici intimi. Abbiamo addirittura abitato insieme per un po’. Mia moglie
e io avevamo un appartamento a Vienna e gli abbiamo dato una camera. Nei campi pensavo di
continuo a lui; chissà che cosa ne è stato di Hertz Grein, mi chiedevo sempre. Che cosa farà in
America? Che cosa starà pensando? Ed ecco che di punto in bianco mi guardo attorno e lui è proprio
qui seduto a un tavolo. Davvero, il mondo è un villaggio. Non sapevo che avesse una moglie così bella.»
E Morris Gombiner cambiò tono. «In America non si vede mai una faccia come la sua. Qui è tutto così
ordinario.» E prese a sorridere umilmente, mostrando i denti anneriti. Anna parve persa per un attimo
nei suoi pensieri. «Grazie. Moltissime grazie. Purtroppo ci ha trovato in una situazione particolare. Ma
se è amico di Hertz, è anche amico mio.»
«Certamente, Madame, certamente. Mia moglie dovrebbe arrivare da un momento all’altro. E’ andata a
mettere un po’ di soldi nel parchimetro.
Altrimenti non si può parcheggiare. Abitiamo a Detroit. Mia moglie ha una casa qui. Suo marito mi ha
detto che avete appena lasciato un albergo che non vi piaceva. Potreste magari venire a stare da noi.
Abbiamo una bella casa in un quartiere tranquillo, con un giardino, palme e tutte le comodità. Ma a che
cosa serve una casa se non si ha nessuno con cui scambiare una parola? Come dice il Talmùd: ‘Datemi
compagnia o morte’.»
«La situazione non sarà di sicuro così brutta.»
«Si ha bisogno di un amico. Se non si ha nessuno con cui parlare, come si può provare piacere? Dove
abito io parlano tutti in inglese, e non capisco una parola di quello che dicono. Ecco perché vengo in
questa tavola calda. Qui si trova sempre qualche ebreo. Mia moglie ha l’auto e mi fa da autista.» E
Morris esplose un risolino nervoso. «Negli innominabili posti dove sono stato, se qualcuno mi avesse
detto che sarei finito in America e andato in giro in auto come un lord, avrei pensato che era matto. Ma
le cose stanno esattamente come dice Heine. L’ebreo prima è mendicante e poi principe. E’ la sua storia
fin dalle origini. Prima è lì a impastare malta per il faraone, poi ai piedi del monte Sinai, ed è lo stesso
per tutte le generazioni. Ecco mia moglie!» Morris Gombiner scattò su dalla sedia, e un attimo dopo si
alzò anche Grein. Morris le corse incontro sorridendo, gesticolando e accennando con la testa a Grein e
Anna. Sua moglie era una donna corpulenta con un petto enorme, faccia butterata, fronte bassa ed
enormi mascelle ballonzolanti che penzolavano come fette di pasta fresca. Sembrava non avere collo: la
testa posava direttamente sulle spalle. I capelli, simili a filo di ferro appena dipinto di nero, erano
rigidamente irti in tutte le direzioni. Stretta in pantaloni rosso fuoco e con sandali coperti da una
profusione di ornamenti, dal cui fronte sporgevano dita contorte dalle unghie color fiamma, reggeva
una cassetta e un’immensa borsa simile a un cesto con un lucchetto di ottone. Un naso piatto e un paio
di occhi ostili e strizzati sopra profonde occhiaie completavano la faccia con cui scrutava bellicosamente
Grein e Anna. Per un attimo parve che non avesse nessuna voglia di venire al tavolo indicatole da
Morris, e che stesse sgridandolo e coprendolo di contumelie. Scuoteva la testa con vigore. Ma dopo un
po’ si accostò lentamente come una papera. Morris la liberò con galanteria della cassetta. «Florence,
questo è il mio migliore amico, Hertz Grein.
E questa è sua moglie.» E Morris Gombiner scoccò occhiate imploranti e imbarazzate alla moglie, a
Grein e ad Anna. Sorrideva con aria colpevole, e i suoi occhi acquosi sembravano chiedere: che cosa
posso fare? La situazione è questa. La signora Gombiner valutò aggressivamente Anna con lo sguardo
& disse in inglese: «Piacere.»
«Siediti, Florence, siediti. Porto un’altra sedia!» la blandì il marito, mettendosi a trafficare. In preda a
forte agitazione, si guardò ansiosamente attorno in tutte le direzioni, in cerca di una sedia o di un tavolo
più grande, con mosse rapide, scattanti, come uno scoiattolo. Si precipitò in avanti e cercò di dare di
piglio a una sedia vuota, ma qualcuno gliela portò via sotto il naso. Sua moglie cominciò
immediatamente a sgridarlo in inglese: «Che cosa corri a fare? Perché saltabecchi come un matto? Non
si possono aggiungere altre sedie a questo tavolo, bloccheresti il passaggio agli altri. Questa è una tavola
calda, non una casa di preghiera chassidica. Sei ancora un pivello appena arrivato!» E sbattè la borsa sul
tavolo, rovesciando quasi il bicchiere di succo d’arancia di Anna, che ne aveva preso appena un sorso.
«Mi scusi… E quello là corre! Dove starà correndo? Vi conoscete dall’Europa?»
«Sì, da Vienna.»
«Viene anche lei dai campi?»
«No. Sono qui da quasi vent’anni.»
«Be’, troviamo un tavolo più grande e sediamoci tutti insieme. Mentre stavo mettendo una moneta da
dieci centesimi nel parchimetro, ho adocchiato un’occasione in una vetrina: un negozio di scarpe faceva
una liquidazione. E’ così ogni giorno. Vado un attimo in un posto, e quando torno indietro quello là ha
scovato un altro dei suoi vecchi amici appena arrivati in America. Ma possiamo sederci insieme. Avete
già pranzato? Io sono a dieta e mi tocca mangiare in tavola calda. Se vado in quei ristoranti ebraici, mi
inzeppano dei loro tagliolini e di quel loro derma ripieno, e comincio a ingrassare. A pranzo devo stare
leggera, assolutamente senza amido. Tutti i tavoli sono occupati.»
«Oggi potremmo magari fare un’eccezione e andare da Friedman», suggerì timidamente Morris
Gombiner. «Nessuna eccezione! Sono io che ingrasso, non tu. Lui può mangiare un bue intero, zoccoli
e tutto, e il giorno dopo, quando lo metto sulla bilancia, ha perso mezzo chilo. A me, invece, tutto
quello che mangio va direttamente qui, ai fianchi. Be’, presto si libererà un tavolo. Si ingozzano e via.
Chi pensate che venga qui? I ricchi dei grandi alberghi, che pagano cinquanta dollari al giorno per una
stanza, ecco chi. Sono tutti a dieta, ma più restano qui, più ingrassano. Perché è in giacca e cravatta con
questo caldo?» chiese di punto in bianco la signora Gombiner a Grein. «Se è in America da vent’anni,
perché va ancora in giro vestito così?» Girava la schiena ad Anna. Le sue spalle erano coperte di efelidi e
di quella pelle che si squama per effetto dell’eccessiva esposizione al sole. Le braccia erano
straordinariamente grosse e sembravano essere divise in due in mezzo, come se avessero generato un
altro paio di braccia. A un dito portava la vera e un anello di fidanzamento con un diamante enorme. La
lacca rossa sulle unghie era mezza spelata. «Oh, sono sempre stato abituato a portare abiti da città»,
rispose Grein. «Che cosa significa ‘abituato’?
Anche lui non voleva vestirsi da essere umano», ribattè la signora Gombiner, indicando il marito. «Ma io
gli ho strappato calzoni e giacca e l’ho vestito come si deve. Se si viene a Miami Beach, perché andare in
giro a sudare? Qui gli alberghi sono carissimi. I proprietari spennano i clienti. Io ho una casa mia, ma le
tasse si mangiano ogni cosa. Qui tutto è fatto per i milionari. Sfruttano i lavoratori persino peggio che a
New York o Detroit, anche se Ford, Dio lo maledica, è il tipo di sanguisuga che lascia i suoi operai
poveri e senza casa. Ho un nero che lavora per me, ma non gli permettono di passare la notte lì. Ogni
giorno deve tornare a Miami downtown e pagare l’affitto, perché ai neri non è consentito passare la
notte a Miami Beach. Hanno paura che gli faccia diventare nero il mare. Oh, ecco un tavolo.» Morris
Gombiner scattò lestamente verso il tavolo libero e vi inclinò sui bordi gli schienali delle seggiole per
segnalare che era occupato. Facendolo, sorrideva umilmente, da chassid, e con aria colpevole, come uno
scolaretto birichino. Sua moglie, facendo smorfie e brontolando, si trasferì al nuovo posto lentamente e
goffamente come una papera; era evidente che per lei un movimento di qualsiasi genere costituiva uno
sforzo. Dai lobi degli orecchi le ballonzolavano enormi orecchini che sembravano due molle da letto.
Grein e Anna rimasero un attimo al primo tavolo. «Che razza di malasorte è questa?»
«Te l’avevo detto che Miami non faceva per noi. Ma lui è davvero una cara persona.»
«Sua moglie è di una volgarità intollerabile.»
«Non possiamo farci niente. Su, andiamo là.»
«Tutte le disgrazie capitano a me. In questo momento non posso socializzare con nessuno, Hertz. Ho
lo stomaco che si rivolta.»
«Su, bevi un po’ di té.
Hanno una casa… potremmo magari andare a stare da loro.»
«Con quei matti?»
«Grein, perché siete rimasti lì? Venite qui!» gridò Morris. «Vi stiamo aspettando.» Lui aiutò Anna ad
alzarsi, e si trasferirono all’altro tavolo. «Mia moglie non si sente molto bene», spiegò. «C’è un solo
rimedio per tutti i malanni: té al limone. Ogni volta che mi sento indisposta, ne ordino subito un po’, e
mi mette a posto. Tutti i guai vengono dallo stomaco e dalle impurità del sangue.
Il té al limone pulisce tutto. Be’, qui abbiamo un tavolo comodo. Posso portarvi qualcosa? Ditemi che
cosa volete… mi piace fare il cameriere…»
«Tu sta’ seduto!» ordinò sua moglie, scagliandosi all’attacco. «Questa è una tavola calda, non un
ristorante. Qui non si serve ai tavoli. Ciascuno si arrangia da sé. Se ha fame, vada prima lei», disse poi a
Grein, ignorando del tutto Anna. «No, grazie. Vada pure prima lei. Noi non abbiamo fame.»
«Forza, allora. Se non mangio all’orario preciso, mi vengono i crampi allo stomaco.»
«Se vai subito, Florence, porta qualcosa anche a me… un sandwich o qualcosa.»
«Vieni anche tu con me!» Quindi andarono entrambi al banco. Di fianco alla moglie Morris Gombiner
appariva ancora più piccolo e scarno. Lei gli mise una mano su una spalla, ed era difficile dire se gli si
appoggiasse o lo stesse spingendo. Vassoi e posate erano così in alto che lui ci arrivava a stento, per cui
fu costretto a mettersi in punta di piedi.
Anna cercò di alzarsi. «Be’, ecco una donna che sa il fatto suo. Perché continui a indicarmi come tua
moglie, Hertz? Che razza di commedia stai inscenando per questi due? Non ne ho già avuto abbastanza
all’albergo?
Non voglio essere chiamata con il tuo cognome. Non sono caduta così in basso. Ho ancora un mio
cognome.»
«Che cos’altro potevo fare? Credimi, quando l’ho riconosciuto mi sono sentito sprofondare il cuore. In
realtà avrei dovuto provare una grande gioia, non avevo idea che fosse ancora vivo, ma non adesso, tra
questo disastro. Pranzeremo con loro e sarà finita.»
«No, ti si attaccheranno come sanguisughe. Sto cominciando a credere che si stiano avverando tutte le
maledizioni del papà.»
«Non essere sciocca!»
«Se soltanto ci fosse un posto dove potermi stendere. Non ce la faccio quasi a stare seduta. Tutto mi
gira intorno.»
«Troveremo presto un altro albergo.»
«Che tipo di albergo? Non possiamo arrivare senza bagaglio.»
«Tornerò là a prenderlo.»
«E io intanto che cosa faccio? Qui dentro c’è un caldo soffocante. Quando li ho visti mi si è fermato il
cuore. Un guaio dopo l’altro… Come lo definisce la Bibbia? Il papà mi aveva avvertito. Non avrai
quiete, ha detto. Anelerai a morire. Mi ha scagliato contro una maledizione, Hertz. Mi ha scagliato
contro una maledizione!»
«Non avrei davvero mai pensato che credessi a simili sciocchezze, Anna.»
«Perché no? Si può scagliare una iettatura su altri. Tra tutti gli alberghi di Miami Beach dovevamo
scegliere proprio quello dove scendono gli avvoltoi. E adesso siamo incappati in una coppia dello stesso
genere. Mi hanno scagliato addosso una maledizione tutti e due, il papà e Luria. E probabilmente anche
il rebbe.»
«Anna, non credo veramente ai miei orecchi.»
«Non ci avrei creduto io stessa, se tutta la mia vita non fosse stata una lunga catena di disastri. Il destino
esiste, sai. Quello Yasha Kotik si era talmente innamorato di me che quasi moriva, così diceva. Ma non
appena siamo stati sposati ha deciso di distruggermi. Non riesco tuttora a capire come ho fatto a
sfuggire viva alle sue grinfie. Poi, non appena sei comparso in scena tu, Luria è diventato il mio
peggiore nemico. Il papà ha detto cose molto brutte. Capisco soltanto adesso quanto fossero brutte.»
«Che cos’ha detto?»
«Le sue tremende maledizioni e tutto il resto. Non ho mai anelato a un letto come adesso. Vorrei
addormentarmi e non svegliarmi mai più.»
«Non diventare isterica, Anna. Avremo presto un posto dove stare, e dimenticherai tutta questa
stupidaggine.»
«Ci troveranno di nuovo. Oh, Dio, ecco che arrivano!» Morris Gombiner e sua moglie tornarono lì
portando due vassoi carichi di carne, pudding, brodo, cornetti. Grein fece svogliatamente il gesto di
alzarsi, ma rimase seduto. «Che cosa ti porto, Anna?»
«Lo sai che non voglio niente.»
«Che cosa ne diresti di un té al limone?»
«No, Hertz.
Portami soltanto un bicchiere di acqua fredda.»
«Che genere di pranzo sarebbe l’acqua fredda?» interloquì Morris. «Si deve mangiare qualcosa.
Tutte quelle idee sulle calorie sono sciocchezze. Bisogna mangiare, altrimenti non si ha forza. Il corpo è
insaziabile. L’anima deve provvedergli tutto, e più ne ha più ne vorrebbe. E’ la stessa storia di
Chamberlain con Hitler, possa nessun bambino portare il suo nome.
D’altra parte, non c’è niente che non concederebbero a Stalin…»
«Morris, ricominci?» chiese sua moglie in tono minaccioso. «Vabbè, starò zitto. Mia moglie è rossa. Non
le si può dire una sola parola contro Stalin.»
«Non sono rossa, ma non occorre che tu rifaccia il verso a tutti i reazionari. Che male ha fatto loro
Stalin? Ha costruito una nazione di lavoratori, senza capitalismo e senza fascismo. Ha dato agli ebrei il
Birobidzhan. Se non fosse stato per lui, Hitler sarebbe arrivato in America. E comunque qui non c’è
penuria di nazisti. Stanno già cercando un’altra guerra, gli antisemiti. Possano andare tutti a fuoco con
Wall Street!»
«Sì, sì, continua a ripetere quello che senti alle tue riunioni.»
«E’ la verità, Morris, la verità. Siano benedette le mani di Stalin. Per me è un santo, il più grande amico
del popolo. Se non fosse per lui, le classi lavoratrici sarebbero andate al muro da un pezzo.» E la signora
Gombiner sbattè giù dal tavolo un vassoio vuoto.
Cadde con uno schianto. «Su, su, non attacchiamo a discutere. Ho parlato con dozzine di persone che
vengono da là. E’ un inferno, un inferno vivente.»
«Sai perché è un inferno? Perché l’Unione Sovietica ha perso quantità enormi di sangue, e i fascisti,
brucino tutti, non hanno voluto aprire un secondo fronte. E’ stato soltanto quando le masse hanno
invaso Washington, minacciando di linciarlo, che il presidente ha ordinato l’invasione. Ma è stato tutto
un bluff! Alla chetichella hanno cercato di salvare Hitler, in modo da poter spazzare via i lavoratori.»
«Basta, Florence!»
«Taci tu!» Cadde il silenzio. La signora Gombiner diede di piglio al brodo. Lo sorbì rumorosamente,
fece una smorfia, aggiunse sale e pepe. Quindi scoccò un’occhiata malevola al banco. Morris sembrò
rattrappirsi. Rimase a sedere immobile e cinereo, sbattendo gli occhi, mordendosi le labbra e scuotendo
con vigore la testa. Prese un cucchiaio e tornò a posarlo. Sua moglie trepestò verso il banco. «Su, Grein,
va’ a prendere qualcosa. Bisogna mangiare, su questo sono tutti d’accordo. Che cosa si può fare? Io mi
attengo all’esempio di Issacar: ‘Ha visto che il luogo di riposo era bello… ha piegato il dorso a portar la
soma’. Si ha una scelta, ditemi? Madame, mi spiace davvero. Come dice Heine? Oh, santo cielo, ho
dimenticato le parole. Ah, sì: ‘Herz, mein Herz, sie nicht beklommen Und ertrage die Geschtck’. Cuore,
cuore mio, non essere in pena e sopporta la sorte che ti è destinata.»
«Non voglio impormi, Madame», la blandì Morris Gombiner, «ma la nostra casa è un paradiso. Mia
moglie mi ha appena detto che era appunto intenzionata ad affittare a buon prezzo l’appartamento
all’ultimo piano. Lei ha da fare tutto il giorno, molto da fare. Si occupa di immobili in questa zona. Ha
un socio. Sta fuori tutto il giorno. Che cosa potete perdere? Per me non è questione di soldi, Dio ne
scampi. Che differenza fa, per me? Mi bastano un tozzo di pane e un posto dove dormire. Ma sarebbe
di sicuro molto più piacevole se stessimo tutti insieme. Probabilmente non conoscete nemmeno
nessuno da queste parti.»
«Decidi tu, Anna», insistè Grein. «Mi piacerebbe davvero venire a stare da lei, ma ho un po’ paura di sua
moglie», rispose Anna. «Che cosa c’è da aver paura? Mia moglie frequenta riunioni di sinistra e crede
che la Russia sia il sancta sanctorum. Legge le loro pubblicazioni eccetera. Le ho detto che è una
borghese anche lei, ma con i fanatici non si può parlare. Ma a voi che cosa importa? Siete inquilini. E lei
non ha comunque tempo di stare in casa… fa mille cose. Le sue attività sono esclusivamente a
Hollywood… così si chiama un quartiere di qui, non l’altra Hollywood. Avreste una casa, un giardino,
un palazzo.
Non dovete pagare subito per tutta la stagione. Potete trasferirvi lì per una settimana e vedere come
vanno le cose. E visto che lei, signora, non sta molto bene, che senso ha mettersi a cercare dappertutto
alberghi eccetera?» La signora Gombiner tornò portando con sé un dessert alla frutta e caffè. «Allora,
che cos’hanno deciso questi qui? Direi che prima dovrebbero dare un’occhiata. Nessuno compera
niente a occhi chiusi.»
«Vorrebbero venire a stare lì una settimana e vedere se gli piace», si incaricò di rispondere Morris
Gombiner. «Perché no? Non vi farò di sicuro pagare quello che vi chiederebbe un albergo. Venite lì e,
se non vi piace, ve ne andate. Non vi imbroglierò, e per quello che pagate adesso gli alberghi vi
accetteranno in qualsiasi momento. Se decidete di rimanere, non vi farò pagare quella settimana a parte.
Qui siamo tutti ladri ebrei, come si suol dire. Che cosa importa, purché ci sia la salute?»
«Quanto vuole per la settimana?»
«Quello che gli alberghi fanno pagare per un giorno: sessanta dollari. Se decidete di rimanere tutta la
stagione, mi pagherete quattrocento dollari. Venite a vedere che occasione è. Dove sono le vostre cose?
Andremo là in auto a prenderle. Tutti i taxi qui sono una rapina. Questo caffè fa schifo!
Pfui!» E la signora Gombiner ne sputò una boccata sul piattino. «Ne troverai di meglio in Russia.»
«In Russia stanno costruendo il socialismo.» Che cosa sto facendo? Che cosa sto facendo? si chiese
Anna.
Sto cadendo in un pantano. Ma Morris Gombiner aveva ragione: in quel momento non aveva la forza di
andare in cerca di un albergo. Aveva mal di testa, crampi allo stomaco e un solo desiderio: mettersi a
letto e stendersi. Anche se portava gli occhiali da sole, la luce abbagliante della tavola calda le faceva
male agli occhi. Si sentiva del tutto priva di energie, come se l’incontro con la signora Katz in albergo
avesse eroso le ultime vestigia della sua gioventù. Be’, come può andare peggio con loro? Chiuderò la
porta. Quella Gombiner non può entrare con la forza. Di punto in bianco la signora Gombiner diede di
piglio alla caffettiera e si precipitò al banco, apparentemente con l’intenzione di sbattergliela in faccia e
fare una scenata. Grein non riuscì a trattenersi dal ridere. «Tua moglie non permette chiaramente a
nessuno di approfittarsi di lei.»
«Eh? E’ caffè buono», rispose Morris imbarazzato. «Oltre a tutto la copriranno di contumelie. Be’, non
so, ciascuno ha la sua follia. Per esempio, perché gli ebrei sono disposti a sacrificare la vita per il
comunismo? Da quelle partigli hanno ammazzati tutti. Deliberatamente e a sangue freddo. E’ mille
volte peggio che sotto lo zar. Ma l’ideologia li ha fatti impazzire al punto da renderli ciechi. Come dice il
proverbio? Gli si sputa in faccia e pensano che stia piovendo. Non appena smettiamo di servire un Dio
onnipotente, noi ebrei dobbiamo cominciare a servire un despota umano capace di tutto. Ma io ho
smesso di meravigliarmi. Se mi diceste che, mentre lo trascinavano alla forca, un innocente si è messo a
cantare un inno in lode del suo boia, non mi sorprenderei. Voi non ci crederete, ma nei campi
infuriavano le discussioni. Da una parte del muro si ardevano esseri umani, e dall’altra si cavillava su
scemenze di ogni genere… se era rimasta la forza di parlare, voglio dire. Per lo più non ne avevamo né
il tempo né la forza. La frusta non mollava mai. La malvagità dei nazisti era del tutto folle. Un intero
popolo si è trasformato di punto in bianco in tanti diavoli.»
«Io stessa ho evitato per un pelo di esserne vittima», disse Anna, un po’ a se stessa e un po’ a lui. «Eh?
Quello che facevano alle donne è terrificante anche soltanto a pensarci.
Una volta li ho visti mentre ne spingevano davanti a sé una folla.
Sembravano esattamente spettri, stracciate, con la testa rapata. Tra di loro improvvisamente ne ho
riconosciuta una che era stata una famosa bellezza. Be’, sarà meglio che non dica niente.» La signora
Gombiner tornò con un bricco di caffè appena fatto. «Che mafiosi! Che balordi!
Che nullità! Be’, gli ho dato una lezione. Qui in America, se si è troppo timidi per aprire bocca, ci
strappano i visceri. Se vuoi bere risciacquatura, Morris, fa’ pure, ma a me una tazza di caffè piace buona.
Per i dieci centesimi che gli si da, possono permettersi di dare un caffè come si deve, non veleno.
Adesso almeno sarà migliore… questo è sicuro.» Finito di mangiare, uscirono tutti in gruppo verso
l’auto rossa della signora Gombiner, parcheggiata direttamente di fronte. La donna si mise al volante e il
marito le si sedette accanto.
Grein e Anna dietro. La signora Gombiner guidava così veloce che era difficile capire come riuscisse a
non andare a sbattere contro altre auto. I conducenti le urlavano e imprecavano contro, e lei replicava
per le rime. «Ehi, balordo, sei cieco?» Non smetteva mai di pestare sul clacson. Per un po’ continuò a
splendere il sole, ma di punto in bianco cadde il crepuscolo invernale. Tutti gli alberghi accesero i
proiettori, illuminando le palme e i fiori come se fossero scenari di palcoscenico.
Qua e là una palma rimasta vittima dell’ultimo uragano era sostenuta da assi. Bagnanti ritardatari, donne
in accappatoio e sandali di gomma, tornavano dalla spiaggia; gente che andava a cena presto, donne in
stola di visone e collo di pelliccia, usciva dagli alberghi. Tutto si mescolava: giorno e notte, estate e
inverno, seminudità ed eleganza. Il sole al tramonto infiammava le nuvole, gettando una sfumatura
rossastra sul mare e riempiendo le finestre di porpora e oro fine. Lontana sull’orizzonte navigava
serenamente una nave bianca. L’aria sapeva di arance e benzina. Materializzatosi dal crepuscolo, un
aereo volò via, rombando e facendo lampeggiare le luci. La serata aveva un che di paradisiaco e
fantastico, una calma tropicale, la strana sensazione che fosse festa a metà settimana. Grein si sentì
riempire di nostalgia per la primavera. Oh, se potessimo riposare! Se le forze che soggiogano e
angariano gli esseri umani lasciassero la presa un attimo, in modo che potessimo godere i doni di Dio,
fare un esame di coscienza, sollevarci lo spirito oppresso! Tutti i peccati, infatti, discendono dalla
mancanza di fede nelle forze superiori, dal timore del domani, dal desiderio di arraffare una briciola di
questo mondo prima che sia troppo tardi.
L’auto si fermò davanti all’albergo dov’erano scesi Anna e Grein. Lui smontò. «Faccio i bagagli in
cinque minuti.»
«Faccia con comodo, giovanotto», replicò la signora Gombiner. Il crepuscolo puro l’aveva
evidentemente messa in una disposizione d’animo più amabile. Non erano passati più di tre minuti
quando Grein tornò lì. «Anna, il signor Abrams non vuole togliere i tuoi gioielli dalla cassaforte.
Bisogna che vai là tu di persona.»
«Gli hai mostrato la ricevuta?»
«Gli ho mostrato tutto.»
«Chi c’è nell’atrio? Tutte quelle orrende donne?»
«Non ci ho proprio fatto caso.»
«Perché ha così paura di entrare, signora Grein?» intervenne la signora Gombiner. «Visto che non
riusciva a dormire in questo albergo per via del rumore, ha tutti i diritti di trasferirsi dovunque voglia, e
quello là non può farle pagare più del tempo che è rimasta qui. Su, entro con lei, signora Grein, e gli
dirò così chiaro e tondo come la penso che anche gli altri ospiti se ne andranno il più in fretta
possibile.»
«La prego, signora Gombiner, per favore, rimanga in auto. Non voglio scenate sgradevoli!»
«Boh, se ha paura, amen. Ma in America non bisogna averla. E’ un Paese libero. Qui, se una donna dice
qualcosa a un uomo, quello deve ascoltarla sino in fondo e rispondere: ‘Sì, signora. Se fa il furbo, lo si
porta in tribunale e il giudice lo sbatte in galera. Siete tutti ancora pivelli appena arrivati.»
«Florence, non ficcare il naso nelle faccende degli altri.»
«Tu sta’ zitto!» Anna ebbe una breve esitazione. «Be’, io entro. Però mi faccia un favore, signora
Gombiner: resti in auto.»
«Certo. Se la gente vuole farsi imbrogliare, non sono affari miei. Paghi a quel truffatore quello che
vuole. Sono soldi suoi, non miei. Che fessi!» Nell’atrio dell’albergo splendevano tutte le luci. Gli ospiti si
erano vestiti per la cena. La televisione era accesa. Le donne stavano chiacchierando, tutte con facce
scottate dal sole che a Grein facevano venire in mente tante paste fresche di forno. Sembravano
irradiare il calore bruciante che avevano assorbito stando tutto il giorno sotto il sole martellante.
I corpi, fino a poco tempo prima oziosamente stesi sulla sabbia, adesso erano chiusi in abiti sgargianti e
gioielli luccicanti. Il signor Abrams aveva fatto tutto ciò che poteva per conferire un’aria festosa al suo
modesto albergo. C’erano fiori ovunque, e da due vasche si ergevano alberelli d’arancio indorati da
minuscoli frutti. Nonostante questi fronzoli, però, tutto era comunque volgare. Una donna aveva messo
una moneta in un distributore di francobolli, ma questi non volevano uscire, per cui stava prendendo a
pugni la macchina per riavere i suoi soldi. Una ragazza con una faccia tonda rossa come un pomodoro
stava mostrando alcune foto a un ragazzo. Tutte le donne blateravano contemporaneamente. Parlavano
di scarpe, e ciascuna si indicava i piedi.
Partecipavano anche gli uomini. Il dentista di Philadelphia si stava sforzando di dire qualcosa, ma le
donne gridavano più forte di lui. Che cosa poteva sapere un uomo di scarpe da donna? Anche mentre
chiacchieravano a tutto spiano, continuavano a guardare in tutte le direzioni – verso la porta, fuori,
dappertutto, quasi fossero segretamente in attesa di un messo, di un annuncio, di una bella notizia senza
di cui tutto sarebbe stato futile. La signora Katz si era già abbronzata e messa in abiti estivi. Il diamante
al dito rifrangeva la luce elettrica come un prisma sfolgorante. Il suo abito era di due tessuti diversi ed
era mezzo rosso e mezzo nero. A Grein fece venire in mente una figura di una carta da gioco. Quando
lui e Anna entrarono, il brusio continuò per un po’, non avendo evidentemente ancora gli ospiti colto
l’opportunità che si era offerta. Ma di punto in bianco tutti tacquero, e non si sentì altro che la musica
metallica del televisore.
La signora Katz balzò su dal divano. «Signora Luria, cioè, signora Grein, dov’era andata a finire?
Desideravo proprio vederla! Dove l’ha portata, signor… ehm… ehm… Grein?» Anna non rispose ma
puntò direttamente sul banco. «Signor Abrams, perché non vuole togliere i miei gioielli dalla
cassaforte?»
«Chi ha detto che non voglio? Ma devo avere qui la proprietaria, non un estraneo. Se vuole trasferirsi da
un’altra parte, signora Grein, padrona di farlo, ma quando restituisco preziosi devo sapere a chi li sto
consegnando, e avere la firma giusta.»
«Sia così buono da prepararci il conto.»
«E’ già pronto.» Stranamente, il signor Abrams non vi aveva calcolato più dei pochi giorni che i due
avevano trascorso lì. I suoi occhi erano pieni di rammarico e della determinazione a comportarsi in
maniera rispettabile in mezzo a tanto ribollire di malevolenza femminile. Grein tirò subito fuori il
portafogli e pagò. La signora Katz, rimasta in piedi in disparte parlando furtivamente sottovoce con le
altre donne, venne lì. «Signora Luria, non mi dica che sta andando via!»
«Sì, andiamo via!» rispose Anna in tono aggressivo. «Perché? Non mi dica che scappa via per colpa mia!
Arrivo, incontro una faccia conosciuta, ringrazio Dio che potremo passare un po’ di tempo insieme, e
di punto in bianco lei se ne scappa!
Che cos’è successo? Non siamo una compagnia degna di lei? Certo, questo è un albergo piccolo,
rispettabile, senza traffici sottobanco, per gente sposata, non per amanti, ma questo non significa che lei
debba scappare via.» Di punto in bianco Grein perse la pazienza. «Signora, sia tanto buona da lasciarci
in pace.» Gli occhi della signora Katz mandarono lampi. «Perché si mette di mezzo, signor Grein? Sto
parlando con la signora Luria, non con lei.»
«Tutte queste chiacchiere sono assolutamente superflue.»
«Tanto per cominciare lei non è il mio maestro, signor Grein, quindi non mi dia lezioni di buone
maniere.»
«Non ho nessuna voglia di parlare con lei, signora Katz», gridò Anna.
«Chiaro?»
«Chiaro, chiaro… chiaro come il fango! Domani scriverò a mio marito e gli chiederò di porgere al
signor Luria i saluti della sua fedele moglie. Se deciderà di andare in tribunale per chiedere il divorzio,
tutti noi saremo testimoni del modo in cui si è comportata. Se non mi sbaglio, lei non ha ancora la
cittadinanza di questo Paese, e dubito che un qualsiasi giudice la concederebbe a una donna del suo
genere. Mio marito non è avvocato come il signor Luria, ma so di un caso in cui una donna come lei
l’hanno espulsa, rispedendola dritta al suo Paese di origine. Prima si è anche fatta un po’ di prigione, o
forse era Ellis Island. C’è stato un articolo sui giornali.»
«Faccia come crede, ma non mi rivolga la parola!» ribattè Anna alzando la voce. «Si comportano da
pezzi grossi, questi profughi!» gridò il dentista di Philadelphia. «A loro piaceva di più la Germania con
Hitler? Lo zio Sam ha aperto loro le porte perché erano vittime del fascismo, e che cosa hanno portato
qui? I peggiori fascisti e antisemiti sono proprio loro.
Un dentista di Berlino è venuto a stare con la famiglia nel mio quartiere, e non vanno a pregare
nemmeno a Yom Kippur. A Natale tirano su l’albero più grosso che riescono a trovare in tutta
Philadelphia. La comunità ebraica lo ha avvicinato chiedendogli di dare un contributo economico a un
centro di sinagoga che intendevano costruire, e che cos’ha risposto questo maiale di ebreo tedesco? Ha
detto che preferiva non frequentare gli Ostjuden, perché non hanno educazione e… quel figlio di
puttana ha anche dato la colpa agli ebrei polacchi se in Germania è andato al potere Hitler. Ha detto
cose di cui non si sarebbe vergognato nemmeno Goebbels. Ha fatto la dentiera a una tale e…» Sulla
soglia comparve improvvisamente la signora Gombiner. Il dentista cercò di tirare avanti con la sua
storia della donna i cui denti falsi di fattura tedesca si erano rotti al primissimo morso e che ci si era
quasi strozzata, ma nessuno l’ascoltava più. Tutti si erano voltati a scrutare la nuova venuta. Tra la folla
elegantemente abbigliata aveva un’aria straordinariamente comune e malvestita, con i suoi pantalonacci
rossi in quel momento arrotolati fino ai ginocchi, i piedi nudi ficcati nei suoi pacchiani sandali e la
camicetta che lasciava scoperta una striscia di diaframma nudo, non raggiungendo i pantaloni. Con
l’ampio petto spinto in avanti e l’enorme posteriore che le sporgeva dietro, la signora Gombiner fece
lampeggiare sull’atrio uno sguardo di valutazione, iroso, minaccioso. Annusò la malignità e lo spirito di
vendetta di gente cui non rimaneva altro se non distruggere la felicità altrui. Per piantarsi ancora più
salda dov’era, si appoggiò con una mano allo stipite. «Non c’è da meravigliarsi che non si veda il
momento di andarsene da qui!» disse con voce rauca e stridente. «C’è il baccano di un bazar di
Bombay.» Il signor Abrams, che aveva già allungato un braccio ad aprire la cassaforte per prendere i
gioielli di Anna, si fece teso e all’erta.
Stupefatto, fissò l’intrusa con sospetto e ostilità. Anna sbiancò, fissando un paio di occhi terrorizzati
sulla signora Gombiner. Scosse la testa incredula, come se ciò che stava vedendo non potesse essere
vero ma fosse un’allucinazione. Grein fece un passo indietro. «Chi è lei? Che cosa vuole?» chiese il
signor Abrams. «Lasci perdere chi sono.
Considerato che il suo albergo non ha assolutamente niente da offrire, né piscina né divertimenti e
nemmeno una spiaggia sua, per cui chi vi risiede deve attraversare la strada per arrivare al mare,
rischiando di essere messo sotto dalle auto, perché non cerca almeno di fare in modo che qui dentro ci
sia un po’ più di silenzio? In questo posto si può diventare sordi, tanto è rumoroso. In questi alberghi
non fate altro che arraffare i soldi dalle tasche della gente e imporre prezzi alti.
Per colpa di alberghi come il suo, gli ospiti che pagano meglio scappano più su, verso le vie con i
numeri novanta, e i motel e Dio solo sa dove altro, con il risultato che da quelle parti i prezzi degli
immobili sono saliti alle stelle, ed è diventata una mafia tale che una villetta diroccata e senza comodità
costa seimila dollari e anche di più. Mi dia retta, so quello che dico, caro signore. Sono negli immobili
anch’io, non qui ma a Hollywood, e voglio dirle che la gente come lei sta rovinando gli affari a Miami
Beach, e per colpa dei suoi simili…» Il signor Abrams ritrasse la mano dalla cassaforte. «Signora, io non
mi immischio nei suoi affari, quindi lei non si immischi nei miei. Se avrò bisogno di lei, la manderò a
chiamare, e la nominerò anche direttrice.»
«Signora Gombiner, per favore, sia tanto buona da tornare all’auto!» disse Grein con voce sorda. «Ci
andrò quando vorrò, non quando me lo dice lei, signor Grein, e lei non dev’essere così snob e fesso,
maledizione. Questi qui raccattano un albergo, pagano qualche centinaio di dollari a un agente e
vogliono diventare milionari in una sola stagione. Viene qui un sacco di gente malata che ha bisogno di
un po’ di sole per la sua salute, e spende sessanta o settanta dollari al giorno per un buco che non ne
vale tre. Downtown, nessuno ha mai messo piede in una piccionaia come questa. Se strada facendo non
avessero unto un po’ di ruote, lei sa che cosa intendo, un posto come questo sarebbe stato condannato
da un pezzo alla demolizione e…»
«Signora, vada alla Camera di Commercio o dove vuole. Mi lasci in pace!»
«Signora Gombiner, non capisco perché stia facendo una scenata!» intervenne Anna, che aveva
ritrovato la voce. «Ho già abbastanza guai anche senza lei.»
«Ah, sono tutti una banda di ladri», fece osservare la signora Katz al dentista.
«Ehi, signora, lei di dov’è? Di Orchard Street?» gridò quello di rimando. Si sentirono risate e risolini.
«Che cos’avrebbe che non va Orchard Street? Il fatto che ci vive povera gente, lavoratori comuni e non
giocatori imbroglioni come lei?»
«Come fa a sapere che sono un giocatore?»
«Fatti miei. Mi basta un’occhiata a un cliente e capisco immediatamente con chi ho a che fare. Perché
venite tutti qui? Forse perché vi viene la TBC a furia di lavorare tutta la settimana nelle fabbrichette
degli schiavisti e, se volete continuare a vivere, vi occorre un po’ di sole? Venite qui, vi giocate tanti bei
soldi su cavalli e cani e poi correte nei night club a spenderne altri con puttane da quattro soldi. E come
li fate, i soldi da sbattere via così?
Sfruttando i poveri lavoratori di Orchard Street, con la pancia gonfia per la fame e…»
«E’ comunista, per caso?» Anna si chinò verso il proprietario dell’albergo. «Per favore, signor Abrams,
mi dia i miei gioielli… devo scappare da questa donna.»
«Perché l’ha portata qui, se deve scappare da lei? Firmi qui, per cortesia.» Anna prese la penna, ma la
mano le tremava talmente che faticava a scrivere. Il signor Abrams le mise davanti la ricevuta, ma le
righe sembravano muoversi, cadendo le une sulle altre. Mise la sua firma sulle parole che vi erano
stampate.
La parete di fronte a lei sembrava traballare, il pavimento scivolarle via sotto i piedi. Davanti agli occhi
le lampeggiavano chiazze di fuoco.
Si sentiva suonare campane negli orecchi. Dio del cielo, è la morte! si disse. Si aggrappò al banco per
non cadere. Come attraverso un muro sentì la signora Gombiner ribattere con veemenza: «Non sono
comunista, ma voi crepate tutti quanti di paura. Avete proprio ragione a tremare dentro quelle scarpe di
lusso. La vostra miserabile fine è più vicina di quanto crediate!»
CAPITOLO 8.
Anna era stesa nella sua camera da letto al piano superiore. La signora Gombiner era già andata a
dormire nel suo appartamento sottostante. Grein era seduto sulla veranda. Sebbene non fosse ancora
tardi, tutto era immobile come se fosse mezzanotte. Era difficile credere che soltanto a pochi minuti da
lì, sull’altra riva dell’Indian River, ci fossero gli enormi alberghi, i night club, il trambusto di Miami
Beach. Un’evanescente luna gialla era sospesa bassa nel cielo. Lì le stelle erano diverse da quelle del
Nord, e nelle loro forme, combinazione e varietà a Grein sembravano i segni diacritici della Bibbia in
ebraico che spiegano al lettore dove vocalizzare e come cantilenare il testo. Morris Gombiner gli aveva
prestato un binocolo che lui teneva puntato sul cielo, spostandolo da un angolo all’altro. In zone dove
l’occhio nudo poteva vedere soltanto una lucetta solitària, semisfocata, le lenti telescopiche rivelavano
interi agglomerati di stelle, che ridevano con gaiezza dorata nelle altitudini infinite. Grein cercò di
riconoscere le costellazioni. Cercò la Via Lattea. Ecco che cos’avrei dovuto fare: l’astronomo! pensò. Se
ci si perde nella grandezza del divino, non si vede la meschinità dell’umano. Era difficile credere che
ciascuno di quei puntolini fosse un sole attorno cui girava un certo numero di pianeti in tutto simili alla
terra, pianeti forse abitati da esseri intelligenti. No, il nostro pianeta terra non poteva essere
un’eccezione nel cosmo. Esistevano probabilmente miliardi o migliaia di miliardi di terre simili, ciascuna
con la sua fauna e flora, con le sue bellezze e pecche, con i suoi piaceri e guai.
Era strano sedere lì sulla veranda di Morris Gombiner a guardare nell’eternità da cui si è venuti e cui si
deve tornare. Com’era sciocco chi credeva che l’uomo, con la sua mente limitata, fosse l’unica sapienza
di tutto l’universo, e che tutto il resto fosse cieco, arbitrario, pura materia fisica! Grein posò il binocolo.
Lì sotto tutto taceva: le vicine palme da cocco, i cactus, il cespuglio di oleandro fiorito nel cuore
dell’inverno, i sempre mutevoli fiori nei vasi che circondavano la casa. Brezze calde frusciavano nella
notte, recando messaggi dalle foreste vergini del Brasile sull’equatore. Correnti calde si levavano dal
mare. Dietro la casa, il giardino era un fitto di arance, limoni e altri frutti tropicali. L’aria era densa di
profumi speziati, di segreti orientali, di un desiderio che soltanto i climi caldi suscitano. Tutto sembrava
vivere, ogni filo d’erba, ogni foglia, ogni ciottolo. Grein inspirò a fondo. Quel mattino era convinto che
Morris Gombiner fosse cenere. E adesso, la sera stessa, abitava in casa sua. Ma quella minacciosa donna
di sua moglie? Come rientrava, costei, nell’universo? Che tipo di ruolo recitava, costei, nel dramma
divino? Si sentì un rumore di passi e Morris Gombiner arrivò lì fuori in ciabatte e vestaglia. «Hertz, non
dormi ancora?»
«No.»
«Come sta Anna?»
«Un po’ meglio.»
«Anche Florence è andata a letto. Che cosa te ne pare della casa? Una cosina non male, eh? Ma la vedrai
come si deve soltanto al mattino, con il sole.»
«E’ magnifica anche adesso.»
«Be’, tu come stai?
Senza le donne possiamo parlare. Non sai che cosa significhi per me averti incontrato, e che tu sia qui.
Non è una cosa da poco! Eravamo amici intimi, in definitiva. Ma te ne sei andato senza una parola…
peccato per entrambi. Non si dimentica niente. Là, nella Geenna, ogni pochi giorni dovevo prepararmi
per una ‘selezione’, e ogni volta ti rivolgevo di nuovo il mio ultimo saluto. Sta’ bene, Grein, dicevo
sempre, perdonami se mai ti ho fatto un torto e detto una parola fuori posto. Non posso dirti quanto
vicino io sia arrivato alla morte. Era diventata una presenza familiare, una buona amica. Molti non
vivevano neanche fino a essere gasati: morivano nei campi di lavoro o restavano lì secchi sul giaciglio.
Una notte, nelle baracche, ero steso e stavo parlando con qualcuno. Non ci era consentito farlo… che
cosa ci era consentito? Ma non avevamo neanche la forza di farlo, perché, dopo una giornata di fatica,
la sera crollavamo come se ci avessero messo giù con un pugno. Ma per caso quella sera la guardia si era
allentata. Così questo tale era lì steso e mi ha chiesto: Morris, che cosa pensi?
Usciremo di qui vivi? E io gli ho risposto: tu, forse. Io sono già morto. Ho continuato a parlargli per un
po’, e lui non rispondeva. Ho pensato che si fosse addormentato. Che cos’altro devo dirti? Era morto
mentre parlavamo.»
«Di fame?»
«Non so. Forse di scorbuto. Di che cosa non morivamo? Che sia sopravvissuto qualcuno è stato un
miracolo del cielo. Quando i tedeschi hanno visto che gli Alleati stavano vincendo e che loro erano
finiti, hanno cominciato a fucilare tutti. Avevano un solo desiderio: uccidere, uccidere. Ne facevano un
gioco. Ci mettevano in fila e ne fucilavano uno su tre. Altri dovevano scavarsi la fossa.
Non voglio rattristarti, Hertz, ma ho davvero visto ebrei scavarsi la tomba. Alzavo gli occhi ai cieli, ma
erano azzurri e splendeva il sole.
Tutto era silenzio. Nessun angelo piangeva. Il Signore dell’Universo taceva. Ahi, ahi, che cosa si sa di
tutto ciò? Che cosa si sa? Non mi sarei mai aspettato che gli ebrei dimenticassero così in fretta.»
«Che cosa dovrebbero fare?»
«Mah, era destino che io ne uscissi intero. Come?
Perché? A che fine? Non mi crederai, Hertz, ma me ne vergogno ancora oggi. Se si guarda tutto questo
lusso che ci circonda, vivere diventa vergognoso. Fino al momento in cui ho fatto vela per la Palestina,
non credevo che sarei sopravvissuto. Gli americani avevano già preso il sopravvento e si stavano
occupando di noi e di tutto quanto, ma non ero ancora sicuro. Arrivare in Terra Santa è stato come
raggiungere il paradiso. Avevamo di nuovo la nostra dignità. Ci portavano sulle spalle, e noi che cosa
potevamo fare? Piangevamo. Organizzavano banchetti per noi, tenevano discorsi in nostro onore.
Eravamo lì più meschini di un pidocchio o una cimice, ed ecco che da un giorno con l’altro giravamo in
autobus e altri ebrei uscivano a darci il benvenuto e guardarci con un affetto che ci eravamo scordati
esistesse. Ma presto le cose si sono fatte difficili. Dopo tante umiliazioni, l’onore è duro da reggere. E’
come un dolore fisico. Be’, niente dura in eterno. Gli inglesi ci angariavano. Anche dopo tutto ciò che
avevamo sofferto, ancora lesinavano agli ebrei un posto dove posare la testa. E continua a essere così
anche oggi. Non appena mi sono ripreso sono andato a lavorare nella costruzione di nuove autostrade,
ma non avevo la forza necessaria. Il sole bruciante era mortale, e la giornata lunga come il nostro esilio,
lunga e ripetitiva come il motivetto che uno yemenita stava seduto a cantare dall’alba al tramonto. Chi
poteva trovare la pazienza per una cosa del genere? Per alcuni, forse, era già la redenzione… ma non
per me. Allora sono partito per un kibbutz, ma era ugualmente dura anche lì.
Gli altri lavoratori erano per lo più giovani. Ridevano, cantavano, ballavano, mentre io andavo alla deriva
tra tutto ciò come un morto vivente. Ti dirò una cosa, ma so che non mi crederai: ho cominciato a
pensare di uccidermi. Non so ancora adesso veramente perché. Sembrava semplicemente che non
facessi più parte di questo mondo, che vagassi nel Mondo del Caos. Ero continuamente richiamato
verso di loro, i sei milioni. Poi è arrivata Florence. Non so che cosa abbia visto in me. Che cosa diavolo
abbiamo in comune, noi due? Ma considerato che in questo mondo tutto è balordo, perché i matrimoni
tra uomini e donne dovrebbero essere in ordine?»
«E’ vero.»
«Ci siamo accordati ed è successo, anche se a me sembrava un travestimento. Avevo proprio bisogno di
sposarmi! Fanya e i bambini erano andati all’altro mondo… non so nemmeno quando o dove. Avevo
perso tutti, tutta la famiglia, eppure ecco che mi stavano portando da capo al baldacchino nuziale. Ma
nei campi avevo imparato ad accettare tutto passivamente. E’ l’unica cosa che ci ho imparato. Sei in
mezzo al fango mentre ti scroscia addosso la pioggia? Scrosci pure. Ti insultano? Insultino pure. Ti
picchiano? Picchino pure. Ti trascinano nei forni? Trascinino pure. Il problema peggiore era pensare.
Ho imparato a escludere da me i pensieri. E’ una grande arte. Agli inizi è difficile, perché la mente anela
disperatamente a pensare, così come lo stomaco a digerire. Ma con il tempo ho raggiunto un punto tale
che mi era diventato difficile pensare. Ero come una vacca. Persino la fame è più facile da sopportare,
quando non si pensa. Be’, parliamo di qualcosa di più allegro. Che cosa fai qui in America, Hertz?»
«Che cosa posso fare?»
«In tutti questi anni deve esserti sicuramente successo qualcosa.» Grein non rispose. Sembrarono
entrambi ascoltare il silenzio.
«Non mi sta capitando niente di buono, Morris.»
«Che cosa c’è che non va?»
«Lo vedi da te.»
«Che cos’hai contro tua moglie?»
«Non ho niente contro di lei, ma mi annoio.»
«Ti annoi? Ci sono dolori più grandi.»
«E’ un grande dolore. Che cos’è la prigione se non la noia? Mia moglie si è messa in affari. Passa tutta la
giornata nella sua bottega.
I miei figli sono cresciuti e stanno per andarsene da casa, e in ogni caso non riesco a parlare con loro.
Qui in America c’è un golfo che separa genitori e figli, in particolare tra noi ebrei. Essere vecchi, qui, è
un disonore. Persino gli uomini si tingono i capelli per non sembrare grigi.»
«Chi imbrogliano?»
«Se stessi. Non sono diventato osservante. Ben lungi. Ma senza Dio ci si annoia. La fede è l’unica forza
che trattiene dalla follia. Perché la vita dev’essere più noiosa per noi di quanto fosse per mio padre?
Non aveva niente oltre alla famiglia e alla casa di studio chassidica. Non aveva teatro, film, radio,
giornali. La sua biblioteca, se si può definirla così, era composta da un po’ di libri sacri. Ma non l’ho mai
sentito lamentarsi che si annoiasse.»
«Be’, e con Anna non ti annoi?»
«Per adesso no. Ma non durerà a lungo. Lo so già.»
«E allora che cosa farai?»
«Non so.»
«Da quanto tempo stai con lei?»
«Da una settimana.»
«Mah, mah.»
«Ti sto parlando con franchezza, Morris. Non parlo mai con nessuno di me stesso: a che cosa serve?
Ma di te posso fidarmi. Forse perché a Vienna parlavamo sempre liberamente. Ho una casa piena di
libri, ma non ho niente da leggere. Non sopporto la letteratura. Alla mia età i romanzi non mi
interessano, neanche dovesse comparire un secondo Tolstoj. La filosofia mi disgusta. La storia arriva
sempre alla stessa conclusione: che gli esseri umani sono criminali. Dio sa se l’hai imparato di persona.
Quindi non c’è niente che io possa leggere. Ho sempre creduto che le scienze esatte, la fisica, la
chimica, fossero interessanti.
Ma sono anche noiose. Di recente ho letto tutto ciò che ho potuto procurarmi sull’atomo, ma è vero
quello che dicono. La noia comincia dall’atomo. Che cosa può essere più terrorizzante di un pezzetto di
materia che non riposa mai? Passano milioni di anni, e gli elettroni continuano a girare attorno ai
protoni. Secondo il vecchio modo in cui concepivamo l’atomo, se non altro riposava. Il nuovo atomo
che ci è stato rivelato, invece continua a sbattersi come una cosa folle, a torcersi e rivoltarsi senza
fermarsi mai. Forse è il massimo simbolo dell’uomo, oggi, Comunque, la cosa più fastidiosa è che non
riesco a credere a niente di tutto ciò. La scienza moderna diventa di continuo sempre più simile alla
finzione narrativa. Prendi la teoria dei quanti.
Non la capisco e ho paura che non ci sia niente da capire. E’ sempre la solita assenza di forma, il solito
vuoto, ma senza un Dio, senza uno spirito che si muova sopra la superficie del profondo. E tu, Morris?
Hai una filosofia?»
«Assolutamente nessuna.»
«E allora?»
«Niente. Non penso.»
«E’ la miglior cosa da fare. Ma occorre disciplina. E tua moglie?
Ti tormenta, vero?»
«Importa qualcosa? Tutti tormentano altri come belve, se possono. Ma è sopportabile. Mi copre di
contumelie, ma poi fa la pace. Soltanto una cosa è veramente intollerabile: quando mi trascina con sé a
quelle riunioni di sinistra. Però ho trovato un rimedio.»
«Quale?»
«Mi tappo gli orecchi.»
«Letteralmente?»
«Sì. Con quei pezzettini di gomma che si usano sugli aerei. Siedo lì e li guardo aprire e chiudere la bocca
come pesci. E’ molto comico, davvero.»
«Che cosa fai tutto il giorno?»
«Lei va in ufficio e io cucino. Non ridere.
Bisogna pur fare qualcosa. Faccio le pulizie, lavo i piatti. Prendo il cestello e vado a fare la spesa. Ormai
nelle botteghe mi conoscono tutti. La sera vado spesso al cinema con lei. Le piacciono i film di
gangster, e io chiudo gli occhi e la cosa non mi disturba.»
«Disturba me, però. Non posso sopportare la volgarità. In questo Paese la cultura è una cosa di cui si
sono appropriate le masse. Bisogna essere istupiditi dalla droga per non impazzire di frustrazione.»
«Non importa, purché non ci ficchino nei forni.»
«Possono anche non bruciarci vivi, ma ogni volta che si apre il giornale del mattino, la morte ci ride in
faccia. Ormai non bisogna leggere trattati di etica per meditare sulla morte. Ci viene ricordata dovunque
ci si giri: dai giornali, a teatro, al cinema, dall’assicuratore. Una volta andavo con Leah a trovare i suoi
amici del paese di un tempo, ma non sapevano parlare di altro che di tombe. Non ci crederai, ma l’unico
coccio di cultura ebraica sopravvissuto qui verte sul cimitero.»
«Lo so. Anche Florence ha qualche amico del paese di un tempo. Vado a trovarli ogni sabato sera. La
prima volta che l’ho fatto, un tale ha tenuto un’intera conferenza sulle bare, e hanno continuato a
parlarne fino a mezzanotte. Che senso ha?»
«Assolutamente nessuno.»
«Ecco il punto!»
«Che cosa li unisce? Non un Dio, non una patria, nemmeno una lingua. Tra noi parliamo un po’ di
yiddish sgrammaticato, ma i nostri figli non sanno neanche fare quello.
Molti di loro sono comunisti. Il mio stesso figlio non vuol sentire una sola parola contro Stalin: per lui i
suoi omicidi sono sacrosanti.»
«E tua figlia?»
«E’ totalmente depressa.»
«Come mai? Quanti anni ha?»
«Diciannove.»
«Perché non hai dato loro un’educazione ebraica?»
«Non hanno voluto, e d’altra parte io non ci credevo. I figli riflettono i valori dei genitori. Sono stato
insegnante in un Talmùd Torah, qui, e ho visto di prima mano che cosa sono quei valori. I bambini
passano di classe in classe senza imparare niente. La Torah a loro non gli fa neanche una piega, perché
non è in tono con il baseball e la schifezza che sentono tutta la sera alla radio.»
«Allora dovresti essere sionista.»
«Che senso avrebbe il mio sionismo? Non potrei andare a vivere là io stesso, e i miei figli vi sono ancora
meno inclini. In ogni caso, quale sarebbe la diversità della terra di Israele? Hanno anche lì le radio e
tutta l’altra spazzatura. Arrivano qui dalla Palestina certi giovanotti che parlano in ebraico, ma hanno la
faccia di gentili. Ebrei gentili. Senza Dio non ci sono ebrei.»
«Allora perché non torni alla sinagoga?»
«Lo sai tu stesso, perché. Credo che Dio sia onnisciente, ma è difficile credere nella Sua bontà. Di
recente è morto un mio vicino, e i suoi parenti mi hanno chiesto di andare da loro per formare il
minyan di preghiera, perché intendevano rispettare i Sette Giorni di Lutto.
Molti ebrei americani osservano questi comandamenti: i Sette Giorni di Lutto, il Kaddish, la
rimembranza annuale dei defunti, tutto ciò che riguarda la morte. Quindi che cos’è successo? I
giovanotti vagolavano qua e là goffi come orsi, le ragazze svolazzavano come uccelli, e non hanno mai
smesso di parlare sottovoce di baseball, perché si stavano giocando le World Series. Poi, quando sono
cominciate le preghiere, si sono messi tutti lo zucchetto. Ho cominciato a recitare le Diciotto
Benedizioni, ma la mia lingua continuava a inciampare nelle parole.
Soltanto l’altro giorno ho letto un articolo su uno di quei campi di morte, Majdanek o Treblinka. Come
si può definire ‘misericordioso’ un Dio che consente questo? Perché in ultima analisi è opera Sua.
L’unica risposta che ci viene data è che si tratta di libertà del volere. Ma se fosse soltanto una
razionalizzazione? E perché devono soffrire gli animali? Shestov sostiene con franchezza che Dio è
male. Secondo Spinoza, è persino peggio: è indifferente.»
«Forse Dio non ha potere.»
«E allora chi ce l’ha?»
«Non so. Pregavano anche là. Persino a Majdanek.
Non tutti, ma alcuni. Anna è una donna gradevole.»
«L’ho convinta che saremo felici.»
«Forse lo sarete.»
«Com’è possibile? Prima avevo un’altra donna che si chiama Esther, e si è fatta ingannare anche lei.
Se la vittima collabora, si hanno tutte le opportunità di imbrogliare.
In tutti quegli anni non hai mai avuto una donna?»
«Una donna? No.
Quando si muore di fame si diventa eunuchi. Nei primi giorni del ghetto peccavamo tutti, spesso nei
modi più brutti. Ma poi le forze ci hanno abbandonato. C’era un cabaret ebraico, e ci andavano tutti
quelli del mercato nero e i Kapo. Bisognava scavalcare i cadaveri. Una volta ci è andata una tale, e stava
scavalcandone uno quando di punto in bianco lui l’ha afferrata per una gamba e le ha strappato la calza
di seta.
Evidentemente non aveva ancora tirato l’ultimo respiro. Lei ci ha messo poco a mandarlo per la sua
strada con una sequela di contumelie. Ma ho anche visto ebrei che, pur morendo loro stessi di fame,
davano le loro porzioni di pane ad altri.»
«Perché lo facevano?»
«Negli uomini c’è anche il bene.»
Erano trascorse cinque settimane. Sebbene Grein l’avesse avvertita che faceva una cosa molto stupida,
Anna si era lasciata convincere diversamente. Era in procinto di comperare una casa a Miami Beach. Un
affare favoloso, sosteneva. La signora Gombiner giurava e spergiurava che ci avrebbe guadagnato un
sacco di soldi. E Anna aveva già negoziato le sue obbligazioni di guerra e venduto i gioielli. La casa
costava settantamila dollari, ma bisognava versarne in anticipo soltanto ventimila; il resto sarebbe stato
coperto da un prestito ipotecario. Era arrivato a convincersi anche lui che fosse un affare. Il solo
terreno valeva quei soldi. L’edificio principale si sarebbe potuto convertire in albergo. Ma ciò richiedeva
spese e soprattutto lavoro.
Stranamente, la luna di miele su cui Anna riponeva tanta speranza era stata consumata a contrattare,
correre attorno, chiedere consiglio a ogni sorta di esperti. L’istinto ebraico del commercio si era
risvegliato in Anna. Quasi da un giorno all’altro si era trasformata in una copia carbone di Boris
Makaver. Fumava sigarette, andava avanti e indietro da riunioni, trafficava di continuo con numeri.
Aveva convinto a entrare come socio nell’affare anche Grein, che avrebbe dovuto investirvi diecimila
dollari. Visto che le sue azioni erano in una cassetta di sicurezza a New York, avrebbe dovuto tornare là
per venderle. Doveva comunque tornarci: Leah gli aveva detto per telefono che Jack si stava
apprestando a sposare una giovane gentile dell’Oregon.
Siccome non aveva la sua auto in Florida, all’aeroporto lo aveva portato la signora Gombiner. Moglie e
marito sedevano davanti, lui e Anna dietro. Lei gli aveva tenuto la mano per tutto il viaggio e non aveva
smesso di chiacchierare per tutto il tragitto. Si era innamorata della Florida, diceva. Vi sarebbe stata
felice. Il papà tirasse pure avanti e la diseredasse. Gli avrebbe fatto vedere che era capace di fare soldi da
sola e che forse era persino più brava di lui. A New York, vicino al padre, a Stanislaw Luria, a Leah e ai
suoi figli, non avrebbe mai potuto respirare liberamente. La Florida era un paradiso. Di sera parlava
come se fosse ubriaca o mezza matta, ma di giorno era acuta, calcolatrice, esigente. Il suo assunto
fondamentale era che le persone moderne hanno una gran quantità di bisogni materiali e non c’è
motivo che non si concedano tutto ciò che vogliono. L’America non era forse il Paese più ricco del
mondo? Aveva tutto: materie prime, tecnologia avanzata, vaste opportunità di lavoro. Chi non spendeva
mandava semplicemente a rotoli l’economia nazionale. Aveva elaborato un programma d’azione per
entrambi. Lei si sarebbe fatta una carriera nell’attività immobiliare. Ciò che faceva la signora Gombiner,
poteva farlo anche lei. Avrebbe convertito la casa in albergo o l’avrebbe venduta con un consistente
guadagno. Lui avrebbe potuto continuare a fare l’agente per il suo fondo comune in Florida, ma
soltanto per qualche tempo. Doveva farsi una carriera accademica. Perché non poteva diventare
professore? Si era laureato in filosofia a Vienna. Conosceva diverse lingue. Era colto in materia di
matematica, fisica, tradizioni giudaiche e chissà che cos’altro. Leah non pretendeva niente da lui, e,
quando una donna non pretende niente da un uomo, lui perde lo slancio.
Lei sì che lo avrebbe stimolato, affermava convinta: gli avrebbe creato contatti. In definitiva aveva
un’istruzione anche lei. Persino nelle poche settimane trascorse aveva già fatto conoscenza con diverse
mogli di professori. Aveva persino avuto accesso a un preside di facoltà. Una volta messa in ordine la
nuova casa, avrebbe organizzato un ricevimento.
Guidando l’auto, la signora Gombiner ascoltava ciò che lei andava dicendo. Per quanto fosse strano,
quelle due donne, che all’inizio avevano provato soltanto repulsione e disgusto reciproci, si erano fatte
intime. Anna si fidava totalmente dell’altra, più anziana, e la signora Gombiner se l’era presa sotto l’ala.
«Ehi, balordo, dove credi di andare?» gridò la donna al conducente di un’auto di passaggio. E poi a
Grein, senza voltarsi: «Avrei dovuto avere la sua fortuna, di sposare una persona come sua moglie! Farà
un essere come si deve persino di lei!»
«Che cosa intendi dire? E’ già un essere come si deve, grazie a Dio!» esclamò Morris Gombiner. «Tu
chiudi il becco! In America bisogna diventare qualcuno. Sapersi far valere. Anche tu saresti potuto
diventare professore, se non fossi un simile shlemiel. Ma sei una tale mezza cartuccia che nessuno
potrebbe mai prenderti sul serio. Qui un uomo deve essere un uomo, non un coniglio!»
«Il filosofo Kant non era più alto di me.»
«Succedeva in Europa, non qui.» A Grein tutta l’esperienza fatta a Miami, il dogmatismo della signora
Gombiner, i sogni a occhi aperti di Anna, la sua stessa partenza, sembrava uno scherzo surreale. Persino
l’uragano cui aveva assistito pareva rientrare in uno spettacolo messo regolarmente in scena dalla natura
per i turisti. Nel giro di un attimo la luce splendente del giorno si era trasformata nel buio della notte.
Noci di cocco si erano schiantate sul suolo. Palme avevano perso le fronde. Tronchi si erano spezzati.
Cespugli e fiori erano volati via nella tempesta come uccelli. I rami degli alberi erano spalancati come
pale di enormi ventilatori e non si potevano richiudere. Il vento martellava sui tetti, la pioggia flagellava
crudelmente la terra, e i terrazzi gemevano come se fossero strappati via dagli edifici. I fili elettrici erano
caduti, spezzati, e Anna era stata costretta ad accendere una candela. La fiammella baluginante
sembrava testimoniare di ciò che sostiene la liturgia: una volta che la civiltà si sia esaurita e tutto sia
finito, l’umanità sarà costretta a tornare a un unico fuocherello. Adesso il sole splendeva di nuovo e i
cieli erano miti e azzurri. Gli aerei sulla pista sembravano figurine ritagliate nel cartone. Grein firmò una
polizza d’assicurazione nominando sua unica beneficiaria Anna, e l’aereo decollò. La terra che aveva
calpestato per quarantasei anni adesso giaceva sotto di lui con il suo mare, navi, alberghi, ville. Fiumi
serpeggiavano come cordoncini d’argento. Strade si snodavano come nastri. Treni che sembravano
immobili. Auto ridotte a puntolini. Sui campi aleggiava il riposo, come se fosse l’anno sabbatico
obbligatorio. Gli venne in mente che forse, quando si muore, l’anima si leva esattamente in quel modo,
lasciandosi dietro il corpo materiale, ammesso che l’anima materiale esista, che l’identità umana non si
dissolva come un grumo di schiuma. Era la prima volta in vita sua che volava, ma non provava né
meraviglia né paura. E se fosse precipitato? Precipitasse pure. Chiuse gli occhi e reclinò la testa
sull’angolo del sedile. In tutto il caos del mondo fisico, c’erano nondimeno leggi in azione. Perché
quell’aereo potesse volare, benzina bruciava, eliche giravano, aria sosteneva le ali. Quanto a Jack, si
comportava esattamente come ci si può aspettare da un ebreo senza fede, senza Torah: stava
ricostruendo la sua identità, mescolando il seme di Reb Jacob lo Scriba con quello degli idolatri. Be’, era
tutta colpa di suo padre. Aveva allevato i figli in quel modo. Aveva dato l’esempio, e adesso loro lo
seguivano. Grein aprì gli occhi e vide il sole calare tra nuvole infuocate, colorando un orizzonte infinito
con una tavolozza di colori e un assortimento di forme mai visti laggiù: fuochi di cianogene, giogaie di
anilina, mani fosforescenti, facce, capelli, fogli di pergamena. Da qualche tempo i giornali erano pieni di
articoli sui piatti volanti, e lui era pronto a veder comparire in volo in qualsiasi momento un disco
luccicante, una nave interplanetaria. La luna si era levata presto ed era sospesa in mezzo al cielo, sottile
come una matita, a sbirciare attraverso entrambi i finestrini, il suo e quello di fronte.
La terra si faceva sempre più buia, piena di ombre, irretita nella notte, cancellata a poco a poco come da
un cancellino cosmico, quasi che l’umanità si fosse estinta da un pezzo e il mondo fosse tornato al
primo Shabbath della Creazione. Malvagi, potenti, tribolazioni, passioni, tutto era trapassato. Non
rimaneva che un unico minuscolo aereo sospeso tra i pianeti in una sonnolenza immobile. Essendo
ormai diventato inutile l’Angelo della Morte, non era rimasta vita da prendere, un residuo di esistenza si
era consolidato lassù: uomini, donne, giornali, una hostess che distribuiva sandwich e sorrideva come
una marionetta, e ricordi di una persona lontana di nome Anna che, milioni di anni prima, era stata
lasciata in Florida. Che cosa poteva esserne stato di lei? rifletté lui oziosamente. Era tornata da
Stanislaw Luria? Si era trovata un altro a Miami? Aveva ricevuto i soldi dell’assicurazione che le aveva
destinato lui? Qualsiasi cosa potesse essere successa, non rimaneva traccia di nessuno di essi. Nemmeno
la loro polvere. Gettò un’occhiata fuori e riconobbe New York. Le finestre dei grattacieli mandavano
lampi come pietre preziose. File di luci baluginavano sui ponti, pilastri di fuoco splendevano nell’acqua.
La luna era improvvisamente ricomparsa, e le poche stelle visibili si erano sparse come per aprire un
passaggio.
Lì sotto si estendeva una città composta da milioni di fuochi, con luci che si espandevano e
modificavano, fluttuando in una foschia luminosa.
Fari esploravano le altitudini, irradiando altri aerei. New York raccontava una favola di fulgore scritta in
una grafia di luci, con margini miniati da fiumi, laghi, navi. Tra tutta quella dovizia, quella
fiammeggiante confusione tremolava anche la fiammella che lui stesso aveva acceso e poi abbandonato.
Grein arrivò a casa e nel giro di pochi minuti gli parve di non essersene mai andato. Incontrò tutta la
famiglia: Leah, Jack, Anita e per soprammercato anche la fidanzata gentile di suo figlio. Tutto era
esattamente uguale a prima: l’appartamento troppo riscaldato, i tappeti logori, l’odore di gas in cucina.
Leah non riteneva necessario aprire le finestre, e comunque erano bloccate. Sulla commode del
corridoio, come sempre, era posata la posta: un fascio di lettere, riviste, pubblicità che sarebbero state
gettate nella spazzatura senza essere lette. Nel poco tempo trascorso Leah era invecchiata: aveva capelli
grigi, profonde rughe agli angoli degli occhi e intorno alla bocca. La sua faccia aveva acquisito il tono
logoro e polveroso degli oggetti antichi che vendeva. Scrutandolo al tempo stesso con ostilità e stupore,
osservò: «Sei dimagrito.» Come sempre, Anita si nascondeva in camera sua. Aveva trovato lavoro presso
uno studio legale e stava apprestandosi ad andarsene di casa. Jack, seduto con la sua ragazza nel
soggiorno, si presentò al padre con un sorriso ai limiti del vero e proprio riso. Era alto un metro e
ottanta, pelle chiara, guance rosse, ciuffo di capelli chiarissimi, naso rincagnato e labbra piene su cui
sembrava esserci ancora il latte materno. In tutta la sua faccia e il suo atteggiamento non si vedeva una
sola traccia della sua discendenza da studiosi di Talmùd e rabbini.
Sarebbe benissimo potuto essere tedesco o scandinavo. Persino la sua cordiale franchezza non era
ebraica. Tutto in lui appariva semplice, senza complicazioni, solido, in un modo che al padre risultava
alieno: suo figlio sembrava fuso in un pezzo unico, un meccanismo umano che funzionava con la
precisione di un orologio, sapendo ogni secondo esattamente quanto consumava e precisamente che
cosa produceva. Stava intrattenendo un’ospite, eppure non portava la giacca, soltanto una maglietta che
lasciava scoperto un torace peloso e le braccia muscolose di un atleta. Aveva ereditato la sua struttura
fisica dal lato materno, composto di mezzadri e lattai. Per quante lezioni di ebraico gli avesse ficcato in
testa il padre, sapeva a stento leggere qualche parola del libro di preghiere. Negava di essere comunista,
ma parlava come tale ed era abbonato a pubblicazioni del partito. Tese al padre una manaccia enorme.
«Ciao, papà.» Poi, dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Questa è Patricia.» La giovane gli assomigliava,
era una giovane bonacciona, una di quelle gigantesse che arrivavano dal West con tutta la forza ereditata
da generazioni di pionieri gentili. Quando sorrise, Grein fu colpito dai denti, che erano aguzzi e
acuminati come quelli di un animale. Denti che provavano più chiaramente di qualsiasi altro argomento
la teoria evoluzionista di Darwin. I suoi occhi grigio acqua lo scrutavano in tono amabile, familiare,
allegro. Sembrava che chiedessero: perché non possiamo essere amici? Il naso era troppo corto e faceva
apparire più lungo del vero il labbro superiore. Una sfrontata frangia di capelli color paglia le pendeva
sulla fronte. Quella ragazza gentile sapeva evidentemente dove lui era stato e che cosa stava succedendo
in quella casa. Jack non era capace di mantenere segreti. «E’ piacevole in Florida?» chiese. «Sì, fa caldo.»
«Sarò là anch’io fra due settimane. Mi ci porta mio padre in auto. Sta per venire qui dall’Oregon.»
«E’ un viaggio lungo.»
«A mio padre piace guidare.» Be’, eccoci, eccoci, pensò Grein. Una volta detto A bisogna arrivare in
fondo sino alla Zeta. Se lo fai tu, devi lasciarlo fare anche ai tuoi figli.
Se una legge dello Shulchan Aruch può essere trascurata, tutto il codice della Legge ebraica è privo di
valore. Si scusò e tornò da Leah in cucina. «Diventerà tua nuora?» chiese. «Sì… e anche tua.» E Leah
versò acqua in una pentola. «Quando vuole sposarsi Jack?»
«Presto. Non ne possono più di metter su casa per conto loro.»
«Be’, sarai suocera.» Leah tornò a versare fuori l’acqua dalla pentola. «Spero che tu non incolpi me…»
«Non incolpo nessuno.»
«Perché sei venuto?» Lui non rispose, e Leah ricominciò a riempire la pentola di acqua. Tornò nell’atrio,
prese il fascio di lettere e andò nello studio. Quella era la sua casa e al tempo stesso non lo era. Scrostò
la tappezzeria e notò crepe e macchie che aveva già dimenticato. Il telefono era stranamente silenzioso.
Sentì che stava esercitando il massimo autocontrollo per non fare una telefonata. La luce elettrica
sembrava congelata, le pareti ispessite. Soltanto il vapore nel calorifero gorgogliava con il suo familiare e
ossessivo rumore. Cominciò a leggiucchiare le lettere. Dopo non molto arrivò lì Leah. «Hertz, te l’ho
detto al telefono.»
«Non preoccuparti, sto in un albergo.»
«Posa quella lettera, Hertz», ordinò lei. «Che cosa vuoi?»
«Voglio parlarti.» Dopo aver dato un’occhiata su e giù per il corridoio, quasi sospettasse che qualcuno
stesse origliando, Leah chiuse con cura la porta. «Non hai un bell’aspetto, Hertz. Non pensare che stia
facendo la moralista. Ho rinunciato a te da un pezzo.
Scusa il paragone, ma ti considero un cane randagio che corre dietro a tutte le cagne che vede. Se non
altro un cane lo si può tenere al guinzaglio, ma tu vai e vieni a tuo piacimento. Che cos’hai da dire circa
quella giovane gentile?»
«Che cosa dovrei dire? Non sono io che posso parlare.»
«Già, che cosa puoi dire? Non sei meglio… anzi, sei mille volte peggio. Jack mi ha parlato di lei, e il
giorno dopo l’ha portata a casa. Suo padre è un idraulico benestante. Vuole fare l’attrice.»
«Davvero? Be’, ci sarà una donna di più che calca le scene.»
«Non ti importa?»
«Che diritto ho?»
«E’ vero. Non hai nessunissimo diritto. Appena sposati volevamo andare in Palestina. Se non altro, là i
nostri figli sarebbero stati ebrei.»
«In che cosa sarebbe consistito il loro essere ebrei? Comunque siamo qui, non là. Ormai tutto è
perduto.»
«Per te tutto è sempre perduto. Potresti cercare di parlare con Jack.»
«Che cosa dovrei dirgli? Che giacerà su un letto di chiodi nella Geenna?
Non è più ebreo di me.»
«Se ne va di casa anche Anita. Presto rimarrò sola a vivere in questo appartamento.»
«Puoi sempre prenderne uno più piccolo.»
«Che cosa farò tutta sola?»
«Che cosa vuoi? Sposare un altro?» Leah fece una smorfia come se avesse un cattivo sapore in bocca.
«Eh? Pfui! Non dire sciocchezze. Una volta basta. E’ stata persino troppo. Voglio soltanto chiederti
chiaro e tondo… perché lo hai fatto?
Non c’era bisogno che te ne andassi da casa tua.»
«Be’, in definitiva sei stata tu a buttarmi fuori.»
«Ti ho buttato fuori perché mi stavi esponendo a scandalo e ridicolo. Lo sanno tutti che te ne sei
andato, e con chi. Ne parlano persino le vicine di casa. Prima non si davano nemmeno la pena di
salutarmi. Adesso suonano il campanello e vengono qui a consolarmi. Il marito di quella là ha già
telefonato tre volte.»
«Che cosa vuole?»
«Non ho idea. E’ matto o qualcosa del genere. Voleva vedermi. Forse pensa che, siccome tu stai
peccando con sua moglie, lui dovrebbe fare la stessa cosa con la tua. Gli uomini hanno sempre pensieri
folli. Rimango sveglia nel cuore della notte e continuo a chiedermi che male ti ho fatto. Sono stata una
buona moglie con te. Mi sono presa più cura di te che di me. Tu mi avevi già ingannato per tutti quegli
anni. Perché da vecchia hai dovuto buttarmi via?»
«Non sei ancora così vecchia.»
«Lo sono, Hertz. Sto in bottega tutto il giorno e non riesco a concentrarmi su niente. Tu te ne sei
andato e mi hai tagliato la testa. Non ho più niente per cui vivere!» E Leah scoppiò in lacrime,
coprendosi la faccia con le mani rugose, singhiozzando e scuotendosi come un’ebrea del tempo andato.
La sua ombra sulla parete si scuoteva all’unisono con lei. Le sue parole ferirono Grein nel vivo. Erano
cariche di senso profetico. Avrebbe voluto accostarsi a lei, ma non si mosse. Rimase seduto con aria
perduta, avvertendo con chiarezza come il peccato che aveva seminato avesse messo radici, si fosse
diffuso e fosse spuntato, germogliando e producendo un fiore di pena e angoscia.
Grein aveva in mente di rimanere a New York soltanto un paio di giorni e poi volare di nuovo a Miami
per versare la sua quota di deposito sulla casa e la terra che la circondava. Ma rimandava. Aveva ricevuto
per posta alcuni ordini di azioni del fondo comune, oltre a inviti ad andare a trovare alcuni vecchi clienti
che vivevano fuori Manhattan, nel nord dello Stato di New York. Questa sua prospera attività, come
tutto il resto che gli era capitato negli anni da cui era legato con la ditta, la considerava una sorta di
perpetuo e sempre rinnovato miracolo. Si era messo nelle mediazioni mobiliari dopo che
l’insegnamento nel Talmùd Torah lo aveva gettato nella depressione, in un momento in cui era talmente
ignorante di questioni finanziarie da non aver idea della differenza tra azioni e obbligazioni, quote di
capitale e titoli a reddito fisso. L’occasione si era presentata come se le forze che presiedono a ciascun
individuo, e per le quali nessun dettaglio è privo di importanza per quanto banale, avessero deciso che
era arrivato il momento della sua riabilitazione. Era stato cercato da un certo Levy, insieme a cui era
stato ospite di una fattoria ebraica che accettava pensionanti per l’estate. Questo Levy, che prima del
crollo del ‘29 possedeva milioni di dollari e che poi aveva continuato a ricostruire con regolarità la sua
fortuna, erano settimane che lo cercava a New York senza riuscire a trovare il suo indirizzo. In quel
periodo Grein era talmente povero che non poteva permettersi il telefono. Levy aveva ormai rinunciato
alla speranza di ritrovarlo, quando si erano incontrati per puro caso sul ferry per Staten Island. Lui non
aveva nessun motivo per andarci: si era semplicemente ritrovato con qualche ora libera e, volendo
prendere un po’ di aria di mare, aveva deciso di sacrificare cinque centesimi e fare la traversata andata e
ritorno. Evento ancor più singolare, nel momento stesso in cui aveva deciso di prendere il ferry,
avevano cominciato a chiudere l’entrata. Non aveva motivo di affrettarsi, nel giro di pochi minuti ne
sarebbe partito un altro, ma si era messo a correre per raggiungerlo ed era stato l’ultimo passeggero
ammesso a bordo.
Bisognava essere del tutto ciechi per non vedere in tutto ciò la mano della Provvidenza. Si era seduto
sulla prima panca disponibile e si era trovato proprio accanto a Levy, che si stava facendo lucidare le
scarpe da un giovane lustrascarpe. Levy gli aveva dato la mano, dicendo: «La stavo cercando!» Quando
poi aveva cominciato a spiegargli che voleva raccomandarlo come agente nell’agenzia di
intermediazione di cui era socio, la sua immediata reazione era stata sostenere con vigore che non era
adatto, non aveva assolutamente nessuna conoscenza di questioni finanziarie, mancava di qualsiasi forza
di persuasione e capacità di stabilire contatti, e che quindi l’idea era del tutto folle, quasi assurda. Ma
Levy aveva insistito testardamente, e da quel momento a Grein erano successi molti altri miracoli.
Gente lo chiamava al telefono e gli offriva affari per migliaia di dollari. A poco a poco si era fatto una
clientela di cristiani, americani puro sangue che vivevano in città e fattorie fuori New York. Lui non si
abbandonava a chiacchiere frettolose ed esagerazioni; si comportava con moderazione e integrità,
avvertendo i potenziali compratori di tutti i pericoli connessi con il mercato azionario. Ripeteva le
parole di David Hume: il fatto che fino a ora il sole sia sempre sorto non prova che sorgerà di nuovo
domani. Non vi sono regole ferree e buone per ogni circostanza, nessuna garanzia.
Aveva persino raccolto una serie di informazioni su ditte che anno dopo anno si erano dimostrate
solide come rocce e che nonostante questo erano fallite di punto in bianco. Molto più forte del
desiderio di fare affari e vendere azioni era il suo perenne timore di indurre qualcuno in errore e
danneggiarlo. Ma proprio questo suo eccesso di scrupolosità si era rivelato di grande successo. E a
mano a mano che le azioni salivano di valore era prosperato lui stesso. La gente faceva soldi per merito
suo e aveva cominciato a considerarlo affidabile, chiedendogli consiglio e invitandolo a festeggiamenti
di famiglia. Uomini e donne con cui non aveva assolutamente alcuna affinità spirituale pretendevano di
sapere perché fosse così riservato e facevano tutto il possibile per attirarlo nella loro cerchia. Nel
periodo trascorso in Florida aveva trascurato la sua attività. Per quanto le azioni fossero salite, diversi
suoi clienti lo avevano aspettato, non volendo comperare tramite nessun altro. Quindi tirò fuori l’auto
dal garage e partì per il nord dello Stato. Dopo settimane di sole e palme, era piacevole inspirare di
nuovo l’aria pungente dell’inverno e bello trovarsi solo con se stesso per un po’.
Guidava immerso nei suoi pensieri, cercando di fare un esame di coscienza. Aveva reso infelice Leah.
Aveva buttato via Esther dopo una relazione di undici anni. Boris Makaver e Stanislaw Luria
maledicevano il suo nome. Ma lui era per caso più felice? Si era abituato alla sua attività e non aveva
alcuna voglia di impegolarsi con gli immobili. Il paesaggio del Sud era bello, ma aveva già cominciato a
stancarsi del suo rigoglio quasi tropicale. Aveva cominciato ad aver nostalgia di freddi tonificanti, cieli
coperti, alberi spogli, campi nebbiosi. Era stato avvertito che d’estate il caldo a Miami era
insopportabile. Inoltre aveva paura delle ambizioni di Anna. Non aveva voglia e non era nemmeno in
grado di diventare professore. In realtà non aveva mai desiderato una carriera accademica. Non era
interessato alla storia della filosofia quanto piuttosto alle eterne domande cui hanno diretta applicazione
contemporanea le innumerevoli teorie che vanno sotto il titolo generale di filosofia. Il pensiero di
mettersi a un leggio a insegnare a studenti gli dava i brividi. Guidando canticchiava il motivetto che
cantavano sempre i chassidim della casa di studio di Kozienic alla conclusione del pasto dello shabbath.
Gli tornavano improvvisamente e inesplicabilmente alla memoria melodie liturgiche; ricordava parole
che pensava di aver dimenticato da un pezzo. Come sarebbe bello, si disse, se esistessero davvero tutte
le cose cui credeva Rabbi Isaac Luria: angeli, serafini, sfere, mondi. Per ebrei così, il cielo era pieno di
saggezza, grazia, compassione, purezza. Per loro l’anima ebraica giocava il ruolo centrale: ogni
comandamento che osservava riempiva tutti i mondi di gioia divina; ogni peccato che commetteva
sminuiva quei mondi. Per converso, che cos’era l’universo come lo concepivano Einstein o Eddington?
Un grumo di argilla zeppo di atomi ciechi che si precipitano avanti e indietro, scagliandosi qua e là
febbrilmente. Per quel che riguardava simile cecità, un nuovo Hitler sarebbe potuto comparire a ogni
generazione. La conclusione fondamentale della scienza moderna nel suo complesso era che Dio ha
meno intelligenza di una pulce.
A Croton–on-Hudson aveva una cliente, una zitella ottantenne che quarantanni prima era stata l’amante
di un tale che le aveva lasciato in eredità una casa. Aveva soldi anche di suo, e soltanto di recente, passati
i settanta, aveva cominciato a comperare azioni di fondi comuni.
Era strano sentire questa vecchia discutere con vigore di politica, economia e dei suoi progetti, fare
calcoli su quanto sarebbero valse le sue azioni di lì a dieci o vent’anni, quasi si fosse completamente
dimenticata che esiste la morte. Dritta come un fuso, aveva i denti a sega di un pesce e scrutava con
freddezza animale attraverso occhi acquosi. Il presidente Roosevelt era morto da un pezzo, ma lei
continuava a coprirlo di contumelie e insulti, addebitandogli la colpa di penurie di guerra, inflazione,
avvento del comunismo. Ogni volta che la incontrava, a lui veniva in mente l’affermazione di
Swedenborg secondo cui nell’altro mondo le anime stupide passerebbero il loro tempo in discussioni,
litigi, ubriachezza e lascivia. Chissà. Forse speculavano in borsa anche là. In uno strano modo,
l’attaccamento alle cose materiali di quella vecchia zitella era una dimostrazione dell’immortalità
dell’uomo. In un allevamento di animali da latte oltre Poughkeepsie viveva il signor Koerck, un vedovo
olandese che aveva trascorso venti anni a Sumatra ed era emigrato in America con la giovane figlia
durante la guerra. Adesso non ne poteva più di vendere la sua fattoria perché la zona non era protetta
contro gli attacchi nucleari e voleva stabilirsi in una cittadina del Midwest, dove ai russi non sarebbe
servito a niente gettare una bomba atomica. Intanto, in attesa di trovare il compratore giusto, il signor
Koerck fumava la sua pipa, leggeva una quantità di pubblicazioni religiose e litigava con la figlia, che
andava al bar con giovanotti e passava la notte con loro in camere di motel. Dichiarava spesso che si
sentiva più a suo agio con la fede ebraica che con quella cristiana, sostenendo che sarebbe stato
contento se sua figlia avesse sposato un ebreo: non uno di quelli moderni che mangiano carne di porco
e diffondono la propaganda comunista, ma di quelli che osservano le vecchie tradizioni. Parlava meno
delle azioni, che comperava con regolarità secondo un piano calcolato con cura, di quanto si
diffondesse su ogni sorta di leggi e usanze ebraiche. Bombardava Grein di domande. E’ vero che il
Talmùd suggerisce agli ebrei di imbrogliare i cristiani? I chassidim sono una setta separata? Il dottor
Herzl si considera il Messia? Gli ebrei d’America hanno qualche connessione con le Dieci Tribù Perdute
che si trovano nell’Europa centrale? Sebbene fosse capace di dire sciocchezze, il signor Koerck non era
stupido. La sua mente, come quella di Grein, era zeppa di fatti e pensieri sconnessi che, di nuovo come
quelli di Grein, esistevano indipendentemente dai suoi atti. Anche Grein era tutto al tempo stesso:
credente e agnostico, edonista e ascetico, legato a moglie e figli, innamorato di Anna e pieno di
nostalgia di Esther, posseduto da un’infinita varietà di pensieri disordinati. Passò davanti a una fattoria o
casa isolata sul bordo della strada e si chiese: come sarebbe passare i miei ultimi anni qui? Non andrei
mai da nessuna parte, non farei mai alcun viaggio. Studierei la matematica, l’unica disciplina che si basa
esclusivamente su idee adeguate, come le definiva Spinoza, non vivendo di altro che patate e latte.
Troverei rifugio qui come Noè durante il diluvio. Qualche minuto dopo gli venne in mente di fermarsi
da qualche parte per telefonare ad Anna. A Lake George, da dove telefonò, era appena caduta neve
fresca, mentre a Miami c’erano quasi ventisette gradi. Anna lo coprì di rimproveri: perché si trascinava
per clienti nello Stato di New York se stava progettando di trasferirsi in Florida? Intralciava tutti i
progetti fatti da lei. A causa del suo ritardo, avrebbero potuto venderle la casa sotto il naso. Inoltre lei si
annoiava a morte. La signora Gombiner non la lasciava mai in pace un attimo, continuando a
chiacchierare al punto che era già sorda da un orecchio. Aveva magari fatto pace con la moglie? gli
chiese poi, piena di profondi sospetti. Era forse tornato con quella Esther? Qualsiasi altra cosa potesse
aver combinato, non doveva farla fessa. Doveva giurarle su tutto ciò che gli era più caro che alla fine
della settimana sarebbe volato di nuovo a Miami, e che tutto sarebbe proceduto come avevano
progettato. Per misericordia la centralinista interruppe la conversazione per segnalare che i sei minuti
erano terminati. A Lake George Grein era in rapporti d’affari con una certa signora Feuergold, una
cacciatrice di fortune al tempo stesso vedova e divorziata.
Stranamente, viveva con la figlia dell’uomo da cui aveva divorziato, una giovane che allevava una
figlioletta mentalmente ritardata, avuta da un uomo sposato, un ricco avvocato di New York. Grein
conosceva tutti i particolari della vicenda. La signora Feuergold e la figliastra gli avevano aperto
entrambe il cuore, insieme e separatamente. Erano legate da un reciproco misto di amore e odio nei
confronti del signor Feuergold, che era a Palm Beach e soffriva di cancro della pelle.
Com’era tutto complicato! Quanta individualità imponeva la natura a ciascun destino umano! La vasta
America con cui lui entrava in contatto era complicata esattamente come lui. Non l’avrebbe mai capita a
fondo.
Per lui rimaneva l’unico Paese del mondo dove si camminava a testa alta, eppure vedeva che dietro le
sofferenze individuali permaneva costante l’eterna tragedia umana. Le persone si amavano e
detestavano, rischiavano e avevano paura. Ciascuna di esse continuava ad anelare a un sostegno stabile,
permanente, cui appoggiarsi, ma forze più scaltre di loro continuavano a portarglielo via, creando una
crisi perenne. Sulla via del ritorno a New York si abbattè una tormenta. Grein non si era preoccupato di
munirsi delle catene per i pneumatici, e di conseguenza la sua auto continuava a sbandare. I tergicristalli
non riuscivano a ripulire abbastanza in fretta i fiocchi di neve dal parabrezza, dove si formavano cristalli
a una velocità incredibile. I finestrini si coprirono rapidamente di alberi di ghiaccio, piccoli, contorti,
aguzzi, intrecciati l’uno nell’altro: l’immagine di una sorta di foresta primordiale. L’aria era fitta di
fiocchi turbinanti di neve, trasportati da raffiche di vento. Non era più lo Stato di New York ma la
Siberia.
Lui sapeva che viaggiare con un tempo simile era pericoloso, ma una forza più potente di qualsiasi
logica gli imponeva di continuare. Grandi quantità di aghi ghiacciati, caduti da altitudini ignote, si
estendevano per il lungo e il largo del parabrezza come una sorta di celestiale scrittura cuneiforme.
Come spazzata da gigantesche scope, la neve si accumulava in mucchi. I camion che incrociava
accendevano i fari nel cuore del giorno ormai oscurato. Come le grida di una donna rimasta vedova,
l’ululare del vento, agli inizi intenso, a poco a poco si ridusse a un lamento quieto, regolare. Guidando
lentamente con mani irrigidite dal freddo, Grein era in preda a una gioia e ostinazione da scolaretto. La
giornata cupa gli ricordava un’eclisse solare, e gli sembrava di aver già vissuto tutto ciò in un sogno, o di
averne letto in una favola. Dalla finestra della camera d’albergo che dava sulla Broadway si vedevano i
teatri con i loro sfavillanti tabelloni elettrici, il Times Building da cui didascalie illuminate strillavano le
notizie del giorno, le orde di auto. Grein aveva trovato un luogo di riposo nel cuore della civiltà. Alzò la
cornetta, chiese di essere collegato con Miami, e dopo meno di cinque minuti stava chiacchierando con
Anna. Quando posò il ricevitore, si disse: «Su, è ora di dormire.» Rivoltò il copriletto. Il letto era ampio
e comodo. Doveva soltanto spogliarsi e ficcarsi sotto le coperte come in una busta, ma non aveva
sonno. Non aveva nemmeno fame. Aprì il cassetto del comodino e ne prese la Bibbia. Trovato il Libro
di Osca, lesse di come Dio avesse comandato al profeta di sposare meretrici, prima una e poi un’altra.
Be’, non si possono contraddire i comandi di Dio. Non poteva far niente per sfuggire all’ingiunzione, il
rosso–barbuto profeta. Da quale passo del testo si poteva dedurre che Osca avesse la barba rossa?
Grein alzò la cornetta e chiese di essere collegato con Esther. Il suo cuore prese a martellare. Che cosa
sto facendo? E’ una follia totale! Per di più lei starà probabilmente dormendo. E Anna? Non sono un
essere umano! Sentì la voce di Esther: «Pronto?»
«Abita lì Esther Hatelbach?» chiese. All’altro capo della linea vi fu un silenzio carico di significati. Poi
Esther cominciò a borbottare e balbettare: «Hertz, sei tu?»
«Sì, io, il re che regna dall’India fino in Etiopia. Per causa tua ho messo a morte Vashti, e adesso tu te ne
vai attorno con Haman il Malvagio.»
«Sei impazzito in quel caldo terribile? O è già Purim?»
«No, Esther, non ancora.»
«Dove sei? Pensavo che non avrei mai più avuto tue notizie», replicò Esther con voce strozzata dalle
lacrime. «Sì, questa è la mia voce. La voce è quella di Hertz, ma le mani sono quelle di Esaù.»
«Perché continui a citare la Bibbia? Dove sei?»
«In un albergo del quartiere di Manhattan, vicino a Times Square.»
«Solo?»
«Sì, solo.»
«Che cos’è successo? Quella puttana ti ha già lasciato?»
«Anna è a Miami.
Sono venuto qui per qualche giorno.»
«Pensa un po’.» Ed Esther tacque di nuovo. «Come stai?» chiese lui. «Eh? Sto bene. Mi muovo appena,
ma continuo a respirare. Ero già andata a letto e stavo sfogliando il Telegraph, quando di punto in
bianco è suonato il telefono.
Pensavo che fosse Liuba, anche se non chiama mai così tardi.»
«Se hai sonno, torna a letto.»
«Sonno? Non so più che cosa sia. Se non prendo qualche pillola non riesco a dormire, e neanche se le
prendo. Non c’è più niente che mi possa servire. Che cosa ti ha preso, da telefonarmi?»
«Be’, in definitiva un tempo eravamo conoscenti.»
«Lascia perdere quello che è stato! Una volta ero giovane e anche bella! Adesso sono vecchia e
abbandonata.»
«Non denigrarti.»
«Che cos’altro sarei? Hertz, devi aver sentito il mio grido.»
«Quale grido?»
«Ti ho chiamato, Hertz. Ti ho chiamato. Lo sai che sono telepatica. Quando ho bisogno di qualche
persona, le chiamo mentalmente e loro sentono. Ho ancora un po’ del potere che avevo un tempo. Se
dovessi raccontarti che cosa ho fatto affinchè tu mi chiamassi adesso, diresti che sono completamente
pazza.»
«Che cos’hai fatto?»
«Ho recitato Salmi.»
«Be’, congratulazioni!»
«Non ridere! Non farlo! Sono in preda a una crisi terribile e sentivo che dovevo parlarti a tutti i costi. Ti
ho telefonato a casa, ma mi danno sempre la stessa risposta: non c’è. Volevo persino scriverti in ufficio.
Ho buttato giù quasi dieci lettere, ma le ho gettate via tutte. Non sono brava a scrivere. Da me non
escono parole attraverso la penna. Quindi ho semplicemente chiesto a Dio, o a qualsiasi cosa ci sia lassù
in cielo, di dirti di chiamarmi.»
«Be’, Lui me l’ha detto. Ho sentito una voce celeste: Hertz, figlio di Jacob, chiama Esther, figlia di
Menachem David. Sento, o Signore…»
«Ridi, schernitore, ridi. Non siamo soli, Hertz. Siamo circondati da ogni sorta di forze… buone e
cattive, piccole e grandi. Devo parlarti, Hertz!»
«Quando?»
«Questa sera.» Grein fece l’incredibile: montò in auto a mezzanotte e andò da Esther.
E’ tutta colpa della noia, rifletté. Per scacciarla, si iniziano addirittura guerre. Spero soltanto di non
avere un incidente! Attraversò il ponte di Brooklyn e percorse il lungomare. I dock erano zeppi di navi.
Fari lampeggiavano nel buio, trascinandosi dietro strascichi di nebbia. Vapori fumosi sospesi sopra
ciminiere. Gru e lanterne montavano tutte una veglia notturna senza ripari a causa dei folli ghiribizzi
degli umani. Su ciascuno di quei vapori, marinai alle prese con le loro mansioni bestemmiavano in tutte
le lingue del mondo, anelando a letti in ogni angolo della terra. Tutto puzzava di petrolio, sporcizia,
pesce morto. Si fermò a un semaforo rosso e gettò un’occhiata sulla sinistra.
Stavano venendo su palazzi nuovi, un enorme paranco meccanizzato puntava un lungo dito ai bagliori
del cielo. Condomini non terminati di costruire scrutavano silenziosamente dall’alto attraverso le loro
finestre vuote. Le forze della Creazione non sapevano ancora esse stesse come tutto ciò si sarebbe
risolto; si erano perse anch’esse ai crocicchi dell’eternità. Ogni volta che imboccava la strada giusta,
Grein si stupiva di se stesso. Nel semibuio non riusciva a riconoscere né le vie principali né le traverse.
Come cieco, entrò in Brighton Beach e ne uscì di nuovo, finché non si trovò all’isolato di Esther.
Smontò dall’auto e inspirò l’aria salata del mare. Le onde continuavano a martellare contro i moli mezzi
marci di quercia con l’indomito vigore di un nemico che non molla mai. Groppi di buio si muovevano
sopra il mare, perforati da fari che lampeggiavano e facevano l’occhiolino attraverso di essi, giocando a
nascondino. L’Orsa Maggiore era sempre lì in cielo, nel medesimo posto dov’era stata abbandonata.
Una luce ardeva dietro la tenda bianca alla finestra di Esther. Lui aveva ancora in tasca la chiave del
portone.
Apertolo, salì le scale buie annusando un sentore al tempo stesso inciso nella sua memoria e
semidimenticato. Esther era in piedi sulla soglia aperta, ad aspettarlo come una sposina in attesa dello
sposo. Tese le braccia quasi volesse abbracciarlo, ma poi le ritirò immediatamente. In
quell’appartamento adesso lui era al tempo stesso un intimo e un estraneo, in preda al senso di non
familiarità nei confronti di cose familiari che prova un parente stretto che si è staccato dalla famiglia. Si
tolse il cappotto e lei lo appese con cura nell’armadio. Lo guardò con espressione intenta, valutandolo
con un tremito nell’occhio, il divertimento represso di due amici intimi che stanno recitando la parte di
conoscenze recenti. Grein notò un cambiamento in lei. Nelle settimane intercorse sembrava in qualche
modo essere ringiovanita. Era dimagrita? Aveva cambiato pettinatura? Aveva riconquistato tutto il
fascino irrequieto di un tempo, con un sorriso reticente che sembrava dire: si tira avanti anche senza di
te. Come dice il proverbio, non sei l’unico pesce del mare. A Grein sembrava che si fosse in qualche
modo trasformato anche l’appartamento. Esther aveva cambiato il mobilio?
Aveva comperato decori nuovi? Indossava senz’altro un abito nuovo. Si sedette in una poltrona, e lei di
fronte, accavallando le gambe e abbassandosi un po’ l’orlo della gonna sul ginocchio, con una civetteria
femminile senza età. «Per essere appena arrivato dalla Florida», disse finalmente, «non sei quasi
abbronzato per niente.»
«Sai che evito il sole.»
«Sì, lo so.» Ed Esther sorrise enigmaticamente, lasciando intendere che le sue parole erano cariche di
ambiguità. «Be’, che notizia porta un traditore ebreo?» chiese. «Lo sai come vanno le cose ai traditori
ebrei.»
«Sì.» E di nuovo lei sorrise con l’espressione di chi è divenuto immune a tutto il veleno della vita e non
ha più compassione nemmeno di sé. Un rossore le colorò le guance dell’eccitazione di sentire l’amara
verità su se stessa e di preparare una pillola altrettanto amara per lui. Chiacchierarono per brandelli
sconnessi, spezzettati. Lei gli chiese distrattamente di Miami. Era davvero caldissima? La gente faceva
sul serio il bagno d’inverno? Che cosa desiderava… té, caffè, magari un bicchierino? Visto che ormai
era un ospite, era suo dovere offrirgli qualche rinfresco. Esther si alzò e si mise a trafficare per casa,
andando in cucina e rimanendovi a lungo.
Tornò portando un vassoio con una bottiglia di liquore, un pane al cinnamomo e qualche biscotto, che
posò con cautela sul tavolino di fronte a lui, dicendo: «Ecco, è per te.»
«Se non bevi tu non bevo neanch’io.»
«Prenderò qualcosa anch’io.» Mentre gli riempiva il bicchiere, la bottiglia le tremava in mano, tanto che
sparse un po’ di liquore sulla tovaglia ricamata. «Lechaim! Che cosa devo augurarti?
Non certamente qualcosa di male!» E accostò il bicchiere al suo. Non appena lo ebbe vuotato,
l’espressione di Esther cambiò, facendosi severa, più vecchia e mortalmente seria, come se avesse colto
soltanto in quel momento il senso pieno della situazione. Ombre azzurre scurirono le cavità sotto i suoi
occhi. «Devo parlarti!» disse. «Che cos’è successo? Qualcuno ti ha proposto il matrimonio?» Lei si tese.
«Sì.»
«Chi è?» Esther rise. «Non è soltanto uno, ma due!»
«Un intero paio?» Grein avrebbe voluto ridere, ma non ci riuscì. Si sentì addirittura arrossire, non tanto
di vergogna quanto di dignità offesa. Esther emanava l’immutabile falsità del genere femminile,
accoppiata al nudo e svergognato egoismo che si nasconde dietro ogni parola, promessa, relazione
sentimentale. Perché mi ha chiesto di venire qui se ha due corteggiatori che le corrono dietro? Perché
tutte quelle chiacchiere melodrammatiche sul recitar Salmi ed evocarmi con la telepatia? Gli ronzavano
gli orecchi; si sentiva inerme come uno attirato in trappola.
La Esther seduta di fronte a lui non era più un’amata ma una nemica, che lo aveva attirato allo scoperto
per gongolare malignamente nei suoi confronti ed esporlo al ridicolo. Il suo sguardo era pieno di
crudeltà e pena. «Che cosa vuoi? Chiedere il mio consiglio?»
«Sì, il tuo consiglio.» Lui si sentì prendere dalla nausea, e gli venne voglia di vomitare. «Adesso sono
troppo stanco per dare consigli.» Lei lo scrutò in tralice. «Pensavo che non ci saremmo più rivisti, ma sei
stato tu a telefonare a me, non io a te. Che cosa immaginavi? Che sarei stata qui a consumarmi mentre
tu scorrazzavi qua e là con la figlia di Boris Makaver? Sì, mi desiderano ancora, caro mio, mi desiderano
ancora. Per te magari posso essere una vecchia, ma per gli altri sono una sposina.
In definitiva, tutto è relativo, no? Per Matusalemme una donna di cent’anni era una ragazzina.»
«Quanti anni hanno? Ottanta? Novanta?»
«Uno quasi sessanta e l’altro li ha appena passati. Non tirar fuori quell’aria di spregio. Non sei più un
Romeo neanche tu. Visto che non posso più contare sull’amore, devo essere pratica. Ho deciso di
sposarmi quand’anche dovesse costarmi la vita. Devo dimostrarti che non sono la scema che pensi.»
«Non l’ho mai pensato.»
«Oh, sì, altroché. Tu credi che io sia buona soltanto come appendice, come ruota di scorta. Invece due
uomini mi vogliono. Uno è colto e l’altro è molto ricco. Esattamente come nel racconto chassidico.»
«Te lo dico subito: beccati il ricco.»
«Lo farò. Quello colto è il dottor Alswanger… forse hai sentito parlare di lui. E’ appena arrivato dalla
Palestina. Ha pubblicato venti libri. I giornali hanno scritto di lui.»
«Non me ne sono accorto.»
«E’ vedovo. Una persona interessante. Un po’ sul noioso, ma zeppo di sapienza. Come mai non ne hai
sentito parlare? Frequenta Boris Makaver.»
«Non ho idea.»
«Perché mi fissi in quel modo? Sto peccando contro di te, eh? La mia coscienza è limpida. Ciò che va
bene per il papero va bene anche per la papera.»
«Hanno una cosa in comune», continuò Esther. «Sono tutti e due bassi di statura. E a me piacciono gli
uomini alti. Da bambina reggevo la candela intrecciata per mio padre quando celebrava la cerimonia
dell’Havdalah in chiusura dello shabbath, e mia madre diceva sempre: ‘Reggila alta e troverai uno sposo
alto’. Ma non è servito a niente. Piniele era piccino. E adesso, la mia solita fortuna, i nuovi sposi sono
entrambi due tappi. Tu sei alto, ma non hai voluto essere il mio sposo. Quindi ecco tutto.»
«Meglio di niente.»
«E’ vero. Quanto dovrei rimanere ancora sola? Tutta la storia con te non era vita. Per quanto potesse
essere bella, tornavi sempre a casa da Leah. Be’, sei almeno felice?»
«Chi lo sa?»
«Chi dovrebbe saperlo, se non tu? Come mai l’hai lasciata in Florida e sei tornato di corsa a New York?»
«Affari.»
«Torni là?»
«Lei vuole stabilirsi lì.»
«Capisco. Che cosa farai laggiù? Raccoglierai arance?»
«Qualcosa farò.»
«Be’, sei sempre stato il padrone di te stesso. Come diciamo di Dio a Yom Kippur: ‘Chi può dirti che
cosa fare e come agire?’ Non hai mai voluto portarmi via da New York. Per tutti quegli anni hai
continuato a promettermi un viaggio, ma non appena capitava l’occasione trovavi sempre una scusa.
Per la figlia di Boris Makaver, invece, corri là e voli qua, e di tua moglie ti importa quanto del gatto del
vicino. Credimi, Hertz, dovrei esserti nemica, una nemica mortale. Ma l’odio non appartiene alla mia
natura. Non incolpo che me stessa. Se sono una vacca, è perché ti ho permesso di mungermi. Come
potrebbe essere altrimenti? Le vacche devono essere munte… è scritto nella Torah. Be’, che altro?
Quando divorzi da tua moglie e sposi quella là?»
«Leah non vuole il divorzio. E anche il marito di Anna si rifiuta di concederglielo.»
«E’ un simile tesoro, costei? Be’, dovrete cavarvela senza la benedizione di un rabbino. E a te conviene
davvero molto di più. Per quanto mi riguarda, Hertz, ne ho avuto abbastanza del libero amore. Voglio
anch’io essere moglie e preparare la cena per mio marito. Basta svolazzare qua e là come una farfalla,
soprattutto visto che la farfalla ha passato i quaranta.»
«Quale prenderai? Il ricco?»
«Così sembra. Anche se mi sento più a mio agio con il dottor Alswanger. In definitiva è un uomo colto.
Ma la cultura non si può mangiare. E’ vedovo, con figli sposati in Palestina.
Di professione è psicoanalista, ma è anche religioso. Ai tempi è stato non so bene che tipo di chassid.
Chissà. Va in giro come un ambulante a vendere certe idee esotiche… Vuole costruire un sanatorio per
sani, e ha altri strambi progetti simili. Mi ha prestato uno dei suoi libri e mi piacerebbe che lo leggessi.
Mi ha messo a parte di tutti i suoi pensieri, ma se devo dirti la verità non riesco a trovarci né il capo né
la coda. Vuole combinare Freud, il Baal Shem Tov e Karl Marx, e fare di tutti e tre un unico sistema
coerente. Mira a creare non so quale istituzione che realizzi il sistema a Tel Aviv, ma se non funziona là
vuole provare qui. Avresti dovuto sentire come mi parlava… come se fossi una sua pari. Ha citato tanti
di quei libri che è cominciata a girarmi la testa. E’ convinto che tutti siano malati e che la vita di
ciascuno debba essere programmata.»
«Ma è bolscevismo.»
«E’ un uomo profondamente religioso. Ha colto cose nel mio intimo che mi hanno dato i brividi. Porta
gli occhiali, ma guarda sempre sopra di essi, come se ti scrutasse diritto nell’anima. Parla otto lingue.»
«Però è un molto di fame, eh?»
«Che cos’altro? E’ questo il guaio. I tipi così sanno tutto tranne come guadagnarsi da vivere. Non fa per
me, Hertz, non fa per me.
Ho già lottato abbastanza a lungo. L’altro, però, è un pochino troppo volgare. Non esattamente un
bifolco, ma un rozzo affarista americano.
Tipico. Alswanger, il dottore, è robusto, ma lui, scusa l’espressione, è un maiale grasso con un pancione
enorme. Ma a suo modo è anche un uomo interessante. Un, come si dice? un originale. Oh, mio Dio,
ormai dovrei essere nonna, e invece sono ancora qui a cercare di scegliermi un marito. Ma che cosa
posso fare? Ci si fa il letto e poi ci si deve giacere.»
«Questo altro… che attività ha? Chi è? Che cos’è?»
«Vuoi conoscere il suo pedigree? E’ un ebreo russo che sta in America da quarantacinque o
cinquant’anni. E’ il nostro tipo di ebreo, ma americanizzato. Parla per lo più in inglese, ma se gli prende
l’uzzolo è capace di blaterare per ore in yiddish. Di professione è pellicciaio, ma non ha lavorato per più
di trentacinque anni. Se vuoi spendere cinquemila dollari per una pelliccia di visone per la figlia di Boris
Makaver, puoi prenderla da lui. Ma a poco a poco si sta ritirando dagli affari. Appartiene anche al tuo
giro… Wall Street. Possiede persino un po’ di azioni del tuo fondo comune. Inoltre ha una casa in
campagna e va in giro con una Cadillac.»
«Be’, bene.»
«Sì, bene. Perché sei diventato così pallido? Dovrebbe forse esserci una regola per te e un’altra per me?
Lui non è come te… ma, d’altra parte, dove sta scritto che tutti gli uomini debbano essere come te? Ha
altri meriti. Per lui una donna è un essere umano, non un animale da tenere in gabbia. E’ un uomo
moderno, non un bigotto all’antica come te.»
«Che cos’è? Vedovo? Divorziato?»
«Non è di sicuro un vecchio scapolo. E’ nonno con nipoti. Importa qualcosa? A questo punto anche tu
e io potremmo essere in attesa di nipotini, se tutto fosse andato come desideravo io. Ma è una persona
vivace… forse un pochino troppo. Fa passeggiate, viaggia, visita posti. Passa l’inverno in Florida e
l’estate in Svizzera, o non so dove in Europa. Ha fatto i soldi e adesso li spende. I suoi figli non sono lì
ad aspettare ciò che lascerà loro. Sono ricchi anch’essi.»
«E’ divorziato?»
«Sì.»
«E allora che cosa ti frena?»
«Niente, carissimo, niente. Se fosse per lui saremmo già sposati, ma io ho qualche esitazione. Perché
dovrei ingannarti? Non sono innamorata di lui. Ma che cosa me ne faccio, ormai, dell’amore? E’ un
uomo comprensivo, ordinario, persino un po’ rozzo, ma ne ho avuto abbastanza della raffinatezza. Un
uomo ordinario non potrà mai essere rozzo come quelli raffinati che ho conosciuto. Butta letteralmente
via i soldi. Dove vada a procurasene così tanti da sprecare, non so. Al riguardo litigo continuamente con
lui, ma non smette mai di firmare assegni. Non mi piace uno che continua a dare di piglio al libretto
degli assegni. Ma sono tutti così: fanno i soldi e li spendono per le donne. Se dovessi raccontarti che
tipo di personaggio è, rideresti.»
«Be’, raccontamelo.»
«Oh, dovrebbe comparire in un romanzo. E’ basso, corpulento, grigio come una colomba ma con la
faccia rossa. Un ebreuzzo sano. Una delle mie finestre si era bloccata e nessuno riusciva ad aprirla, ma
lui le ha dato un solo spintone ed è saltata via. Non ho mai visto nessuno mangiare tanto. Ogni volta
che cena qui da me, mi ripulisce il frigorifero. Può sbafare di più in una volta sola di quanto tu mangi in
tutta una settimana. Qui in America la gente non mangia più così tanto. Gli dico che non gli fa bene,
continuiamo a darci del lei, e lo metto in guardia a proposito di calorie e diete, ma lui non fa che
ribattere: ‘Ciarpame! Se i dottori sono favorevoli al digiuno, digiunino loro. La mia regola è che siamo
tutti diversi’. E continua a ingozzarsi a un livello tale che, per quanto lo guardi, non riesco a credere ai
miei occhi. E’ basso, eppure pesa centodieci–centoquindici chili! Come se non bastasse, ha un factotum
che è un altro eccentrico.»
«In che senso, factotum?»
«Non so come spiegartelo. Si serve di una specie di intermediario tutto fare che lo accudisce mani e
piedi, oltre a tenere d’occhio l’attività commerciale. E’ tutto messo insieme: amico, fattorino, autista.
Non fanno cerimonie. Il factotum continua a dirgli: ‘Moishele, non fare il porco!’ e gli porta via il piatto
mentre sta ancora mangiando. Si conoscono dall’infanzia. Il travet è uno scapolo che non ha mai
pensato di sposarsi. Credo che sia androgino, perché la sua faccia è un po’ troppo liscia e ha ancora una
gran zazzera di capelli. Qui in America ha avuto un’attività commerciale anche lui, e ha fatto altre cose
di ogni genere.
Suona il violino e conosce tutte le opere da cima a fondo. Vivono insieme.»
«In questo caso ti beccherai due mariti al prezzo di uno.»
«L’altro è senz’altro androgino. Mi ha detto chiaro e tondo che non ha mai avuto una donna e non ha
nessun interesse per loro. Non è un pivello neanche lui, marcia per i settanta, anche se sembra giovane.
Ho parlato con franchezza a Morris, si chiama così, Morris Plotkin, e gli ho detto che non voglio
attorno quel suo domestico. Dovrà prendersi un appartamento. D’altra parte, se è in gamba negli affari,
deve certamente tenerlo. Plotkin non potrebbe mai trovare una persona così leale e devota neanche per
cinquecento dollari alla settimana, mentre quello schiavo non chiede che pasti e alloggio. E’ uno schiavo
totale, ti dico, e se non l’avessi visto con i miei occhi non lo crederei possibile.
Ciascuno di noi si aggrappa a un altro, ma quello lì, si chiama Sam, si è appiccicato a Plotkin come una
tenia. E’ un vero e proprio parassita. Ma che cosa me ne importa? Accudisce anche me. Se devo andare
da qualche parte, viene a prendermi in auto e mi ci porta come se fosse il mio autista. I vicini pensano
che io sia diventata milionaria. E’ una cosa assolutamente folle, ti dico.»
«Be’, evidentemente, andandomene ti ho fatto un piacere.»
«Eh? Be’, non mi hai di sicuro fatto del male. La nostra relazione era entrata in un vicolo cieco. E’ lo
stesso per l’amore come per tutto il resto: se non si va avanti, si va indietro. E tu?
Spero che sarai aperto con me come lo sono stata io con te.»
«Che cosa vuoi sapere?»
«Tutto.»
«Chiedi, e risponderò.» Esther sfregò un fiammifero e accese una sigaretta. «L’ami, almeno?»
«Anna? Sì.»
«Be’, così sia. Non ti ho mai fatto alcun male, ma tu volevi che me ne rimanessi qui tutto il giorno a
morire di nostalgia. Ti conosco, Hertz, ti conosco meglio di qualsiasi altra donna. Negli undici anni in
cui ti ho avuto, ti ho studiato a poco a poco. Ho scoperto tutto di te. Tu non vuoi soltanto il corpo di
una donna… vuoi anche l’anima, tutta la sua esistenza, il suo sangue vitale. Vuoi strizzarla come un
limone, e anche allora non vuoi buttarla via. Ti tieni accanto un catino dove ammucchi tutti i tuoi
limoni strizzati, e di quando in quando dai un’altra strizzata a uno di essi, caso mai ci fosse ancora
dentro una goccia di succo. Sarò del tutto franca con te. Non credere che non abbia più nostalgia di te.
Ce l’ho, al punto che quasi divento matta. Ma mi sono ripromessa che non diventerò una schiava, e non
lo farò. Un’altra cosa: ho anche un certo potere, e tu lo sai. Hai anche tu nostalgia di me, e continuerai
ad averla per tutto il resto della vita.»
«Parli come un’indovina zingara.»
«E’ la verità, nemico mio. E’ la pura, spietata verità.» E negli occhi di Esther comparve un sorriso che
Grein non aveva mai visto prima di allora: storto, indomito, avido, carico del senso di una nonna circa la
vanità di tutte le cose terrene. La sua faccia era giovane, ma agli angoli degli occhi e della bocca
aleggiava un’espressione impossibile da definire: una saggezza da vecchia, una rassegnazione scaltra, il
dolore di chi, avendo passato tutta la vita a lottare, decide finalmente che deve arrendersi. Gli scoccò
un’occhiata inquisitoria, come se davvero non lo conoscesse più e stesse cercando di scoprire come
funzionasse la sua mente. Tirò qualche boccata dalla sigaretta e alcuni anelli di fumo le circondarono la
fronte. Ma di punto in bianco sembrò riscuotersi. «Che ora è? Spesso mi sembra che sia davvero
arrivata la fine.» Vi fu uno scambio di telefonate tra Miami e l’albergo di Grein a New York. Avendo
avuto un ripensamento circa l’acquisto della casa che avrebbe dovuto comperare in società con Anna,
adesso lui obiettava che non aveva nessuna voglia di seppellirsi laggiù; non voleva gestire un albergo;
non poteva abbandonare la sua attività a New York. Lei piangeva nel telefono. Era determinata a
rimanere in Florida. E lui aveva rovinato tutti i suoi progetti.
Intervenne al telefono anche la signora Gombiner, che gli si rivolse in toni aspri e volgari. Ma lui rimase
ostinatamente sulle sue. Voleva che Anna tornasse a New York e le promise che le avrebbe trovato un
appartamento. Lei, fattasi profondamente sospettosa, gli mandò lunghe lettere per posta aerea ed
espresso, accusandolo di voler tornare da Leah se non addirittura da Esther. Lui però negò tutto. Per
effetto del suo estremo stato di agitazione, ad Anna si interruppero le mestruazioni. O forse era incinta.
Dopo prolungate conversazioni e scambi di corrispondenza, lei acconsentì a tornare a New York. Perse
i cinquecento dollari versati come anticipo per assicurarsi la casa, oltre agli altri soldi pagati a esperti
perché certificassero che la casa era esente da termiti e per avere consigli professionali sulle modifiche
da fare se avessero deciso di trasformarla in albergo. Inoltre Anna aveva litigato con la signora
Gombiner, e nell’ultima lettera riconobbe che lui aveva ragione. La donna l’aveva coperta di contumelie
come una pescivendola, perché qualcuno aveva avanzato il sospetto che la casa fosse infestata da
termiti, e che il vero motivo per cui chi la vendeva voleva disfarsene era questo. Per di più Miami era
diventata calda come se si fosse nel cuore dell’estate. Anna partì in aereo da Miami a mezzogiorno e
sarebbe dovuta arrivare all’aeroporto di New York pochi minuti dopo le sei. Grein andò ad aspettarla,
ma l’aereo era in ritardo.
Fuori pioveva a dirotto. Un uragano salito dal Centro America, che si prevedeva destinato a spegnersi
nell’Atlantico, aveva invece spazzato la East Coast con la coda. C’erano stati lampi e tuoni nel cuore
dell’inverno. Aerei destinati a New York erano atterrati in città lontane. Passeggeri con prenotazione
stavano riuniti in capannelli nell’atrio delle partenze ad ascoltare attentamente i bollettini meteorologici,
chiacchierando con l’aria assente di chi ha bisogno di essere altrove. Alcuni di loro erano un po’ alticci.
Grein si sedette su una panca cercando di leggere il giornale del pomeriggio nello sfolgorio delle luci
elettriche, ma aveva la testa piena di agitazione. Leah aveva l’influenza, Jack si stava preparando a
sposare la giovane gentile dell’Oregon e lui aveva avviato uno strano rapporto con Esther, una specie di
appendice o epilogo della loro precedente relazione sentimentale. Questo per lei significava che, finché
non avesse sposato il suo Plotkin, poteva fare come le piaceva, e Plotkin era parso accettare la
situazione. Era così moderno e tollerante che voleva persino conoscere Grein. Lei tentennava. Prima
faceva la cinica, poi la tragica. Paragonava ciò che stava succedendo tra lei e Grein all’esperienza delle
anime che restano sospese tra cielo e terra, tra vita e morte, nel Mondo del Caos o in quello
dell’Illusione. Dio del cielo! pensò lui. Aveva tradito tutti e tutto. Si era invischiato in un reticolo di
falsità le cui tortuosità sbalordivano persino lui. Esther aveva cominciato a bere forte; ogni volta che
andava a trovarla, sentiva di whiskey. Fumava anche troppo. Era lì che parlava di fare una luna di miele
in Europa con Plotkin, e da un momento all’altro si lamentava che la sua fine era vicina. Dava a Grein
dell’assassino e del ladro, accusandolo di averla rovinata spiritualmente e fisicamente, e poi lo inondava
di tenerezze. Non appena lui entrava nella sua camera d’albergo, suonava il telefono. Esther era sempre
stata loquace, ma adesso non si interrompeva mai per respirare. Lo bombardava di domande, esigendo
di sapere ogni particolare su Anna, chiedendogli consiglio. Il suo umore cambiava di momento in
momento. Che il dottor Alswanger fosse una scelta migliore di Morris Plotkin? Forse non sarebbe mai
riuscita a sopportare i modi rozzi di Plotkin. Non era magari meglio che si togliesse dai piedi entrambi i
corteggiatori e interrompesse completamente ogni contatto con il mondo? Non smetteva mai di
accarezzare l’idea del suicidio. Che cosa c’era da temere? Con una corda o il gas aperto al massimo, si
può porre fine a tutti i problemi.
Persino le sue sbronze erano piene di passione. Desiderava soltanto stare con lui, dividere con lui gli
ultimi piaceri terreni prima di, secondo le sue parole, «precipitare nell’abisso.» Condiva i suoi discorsi
con una gran quantità di ebraico: versetti delle Scritture o motti chassidici che ricordava dal paese di un
tempo. In un modo perverso, era persino diventata religiosa. Era una peccatrice? In che cosa consisteva
il suo peccato? Non era sposata. Perché doveva essere più virtuosa della biblica regina Esther? Tutto
considerato, Assuero era un gentile. Secondo la Ghemarà, in realtà Esther era moglie di Mordechai. E
Giaele, la moglie di Eber il Kenita? E Abisag la Sunammita?
Lei era istruita e sapeva che cosa insegna la Ghemarà. Grein era in preda all’oscuro sospetto che Esther
stesse perdendo la ragione. Rideva e piangeva, gli comperava regali che non avrebbe mai potuto usare,
diceva cose insensate. Le aveva consigliato di andare da un medico, ma lei aveva immediatamente
ribattuto: «Intendi uno psichiatra? Troppo tardi, carissimo, troppo tardi. O non ne ho bisogno o non
servirà a niente. La gente come me non ha la possibilità di guarire.» Ed era scoppiata in uno scroscio di
risa che si era trasformato in un singhiozzo. Tra tutto questo parapiglia lui aveva affittato per sé e Anna
un appartamento ammobiliato dai Brodsky, un’anziana coppia che era andata a trascorrere un anno in
Europa. Quindi aveva una sorpresa per Anna. In quel momento sentì annunciare l’aereo da Miami e
andò ad accoglierla. La pioggia era cessata, ma il campo di atterraggio era bagnato e rifletteva ogni cosa
come uno specchio nero. L’aria era gelida e pungente. Anna, in abito nero e camicetta bianca che faceva
risaltare la sua abbronzatura, appariva stanca, elegante, spaventata e sollevata di essere sopravvissuta a
quel viaggio pericoloso. Mentre si baciavano, a lui parve che attorno a lei aleggiasse ancora il profumo
di fiori tropicali. Lunghi e fortemente illuminati, le ali protese, sulla pista c’erano altri aerei, pronti a
levarsi nella notte nebbiosa per volare come giganteschi uccelli sopra oceani e continenti. I finestrini
illuminati emanavano un’aura di lusso e licenziosità, e la determinazione degli umani a prendere nelle
loro mani il destino senza curarsi degli spiriti benigni o malefici appostati sopra le nuvole o nei visceri
della terra. In auto Anna si mise a parlare d’affari. Che senso aveva iniziare una cosa e non concluderla?
Come mai di punto in bianco la Florida aveva cominciato a dispiacergli? Perché non voleva dirle dove la
stava portando? Che progetti aveva? Le poche settimane che aveva trascorso da sola in Florida erano
state un incubo. La signora Gombiner era una donna con il pelo sullo stomaco e brutale. Morris ne era
terrorizzato a morte. Aveva mandato di nascosto a Grein una cravatta in regalo. Gli si aggrappò e lo
baciò, sospirando come se soffrisse di un dolore di cui non poteva parlare. Si accese una sigaretta e la
fiamma dello zolfanello le illuminò la faccia per un attimo prima che dicesse: «Ah, non saprai mai che
cosa ho vissuto. Ho cominciato ad avere dubbi su tutta questa storia. Ho pensato che non mi volessi
più.»
«Ho sempre avuto nostalgia di te», rispose lui, e nell’intimo sapeva che non era una bugia. Qualsiasi
cosa avesse fatto con Esther non c’entrava niente con Anna o con i sentimenti che provava per lei. Un
simile comportamento probabilmente non era conforme ad alcuna teoria, ma dove sta scritto che tutto
debba concordare? Forse che tutte le altre componenti della natura convenivano con le teorie umane?
L’auto procedette verso downtown per la Quinta Avenue e si fermò davanti a un palazzo sull’angolo di
Washington Square North. Anna era sorpresa, ma rimase zitta. Quest’uomo è matto, pensò… ha
dilapidato i suoi ultimi pochi dollari. Lui la portò al nono piano, aprì la porta e accese le luci, rivelando
una piccola abitazione con due camere e cucina. Anna gridò quasi di gioia. «Non è un appartamento»,
disse. «E’ un sogno!» Tutto, mobilio, tappeti, tappezzeria, copriletto, era della migliore qualità e scelto
con gusto. I Brodsky erano partiti con la Queen Elizabeth soltanto il giorno prima. La signora aveva
lasciato loro un mazzo di rose e una bottiglia di champagne, unitamente a un biglietto per Anna con le
istruzioni per la gestione della casa e i suoi migliori auguri. Il frigorifero era rifornito di latte, burro,
formaggio, sardine, caviale; lo stipetto dei coloniali conteneva té, caffè, cacao, cereali di ogni genere e
conserve. L’armadietto dei medicinali, in bagno, era stato riempito di saponette e articoli da toilette. Il
tutto aveva l’aria di un generoso regalo, ma in realtà a Grein costava duecentocinquanta dollari al mese.
Era strano andare alla finestra e guardare lì sotto la Quinta Avenue, la via che simbolizzava la civiltà
umana. Sulla destra c’era Washington Square Park, sulla sinistra un lungo cortile. L’asfalto era bagnato e,
come un fiume, rifletteva finestre, lampioni, i fari delle auto di passaggio, i cui pneumatici frusciavano e
fischiavano. Sui tetti incombeva un cielo coperto. Anna alzò una finestra a ghigliottina e, appoggiate
entrambe le mani sul davanzale, si sporse a guardare. Al peggio posso sempre buttarmi di sotto da qui,
pensò fugacemente. Non è mai troppo tardi! Si ritrasse immediatamente e chiuse la finestra. Cominciò a
esaminare i mobili, aprendo gli armadi degli abiti, i cassetti del comò e della scrivania.
Tutto era vuoto e pronto per l’uso. Andò in cucina a fare un po’ di caffè. Strano, si era già abituata al
pensiero di cominciare la sua nuova vita in Florida, ma le forze che controllano il destino umano
avevano evidentemente deciso altrimenti. Le venne in mente che era soltanto a una dozzina di incroci
da Stanislaw Luria. Lei era stanca, ma lui non ne poteva più di uscire. Voleva comperare il giornale del
mattino, e per farlo doveva salire a piedi verso uptown. Che cosa doveva fare, adesso? Non aveva detto
a Esther che avrebbe lasciato l’albergo, né alcunché dell’appartamento sulla Quinta Avenue. Sapeva che
lei aveva telefonato all’albergo e che ormai probabilmente pensava che l’avesse abbandonata senza una
parola. Ma che cosa poteva fare? Non poteva dirle che Anna era tornata a New York, e che aveva
messo su casa con lei. Era ora di mettere fine una volta per tutte a quella tragicommedia! Aveva
ricominciato a piovere, un’aspra acquerugiola sbieca che pungeva la faccia come tanti aghi. La via era
deserta. Lui camminava in fretta, con il vento che sembrava spingerlo. Be’, sposi pure Morris Plotkin e
sia finita! Il fardello si stava facendo sempre più pesante. Si fermò di punto in bianco in mezzo al
marciapiede, a testa china come se stesse portando un giogo. Inspirò a fondo una boccata di aria
notturna. Doveva telefonare a Leah? A Esther? Aveva paura della mite sottomissione della prima come
delle stucchevoli sbronze della seconda. La schiettezza di Esther era terrificante. Diceva le cose più
sconvolgenti, proclamando a voce alta i particolari più personali. Al tempo stesso attratto, rivoltato e
pieno di vergogna, Grein entrò come un ubriacone in un bar della Trentaquattresima Avenue e la
chiamò dalla cabina telefonica. Lei riconobbe immediatamente la sua voce e gridò: «Sei ancora vivo?
Stavo proprio per recitare il Kaddish per te. Dov’eri finito? Come mai hai deciso di punto in bianco di
lasciare l’albergo?»
«Ti racconterò tutto.»
«Quando? Per me è tutto fatto e finito. Quello che ti parla è un cadavere… un cadavere che parla dalla
tomba.»
«Smettila con queste sceneggiate, Esther!»
«E la verità, assassino mio. Sono morta e sepolta.
Sono un cadavere con il telefono!» Esther scoppiò improvvisamente in una risata isterica e smise
altrettanto di botto. «Dovunque tu sia, vieni immediatamente da me.»
«Non posso venire lì adesso», rispose Grein. «Perché no, se mi è consentito chiedere?» chiese Esther
dopo una pausa. «Non posso. E’ tardi. Anna è qui in città.»
«Eh? Ah. Adesso capisco. Non sarebbe dovuta rimanere in Florida?»
«E’ tornata.»
«Congratulazioni! Spero di avere notizie migliori, qualche volta! Stammi a sentire: ti ho chiesto di venire
qui perché volevo rompere con te. E’ la nostra ultima sera e la tua ultima occasione. Domani è tutto
finito.
Ma se la figlia di Boris Makaver ti è tanto preziosa, rimani con quella puttana. Addio per sempre! Non
ci rivedremo mai più in questo mondo.
Forse nella Geenna ci friggeranno entrambi nella stessa padella.»
«Aspetta un momento.»
«Che cosa dovrei aspettare? Ho già aspettato abbastanza. Gli undici anni da quando ti ho conosciuto
sono stati tutti una lunga attesa. Forse è per questo che sono malata. Ma tutto ha un limite, mio
carissimo, anche l’amore. Se non hai nemmeno il coraggio di venire qui per separarti da me, sputo su di
te. Ti strapperò dal mio cuore fin dalle radici. Non ricorderò nemmeno il tuo lurido nome. Un attimo
dopo che tutto sarà finito, per me sarai il più estraneo degli estranei. Tutto il mio amore si indurirà in un
unico groviglio di inimicizia e veleno.»
«Davvero, Esther, stai dicendo sciocchezze.»
«Non sono sciocchezze! Ciò che c’è stato tra noi era una malattia, e adesso è arrivata la crisi. E’ un solo
gradino dal picco più alto agli abissi più profondi. Domani telefonerò a Morris Plotkin e fisserò con lui
una data per il matrimonio. Non lo amo, ma in spregio a te imparerò ad amarlo. Gli darò il meglio che
ho. Farò per lui ciò che nessuna donna ha mai fatto per un uomo. Quanto a te, non pensare che ti lasci
libero. Ti terrò sospeso a un filo. Non ti lascerò fino all’ultimo giorno che passeremo su questa terra.
Avrai una tale nostalgia di me che anelerai alla morte.»
«Ce l’ho già, vacca.»
«Hai nostalgia di me e corri da lei.
Che razza di uomo sei? Ti ha gettato addosso un incantesimo o che cosa?»
«Non c’è nessun incantesimo.»
«Perché resti con lei?»
«Esther, non posso più parlare. Dovrei inserire un’altra monetina da cinque centesimi e non ce l’ho.»
«Dove sei? Dammi il numero, che ti richiamo.» Lui glielo diede. Quindi rimase in piedi nella cabina
telefonica a guardare il bar, fuori. Sugli sgabelli alti sedevano due uomini e una donna. Uno di questi
ubriaconi stringeva un bicchiere, ondeggiando mezzo addormentato. In una sequenza di movimenti da
sogno l’altro cercò di chinarsi verso la donna, tenendosi in equilibrio precario sullo sgabello, come
rischiando di cadere da un momento all’altro. Il suo lungo corpo si tese come gomma mentre allungava
difficoltosamente una mano, ma senza riuscire a raggiungere la donna. Costei era bassa, corpulenta, con
una zazzera di capelli corti e ricci. La sua faccia larga, con naso rincagnato e labbra grosse, esprimeva
licenziosità e bonomia ma anche irritazione, l’irrazionalità dell’ubriachezza che, senza alcun preavviso,
può passare dalla tenerezza all’insulto, dal bacio alla percossa. La pelle del viso aveva assunto una
sfumatura verdastra ed era un po’ butterata; ogni singola cicatrice trasudava una vacuità da persona
ubriaca. Che cosa devo fare? Che cosa devo dirle quando richiama? mormorò Grein tra sé. Devo
rivederla. Almeno ancora una volta! Ma perché il telefono non suona? Forse non ha sentito bene il
numero. E’ passione. Passione autentica. Il telefono suonò e lui si precipitò a sollevare la cornetta.
Sembrò rimanere senza fiato.
«Esther?»
«Sì, sono io. Senti, nel frattempo ci ho pensato su. Non voglio darti alcun ultimatum. Se non puoi
venire, pazienza. Sappi soltanto che tra noi c’è stato un grande amore.» ed Esther cambiò tono, «ma tu
hai fatto tutto il possibile per ucciderlo. Comunque, grazie a Dio, adesso è negli spasimi della morte.
Stammi bene, Hertz, e rammaricati. Voglio che mi giuri una sola cosa: non ritelefonarmi mai più. Una
volta sepolti i morti e riempita la tomba, bisogna lasciarli in pace. Domani sarò un’altra Esther. Puoi
recitare il Kaddish per quella di oggi.» Com’è possibile che io trovi così interessanti queste chiacchiere?
si chiese lui, dicendo però: «Aspetta, Esther, arrivo.»
«Quando? A Pynchon sta già sorgendo l’alba.»
«Prenderò un taxi, ma prima devo fare una telefonata.»
«A chi? Spicciati. Questa sera per me è come Hashanah Rabbah… una notte di veglia totale. I cieli si
apriranno ed esprimerò un desiderio. Pregherò che Dio ti cancelli dal mio sangue.»
«Basta così, Esther. Aspettami.»
«Vieni presto. Non posso vivere senza di te.» Grein aprì la porta della cabina telefonica e si terse il
sudore dalla fronte. Doveva farsi cambiare un dollaro in spiccioli, ma il barista, appoggiato al banco e
mezzo addormentato, con la pelata che rifletteva le luci della sera inoltrata, non sembrava dell’umore di
darglieli. Be’, berrò qualcosa. Grein andò al banco e chiese un bicchiere di cognac. Gli ubriaconi
girarono frammenti di viso verso di lui. Sembrava che stessero dicendo in tono ottuso: non fai fesso
nessuno. La tua passione non è l’alcol. Il barista si muoveva pigramente, con una faccia che manifestava
ciò che stava pensando. Il guadagno che ci ricavo non ne vale proprio la pena. Grein ingollò la sua
bevanda, prese un sorso di acqua gassata, si fece dare il resto e tornò immediatamente alla cabina
telefonica. Chiamò Anna, che rispose subito.
«Pronto?»
«Tesoro, sono io.»
«Come mai telefoni?»
«Anna, Leah è malata.»
«Dove sei?»
«Con lei, a casa. E’ soltanto influenza, ma temo che possano esserci complicazioni. Potrebbe diventare
polmonite. Devo far venire un medico.» Anna rimase un attimo in silenzio. «Dove sono i tuoi figli?»
«Non sono qui.»
«Chi ti ha fatto entrare?»
«Leah è uscita dal letto.»
«Sei sicuro di star dicendo la verità?» chiese lei dopo una certa esitazione. «Conosci il mio numero. Se
non mi credi, appendi e richiamami.» Grein si sbalordì di ciò che aveva appena detto. Che cosa sarebbe
successo se Anna avesse fatto esattamente così? Nel giro di un minuto avrebbe messo a nudo la sua
bugia. Ma doveva correre il rischio.
In preda all’eccitazione del giocatore d’azzardo, calcolò che in quel momento stava rischiando tutto.
Anna sembrava riflettere sulle implicazioni delle sue parole. «Be’, se è davvero tanto malata, così sia.
Erano cinque settimane che aspettavo questa sera.»
«Tesoro, passeremo anni insieme. Avremo tutto per noi.»
«Quando torni?»
«Non posso dirlo con esattezza. Ma molto tardi.»
«Che cos’ha Leah? Ha la febbre?»
«Sì. E sembra molto malata.»
«Be’, aiutala. Non le auguro alcun male.»
«Va’ a dormire. Ti amo!» Grein aprì la cabina del telefono e fece per andarsene, ma poi richiuse la porta
e telefonò a casa. Non aveva detto del tutto una bugia. Leah aveva effettivamente l’influenza.
Inoltre aveva detto una cosa vera: a casa non c’era nessuno. Il telefono suonava ma non rispondeva
nessuno. Ciò che un attimo prima era un’invenzione totale si era trasformato nell’assoluta verità. Si
premette la cornetta all’orecchio, mentre con la mano libera frugava nella tasca posteriore dei calzoni in
cerca di qualcosa. Chissà. Forse Leah era davvero pericolosamente malata. Le parole hanno spesso
poteri magici. Forse è morta, Dio ne scampi. Ci sarà mai stato un pasticcio simile nel mondo? si chiese.
O era la prima volta che capitava un imbroglio del genere nella storia del cosmo? Quali erano le
probabilità che una situazione del genere si ripetesse? Se il numero degli atomi è limitato, questo evento
deve ripetersi una volta, anzi, non soltanto una ma migliaia di miliardi di volte, ciascuna con variazioni
di solo secondaria importanza. E’ ciò che ha fatto impazzire il povero Nietzsche.
Grein aspettò un attimo, gettando di nuovo un’occhiata verso il bar.
Nella luce immobile delle lampade i tre ubriachi erano ancora lì seduti come manichini. Le loro bocche
non parlavano e non tacevano nemmeno, ma farfugliavano come quelle di bimbi che imparassero le
prime parole. Le lancette dell’orologio a parete indicavano la mezzanotte e un quarto. Il barman
sbadigliò sgangheratamente. Al telefono non rispondeva nessuno.
Leah evidentemente dormiva, o semplicemente non voleva lasciare il letto. Lui uscì e aspettò per un po’
un taxi, anche se dubitava che un taxi potesse aver voglia di andare tanto lontano a un’ora così tarda.
Nei paraggi c’era la BMT, e lui salì le scale. Se Anna dovesse telefonarmi a casa, sono perduto, si disse.
Preso da un’improvvisa urgenza di correre, si costrinse a camminare lentamente. Attese dieci minuti
l’espresso per Brighton, ma a quanto pareva aveva terminato le sue corse, per cui prese un locale. Che
cosa succederebbe, per esempio, se dovessi rendere conto di tutto questo in un tribunale? Come potrei
spiegare questo genere di psicologia? Ho lasciato Esther e adesso sto correndo da lei. Mi ha stremato
con le sue chiacchiere interminabili e la sua veemenza isterica, eppure non ne posso più di essere in sua
compagnia. Certo, mi sto comportando in un modo irrazionale ma, visto che appartengo alla natura,
ciò che sto facendo ha la sua collocazione nel cosmo. Se non possiamo dire che una mosca commette
errori, perché dovremmo dire che un essere umano sbaglia? Spinoza ha ragione: nell’universo non c’è
posto per l’errore. Perché poi si agitava tanto a proposito del controllo delle emozioni? A quanto pare,
chi è più vicino alla verità è anche il fatalista più estremo: quelli che giocano alla roulette russa. A
Brighton prese un taxi per andare da Esther e poi salì le scale. Soltanto allora si rese conto di quanto
fosse travolgente il suo desiderio. Non ne poteva più che lei aprisse la porta, e quando lo fece caddero
uno nelle braccia dell’altra. Rimasero a lungo in piedi sulla soglia, abbracciandosi con passione e
baciandosi come due amanti che, essendo rimasti separati a lungo, pensavano che non si sarebbero mai
più rivisti e non riescono a contenersi. Quindi si mossero per la casa tenendosi abbracciati, lei
camminando all’indietro e lui spingendola avanti come fanno talvolta i bambini giocando. In tal modo
raggiunsero la camera da letto. Il viso di Esther era radioso di trionfo. «Il mio eroe!»
«Mi hai stregato.»
«Perché no? In amore e in guerra tutto è valido. Ho fatto un tuo modello in cera e ci ho ficcato sette
aghi. Finché restano lì, il tuo cuore sarà attratto a me come una calamita, arderà e si scioglierà come
cera. Hocus–pocus, abracadabra, barabas–satanas, kokodover, maltei tzedek.»
«Dove hai imparato tutta questa roba?»
«Scemissimo, sono una vecchia strega. Turbino su un cerchio, volo su una scopa. Lucifero e io siamo
vecchi amici intimi.»
«Sembra vero.»
«Lo è, scemissimo, lo è. Le streghe esistono. Prendo l’anima e me la lego nella giarrettiera. Che cos’hai
detto alla figlia di Boris Makaver? Dove hai detto che andavi nel cuore della notte? A trovare la regina di
Saba nel suo palazzo?»
«Le ho detto che Leah è malata.»
«E la vacca ci ha creduto?»
«Leah è malata sul serio.»
«Che cos’ha? Be’, non è colpa mia. Non ho mai avuto niente contro di lei.
Proprio il contrario. Ma la figlia di Boris Makaver la odio. Non aveva nessun diritto di portarmi via un
uomo. E non lo otterrà nemmeno.
Renderò la sua vita un disastro. Tu sei già lì che ti torci come una farfalla su un ago. Come sarà più
tardi?»
«Più tardi sarà tutto finito.»
«E’ quello che credi tu. Se voglio che finisca, finirà… ma se mi fa piacere, continuerò a spassarmela con
te.»
«E Morris Plotkin che cosa dirà?»
«Gli piacerà o si rassegnerà. Mi farà luce con una candela. Visto che tutto è male, potrei anche
benissimo essere un diavolo tra i diavoli. Vieni, beviamo un po’ di brandy… questa sera è il
compleanno di Belial!5»
«Stasera ho già bevuto un bicchiere di cognac.»
«E ne berrai ancora. Dopo di che, mio santo, sono a tua disposizione.»
Grein si era addormentato, ed Esther lo svegliò con grida giocose.
«Hertz, svegliati per lo studio e la preghiera della mezzanotte! I cieli si sono aperti! E’ caduta una
cometa e il mondo è in fiamme!» Lui aprì gli occhi: «Che ora è?»
«Tardi! Troppo tardi! E’ tutto finito. Hertz, ho un’idea.»
«Quale?»
«Alziamoci e scappiamo. Subito!»
«Che ora è?» chiese di nuovo lui. «Dico sul serio, Hertz. Non posso vivere senza te, e tu non puoi vivere
senza me. Ci stiamo facendo fessi a vicenda senza motivo. Ci stiamo ammazzando l’un l’altra con le
nostre ripicche. Non posso più sopportarlo.»
«Ma hai intenzione di sposare Morris Plotkin, no?»
«Voglio te, non lui.» Grein rimase in silenzio un attimo, tremando dell’agitazione di chi è stato svegliato
di soprassalto da un sonno profondo. «Non posso farlo, Esther.»
«Perché no?»
«Ho portato via quella donna a suo marito.»
«Il marito se la riprenderà, scemo. Sarà meglio per entrambi. Tu invece vieni con me. Prendiamo il
primo treno che parte dalla stazione e arriviamo fino al capolinea. Dopo di che prenderemo una stanza
lì e ci rannicchieremo insieme come due animali selvatici in una tana.»
«Non posso farlo, Esther.»
«E’ la tua ultima parola?»
«L’ultimissima.»
«Allora vattene! Fuori immediatamente di qui, e che non ti veda e non senta mai più il tuo odore!
Vattene! Ti butto fuori. Marsh!»
«Aspetta, devo vestirmi.»
«Vattene! Bastardo!» Gli indumenti di Grein erano sparsi dappertutto: la cravatta era abbandonata sul
tappeto, la giacca appesa alla lampada a stelo, una scarpa sparita del tutto. Allungando una mano lui
cercò di recuperarla da sotto il divano, mentre lei si metteva a camminare avanti e indietro a grandi
passi. «Fuori! Fuori! Sei il mio peggiore nemico! Spregevole iena!
Cancellerò il tuo nome e il tuo ricordo! Quando pronunceranno il tuo nome, sputerò. Domani sposo
Morris Plotkin! Per me tu sei morto! Peggio che morto! Sei il peggiore di tutti i malvagi del mondo!»
«Smettila subito di insultare!»
«Fuori di qui! Puoi andartene a piedi nudi.
Troverò la figlia di Boris Makaver e le racconterò la verità. Ti metteremo al bando tutte e tre, io, Leah e
lei. I tuoi stessi figli sputeranno su di te. Andrò da tua moglie e verrò a un’intesa con lei.
Dopo di che farò una chiacchieratina con la figlia di Boris Makaver. Chi sa amare appassionatamente sa
anche odiare con passione!»
«Sii signora, Esther.»
5 Belial: lo spirito personificato del male, uno degli angeli caduti, satana
«Signora? Ho finito di esserlo. Da ora in avanti è guerra, e in guerra è permesso tutto. Te l’ho già detto
prima.»
«Non puoi farmi paura con niente.»
«Sarai messo completamente al bando e tagliato fuori!» Di punto in bianco Esther scoppiò a ridere.
«Perché sbraito così?
Vestiti e vattene. Che liberazione.»
«Aspetta soltanto un attimo.»
«Fa’ pure con comodo. Mi hai reso infelice, ma non ti sono nemica. Non andrò né da tua moglie né
dalla figlia di Boris Makaver. Sono figlia dei miei genitori. Mio padre si è lasciato portare via una
proprietà perché non riteneva degno di sé battagliare in tribunale per salvarla. Mi resta ancora un po’ di
orgoglio. Mi spiace soltanto che non abbiamo avuto un figlio. Ma ormai è troppo tardi anche per quello.
Adesso ne avrai con la figlia di Boris Makaver.»
«Non avrò più figli con nessuno.»
«Il mondo non si fermerà per questo. Adesso sono calmissima. Dove abiti con lei?
In un albergo?»
«Sì, in un albergo.»
«Dove? In ogni caso, per me fa lo stesso. Che cos’ha quella là che manchi a me? E se l’ami, perché vieni
da me? Basta parlare. In questo mondo non bisogna affezionarsi assolutamente a niente. Lo diceva
sempre mia nonna. Diceva: ‘Fa’ un fiocco, non un nodo, perché un fiocco si può disfarlo, ma un nodo
bisogna tagliarlo con un coltello’. Quando te ne sarai andato, tutto tornerà facile. Come fai a metterti la
cravatta? Va’ a guardarti allo specchio.»
«So come farlo anche senza guardare.»
«Non ti sei fatto la barba, oggi?» Lui non rispose. Lei lo guardò con aria stanca e perplessa, e di punto
in bianco si mise a parlare senza un apparente nesso logico: «Ho sognato mia sorella Rosa. Non appena
ho chiuso gli occhi, mi è comparsa davanti nel suo abito da sposa di seta bianca, con il velo e in mano
un libro di preghiere. Questi sogni non li capisco.
Erano settimane che non pensavo a Rosa. Ah, mi viene in mente un’altra cosa: suo marito Melekh era lì
accanto a lei, con la faccia coperta da una specie di guaina irta di chiodi. Non ho idea di come
interpretarla: una maschera di chiodi che gli si adattava perfettamente alla faccia, senza aperture per gli
occhi. Come l’avrebbe spiegata Freud?»
«Non sapeva spiegare tutti i sogni.»
«E allora chi può farlo, esattamente? I morti sono tra noi. Sono sempre tra noi. Vivono con noi, ma
non possiamo vederli. Soltanto quando ci assopiamo e ci lasciamo andare.»
«Perché Melekh dovrebbe portare una maschera di chiodi nell’altro mondo?»
«Chi lo sa? Forse hanno anche là le loro mode, o qualcosa del genere.»
«E’ tutto un prodotto della tua mente.»
«Che cosa ci sarebbe nella mia mente? Da dove mi è saltata fuori una fantasia del genere? Oh, la mia
testa! Ho qualche compressa per il mal di testa, chissà dove. Be’, visto che devi andare, va’. Non lasciare
qui niente. Non ho bisogno di nessun ricordo.»
«Buonanotte, Esther.»
«Buonanotte. Va’ all’inferno. Spero che tu sia fatto a pezzi.»
«E’ la tua ultima parola?»
«Perché no? Non devo lasciarmi dietro una buona impressione.»
«Perdonami, Esther.»
«Demonio.
Dammi un bacio!» Grein arrivò a Manhattan con l’alba. Mentre usciva dalla metropolitana, grumi di
notte si stavano frantumando sopra tutta la città. La Quinta Avenue era deserta, la stessa Manhattan
tranquilla come un villaggetto. Una delicata luce dorata brillava sui piani più alti dei grattacieli. Anche
Grein era tranquillo, in preda alla quiete che a volte prende chi torna dal funerale di una persona vicina
e cara.
Raggiunse l’appartamento camminando lentamente, suonò debolmente e attese che il portiere di notte
aprisse la porta e lo facesse salire con l’ascensore. Tutto avvenne in silenzio, tra loro non vi fu alcuno
scambio di parole. Aprì la porta con la chiave, ma il rumore non svegliò Anna. Andò in punta di piedi
nel soggiorno, dove il sole nascente splendeva come una lampada, e si sedette silenziosamente sul
divano.
Sembrava essere diventato sordo per effetto della mancanza di sonno e dei deliri di Esther. Aprì con
delicatezza la finestra e inspirò l’aria del primo mattino. Di punto in bianco gli venne in mente sua
madre, che si alzava sempre all’alba, mentre lui e suo padre rimanevano a letto.
Alzandosi, suo padre avrebbe poi proceduto al rituale lavaggio delle unghie, a mettersi l’indumento
rituale con le frange, il gabbano, le grosse scarpe. Dopo di che si sarebbe lavato di nuovo, cominciando
subito le sue preghiere dall’inizio. Poi si sarebbe seduto a studiare il Talmùd o qualche altro libro sacro.
Più tardi ancora avrebbe ripreso a copiare rotoli di Torah. Ogni volta che doveva scrivere il nome di
Dio si interrompeva, mormorava qualcosa, alzava gli occhi al cielo. Quell’uomo faceva una cosa sola:
serviva Dio. I caratteri che scriveva con inchiostro di china sulla pergamena erano antichi come il
popolo ebraico, radicati nei tempi in cui Abramo aveva infranto gli idoli del padre e scoperto che c’è un
solo Dio. Il figlio di questo devoto scriba, invece, che cosa faceva? Dissipava e sprecava tutto ciò che
generazioni di ebrei avevano dato la vita per costruire. I suoi nipoti sarebbero ormai stati gentili. La sua
anima era lacera, macchiata, affondata nel sudiciume. Grein raccolse un giornale abbandonato sul
pavimento e lo sfogliò lentamente. Su ogni pagina c’era un’immagine che suo padre avrebbe
considerato meretricio: donne seminude, gambe seducenti, torsi in reggipetto, fianchi stretti nel busto.
Una gamba femminile, dall’inguine al tallone, si tendeva per tutta una pagina, con il testo sistemato
tutto attorno come il commento a una pagina di un Talmùd osceno e perverso. In un altro annuncio
pubblicitario due gambe femminili si sollevavano alte nell’aria. Che cos’avrebbe detto suo padre, la pace
fosse con lui, di un giornale così? si chiese. Avrebbe sputato. Per lui tutto questo sarebbe stato un
abominio, vietato persino da toccare a causa della sua impurità. Invece quelle immagini comparivano su
grandi e famosi giornali, letti dai cittadini più importanti d’America. Era la loro cultura, la loro poesia, la
loro estetica. Cominciavano ogni giornata leggendo quella roba. Il mondo come lo conosciamo noi è in
realtà un unico enorme bassofondo.
Grein sedeva immobile, quasi fosse stato pietrificato. Come ho fatto a impegolarmi in tutto questo? Ed
Esther? Anche suo padre era uno studioso della Torah. E’ una donna di stirpe nobilissima. Che cos’era
successo agli ebrei? Avevano resistito all’idolatria per tremila anni e adesso di punto in bianco erano
diventati i principali produttori di Hollywood, i più importanti editori di giornali, i leader estremi dei
comunisti. In Russia imbrattacarte ebrei avevano continuato a denunciarsi l’un l’altro in nome della
rivoluzione finché non erano stati sterminati tutti. A New York, Parigi, Londra, Mosca, ovunque gli
ebrei erano diventati propugnatori dell’ateismo, arbitri della moda, Autori di scritti calunniosi; si
mettevano all’avanguardia come agitatori politici e nutrivano avidamente le brutte inclinazioni di tutti.
Adesso si erano assunti il ruolo di insegnare ai gentili a godersi i piaceri di questo mondo. Sentì un
rumore di passi. Entrò Anna in vestaglia e pantofole. Aveva un’aria confusa e semiaddormentata.
«Quando sei tornato?»
«Non intendevo svegliarti.»
«Perché sei seduto qui? Sei bianco come il gesso.» Rimasero entrambi in silenzio un attimo. Poi Anna
sbottò: «Allora, come sta tua moglie?»
«Meglio.»
«Non sei affatto stato da tua moglie», ribattè lei in tono neutro. Lui avrebbe voluto ribattere, ma rimase
tranquillo. Era troppo stanco per dilungarsi in spiegazioni con lei. D’altra parte che cosa doveva fare?
Giurare il falso? Lei aveva probabilmente telefonato a Leah. Ricordò le parole di Esaù: «Ecco sto
morendo: a che mi serve allora la primogenitura?» Anna aspettava. «Che cos’hai da dire?»
«Niente.»
«Be’, io torno a letto.» E Anna tornò in camera. Lui cominciò lentamente a spogliarsi, con la sensazione
di chi si è reso conto soltanto adesso di essere pericolosamente malato e non sa quando mai tornerà a
vestirsi. Si tolse con cura le scarpe e vi mise le forme. Appese il vestito a un attaccapanni. In lui tutto
era calma e rassegnazione. Le aveva perse tutte: Leah, Esther e Anna. Come dice la Ghemarà: «Se hai
preso molto, non hai preso niente.» Andò in camera da letto, dove dominava ancora la notte. Lo ieri vi
aleggiava in tutti i blocchi di buio. Soltanto una solitària striscia di grigio trapassava le veneziane e le
tende. Anna aveva sepolto la testa nel cuscino, per cui era difficile capire se stesse dormendo in pace o
pensando con furia. Il letto gli era stato preparato. Vi si stese e si coprì, ascoltando attentamente,
chiedendosi che cos’avrebbe fatto quando fosse rimasto completamente solo. Be’, avrei sempre voluto
fare l’eremita. Andrò via, chissà dove, e nessuno saprà dove siano finite le mie ossa. Fornirò il mio
ultimo rendiconto a Dio.
PARTE SECONDA.
CAPITOLO 9.
Jacob Anfang aveva messo su studio in una vasta soffitta con lucernario di vetro al Greenwich Village.
O il proprietario non forniva un riscaldamento sufficiente, oppure il calorifero non funzionava, per cui
era stato costretto ad accendere un radiatore elettrico; gli elementi erano roventi, ma l’apparecchio
faceva assai poco per riscaldare l’ambiente. Il mobilio consisteva di un lungo tavolo coperto di
tavolozze, dipinti, tele, pezzi di cornici e flaconi di olio di semi di lino, e di un letto di ferro coperto da
un copriletto nero. Era un primo mattino luminoso e il sole splendeva attraverso il tetto di vetro. Le
pareti dello studio erano piene di dipinti chiusi in cornice o inchiodati a strisce di modanatura.
Il sole compiva giochi cromatici con ogni pennellata di colore, mescolava le sfumature, dava all’atelier
una ghiacciata aria festiva.
Sebbene Purim fosse già passato, il mese di marzo era ancora freddo.
Anfang discendeva da benestanti genitori chassidici di Lòdz, ma aveva vissuto molti anni in Germania.
Era stato lì, durante la repubblica di Weimar, che si era fatto la sua reputazione. Agli inizi si era opposto
alle tendenze moderne della pittura, rimanendo un impressionista; o semplicemente un naturalista,
come lo definivano altri. Nei saggi che scriveva per pubblicazioni accademiche tedesche aveva
combattuto con forza il cubismo, l’arte astratta e tutta la gamma di tendenze sperimentali abbracciate
dai modernisti. Poi però aveva subito quella che si sarebbe potuta definire una conversione intima. Del
tutto di punto in bianco, o almeno così a lui sembrava, si era convinto che l’artista non soltanto doveva
smettere di imitare la natura, ma non usarla affatto per fare affermazioni di sorta. L’artista doveva
produrre tutto dal proprio intimo, creare il suo mondo come aveva fatto Dio. Il pittore doveva essere il
signore assoluto della sua tela, avendo come soggetto soltanto le sue fantasie, i suoi capricci, la sua
coscienza interiore. Di conseguenza aveva cominciato a dipingere immagini fantastiche che davano
espressione al suo senso dell’io. Per un po’ questo nuovo approccio lo aveva ripagato bene. I critici
d’arte lodavano il suo lavoro. Musei acquistavano i suoi quadri. Esponeva con tutti i principali artisti
contemporanei tedeschi. Quelli più giovani, che prima lo deridevano, adesso lo portavano a esempio.
Avevano cominciato ad apparire articoli su di lui nelle più importanti pubblicazioni d’arte di Parigi e
Londra. Ma proprio durante tale conversione, Hitler aveva messo sottosopra l’Europa. Anfang aveva
abbandonato la sua amante tedesca, i suoi quadri, i mobili e i libri ed era scappato in Francia, dove
aveva ottenuto un visto per l’America. Da quando era sfuggito ai nazisti e venuto in America, però, non
aveva avuto fortuna. Era convinto che l’arte – o almeno il tipo di arte che produceva lui – negli Stati
Uniti non fosse apprezzata. Lì nessuno aveva sentito parlare di lui. Gli snob dell’arte si interessavano
soltanto ai grandi nomi. Lui non aveva agganci con le gallerie, e le recensioni del suo lavoro apparse sui
giornali esprimevano una malevolenza senza esempi nella sua esperienza.
Da quando si era imbarcato sulla nave per l’America, era precipitato in un mondo di caos, in un
ambiente che a suo modo di vedere aveva abbandonato ogni regola, ogni criterio. Arrivato a New York
non aveva trovato amici, un caffè dove andare di sera, una donna. L’inglese non risultava agevole alle
sue labbra. Lì persino il cielo, il sole, la luna gli sembravano più banali che in Europa. Non avevano le
sfumature di luce e ombra cui era abituato da sempre. Il giorno si convertiva in notte praticamente
senza crepuscolo. In America tutto gli appariva piatto, meccanico, vuoto, quasi fosse caduto in una sfera
a due sole dimensioni. Mancava lo spirito, la sacra presenza che nel Vecchio Mondo pervadeva ogni
cosa, persino nel periodo in cui la gente era impazzita, abbandonandosi alle atrocità più selvagge. Ma
era davvero possibile che una parte del mondo fosse stata derubata dello spirito di Dio? Non era per
caso soltanto la sua immaginazione? Lì a New York, l’impulso a creare che lo possedeva fin dalla
primissima infanzia lo aveva abbandonato. Adesso desiderava soltanto stare a letto a sonnecchiare.
Finché era durata la guerra contro Hitler, leggeva moltissimi giornali ogni giorno. Adesso invece si era
fatto pigro, depresso. Cominciava quadri e li piantava a metà, guardando le sue creazioni con disgusto. Il
suo studio era pieno di opere incomplete: figure, paesaggi, una varietà di composizioni di cui non
conosceva lui stesso le origini né il significato. Era stato rudemente rigettato ai giorni degli inizi, con
tutte le loro privazioni e pene. Sarebbe potuto morire di fame se Boris Makaver, Solomon Margolin e
altri ebrei conosciuti in Germania non lo avessero aiutato commissionandogli ritratti. A questo punto,
comunque, la difficoltà di guadagnarsi da vivere costituiva soltanto una parte della sua tragedia. Nel
corso degli ultimi anni si era perduto spiritualmente e non riusciva a guarire. In quel momento
camminava avanti e indietro a grandi passi nel suo studio, in vestaglia, con una sciarpa di lana avvolta
intorno alla gola e i piedi infilati in ciabatte logore. Aveva ormai cinquantadue anni, era di statura media,
sul corpulento, i capelli ricci e neri stavano già ingrigendo alle tempie sopra una faccia tonda, con grandi
occhi scuri, naso a becco, labbra sottili e mento sfuggente, lineamenti tutti che davano al suo viso
un’aria da gufo. Infatti si paragonava a un uccello che invecchia in gabbia: non sapeva volare, e lo spazio
che occupava era troppo angusto.
Nella sua cerchia c’erano altre vittime di Hitler; ma si erano tutte sistemate, risposate, messe in affari,
persino arricchite. Vivevano uptown, non al Village, e non si occupavano di dipingere quadri che
nessuno voleva. L’immortalità? Una sola bomba atomica avrebbe potuto distruggere un milione di
quadri. Nella guerra appena terminata era stato distrutto un numero incalcolabile di opere d’arte. E che
piacere traeva van Gogh dal fatto che di questi tempi qualsiasi stenografa di New York si precipitava al
Metropolitan Museum per vedere mostre di suoi dipinti? Aveva ragione Frieda Tamar: senza Dio non si
può respirare. Ma che senso aveva elaborarsi un concetto personale di Dio e scrivere poesia liturgica per
celebrarne misericordia e bontà, quando le Sue creature si bruciavano a vicenda nei forni e giocavano
con i teschi dei bambini? Che cosa si conseguiva pregando un Essere della cui esistenza non vi era
assolutamente alcuna prova? Dov’era Lui, «l’Unico che dà senno all’uomo», quando padri erano
costretti a scavare la tomba per se stessi e i propri figli? Dov’era Lui, il geloso e vendicativo Dio, adesso
che America, Inghilterra e Russia stavano ricostruendo la Germania? E che cosa stava facendo «Colui
che libera i prigionieri» per quei milioni di persone che Stalin aveva imprigionato in campi di lavori
forzati? No, quand’anche Dio fosse esistito, Jacob Anfang non lo avrebbe servito. Se Dio esisteva, era
probabilmente uno Hitler cosmico che per il Suo onore e la Sua grandezza era pronto a torturare intere
generazioni, interi popoli. Allora che cosa si doveva fare per giustificare la propria esistenza? Dipingere
due colombe che si lisciano a vicenda con il becco o posate una accanto all’altra? si chiedeva. Non
posso diventare un ciarlatano. E’ troppo tardi. E in ogni caso non mi rimane volontà. A che cosa mi
serve la reputazione? A far soldi?
Desidero una sola cosa: dormire. Anzi, desidero morire, ma come si fa a lasciarsi morire? Sono troppo
apatico per fare alcunché al proposito. La morte arriverà senza dubbio per conto suo: basta che io
aspetti. D’altra parte, però, aspettare è una noia, e mentre aspetto devo ugualmente pagare l’affitto. Che
buffo! Aspettare la morte è un privilegio per cui si finisce con il pagare. Anfang si stese sul letto e si
coprì con il cappotto. Alzò lo sguardo attraverso il lucernario al cielo invernale azzurro pallido.
Qualcosa vi tremolava e vibrava. Anche il cielo era probabilmente in attesa di una qualche sorta di
cataclisma, la manifestazione di una forza capace di lacerare spazio e tempo in due come un foglio di
carta, non lasciandosi dietro niente. Meno di niente.
Il niente poteva essere elevato al quadrato. Il niente sarebbe tornato al nulla, all’assenza di forma e al
vuoto che sarebbero giaciuti inerti nell’inattività del dopo Creazione. Come stava scritto? «Quando tutte
le cose saranno finite, quando ogni Essere sarà cessato, dominerà il Non Essere.» Niente più parole,
niente più Dio, niente più tempo, niente più spazio. Silenzio, quiete. Non è successo nulla. Tutto è stato
cancellato senza lasciare traccia. La bolla di sapone è scoppiata e non rimane né sapone né acqua. Non
esiste più nemmeno il nirvana. Chi sonnecchia, allora? Io, Jacob Anfang. Improvvisamente sentì un
rumore di passi sulle scale. Era venuto qualcuno a trovarlo. Si tirò a sedere. Chi poteva venire in visita
da lui così di buon’ora? Dio, forse? Si sentì un colpetto alla porta, e non appena la aprì, Anfang
riconobbe Frieda Tamar. Le aveva fatto il ritratto. Era lì davanti a lui in cappotto con collo di pelliccia,
le scarpe protette da soprascarpe per la neve, senza cipria, senza rossetto, senza rosso per le labbra, con
un cappellino nero, incarnando in tutto il suo portamento un frammento perduto dell’Europa del
diciannovesimo secolo. Jacob Anfang si inchinò.
«Madame!»
«Sono sicura che sarà sorpreso del fatto che io sia venuta senza prima telefonare.»
«Niente affatto. Perché telefonare? Passava di qui ed è salita. Come facevamo una volta, ai bei tempi.»
«Ah, fa freddo qui dentro. Non riscaldano?»
«Il padrone di casa è parsimonioso con il carbone.»
«Pardon? E’ molto sbagliato.»
«La prego, si accomodi, Madame.
Se si fida del modo come osservo le leggi dietetiche, farò il caffè.»
«Pardon? No, non mi occorre. Ho già fatto la prima colazione. Non ero soltanto di passaggio. Perché
mentire? Abito uptown, non da queste parti.»
«Ma ha allieve nei paraggi, no?»
«Qualche tempo fa. Non adesso.
Ho fatto un viaggio apposta per venire qui.»
«Come? E’ un vero onore. La prego, si accomodi, Madame. Posso aiutarla a togliersi il cappotto?»
«No, grazie. Qui dentro fa freddo.»
«Quando se ne andrà prenderà un raffreddore.»
«No, non lo prenderò. Herr Anfang, sulle prime avrei voluto scriverle una lettera, ma poi ho pensato
che sarebbe stato molto meglio parlarle francamente e direttamente di persona. Da quando mi ha fatto
il ritratto, Herr Anfang, ho pensato moltissimo a lei. Ho persino parlato di lei con mio fratello. Lui e io
guardiamo il mondo da prospettive molto diverse, come sa. Lei si definisce un libero pensatore, mentre
in realtà, mi pare, è un uomo religioso. Credo fermamente che ogni persona creativa debba essere
religiosa, poiché Dio è il Creatore, e quando un uomo è creativo, riflette l’immagine di Dio.
La Torah sembrerebbe vietarci di dipingere immagini, ma il punto è evidentemente l’intenzione, non la
cosa in sé. Come apprendiamo dal Libro dell’Esodo, il Tabernacolo nel Deserto era adorno di due
cherubini d’oro,* e i cherubini ce li si figura a immagine di uccelli. Molti libri antichi esibiscono volti sul
frontespizio. Se il Maharal di Praga ha davvero costruito un golem, in effetti ha praticato la scultura, ma
per un fine superiore.» Anfang sorrise. «Sta cercando di santificare il mio mestiere?»
«Per me è una questione molto seria.»
«Be’, oggi non si adorano più le immagini. Se lo si facesse… gli artisti se la caverebbero molto meglio.»
Frieda gli scoccò uno sguardo di rimprovero. «Vorrebbe che l’umanità tornasse a venerare gli idoli?»
«Non farebbe alcuna differenza.» Frieda si morse un labbro. «No, è falso. Herr Anfang, lei è un grande
artista. Non sono un critico d’arte, ma ogni suo pezzo che ho visto emana luce dalle pareti. Nel mio
ritratto ha messo così tanto che non smetto mai di stupirmi. E’ appeso in camera di mio fratello, e ogni
volta che ci vado mi sento di nuovo sopraffare.
Come ha fatto a vedere tanto in così poco tempo?»
«Eh, gli occhi vedono.»
«Be’, è un dono.»
«Può darsi, può darsi.» Il viso di Frieda si atteggiò a una rigida determinazione. «Herr Anfang, non mi è
stato facile venire da lei. Ci ho pensato a lungo. Lei sa che sono timida per natura, ma riesco spesso a
vincere la mia timidezza. Mi imbarazzo soltanto davanti a gente meschina. Lei invece è un grand’uomo,
per cui in sua presenza mi sento spavalda.» E Frieda impallidì. «No, no, non deve di sicuro sentirsi
imbarazzata, davanti a me.»
«Herr Anfang, qualche giorno fa Boris Makaver mi ha fatto una proposta di matrimonio.
Lei conosce la mia situazione e gli eventi che vi hanno portato. Mio marito è stato martirizzato per la
Santificazione del Sacro Nome. Boris Makaver mi si è proposto per la prima volta un anno fa, ma allora
gli ho dato la stessa risposta data dalla vedova di Rabbi Hiyya a Rabbi Yehuda: ‘Mio marito era santo e
voi siete profano; se dovessi risposarmi, sarei obbligata ad aumentare la santità, non a diminuirla’. Lei
un tempo ha studiato il Talmùd, in definitiva.»
«Sì, infatti. Però quello specifico brano non lo conosco.»
«E’ nel Talmùd, non so dove. Boris Makaver è un uomo fine, buono, onesto, di grande carità. A suo
modo è un uomo retto.
Ma se lo confronto con il dottor Tamar, la distinzione fatta dal Talmùd regge ancora. Il mio defunto
marito era una grande personalità; un sant’uomo, davvero un santo. Io mi sono staccata dagli ebrei
polacchi e dai loro modi. Quando si tratta di una cosa importante come il matrimonio, dev’esservi
un’identificazione completa… si potrebbe definirla amore; ne parla anche la Torah. Quando poi Boris
Makaver mi ha fatto questa seconda proposta, gli ho promesso che gli avrei dato una risposta oggi. Gli
è capitata una cosa profondamente penosa. Sua figlia Anna ha lasciato il marito ed è scappata con
Grein. Credo che lei lo conosca… Hertz Grein.»
«Sì, certo. Quando è successo?»
«Oh, non molto tempo fa. Per il padre è una tragedia. E’ un ebreo osservante. Se l’è presa terribilmente
a male. Ma il dolore purifica. Adesso però devo dire una cosa. Lo trovo molto difficile, ma devo parlare
chiaramente, perché altrimenti rimanderò per anni. Devo parlarle con assoluta franchezza di questa
cosa, o tacere per sempre. Mi permetta di chiudere gli occhi.
Così mi sarà più facile. La imploro di non offendersi, e di non ridere di me. Anzi, ripensandoci, se vuole
può ridere. «In breve, le cose stanno così. Quando l’ho incontrata per la prima volta, proprio da Boris
Makaver, sono stata subito colpita da quanto assomiglia al mio defunto marito, pur date le inevitabili
differenze. Successivamente, quando abbiamo avuto occasione di parlare insieme, ho capito che questa
similarità non era semplicemente fisica. Per un po’ sono addirittura stata convinta che lei doveva essere
un parente. Ma è impossibile, perché il dottor Tamar discendeva esclusivamente da ebrei tedeschi,
mentre lei viene dalla Polonia. La somiglianza non si limitava semplicemente alle opinioni ma si
estendeva a tutto il suo modo di pensare. Mio marito era un uomo profondamente religioso, ma era
assalito dai dubbi. Era sempre tormentato dalle eterne domande, penosamente tormentato, quasi
sapesse la terribile fine che avrebbe fatto. Poi, quando lei ha cominciato e dipingere il mio ritratto –
devo dirle che l’ha pagato Boris Makaver, è stata tutta una sua iniziativa, e abbiamo trascorso qualche
tempo a conversare, sono rimasta ancor più fortemente impressionata dall’enorme affinità tra lei e il
dottor Tamar. Lei dissacrava tutto ciò che è sacro, ma non potevo liberarmi dalla convinzione che in
realtà le sue parole esprimessero la sofferenza di un uomo di fede. Be’, spero che adesso lei capisca la
forza di ciò che sto cercando di dire, ma mi piacerebbe comunque parlar chiaro. Se tengo gli occhi
chiusi, mi risulta in qualche modo più facile. Tutto considerato, nessuno di noi due è più molto giovane.
Prima di dare una risposta a Boris Makaver, vorrei lei sapesse che, se lei si sentisse di accettare, sarei
felice, nonostante tutte le differenze… Se ci unissimo, non vi sarebbe alcuna diminuzione di santità.
Nessuna.» E Frieda tacque. Era seduta su una sedia, e Jacob Anfang sul suo letto. La guardò, i suoi
occhi chiusi, con sguardo illuminato da un’espressione al tempo stesso sorridente e addolorata. Sembra
una cieca, pensò, una cieca innamorata. Poi disse: «Madame, vorrei che lei sapesse una cosa: questo è il
momento più bello della mia vita. Lo ricorderò fino all’ultimo respiro.» Lei non aprì gli occhi. «Deve
rispondermi con parole chiare!» replicò quasi bruscamente. «Madame, per me è troppo tardi…
spiritualmente come fisicamente.»
«Capisco.»
«Se avessi desiderato sposarmi, lei sarebbe stata la migliore delle mogli che potessi mai sperare. Ma sono
lungi dal desiderarlo. Vorrei anch’io parlare con chiarezza: sono impotente. Lo sono ormai da diversi
anni.»
«Capisco.»
«So che le cause sono spirituali, non organiche. Ma nondimeno è così.
Sono completamente distrutto. Ho raggiunto il punto di non saper più per che cosa vivere. Un uomo in
una situazione simile non può farsi una famiglia.»
«Capisco.»
«Può aprire gli occhi. Il suo gesto ha dimostrato integrità, bellezza, grandezza. Ripeto: questo è il
momento più bello della mia vita.» Di solito Boris Makaver recitava le preghiere del mattino di
buon’ora. Di notte non riusciva a dormire, e non appena cominciava ad albeggiare indossava lo scialle
da preghiera e i filat–teri. Ma quel mattino, per la prima volta che ricordasse, dormì fin molto dopo
l’alba e si svegliò soltanto alle dieci. Aveva appuntamento con alcuni uomini d’affari in un ristorante.
Anche se si svegliava sempre affamato, di norma non mangiava niente prima di pregare. Questa volta,
però, prima di uscire di casa decretò, come se fosse un rabbino, che gli era concesso fare un’eccezione e
prendere un bicchiere di té con un biscotto all’uovo. Era in corso di trattative un’impresa
particolarmente grossa. La marina americana stava vendendo le sue navi a bassissimo prezzo. Per circa
tre milioni di dollari si potevano comperare diverse dozzine di bastimenti da carico, per costruire
ciascuno dei quali sarebbero occorsi molti milioni di dollari.
Gli uomini d’affari avevano calcolato che, anche vendendole per la rottamazione, quelle navi avrebbero
potuto rendere un grosso guadagno.
Ma non bisognava demolirle tutte: alcune erano in ottime condizioni e potevano essere riparate e usate.
Al presente la speculazione contava su tre soci, e Boris avrebbe dovuto essere il quarto. Il problema era
che il governo voleva essere pagato in contanti, il che avrebbe richiesto che Boris investisse 750.000
dollari nel progetto. Avendo già investito ogni dollaro che possedeva in imprese commerciali, Boris non
disponeva di contanti ed era anzi in debito con una banca. Certo, poteva prendere soldi a prestito
contro garanzia, ma prima doveva stabilire quanto valessero esattamente le navi come ferro vecchio.
Quanto sarebbe costato demolire una cinquantina di navi? Quante di esse potevano essere usate come
navi da carico? E quanto profitto avrebbero reso? L’iniziativa era troppo grossa e complicata: imponeva
l’assunzione di esperti di ogni genere, la presa di contatto con aziende di ogni genere, il noleggio di un
cantiere. Quindi Boris esitava a lasciarsi coinvolgere in un’operazione economica così complessa. Per
converso si trattava senza dubbio di una grossa opportunità, con il potenziale guadagno di milioni di
dollari. Si sedette a tavola con gli altri soci a bere té, mangiare biscotti all’uovo e riempire di cifre fogli di
carta per elaborare le diverse possibilità. Doveva dare la risposta definitiva agli altri nel giro di tre giorni.
Tornando a casa Boris fece un esame di coscienza.
Quel giorno aveva trascurato la recita giornaliera della Shemà e rinviato lo studio mattutino di una
pagina della Ghemarà. A che cosa gli servivano tutti quei soldi? Perché assumere su di sé tutti quei
fardelli? Aveva cancellato ogni ricordo di avere una figlia. Era un uomo di più di sessant’anni che
soffriva di pressione alta. Per quanto tempo ancora avrebbe potuto continuare a guidare l’auto da sé?
Che cosa ne sapeva di navi? Perché aggiungersi tutte queste ulteriori preoccupazioni? Se, Dio ne
scampi, questa nuova impresa fosse fallita, avrebbe potuto ritrovarsi profondamente indebitato, dopo
aver preso denaro da sconosciuti. Devo essere fuori di testa, si ammonì.
Perché andare a cercare guai? In cambio di milioni? Che cosa me ne farò di quei milioni? Non mi
occorre più di un pasto, un letto e un appartamento. Ciò di cui in realtà ho bisogno sono salute e meno
agitazione mentale. Non appena arrivato a casa, andò direttamente nella sua piccola casa di preghiera.
Reytze protestò con forza perché stava lasciando raffreddare il pranzo, ma lui la placò con una buona
parola.
In quella stanza con l’Arca Santa, i candelabri, gli scaffali di libri sacri, si sentiva a casa. Era il posto
dove poteva trovare la solitudine, la sua fortezza. Aveva pensato spesso che gli sarebbe piaciuto finire i
suoi giorni in una stanza così. Vi erano un leggio e una menorah a sette braccia; su una libreria era
posata una lampada di Hanukkah a otto braccia. Vi teneva un rotolo e una bacchetta, uno shofar e una
tunica bianca, una cassetta di cedro, rare antichità ebraiche e preziosi oggetti rituali di ogni sorta. Lì
dentro persino gli odori erano diversi: gli sembrava che il locale emanasse sentore di scatole di spezie e
del Giardino dell’Eden. Indossò lo scialle da preghiera e sospirò. Si legò la striscia di cuoio di uno dei
filatteri attorno al braccio sinistro e si sentì riempire di vergogna davanti al Signore dell’Universo. Aveva
già guadagnato dieci volte più di quanto in realtà necessitasse. Da dove gli era venuta questa avidità di
denaro? Che cosa se ne sarebbe fatto? Se lo sarebbe portato dietro nella tomba? Intrecciò la striscia di
cuoio attorno alle dita e recitò la prescritta meditazione, concentrandosi sul significato delle parole: «Ti
prometterò a Me per sempre; ti prometterò a Me in rettitudine e giustizia, in gentilezza e misericordia.
Ti prometterò a Me in fede; e tu conoscerai Dio.» Questi sì che sono insegnamenti preziosi! rifletté.
Ogni parola illumina l’anima. Il Signore dell’Universo è lo sposo, e la congregazione di Israele la sposa,
ma invece di esultare per lui e cercare di compiacerlo, la sposa si impegna in ogni sorta di follia e
sciocchezza. Sentì qualcuno suonare alla porta d’ingresso. Probabilmente il fattorino della bottega di
alimentari o il disinfestatore, pensò, e continuò con le sue preghiere. In quel momento Reytze aprì la
porta.
«Herr Makaver, c’è Frau Tamar.» Lui la guardò a bocca aperta per lo stupore. «Frieda Tamar?»
«Sì.» Boris rifletté un attimo. Avrebbe dovuto telefonare. Non era mai venuta lì senza prima telefonare.
Be’, sarà venuta per rifiutare. Voleva blandirlo. Forse temeva che suo fratello potesse soffrirne. Si
accigliò. Doveva riceverla in scialle da preghiera e filatteri? Ricordò a se stesso il precetto talmudico che,
quand’anche un serpente si fosse attorcigliato ai suoi piedi, non doveva interrompere le sue devozioni.
Ma in senso rigoroso quel precetto si applicava soltanto alle Diciotto Benedizioni, non ai Salmi che si
recitano prima delle preghiere del mattino. Quelli si possono interrompere. Be’, forse è meglio così. In
scialle da preghiera e filatteri proverò meno vergogna. Chiese a Reytze di invitare Frau Tamar a entrare.
No significa no, si disse. Se sono riuscito a cavarmela tanto a lungo senza una moglie, tirerò avanti sino
alla fine. Toccò i filatteri sulla testa e sul braccio. Erano i suoi armamenti, i suoi carri armati, la sua
divisa da combattimento. Aveva sentito spettegolare che Frieda Tamar sarebbe stata attratta da Jacob
Anfang, il pittore. Che era anche più giovane di lui. Be’, mi congratulerò con lei. Non mostrerò la mia
delusione, decise. Ogni cosa è comunque preordinata. La porta si aprì ed entrò Frieda Tamar.
Vedendolo in scialle da preghiera e filatteri, fece un passo indietro. «Oh, sta pregando. La prego di
scusarmi.»
«Avevo appena cominciato. Oggi sono in ritardo. Pare che abbia ritardato le mie preghiere come un
chassid di Kotsk: sto ancora recitando i Salmi di apertura.»
«Finisca, la prego. Aspetterò.»
«No, la prego, si sieda. Visto che è venuta qui, vorrei sentire che cos’ha da dire. Sennò la mia mente
continuerà a divagare dagli atti di devozione.» Frieda fece un passo avanti. «Sono venuta a dirle che, se
mi vuole ancora, sono disposta a diventare sua moglie.» Boris riuscì a stento a trattenersi dall’esplodere
un grido di gioia. Tese le braccia come per abbracciarla, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si
vergognò davanti a lei: una creatura di carne e sangue che esultava più per una donna che per il Signore
dell’Universo. Ma lo scialle da preghiera e i filatteri lo frenarono. Le strisce di cuoio lo legarono. Era un
soldato, un soldato di Dio, in quel momento in servizio attivo. Tolse di tasca il fazzoletto e si terse gli
occhi. «Possa Dio farla felice come lei ha fatto me.»
«Adesso deve smetterla di darmi del lei.»
«Sì.»
«Termina le preghiere, termina le preghiere. Sono più importanti.
Aspetterò nel salon.»
«Molte grazie.» Frieda uscì e Boris gettò uno sguardo all’Arca Santa. Significava che il cielo voleva che
continuasse a vivere? Voleva ancora recargli gioia alla sua età avanzata? E lui che soltanto un attimo
prima aveva pensato che la sua fine fosse vicina. Gli occhi gli si riempirono di nuovo di lacrime e
ricordò a se stesso il versetto dei Salmi: «Rendici la gioia per i giorni di afflizione.»*
Chissà. Forse lei poteva ancora generare. Forse lui avrebbe potuto lasciare in questo mondo un figlio
maschio. Il suo unico desiderio era piangere, tanto si sentiva pieno di un grande amore per Frieda
Tamar, l’erudita, la donna colta che scriveva libri di argomento religioso e, oltre allo yiddish, parlava
tedesco, francese, inglese ed ebraico. Be’, non sono degno, non sono degno, Signore dell’Universo, è
tutto un prodotto della tua misericordia e grazia. Andò alla parete rivolta a est e riprese le preghiere da
dove si era interrotto: «Che la Tua misericordia non si separi da me, o Signore; possano la Tua grazia e
verità proteggermi per sempre.» Di punto in bianco gli balenò nella mente un pensiero sparso: vista la
situazione attuale, era probabilmente il caso di comperare le navi.
CAPITOLO 10.
Non appena fu tornata a New York, Anna cercò ripetutamente di telefonare a Stanislaw Luria. Era
andata via da casa senza prendere con sé quasi niente, quindi quasi tutta la sua roba, biancheria,
indumenti, scarpe, pellicce, gioielli e moltissime altre cose di cui aveva bisogno erano ancora nella sua
vecchia abitazione. Che senso aveva buttare via tutto? Inoltre sperava che Luria potesse averci ripensato
e che adesso avrebbe consentito al divorzio.
Aveva fatto la pace con Grein, che le aveva fatto la solenne promessa di non rivedere mai più Esther. In
ogni caso quest’ultima progettava di sposare, o aveva già sposato, Morris Plotkin.
Anna si era convinta che Grein l’amava davvero, e non riusciva a indursi a rompere con lui. Ma per
quante volte lei chiamasse Luria, al telefono non rispondeva nessuno. O aveva lasciato la città oppure si
rifiutava semplicemente di rispondere. Cominciò a chiedersi se per caso non fosse a letto malato. Forse,
Dio ne scampi, era morto. Quando si vive tutti soli in una grande città, senza un solo amico o parente,
può capitare di tutto. Dopo attenta riflessione, Anna finalmente decise di andarci di persona. Aveva una
chiave dell’appartamento, cui aveva legalmente diritto, essendo la titolare dell’affitto. Spiegò a Grein che
cosa intendeva fare, e concordarono che, se nel giro di tre ore non fosse tornata con le sue cose
all’appartamento sulla Quinta Avenue, lui l’avrebbe chiamata al numero di Luria e, se non avesse
risposto nessuno, sarebbe andato lì immediatamente. Chissà che cosa poteva fare un matto come Luria.
Era capace di aggredirla. Grein era dell’opinione che, invece di andarci di persona, Anna avrebbe
dovuto mandare lì un avvocato, ma lei non voleva farlo. La cosa avrebbe di sicuro infuriato Luria. Pur
essendo avvocato lui stesso, esecrava tutto ciò che riguardava i tribunali, in particolare quelli americani,
che a suo modo di vedere non erano governati dalla legge ma da politica, moda, opinione della stampa
e pregiudizi di ogni altro genere. Non perdeva mai occasione di sottolinearle quanto ingiusti e squilibrati
fossero i verdetti che vi venivano pronunciati, in particolare le fantastiche cifre che gli uomini erano
costretti a versare come alimenti. Secondo lui i tribunali americani avevano sempre parteggiato per la
puttana, la moglie sfruttatrice e fedifraga. Vi prevaleva la giustizia di Sodoma.
Mandare un avvocato a Luria significava iniziare una guerra. Anna telefonò un’ultima volta alla sua ex
casa, ma ancora una volta non vi fu risposta. Quindi decise di andarci immediatamente; non aveva
bisogno di alcun permesso per portarsi via le sue cose. Se Luria non c’era, tanto meglio: avrebbe evitato
l’inevitabile scenata sgradevole. Prese un taxi in Lexington Avenue e ne smontò davanti al palazzo un
tempo a lei familiare. Il portiere le scoccò un’occhiata interrogativa: era ancora inquilina lì? Doveva farla
entrare o no? La salutò in tono incerto, rigido. L’addetto all’ascensore era lo stesso di turno la sera che
lei se n’era andata con Grein. Sulle prime non la riconobbe, ma non appena lo ebbe fatto sporse di
nuovo le labbra come se volesse fischiare. I suoi occhi sembravano dire: allora? L’uccello canterino è
tornato alla gabbia? Fermò bruscamente l’ascensore e l’avvertì con voce aspra: «Attenzione al gradino!»
Sono tutti dalla sua parte, pensò lei. Tirò fuori la sua chiave e cercò di aprire la porta, ma – Dio del
cielo! non entrava più. Luria aveva fatto cambiare la serratura. Suonò il campanello, ma non rispose
nessuno. Era un colpo inaspettato. Anna si sentì prendere da rabbia e senso di impotenza. Adesso che
cosa faccio?
Che diritto ha di chiudermi fuori di casa? Sono io a pagare l’affitto, non lui. Grein ha ragione, devo
trovarmi subito un avvocato! Devo parlare con l’amministratore. Cercò più volte di aprire la porta con
la sua chiave, ma la serratura resistette risolutamente a tutti i suoi sforzi. Era anch’essa schierata dalla
parte di Luria. Che umiliazione, soprattutto in considerazione del fatto che era stata vista dall’addetto
all’ascensore e dal portiere. Dopo di che, quasi per farle ancora più dispetto, la signora Katz, proprio la
strega che aveva incontrato in Florida, aprì di punto in bianco la porta per portare fuori un corposo
quotidiano della domenica e alcune riviste. Salutò Anna, sorrise con aria scaltra, parve sul punto di
aggiungere qualcosa, ma non disse niente. Tuttavia quell’orrenda donna era ancora una volta testimone
della sua ignominia: non poteva più entrare nella sua stessa casa.
Succedeva a tutte le donne che lasciano il marito? O i poteri maligni agivano soltanto contro di lei? si
chiese Anna. Suonò per chiamare l’ascensore, ma quello non aveva nessuna fretta di arrivare. Passarono
cinque minuti ed era ancora lì in attesa. Là di sotto stavano spettegolando su di lei? Ma finalmente
arrivò il montacarichi, quello che di solito portava giù la spazzatura. Un nero sporse fuori la testa e
chiese: «Va giù, signora?»
«Dov’è l’ascensore?» Il nero non rispose, e lei entrò nel montacarichi. E’ stato tutto organizzato! decise.
Quello là mi ha messo contro tutto il personale del palazzo. Tuttavia si sentiva scopertamente a disagio.
Niente di tutto ciò era in carattere con il Luria che conosceva lei. L’amministratore aveva un
appartamento al pian terreno, ma non era a casa. Non c’era nessuno cui lei potesse parlare. Be’, Luria
non può tenersi le mie cose… c’è ancora una legge in questo Paese. Anna uscì per strada e si avviò.
Doveva andare a casa?
Fino a quel giorno si era sentita dispiaciuta per Luria, ma adesso lo odiava. Lo aveva certamente trattato
in un modo brutale, ma non era preparata a una vendetta così meschina da parte sua. Ormai si
vergognava di essere vissuta con lui e, per qualche tempo, di esserne effettivamente stata innamorata.
Be’, in vita propria bisogna inghiottire molte pillole amare. Nessuno sa che cosa devono sopportare gli
altri. Anna si trovò davanti a un drugstore ed entrò. Bevve una tazza di caffè. Forse nel frattempo Luria
sarebbe tornato a casa. Si sedette su uno sgabello alto al banco. Come le succedeva ogni volta che le
capitava un contrattempo, aveva perso la sua sicurezza. Montò sullo sgabello come una cavallerizza
inesperta su un cavallo e guardò intorno a sé le altre persone sedute lì accanto, quasi volesse accertarsi
che non avessero notato la sua umiliazione e non stessero ridendo di lei. Il banconista le passò davanti
diverse volte ma riuscì a non vederla. Poi di punto in bianco fu lì. Anna cominciò a dire qualcosa in
inglese, ma lui la interruppe villanamente in yiddish: «Che cos’è che vuoi?» Lei non rispose. Come osava
parlarle in yiddish e rivolgersi a lei in un modo così insolente e con il tu? «Che cosa ne dici
dell’America?» chiese ancora il giovanotto. «Sia così gentile da portarmi un bricco di caffè», rispose lei
seccamente in inglese. «Preferivi Hitler, eh?» Lo scortese giovane le versò un mezzo bricco di caffè e
sbattè rumorosamente sul banco quello della panna, mormorando e borbottando qualcosa nel farlo. Si
comportava come un bambino. Com’è possibile? si chiese Anna. Tutto il mondo mi ha dichiarato
guerra. Ma come fanno a sapere? Ce l’ho scritto in fronte? Be’, che giornataccia! Avrebbe potuto
capitarle un incidente grave da un momento all’altro. Speriamo soltanto che non mi investa un’auto!
Posò dieci centesimi sul banco e spinse lontano il caffè, quasi cadendo nello smontare dall’alto sgabello.
Le parve di essersi storta il piede sinistro. Quello zotico del banconista ebbe la sfrontatezza di gridarle
dietro alcune espressioni volgari. Uscì dal drugstore senza avere idea di dove stesse andando. Era diretta
downtown? Uptown? In tutta la sua confusione si era scordata il numero della via dove abitava.
Speriamo soltanto di non romperci una gamba! implorò le forze superne. Sembrava che demoni
maligni, invisibili seminatori di zizzania le si fossero appiccicati come sanguisughe e stessero facendo
tutti gli sforzi possibili per distruggerla. Che cos’era? La maledizione di suo padre? La punizione di
Dio? Avanzando a tentoni sul marciapiede con un bastone bianco, una scatola da sigari piena di gomme
da masticare appesa al collo, le si avvicinò un cieco.
Devo fare l’elemosina! Devo espiare per i miei peccati! Anna cominciò a frugare in cerca di qualche
monetina, ma aveva speso l’ultima da dieci centesimi per il caffè che non aveva bevuto. Doveva dargli
un dollaro?
Era troppo. E in ogni caso, a che cosa servivano tutte quelle buone azioni? Anche gli ebrei d’Europa
facevano l’elemosina… più di quanto potessero permettersi. Dipende tutto dalla fortuna, ecco la verità
nuda e cruda! Anna passò davanti a un cinema dove davano un film di gangster.
Di giorno il biglietto costava soltanto pochi centesimi. Devo entrare per un’ora? Quel banconista era
indegno ciarpame! Avrebbe dato metà della vita per vederlo penzolare da una forca! Ma che cosa
importava? Di lì a qualche decennio sarebbe comunque morto. Sarebbe giaciuto sul letto di morte senza
neanche ricordare il comportamento zotico che aveva avuto con lei un giorno in cui lei aveva la
coscienza sporca per conto suo.
Probabilmente se n’era già scordato. Comperò un biglietto ed entrò. Dio del cielo, che buio c’era! Si
faticava a credere che nella piena luce del giorno ci fosse gente che decideva di andarsi a sedere in una
simile oscurità totale. Adesso era cieca come l’uomo con la scatola di gomme da masticare. E in un buio
perpetuo come quello lui doveva non soltanto aggirarsi per tutta New York ma anche cercare di
guadagnarsi da vivere. In quel momento si pentì di non avergli dato il dollaro. Dopo un po’ i suoi occhi
si abituarono al buio e, accortasi di essere in piedi accanto a una fila vuota, si lasciò cadere in un sedile.
Gettò un’occhiata allo schermo. Un uomo stava scappando per i tetti e la polizia gli stava sparando.
Continuava a chinarsi per evitare le pallottole. Che situazione! rifletté lei. Le difficoltà in cui si va a
cacciare la gente! Chiedeteglielo, e vi risponderà che non ha potuto evitarlo. Evidentemente il destino fa
un gioco diverso con ciascuno di noi. Qualcuno sparò un colpo… il gangster inciampò, cadde e
precipitò giù dal tetto. Be’, ha lottato per la parte che gli era stata assegnata, mormorò tra sé Anna.
Nessuno gli darà più la caccia. In quel momento le si sedette accanto uno sconosciuto. Capì subito che
aveva intenzione di attaccare bottone, usando i soliti trucchi di tutti gli uomini solitari e aggressivi, e
infatti lui cominciò a strusciarle il ginocchio con il suo. Anna si sentì rivoltare. Si alzò e si spostò di
quattro posti, facendogli un segno inequivocabile che con lei non c’era niente da fare.
Così si era fatta un altro nemico: ne avvertiva l’odio, quasi fosse una presenza fisica, fendere la barriera
di buio primordiale, mentre la rozza espressione di quell’uomo di mezza età indicava il frustrante senso
di sconfitta di coloro che nessuno ama. Era forse meglio spostarsi del tutto in un’altra fila. Un uomo del
genere poteva essere un maniaco.
Ma ciò non avrebbe fatto che infuriarlo ancora di più. Per un po’ Anna si concentrò sul film. Adesso
era comparsa una donna, un tipo volgare che parlava con voce stridula e fumava una sigaretta. Era
vestita a lutto… evidentemente era la vedova del gangster. Anna chiuse gli occhi in modo da non vedere
che cosa succedeva, e soltanto allora si rese conto che sentiva musica. Aveva suonato sempre? Rimase lì
seduta alle prese con la sua stessa ansia. Grein si sarebbe davvero comportato bene da adesso in avanti?
O dopo un po’ sarebbe corso di nuovo da Esther? Se il papà avesse saputo che cosa stava soffrendo!
Non lo sapeva nemmeno Grein. Era così assorto in se stesso, così preso dai suoi folli pasticci da essere
incapace di partecipare dei problemi di qualsiasi altra persona. Metteva tutto in un canto con parole,
promesse, insulti, tenerezze, aggirandosi lui stesso in uno stato di forte agitazione.
Andava, veniva, dormicchiava, telefonava, manovrando di continuo tra lei, Leah ed Esther e chissà
quante altre. Si era caricato di gioghi che aveva creato lui stesso, aveva moltiplicato le sue responsabilità
nel tentativo vano di soddisfare tutte. Probabilmente aveva anche grossi obblighi finanziari. Era
esattamente come il gangster di quel film… che correva a perdifiato sui tetti mentre gli piovevano
addosso pallottole da tutte le parti. Di punto in bianco l’intuito la avvertì che Luria era tornato a casa.
Mentre si alzava per andare in cerca di un telefono, si rese conto che il locale non era affatto buio. Al
contrario, c’era una luce quasi forte. Adesso che vedeva tutti i sedili, tutti gli spettatori, non riusciva a
capire come avesse fatto, prima, a sentirsi così cieca e inerme. Il «maniaco» era sparito. Se n’era andato?
Era salito in galleria a fumare? O era appostato da qualche parte con un coltello ad aspettarla? La cabina
telefonica era in un corridoio che portava alle toilette. Andarci significava correre un rischio, perché era
esattamente il tipo di posto dove si appostava gente del genere, ma ci andò ugualmente, entrò nella
cabina e telefonò. Sì, Luria era a casa.
La linea era occupata. Chiamò ripetute volte, ma trovando sempre il segnale di occupato.
Evidentemente Luria stava aprendo il cuore a qualcuno, raccontando tutti i torti che gli erano stati fatti.
Ma a chi?
Per quanto lei ricordava, a New York non aveva amici. Aveva fatto conoscenze in così poco tempo?
Forse si era cercato una donna. Era possibile qualsiasi cosa. Una vittima la si può sempre trovare. Anna
si sedette sulla panca della cabina telefonica. Il corridoio era deserto.
Sentiva le voci smorzate dei personaggi del film, uno scambio melodrammatico tra persone volgari e
criminali che dovevano combattersi, ferirsi a vicenda, comportarsi in un modo demenziale e poi cadere,
affinchè una giovane coppia potesse cominciare una nuova vita. Tutto era preordinato lassù nella cabina
di proiezione, dove i tecnici manovravano l’apparecchiatura. Anna telefonò di nuovo, e questa volta la
linea era libera. Dopo un attimo sentì la voce di Luria, aspra, rauca, alterata… la voce di chi ha perso
ogni speranza e per cui anche andare al telefono è un tormento. Non disse «Pronto» ma «Prosz?» quasi
fosse ancora in Polonia. Dal cinema alla sua ex casa c’erano soltanto pochi incroci, ma Anna prese un
taxi. Voleva farla finita con quella visita il più in fretta possibile. Il portiere la scrutò esterrefatto: l’aveva
vista entrare nel palazzo prima, ma non l’aveva vista uscire. L’addetto all’ascensore si accigliò. Lei suonò
il campanello con forza, ma evidentemente Luria non aveva nessuna fretta di venire ad aprire. La fece
aspettare un pezzo, e alla fine aprì la porta soltanto di un terzo.
Lei quasi non lo riconobbe. Aveva smesso di tingersi i capelli, che ormai erano quasi completamente
grigi. Le borse sotto gli occhi si erano gonfiate e avevano assunto una serie di sfumature in cui il giallo e
il blu predominavano su una varietà di rossastro. Dato che prima non era in casa, lei si aspettava di
trovarlo vestito, invece era in accappatoio da bagno e ciabatte, come se fosse appena uscito dal letto.
Non rasato e in disordine, inarcò i cespugliosi sopraccigli e la fissò con un’espressione disperata.
Sembrava incerto se farla entrare o no. Poi grugnì e aprì la porta. «Dormivi, o roba del genere?» chiese
lei.
«Dormivo, o roba del genere», le fece eco lui. Anna entrò nel corridoio, mentre lui camminava a ritroso
davanti a lei, come pronto a bloccarle il passo da un momento all’altro. Il soggiorno era impolverato e
in disordine, cosparso di libri, riviste, persino brandelli di carta. Sul tavolino c’era un vaso, e le parve che
persino i quadri sulle pareti fossero storti. Un odore di muffa e unto pervadeva ogni cosa. Fece una
smorfia. «La donna delle pulizie non viene più?»
«Che cos’è che vuoi?» ribattè bruscamente Luria. «Prendere le mie cose, e basta.»
«Quali cose?»
«I vestiti, la biancheria. Non devo ricordarti che tutta la roba che c’è qui è mia… ogni mobile, ogni
tappeto.»
«Vuoi portare via tutto?»
«Per adesso voglio soltanto i miei oggetti personali.»
«Prendili. Non ho bisogno del tuo pattume. Puoi prendere tutto, anche il mio letto.»
«Non mi serve.»
«Prendi quello che vuoi e vattene fuori di qui. Non voglio rivederti mai più.»
«Non buttarmi fuori. Fino adesso l’affitto l’ho pagato io, non tu.»
«Pagavi fu? Pagava tuo padre, perché in quel modo pensava di impedirti di diventare una puttana. Ma se
una lo è, lo è per sempre.»
«Ti prego, Luria, cerca di non essere cafone per i pochi minuti che devo passare qui.»
«Cafone? Se fossi un uomo e non una nullità, ti avrei strappato i capelli dalle radici, spaccato tutti i denti
e buttato fuori come un mucchio di spazzatura. Così si comportavano gli uomini una volta. Però
l’America castra gli uomini, non fisicamente ma spiritualmente. E prima o poi lo faranno anche
fisicamente. Qui regna supremo il diavolo in forma di donna. Il potere è in mano di coloro cui è
interdetto essere potenti. Ma non importa, presto distruggeranno il Paese, lo affogheranno in cosmetici
e lerciume.
Che vie batti?» Anna impallidì. «E’ meglio che vada via.»
«Che fretta c’è? Non ti farò niente di male.»
«Sei capace di tutto.»
«Lo sono, certo, ma non voglio sporcarmi le mani.» Di punto in bianco Luria uscì dal soggiorno e tornò
in camera da letto, sbattendosi dietro la porta.
Che strano… è diventato un uomo, pensò Anna. Suo marito non si era mai espresso così. Si sentiva
debole e dovette sedersi qualche attimo.
Guardando i mobili intorno a sé, notò che nelle ultime settimane tutto si era coperto di polvere,
scolorito, scompaginato. Lui aveva evidentemente lasciato entrare il sole tutto il giorno, per cui le piante
in vaso erano avvizzite. Avrebbe voluto alzarsi e bagnarle per l’ultima volta, ma rimase seduta. Non
faceva alcuna differenza. Che strano sentirsi un’estranea proprio nell’appartamento che aveva arredato
con tante spese e fatica. Be’, è l’ultima volta che vengo qui. Ha ragione Grein… mi sarei dovuta portare
dietro un avvocato. Rifletté un attimo. Che cosa doveva portare via? Aveva bisogno di qualcuno che
potesse aiutarla a fare i bagagli. Si alzò e aprì un armadio nel corridoio. I suoi abiti erano lì intatti. Aveva
un baule enorme, ma era chissà dove in cantina. Luria tornò lì. «Be’, dove abiti? Come va con il tuo
ultimo amante?»
«Che cosa vuoi sentirti dire? Che mi picchia?»
«Che ti picchi o baci, per me fa lo stesso. Me ne vado comunque.» Lei si tese. «Dove vai?»
«Da mia moglie e i miei figli.» Anna si sentì scorrere via il sangue dal cuore. «Sei impazzito?»
«Può darsi. Ne ho avuto abbastanza di questo lerciume. Non avrei mai dovuto abbandonarli. Voglio
parlarti di alcune questioni pratiche.»
«Quali?»
«Tuo padre ti diserederà. Mi ha detto lui stesso che ha rifatto testamento. Ti ha dato un assegno, ma ne
ha bloccato il pagamento. Resterai senza un centesimo, e il tuo prezioso Grein ti butterà via e tornerà da
sua moglie. Sei certamente una puttana, ma in America ce ne sono di più giovani e carine. E’ un
mestiere con un sacco di concorrenza.»
«Non vuoi fare altro che svillaneggiarmi.»
«Niente affatto. Ho un’assicurazione sulla vita, e per adesso è a mio nome. Potrei trasferirla a un’altra
persona, ma non mi interessa se ti becchi i soldi. Alle puttane ne servono un sacco. E’ un tipo di lavoro
costoso.»
«Che cosa vuoi? I premi li ho pagati io, non tu.»
«Pagavi tu, ma la polizza è a mio nome. Quando crepo, varrò diecimila dollari. Se vuoi, puoi sistemare le
cose in modo che io ne valga venti o trentamila. Tutta l’America è costruita su questo principio: le
donne accoppano gli uomini e vengono pagate per farlo. Qui sono le vittime a pagare gli assassini.»
«Nessuno ti sta ammazzando.
Puoi vivere e guadagnarti il pane. Puoi persino farti fare un prestito su quell’assicurazione, non mi
importa.»
«Non voglio farmi prestare soldi e non ho bisogno di nessun pane. Ho bisogno di una puttana. Sono di
questo umore. Non riesco a dormire e una puttana potrebbe darmi una mano. Quindi, se vuoi venderti,
puoi fare un affare con me.» Anna fece un balzo indietro. «Ti prego, Luria, smettila!»
«Ti sei offesa? Le donne come te non possono permettersi di offendersi. So benissimo che i soldi ti
scivolano via tra le dita. Non tutte le prostitute impongono prezzi così alti.»
«Ti prego, Luria.»
«Smettila di pregarmi. Ti ho fatto una proposta. Me ne sto andando e sono mortalmente serio. Presto
non avrò più bisogno né di donne né di soldi. Voglio vedere che cosa succede al piano di sopra… gli
Hitler comandano anche lassù o sono anch’essi inesistenti? Hanno cercato di mostrarmi l’altro mondo,
ma rimango scettico. Per vedere davvero la verità, bisogna pagare con la testa.»
«La verità non scapperà via.»
«Ti sto facendo una proposta, per cui rispondimi chiaro. Voglio aumentare l’assicurazione, in modo che
quando morirò ti becchi trentamila dollari. Non devi fare altro che venire da me due volte alla
settimana. Nemmeno Madame Pompadour era pagata così bene.» Anna scoppiò a piangere. «Che cosa
mi stai chiedendo? Sadico!»
«In questo caso, ti assicuro, non beccherai un centesimo.» E Luria tornò in camera da letto. Anna tirò
giù una valigia e cominciò a riempirla.
Non piangeva più, ma la vista rimaneva offuscata. Sì, si ucciderà. Stava soltanto cercando una scusa,
rifletté. Ma che cosa posso fare? Incapace di decidere che cosa prendere e che cosa lasciare, gettava
nella valigia tutto ciò che le capitava in mano, consapevole che stava prendendo soltanto sciocchezzuole
e trascurando cose necessarie. Improvvisamente trillò il telefono, forte e afono, come se suonasse in un
appartamento vuoto. Evidentemente Luria non rispondeva più, perché l’apparecchio continuò a
suonare a lungo. Magari è per me, pensò Anna. Non tutti sanno che l’ho lasciato. Andò al telefono e
sollevò la cornetta. «Pronto.» Non vi fu risposta dalla persona all’altro capo della linea. Lei avvertì
immediatamente un silenzio carico e truce. «Pronto!» Improvvisamente sentì la voce di suo padre. «Chi
parla?»
«Sono io, papà.» Anna non riuscì a dire altro. Boris Makaver emise un suono strozzato e si zittì.
«Che cosa ci fai lì?» gridò poi, così forte che Anna dovette allontanarsi di scatto la cornetta
dall’orecchio. «Sono venuta a prendere le mie cose, papà.»
«Non chiamarmi papà. Non sono tuo padre e tu non sei mia figlia! Ti ho cancellato. Cancellato! Possa il
tuo ricordo essere eliminato! Non osar venire vicino a casa mia, perché ho detto a quel tale, come si
chiama? di non farti entrare. Volevo parlare con Luria, non con te.»
«Lo chiamo.»
«No, da te non voglio niente.» E Boris buttò giù il telefono. Stordita, Anna tenne in mano la cornetta un
attimo prima di rimetterla giù a sua volta. Proprio nel momento in cui tornava alla valigia, qualcuno
suonò alla porta. Lei non sapeva decidere se aprire o no. No, meglio di no, decise. Oggi è stata una
giornataccia tale che tutti mi insulteranno, persino quel lazzarone dell’uomo della spazzatura. Ma,
proprio come il telefono prima, il campanello della porta non smetteva di suonare. A quanto pareva
Luria aveva deciso di non rispondere a nessuno. E allora perché aveva risposto quando aveva chiamato
lei? Alla fine Anna andò alla porta. «Chi è?» chiese, ma non rispose nessuno. Non apro. Mi
ammazzeranno persino, prima che finisca la giornata! decise Anna, ma poi fece immediatamente il
contrario… aprì la porta. Dall’altra parte vide un uomo che le era stranamente familiare, ma non riuscì
a riconoscerlo. Capì istintivamente che si trattava di un’incapacità assurda e stramba, perché di fronte a
lei c’era un uomo che conosceva da un pezzo. Era in preda a una specie di amnesia temporanea.
Davanti a lei c’era un uomo di bassa statura, vestito in maniera stravagante in una varietà di colori
sgargianti.
Portava un soprabito sbottonato a scacchi gialli sopra un vestito marron scuro, una camicia al tempo
stesso a pois e strisce rosse e una pacchiana cravatta multicolore di seta. Le punte del colletto della
camicia, tenute a posto da un fermaglio d’oro, racchiudevano un collo stranamente scarno e una gola
vizza con il pomo d’Adamo sporgente. Come ipnotizzata, lei lo fissò stupefatta. Portava in testa un
cappello sbarazzino con una piuma tirata in avanti, sopra una massa di capelli grigi che appariva
singolarmente in disaccordo con i lineamenti giovanili, posata sul cranio come una parrucca. Sembrava
appena arrivato in aereo da un remoto Paese tropicale. Anna vide di sfuggita due scarpe lucidissime,
coperte da ghette bianche del tipo che portano spesso gli elegantoni d’estate. Lo conosco, lo conosco,
continuava a pensare, ma chi è? Il visitatore la guardava con gli occhi strizzati e l’espressione di
sbalordita sorpresa di un parente stretto che non viene immediatamente abbracciato. Nel suo sguardo e
nelle rughe del naso c’era qualcosa di irridente e malevolo, come se da un momento all’altro potesse
esplodere una risata urlazzante e chiocciante. «Ma è assolutamente al di là del credibile!» disse
finalmente in tedesco. E precisamente in quell’attimo Anna capì chi fosse. Si fece cinerea. Era Yasha
Kotik, il suo primo marito. «Mio Dio, che cosa ci fai qui?» ansimò. Non lo fece entrare ma rimase sulla
soglia, reggendo la porta. E finalmente capì come mai non lo avesse riconosciuto: il suo arrivo era una
cosa assurda, ai limiti dell’impossibile. Soltanto in quel momento avvertì i cambiamenti che erano
avvenuti in lui. Sembrava rimpicciolito, dimagrito, invecchiato; nel suo viso notò qualcosa di ignoto che
non riuscì a identificare. Sembrava ridere con una scherzosità tragica, il sarcasmo distorto di un clown
che ha attraversato l’inferno e chissà come è riuscito a strisciarne fuori. Le rughe attorno alla bocca si
erano fatte più profonde, come modellate nell’argilla. Tutto il suo atteggiamento sembrava dire: ahi–ahi-
ahi, come possono diventare distanti gli intimi! Guarda, guarda che cosa può combinare il tempo!
Esplose un risolino di gelo. «Anna!» Anna cominciò a parlare a Kotik in tedesco, chiedendogli da dove
arrivasse, da quanto tempo si trovasse nel Paese, dicendogli che l’aveva trovata lì per puro caso. Ma
pareva che lui si fosse dimenticato quella lingua. Adesso parlava esattamente come gli Ostjuden che
aveva tanto spesso deriso sul palcoscenico. Inciampava su ogni parola. Notò subito lo sbalordimento di
Anna e gridò in yiddish: «Ho dimenticato completamente la lingua di Hitler. In Russia parlavo in russo
o in yiddish. So soltanto tre parole di inglese.» E pronunciò un’espressione oscena. Anna si sentì
scopertamente a disagio. «Non capisco perché sei venuto qui», disse. «Non abito più in questa casa.»
«Eh? Dove abiti esattamente?»
«Non qui.»
«Hai traslocato o roba del genere? Sono circa due settimane che ti sto cercando. Ho telefonato a tuo
padre, ma il vecchio non è mai a casa, e quella Reytze è sorda come una campana. Non capisce una sola
parola che le si dice. Sapevo che il tuo cognome da sposata è Luria e ho chiamato questo numero, ma
nessuno risponde all’apparecchio neanche qui. Devo andare a Hollywood presto, per cui ho pensato di
tentare la sorte e bussare alla porta come Santa Claus. E guarda un po’… ti ho beccato, ah ah!»
«E’ un colpo di fortuna ridicolo.»
«Sono abituato ai colpi di fortuna ridicoli. Devono essermene capitati diecimila, se sono qui su questa
porta.» Anna tacque un attimo. «Non posso invitarti a entrare. E’ tutta una situazione strana. Scendi ad
aspettarmi di sotto. Arrivo presto.»
«Potresti sempre scappare per il camino.»
«Perché dovrei scappare? Non ho paura di nessuno.»
«Sei cambiata in America.»
«Sono invecchiata.»
«No, non vecchia… sei diversa. Dove devo aspettare?»
«Dall’altra parte della strada. Qui devo fare un po’ di bagagli. Sto lasciando anche lui. E’ il mio destino.»
«Eh? Be’, volevo rivederti. Dovevo darti un’occhiata.
Siamo vecchie conoscenze, in definitiva.» E Yasha Kotik fece un gesto osceno. Stranamente fuori
carattere con i suoi capelli grigi. Di punto in bianco comparve Stanislaw Luria. Sbirciò fuori della
camera da letto e un attimo dopo era lì alla porta. «Chi è costui?» chiese in polacco.
«Che cosa vuole?»
«Ah, qui si parla ancora popolski.» ribattè Yasha Kotik, apparentemente compiaciuto. «Sono appena
arrivato io stesso dalla Polonia. Ma ho qualche difficoltà a esprimermi in polacco. Lo confondo con il
russo.»
«Che cosa vuole? Chi sta cercando?» chiese Luria in yiddish. «Oh, sto cercando… il passato. Sua moglie
un tempo era mia moglie. Volevo chiedere come sta… nient’altro! Non deve ingelosirsi.»
«Lei è Yasha Kotik?»
«Chi altri? E’ per caso lei Yasha Kotik?»
«Perché resta sulla porta? Entri. Non sono vestito perché di notte non riesco a dormire e quindi cerco
di farlo di giorno. Sua moglie, ormai è più sua che mia, mi sta lasciando. Ha un terzo… o magari è il
quinto?
Entri, entri. Anna parla sempre di lei. Non l’ha mai dimenticata.»
«Davvero, Luria, tutte queste chiacchiere sono superflue», interloquì Anna in inglese. «Che differenza
fa? Entri. Venga qui. Vede? Sta facendo i bagagli. Non la stavo prendendo in giro. E da dove arriva, se è
lecito? Si sieda.»
«Arrivo da tutto il mondo. Ogni Paese ha deciso di ridurre Yasha Kotik in cenere, e Yasha Kotik ha
deciso di vivere. A che scopo ha dovuto vivere Yasha Kotik? Per puntare gli occhi su Anna… e anche
su lei. Anche nell’altro mondo hanno un occhio puntato su Yasha Kotik. Vogliono sistemare la sua
frittura… ma che fretta c’è?
Hollywood ha sentito parlare di me, e vogliono fare di me una star. Ho recitato in un film in Russia e lo
hanno portato in America. In Russia vendevo sapone sul mercato nero, e questi qui scrivevano
recensioni su di me. Ho una cugina, qui, che me le ha ritagliate e conservate. Yasha Kotik è una
celebrità anche in America. Fuma?»
«Scusatemi, ma io devo fare i bagagli», li interruppe Anna. Quindi fissò i due uomini con espressione
scossa e imbarazzata. «Be’, falli. Si sieda qui», disse Luria indicando una poltrona. «E’ bello che lei sia
ancora intero. Dov’è stato in Russia?»
«Dove non sono stato. Ho girato lo Stato di Stalin in lungo e in largo. Mi sono anche trovato in
prigione, seppure non per motivi politici… perché trafficavo sul mercato nero. Là così sono costretti a
farlo tutti. Viaggiavo con una compagnia itinerante e scrivevano articoli su di me sulla Pravda. Ma non
c’era mai abbastanza da mangiare, per cui, non appena arrivavo in una città, mi mettevo subito in giro
per vendere qualcosa. Su un angolo affiggevano manifesti con il mio ritratto, e su un altro io, il famoso
attore, stavo con la mano tesa come un mendicante, vendendo un pezzo di sapone o una maglietta o
qualsiasi altra cosa fossi riuscito a scroccare. Nello Stato di Stalin tutto è merce. Avevo una donna, ma
ha deciso di mettersi con un altro. Ha lasciato lì una camicia da notte, e io sono andato immediatamente
a venderla. Ero al mercato, quando lei è passata di lì con il suo nuovo ragazzo, quindi le ho mostrato la
camicia da notte e l’ho esortata: ‘Forza, compagna, compera questo bell’abito da ballo, fa’ un colpo di
vita’. Così è fatta la patria del socialismo. Arrivavo in una città con la mia compagnia e non c’era dove
passare la notte, per cui ci stendevamo tutti sul palcoscenico e ci coprivamo con lo scenario. Ho persino
dormito per strada d’inverno. Durante la guerra c’era penuria di tutto, tranne che di pidocchi. Erano
l’unica cosa che produceva in abbondanza il piano quinquennale.» Anna si morse il labbro per
trattenersi dal ridere forte. «Caspita, che cose ci racconti.»
«Vi sto dicendo la verità, e la verità è comica. Ecco perché sono attore.
Che cosa è successo fra voi due? Perché lei sta raccattando le sue cianfrusaglie?» Luria fece una smorfia.
«Quella lì cambia uomo ogni pochi anni. Per lei è una specie di principio.»
«Vi prego tutti e due, non parlate di me. Se è questo che volete fare, vado via. Prenderò le mie cose
un’altra volta.»
«Che cosa ho detto? Prendi tutto quello che puoi, altrimenti ruberanno tutto. Non posso essere ritenuto
responsabile.»
«Rubano anche qui?» chiese Yasha Kotik. «Da quelle parti rubano tutto.
Rubano tutti, tranne il compagno Stalin, perché è Dio, e Dio non ha bisogno di rubare, può prendersi
quello che vuole, e amen. In Russia ho fatto anche il commerciante e il contabile. Da quelle parti
bisogna mettere tutto per iscritto. Ma dove si dovrebbe scrivere, se non c’è carta? Quindi tenevo i miei
conti su un volume di poesie di Majakovskij.
Componeva versi brevi, per cui lascia margini larghi. Dovevo rubare anch’io, di quando in quando,
altrimenti sarei morto di fame, per cui con il passare del tempo ho cominciato a strappare pagine e a
buttarle via. Finché è arrivato il revisore per controllare i miei conti, e sfortuna ha voluto che sapesse
tutte le poesie di Majakovskij a memoria.
Ehi, compagno, mi fa, qui qualcosa non quadra. E’ stato allora che ho deciso che in futuro avrei tenuto
tutta la mia contabilità sulle opere di Demyan Bedny.»
«Stai mentendo», gridò Anna. «Eh? Niente affatto.
Perché raccontare bugie quando da quelle parti la vita di ogni giorno offre situazioni che nessun
bugiardo potrebbe nemmeno sognare? Ecco, vi farò un esempio. Laggiù avevo un amico, uno scrittore
yiddish. In Russia li conoscevo tutti. Non aveva alcun talento, ma da quelle parti non è affatto uno
svantaggio. Basta cantare le lodi di Stalin. Una volta stavamo chiacchierando e lui di punto in bianco fa:
‘Ahi, qui mi annoio a morte. Darei metà della vita per riuscire ad andarmene’. Non appena lo ha detto
ho pensato: ah, ah, bisogna che vada immediatamente all’NKVD, perché se non faccio una delazione su
lui, potrebbe farla lui su me. Riferirebbe che ho sentito fare discorsi controrivoluzionari e me li sono
tenuti per me. Non si può mai dire. Magari era un agente provocatore. Gli ho scoccato un’occhiata
come per dire: che cosa ci hai ricavato? Ci siamo stretti la mano e sono andato diritto all’NKVD.
Arrivato al portone ho visto il mio cordiale uccellino canterino, che era già lì. Aveva fatto un’altra
strada. Abbiamo sprecato mezza giornata ad aspettare, dopo di che ciascuno di noi due ha fatto una
delazione contro l’altro. Quindi siamo tornati a casa insieme.»
«Perché l’hanno lasciato libero?»
«Hanno sostenuto che mi stava mettendo alla prova.
Basta che uno faccia una delazione contro un altro, e tutto è kasher.» Stanislaw Luria si sfregò la fronte.
«Un gioiello di Paese. Ma se pensa di andare a Hollywood, ascolti il mio consiglio e non racconti niente
del genere da quelle parti. Tutta Hollywood è rossa. E tre quarti degli scrittori di qui sono rossi anche
loro. Se dice una sola parola contro lo Stato di Stalin, troverà un ostracismo totale.»
«Anche qui?»
«Anche qui.»
«Buono a sapersi. Rivolterò la frittata. Dirò loro che da quelle parti ai lavoratori non è mai andata così
bene. Come diceva sempre mia nonna: il mondo vive le bugie cucinate in quello a Venire.»
«Dovremo aspettare di vedere che cosa c’è nel Mondo a Venire», ribattè Luria. «Io ci sono già stato»,
disse Kotik, rivolto al tempo stesso a lui e a nessuno in particolare. «Durante la guerra ho preso il tifo e
mi è venuto quarantatré di febbre. Poi la temperatura è scesa a trentaquattro ed ero continuamente in
preda al delirio. All’ospedale non c’erano abbastanza letti, per cui mi hanno steso su un pagliericcio nel
corridoio. Le infermiere continuavano a spruzzarci addosso disinfettante. Pensavano che me ne fossi
andato e si stavano apprestando a portarmi all’obitorio, quando di punto in bianco ho aperto gli occhi.
E qual è stata la prima cosa che ho visto? Un paio di mutande da donna.
Mi hanno fatto rivivere. La loro vista mi ha riportato immediatamente da quel mondo a questo. Be’,
perché ti fai fessa da sola, Anna? Hai sposato un uomo perbene e hai un bell’appartamento a New
York… perché fai di nuovo i bagagli? In Russia, quando si divorzia si continua a vivere nello stesso
appartamento. Lei ci porta un altro marito e lui un’altra moglie, dopo di che entrambe le donne tornano
a casa dal lavoro la sera e si mettono a litigare per le padelle… la mia padella, la tua, mio marito, il tuo.
Secondo me è brutto… Adesso dove ti porti le tue valigie?»
«Va da un tale che opera in borsa a Wall Street», rispose per lei Luria. «E’ diventata americana. Qui c’è
un solo amore: quello per il dollaro.» Anna stava per ribattere, quando Kotik la interruppe. «Wall Street?
La immaginavo completamente diversa da com’è. In Russia continuano a dire che tutti i guai del mondo
cominciano lì. Anche quando una donna si mette a fare la balorda, è colpa di Wall Street. E non appena
arrivato qui che cosa vedo? Una stradina stretta come il ghetto di Roma, che non sembra certamente
strapiena di soldi dalla cantina al soffitto. Sulla nave, venendo qui, ho conosciuto un ebreo di New
Rochelle… è una cittadina dalle parti di New York. Ha cominciato a raccontarmi la storia della sua vita:
ha un figlio e una figlia. Del primo è contentissimo, ma è molto scontento della seconda. E perché è
scontento di sua figlia? Perché ha sposato un rabbino. Quindi gli faccio: allora lei andrà diritto in
paradiso a mangiare in eterno la coda del Leviatano. E lui: questo va bene in Europa, non in America.
Poi mi spiega che è massone. E che cosa sarebbe un massone? gli chiedo. Non sa che cos’è un
massone? fa. Sono quelli che portavano le pietre per costruire il Tempio di Gerusalemme. Allora io gli
chiedo: e lei a quale tempio porta pietre? Lei è proprio un pivello totale, mi fa. Serve per gli affari. Qui,
dice, ho fatto un’assicurazione di cinquantamila dollari per mia moglie, e a che cosa mi serve? E’ una
vecchia ciabatta.
Ma mi serve per i miei affari.» Anna scrollò le spalle. «E che cosa c’entra questo con noi?»
«Eh? Me lo sono scordato. Mi capita così… la mia mente divaga. Comincio a parlare di qualcosa e a
metà mi dimentico perché ho cominciato. Ah, sì: che senso ha scappare da un uomo per un altro? Una
volta ero convinto anch’io che ogni gonnella fosse diversa, ma adesso so che sono tutte uguali. Ormai
potrei essere un marito fedele, ma nessuno sa che farsene della mia fedeltà.»
«Troverai una donna a Hollywood», osservò Anna. «Aspetta, lascia che ti aiuti a chiudere quella valigia.
A Hollywood vogliono che faccia la parte di un russo, ma io lo parlo in maniera sgrammaticata. Adesso
sto parlando con franchezza. Non ho nessun interesse per le grandes dames di Hollywood. Quella che
mi serve è una moglie che mi rammendi le calze. Mi dica, Panie Luria, questa qui le sa rammendare?»
«Non solo non sa farlo, ma non ne ha nemmeno voglia. E’ diventata anche lei una prima donna di
Hollywood.»
«In Russia le donne hanno imparato a badare a se stesse.
Tutte le volte che hai una pupa a letto, lei controlla che non devii dalla linea del partito. Al mattino una
bambola così si alza, ti bacia sulla bocca e va diritta all’NKVD a presentare un rapporto completo su di
te. Se non ti hanno messo dentro nel corso della giornata, la stessa troia torna lì fresca fresca quella sera
e attacca a lagnarsi: oh, golubcik. Ho avuto una tale giornataccia! Sono dovuta correre dappertutto. Mi
fanno male i piedi! E poi ti bacia così teneramente che diventi di gelatina. Dopo di che, a letto, la
piccola volpe astuta comincia con mille moine: golubak, che cosa ne pensi dell’ultimo discorso del
compagno Stalin? Al che tu ti rannicchi addosso a lei e rispondi: non ce n’è mai stato uno simile in tutta
la storia dell’oratoria! Era più luminoso del sole! Più dolce del miele! Più mortale del veleno per i
capitalisti! Giusto, assolutamente giusto fino al minimo dettaglio! Domani, mia amata, potrai riposarti i
piedini.
Intanto, dammi la bocca.» Anna arrossì. «Non sei cambiato.»
«Oh, altroché, mia cara. Non sono più affatto lo stesso. La realtà della Russia ha sorpassato di molto
Yasha Kotik… veramente di molto.»
CAPITOLO 11.
La signora Clark era alla sua poltrona da dentista a trapanare un dente a un paziente. Il viso di
quest’ultimo, un prete ortodosso, si torceva per il dolore, ma la carie andava fermata. La signora Clark
praticava la professione da anni, ma dover trapanare i denti di un altro la faceva ancora rabbrividire.
Fino a quando non aveva perduto i suoi, aveva sofferto lei stessa più che abbastanza. Sapeva di persona
tutto quanto riguardo a mal di denti, nervi scoperti, dolore da far impazzire. Ma che cosa si può fare?
Gli esseri umani devono soffrire. Se si sfuggono i dolori piccoli, bisogna poi sopportare quelli grandi.
Trapanava e si fermava, tornava a trapanare e di nuovo si fermava. Ogni volta il prete, un uomo grosso,
corpulento, con i capelli lunghi, esalava un sospiro simile ad aria che sfuggisse da una botte. La signora
Clark era sbalordita di se stessa. Un tempo sua madre macellava animali in Bucovina e lei, allora Chaye
Sarah e adesso Henrietta, era lì a trapanare il molare di un prete sulla Cinquantasettesima Avenue di
New York. Se non altro salvare piuttosto che macellare, pensò, anche se in realtà non si può macellare
niente, né uomini né bestie. L’anima, anche i libri di teosofia usano l’espressione «anima», cerca presto
un altro corpo, un altro abito. Tutto vero, ma perché mi sono lasciata invischiare in questo machiavello?
Lo faccio davvero per la bontà del mio cuore? O ne traggo anche qualche altro tipo di piacere? Era
compassione? Era amore? E quella giovane, una volta o l’altra, non avrebbe rovinato tutto? Potrebbe
smascherarmi. Potrebbero persino arrestarmi. Un tipo del genere potrebbe ricattarmi quando vuole. Se
non altro una buona intenzione ce l’ho. Voglio salvare una vita. Anzi, non una sola, ma due. Li riempio
di bugie? Visto che la gente rifiuta di vedere la verità, bisogna mostrarle il suo riflesso. Ai tempi, quando
un bambino a scuola non voleva imparare l’alfabeto, l’assistente del maestro buttava lì di nascosto un
pezzo di torta, e tutti dicevano che l’aveva portato un angelo. Si poteva davvero definirlo una frode o
un inganno? A quei tempi gli ebrei pii credevano sia alla Torah sia agli angeli, ma i bambini stupidi
andavano guidati con pezzetti di torta. Il prete esplose un urlo e lei gridò: «Era l’ultima volta! E’ finita!
E’ finita!» Era un quarto alle sei. Non aveva più pazienti. In sala d’attesa era seduta Justina Kohn, che
aveva portato con sé una cartella.
La signora Clark infilò in bocca al prete uno strumento che risucchiava la saliva; gettò un’occhiata fuori
della finestra. La lastra di vetro del palazzo di fronte brillava come una pietra preziosa incastonata nel
cemento. Di sotto, folle di uomini si ammassavano davanti a vetrine, con addosso quasi gli stessi abiti
che vi erano esposti. Visti da lassù i manichini nelle vetrine sembravano più vivi delle persone che li
guardavano a bocca aperta. Le auto sembravano piccole e innocenti come giocattoli, e un bus della
Quinta Avenue si faceva strada tra di esse come un grosso verme in mezzo a vermi più piccoli. La
signora Clark aprì leggermente la porta che dava sulla sala d’attesa. Justina Kohn le scoccò una scaltra
strizzata d’occhi. L’altra, la signora Kurtz, odontotecnica, era molto più sottile e fine. Non faceva mai
l’occhiolino, né trucchi oziosi. Ma Justina Kohn era un’attrice e parlava un buon polacco. Conosceva
anche lo yiddish, avendo lasciato Varsavia nel ‘39. Evidentemente tutta quella faccenda le piaceva,
perché un teatro polacco a New York non c’era, e un’attrice deve pur recitare.
In quel momento faceva alla perfezione la parte di una paziente nervosa, seduta con le gambe
accavallate, una sigaretta in bocca, una rivista sulle ginocchia, tesa e in ansia, come se non ne potesse più
che il suo dente dolente fosse curato. Il viso, con il mento appuntito e il naso lungo, era fortemente
truccato. Aveva gli occhi tondi di un uccello. I capelli erano tinti in biondo platino. Le unghie erano
taglienti, appuntite e rosso sangue. Il prete si stava apprestando ad andarsene.
Sebbene fuori il cielo fosse perfettamente limpido, aveva un ombrello posato nell’angolo, che raccolse
mentre si metteva un cappello di pelo sulla testa irsuta. Diede una grossa mano caldissima alla signora
Clark e rivolse un cenno con la testa anche a Justina Kohn. Prima di andarsene si toccò entrambe le
guance, quasi volesse accertarsi di avere tutti i denti. La signora Clark sorrise. «Un autentico russo…
con il cento per cento di sangue russo. Arriva da chissà dove in Siberia.» Justina Kohn strizzò l’occhio.
«Grosso come un orso!»
«E ha moglie e figli.»
«Certo. E’ loro consentito avere moglie. Soltanto i preti cattolici devono vivere nel celibato. Però hanno
lo stesso tutti una governante, e quello che fanno una volta spente le luci lo sa soltanto Gesù.» La
signora Clark fece un gesto di irritazione. Non le piaceva sentir parlar male di chiunque, tanto meno di
un religioso, un servitore di Dio.
Secondo il suo sistema di convincimenti, tutte le fedi servivano lo stesso Dio. La differenza consisteva
soltanto nelle cerimonie esterne, non nelle realtà essenziali. Personalmente aveva superato da un pezzo
tutti i dogmi. Non si considerava né ebrea né cristiana. Accettava tutte le rivelazioni: Dio aveva parlato
ai Suoi beneamati servitori in tutte le lingue e in tutte le forme. Tacque un attimo, poi disse: «Ceneremo
insieme in un ristorante e discuteremo tutto nei dettagli. La cosa fondamentale è non permettere che
tocchino troppo il corpo, perché rovina tutto. Basta un tocco, un respiro. Ha un paio di ciabatte
morbide?»
«Ho tutto.»
«Se non le ha, gliele do io. Nel mio appartamento fa caldo, per cui potrebbe anche essere nuda, ma un
paio di mutandine sottili andranno benissimo. Quando dice qualcosa, parli sottovoce, in modo che la
sentano soltanto in maniera indistinta. Basterà una parola, un mormorio, una carezza sul viso. Si lavi via
belletto e rossetto, non dev’essercene traccia. La cosa più importante è trasmettere un senso di amore,
devozione, calore. Non hanno bisogno di altro. Si ricordi che dovrà rappresentare due donne: Sonia ed
Edzhe. Il primo era il nome della moglie del signor Luria, Edzhe quello della signora Shrage.
Ciascuna di esse deve avere una voce diversa e soprattutto una personalità completamente diversa.
Inoltre eviti il pur minimo accenno ad alcunché di sessuale. Quando ci liberiamo del corpo, tutti i nostri
desideri carnali cessano. Nelle donne tali desideri finiscono prima che negli uomini, e questo prova di
per sé che esse occupano un gradino più alto sulla scala dell’evoluzione spirituale. Io stessa, per
esempio, posso ancora amare molto profondamente, ma tutto ciò che è fisico mi disgusta.»
«Oh, come la invidio!»
«Quando avrà la mia età, proverà le stesse sensazioni.»
«Spesso mi sembra che avrò bisogno di un uomo persino nella tomba.» E gli occhi da uccello della
signorina Kohn si riempirono di allegria, mentre faceva un sorriso scaltro, svelando una bocca piena di
denti largamente spaziati. La signora Clark era straordinariamente sensibile ai denti, e quelli della
signorina Kohn non le piacevano. Pochi di numero, erano larghi e troppo aguzzi come quelli di un
animale. Le braccia erano troppo lunghe per una persona della sua statura, e la vita eccezionalmente
stretta. Alla signora Clark sembrava che quella giovane si reggesse su molle da letto. Disapprovava
anche la sua cartella. Le corse per la mente il fastidioso pensiero che di simili ne portavano ladri e
taccheggiatori. Si sentì agitare da tutti questi pensieri negativi. Sapeva che, perché quell’operazione
riuscisse, chi vi prendeva parte doveva essere motivato dalle migliori intenzioni. Di conseguenza si
preparò, per così dire, con amore, parlando in parte a se stessa e in parte a Justina Kohn: «Be’, nel
karma tutto ha un fine… altrimenti che bisogno ci sarebbe di karma? Devono aver luogo maturazione e
fruizione. Nessuno dei nostri atti è perduto, vanno tutti a formare un tesoro complessivo, per così dire,
e nella sfera in cui cadono creano una luce rosata od ombre stigie, a seconda del valore o spreco di tali
atti. Ciascuno di noi da il suo contributo, e ciascuno dei nostri ruoli è importante.»
«Eh? Ah, sì.»
«Sono cose che deve sapere. Potrebbero fare domande. Impegnarsi con loro in lunghe discussioni è
impossibile. Però butti una parola qua e là. Il pensiero dominante dev’essere che ogni cosa è buona e
piena di misericordia. Non è che la verità. Ma ci vuole molto tempo prima di conseguirla, e, sia che si
proceda verso di essa sulla strada maestra o la si incontri per caso in vie traverse, la preoccupazione
primaria è che l’anima deve compiere la sua missione.»
«Non si preoccupi, signora Clark, posso essere Sonia, Edzhe e anche altre sei donne. Sarò uno spettro
del Castello degli Spettri. Saranno convinti al cento per cento di star parlando con le loro mogli
nell’altro mondo.»
«Non rida, mia cara, non rida. Siamo tutti spiriti. Questo mondo è anche quell’altro. Quando avrà la mia
età lo capirà.» Dopo cena Henrietta diede a Justina la chiave. La signorina Kohn era già stata
nell’appartamento e ne conosceva tutti i segreti. Aveva due ingressi e due bagni. Lei non doveva fare
altro che entrare silenziosamente dall’ingresso sul retro, chiudersi nel secondo bagno, spogliarsi e
aspettare il segnale convenuto… il grido che la signora Clark avrebbe emesso durante la trance.
Henrietta aveva calcolato che dall’inizio alla fine tutta la rappresentazione, entrare, spogliarsi, apparire,
rivestirsi e andarsene, non avrebbe preso a Justina più di un’ora. Come pagamento dei suoi servigi, la
giovane aveva ricevuto cure dentistiche per almeno cento dollari, oltre alla cena e alla tariffa di due taxi,
uno per venire lì e uno per tornare a casa.
Non era previsto che arrivasse prima delle dieci, per cui, visto che quella sera Macy’s era aperto fino alle
nove, dopo cena se ne andò sulla Trentaduesima Avenue a comperarsi un golf. Andando a casa in taxi,
la signora Clark chiuse gli occhi. Aveva condotto sedute spiritiche di quel genere dozzine di volte, ma
ciascuna di esse le presentava un rinnovato motivo di paura, in particolare quando vi era coinvolta una
persona nuova. Si paragonava mentalmente a un regista teatrale alla prima. Anche se aveva ogni sorta di
autogiustificazioni, la sua coscienza non era mai limpida. Certo, non aveva mai tratto alcun vantaggio
materiale dai suoi inganni. Al contrario, quelle rappresentazioni le costavano sempre denaro, disagio e
ansia. C’era sempre il pericolo che qualcosa andasse storto e lei si esponesse a onta e irrisione. Chissà.
Avrebbe persino potuto esporsi a un processo. I giudici erano molto severi a proposito dei medium,
anche se Dio soltanto sapeva quanto poco male facessero. Ma la signora Clark non riusciva a decidersi a
smettere. Il suo destino in questa vita era sempre incontrare gente debole, infelice, persa; avevano tutti
bisogno di aiuto. Come conosceva per esperienza personale la pena di coloro cui trapanava i denti allo
stesso titolo capiva i dolori, i dubbi, l’angoscia di chi ha perso le persone più intime e cerca un contatto,
un segno che i suoi cari e il loro amore sono ancora vivi da qualche parte. Un tempo cercava di evocare
gli spiriti in un modo onesto, attraverso una trance autentica, ma i successi erano stati pochi e molto
distanziati. Invecchiando le era risultato sempre più difficile concentrarsi, liberarsi di tutti i pensieri
estranei, unirsi con i poteri trascendenti. Ma in compenso, più invecchiava, più anelava lei stessa a quel
tipo di rappresentazione. Dio del cielo, era l’unico piacere della sua vita! Era il suo sesso, il suo liquore,
il suo oppio.
Spesso cadeva in una autentica trance o stato di autoipnosi. Sia da sveglia sia in sogno aveva apparizioni:
vedeva visi, luci, figure.
Verità e illusione si confondevano a un punto tale che non sapeva più nemmeno lei stessa dove
cominciava una e finiva l’altra. Inoltre non aveva mai personalmente abbandonato la speranza di
prendere contatto con Edwin, il suo defunto marito, e con genitori, fratelli, sorelle morti.
Non appena chiudeva gli occhi, comparivano tutti nelle sue visioni, vivi nel corpo e così vividi e
immediati da sembrare che fossero sempre rimasti nascosti, in attesa del momento adatto per rivelarsi.
Il taxi si fermò a un semaforo e Henrietta Clark si lasciò sfuggire un sospiro. Non era più giovane,
aveva sessantacinque anni, ma era a quell’età che aveva conseguito un’energia mai conosciuta prima.
Forza e creatività le sgorgavano nell’intimo. Avrebbe voluto fare tutto insieme: dipingere, scolpire,
scrivere, suonare il piano… tutto automaticamente, in trance. Anelava a confortare la gente, ad aiutarla,
a darle nuova speranza, nuova fede in Dio, nello spirito, nel ruolo dell’uomo nel Creato. Non dormiva
mai più di quattro ore per notte, e spesso nemmeno quelle, e anche il sonno era pieno di drammi divini,
zeppo di misteri che si possono soltanto avvertire, non comprendere e certamente non descrivere. Le
venivano inviate pubblicazioni, che però rimanevano intonse; le arrivavano a casa libri sull’occulto, che
però non aveva tempo di leggere. Era invitata a ogni sorta di simposi da eminenti ricercatori psichici,
ma non aveva voglia di intervenire nemmeno a una piccola parte di essi. Nei primissimi anni del suo
rapporto stretto con il professor Shrage sperava di essersi procurata almeno un compagno, un
esploratore, un padre spirituale. Non era una persona insignificante, questo David Shrage! Il suo nome
era citato con rispetto in tutte le principali pubblicazioni dedite alla ricerca psichica. Era stato invitato a
tenere conferenze alla Duke University. Riceveva lettere dalla Società britannica per la ricerca psichica.
Era in corrispondenza con grandi e famosi personaggi. Ma nonostante tutto questo l’aveva fortemente
delusa. Invece di avvicinarsi a lei, si era ritratto sempre più in se stesso, aveva smesso di credere nei suoi
«messaggi» e derideva quasi apertamente i suoi dipinti, le sue melodie. In realtà era un suo nemico.
Mentre lei lo manteneva, aiutava, gli faceva persino massaggi per alleviargli l’artrite, lui le aveva
addirittura, Dio lo perdonasse, fatto avance fisiche, come se fossero entrambi giovani. Tutto era
perduto, quell’uomo aveva gettato nel tombino la loro amicizia. Ma non poteva buttarlo fuori e
interrompere ogni contatto con lui. Sapeva perfettamente bene che senza di lei sarebbe morto. Lì in
America non aveva né soldi né parenti. Era mezzo cieco. Buttar fuori una persona così significava
condannarla a morte. Inoltre era piacevole tornare a casa di sera e trovare un uomo ad aspettarla, non
soltanto un essere con naso, occhi e orecchi, ma un uomo di profonda cultura, un pensatore intenso,
uno dei più grandi ricercatori psichici contemporanei, che soltanto future generazioni avrebbero
apprezzato. Anche quando si faceva acido, si abbandonava a intolleranza, capziosità e ribellione, un
uomo del genere rimaneva infinitamente preferibile ai razionalisti, quelli dalla mente pratica, che non
volevano nemmeno ammettere la possibilità che oltre a quello corporeo esistono anche mondi eterei,
astrali, di luce, un vasto oceano spirituale. In ultima istanza, se non altro, con una persona così non si
annoiava mai. Il taxi si fermò fuori del suo appartamento, e lei pagò la corsa, lasciando un quarto di
dollaro di mancia al conducente. Si facesse un bicchiere di brandy o qualsiasi cosa gli andasse. Smontare
non le fu facile. Il suo corpo era pesante. Aveva vene varicose nelle gambe a furia di rimanere in piedi
tutto il giorno.
Ma nell’intimo l’energia ribolliva, si increspava e traboccava. Salì e aprì la porta con la chiave. Grazie a
Dio, il lavoro per quel giorno era finito. Da quel momento fino all’indomani mattina poteva fare la sua
vita. Accese la luce e appese il cappotto nell’armadio. Aveva ordinato qualcosa da mangiare per
telefono. Né lei né il professore consumavano carne, nutrendosi invece di formaggio, noci, frutta,
verdura e ogni sorta di cereali e cracker presi in una bottega di «alimenti naturali.» Ma perché negarlo?
Quando era invitato a cena da Boris Makaver, il professore mangiava carne. Se non altro, però, né carne
né pesce le insudiciavano la casa. La signora Clark era fermamente convinta che il fatto che il professor
Shrage si stesse facendo sempre più fragile e depresso dipendeva proprio dal fatto che mangiava carne.
Come si può essere sani quando la si consuma e ci si riempie di protoplasma morto, di succhi e sangue
di creature inferiori? Come si può sperare nella grazia di Dio se si da una mano a uccidere i viventi e si
privano le anime del loro corpo? Personalmente era persino convinta che si dovesse smettere di
mangiare anche formaggio, latte e uova. Si considerava niente più di una semivegetariana, perché
indirettamente dava il suo contributo agli scannatori rituali, ai macellai. Era forse per quel motivo che
veniva trattata così ingenerosamente dai poteri celesti, e le veniva mostrata così poca luce divina.
Henrietta era seduta al tavolo della cucina a guardare il professor Shrage che consumava la sua cena.
Se non ci fosse stata quella che aveva fatto quella sera con Justina, lei sarebbe tornata a casa affamata,
come sempre. Lui, invece, non aveva mai fame né sete. Lei gli aveva messo davanti un toast, ma era
ancora lì. Gli aveva fatto una dentiera, ma lui la teneva in un cassetto. Non riusciva nemmeno a
terminare un bicchiere di té. Ne prendeva piccoli sorsi intermittenti, ma non ne mandava giù nemmeno
mezzo bicchiere.
Continuava a tirarsi la barbetta bianca e a sospirare. «Questa sera lei vedrà qualcosa», buttò là la signora
Clark. «Lo sento. Mentre ero seduta in taxi ho avvertito la presenza di Mudgy.» Mudgy era il «controllo»
della signora, il suo spirito guida. Il professor Shrage inarcò i sopraccigli. «Bene.»
«Lo so che lei non crede», attaccò Henrietta, esprimendosi in parte con passione e in parte con
irritazione, «ma anche il faraone si rifiutava di credere, persino quando Mosè ha trasformato il suo
bastone in un serpente davanti ai suoi occhi.»
«Hmmm.»
«Le dirò una cosa: se Edzhe le si manifesterà, si ricordi che sarà uno spirito, non un corpo. Non sia
troppo esigente. Non faccia troppe domande. Ogni istante che uno spirito trascorre in rivelazione
terrena mi porta via la forza. Alla mia età, una trance troppo profonda è estremamente penosa.
Non si comporti in maniera smodata.» Il professore si riscosse. «In che lingua le devo parlare?»
«Parli la sua. In che lingua parlavate tra voi?»
«In polacco.»
«E allora parli in polacco.» Il professore si piegò su se stesso come gli fosse venuto un improvviso
crampo allo stomaco. Carico di apprensione, le scoccò un’occhiata in tralice. Era possibile che uno
spirito si materializzasse in un modo che gli rendesse possibile riassumere il suo corpo di un tempo?
Henrietta possedeva davvero quei poteri? Era davvero stato ordinato che alla sua età avanzata, immerso
nella più profonda palude di dubbio, gli fosse concesso un barlume di fede? Col passare degli anni
Henrietta aveva continuato a rimandare. Aveva fatto promesse che poi non aveva mantenuto, trasmesso
«messaggi» pieni di contraddizioni, dipinto ritratti che non avevano alcuna rassomiglianza con nessuno
che lui conoscesse. A parte le poche occasioni in cui si era manifestata sua nipote, Henrietta non era
mai riuscita a evocare alcuna altra forma.
Pretendeva sempre che la seduta spiritica avesse luogo nel buio totale.
Si rifiutava di consentire che fosse accesa anche soltanto una luce rossa. La tromba, il piano che
suonava da solo, le mani sospese nell’aria erano tutti trucchi già smascherati molte volte. Il professor
Shrage aveva bell’e accettato l’idea che tutti i medium fossero bugiardi. Se avevano successo anche una
volta sola, la verità era comunque persa nella falsità. Aveva sbugiardato persino l’eminente Klutski, la
cui anima adesso era presso Dio. Eccettuata Leonora Piper, erano tutti imbroglioni della più bella tacca,
anche la Paladino, anche le sorelle Fox, Catherine e Margaret, anche il grande Haum. Le fotografie che
si sosteneva scattate a spiriti erano tutte falsificazioni da quattro soldi. Il cosiddetto ectoplasma era fatto
di tela, carta, gomma. Nel corso degli ultimi anni il professore si era dedicato esclusivamente agli eventi
spontanei: sogni che si avverano, casi di telepatia, chiaroveggenza, fantasmi dei viventi. Si interessava in
particolare alle letture di carte di Shackleton oltre che ai miracoli di Keysey, il medico capace di fare
meraviglie, e a Henry Cross, il «profeta dell’acqua.» E adesso di punto in bianco, alla faccia di tutti i suoi
trascorsi fallimenti, Henrietta menava vanto di aver acquisito nuovi poteri extrasensoriali. Avrebbe fatto
venire a lui Edzhe. Aveva persino promesso a Stanislaw Luria che avrebbe evocato la sua defunta
moglie, Sonia, arsa chissà dove nei pozzi di calce di Hitler. Lo stesso Luria sarebbe arrivato lì molto
presto. Vedremo, vedremo, mormorò qualcosa nel suo intimo. Nessuno potrebbe impersonare
falsamente Edzhe e imbrogliarmi. Sarà il test definitivo. Sebbene non avesse mangiato quasi niente,
aveva i crampi allo stomaco, era pieno di nausea e aveva avvertito diverse volte un dolore acuto al cuore.
Spero di non morire adesso… che almeno sopravviva a questa notte! pregò. Da sotto i sopraccigli gettò
un’occhiata furtiva a Henrietta. La conosco, pensò, eppure per me rimane un’estranea. Non era mai
riuscito a capire i suoi procedimenti mentali, le sue emozioni, i suoi intenti. La sua finezza si mescolava
a rozzezza, la sua devozione a egoismo. Nel bel mezzo di una discussione sulle questioni più elevate
mostrava di punto in bianco un profondo interesse per le occasioni che si potevano trovare nei grandi
magazzini. Aveva una proprietà terriera chissà dove, comperava azioni a Wall Street, era continuamente
lì a ossessionare il padrone di casa perché imbiancasse le pareti, istallasse una stufa a gas, sostituisse il
frigorifero. Si precipitava anche a vedere spettacoli idioti al cinema e ascoltava ogni sorta di chiacchiere
frivole alla radio. Com’era possibile che simili inclinazioni terrene coesistessero in armonia con poteri
straordinari, ultramondani? Era uno degli innumerevoli enigmi che il professore non riusciva a risolvere.
Per converso, però, tutto ciò in un modo o nell’altro quadrava. Tutti i medium, tutti coloro ai quali la
natura aveva concesso il dono della sensitività, erano più o meno uguali. Non erano forse così anche i
grandi artisti? Era tipico della natura umana, in cui la grandezza si accompagnava intimamente alla
meschinità. Avevano ragione i cabbalisti ad affermare che questo è un mondo di spiriti del male.
Essendo questo un mondo di contaminazione, la purezza non ha alcun valore; tutta la missione del
genere umano è raschiar fuori perle dal sudiciume. Una virtù non insozzata l’avremo soltanto nel
Mondo a Venire… presto, se Dio vuole. «Sono già le otto e mezzo. Quando sarebbe dovuto arrivare il
signor Luria?» chiese Henrietta. Il professor Shrage si riscosse, come se si fosse appisolato e fosse stato
svegliato di soprassalto. «Dovrebbe essere qui presto.»
«Che abbia paura? C’è tanta gente così… desiderano moltissimo l’esperienza, ma all’ultimo momento ci
ripensano. Hanno paura a guardare la verità in faccia.»
«Ha detto che sarebbe venuto.»
«Be’, se viene, okay. Gli si sieda accanto e si accerti che non faccia qualche stupidaggine. Non consenta
che parli troppo o che cerchi di afferrarla o abbracciarla. Sarebbe pericoloso per lui come per me…
potrei morire stremata. Tutto ciò deriverà unicamente dalla mia forza.»
«Glielo dirò.»
«La gente non capisce semplicemente che c’è una grossa differenza tra carne e spirito», osservò la
signora Clark con una certa amarezza. «Non si può abbracciare uno spirito… un corpo astrale non è
fatto di carne e sangue. Per loro, rivelarsi è un’impresa di immensa difficoltà.
Ottengono il permesso soltanto per un paio di minuti, e soltanto nelle occasioni più rare. Una poderosa
barriera separa il Qui dal Là, e soltanto occasionalmente nella parete si apre un pertugio. Ci sono alcuni
pazzi che cercano di accendere una lampada durante una seduta spiritica. Pensano di essere furbi, ma in
realtà si mettono in grave pericolo, e per il medium è la morte sicura. Quindi stia all’erta e tenga
d’occhio anche lui. Siederete entrambi sul divano, e non lo lasci alzare. Gli si attacchi al braccio. Se
vuole toccarla, ne basta uno. Se chiede il permesso di violare queste regole, mi faccia un segno e lo
fermerò in tempo.»
«Tutto questo glielo ha già spiegato l’ultima volta.»
«Sì, ma ci sono persone che non ascoltano mai. Se il suo amico di Varsavia è indisciplinato, mi rifiuto
categoricamente di averlo in casa mia.» Proprio mentre la signora Clark pronunciava il suo ultimatum, si
sentì una scampanellata all’ingresso principale. Era Stanislaw Luria.
La signora Clark si alzò e aprì la porta, ed eccolo lì davanti a lei, basso, corpulento, con un antiquato
cappotto di pelliccia europeo, gli occhi oppressi da sopraccigli cespugliosi. Che bestione goffo, pensò
Henrietta. Spero soltanto che non mandi all’aria tutto! Ma a voce alta disse: «E’ un po’ in ritardo, signor
Luria. Ma non è mai troppo tardi per vedere la verità.»
«Sono soltanto le nove meno dieci.»
«Entri. Si tolga le calosce. Appenda il cappotto qui, sull’attaccapanni del corridoio.
Gradirebbe qualcosa per cena?»
«No, grazie, ho mangiato.»
«Non è bene assumere liquore prima di una seduta, ma se vuole può berne un goccio.»
«No, grazie.»
«Professore, ecco il signor Luria. Be’, tutti e due, venite con me nel soggiorno.» Il professore si alzò dal
tavolo della cucina e uscì nel corridoio. «Buonasera, buonasera!» salutò tendendo una mano minuscola,
che Luria prese nella sua zampaccia. Di solito era calda, invece quella sera era fredda e umida. «Ah,
com’è fredda la sua mano!»
«Fuori è gelato», rispose Luria in tono difensivo.
Il soggiorno non aveva porta, ma vi si accedeva per un arco che vi dava dal corridoio. Dentro era accesa
una sola lampada a stelo. Una tavola Ouija occupava quasi tutto un tavolino. Tutte le pareti erano
coperte dai dipinti della signora Clark. Su una varietà di piedestalli erano posate sculture in stucco,
argilla e legno: forme simboliche senza volto, o al massimo con semplici accenni di lineamenti. Il divano
era coperto in velluto nero, ma ormai piuttosto frusto: qua e là il tessuto era persino strappato. Fino a
qualche tempo prima Henrietta aveva avuto un gatto persiano, che nel trascorrere degli anni aveva
sistematicamente rovinato tutti i mobili imbottiti. Poche settimane prima però questo gatto era «passato
dall’altra parte», come aveva detto Henrietta, che stava già ricevendo da lui messaggi di consolazione.
Anche al professore sembrava di sentirlo spesso miagolare, attaccarsi con gli artigli al divano e graffiare
sulla porta della sua camera. Ma era davvero possibile che il corpo astrale di un gatto potesse compiere
simili birbonate da felino? «Sedetevi tutti e due qui», disse la signora Clark indicando il divano. «Durante
la seduta non alzatevi, perché in quel modo interrompereste il mio contatto. Un filo di ectoplasma si
estende direttamente dalle mie narici alle forme che si rivelano. Ma presumendo che tutto vada bene,
potete fare domande e toccare la persona amata. Non garantisco mai niente a nessuno. Tutto dipende
da mille circostanze.
Ricordate che la luce è del tutto rovinosa, non soltanto per il buon risultato dell’impresa ma anche per
me e per voi. Fino a quando dura la seduta, non cercate di accendere un fiammifero né nient’altro. Se
avete qualche dubbio e volete limitare i movimenti del mio corpo, mi siederò accanto a voi. Se vuole,
può tenermi le mani e intrecciare le gambe con le mie, ma lo faccia con delicatezza, signor Luria, perché
lei ha un paio di gambacce pesanti, mentre le mie sono piccole e deboli. Non deve fare altro che
assicurarsi che io sia lì seduta vicino a lei e non stia facendo uno dei soliti trucchi che adottano le
medium fasulle. E’ chiaro?»
«Sì», rispose Luria con voce rauca. «Devo darle un altro avvertimento. C’è gente che davanti a una
manifestazione si terrorizza e diventa isterica. E’ una cosa sbagliata e stupida. Chi è passato dall’altra
parte si trova in una Sfera di Misericordia, e non farà niente di male. Certo, ci sono anche spiriti maligni,
come i poltergeist, ma anche a essi è proibito fare alcun dispetto grave. E non dobbiamo certamente
aver paura di chi in vita ci è stato prezioso e caro. Pregano e intercedono per noi. Uno spesso muro
separa il Qui dal Là, ma quando è loro consentito stabilire un contatto per breve tempo, non vi è
assolutamente alcun motivo di temere. Gli spiriti non desiderano che amore e simpatia… non amore
del corpo, ovviamente, soltanto dell’anima. Se desiderate toccare le vostre amate mogli, fatelo, ma con
dignità, con una carezza delicata o un bacio. Perché stringere con le vostre rozze mani ciò che non ha
sostanza terrena ed è composto di materia ultramondana? Mi ha capito, signor Luria?»
«Sì, sì.» Ah, ah, è già paralizzato dalla paura, annotò mentalmente la signora Clark. Era pratica di
situazioni del genere. Seduto, teso e tremante, Luria non riusciva quasi a parlare. Purché non gli venga
un infarto! implorò Henrietta rivolta alle forze superne, pur facendosi nel contempo profondamente
attenta. Aveva preparato tutto in un modo tale che non avrebbero sentito la porta secondaria aprirsi; ne
aveva oliato la serratura e i cardini, e steso tappeti doppi sul percorso verso il secondo bagno. Dal suo
canto, però, stava attenta a cogliere il benché minimo fruscio, dal momento che non poteva cominciare
la seduta spiritica finché non fosse arrivata l’attrice polacca. Non si poteva mai essere sicuri: sarebbe
potuto capitare un incidente sia al taxi sia a Justina. La signora Clark gettò un’occhiata all’orologio da
polso e disse: «Non sorprendetevi se sembrerò essere svenuta, nemmeno se sembrassi morta. Io cado
in trance, ma il mio controllo mi fa addormentare profondamente prima che io possa essere liberata.
Non c’è il minimo motivo per preoccuparsi. A volte, mentre sono in trance mi metto a gridare, ma non
lasciatevi impressionare. La cosa più importante è che vi accertiate che io rimanga seduta vicina a voi e
non cerchi di allungare un piede o una mano, come fanno sempre le ciarlatane. Ho partecipato ad
abbastanza sedute per essere in grado di distinguere tra vero e falso. La mia regola fondamentale è che
ogni volta che la medium si aspetta di ricevere soldi o regali, non ci si può fidare di lei, perché chi vuole
sinceramente essere di aiuto agli altri non chiede ricompense di alcun genere. Il premio più alto viene
loro dal fatto di essere gli umili strumenti per risvegliare nei loro fratelli e sorelle nuova speranza, nuova
fede, nuova gioia. A volte durante una seduta suona il telefono. Lasciate perdere. Lo stesso vale se arriva
alla porta qualcuno. Una seduta spiritica non è un gioco che si possa interrompere.» Con mossa
sorprendentemente improvvisa, la signora Clark si precipitò alla lampada a stelo, la spense, e cominciò
immediatamente a battere i piedi e a cantare un inno con una voce stridula e forte da soprano lirico
mancato. Aveva sentito aprirsi la porta secondaria.
Avvicinatasi al divano, diede i suoi ordini: «Distanziatevi. Mi siederò tra voi. Tenetemi le mani. Se ce la
fa, signor Luria, mi aiuti con il canto, anche se non è assolutamente necessario. Ecco la mia mano. Ah,
la sua è ghiacciata. Ma non importa, se la scalderà nella mia. Ripeto, non c’è assolutamente alcun motivo
di timore o inquietudine. Sento che Mudgy arriverà presto. Cadrò in trance. Ah, mi sento già diventare
pesante la testa. Non sorprendetevi se la mia voce cambia. Dio Onnipotente, aiutami! Aiutaci! Aiutaci a
stabilire un contatto con chi ci protegge con l’amore più elevato. Aiutaci, Dio, a unirci per un breve
istante con le anime sante, i santi martiri che hanno sacrificato la vita per Te.
Aiutaci, Dio, accetta la nostra preghiera. Illuminaci con la Tua luce, immergici nel Tuo fulgore, nella Tua
coscienza cosmica, con il Tuo Essere Assoluto, con gli spiriti ricercatori del Tuo trono, con la purezza
di cherubini e serafini, con lo splendore di Saturno e Latona, Apollo e Artemide, Vulcano e Venere. Dio
di Mosè, Dio dei Profeti, Dio del Redentore Gesù Cristo, Dio di cielo e terra, di paradiso e
purgatorio…» E di punto in bianco sbottò a cantare: Consunto e fragile un vecchio si incurvava, dalla
cerca del Santo Graal tornava: poco contava aver perso la contea, più sulla cotta la Croce non avea Ma
nel fondo del cuore il segno era evidente l’emblema del povero e del sofferente. Dopo l’ultima parola,
Henrietta Clark esplose un rumoroso sboffo e un forte gemito. La trance era cominciata. Il professor
Shrage faceva le domande e la signora Clark, nella persona di Mudgy, rispondeva. Dalla sua bocca
usciva una voce mascolina con un altro accento. Stanislaw Luria ascoltava intento. Henrietta usava
espressioni da bostoniana, mentre l’inflessione e la pronuncia di Mudgy erano da indiano o
sudamericano. Parlava per frasi spezzate. Luria serrava la mano della signora Clark, che era calda,
persino bollente, ma la sua rimaneva fredda come ghiaccio. Il freddo sembrava arrivare dal suo intimo,
da un campo di gelo interiore. Il professore parlò, chiedendo in inglese: «E’ presente uno dei nostri
cari?»
«Vedo una donna», rispose la voce. «Di mezza età… no, più giovane. Una donna di trentacinque o
trentasei anni. Bionda… no, bruna. Una donna dall’aria materna, un po’ grassoccia, con un petto
piuttosto alto. Mi sta dicendo il suo nome ma non lo sento con chiarezza. Qualcosa tipo Runya, Donya.
No, Sonia. Sì, Sonia. E’ morta nel ‘42… no, nel ‘43. E’ qui con i figli. Due figli. La prima è una ragazza,
e anche l’altra. O è un ragazzo? Sì, ragazzo. Sonia dice che è felice. Ha incontrato i genitori e tutti gli
altri membri della sua famiglia e si è unita a loro. Le ultime sofferenze del corpo si sono completamente
cancellate dalla memoria. Dice che ha nostalgia del marito, Stanislaw Luria, e lo protegge con
attenzione. Lei e le altre anime hanno visto e perdonato tutto. Ma la donna cui è attualmente unito non
è degna di lui. Non vuole e non può essere la sua compagna. E’ troppo egoista. Sonia dice che non è
gelosa… nell’altro mondo non esiste invidia di sorta. Però quella donna non fa per lui. E bene che si sia
separato da lei. Al momento la cosa gli provoca una certa pena, ma più avanti si libererà dal suo
malefico influsso, e allora vedrà con chiarezza. «Sonia dice che i figli parlano ogni giorno del padre.
Sono cresciuti e studiano… non in una scuola come sulla terra ma attraverso la telepatia: le lezioni degli
insegnanti vengono trasmesse direttamente agli allievi. Il mezzo di comunicazione è il pensiero, e ciò
che si gusta maggiormente sono i pensieri. Li si mangia. Li si beve. Servono da indumenti.
Sonia dice che la vita nel Mondo Superiore è più facile, più confortevole e più positiva. Ma soprattutto
non esiste il tempo, e non lo si spreca in attività superflue. Anche se non splende il sole, vi è una luce
perpetua… una specie di eterno tramonto, un crepuscolo purpureo accompagnato da una musica che
sulla terra non si sente né conosce, un’armonia pura, inviolabile. «Sonia dice che farà tutto il possibile
per rivelarsi, ma desidera che suo marito rimanga tranquillo. Il modo com’è agitato la turba. Deve
respirare regolarmente e non piangere. Le lacrime sono superflue, essendo mera acqua salata, un fluido
del tutto corporeo. Nel Mondo Superiore non si conoscono né riso né lacrime… vi domina unicamente
una gioia di purissima lega. Sonia dice che lei e i figli non hanno ancora trovato una sistemazione
definitiva, poiché sopravviene regolarmente qualche cambiamento. Le anime arrivate prima vengono
elevate a livelli più alti e trasportate in altre sfere, mentre altre anime ne prendono il posto. Nondimeno
alcune di esse, dotate di qualità pedagogiche, vengono lasciate lì per insegnare alle nuove arrivate, alcune
delle quali sono così immature e confuse da non capire nemmeno di essere passate dall’altra parte, per
cui vanno istruite su ogni cosa dall’inizio. Ma, essendo tutte desiderose di apprendere, nessuna di esse
rimane indietro a lungo. Sonia dice che dov’è adesso ha subito un’immensa evoluzione spirituale e che
si trova spesso a conversare con i figli di elevati argomenti filosofici o teologici. «Quassù, dice, la fede
non è settaria: ebrei, protestanti, cattolici, buddisti e musulmani si riuniscono tutti in letizia a discutere i
problemi comuni. Qui Sonia ha fatto la conoscenza di Rabindranath Tagore e di diversi filosofi più
giovani, morti durante la seconda guerra mondiale. Rivela che Bertrand Russell continua a commettere
profondi errori, e che tutte le sue teorie sono false. Anche Einstein ha sbagliato nei suoi calcoli, e la
bomba atomica ha prodotto un danno incalcolabile. In genere, spiega Sonia, il processo di
consolidamento nel Mondo Superiore è piuttosto rilassante, dal momento che la maggior parte dei
Maestri della Gerarchia distolgono la loro sorveglianza dall’Ashram di Shambhala per orientarsi di più
verso l’umanità. Al tempo stesso, una vigorosa minoranza di Maestri si impegna nell’Ashram di Sanat
Kumara. In altre parole, attività che fino a poco tempo fa appartenevano agli Ashram uniti, adesso sono
state prese in carico da un certo numero di Maestri.» Di punto in bianco la voce gridò: «Ella viene! Ella
viene! Sonia si rivela! Spirito luminoso!» Stanislaw Luria lasciò andare la mano di Henrietta e si staccò
da lei di scatto come se volesse scappare, ma lei tornò ad afferrargli la mano e premette la scarpa sulla
sua. Rimasero entrambi a sedere per un bel po’ in silenzio al buio. Luria gemeva e si torceva, piegato in
due come se soffrisse di tremendi crampi. Con la sua mano ossuta il professore serrava con tale forza il
polso di Henrietta che lei faticò a trattenersi dal gridare per il dolore. Accompagnati da una successione
di lievi rumori fruscianti, si sentirono avvicinarsi passi silenziosi.
Comparve una figura bianca, apparentemente emersa dal nulla, che rimase immobile in un punto sotto
forma di coesa caligine chiara in cui attraverso il buio si distinguevano vagamente le sfocature dei cavi
oculari. Henrietta esplose due ansiti convulsi e la figura si fece più vicina, mormorando in polacco:
«Staszu, kochanie moje. Stash, mio caro.» Stanislaw Luria taceva come se fosse morto. «Staszu, toja,
Sonia. Stash, sono io, Sonia», insistette la figura con dolcezza. Luria si fece ancora più indietro sul
divano, mentre il sordo sferragliare delle molle testimoniava della sua agitazione. «Staszu, nie bòj si%.
Toja, Soma.
Kocham ci%. Tqskinq za tobq. Non avere paura, Stash. Sono io, Sonia. Ti amo. Ho nostalgia di te.»
Luria esplose il grido di pena di un muto che cerca disperatamente di parlare. «Tu! Tu!»
«Tak, to ja, twoja wieczna zona. Sì, sono io, tua moglie in eterno.» La figura si chinò verso di lui, lo
accarezzò, gli premette le labbra sulla fronte. Henrietta si era preoccupata inutilmente che Stanislaw
Luria potesse abbracciare l’apparizione, accendere la luce o fare un gesto avventato. Sedeva lì
paralizzato dal terrore limitandosi a esalare di quando in quando uno sboffo sfiatato, quasi stesse
dormendo da sveglio. Nel buio il professore afferrò il polso di Henrietta e cercò di capire che cosa
stesse succedendo. Aveva prezzolato una impostora che parlava il polacco? Ma non si era sentito entrare
nessuno. E a quale scopo Henrietta si sarebbe impegolata in un simile raggiro? Trovò la forza di
allungare la mano libera per cercar di toccare l’apparizione, ma era troppo lontana. Cercò di alzarsi, ma
le ginocchia cedettero sotto di lui, e Henrietta lo schiacciò praticamente nell’angolo del divano. Be’, è
finita… ormai non scoprirò più la verità, pensò il professor Shrage.
Se non riesco a farlo adesso, non ci riuscirò mai più. E’ troppo tardi.
Troppo tardi. Non sudava spesso, ma adesso la sua mano era bagnata di sudore. Prese a tremare
violentemente, e tutto il divano si mise a traballare per la furia del tremito che lo aveva preso. Chiamò di
nuovo a raccolta le forze e chiese: «Panie Luria, riconosce sua moglie?» Luria non diede risposta.
Avvertendo che stava consumando le ultime energie, il professore fece un altro sforzo: «Gnedige Frau,
posso chiedere una cosa?» La figura fece un gesto di assenso. «L’onorevole signora conosce per caso
mia moglie? Si chiama Edzhe… Edzhe Shrage. E’ stata assassinata nel ‘43.» E di punto in bianco il
professore scoppiò in singhiozzi. Henrietta esplose una serie di sospiri angosciati. «Sì, la conosco»,
rispose la figura. «Dov’è?»
«In cielo. Con me.»
«Un segno, un segno!» ansimò il professore, sbalordito lui stesso di aver ritenuto necessario chiedere
una prova. «Sarà presto qui lei stessa», rispose la voce eterea dopo una pausa. La figura stava
cominciando ad aleggiare a ritroso, quando la silenziosità del suo movimento fu rotta da un fracasso
discordante e da un tonfo sordo, l’inequivocabile rumore di un corpo umano che sbatte in una porta o
una parete. Henrietta prese a ululare come una sonnambula risvegliata bruscamente mentre camminava
nel sonno. Cominciò a torcersi, liberandosi a forza dai due uomini che la trattenevano, strusciando e
battendo i piedi, emettendo uno strillo lacerante e svegliandosi dalla trance. «Dove sono? Che cosa è
successo?» chiese. Stanislaw Luria non riuscì a rispondere. Era in preda alla stupefacente sensazione che
qualcosa gli avesse afferrato il cuore e lo stesse strizzando con tutte le forze. Non riusciva a riprendere il
respiro e gli sembrava di star soffocando. Le gengive vuote del professore sbattevano. «Dove sono? Che
cosa è successo?» ripetè Henrietta. «Devo accendere le luci?» balbettò il professore. «No! No!
Dio ne scampi!» E Henrietta cominciò a cantare freneticamente un altro inno a voce spiegata. Tra una
nota e l’altra ascoltava con la massima attenzione. Il colpo che aveva sentito prima era stato una
catastrofe.
Una cosa che aveva temuto tutta la sera. Chissà che cosa si era fatta quella donna. Adesso non sapeva
assolutamente più come procedere: concludere la seduta spiritica? Cadere di nuovo in trance? Aveva
commesso un grave sbaglio: non avrebbe mai dovuto uscirne. Avrebbe dovuto far segno alla giovane di
tornare lì di nuovo, questa volta nella parte di Edzhe. Ma quel colpo aveva mandato all’aria tutto. La
cosa migliore sarebbe che Justina si rivestisse e se ne andasse, pensò, e, dopo aver deciso di tornare
immediatamente in trance, esplose un gorgoglio e fece sentire di nuovo la voce mascolina di Mudgy:
«Edzhe questa sera non può venire!» gridò. «Perché no?» chiese timorosamente il professore. «Le hanno
negato il permesso. Non questa sera. Non questa sera. Un’altra volta. Molto presto. Però Edzhe manda
i suoi saluti. Con molto calore. Adesso farà conoscenza meglio con Sonia. La stretta cerchia di coloro
che sono qui riuniti si stringerà ulteriormente. Sempre più vicini. Adesso Sonia deve andarsene.
Andarsene.» Henrietta parlava a voce molto alta, in modo che l’imbranata mercenaria potesse sentirla
dal bagno, e al tempo stesso per coprire qualsiasi rumore potesse uscirne.
Piena di irritazione e risentimento, le venne voglia di piangere.
Justina non sarebbe mai dovuta andare a sbattere così goffamente. Aveva più che il tempo necessario
per ritirarsi lentamente senza sbattere contro la porta come una ladra! Era un’incapace totale! Macché
attrice… era un blocco di legno! Nella sua disperazione Henrietta si permise questo pensiero negativo.
Poi, terrorizzata che qualcuno potesse accendere le luci, si mise a pregare stentoreamente con la voce di
Mudgy: «Sta calando una grande ondata di ispirazione. L’evoluzione divina sta iniziando una nuova
epoca. Stanno scendendo i Maestri, i Figli della Sapienza. Bandiranno il Drago e soffonderanno di Luce
il mondo. Molti di essi hanno mogli e figli. La Legge della Reincarnazione è eterna, eterna. Felici coloro
che servono il Divino. Felici coloro che vivranno perpetuamente nel Cielo della Grande Coscienza, nel
Sacro Logos nel fulgore di Cristo il Redentore!» Poi tacque un attimo, ascoltando intenta. Quella era
ancora lì? O se n’era andata? Si sentì travolgere da una straordinaria ondata di paura, mista ad acuta
vergogna. Quella giovane avrebbe potuto rubare qualcosa, Dio ne scampi! No, non ho più forza da
dedicare a queste cose, decise. Ho vissuto abbastanza per gli altri. Sono stanca, stanca. Basta basta!
Padre del cielo, prendimi! E Henrietta crollò in una crisi di pianto.
CAPITOLO 12.
Ogni Pasqua Boris preparava un Seder, ma quest’anno, visto che Frieda era diventata sua moglie, era
fermamente deciso a tenerne uno che sarebbe stato ricordato. Però c’era il problema di chi invitare. In
passato era sempre Anna a porre le Quattro Domande, e Grein era sempre stato ospite. Ma adesso i
due si erano staccati dalle loro radici. Anche Stanislaw Luria aveva fatto sapere che non sarebbe
intervenuto. Boris avrebbe voluto invitare il pittore, Jacob Anfang, ma Frieda aveva lasciato capire che
era forse meglio non farlo. Quindi rimanevano soltanto quattro ospiti possibili: il dottor Halperin, ora
cognato del padrone di casa, il professor Shrage, il dottor Margolin e Herman, il nipote di Boris. Se non
fosse stato comunista, Boris gli avrebbe consentito di essere lui a porre le Quattro Domande, ma così
stando le cose, l’organizzatore del festeggiamento non aveva nessuna voglia che un discepolo di Stalin
gli chiedesse alcunché. Quindi, per avere un po’ più di gente al suo Seder, Boris invitò il dottor
Alswanger, il controverso studioso venuto dalla Palestina. Il dottor Halperin protestò che era un’onta
sedere allo stesso tavolo con una persona così pretenziosa. Ne aveva sentito parlare anche il dottor
Margolin, sostenendo che si trattava di un dilettante.
Ma, a parte il fatto che a Boris piaceva molto ascoltare persone colte dibattere e litigare tra loro, a New
York il dottor Alswanger era completamente perso e privo di amici, per cui non se ne parlava nemmeno
di negargli ospitalità ebraica e compagnia in una Festività Importante.
Chi leggeva la stampa yiddish e anche gli abbonati alle pubblicazioni ebraiche e anglo–ebraiche avevano
sentito parlare più volte di Immanuel Alswanger. Per qualche tempo era stato docente presso
l’Università Ebraica a Monte Scopus, ma in seguito a un intrigo era stato buttato fuori, dopo di che
aveva accusato i «tedeschi» di avere messo le mani sull’università e di discriminare nei confronti degli
ebrei polacchi.
Aveva anche scritto una specie di dramma biblico che era arrivato in fase molto avanzata di prove,
quando all’ultimo momento era sopravvenuto un intoppo ed era stato annullato. Il corrispondente dal
Medio Oriente di un giornale yiddish americano aveva pubblicato a New York un resoconto
dell’accaduto, attribuendo il disastro a ulteriori intrighi, questa volta da parte di una cricca di scrittori in
ebraico.
Ripartendo da capo, il dottor Alswanger aveva aperto a Tel Aviv un sanatorio per depressi. Praticava un
bizzarro misto di psicoanalisi e chassidismo, tentando di diventare una specie di rabbino facitore di
miracoli aggiornato ai tempi moderni. Ma anche il sanatorio si era rivelato un aborto come tutte le altre
iniziative del dottor Alswanger.
Una vecchia zitella lo aveva accusato pubblicamente di aver cercato di sedurla e di sottrarle i suoi soldi
con un raggiro. Il dottor Alswanger aveva replicato citandola per diffamazione, e tutto lo scandalo era
finito in tribunale. I giudici avevano deciso a suo favore, concedendogli il rimborso dei danni, ma i suoi
nemici si erano serviti dell’occasione per oltraggiarlo a parole e sulla stampa, denunciandolo come
ciarlatano, imbroglione e ladro. Il sanatorio aveva dovuto chiudere di lì a poco, e lui era rimasto
indebitato fino al collo. Avendo promesso di rimborsare tutto ciò che doveva e di riaprire il sanatorio,
era poi venuto in America in cerca dei mezzi per farlo. Ma la cattiva sorte lo aveva ostinatamente
seguito anche lì. Aveva raggiunto New York in nave, ma maligne cartoline dei suoi nemici lo avevano
preceduto per posta aerea. Arrivato a New York aveva indetto una conferenza stampa, ma nessun
giornalista si era dato la pena di farsi vedere. Aveva pagato annunci sui giornali, ma erano stati piazzati
in posizioni poco appariscenti, con il supplementare insulto di abbreviare il suo nome e scriverlo con
grafia errata. Aveva poi fatto conoscenza con Esther Hatelbach, una donna di grandissimo interesse,
una colta ex insegnante di famiglia eminente che abitava a Brighton Beach. Alswanger, vedovo, si era
innamorato di lei quasi al primo incontro e correvano già voci di matrimonio, quando di punto in
bianco Esther aveva annunciato che si apprestava a sposare un certo Morris Plotkin, un facoltoso ex
pellicciaio. Separandosi da lui Esther gli aveva detto: «Mi spiace molto, dottor Alswanger, ma sono
stanca di persone spirituali. Con il solo spirito, mio caro dottore, non si paga l’affitto.» Alswanger era
stato costretto a riconoscere che il fatto era innegabile. Aveva problemi a pagare il suo stesso affitto.
Abitava in un albergo downtown sulla Broadway, che costava soltanto tre dollari al giorno, ma quando
non si ha niente tre dollari sono una grossa cifra. Quindi adesso era in cerca di una camera ammobiliata
che potesse costargli meno, o magari di alloggio e pensione in cambio di lezioni di ebraico. Per il resto il
dottor Alswanger si dedicava totalmente al suo sistema di psicoanalisi, portandosi dietro lettere e ritagli
di giornale a testimonianza del fatto che in Palestina aveva aiutato moltissimi nevrotici sui quali nessun
altro metodo aveva avuto effetto. La sua terapia consisteva nello studiare ad alta voce con il malato;
discutevano leggende tradizionali, favole morali e scritti chassidici scelti, e li istruiva in tecniche per
costruirsi autodisciplina e forza di volontà. Tanto per cominciare, però, in quanto turista, in America
non gli era consentito procurarsi alcun impiego remunerativo. In secondo luogo, chi lo conosceva da
quelle parti? Aveva semplicemente una cattiva reputazione. Il fatto che Boris Makaver lo avesse
generosamente invitato al suo Seder, però, gli aveva dato rinnovata speranza. Si erano aperte nuove
possibilità. Forse avrebbe potuto incontrarvi qualche persona ricca e influente, o persino una donna che
trovasse attraente. Ma in America nessuno poteva andare a un Seder a mani vuote, senza qualche tipo di
regalo. Il gradito invito imponeva pertanto una spesa sgradita. Siccome il dottor Alswanger aveva una
chioma di capelli neri che portava alla polacca, basette e baffi dovevano essere spuntati, per cui andò da
un barbiere per farsi barba e capelli. Il suo abito da sera era stazzonato e aveva dovuto essere mandato a
stirare, dopo che lui stesso aveva eliminato una macchia sul lato destro del bavero con un intero flacone
di smacchiatore acquistato specificamente a quel fine. Da un fiorista aveva comperato un mazzo di rose
per la signora Makaver, ma le aveva ritirate troppo presto e aveva dovuto tenerle al fresco in un
bicchiere d’acqua nel lavandino.
L’inglese lo aveva imparato in Palestina e aveva persino letto Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde
in originale, ma lì in America non riusciva mai a farsi capire. Di conseguenza la sua permanenza nel
Paese lo aveva gettato in uno stato di meschinità mentale e depressione.
Si confondeva, si perdeva, sudava, balbettava, fissava le persone in faccia per assicurarsi che non
stessero ridendo di lui. Alla vigilia di Pasqua il clima si era di punto in bianco fatto di un caldo
soffocante come se fosse mezza estate, e l’abito gli pendeva addosso come un peso morto. Nondimeno
al crepuscolo fu finalmente pronto a prepararsi per il Seder. Fece un bagno caldo nella toilette sul
corridoio, dove qualcuno aveva lasciato un pezzo di sapone, per cui fu in grado di insaponarsi e darsi
una bella strigliata. Tornando in camera sua si sbagliò, come sempre, e capitò in quella di fronte, il cui
occupante lo indirizzò a quella giusta con insolita sgradevolezza. Il dottor Alswanger si vestì sospirando.
Si piazzò davanti allo specchio sulla porta dell’armadio e si guardò. In Palestina non si era mai reso
conto di essere basso; anzi, si era sempre considerato di statura media. Ma lì, tra quei giganti americani,
era profondamente consapevole non soltanto della propria piccolezza ma anche di tutti gli altri suoi
difetti fisici. Era cresciuto non in altezza ma in larghezza, aveva un gran testone, spalle larghe e gambe
corte. Sulla nave da Haifa a Marsiglia e poi da lì a New York gli avevano servito pasti generosi, per cui
aveva messo su un sacco di peso, e adesso l’abito da sera non si poteva più abbottonare, i colletti delle
camicie erano troppo stretti e persino le scarpe gli facevano male ai piedi. Verso le sei il dottor
Alswanger concluse la sua toilette. Coprì elegantemente le scarpe con le ghette, indossò il cappello nero
a tesa larga, diede di piglio al mazzo di rose, che avevano già cominciato ad appassire, e scese con
l’ascensore. Come lui stesso, Boris Makaver abitava sulla Broadway, ma uptown, non downtown.
Quindi, sebbene fosse la stessa via, per arrivare a destinazione gli toccava usare la metropolitana, e
come se non fosse già abbastanza un problema un treno, ne doveva prendere due. Aveva chiesto
indicazioni, ma tutti gli avevano dato un’informazione diversa: uno gli aveva consigliato di prendere la
BMT, un altro la IRT; un terzo gli aveva suggerito di prenderla alla Ottava Avenue e un quarto alla
Quattordicesima. Quindi decise di raggiungere quest’ultima a piedi.
Aveva trascorso tempo in molte città grosse, ma da nessuna parte si era imbattuto in folle così vaste. Le
persone mulinavano a decine di migliaia, sbattendo le une nelle altre sui marciapiedi. Sembrava un’unica
gigantesca dimostrazione, con la presenza di molti ebrei. Le botteghe esponevano prodotti alimentari e
bottiglie di vino con l’etichetta KASHER PER PASQUA; alcune vantavano addirittura l’autorizzazione
di un Bet Din. Un ristorante aveva riempito la vetrina con un vassoio pasquale: matzoth, candele, una
Haggadah. Come lui, uomini e donne eleganti portavano pacchetti e mazzi di fiori, probabilmente
diretti a loro volta a un Seder. Ma nei loro confronti il dottor Alswanger non provava affatto l’affinità
che gli ebrei provano tra loro. Parlavano tutti in inglese. Nessuno di essi sembrava ebreo.
Nella metropolitana c’era una calca difficile da vedere persino negli autobus di Tel Aviv. Un controllore
lo inzeppò in una vettura come una specie di pacco, e, una volta dentro, un’ondata di altri passeggeri gli
fu addosso con forza irresistibile. Le sue rose furono spiaccicate. La sua camicia pulita si inzuppò di
sudore. Superò diverse stazioni senza avere la più vaga idea di dove si trovasse. Chiese qua e là, ma non
lo stettero ad ascoltare. Il treno sferragliava e rombava, si fermava e ripartiva, fischiava in tono di
ammonimento e a lungo, quasi segnalasse l’incombere di una catastrofe. I ventilatori ronzavano, le luci
elettriche splendevano, gli facevano male orecchi e occhi, lì, tra il giganteggiare di una calca di giovanotti
che gli si premevano addosso, esalando un odore acre dal corpo mentre blateravano e ragliavano sopra
la sua testa. Trovava sempre più difficile respirare. Quanto si può sopravvivere in un viaggio del genere?
si chiese il dottor Alswanger.
Nel suo aumentato stato di tensione ebbe una vivida visione degli ebrei che erano stati inzeppati in
vagoni merci e trasportati al macello come bestiame. Be’, mi immaginerò di essere uno di loro. Sarei
forse meglio di essi? Grazie, caro Padre del cielo, per avermi consentito di vivere anche soltanto una
milionesima parte di ciò che devono aver provato loro!
Come possiamo sapere alcunché di ciò che hanno sofferto quelle vittime? Tra il più grande martirio
della nostra storia affondiamo in banalità, stupidità, avidità. Il dottor Alswanger si perse talmente in
simili riflessioni da non accorgersi che le porte si aprivano e grossi gruppi di passeggeri sciamavano via.
Mentre la vettura si svuotava, notò un ebreo che leggeva un giornale yiddish. Le domande che gli
rivolse nella stessa lingua gli rivelarono che invece di andare uptown era diretto verso Brooklyn.
Finalmente, verso le sette e mezzo raggiunse il condominio di Boris Makaver. Mentre l’addetto
all’ascensore lo portava al quattordicesimo piano, il dottor Alswanger esaminò la propria agitata persona
nello specchio. Tutto ciò che indossava era umido, stazzonato, appallottolato. Il colletto era sporco, il
nodo della cravatta era finito di sbieco, del suo mazzo di fiori non rimanevano che pochi gambi e foglie
simili a rami di salice malconci dopo una battitura di Hashanah Rabbah. Avrebbe voluto gettarli via, ma
non sapeva dove. Non appena ebbe suonato il campanello, la porta si aprì, e Boris e Frieda Makaver si
fecero entrambi avanti per ricevere l’ospite. Boris gli afferrò la mano, la strinse con calore e la tenne
stretta, gridando il benvenuto tradizionale: «Dottore, la aspettavamo! Gut yontev! Borekhabof Shalom
aleichem!» Frieda prese quanto rimaneva delle rose, lo ringraziò e gli disse che aveva letto la sua opera.
Non soltanto indicò i titoli dei suoi libri, ma citò anche articoli che aveva pubblicato su una varietà di
pubblicazioni. Lì, in quell’appartamento al quattordicesimo piano era di nuovo stimato: era Immanuel
Alswanger, lo scrittore erudito, l’uomo di idee aperte alla sfida ma che, come lui stesso, dovevano essere
trattate con rispetto. Gli vennero le lacrime agli occhi. Significava che il mondo esisteva ancora? Che la
fine di tutto e tutti non era ancora arrivata? E lui che soltanto un attimo prima pensava di essere
dimenticato come se fosse morto. Al dottor Alswanger venne in mente che qualcosa di simile sarebbe
benissimo potuto accadere nel Mondo a Venire. Prima avrebbe sofferto, sarebbe giaciuto in agonia,
avrebbe patito i tormenti della tomba, convinto che le tenebre, i vermi, l’oblio sarebbero continuati per
sempre. Ma poi di punto in bianco gli sarebbero apparsi angeli che lo avrebbero guidato in un luogo
dove ogni anima aveva dignità e un nome, e dove essa riceveva un benvenuto e un onore che mai aveva
conosciuto e mai si sarebbe aspettata. Il dottor Alswanger era già intervenuto a festeggiamenti del Seder
in case di gente facoltosa, ma non ne aveva mai visto uno come quello di Boris Makaver. La sala da
pranzo era tappezzata di fiori, il tavolo stracarico dell’oro e argento di stoviglie e candelabri. Il vassoio
del Seder era un’antichità del sedicesimo secolo, il Calice di Elia era stato fatto in Spagna, le pagine della
Haggadah avevano i margini miniati. Il vino veniva dalle cantine del barone Rothschild a Rishon
LeTion e, secondo l’etichetta, aveva settantanni. Boris aveva indossato una tunica bianca e uno
zucchetto ricamato d’oro, e si era assiso come un monarca orientale a capotavola su un seggio imbottito
di alti cuscini, come prescrive l’usanza. Frieda gli sedeva accanto come una regina. Reytze, la parente e
governante di Boris, stava progettando di lasciarlo.
Convinta che il padrone di casa avrebbe sposato lei e non portato in casa una tedesca, non voleva e non
poteva condividere la stessa abitazione di Frieda. Di conseguenza, prima di andarsene era ben decisa a
preparare un Seder che non sarebbe mai stato dimenticato. Il dottor Halperin dichiarò che in vita sua
non aveva mai assaggiato un pesce migliore. Gli gnocchetti avevano il gusto del paradiso. Il brodo si
diffondeva per le vene come l’elisir della vita. Persino il tradizionale dolcificante delle erbe amare era
una squisitezza indescrivibile, perché Reytze lo aveva preparato con noci, mele, vino e una spezia ignota
che incantava le narici. Briciole di matzoth si annidarono fitte nei baffi incolti del dottor Halperin che,
grugnendo di piacere, masticava senza tregua con i suoi denti gialli. Gettava occhiate cariche d’affetto
alla sorella, Frieda, grazie a cui adesso era cognato del ricco Makaver, che aveva già promesso di pagare
la pubblicazione delle sue opere complete in tedesco ed ebraico. Aveva pagato anche la traduzione del
suo nuovo libro, Ascetismo e spirito, in cui Halperin aveva raccolto le riflessioni dell’età avanzata: una
nuova visione della storia della filosofia, tesa a dimostrare come tutti i filosofi, da Talete a Bergson, da
Husserl a Vaihinger, compresi gli epicurei, avessero propugnato l’ascetismo. A ogni generazione la
filosofia aveva cercato di negare la vita, e per questo aveva fallito. Nel suo anelito a un’illusione di
eternità, aveva trascurato il vero valore del transitorio. Una grossa casa editrice di New York stava per
firmare un contratto con lui, e Halperin sosteneva che il suo nuovo libro avrebbe ribaltato
completamente tutte le letture accettate della filosofia. Il nome di Zadok Halperin, noto finora soltanto
a una ristretta cerchia di accademici, sarebbe diventato famoso a livello mondiale. Sebbene non stesse
bene fumare a un tavolo del Seder, il dottor Halperin, per l’occasione in abito nuovo e camicia pulita,
non riuscì a trattenersi. Non appena Boris voltò la testa, accese un sigaro. Frieda lo rimbrottò
severamente di sporcare di cenere la sua costosa tovaglia, ma il fratello le replicò con uno sboffo nasale:
«Ma guarda un po’. Non si può fumare in pace. Tutto è vietato!
Severamente vietato!» E tirò un’ultima boccata avida prima che Frieda gli togliesse di mano il sigaro. Il
dottor Margolin, che indossava un elegante smoking e aveva portato alla padrona di casa un mazzo di
orchidee, stava molto attento a ciò che mangiava. Soltanto adesso i medici concordavano
unanimemente che l’assunzione di troppo grasso animale è la causa principale della trombosi, ma lui
seguiva da un pezzo un suo insieme di regole mediche inflessibili. Evitava di mangiare uova e carne
grassa, per cui toccò appena gli gnocchetti bolliti di matzoth e le frittelle di farina per matzoth. Eliminò
meticolosamente ogni traccia di pelle dalla sua porzione di pollo, osservando in tralice e con
espressione inorridita il dottor Halperin, che invece faceva tutto ciò che i medici sostengono essere
dannoso, e che nonostante questo era arrivato a sessant’anni. Il basso e grasso Halperin aveva un ventre
enorme, fumava un sigaro dietro l’altro, non faceva mai un filo di ginnastica e si ingozzava di ogni sorta
di leccornie pesanti, che gli alzavano il colesterolo e indurivano le arterie. Quell’uomo sputava in faccia
alla scienza medica. Ma Halperin apparteneva a una famiglia di longevi, e Margolin credeva con
fermezza nell’eredità genetica. Tutte le fatiche dell’uomo non sono niente in confronto ai cromosomi.
E’ lì, nei geni, che risiede ogni destino umano.
Determinano tutto: forza fisica dell’individuo, intelligenza, personalità, lunghezza dei giorni. Lui veniva
da una famiglia di gente che non campava molto, e per questo era ipocondriaco ormai da molti anni. Si
era preparato alla morte già quando era tra i venti e i trenta, e la paura della morte non lo lasciava mai. I
momenti più felici della sua vita erano stati offuscati dall’interrogativo circa quanto sarebbero durati. Il
suo atteggiamento mentale era regolarmente avvelenato dal fatto di essere stato costretto per tutti
quegli anni a trattare professionalmente con malattia e morte. Conosceva ogni sintomo, ogni statistica.
In particolare, i medici avevano mediamente una vita molto più breve di quella degli altri. Aveva tutte le
probabilità contro. Il dottor Halperin si era unito alla recitazione della Haggadah al massimo della voce,
ma durante la cena dichiarò di essere ateo. Il dottor Margolin non aveva una grande opinione di lui né
come filosofo né come uomo, convinto che con la sua opera non avesse conseguito niente. Di fondo
era una persona di volgare sensualità, piena di ignoranza dietro la maschera di profonda cultura. Sua
sorella Frieda non era forse altrettanto colta, ma i suoi gusti erano molto più raffinati. Margolin si
riteneva vittima dello scetticismo. Capiva tutti i punti di vista, conosceva il verso di qualsiasi argomento,
non riusciva mai a liberarsi del giogo del dubbio. Per di più, essendo psicologo da prima ancora di
conoscere Freud o Adler, individuava scusanti personali in tutte le filosofie, una compensazione
soggettiva per ogni sorta di carenza fisica e spirituale. Non aveva cantato la Haggadah, ma ne aveva
mormorato o pronunciato silenziosamente le parole. Suo impegno di tutta la vita era psicoanalizzare gli
ebrei, la loro religione, il loro carattere. Nel profondo dell’intimo Solomon Margolin era d’accordo con
gli antisemiti: quanto a filosofia e atteggiamento mentale, l’ebreo è un parassita.
Prima Giuseppe era andato in Egitto, poi vi aveva portato il padre, i fratelli e le loro famiglie. Nel giro
di breve tempo essi avevano fondato uno Stato nello Stato a Gosen. Da allora in poi lo stesso schema si
era ripetuto in tutti i Paesi, attraverso tutte le generazioni. Per di più, anche a quei primi tempi Giuseppe
aveva cercato di farsi una proprietà privata, di dare al faraone tutto il territorio dell’Egitto, di rendere
tutti gli egiziani «servi del faraone.» Per fortuna, però, tra gli ebrei c’era anche un forte elemento
antiparassitario, che aveva sempre incitato il popolo a crearsi un suo Paese. I giovani ebrei di Palestina
che in quel momento stavano facendo guerra alla Gran Bretagna erano di quel tipo. Chi poteva dire?
Forse persino una pianta parassita anela segretamente a produrre le sue foglie verdi. E dal punto di vista
biologico il parassita rappresenta un livello di vita più alto rispetto al suo ospitante. Forse che tutto il
genere umano non si nutre come un parassita del mondo di flora e fauna? Dopo il Seder il dottor
Halperin cominciò a fare domande al dottor Alswanger. Che cosa voleva? Perché era venuto lì? Che
progetti aveva per il genere umano? Consapevole dell’irrisione sottesa nel suo tono, Alswanger spiegò
nondimeno lentamente il suo progetto. Occorreva una fusione di scienza e arte che tenesse conto della
«persona completa.» Biologia, psicologia, religione e filosofia dovevano fondersi in una sola scienza
applicata.
Personalmente, Dio ne scampi, non era comunista, ma un seguace della Repubblica di Platone. Era più
che tempo che il mondo fosse governato da persone colte invece che dai politici. Il parlamento
mondiale sarebbe dovuto essere pieno di saggi specialisti, e le commissioni statali sarebbero dovute
essere formate da esperti dei diversi campi. La società avrebbe dovuto garantire che i suoi membri
fossero governati in maniera scientifica invece di lasciarli andare a sbattere alla cieca contro i muri e a
scontrarsi con altre persone e i loro progetti. Più parlava, più il dottor Alswanger si faceva confuso.
Propugnava una sorta di comunismo religioso e tecnocrazia combinati con psicoanalisi, chassidismo,
medicina e una sequela di altri elementi incompatibili. Il dottor Halperin non smetteva mai di sorridere
sotto i baffi. «Che cosa dovremmo dunque fare, adesso, in termini pratici?»
«Cominciare con piccoli campioni. Creare i primi sanatori o laboratori.»
«E che cosa ci dovremmo fare? Recitare i salmi?»
«Si potrebbero anche recitare i salmi. La preghiera è una terapia importante.»
«Le sue idee andrebbero bene se potessimo fermare per un po’ il tempo, nello stesso modo in cui
Giosuè fece rimanere immobile il sole.»
«Perché fermare il tempo?»
«Perché proprio mentre lei sta progettando i suoi sanatori, Russia e America stanno costruendo bombe
atomiche.» Boris picchiettò le nocche sul tavolo. «Signori, le bombe atomiche sono lievito, e questa è la
Festa del Pane Non Lievitato. Non voglio bombe atomiche al Seder.»
«Bene, allora apra la porta e faccia entrare il profeta Elia.» Herman aveva chiesto allo zio il permesso di
portare con sé al Seder un’ospite, e visto che Boris lo aveva senz’altro concesso, aveva fatto venire lì
Sylvia, un donnone giovane e bruno con il naso lungo, occhi neri sporgenti, labbra grosse e capelli ricci
tagliati corti come quelli di un uomo. Boris le aveva dato una sola occhiata e si era chiesto: che cos’è
questa roba? Una giovane o un caporalmaggiore? Sylvia non piaceva nemmeno a Frieda, dal momento
che al Seder era seduta di fianco a Herman e non aveva mai smesso di rivolgergli larghi sorrisi d’intesa,
facendogli di quando in quando addirittura l’occhiolino. Era una militante del partito, nella casa della cui
madre Herman viveva a pensione. Conoscendo il russo, Herman le leggeva a voce alta gli articoli più
importanti di Pravda e Isvestija. Lavoravano insieme per il partito. Sylvia era curiosa di vedere come
fosse un Seder all’antica, e prima di portarcela lui le aveva raccomandato di non contraddire o irritare
suo zio. Ma adesso lei continuava a fare domande: perché mangiavano matzoth? Qual era il simbolismo
delle erbe amare, delle verdure, dell’osso di stinco, dell’uovo arrostito, delle quattro coppe di vino? Boris
si prendeva la briga di risponderle, ma la ragazza lo cimentò: «Perché festeggiare una libertà conquistata
più di quattromila anni fa, se la schiavitù è tuttora dominante?»
«Dove? Non in America.»
«Lo sa che cosa succede al Sud?» chiese la giovane. «No. Non lo so.»
«Sa almeno che nelle università americane vige il numerus clausus’? Ha mai cercato di entrare in un
albergo chic? Lo sa che gli ebrei non sono ammessi?»
«Perché dovrei preoccuparmi di ebrei che vogliono mangiare cibo proibito? Personalmente non vado
mai in simili alberghi di gentili.»
«Lo sa che ci sono ditte che si rifiutano di assumere operai ebrei?»
«E che cosa posso farci? Finché non arriva il Messia, siamo in esilio.»
«In Unione Sovietica l’antisemitismo è stato sradicato.»
«In Unione Sovietica sono stati sradicati gli ebrei.» Sylvia avrebbe voluto buttarsi direttamente in una
discussione, ma Herman le premette il piede sotto il tavolo e la guardò sbalordito. Che senso aveva
discutere con quei fanatici? Perché sprecare parole? Ma era la natura di Sylvia: si sentiva sempre
obbligata a sostenere la causa comunista dovunque andasse, dal macellaio, nella bottega di alimentari,
nel salone di bellezza dove si faceva fare i capelli. Lui diceva sempre per scherzo che, se fosse arrivata
sulla luna con un razzo, vi avrebbe immediatamente tenuto una conferenza sulle ultime risoluzioni del
Comitato Centrale. Era convinto da un pezzo che i comunisti americani non avessero la più vaga idea di
come organizzarsi. Erano stati viziati dalla libertà fasulla di cui i capitalisti ingozzavano le masse; se il
movimento fosse mai stato chiamato a impegnarsi in un’autentica cospirazione, i comunisti americani si
sarebbero trovati meno preparati di tutti gli altri loro simili delle varie zone del mondo. Erano troppo
molli, troppo scrupolosi, troppo sentimentali per una vera battaglia. Quindi era rimasto seduto in
silenzio con lo sguardo fisso sulla Haggadah e poi aveva ascoltato attentamente la discussione tra
Halperin e Alswanger. Era interessante osservare quei due intellettuali.
Si capiva subito che condividevano l’idealistica convinzione borghese che trascura e deliberatamente
ignora l’evoluzione economica e politica, la lotta di classe, l’inevitabilità storica, qualsiasi criterio
obiettivo. Blateravano di società umana come se fosse sospesa nel vuoto e tutto dipendesse da ciò che
decidevano un paio di persone del tutto prive di senso pratico. Eppure tra i due c’era una differenza
marcata. A modo suo Halperin aveva le idee più chiare, i piedi più posati per terra, ed era quindi un po’
più progressista di Alswanger, tutto immerso nelle parole, in una prosa sbrodolata, nelle illusioni.
Herman era convinto che nell’attuale periodo di attesa, in cui le forze rivoluzionarie avevano bisogno di
tornare a raggrupparsi e pertanto manifestavano un appoggio verbale alla coesistenza, esse dovevano
rivolgersi a gente come Halperin. In Francia e in Italia il partito aveva attratto molti intellettuali.
Sapevano come avvicinarli. La loro propaganda era individualizzata, sottile, tagliata per i bisogni
quotidiani. Lì invece tutto veniva fatto goffamente, in toni magniloquenti; il partito non prendeva
l’iniziativa e si accontentava di rivolgersi di continuo allo stesso elemento, usando una retorica fiorita e
slogan triti. Per esempio, quando aveva parlato dell’antisemitismo in Unione Sovietica, Sylvia aveva
sollecitato esattamente la risposta che aveva ricevuto. In ogni caso, al momento era meglio evitare la
questione ebraica: c’erano altri argomenti che potevano essere usati con più efficacia. Herman si
accigliò e abbassò lo sguardo sulla Haggadah. Che falsificazione ridicolmente ideologica! Per i cristiani il
fondamento era un Gesù risorto dalla morte; per gli ebrei si basava su un Dio astratto, un vasto codice
di leggi assurde, la promessa di un Messia che sarebbe arrivato alla riscossa in groppa a un asino. In
confronto a quel pio edificio, la torre pendente di Pisa era diritta; eppure guai a sottovalutarne la forza.
Quando si cerca di abbattere rovine, a volte esse crollano su se stesse, uccidendo i demolitori. Bisogna
smantellarle pezzo per pezzo, asse per asse, mattone per mattone. Durante l’abbattimento di una rovina
ci sono persino momenti in cui si è temporaneamente costretti a erigere un’impalcatura. La regola è che
non ci sono regole: ecco il vero significato della dialettica. Era proprio nella sua comprensione di tale
principio che il compagno Stalin si elevava sopra tutti gli altri. Il più grande di tutti i pericoli per la
rivoluzione consiste nel chiudere la mente, nel voler rinserrare il fluire del tempo in un insieme di luoghi
comuni.
CAPITOLO 13.
Stanislaw Luria non riusciva a dormire. La medicina prescrittagli dal medico non serviva a niente. Era a
letto con la lampada da lettura accesa sul comodino perché aveva paura di spegnerla. Dopo la seduta
spiritica gli era venuto il terrore del buio. Non riusciva a credere sino in fondo che Sonia gli si fosse
rivelata l’altra sera… ma in questo caso chi era la figura che era emersa dal buio, lo aveva abbracciato e
baciato e gli aveva parlato in polacco? Più ci pensava, più tutto si faceva confuso. Doveva essere Sonia.
Ne aveva riconosciuto la voce. Conosceva il tocco delle sue labbra. Ma com’era possibile che Sonia gli si
rivelasse, se l’avevano ridotta in cenere? E se si era rivelata in quel posto, nell’appartamento di quella
dentista, perché ogni tanto non veniva a trovarlo in casa sua? D’altra parte era anche questa una cosa di
cui aveva un gran timore. Se soltanto cominciava a pensarci, ogni volta la paura gli stringeva il cuore
come in una morsa.
Si tirò a sedere nel letto e gridò: «E’ un imbroglio! Un imbroglio!» Ah, i nervi! Erano così tesi. Passava
la notte sveglio, tremando a ogni rumore, per quanto fievole. L’appartamento era pieno di fruscii. I
mobili scricchiolavano. Sebbene le finestre fossero sbarrate, le veneziane tremavano e sbattevano. In
bagno le tubazioni fischiavano. Il calorifero vibrava e sbatacchiava. Accadevano fatti inquietanti.
Metteva via questo o quell’oggetto, ed ecco che spariva, per cui doveva passare giorni a cercarlo. Prima
era scomparsa la stilografica, poi gli occhiali da lettura; non riusciva più a trovare né le ciabatte né il
cappello.
Spegneva la lampada, ma poi la trovava accesa, come se una mano nascosta avesse premuto
l’interruttore. Posava un libro su un tavolo, ma quando voleva riprendere a leggerlo non era più lì.
Dopo di che lo trovava sotto il letto e persino sotto il cuscino. Era possibile che lo spirito di Sonia gli
stesse mandando segnali? O era stato posseduto da un demone malefico? Aveva chiamato il professor
Shrage, ma questi non aveva risposto al telefono. Era andato al suo alloggio e aveva suonato il
campanello, ma non era venuto nessuno alla porta. Aveva telefonato alla signora Clark in studio, ma lei
gli aveva replicato in tono irritato che si rifiutava categoricamente di organizzare sedute spiritiche per
lui.
Per cose simili occorre un cuore forte, quindi lei aveva avvertito Sonia che le sedute spiritiche erano
dannose per la salute del marito. Come poteva avere un cuore forte se era a pezzi da ogni punto di
vista? Già quando aveva sposato Anna era rovinato sia fisicamente sia spiritualmente. Poi la fuga della
moglie con Grein aveva distrutto il poco che rimaneva in lui. Boris Makaver si era offerto di continuare
a mantenerlo, ma lui aveva rifiutato. Doveva tre mesi di affitto e si aspettava di essere buttato fuori
dall’appartamento da un momento all’altro. Bollette non pagate di telefono, luce e gas erano sparse
ovunque. In marzo non aveva nemmeno presentato la denuncia dei redditi agli uffici tributari. Aveva da
qualche parte i documenti iniziali per ottenere la cittadinanza, rilasciatigli non appena era arrivato in
America, ma erano spariti anche quelli. Che cos’avrebbe fatto se avesse dovuto dimostrare di essere
immigrato legalmente? C’erano probabilmente altri documenti da qualche altra parte, ma gli archivi
della burocrazia ufficiale erano caotici quanto il suo. Avrebbero potuto espellerlo, e nessuno avrebbe
saputo che cosa ne fosse stato di lui. In Polonia lo avrebbero messo in prigione. Luria era afflitto da
sospetti di ogni genere. Per esempio, non aveva il minimo dubbio che questo Yasha Kotik fosse una
spia sovietica. Forse stava cospirando contro di lui con Anna.
Forse intendevano rapirlo e restituirlo ai bolscevichi. Più che probabile. Visto che si rifiutava di
divorziare da lei, Anna aveva deciso di ucciderlo in modo da poter sposare Grein. Che difficoltà c’era a
rapire uno come lui? Chi avrebbe preso le sue parti? Avevano liquidato americani più importanti di lui, e
nessuno era andato in loro soccorso.
Navi sovietiche attraccavano regolarmente a New York. Spie sovietiche si infiltravano dappertutto.
Comunisti e compagni di viaggio avevano impieghi negli uffici governativi, in tutti i giornali americani.
Occupavano alte cariche al Dipartimento di Stato; erano penetrati nell’FBi. Stavano minando l’America
come termiti. Persino i cosiddetti giornali capitalisti erano pieni di propaganda sovietica. Gli articoli di
prima pagina sembravano coprire la Russia di contumelie, ma le pagine di arte erano controllate da
comunisti che diffondevano propaganda di partito. Chi poteva valutare il potere che avevano
nell’esercito, nella marina, nell’aviazione? Una cosa era certa: avevano un potere più che sufficiente per
liquidare una persona insignificante come lui. C’era una via di scampo? A chi doveva rivolgersi? A un
avvocato? Alla polizia? All’FBi? Avrebbero detto che aveva la mania di persecuzione e lo avrebbero
spedito in un manicomio? La loro mente era così contorta che, sebbene milioni di persone fossero
ridotte a vittime nella piena luce del giorno, quelli che si lamentavano erano considerati matti. Soltanto i
persecutori erano sani di mente. Loro avevano diritti.
Tutti li aiutavano. Lo zio Sam aveva caricato Stalin di miliardi di dollari e gli aveva prestato centinaia di
navi, che adesso lui si rifiutava di restituire. Lo stesso presidente Roosevelt era stato contagiato dalla
loro propaganda. Doveva fuggire? Dove? I loro agenti erano ovunque. Cercare di parlare con Anna?
Ormai era evidentemente una di loro. Forse era il caso di sparire semplicemente in qualche località del
Midwest. Avrebbe cambiato nome, si sarebbe fatto crescere una barba grigia e si sarebbe sepolto in una
fattoria chissà dove. Ma aveva abbastanza forza per lavorare? No, non aveva nemmeno quella di radersi
e fare un bagno. Aveva smesso di mangiare. L’appartamento era sudicio, ma non riusciva a darsi la pena
di pulirlo. Per chi? Era tagliato fuori dalla società, completamente isolato, come messo al bando
dall’umanità.
Qualcuno gli aveva persino rubato l’agenda con tutti i numeri di telefono. Luria andò alla finestra. Fuori
era primavera. Splendeva il sole. Guardò fuori stupefatto… sembrava estate piena! Decise di uscire.
L’orologio doveva essere impegnato, altrimenti sarebbe morto di fame. Da quelle parti, sulla Terza
Avenue, c’era un banco di pegni. Ma dov’era l’orologio? Prima era lì sul comodino. E adesso non c’era!
Luria sospirò. Ci avrebbe creduto qualcuno? Lo cercò in tutti i cassetti, nelle tasche, sugli scaffali. Era
stato derubato? Avevano fatto irruzione i ladri? In quel caso, come mai non avevano preso nient’altro?
Sonia gli stava facendo scherzi? Perché avrebbe dovuto volerlo angustiare? Gli portava rancore perché
aveva sposato Anna? Forse la signora Clark era offesa ed era lei a provocare tutti questi contrattempi.
Sembrava una strega. Aveva praticamente incarcerato il professor Shrage. Naturalmente i razionalisti
ridevano di idee del genere, ma Hitler era forse un fenomeno razionale? E Stalin? Due guerre mondiali
erano forse prodotto della logica? Il genere umano si dibatteva in paludi di assurdo, tenebra, mistero,
magia, eppure continuava a parlare di senno. Era una follia in sé. La fiduciosa lucidità dei
contemporanei era una pericolosa illusione. Nel Medioevo si era più vicini alla verità di adesso. Allora se
non altro si sapeva che agivano poteri sinistri. Li si chiamava persino per nome: Satana, Lucifero, Belial.
La gente moderna era resa folle dalla ragione. Una banda di intellettuali aveva portato il genere umano
sul limite dell’abisso. Be’, non c’era via d’uscita. Chi poteva offrirla? Folli com’erano, avevano il potere.
Quei pazzi si erano armati di bombe atomiche, di università, giornali, riviste. Si psicoanalizzavano a
vicenda. Giustificavano ogni atto selvaggio, ogni incubo, ogni arte satanica. Avevano definizioni per
qualsiasi cosa: per il massacro di sei milioni di ebrei, per la liquidazione di milioni di persone in Russia.
Bastava dare un nome a un mostro, e quello cessava di essere mostruoso. Non avevano bisogno di altro.
Sì, andrò da loro, si ripromise Luria. Andrò dove sono andati tutti gli ebrei, quelli che erano il meglio
del nostro popolo. Chi è rimasto? Adulteri come Anna e Grein. Se c’è un Mondo a Venire, voglio
vederlo, e se non c’è niente, la vita non vale comunque nulla. Del resto l’uomo non è che un microbo.
Quindi non vi è certamente alcun motivo di soffrire. Ci è vietato ucciderci? Dio ci punirà? Faccia pure!
Ci punisce già abbastanza così. Luria trovò il suo orologio d’oro e uscì per impegnarlo. Mentre usciva,
però, si rese conto di essersi dimenticato di mettere la cravatta. Be’, pazienza. Il giovanotto seduto
dietro la griglia del banco di pegni rivoltò per un pezzo l’orologio da tutte le parti, lo aprì per
esaminarne il meccanismo, si servì persino di una loupe. Fatto tutto questo, offrì venticinque dollari.
Venticinque dollari per un orologio che in Polonia, prima della guerra, era costato mille zloty! Ma lui
non aveva la forza di mettersi a girare da un banco di pegni all’altro. «Be’, così sia», disse, e il giovane gli
diede i soldi con un tagliando. Lui non si diede nemmeno la pena di contarli.
Basteranno sino alla fine, mormorò avviandosi per Lexington Avenue.
Sì, era deciso. Ma come farlo? Impiccagione? Veleno? No, non così. Il gas ci metteva troppo, puzzava, e
avrebbe potuto far del male ai vicini.
La cosa migliore era affogarsi, ma nel modo che provocasse la minor sofferenza possibile. Di notte,
dopo aver bevuto una mezza bottiglia di cognac, avrebbe preso il ferry per Staten Island. Si sarebbe
legato un grosso peso al collo, si sarebbe gettato in mare e sarebbe affondato immediatamente. Il
cognac avrebbe fatto da anestetico, a meno che non riuscisse a procurarsi da qualche parte un po’ di
oppio o morfina. La cosa fondamentale era essere in uno stato di istupidimento da narcotici durante gli
ultimi istanti. Tutta la faccenda sarebbe probabilmente durata meno di un minuto. Quando il cervello
non riceve ossigeno, si perde subito conoscenza. Il meglio sarebbe stato qualche compressa di
sonnifero o una dose massiccia di cloroformio. Ma per cose simili occorre una ricetta. Solomon
Margolin? No, non lo avrebbe fatto, e poi non voleva chiedergli alcun favore. Quel medico non era
ignoto ad Anna, e aveva anche lui qualche faccenda non conclusa da sistemare. Compiere il gesto in
mezzo al mare sarebbe stato perfetto. Ma dove? Come? A meno che non fosse partito per l’Europa in
nave. Ma serviva un passaporto e tutto il resto. Non c’erano navi per la Florida o la California? Si
poteva magari partire via mare per il Canada. Ma non aveva soldi.
Ricordò che c’era una nave per Boston o per Providence. Al pensiero di questa seconda città, Luria
sorrise. Providence… la Provvidenza, un’emanazione divina che era rimasta a guardare impassibile
mentre sei milioni di persone erano torturate, senza fare la minima mossa per intervenire. Che cosa
doveva fare? Adesso? Luria si fermò di botto in mezzo alla strada. Anzitutto doveva comperare un
peso, altrimenti si sarebbe dibattuto nell’acqua, urlando per invocare aiuto. Dove lo si trova un peso?
Forse sulla Terza Avenue, da qualche parte. Fece dietro front. In una bottega antiquaria di quella zona,
una volta aveva notato un’antiquata bilancia con i pesi. Ma poteva essere troppo costosa. Si inoltrò nella
Terza Avenue guardando nelle botteghe antiquarie. Tutti quei vecchiumi un tempo appartenevano a
qualcuno. Erano tutti reliquie di morti. La morte fischiettava per le strade, ma i vivi non lo sapevano o a
loro non importava. Erano come lupi famelici che divorano le carcasse dei loro simili. Toh… guarda lì
uno scheletro in vendita… trasformavano persino la morte in merce. Ma sarebbero arrivati tutti a quel
punto. La morte non avrebbe trascurato nessuno. La strada era affollata di aspiranti cadaveri. Avendo
già superato la Quarantaduesima Avenue, Luria procedette sempre più verso downtown. Non mangiava
dal giorno prima, ma non aveva alcuna fame. Anzi, si sentiva ancora quasi sazio. Si fermò davanti a un
negozio pieno di mobili. Un tavolo all’esterno era pieno di libri. Che tipo di libri erano? Che cosa
contenevano? Ne aprì uno alla metà e lesse: «Sua madre era una donna ambiziosa. Voleva procurare a
Beatrice un marito che potesse concederle ogni ghiribizzo e riportare in qualche misura la famiglia alla
condizione sociale di un tempo.» Ah, quella donna era ambiziosa. Si rendeva conto della sua ambizione?
si chiese Luria. Guardò il frontespizio… era scritto da una donna, un nome che non conosceva.
Questa scrittrice aveva soddisfatto le sue ambizioni? Il libro era in vendita a cinque centesimi. E gli
altri? Storia delle ferrovie in Ohio, Come avere successo in amore e nel lavoro. Magari questo fa per me.
Già, davvero, come si fa ad avere successo? Il libro costava dieci centesimi, e Luria decise di
comperarlo, per pura curiosità, per dare un’ultima occhiata alle illusioni del genere umano. Tolse di tasca
una monetina da dieci centesimi e la posò sopra un altro libro. A quanto pareva il negoziante, nella
bottega, non aveva il minimo interesse per le sue merci… si sarebbe potuto prendere quel libro gratis e
andarsene. Alla Trentaquattresima Avenue Luria entrò in una tavola calda. Berrò un po’ di caffè. Che
male può farmi? Persino agli animali si dà da mangiare prima di scannarli. Lo stomaco fa quello che
deve fare… digerisce.
Ecco la totale assurdità del tutto: ogni organo fa ciò che è destinato a fare; lo stomaco digerisce, il
cervello pensa, e dopo la morte comincia una nuova serie di attività. I microbi consumano tutto:
protoni, neutroni, elettroni continuano il loro incessante turbinare e roteare.
Gli atomi non hanno probabilmente alcuna coscienza del fatto che il loro proprietario è morto o si è
ucciso. E in che senso un essere umano può essere considerato nei termini del loro proprietario? Per
loro il posto dove risiedono non cambia niente… in uomini, topi, letame. Hanno le loro riflessioni
atomiche, e tutto il concetto dell’individualità non lo considerano niente più che ridicolo. Ma ai fini di
chi serve tutto ciò?
A quale scopo questo pianeta gira su se stesso? Fino a quando continuerà a girare sul suo asse e attorno
al sole? Da qualche parte dev’esserci un senso. Luria andò al banco e prese una tazza di caffè. Dopo
qualche esitazione prese anche un biscotto. Sedutosi a un tavolo, aprì il libro a caso e lesse: «Ciascuno
ha bisogno di uno scopo chiaramente definito e conseguibile. E’ sbalorditivo il numero di persone che
non se ne pongono nessuno. Si lasciano trasportare dalla marea. Gli anni passano, e loro non sanno mai
che cosa vogliono. La storia di tutte le persone di successo ha un filo comune: molto presto ciascuna di
esse si è posta uno scopo che desiderava raggiungere.» Luria chiuse immediatamente il libro.
Che cosa volevo raggiungere, io? Ho studiato legge senza averne la minima attitudine… perché non ho
studiato qualcosa che mi interessasse davvero? Ma che cosa? Mi piaceva moltissimo leggere storie di
esploratori, ma non sarei di sicuro diventato un altro Roald Amundsen o Sven Hedin. Ciò cui aspiravo
davvero era la pace della mente: una brava moglie, un figlio soddisfatto, una poltrona morbida, un
divano comodo.
Sono sempre stato in letargo sin dall’infanzia, come se in una precedente incarnazione non avessi
riposato a sufficienza. Forse è per questo che voglio farla finita… in modo da poter finalmente dormire.
Luria bevve il suo caffè e mangiò il biscotto. Questo spuntino a metà della giornata gli aveva fatto
venire fame, il languore, le gambe molli.
Qualcuno aveva lasciato sul tavolo un cornetto e lui lo prese e si mise a mangiucchiarlo. Non significava
rubare… lo avevano comunque gettato via. Già, davvero, che cosa si deve fare se non si ha alcuno
scopo nella vita? Tutti quei consigli erano intesi per le persone forti, non per quelle deboli. La giovane
che stava pulendo i tavoli, per esempio. Non sarebbe mai potuta diventare un Rockefeller, un Ford, un
Edison. Avrebbe continuato a pulire quei tavoli per qualche altro anno, dopo di che si sarebbe sposata
con un portinaio o qualcosa del genere e di lì a poco sarebbe rimasta incinta. Avrebbe fatto un figlio
all’anno. Il sabato avrebbe trascinato a casa dai bar il marito ubriaco, e lui l’avrebbe insultata e picchiata.
I figli sarebbero stati un misto dei limiti dei genitori. E il comunismo? Era stato creato dai forti per i
forti. I deboli avrebbero pulito tavoli a ogni generazione, quand’anche fossero volati su Marte,
quand’anche di tutta la fatica degli uomini si fossero fatte carico le macchine. Luria si alzò per
andarsene, abbandonando il libro sul tavolo. Mentre era al registratore di cassa in attesa di pagare,
qualcuno gli diede di gomito: era la giovane addetta alla pulizia dei tavoli, che gli restituiva il suo libro.
«Magari ha voglia di leggerlo lei. Io l’ho finito», rispose. «Che cos’è? Come avere successo in amore e
nel lavoro. Oh, no, grazie. Non ho tempo di leggere.» E la donna glielo restituì, con la copertina
inumidita dalla sua mano. E lui la seguì con lo sguardo mentre si dedicava di nuovo ai tavoli con il suo
straccio, un’espressione come di rammarico che le offuscava il viso. Non aveva alcun bisogno di libri.
Non potevano servirle a niente. Luria fu colpito dall’idea che in un certo senso quella donna uno scopo
per la sua vita ce l’aveva: non avere un fine ma andare ovunque la portasse il caso. I veri sfortunati
erano quelli come lui, quelli incapaci di pulire tavoli, che non sapevano decidere se stabilirsi o no uno
scopo. Ecco perché era condannato a morte. Ma avrebbe avuto almeno la forza di fare questo? Sì,
doveva trovare un peso o un altro oggetto pesante. Non lontano dalla Bowery, Luria trovò ciò che
cercava. Su un tavolo ingombro di ogni sorta di cianfrusaglie c’era un’enorme calamita a forma di ferro
di cavallo, con un foro su entrambe le estremità. Era un pezzo di un generatore? La raccolse, e il suo
peso lo sbalordì. Chiese il prezzo, e lo stupito venditore lo squadrò su e giù come per chiedere: che cosa
se ne fa di una simile calamita? «Due dollari», rispose. Luria lo pagò subito. Attraverso quei due fori si
poteva far passare una fune e appendersela al collo. Pieno di vergogna all’idea di poter essere visto per
strada carico di un oggetto così strano, decise di scendere alla Battery per dare un’occhiata al ferry che
andava a Staten Island, anche se trovava difficile camminare trasportando un oggetto così pesante. Se lo
faccio, dovrà essere di notte… una notte molto buia, senza luna, decise; ma aveva di continuo la
sensazione di star facendo un gioco. Era ben lungi dall’aver deciso di portare a compimento il progetto.
Gli era chiaro che cose del genere non si possono decidere in anticipo. Inoltre tutto doveva procedere
come si deve. L’ultimo impulso doveva arrivare all’improvviso, o non sarebbe venuto affatto. Be’, al
massimo ci avrò rimesso due dollari. Di punto in bianco Luria provò una curiosità da scolaretto nei
confronti della calamita. Quando era ancora alle superiori aveva fatto esperimenti con uno strumento
del tutto simile, spargendo limature di ferro ricevute da un fabbro su un foglio di carta che vi aveva
sistemato sopra. Oh, come tutto ciò adesso gli appariva remoto! A quei tempi i russi occupavano
ancora Varsavia. Doveva andare a casa a posare la calamita, per cui prese la linea E della Terza Avenue.
Pensieri di morte lo accompagnarono mentre saliva le scale. Quante delle persone che vi erano montate
nel corso degli anni erano ormai morte? Milioni di coppie di piedi che le avevano calpestate stavano
ormai marcendo sotto terra. Ma dovevano di sicuro essersi lasciate dietro una traccia. Un cane da caccia
sapeva cogliere un’usta di orme anche giorni dopo che erano state lasciate, per cui forse esisteva una
qualche forza in grado, anni dopo, di identificare i passi su quelle scale. Dove l’ho letto? Il cosmo è
pieno di tracce. Rimane una testimonianza di tutto. Potrebbe persino darsi che i miei pensieri di adesso
non vadano persi. Forse in cielo esiste un qualche tipo di apparecchio che filma gli esseri umani, i loro
pensieri, le loro emozioni. Io presto sarò morto, ma da qualche parte ci sarà un’immagine di me che mi
trascino in giro questa calamita. Ma di che ausilio è questo? Se accettiamo che Dio è bravo, significa
anche che è buono? Non ce n’è la minima prova. Luria si sedette con lo sguardo fisso fuori del
finestrino. Com’era brutta New York da lì! Gli edifici che si vedevano non erano che mucchi di mattoni,
notevoli soltanto per il fatto che non crollavano. Gli appartamenti erano tutti piccoli, angusti, occupati
da persone abituatesi da un pezzo al tambureggiare meccanico nelle loro teste giorno e notte. Che cosa
potevano sperare? Dopo decenni di lavoro venivano gettate via come tanti stracci logori. Quando
andavano a chiedere il sussidio di disoccupazione, i funzionari li trattavano con maleducazione. Una
volta invecchiati, chiedevano l’elemosina per strada o vagavano senza meta per gli ospizi. Ma non
avevano il coraggio di farla finita. Anche quando c’era la rivoluzione, cadevano vittime di tiranni mille
volte peggio dei loro precedenti oppressori. In un palazzo davano evidentemente lezioni di musica,
perché diversi uomini stavano soffiando nelle trombe, uno picchiava su un tamburo, e tutti insieme
sembravano un gruppo di clown da circo. Nella penombra di una sala da biliardo alcuni giovani
giocavano a stecca su tavoli pieni di macchie. Sotto le rotaie scorrevano banchi di pegno, squallidi cibi
cotti con panche al banco, bar, ferrivecchi che vendevano pentole, padelle e altre carabattole. La
giornata era stata caldissima, ma la sera prometteva di essere piovosa e fresca. Ah, di tutte le bugie la
primavera è la peggiore. Ha tutti i difetti dell’autunno, rifletté Luria. E’ sempre piena di pioggia, freddo
e delusione. Il treno si fermava a intervalli di pochi minuti, e montavano nuovi passeggeri.
Com’erano tutti malmessi! Facce screpolate, tagliate come con l’ascia, con sguardi folli, mani e piedi
troppo grossi. Una donna si issò dentro, tanto grassa da non riuscire quasi a strizzarsi attraverso la
porta. Il suo sguardo irritato sembrava dire: non sono grassa per divertimento!
Quando si sedette, occupò due posti. E guarda i vestiti. Dove li trovava indumenti del genere, quella
gente? Le loro camicie esotiche e le giacche color zolfo, a sgargianti righe o scacchi, gli ricordavano i
contadini polacchi e i loro ciuchy, gli abiti di seconda mano che si vendevano a Targòwek. Lì, tra quella
povertà, bruttezza e mancanza di gusto sembravano essersi accumulate. Era anche gente priva di
scrupoli: ottenuto il potere avrebbe fatto esattamente ciò che era stato fatto in Russia. Ciascuna di
quelle persone gli scoccava una sola occhiata e poi girava lo sguardo da un’altra parte. Dove abitavano?
Dove stavano andando? Non si sarebbe sorpreso se quella linea fosse stata diretta a Lowicz o Nizni–
Novgorod. Luria smontò e si avviò per Lexington Avenue.
Ogni volta che arrivava a casa e il portone del condominio gli veniva aperto, si stupiva di nuovo. Come
mai rinviavano la sua cacciata?
L’appartamento era l’unica cosa che sembrava tenerlo legato alla vita.
Mentre apriva la porta d’ingresso e posava la calamita, sentì suonare il telefono. Devo rispondere? Chi
può ancora aver voglia di parlare con me?
Sollevò la cornetta e una giovane donna gli chiese: «Mi scusi, signore, lei ascolta la radio?»
«Eh? Di rado, di rado.»
«Posso chiederle quali programmi le interessano?» Rispose che non gli interessava nessun programma di
alcun genere. Era malato. Si scusò e appese. E’ l’unica cosa di cui si preoccupano, rifletté. Tutto è
denaro, denaro, denaro. Lo stesso telefono, che un attimo prima aveva risvegliato in lui una scintilla di
speranza, adesso lo riempiva di irritazione. Non accese le luci ma si spostò di stanza in stanza nel
semibuio. La polvere copriva ogni cosa. L’aria era stantia. C’erano indumenti sparsi sulle sedie, sul
pavimento. Le tarme erano riuscite a intrufolarsi dentro.
Alla vista di ciò che erano diventati i preziosi locali di Anna, qualcosa nel suo intimo gemette. Fu
travolto dalla stanchezza e si allungò sul divano. Il suo stomaco rumoreggiava, sentiva un dolore
pungente al cuore, gli faceva male la testa. Ho la febbre? Si toccò la fronte e la sentì rovente. Be’, magari
muoio di morte naturale. Chiuse gli occhi e rimase steso a lungo, come posseduto da uno spirito
maligno.
Avvertiva una forte ondata di rumore che non veniva da fuori ma dal suo intimo. La sua mente
sembrava sferragliare come un treno che facesse fermate in stazione: sentiva chiaramente le portiere
aprirsi e chiudersi. Attraverso gli occhi chiusi vedeva finestre che riflettevano le strisce delle veneziane.
Oh, sono stanco, stanco! gemette. Aveva un solo desiderio: dormire. Assopitosi, sognò di essere in una
stanza zeppa di tubazioni che sporgevano persino dalle finestre. Attraverso di esse si comunicava con i
vicini e con i palazzi di fronte. Vi scorrevano voci, ne scrosciava acqua, ne cascavano fuori prodotti
commestibili… fagioli, cereali, farina. Che genere di meccanismo è? si chiese. Come funziona? Aveva
sostituito il telefono, o era un primitivo regresso al passato? Tra le tubazioni sedeva un cane gigantesco,
grosso come un cavallo. Luria si paralizzò per il terrore: un cane così poteva divorare un uomo. Aprì gli
occhi. Il buio della notte aveva avvolto la stanza. Di punto in bianco si rese conto che ai piedi del
divano c’era qualcuno.
Non si stupì. Era Sonia. Aveva lo stesso aspetto di sempre, ma il suo viso era luminoso, radioso,
circondato da un’aureola di un lucore immobile. Devo star sognando, si disse. O è entrata per le
tubazioni?
Lei lo guardava con sorrisi misti a tristezza, quasi anelasse a parlare ma fosse senza voce. Avrebbe
voluto chiederle qualcosa, ma il polacco lo aveva piantato in asso. Niente di tutto ciò durò più di un
secondo. La figura tornò a svanire quasi immediatamente. Rimase lì un pezzo a fissare la zona scura
dove un attimo prima aveva visto con tanta chiarezza Sonia. Be’, così è dunque, osservò tra sé. Adesso
sapeva con profonda convinzione intima che questa volta aveva davvero visto Sonia e che molto presto
l’avrebbe incontrata di nuovo. Avrebbe voluto alzarsi, ma era troppo debole per reggersi in piedi. Per la
prima volta da mesi provò un senso di assoluta tranquillità, si girò con la faccia verso lo schienale del
divano e torno ad assopirsi.
CAPITOLO 14.
Nel cuore della notte il telefono squillò con insistenza nell’appartamento di Grein sulla Quinta Avenue.
«Chi può essere a telefonare a quest’ora?» chiese Anna. «Devono aver sbagliato numero», rispose Grein
con voce assonnata. Nessuno sapeva dove lo si potesse raggiungere, tranne Leah ed Esther, nessuna
delle quali avrebbe telefonato a quell’ora. Grein attese un po’, ma gli squilli non cessarono. Raggiunto a
tentoni il telefono al buio, sollevò la cornetta. «Pronto!» Per un attimo all’altro capo del filo nessuno
disse niente. Poi Grein sentì una voce maschile chiedere in yiddish: «il signor Grein?»
«Sì, sono io.»
«La prego di scusarmi se l’ho svegliata. C’è stato un incidente. Posso parlare con Anna?»
«Chi parla?»
«Sono il suo primo marito, Yasha Kotik.» Grein si sentì gelare, in preda a un misto di vergogna,
irritazione e repulsione. «Chi le ha dato il mio numero di telefono?»
«Sua moglie, la signora Leah Grein.»
«Mia moglie?
Quando?»
«Cinque minuti fa.»
«Che cos’è successo?»
«Stanislaw Luria è morto.» Grein tacque un attimo. All’improvviso gli venne una paura terribile.
«Quando è successo? Come fa a saperlo?»
«Sono due settimane che abito da lui. Sono stato a Hollywood, ma non ha funzionato niente, per cui
sono tornato a New York. Vivevamo insieme… i due mariti abbandonati.»
«Che cos’è successo?»
«E’ morto all’improvviso. Si è svegliato e si è lamentato di un dolore al petto. Volevo dargli un goccio di
whiskey, ma era già troppo tardi.»
«Da dove telefona?»
«Dal suo appartamento.»
«Ha chiamato un medico?»
«No. E’ senza dubbio morto.
Ho esperienza in materia.»
«Chiami un’ambulanza. Avverta la polizia.»
«Che cosa può fare per lui la polizia? Ho telefonato a sua moglie e lei mi ha dato U suo numero.» Grein
avrebbe voluto dire ancora qualcosa, ma di punto in bianco le luci si accesero e Anna fu lì in camicia da
notte.
«Che cos’è successo?» gridò quasi. «E’ per te», rispose Grein in tono sordo, porgendole il ricevitore. Poi
si precipitò a tornare in camera e chiuse la porta. Be’, l’ho ucciso io! si disse. E’ la stessa cosa che
commettere un omicidio. E si stese sul letto. Attraverso la porta chiusa sentiva Anna ansare e
singhiozzare. Poi la porta si aprì e nel riverbero di luce che veniva dal corridoio la vide in viso. In quei
pochi minuti sembrava terribilmente cambiata. I capelli erano scarmigliati. «Questo non sarebbe dovuto
succedere, Hertz!» strillò Anna in yiddish. «Oh, mio Dio!» E cominciò a farfugliare come una bimbetta
che avesse preso uno schiaffo. Lui rimase steso sul letto. «Alzati! Aiutami!» urlò Anna. «Che cosa vuoi
fare?»
«Vado da lui!» rispose Anna. «L’ho ucciso io! Io! Io!» E scoppiò in una nuova crisi di pianto che
cambiava di tono di istante in istante, quasi fosse una serie di grida completamente diverse che le
venissero strappate in successione. Grein si alzò dal letto e lei accese le luci. In pochi minuti il viso le si
era fatto gonfio e livido. Cerchi blu le erano comparsi sotto gli occhi. Visto che non riusciva a infilarsi
nel busto da sola, lui la dovette aiutare. Quindi si precipitò anche lui a vestirsi, infilando per la
confusione il piede destro nella scarpa sinistra. Banconote e monetine gli caddero fuori dalle tasche dei
pantaloni, gli tremavano le mani, e a intervalli di pochi attimi gli veniva da vomitare. «Portami da lui!»
ordinò Anna. L’auto era chiusa in garage, per cui Grein decise che avrebbero preso un taxi. Si
precipitarono sul pianerottolo e suonarono per chiamare l’ascensore, ma l’addetto notturno stava
evidentemente dormendo, visto che i minuti passavano e l’apparecchio non compariva. Anna si scostò
da lui con impazienza. «Facciamo le scale!» Si precipitarono giù per i nove piani di scale. La notte estiva
era fresca. La Quinta Avenue deserta. Rimasero lì a guardarsi intorno in cerca di un taxi, ma passarono
cinque minuti senza che ne vedessero traccia. Anna si faceva sempre più esasperata.
«Va’ a prendere l’auto!» Ma ormai erano troppo lontani per andare al garage. Per fortuna, però, di punto
in bianco comparve un taxi, e si precipitarono entrambi a montare. Stranamente, Anna si era
dimenticata il suo ex indirizzo, per cui si mise a borbottare e balbettare finché non le venne in mente
l’incrocio più vicino al palazzo. In taxi lui e lei non scambiarono una sola parola e sedettero lontani,
ciascuno assorto nella sua privata cupezza. Anna emanava rabbia e qualcosa di prossimo all’odio. A
parte lo stomaco in subbuglio, in Grein tutto era paralizzato. Io non salgo! Non salgo! decise. Come
uno scolaretto, era in preda al terrore di vedere un cadavere e a vergogna nei confronti di Yasha Kotik.
Persino il taxista era evidentemente conscio del dolore e del profondo abbattimento che regnavano nel
sedile posteriore, visto che di quando in quando si girava a guardarli, accigliandosi e brontolando che il
breve percorso ammontava soltanto a venticinque centesimi. Grein rifiutò il resto di un dollaro, ma il
conducente non ringraziò e filò via con la tipica fretta della notte avanzata. Di fronte al palazzo c’erano
un’auto della polizia e un agente di servizio, mentre ne usciva l’addetto all’ascensore con cui Anna era
scesa quando se n’era andata di casa. L’uomo la guardò con espressione furibonda e borbottò qualcosa
al poliziotto. «Sono la moglie del signor Luria!» disse lei. Il poliziotto scrollò le spalle: «Be’, salga.»
«Vieni con me, Hertz!»
«Aspetto qui.»
«No, Hertz, non lasciarmi sola adesso!» Pur in mezzo a tanto trambusto Grein voleva fare
un’impressione positiva su Yasha Kotik, per cui si aggiustò la cravatta e si tastò le guance per sentire se
la barba era cresciuta troppo. Ricordo che lei ha detto che è basso, rammentò lui, pensando a Kotik. Ma
allo stesso tempo era inorridito, pervaso dal senso di gelo che produce il contatto con la morte.
Rabbrividì, e i suoi piedi parvero sul punto di scappare per conto loro. Come un lampo gli attraversò la
mente il pensiero: chissà, potrei anche essere accusato di omicidio! Persino l’ascensore adesso aveva un
fetore di morte, inquinato dall’impurità rituale di un cadavere, «il progenitore dell’impurità», come lo
definiva il Talmùd in riferimento al versetto del Pentateuco che in quel momento gli venne in mente:
«Chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo.» Che bizzarria definire «immondo» un morto!
pensò.
D’altra parte intendevano il corpo, non l’anima. Il concetto era che il solo corpo fisico, orbato
dell’anima immortale, è un grumo di putrefazione. Entrarono sul pianerottolo in tempo per vedere un
altro poliziotto che usciva dall’appartamento di Luria. Guardò Anna e gridò: «La moglie?» Quindi li
lasciò entrare. Yasha Kotik venne loro incontro in pigiama e ciabatte. Era basso, non più alto di Anna,
ma nella sua figura e nel suo portamento c’era un’agile lievità. Anna lo fissò sbalordita: si era già tinto di
castano chiaro i capelli in precedenza grigi, per cui soltanto le borse sotto gli occhi testimoniavano dei
brutti momenti che aveva conosciuto e della sventurata notte che stavano vivendo. «Dov’è?» chiese
Anna, prima che Kotik potesse aprire bocca.
«Lì», rispose lui indicando la camera da letto. Proprio mentre lei stava per entrarci, ne uscì in vestaglia e
ciabatte la signora Katz. Con un’aria invecchiata e più grinzosa, fulminò Anna con un’occhiata
malevola, quasi volesse pugnalarla con l’odio del suo sguardo. Senza volerlo, Grein le rivolse un cenno
di saluto con la testa, ma lei fece finta di non accorgersene. Era evidentemente in termini di familiarità
con Kotik, perché lui le chiese in yiddish: «Allora, è riuscita a chiudergli la bocca?»
«L’ho legata con un telo», rispose la signora Katz. E uscì sbattendosi dietro la porta. Anna entrò nella
camera da letto dov’era steso il cadavere e si sbattè a sua volta la porta dietro le spalle, desiderando
chiaramente rimanere sola con il morto. I suoi movimenti erano rapidi, rabbiosi, carichi del
risentimento che prende chi non può più raddrizzare alcun torto.
Soltanto allora Kotik cominciò a valutare in silenzio Grein, con un’espressione né di odio né di
disprezzo ma piuttosto di irridente curiosità mista alla deferenza che gli attori mostrano sempre nei
confronti delle persone estranee alla loro professione. «Il signor Grein?» si informò. «Sì, sono io.»
«So che cosa deve provare, lo so. Non mi chieda che genere di notte ho trascorso. In Russia non si fa
tanto chiasso per una cosa così. Un morto è un morto. Ma ultimamente mi sono un po’ disabituato alla
morte. Adesso però vedo che si muore anche nei Paesi capitalisti. Una vera sorpresa.»
«Era malato?» chiese Grein. «Mi perdoni se la ricevo in pigiama. Malato? Chi lo sa se uno è malato o sta
bene? Sono già stato a Hollywood, e sono riuscito a battermela per un pelo da quel manicomio. Nello
Stato di Stalin ho conosciuto la mia bella manica di matti, ma quella è un tipo di demenza nuovo di
trinca. A Hollywood uno ti parla e tu non riesci a capire che cosa stia dicendo.
Poi, mentre ti sta ancora parlando, scappa via e fa: ‘Ci vediamo dopo’, ma quel dopo non arriva mai.
Chiedi che cosa ne sia stato di lui, ma nessuno ne ha idea: è come se l’avesse inghiottito la terra. Tutti
erano molto contenti di vedermi, e tutti mi facevano un sacco di complimenti, ma dopo un attimo
sparivano a uno a uno ed era impossibile trovarli. Se chiedevo che cosa dovevo fare, mi dicevano tutti
quanti di aspettare; a Hollywood bisogna imparare ad avere pazienza. Alla fine mi hanno portato faccia
a faccia con il Grand’Uomo in persona, quello che mi ha fatto venire in America, per la precisione, e lui
fa: ‘Lei è un attore magnifico, ma perché è così basso?’ Poi chiede alla sua segretaria di misurarmi, per
cui lei porta lì una bindella e si mette a misurarmi la statura come se stessero per arruolarmi
nell’esercito dello zar. Sono alto abbastanza? chiedo. Andrò bene come soldato? Loro mi parlano
mezzo in yiddish e mezzo in inglese, storpiando la nostra madre lingua in un modo tremendo. Mi
hanno trascinato qua e là in quel modo per diverse settimane. Non mi chieda che cosa ci ho ricavato,
perché non lo so.» Come fa a parlare a vanvera in questo modo mentre c’è un morto nella stanza
accanto? si chiese Grein. E comunque, perché mi racconta tutto questo? «Ha per caso una sigaretta?»
chiese Kotik. «No, mi spiace.»
«Oh, be’, non importa. Sono tornato a New York e non avevo idea di dove andare. Poi mi è venuto in
mente il secondo marito di Anna. Ero stato qui una volta, prima, in una circostanza in cui ho incontrato
anche lei.
Gliel’ha probabilmente detto lei stessa. Luria mi aveva fatto una buona impressione. Visto che avevamo
avuto la stessa moglie, in un certo senso eravamo parenti. Gli uomini come noi, i playboy di Varsavia li
definivano ‘cognati’. Adesso ce l’ha lei, signor Grein, e, che le piaccia o no, anche noi non siamo, per
così dire, del tutto estranei. In definitiva, da che cosa deriva la parentela? Da questo.» E Kotik fece un
gesto osceno. Immediatamente dopo i suoi occhi si fecero larghi e pieni di dolore. «Be’, è andato a
prendere la sua ricompensa.»
«Da quanto tempo abitava qui?» chiese Grein, tanto per dire qualcosa. Gli era improvvisamente venuta
paura del silenzio. «Due settimane, ma sono sembrate lunghe come due mesi. Lui mi ha aperto il cuore.
Nessuno di noi due riusciva a dormire, per cui fumavamo sigarette e parlavamo. Mi ha raccontato
tutto… tutta la storia della sua vita. Hitler lo ha sistemato nello stesso modo in cui ha sistemato tutti gli
ebrei. Il suo cuore non era qui ma là, a Varsavia. Una tale che parla con i morti, una strega o una
balorda, gli ha fatto vedere la sua prima moglie in uno specchio scuro, o qualcosa del genere, e la cosa
lo ha mandato in confusione totale. Quella tale vive con un professore, o Dio sa chi. Gli ho parlato con
franchezza. Panie Luria, gli ho detto, non credo a scemenze superstiziose come questa. I morti sono
morti e non possono parlare. Chi dice che possono? Quando si riduce qualcuno a un mucchio di
cenere, non può di sicuro più compiere alcun atto. E come avrebbe fatto sua moglie ad attraversare
l’oceano? Abbiamo dibattuto a lungo, e ogni volta lui tirava sempre fuori la stessa frase: vedremo
presto. Sapremo presto. Voleva affogarsi. Mi ha mostrato una calamita che intendeva legarsi al collo in
modo che lo tirasse sotto. Non ho perso tempo, me lo lasci dire, e ho nascosto quel pezzo di ferro in
un modo che non riuscisse più a trovarlo. Ma chi avrebbe potuto immaginare che fosse così malato? Ai
tempi non si restava secchi in quel modo… uno, due, via. Si tirava avanti a soffrire per settimane, se
non addirittura anni.
Perché non si siede?»
«No, grazie.»
«Può anche sedersi, tanto costa lo stesso. Perché Anna si è chiusa dentro? Potrebbe magari dare
un’occhiata.» Grein si accostò alla porta, ma non osò aprirla. Ascoltò un attimo, ma da dentro non sentì
arrivare alcun rumore. Si tese e bussò lievemente con una nocca. Dentro qualcosa si mosse. Dopo una
qualche esitazione aprì la porta di una fessura. Anna era in piedi accanto al letto. Da dove si trovava,
Grein non poteva vedere la faccia del morto, soltanto il corpo coperto con un lenzuolo. Anna si gettò
un’occhiata alle spalle, con l’espressione di rimprovero di chi è stato interrotto durante una preghiera.
Lui si ritirò, chiudendosi dietro la porta. «Che cosa sta facendo Anna là dentro?» Grein non rispose, e
Kotik prese a girare su se stesso da fermo, con il corpo che compiva movimenti elastici, quasi
serpentini. «Un bel botto, eh?» osservò. «E’ quello che voleva: andarsene sbattendosi dietro la porta.
Protestare contro tutto il mondo e sbatterla in faccia al mondo, per così dire. Non la smetteva mai di
parlare. Si stendeva su un letto e io sull’altro, e si esprimeva come un poeta, come un profeta. Parlava in
polacco, ma è una lingua che capisco. Ho soltanto difficoltà a parlarlo. Dava contemporaneamente la
colpa alla società e a se stesso. Si era messo in testa di avere fatto un torto alla sua famiglia. Ho cercato
il più possibile di convincerlo che non era così. I morti, gli ho detto, non serbano rancori. Ma quella
donna, l’amante del professore, aveva risvegliato in lui dubbi. Era convinto che, non appena avesse
chiuso gli occhi per sempre, sua moglie sarebbe stata lì ad accoglierlo.»
«Che cosa diceva di me?» chiese Grein, pentendosi immediatamente della domanda. Kotik fece una
smorfia e i suoi occhi parvero dire: se è tutto ciò che desidera sapere, è uno stupido anche lei. Ma
rispose: «Che cosa si dice in casi del genere? Accusava.
Io volevo confortarlo, per cui gli ho detto: ‘Lei mi ha portato via mia moglie, e un altro l’ha portata via
a lei. Pari e patta’. Ma lui ha ribattuto: ‘Io non ho portato via niente a nessuno. Tutti hanno portato via
qualcosa a me’. Non parlava mai male di lei. Inoltre aveva, come si suol dire, uno scopo nella sua vita.
Soltanto qualche giorno fa ha cominciato a dire che voleva andare al college.»
«Al college?»
«Sì, per seguire un corso di inglese. Se lo conoscessi a fondo, diceva, riuscirei a trovare un qualche
impiego. Be’, ho pensato, è un buon segno, perché, se vuole uccidersi, uno non si mette a studiare
l’inglese. Nel Mondo a Venire si parla soltanto in yiddish o in ebraico. Giusto?» Grein chinò la testa. Gli
erano tornati i crampi allo stomaco. A giudicare dal modo in cui Kotik parla a ruota libera, per lui si
tratta soltanto di un gioco, pensò con rammarico. E’ il tipo di uomo che balla sulle tombe. Ma di punto
in bianco il campanello della porta squillò stridulo. Kotik gettò un’occhiata interrogativa a Grein prima
di precipitarsi all’ingresso con una strana andatura saltellante. «Chi è?» chiese Kotik. Non si sentì che un
grugnito. Kotik aprì la porta, rivelando Boris Makaver in piedi sulla soglia in cappotto tutto abbottonato
e cappello nero, che scrutava nell’appartamento con due occhi neri carichi di rabbia. Grein lo vide
anche lui e si fece indietro di scatto. Kotik evidentemente non lo riconobbe, perché chiese: «Chi è lei?»
«Quand’è successa questa tragedia?» chiese irosamente Boris. «Nel cuore della notte.»
«Lei chi è? Abita qui?» chiese Boris. Grein si era ritratto in modo da non farsi vedere. Sentì Kotik
rispondere: «Sì, abito qui. Posso chiederle chi è lei?»
«Sono il suocero.» Per un attimo vi fu un silenzio mortale. «Non mi riconosce, eh? Io invece adesso la
riconosco», gridò finalmente Kotik con un tremito nella voce. «Chi è lei?» Dove posso nascondermi? si
chiese Grein. Schizzò improvvisamente nel corridoio e, intrufolandosi oltre Boris e Kotik, si chiuse a
chiave nel bagno. Ormai aveva un solo desiderio: battersela da quell’appartamento il più in fretta
possibile. Piazzatosi accanto alla porta chiusa a chiave del bagno e ascoltando ciò che succedeva
nell’ingresso, rabbrividì con violenza e dovette fare uno sforzo per controllarsi in modo che non gli
battessero i denti. L’essere nascosto lì gli ricordava qualcosa, ma non sapeva che cosa. Rimase lì come
un ladro interrotto durante la sua attività criminosa, senza parole e pieno di paura, trattenendo il fiato.
Non riusciva a cogliere tutte le parole, ma sentì Boris tuonare: «Proprio!»
«Sì, proprio», ribattè Yasha Kotik. «Lei è ringiovanito e io sono invecchiato.»
«Non voglio farle una lezione», osservò Boris dopo una pausa, «ma per la Legge ebraica non le è
consentito essere in questa casa. Le è vietato stare sotto lo stesso tetto con lei.»
«Non sapevo che le cose sarebbero andate così e che Anna sarebbe venuta qui.»
«Si vesta e vada via. Anna dovrà trascorrere i Sette Giorni di Lutto qui.»
«Dove dovrei andare? Non ho nessun posto dove stare.»
«Non sono tenuto a discutere con lei. Tutte le nostre disgrazie sono colpa sua», ribattè Boris con la sua
voce tonante. «Ma, ripeto, per la Legge ebraica le è proibito rimanere sotto lo stesso tetto con una
donna da cui ha divorziato. Adesso può vedere da sé che cosa ne è della carne mortale. Le darò qualche
dollaro in modo che possa affittarsi una camera.»
«Devo lavarmi e vestirmi. Persino nello Stato di Stalin non si viene buttati per strada e amen. Se non
altro da quelle parti si viene portati in galera.» Senza ulteriori repliche, Boris si allontanò e Kotik bussò
alla porta del bagno. «Si è trovato un nascondiglio?»
«Me ne vado immediatamente.»
«Ha sentito che cosa ha detto quello là? Mi butta fuori di qui. Ha intenzione di darmi qualche dollaro
per una camera.»
«Posso prestarle io un po’ di soldi», sbottò Grein, scosso dalle sue stesse parole. «Ne ho un po’ di miei.
Non sono troppo orgoglioso per accettare un po’ di grano se mi occorre. Ma ne ho ancora quanto
basta per affittarmi una camera per una settimana. Ho persino pagato a Luria la mia quota di affitto,
anche se lui non ne pagava nessuno, e se fosse rimasto in vita lo avrebbero sbattuto fuori da questo
appartamento. Be’, alla fine si è sfrattato da solo.» Grein ci pensò sopra un paio di istanti. «Non posso
rimanere qui. Per favore, sia così gentile da dire ad Anna che sono andato via.»
«Eh? Glielo dirò se il vecchio me lo consente. Mi ha quasi bruciato vivo con gli occhi.» Di punto in
bianco nel corridoio comparve Anna. Il suo viso, rigato di lacrime, arrossato, come stazzonato, recava
di nuovo l’espressione di chi è stato disturbato durante una preghiera. Era esattamente l’aria che aveva
la madre di Grein quando lasciava il settore femminile della sinagoga nei Giorni del Timore, quando lui
era ancora un bambino. Anna rimase ferma un attimo in silenzio, interdetta. La porta del bagno era
aperta, e i due uomini erano ciascuno su un lato di essa. «Si è nascosto da tuo padre in bagno», spiegò
Kotik con maliziosità da scolaretto, scuotendo un dito. Anna lo fissò. Evidentemente non aveva idea di
che cosa stesse dicendo. Nella sua occhiata, piena della preoccupazione di chi si trova in un disastro e
non può occuparsi di cose banali, c’era anche una sorta di compassione materna, da adulto che perdona
un bambino. «Anna, non posso rimanere qui», disse Grein. «Eh? Be’, va’ via.
Non dimenticare il cappello. Fuori fa freddo, e prenderai un raffreddore.»
«Il mio cappello è nel soggiorno.»
«Vado a prendertelo.»
«E’ devota», osservò Kotik, rivolto a Grein come a se stesso. «Il vecchio ha ragione. Le ho fatto un
torto. Ma a quei tempi ero totalmente fuori di testa. Facevo certe cose e non sapevo che cosa stessi
facendo. Ero l’attore più famoso di Germania. I teatri mi disputavano. Avevo due passatempi… la
recitazione e l’altra cosa… lei sa quale. Be’, è comparsa in scena la discendente di una famiglia
chassidica, la figlia di un uomo ricco, e io l’ho rovinata. A quei tempi volevo rovinare tutto. Per me era
una specie di ambizione… o follia. La definisca come vuole.» Anna tornò con il cappello. «Ecco il tuo
cappello. Dove hai intenzione di andare? A casa?»
«Tuo padre ha detto che dovrai trascorrere i Sette Giorni di Lutto qui», disse Grein in tono tra
l’affermativo e l’interrogativo. «Eh? Non ne ho idea. So soltanto una cosa: l’ho ucciso io», ribattè lei
rivolta a se stessa e a nessuno in particolare, «sicuro come se avessi preso un’ascia e gli avessi staccato la
testa. Se mi mandassero alla sedia elettrica per ciò che ho fatto, mi sentirei molto meglio.» E nei suoi
occhi comparve una specie di sorriso… l’insensata allegria che esplode spesso durante il più
opprimente dei dolori. «Evita di rimuginare su simili pensieri, Anna», interloquì Kotik. «E’ vero che lui
dava la colpa a te, ma un infarto non viene per quello. Guarda quanto ho dovuto sopportare io in
Russia, eppure sono ancora vivo! Queste cose sono tutte preordinate. Un essere umano è come uno di
quei coperchi dell’Hanukkah che i bambini fanno roteare. Uno gira per un pezzo e l’altro cade non
appena ha cominciato.
Quest’analogia me l’ha fatta notare un medico a Minsk, e non riesco a dimenticarla. Come si suol dire,
mi ha piantato il chiodo fisso in testa.»
«Be’, Anna, io vado. Può benissimo darsi… magari non è affatto morto per tutto questo», mormorò
Grein. «Eccome! Eccome! Non è mai stato tanto malato. Ma ormai è troppo tardi! Troppo tardi!» E
Anna si rivolse a Kotik. «Sarebbe meglio che andassi via anche tu. Il papà è terribilmente alterato.»
«Devo vestirmi… non posso andarmene in pigiama. E devo anche fare i bagagli. Non sapevo che
sarebbe finita così. Nelle ultime settimane sono stato il suo amico. Mi confidava tutto, e adesso arrivi tu
e mi sbatti per strada come un cane.»
«Non ti sbatto fuori. Ma il papà…»
«Dove andrò con il mio fagotto? Non conosco New York, non so dove andare.»
«Tra l’altro, che cosa ci fai qui?» chiese Anna in un tono da cui si capiva che si era resa conto soltanto in
quel momento che Kotik non aveva assolutamente nessun diritto di essere lì. Gli occhi le parvero
roteare nella testa, come se avesse di punto in bianco colto la bizzarria della situazione, quasi fosse una
specie di incubo. «Ho spiegato ogni cosa al tuo Grein. Ho abitato qui le ultime due settimane. Sono
tornato da Hollywood e non avevo un posto dove stare. Mi è venuto in mente che tuo marito abitava da
solo in questo appartamento. La prima volta, quando ti ho incontrato qui, era stato molto cordiale con
me e mi aveva proposto di venire a stare qui con lui. Quindi gli ho telefonato.»
«Eri presente quando…» e Anna si interruppe bruscamente. «Sì. Mi è praticamente morto tra le braccia.
Si è svegliato e ha detto che non stava bene. Sono andato a prendergli un goccio di whiskey, ne ho qui
una bottiglia, ma quando sono tornato indietro era già morto. Non era passato più di un minuto.»
«Oh, mio Dio! Che cosa ha detto?»
«Quando? Prima di morire?» Anna non rispose. «Ha detto che si sentiva molto male. Ha cominciato a
gemere e io mi sono precipitato il più in fretta possibile ad aiutarlo. Ti amava, Anna… ti amava
moltissimo.» Il viso di Anna era madido di lacrime.
«Be’, l’ho ucciso! Ecco come l’ho ripagato! Prendi il tuo cappello.» E lo porse a Grein. Grein stava per
andare alla porta, quando Boris Makaver gli comparve all’improvviso davanti. «E’ qui anche lei?» quasi
gridò. «E allora perché scappa? ‘Hai assassinato e ora usurpi!’» aggiunse in tono tagliente, citando
l’accusa rivolta da Elia ad Acab per la vigna di Nabot. Le labbra di Grein tremarono. «Non usurpo
niente.»
«Lo ha ucciso lei! Lei è un assassino! Vada almeno a dargli un’occhiata!
Dobbiamo anche seppellirlo! Bisogna che qualcuno se ne occupi.» Grein non replicò. «Entri. Venga con
me!» ordinò Boris con voce forte e al tempo stesso gonfia di lacrime. Grein si lasciò guidare con la
paura soffocante di chi sa che lo attende una vista orrenda. Boris girò improvvisamente la testa. «Le ho
detto di togliersi dai piedi!» gridò a Yasha Kotik. «Non ti è consentito parlare con lui!» aggiunse poi
rivolto ad Anna, gridando ancora più forte. «Se non altro, non peccare apertamente davanti ai miei
occhi! Evitano di farlo persino i peggiori libertini!»
«Papà!»
«Silenzio! Puttana!» Boris parve scioccato dalle sue stesse parole. Il viso gli si fece blu, e strabuzzò
ancora di più gli occhi venati di sangue. Afferrò Grein per la manica e lo trascinò via con uno strattone
familiare da vecchie conoscenze.
Grugnì, sboffò, cercò di dire qualcosa, poi spalancò precipitosamente la porta della camera da letto. Il
cadavere era coperto da un lenzuolo, che scostò. Grein gettò una sola occhiata e capì che non avrebbe
mai dimenticato quella vista sino a che non fosse morto, che lo avrebbe ossessionato giorno e notte.
Stanislaw Luria giaceva con la faccia legata da un telo per impedire alla bocca di spalancarsi. Non era il
Luria che conosceva lui, ma un altro che gli assomigliava soltanto vagamente, la faccia gialla come
avorio, il naso completamente cambiato: invece di essere corto e largo, si era allungato e aveva assunto
una curvatura ebraica. Il vecchio incavo nella fronte si era approfondito e allargato, e i sopraccigli
cespugliosi nascondevano gli occhi. La bocca sembrava emettere un grido afono di pena, esprimere un
dolore non di questo mondo. Sulle grosse labbra e agli angoli della bocca aleggiava un’accusa, mescolata
alla pia umiltà della vittima di un omicidio.
Sembrava che il cadavere si stesse sforzando di dire un’ultima parola che non poteva più pronunciare
ma che Grein udì con la massima chiarezza: «Be’, mi hanno sistemato. Guardate che cos’hanno fatto. E’
un oltraggio, un oltraggio scandaloso. Che cosa ho fatto per meritarmi questo? ‘Guarda, o Signore, e
osserva!’ L’assassino viene persino qui a dare un’occhiata alla sua opera.» Grein si sentì gelare, come se
qualcuno lo avesse afferrato alle costole con dita di ghiaccio. «E la Geenna, la Geenna», borbottò. Il
cuore gli batteva in fretta come se fosse esso stesso sconvolto da ciò che vedeva. Crollerò e morirò qui,
pensò Grein. Invece di un funerale, Anna ne avrà due. Boris tornò a coprire il cadavere con il lenzuolo.
«Secondo la Legge ebraica, siamo tenuti a sollevare il cadavere e a posarlo per terra», disse. «Ma in
America tutte le leggi ebraiche sono state abrogate.» Grein rimase zitto. «E’ stato qui un medico?»
«Non so.»
«Non possiamo seppellirlo senza un certificato di morte rilasciato da un medico», continuò Boris
parlando per esperienza. «Potrebbero ritener opportuno fare un’autopsia sul suo corpo. Sia così buono
da chiamare il dottor Margolin.»
«Qual è il suo numero di telefono?»
«Non è ancora in studio. Lo chiami a casa. Aspetti: ripensandoci, lo chiamerò io stesso.» Mentre Boris
usciva a grandi passi dalla camera, Grein rimase solo con il cadavere. Fece una cosa che risultò
inspiegabile a lui stesso: tornò a scoprire la faccia del morto. Mentre rimaneva lì in piedi a guardare, il
cuore, che aveva ripreso un battito più regolare, ricominciò a saltare e martellare.
Grein sembrava voler verificare quanto a lungo avrebbe potuto sopportare il dolore e persino se
sarebbe stato in grado di abituarcisi. Sentendo qualcuno che girava la maniglia, si precipitò a rimettere a
posto il lenzuolo. Entrò Anna. Rimase sulla porta gettando sguardi sia a lui sia alla figura avvolta nel
sudario. Soltanto in quel momento Grein si rese conto che non era più notte. Il sole irrompeva
attraverso le tende, mescolando la sua luce a quella delle lampade ancora accese. Per un attimo Anna
non disse niente. I suoi occhi erano pieni di un dolore per cui non esiste cura: il dolore della nascita e
della morte, del peccato e dell’ignoranza. Il suo sguardo andò a posarsi in un angolo della camera, dove
parve vedere una rete di ombre da cui si diffondeva ogni sofferenza e malinteso. Poi si accostò a Grein.
«Lo ha fatto per dispetto», disse. Grein si sentì gelare di nuovo. «Taci, Anna.»
«Sì, ha voluto morire. Sapeva che così sarei andata a pezzi. Non sarò mai più io. Mai!» E Anna sputò
l’ultima parola. Grein sapeva che avrebbe dovuto confortarla, ma non riusciva a trovare niente da dire.
Era esausto e svuotato. In uno strano modo invidiava il morto, che giaceva lì a riposo, senza obblighi,
senza preoccupazioni, senza alcun rimorso di coscienza. No, non esiste anima, nessuna! urlò qualcosa
nel suo intimo.
Siamo macchine senza valore che si logorano e vengono mandate in depositi di rottami. Dio ha voluto
insultarci, sputarci in faccia. Ha voluto mostrarci la Sua grandezza attraverso la nostra meschinità. Entrò
Boris. «L’ho chiamato. Sarà qui subito. Dobbiamo organizzare il funerale.» Nessuno rispose. «Sia
gentile, Grein… devo scambiare qualche parola con lei.» Boris gli fece cenno di seguirlo nell’altra
stanza, e lui obbedì. Kotik non c’era più. Era evidentemente in bagno.
«Che cosa ci fa qui quella feccia?» chiese Boris. «Non avevo idea che fosse ancora vivo.»
«E’ in America. E’ stato a Hollywood. Si era trasferito ad abitare qui.»
«Trasferito? Qui?»
«Sì.»
«Perché mai? Be’, meglio non sapere troppo di gente come voi due. Visto che tutto è stato messo
sottosopra, è meglio lasciare le cose come stanno. Voglio dirle una sola cosa: lei ha commesso un
peccato grave, un oltraggio… vede lei stesso quale ne è stata la conseguenza. Ma era comunque
preordinato.
Io ho cancellato Anna come figlia, cancellata. Nondimeno continua a essere carne della mia carne e
sangue del mio sangue. Adesso non è più sposata, per cui è tempo che lei rifletta su se stesso. Peccare
contro il Creatore dell’universo non paga. Io avevo implorato Luria di concederle il divorzio, ma la
gente moderna non vuole riflettere.»
«Sì, sì.»
«Quindi le cose stanno così… ottenga il divorzio e si ponga fine a questo scandalo.»
«Farò tutto ciò che posso.»
«Per me questa situazione è uno schiaffo in faccia ogni giorno!» esclamò precipitosamente Boris,
mangiando le parole. Grein sentì all’improvviso una familiare intimità con questo vecchio ebreo, una
cosa mai provata fino a quel momento. Boris adesso era suo suocero. E lui non aveva mai avuto
suoceri. Leah era orfana. La sensazione di intimità nei confronti di un uomo che era padre di sua
moglie, che viveva in lei, gli risultava del tutto nuova. Anche le sue amanti non avevano un padre in vita,
o non glielo avevano mai presentato. In quel momento sentì un soprassalto di affetto per Boris Makaver
e profonda vergogna per il fatto di provocargli onta. «Anna è mia moglie qualsiasi cosa succeda», disse,
non cogliendo a fondo le implicazioni di ciò che diceva. «Io voglio bene a tutti e due. L’ho sempre
considerata un amico e un padre.» Gli occhi di Boris Makaver si riempirono di lacrime. «Che cosa ho
oltre ad Anna?
Quand’anche dovessi avere altri dieci figli, lei rimarrebbe il mio bene più prezioso.» Emettendo
profondi e bassi grugniti, Boris cominciò a tossire e a tergersi la faccia con un fazzoletto. Lisciandosi la
barba concluse: «Fino a quando non sarete sposati secondo la Legge di Mosè e Israele, la mia vita non
vale la pena di essere vissuta.»
CAPITOLO 15.
Anna si apprestava a osservare i Sette Giorni di Lutto nel suo vecchio appartamento, e suo padre
mandò lì Reytze ad accudirla. Obbediente alla Legge ebraica, Grein non andava lì, ma telefonarono
tutti, il dottor Margolin, il professor Shrage, Henrietta Clark, il cugino di Anna, Herman, la sua ragazza,
Sylvia, e Jacob Anfang. Venne a parlarle e a confortarla persino Frieda, la sua matrigna. La vicina, la
signora Katz, si offrì di andare a farle la spesa, perché a chi è in lutto non è consentito uscire per strada.
Per Anna era bizzarro osservare il lutto per un marito che aveva abbandonato. Di norma non credeva a
tutte queste leggi ebraiche ortodosse, ma la morte di Luria aveva risvegliato in lei sensi di colpa più forti
di quanto avesse mai provato. A ogni opportunità ripeteva le stesse parole: l’ho ucciso io. Ogni volta
che se lo rammentava scoppiava a piangere. Aveva anche paura. Chissà che cosa poteva fare l’anima di
Luria? Come poteva essere felice con Grein, se per il proprio piacere aveva sacrificato un altro essere
umano? Non le bastava semplicemente osservare lei stessa i Sette Giorni di Lutto.
Telefonò a un ufficio downtown che incaricava ebrei di recitare il Kaddish e studiare il Talmùd in nome
dei morti. Se c’era un Dio, non voleva fargli guerra. Doveva placarlo il più possibile. Si vestiva
completamente di nero, come si conviene a una vedova. Davanti a lei adulava la signora Katz, divenuta
una visitatrice regolare, ma dietro le spalle la copriva delle contumelie più mortali. Reytze trafficava in
cucina e sospirava: per lei il matrimonio di Boris Makaver con Frieda era stato un grave colpo. Nel suo
appartamento non si sentiva più a casa. Certo, Frieda aveva fatto tutto ciò che poteva per fare amicizia
con lei e sollevarle lo spirito, ma lei era caduta nella depressione. Amava Anna come una figlia, ma
Anna aveva preso una strada pericolosa. Reytze era piena di dolore. Aveva dedicato la vita a Boris, e
adesso, alla sua età avanzata, era rimasta completamente sola, senza un marito, senza figli, la serva di
tutti e niente più. Ogni giorno avrebbe voluto lasciare Boris, ma dove sarebbe potuta andare? In
America, a che cosa serviva una donna anziana che non sapeva una sola parola di inglese? Se non altro,
a casa di Anna le era risparmiata la vista della sua nuova padrona, la «rebbetzin tedesca», come insisteva
a chiamare Frieda. Ma quanto a lungo si può osservare il lutto? Tutto era crollato. Era rimasta senza un
rifugio. Faceva il té, preparava il caffè, offriva ai visitatori biscotti, crostini, frutta. La Legge ebraica
impone a chi osserva il lutto di sedere su uno sgabello basso, ma Anna si sistemava su una poltrona,
mentre i visitatori si sedevano, camminavano per la casa, esprimevano pareri sui quadri alle pareti,
comportandosi come se fossero a un ricevimento e non in una casa in lutto. A Reytze un simile
comportamento durante il periodo di lutto obbligatorio sembrava, come tutto il resto di ciò che faceva
la gente moderna, una farsa totale. Il telefono suonava e Anna prendeva le chiamate in camera da letto,
dove c’era un apparecchio secondario.
Trovandosi nel corridoio, a Reytze era capitato di sentirle dire in inglese: «Tesoro, sei tu?» In quei
termini si rivolgeva a Grein. Dopo aver servito rinfreschi a tutti, Reytze veniva anche lei a sedersi nel
soggiorno. Non era un’estranea. Essendo parente della madre defunta di Anna, la stessa Anna la
chiamava tante. La conoscevano tutti dai tempi di Berlino. «Allora, quando sarà pubblicato il suo libro?»
chiese il dottor Margolin al dottor Halperin. L’altro si tolse di bocca il sigaro.
«Chi lo sa? In Germania, quando pubblicavo un libro comandavo io. Qui invece dipendo da un
traduttore. Si può davvero trasferire i pensieri da una lingua a un’altra? Almeno metà del contenuto va
perso.»
«Quanto sarà lungo il libro?» Il dottor Halperin non sapeva nemmeno questo. «Vogliono tagliare. In
Germania non ho mai sentito parlare di tagliare un libro.
Se non poteva uscire in un volume solo, usciva in due. Qui un libro lo considerano una massa informe
da cui si possono mozzare via fette. Già, già, così è l’America. Ma che cosa si può fare? Tutto il mondo
è impazzito o immiserito, se non tutt’e due le cose insieme.»
«Ma in Europa si pubblicano ancora libri.»
«Certo, certo», replicò Halperin, facendo cadere la cenere dal sigaro. «Ma di questi tempi a che cosa
serve proprio la filosofia? Comunque, il mio agente è convinto che il libro provocherà scalpore. Anche
l’editore è entusiasta.»
«Può darsi.»
«Già, può darsi. Ma è senz’altro il mio ultimo tentativo. E’ quasi ora che vada a dormire.» E il dottor
Halperin ridacchiò. «Lei è sano come un bove», replicò in tono aspro il dottor Margolin. «Anche i bovi
non campano in eterno», ribattè Halperin. Herman Makaver, che fino a quel momento era rimasto
seduto in silenzio a fumare una sigaretta e ascoltare, interloquì improvvisamente: «Dottor Halperin,
posso chiederle di che cosa tratta il suo libro?» Il dottor Halperin aggrottò i sopraccigli cespugliosi.
«Può senz’altro chiederlo, ma rispondere a una domanda simile è tutto un altro paio di maniche. Posso
soltanto dirle che è un’opera di filosofia.»
«Un nuovo sistema?»
«Io credo che lo sia, sì. Ma d’altra parte sono un giudice parziale. Potrebbe saltar fuori un critico a dire
che ciò che c’è di nuovo non è saggio, e ciò che è saggio non è nuovo.»
«Quale sarebbe, in breve, l’idea di fondo?»
«Ah, Panie Makaver, lei è un giovanotto ostinato. Il mio è il lavoro di una vita, e lei lo vuole in una
pillola. L’idea di fondo è che ciò che noi definiamo sapere, quello empirico e anche quello intuitivo, non
costituisce tutto il sapere. Ne è fonte anche l’esperienza, sebbene sia soggettiva e unica. Nella Genesi è
scritto: ‘E Adamo conobbe sua moglie Eva’, dal che possiamo dedurre che gli antichi capivano che
l’esperienza sessuale è una sorta di conoscenza. Io vado più in là. Per me ogni esperienza è un tentativo
di cogliere nella sua essenza ciò che Kant definisce das Drag an sich. I filosofi hanno trascurato o
messo ai margini l’esperienza. Io parto dal punto di vista che gli esseri umani apprendono da tutto: dal
mangiare, dall’amore, dalla guerra, dal fumare un sigaro…»
«Non è un punto di vista materialistico?»
«Non incondizionatamente.»
«Dove può portare una simile filosofia? Lo sapeva anche Spinoza che esiste l’esperienza.»
«Lo sapeva, ma la considerava sapere di terzo o quart’ordine. Non ricordo esattamente. Il suo ideale era
l’idea adeguata. Ma io sono convinto che anche quelle non adeguate si avvicinino alla verità più della
matematica o della logica. In un capitolo sostengo che, per conoscere la natura del divino, gli esseri
umani dovranno essere molto più attivi e dovranno sperimentare molto più di quanto facciano oggi. La
gente dovrà imparare ad ampliare la propria vita nello stesso modo in cui un microscopio ingrandisce
una cellula. Dovrà essere capace di godere e soffrire su molti più piani di prima. In breve, chi mangia
buon cibo, beve buon vino, fuma sigari costosi e così via scava molto più a fondo nella natura del
mondo di chi mangia pane e cipolle e beve acqua. Il mio insegnamento è l’assoluto opposto
dell’ascetismo.»
«In altre parole, i capitalisti conoscono Dio meglio degli operai.»
«Se vuole portare il concetto all’estremo, sì. Ma è sicuramente per questo che gli operai stanno
combattendo per un trattamento migliore. La lotta per l’esistenza è quella per il senno.»
«Quindi, secondo lei, salterebbe fuori che Rothschild era più vicino a Dio di, diciamo, il Chafetz
Chaim?»
«Anche il bisogno è un’esperienza. Il povero che non ha pane ma è affamato con la sua fame affonda i
denti nel senno. Ma l’effettiva esperienza vale certamente più del sogno di essa. Lei può dire quello che
vuole, ma io sono favorevole all’uso delle droghe. Oppio, morfina e hashish non sono semplicemente
sostanze intossicanti ma lezioni di filosofia dell’essere, esattamente alla stessa stregua di alcol e tabacco.
Ecco perché ci sono così tanti drogati e alcolizzati.» Il dottor Margolin posò la sua tazza di caffè. «E
l’omicidio? Non è anch’esso un’esperienza?»
«Sì, una grande esperienza. Ecco perché ci sono le guerre. Ma non c’è nessuna bravura a fare
quell’esperienza al costo di sterminare milioni di altri individui.
Il prezzo è troppo alto. Ecco perché la caccia è una grande lezione di filosofia. Chi va a caccia sa una
cosa che l’uomo privo di senso pratico, che sta seduto tutto il giorno in una casa di studio, non saprà
mai.»
«Sono io quello che va a caccia, non lei», ribattè il dottor Margolin. «La invidio. Ma non possiamo
sapere tutto tutti. Ciascuno impara la sua lezione. Il sapere non può mai venire soltanto a un singolo
individuo: cresce dall’esperienza cumulativa di tutto il genere umano.» La sera tardi ciascuno se ne
andava per la sua strada. Anna non dormiva nella camera dov’era morto Luria, ma si faceva il letto sul
divano del soggiorno. Reytze dormiva in camera lasciando la porta aperta. Anna andò a letto e si
accinse al riposo. Su un tavolo aveva sistemato una radio, libri, giornali, riviste, oltre al telefono e a una
lampada. Si era, per così dire, circondata di tutti i baluardi della civiltà. Si appoggiò a due cuscini e
sfogliò una rivista. L’idea del papà che dovesse osservare lì i Sette Giorni di Lutto era stata folle fin
dall’inizio, ma, visto che lei aveva acconsentito, adesso doveva rimanervi sino alla fine dello shabbath.
La sera parlava talmente a lungo con Grein che aveva cominciato a addormentarsi al telefono, e la
cornetta le cascava di mano. In quel modo cercavano di distrarsi dalla paura che avevano entrambi. Ma
quella sera lui le aveva proibito di telefonargli. Era troppo esausto per le serate precedenti e doveva
dormire. Anna gridò a Reytze: «Reytze, stai già dormendo?»
«Eh? No.»
«Non riesci a dormire nemmeno tu?»
«Alla mia età…»
«Reytze, credi che ci sia un Mondo a Venire?» L’altra fece per rispondere, ma suonò il telefono. Anna
diede di piglio alla cornetta. «Hertz?»
«Non sono Hertz… sono Yasha.» Anna si accigliò. «Che cosa c’è?»
«Spero di non averti svegliato.»
«No. Che cosa vuoi?»
«Ho lasciato lì a casa tua una valigia piena di copioni. C’è il caso che possa trovare lavoro in un teatro
yiddish, e hanno bisogno di un testo. Quindi, quando posso venire lì a prendere la valigia?»
«Hai davvero intenzione di recitare in yiddish?»
«Nella mia situazione, sono pronto a recitare in turco. Che differenza fa per me? Mi ha cercato un
tale… una specie di protettore di un teatro yiddish. Si chiama Plotkin, Morris Plotkin.
Continua a essere convinto che, se recitassi sulla scena yiddish, la cosa attirerebbe enormi folle. Ma la
fortuna di un tempo non mi ha abbandonato… il brav’uomo si è slogato una caviglia. Per il resto,
vagolo su e giù per la Seconda Avenue. Una volta era la Broadway del teatro yiddish, ma adesso è mezza
morta. Dato che sono mezzo morto anch’io, e quella è mezza morta, insieme faremo un cadavere
perfetto.»
«Puoi venire a prendere la tua valigia. I tuoi copioni non mi servono.»
«Quando devo venire?»
«Quando vuoi. Domani.»
«Ahi, Anna, non sapevo che a New York ci si potesse sentire così soli! Là in Russia è abbastanza dura,
ma non si è mai soli e non si ha l’opportunità di pensare. Qui mi sono trasferito in una stanza
ammobiliata, ed è peggio di un carcere. Mi stendo sul letto e mi passano per la testa pensieri di ogni
genere.
Bang! Crash! Se sei stanca, Anna, non ti affliggo più.»
«Parla, parla, non sono stanca.»
«Mi scorre davanti tutta la vita come un film. Chi avrebbe potuto prevedere che sarei vissuto a New
York eccetera eccetera?
A Hollywood ci sono stati momenti in cui quasi impazzivo.»
«Sei sempre stato matto.»
«Ma laggiù c’è un tale pandemonio che la testa si mette a girare. Sono lì che stanno per farti un
contratto per settecento dollari alla settimana, e poi ti danno un fico sottaceto. Un momento sei un
pezzo grosso, poi una nullità. E’ così anche in Russia. Sono lì che stanno per innalzarti al più alto dei
cieli, quasi al livello del compagno Stalin in persona, e di punto in bianco ti tirano un pugno nello
stomaco, dopo di che diventi un controrivoluzionario, un cane rabbioso, un nemico del proletariato.
Non sapevo che anche l’America fosse così.»
«Hollywood non è l’America.»
«E che cos’è, allora? A New York è la stessa cosa. Mi hanno già offerto di fare di me una stella di
Broadway. Ci sarebbe dovuta essere una commedia, con tutti i finimenti.
Vado a dormire contento, e il mattino dopo è andato tutto a monte. Ho un agente che è un pazzo.
Continua a sbraitare che tutta l’America impazzirà per me, ma per intanto vuole spedirmi a recitare
negli alberghi degli ebrei nei Catskill. Ho persino fatto un pensierino di impiccarmi. Con una corda
americana.» Anna rimase un attimo in silenzio.
«E allora? Non osserverò un solo giorno di lutto per te.»
«Chi se ne frega del tuo lutto? Per quanto mi riguarda, possono farmi a pezzi e buttarmi ai cani. Ma qui
i cani hanno pedigree di gran classe, per cui probabilmente la carne di Yasha Kotik non sarà molto di
loro gusto.
Anna, posso chiederti una cosa? Mi comporto così soltanto perché mi sento solo.»
«Che cosa vuoi chiedermi?»
«Sei almeno felice con quel Grein?»
«E’ tutto ciò che ho. Ma la morte di Luria ha rovinato tutto. Non sarò mai felice.»
«Te lo dimenticherai, sciocca. Se dovessi andarmene nello stesso modo, ti chiedo una cosa sola:
accendimi una candela commemorativa. Non ogni anno. Soltanto al primo anniversario. Dopo di che
me la caverò da me.»
«Che cosa ti è successo? Pensavo che mi avresti tirato su di morale.»
«Non questa sera. Voglio dirti una cosa, Anna, ma non arrabbiarti: se le cose andassero male con il tuo
Grein, puoi sempre chiamare me. Fammi un fischio, e arriverò di corsa come un cane. Ecco che cosa
volevo dirti. Non ho affatto bisogno di quei copioni, ma verrò lo stesso a prenderli.» Nell’appartamento
di Grein sulla Quinta Avenue erano accese tutte le luci: in cucina, nel soggiorno, in camera da letto, in
bagno. Era mezzanotte e mezzo. Anna si trovava nella sua vecchia casa a osservare i Sette Giorni di
Lutto. Lui non riusciva a dormire. Da quando aveva visto il cadavere di Luria, il giallore osseo della sua
pelle, il naso distorto, gli orecchi esangui, le labbra serrate a emettere un grido senza voce, gli era venuta
una paura da scolaretto del buio. Accese la radio e ascoltò un po’ di chiacchiere e di annunci pubblicitari
di ristoranti e locali notturni. Era tutto molto fuori dell’ordinario: le lampade accese nel cuore della
notte, le voci portate lì sopra tetti e attraverso pareti da onde elettromagnetiche, la tomba fresca in cui
avevano deposto Stanislaw Luria. Jack aveva già sposato Patricia, quella ragazza gentile dell’Oregon, ed
erano partiti per la luna di miele; Anita se n’era andata di casa e Leah viveva sola nell’appartamento.
Esther aveva probabilmente sposato quel vecchio Morris Plotkin. Grein si sedette sul bordo del letto.
Che cosa succederebbe se di colpo saltasse un fusibile? In un attimo tutto precipiterebbe in un buio
pesto e in un silenzio mortale. Se soltanto avessi una candela a portata di mano! Ma perché mai la
corrente sarebbe dovuta mancare di colpo? Grein rabbrividì, e suonò il telefono. E’ Anna, si disse. Non
riesce a dormire nemmeno lei. Sollevata la cornetta, chiese: «Anna?» All’altro capo del filo sentì
armeggiare e borbottare, e poi la voce di Esther: «Non sono Anna.» Sentì un fremito alla spina dorsale.
«Esther, sei tu?»
«Sì, io.» Rimasero entrambi zitti per un bel po’. Poi lui disse: «Immagino tu sappia che cos’è successo.»
«Sì, so tutto. Altrimenti non avrei telefonato nel cuore della notte. So che lei sta osservando i Sette
Giorni di Lutto a casa del suo secondo marito.»
«Come fai a saperlo? Non c’era scritto sui giornali.»
«Ho conosciuto il suo primo marito, Yasha Kotik. Mi ha raccontato tutto.» Grein si sentì riempire la
bocca di un sapore acido. «Come hai fatto a imbatterti in lui?»
«A New York tutti sanno tutto. Morris Plotkin finanzia un teatro yiddish, e Yasha Kotik sta per ottenere
una parte. E’ tutto firmato e sigillato.»
«Lo hai già sposato?» Esther non rispose subito. «Sì, sono sposata. Adesso sono una mogliettina. Puoi
farmi le congratulazioni.» Grein avvertì gli stessi crampi allo stomaco che gli erano venuti quando gli
era stato detto che Stanislaw Luria era morto. «Ah, così.»
«Sì, così.»
«E allora perché mi telefoni a quest’ora?»
«Perché no? Plotkin non è un sultano e io non sono Sheherazade. Non ci sono giannizzeri che mi
montino la guardia. Anzi, in effetti uno ce l’ho, quel Sam, ti ho parlato di lui, il factotum di Plotkin, ma
non mi tiene sotto sorveglianza.»
«Quand’è successo tutto questo?»
«Eh? E’ successo. Non si può andare avanti a chiacchierare all’infinito… arriva il momento in cui
bisogna agire, lo si voglia o no. Adesso sono la signora Plotkin.
Se non vuoi congratularti con me, farò a meno dei tuoi auguri.» A Grein venne voglia di sbattere giù la
cornetta, ma non lo fece. Si sentiva la gola secca. «Da dove telefoni?»
«Dalla mia camera da letto, a casa.»
«Dov’è tuo marito?»
«Ha avuto un incidente d’auto. E’ all’ospedale.»
«E’ una cosa grave?»
«No, ma si è slogato una caviglia. Di solito guida Sam, ma questa volta guidava lui, e un’altra auto gli è
andata a sbattere addosso. Saremmo dovuti partire per la luna di miele, ma adesso gli fasceranno il
piede. E’ la mia solita fortuna. Yasha Kotik l’ho conosciuto all’ospedale. Così è fatto Plotkin… è
all’ospedale in gran pena e vengono tutti a disturbarlo per il teatro yiddish. E’ veramente comica.»
«E’ un attore yiddish, dunque?»
«Intendi Kotik? Perché no? Se i gentili non lo vogliono, si rivolge agli ebrei. Per soprammercato, Plotkin
va pazzo per il teatro yiddish. E’ in amicizia con tutti gli attori yiddish. Conosce intere commedie a
memoria. E’ della vecchia scuola, dei tempi in cui il teatro yiddish era una religione. Ho scoperto
soltanto di recente che un tempo è stato attore anche lui.»
«Be’, quindi ti muovi nelle cerchie più elevate.»
«Sì, proprio le più elevate.» Rimasero di nuovo in silenzio entrambi per un bel po’. Poi Esther disse:
«Non c’è motivo perché non si debba rimanere amici.
Plotkin sa di te. Non gli ho nascosto niente… gli ho detto tutto. E’ vecchio, ma ha gli atteggiamenti di
un giovane. Potrebbe insegnare a molti di essi a capire il mondo.»
«Se è così saggio, che cosa vuoi da me?»
«Certamente non la saggezza. Ascoltami, Hertz. Ti ho già detto che cos’avevo intenzione di fare. Non
ho mai avuto segreti, né per te né per lui. Gli ho parlato con molta franchezza, dicendogli esattamente
come stavano le cose. Sa che ti amo da tutti questi anni e che i miei sentimenti non sono cambiati.
Vuole conoscerti. Non interrompermi! Mi sono guadagnata il diritto che mi ascolti per qualche minuto!
Hai già visto che cosa succede quando si provoca tormento a qualcuno. Non lo sopportano e scoppia
loro il cuore. Quanto pensi che fossi lontana dal fare la stessa fine di Luria? Non ci crederai, ma mentre
ero in municipio con Plotkin, di punto in bianco mi è venuto un dolore tale che quasi svenivo. Sulle
prime è sembrato che mi strizzasse il cuore. Be’, ho pensato, se non altro questo qui mi pagherà il
funerale. Ma poi mi sono ripresa. Tu come stai? Che cosa stai facendo? Sono sicura che tutta questa
faccenda di suo marito non ti faccia piacere.»
«No.»
«Ma che cosa ti aspettavi? Quando si va in guerra, l’odore della polvere da sparo entra nelle narici. Se si
fa lo scannatore, si guardano gli animali morire nelle pozze di sangue.»
«Ti prego, Esther.»
«Non è colpa tua, soltanto sua. Era stata lei a giurare di essergli fedele, non tu.
Credimi, hai peccato di più nei miei confronti.»
«Tu sei ancora viva.»
«Sì, sono viva.»
«E nemmeno sola.»
«Eh? Già, si potrebbe metterla così.» La conversazione si bloccò di nuovo. Sembravano ascoltare
entrambi il silenzio di Grein. Poi Esther sbottò: «Ho bisogno di parlarti, Hertz.
Non ti ho telefonato senza un motivo.»
«Di che cosa hai bisogno di parlare con me? Ci siamo già detti tutto ciò che occorre.»
«Ti ho detto che possiamo rimanere amici. Tutto considerato, sei stato tu a indurmi a questo. Se non mi
avessi tormentato con la figlia di Boris Makaver, tutto sarebbe rimasto com’era.»
«Esther, non ti porto rancore, ma non ricominciamo da capo la solita discussione di sempre. Ti sei
sposata, e amen. Dobbiamo farla finita.»
«Anche con la nostra amicizia?»
«Con tutto.»
«Be’, non posso costringerti. Credimi, mi ci è voluto un pezzo per decidermi a chiamarti. Mi sono
persino punta con un ago e ho scritto con il mio stesso sangue il voto che non lo avrei mai più fatto.
Quando verrai qui, ti mostrerò il foglio. E’ perfettamente leggibile… il mio sangue non è acqua. E più
denso dell’inchiostro. Forse la mia disgrazia è proprio questa… chi ha acqua nelle vene sa essere molto
spietato. E’ meglio tu sappia, Hertz, che queste sono le ultime parole che ti dirò.
Visto che non vuoi la mia amicizia, devo arrendermi. Più prezioso della vita per me è l’orgoglio. Non il
tuo orgoglio vacuo, che è stupida ambizione erotica e arroganza maschile, a quello ho rinunciato da un
pezzo, carissimo, ma il valore dell’uomo, la dignità del figlio di Dio. Visto che dici no, no sia. Non sono
una mendicante che implora una parola gentile o una carezza. Visto che vuoi rompere, rompiamo e
diciamoci addio per sempre. Non è colpa mia se ci siamo conosciuti e le nostre anime sono state
irresistibilmente attratte l’una dall’altra. Hai continuato a cercare di rompere. Hai fatto sforzi così
strenui che spesso mi veniva voglia di ridere e piangere allo stesso tempo. Con il nostro tipo di legame,
quando uno si stacca, il dolore lo prova l’altro.
Come i gemelli siamesi. Ma quando ti sei strappato da me, strappando via con te anche un pezzo di
me… che cosa avrei potuto fare? Ho cercato di guarire la ferita… è così sbagliato?»
«Dimmi che cosa vuoi!»
«Voglio parlarti… nient’altro.»
«Be’, parla, sto ascoltando.»
«Ci sono cose che non si possono dire al telefono.»
«Perché? Ti sento esattamente come se tu fossi qui accanto a me. Se non vuoi far crescere la bolletta
telefonica, ti richiamo io.»
«Eh? Chi ha parlato di bollette? Dovresti vergognarti in ogni fibra del tuo essere! Plotkin è un uomo
che getta via migliaia di dollari… decine di migliaia… persino milioni. Per lui i soldi non costituiscono
un problema, e tu non riesci che a parlare di bolletta del telefono. Non mettere giù! Appendere la
cornetta è come appendere un essere umano a una forca. Si resta lì ammutoliti come idioti, con la
lingua penzoloni. Non inquietarti se dico cose che non dovrei, e nemmeno se sputo scemenze totali.
Non è il caso che mi metta a fare la sofisticata con te. Sono tua, anima e corpo. Di notte non dormo,
ecco perché sono così caricata. Dal giorno in cui ho deciso di farmi rilasciare una licenza di matrimonio
con quello là, non ho mai più chiuso occhio. Lo so che non mi credi… non ci crede neanche il mio
medico. Glielo dico, e lui risponde che è tutta immaginazione. Siccome prendo le pillole che mi
prescrive, è ovvio che devo dormire… così sta scritto nel suo manuale. Ma che cosa sta scritto nella
liturgia di Yom Kippur? ‘Il mio cuore conosce l’amarezza della mia anima.’ Giaccio qui con la testa
pesante come una pietra, chiudo gli occhi, ma non riesco a dormire… il mio cervello vortica
ossessivamente come una ruota di mulino, esattamente come il Malvagio Tito. Puoi immaginarti che
tipo di sposina fossi alle nozze. Ma se non altro so fare una cosa: recitare, e con Morris Plotkin non è
necessario essere una grande attrice. Ormai è vecchio. Si accontenta di una parola piacevole o di una
battuta di spirito. Il nostro rapporto è platonico… sa Dio come definirlo. Gli uomini o si abbandonano
completamente al sesso, o tutto per loro è spirituale. E’ come un’introduzione lunga a un libro breve.
Vuole soltanto esibirsi agli occhi degli altri. Chissà che cosa vogliono uomini del genere. E esattamente
il contrario di te… al punto di farmi accapponare la pelle. Come se un burlone in cielo volesse
prendersi gioco di me. Pronto? Mi senti o no?»
«Certo che ti sento.»
«Dov’ero arrivata? Non importa, fa lo stesso. Sì, non riesco a dormire. E nemmeno a mangiare. In
queste ultime settimane ho perso nove chili. Quando mi vedrai non mi riconoscerai, Hertz. Mi fanno i
complimenti. Sono ringiovanita di dieci anni, dicono. Come si fa a sapere che cosa soffrono gli altri?
Certe volte ce ne si rende conto soltanto quando uno è bell’e morto. Vivo di caffè e alcol. Sì, carissimo,
la tua Esther è diventata un’alcolizzata, ma grazie a Dio non se ne accorge nessuno.
Come posso ubriacarmi, se sono già ubriaca prima ancora di toccare una goccia di alcol? Voglio che tu
sappia una cosa: non ti ho tradito… spiritualmente e nemmeno fisicamente. Ti appartengo non perché
voglio ma perché non ho scelta. Ero molto arrabbiata con te, ma quando ho fatto quello che ho fatto la
rabbia è svanita. Adesso sono una donna ricca.
Non posso dirti in che tipo di lusso vive lui, né tutto quello che fa per me. Mi ha coperto di gioielli. Il
mattino stesso del matrimonio ha riscritto il suo testamento. Mi ha assegnato enormi proprietà
immobiliari, come se non ci fossero tasse per i prossimi cento anni Oh, Hertz, mi viene veramente da
ridere. Tu eri troppo taccagno persino per offrirmi un biglietto del teatro, mi lesinavi ogni centesimo, ed
ecco che salta fuori uno che mi inonda d’oro. La mia mente è una trottola… penso spesso che tutta
questa storia non sia che un sogno. Non ho idea come abbia fatto quell’uomo a costruirsi una fortuna
così enorme. E’ uno di quei tipi cui i soldi corrono dietro. Alla gente tutto capita come va… ricchezza,
miseria, onore, onta. Non bisogna correre dietro a niente. Che cosa stavo dicendo? Comincio a parlare
e poi mi dimentico.
Ah, sì, stavo dicendo tutto questo perché a che cosa mi servono ormai i soldi? Sono malata, Hertz, più
malata di quanto tu pensi., Sono stata io ad agire così e non me ne pento. Te lo sei meritato, e basta.
Ma non per questo sto meglio… ho semplicemente ucciso ciò che rimaneva di me. Potrebbe capitare
un disastro in qualsiasi momento. Non ho paura della morte, ma non voglio impazzire. Nella mia
famiglia ci sono stati diversi matti, ed è per questo che ho paura.»
«Devi andare da un medico.»
«Quale medico? Vado già da uno.»
«Non un medico così.»
«Intendi uno psichiatra? Ci sono stata. La mia vita, per te, un tempo era un libro aperto, ma non ti ho
raccontato tutto. Ho mantenuto qualche segreto. Quei medici non potevano fare niente per me, Hertz,
e lo sai da te. Ormai c’è una sola persona che può aiutarmi, e sei tu.»
«Come posso aiutarti?»
«Non essere cattivo con me… nient’altro. Non voglio che tu mi sia nemico. Temo il tuo odio più di
quanto tema la morte.»
«Non ti sono nemico.»
«Il disprezzo è peggio dell’inimicizia. Lo sai benissimo.»
«Esther, si sta facendo molto tardi.»
«Quanto più tardi può diventare? E’ già tardi da tanto di quel tempo che ormai è presto. Che cosa
importa se per una notte non dormiamo? Io non lo faccio da più notti di quanti capelli ho in testa, e
sono ancora viva. Hertz, devo vederti!»
«Quando?»
«Adesso, questa notte. Oggi. Chiamalo come vuoi.»
«Nel cuore della notte?»
«Che cos’ha che non va il cuore della notte? Perché ci si agita tanto per la notte? Puoi dormire domani,
o quando vuoi. Non viziarti tanto!»
«Esther, hai parlato veramente un pezzo… lascia che dica qualcosa anch’io.»
«Eh? Dillo.»
«Esther, ho già fatto abbastanza male in vita mia. Non posso continuare su quella strada.»
«Quale strada? Di che cosa vaneggi?»
«Ho fatto troppe brutte cose, Esther. Questa storia di Stanislaw Luria è la fine. L’ho ucciso io.
Letteralmente. E adesso Leah è molto malata, praticamente morta. Non posso più fare questo tipo di
vita. Devo mettere fine a questa doppiezza. Per quanto mi rimane da vivere voglio farlo in maniera
onesta… altrimenti è meglio che resti secco.»
«Che cos’è successo? Sei diventato un penitente?»
«Non posso sprofondare ancora più in basso, e basta.»
«In che cosa consisterà il tuo pentimento? Nell’essere fedele alla figlia di Boris Makaver?»
«Devo essere fedele a qualcuno. Sto male a causa di tutte queste bugie.»
«Capisco! Be’, un penitente è un penitente. Se sei veramente pentito, torna da tua moglie, che ti ha dato
i migliori anni della sua vita. Sta morendo per colpa tua. La figlia di Boris Makaver è giovane e sana, e
per giunta ricca. Erediterà tutto quello che possiede suo padre, e sento dire che anche suo marito le ha
lasciato un gruzzolo… assicurazione o qualcosa del genere. Se provi compassione, abbila per i deboli,
non per i forti.»
«Comunque stiano le cose, dobbiamo controllarci entrambi, altrimenti ne verrà fuori un pasticcio tale
che non riusciremo mai più a tirarcene fuori.»
«Fai la predica, eh? La tua bocca moraleggia, ma la tua mente mi manda appelli. Non starei così male se
tu non mi mandassi di continuo appelli. Sento la tua voce… sento che mi chiami. Mi siedo a cercar di
leggere un giornale, e di punto in bianco sento la tua voce chiara come se la sentissi al telefono.»
«Esther, tu sei malata.»
«Sarò anche malata, ma non sono sorda. Lo so che dirai che ho le allucinazioni o roba del genere, ma
sta di fatto che ti sento. E ogni volta che sento la tua voce mi si gela il sangue e mi si ferma il respiro.
Per quanto ti riguarda, probabilmente non sai che mi stai chiamando, perché sono cose che riguardano
l’inconscio. Dimostra semplicemente che hai nostalgia di me e non te ne rendi conto.»
«Lo so. Esther, lo so esattamente.»
«Hai nostalgia?»
«Sì, ho nostalgia.»
«Be’, grazie a Dio riesci ancora a dire una parola sincera. Hai una tale nostalgia di me che quasi
impazzisci, e per questo fai diventare matta anche me. Hertz, carissimo, queste cose sono più forti di
noi. Ho sempre pensato che si fosse padroni di se stessi, ma non è così. Non dovrei dirtelo, ma a chi
altri potrei dirlo se non a te? Quando quello là mi tocca sono paralizzata dal terrore.
Torco gli occhi e mi immagino che sia tu. Ma questo mi peggiora soltanto la situazione. No so che cosa
fare, Hertz. ogni istante vorrei scappare.
Ma dove posso scappare? Inoltre non posso far fesso questo Plotkin.
Tutto considerato, non mi ha costretto. E’ una comparsa innocente di un dramma terrificante. Voglio
morire. Ho pensato di prendere un po’ di sonniferi, ma non sono riuscita a farlo. Ti sto dicendo la
sacrosanta verità, Hertz… lo giuro sulle ossa dei miei santi genitori, e un giuramento così non l’ho mai
fatto. Probabilmente sarò presto con loro, per cui non dissacrerei mai il loro ricordo.»
«Esther, che cosa devo fare?»
«Sei vestito o a letto?»
«Sono vestito.»
«Vediamoci. Se vuoi, puoi venire da me. Lui ha una residenza privata in Hicks Street. Potrai ammirare
una casa.»
«Non metterò piede in casa sua. E certamente non adesso, nel cuore della notte.»
«Sciocchino, me l’ha chiesto lui di invitarti. Quell’uomo non sa che cosa voglia dire gelosia. Anzi, spesso
mi sembra il contrario… esistono uomini così. Mi annoia a morte a furia di chiedermi perché non ti
faccio venire qui. Che cosa mi succede?
Tutto ciò che mi circonda è contorto e ingarbugliato. Non è normale neanche lui… ecco la verità nuda
e cruda. Dice cose tali che non credo ai miei orecchi, e non mi è facile ripeterle. Spesso penso che tutto
il mondo moderno sia un solo immenso manicomio. Altrimenti, come potrebbero esserci uno Hitler,
uno Stalin e tutti gli altri Satana? Una volta sono andata in un ospizio di matti a visitare un mio zio, e li
ho visti prendersi in giro a vicenda. Non devi fare altro che passare in auto il ponte di Brooklyn e sei
bell’e arrivato in Hicks Street.»
«Sono chiacchiere vane. Da te adesso non ci vengo.»
«Be’, possiamo vederci per strada»
«Dove?»
«Dov’è la tua auto?»
«In garage.»
«Prendo un taxi e vengo a Manhattan. Possiamo vederci sulla Quinta Avenue, o sulla Broadway, o dove
vuoi.»
«E’ tutto chiuso.»
«E chi ha bisogno che sia aperto? Ci siederemo da qualche parte a parlare. Se hai l’auto, possiamo
sederci lì.»
«Davvero, Esther, siamo troppo vecchi per una cosa del genere.»
«Uno dei miei zii mi ha maledetto dicendo che non sarei mai diventata vecchia. Dimmi tu dove devo
incontrarti.»
«All’angolo tra la Broadway e la Quarantaduesima Avenue.»
«Perché proprio lì? Vabbè, così sia. Esco di casa adesso, ma non so se troverò un taxi. Hicks Street è un
po’ fuori mano. Se arrivo un po’ in ritardo, non sarà colpa mia.»
«Davvero, Esther…»
«Non voglio sentire nient’altro. Arrivederci!» Ed Esther appese. Grein guardò l’orologio da polso. Era
l’una e un quarto.
Sbadigliò e si sfregò la fronte. Gli venne in mente che avrebbe potuto mettersi in testa di telefonare
anche Anna. «Be’, sono infilato in una bella rete!» disse ad alta voce, allungandosi sul divano. Soltanto in
quel momento si rese conto di quanto fosse stanco. Rimase lì steso con la faccia rivolta allo schienale
del divano, un po’ assopito e un po’ pensando. Per un po’ il filo dei suoi pensieri fu spezzettato, e quasi
si addormentò, ma si svegliò quasi subito. Aveva perso venti minuti. No, non perso, soltanto
dimenticato. Nel frattempo gli era successo qualcosa. Si alzò e cominciò a spegnere le luci, ma non
tutte, accertandosi di non rimanere al buio. La notte era calda, ma aveva freddo, per cui si portò dietro
un soprabito sul braccio. Suonò per chiamare l’ascensore, che arrivò in fretta. L’addetto sembrava
allibito che qualcuno uscisse così tardi, ma non disse niente. Grein si avviò verso uptown. La Quinta
Avenue era deserta, buia. Gli venne in mente che, a causa dell’ora legale, all’inizio della giornata
lavorativa sarebbe stato ancora buio. Si fermò l’autobus della Quinta Avenue, e vi montò. Dentro
c’erano altri passeggeri, giovani coppie che si erano evidentemente divertite nei locali notturni del
Greenwich Village.
Ridacchiavano, facevano chiasso, si abbracciavano. Una giovane, con la bocca che non cessava mai di
masticare gomma, teneva la testa rapata sulla spalla di un ragazzo. Occhieggiò Grein con sguardo
stanco, sorridente, e con l’indifferenza imperturbabile, spensierata che viene dal non dare grande
importanza né a se stessi né agli altri. La maggioranza dei giovanotti portava all’occhiello il distintivo dei
reduci. Come lui stesso, si dedicavano alle loro faccende amorose, ma in gruppo, con l’istinto senza
tempo del gregge, retaggio delle caverne del mondo primordiale. Grein guardò fuori del finestrino. Le
vetrine delle boutique alla moda erano ormai buie. Nell’oscurità i manichini ridevano di una segreta vita
notturna, il loro stato giornaliero di esseri inanimati ridotto a niente più di una finzione.
Sto bene? Sto male? si chiese. Non seppe darsi risposta. Si sentiva più che mai consapevole dello spirito
della libertà americana. Nessuno chiedeva spiegazioni a nessuno. Nessun poliziotto chiedeva di
mostrare i documenti. Ma dietro a tutte quelle libertà si appiattava la coazione di nascita e morte. Nello
stesso momento in cui lui, Grein, era diretto a un appuntamento notturno, la sua vittima Luria stava
marcendo sotto terra. Non sarebbe mai tornato, almeno nella sua forma di un tempo. Se pure il corpo
non è niente più di un indumento, lui aveva comunque fatto a pezzi un indumento divino, lasciando
un’anima nuda. Eppure, nonostante questo fatto sconvolgente, riusciva lo stesso a provare rabbia
quando leggeva su un giornale che i vandali avevano fracassato una vetrina o rovesciato una pietra
tombale. Smontò alla Quarantaduesima Avenue e continuò a piedi verso la Broadway, meditando sulla
propria follia. Per qualche tempo fu preso da una sorta di gioia, un desiderio di distruzione accoppiato a
un gusto per l’azzardo, una sensazione che prende spesso chi sa porsi fuori di se stesso e guardare il
proprio comportamento attraverso gli occhi di un estraneo, dopo essersi scisso in due come per magia
o per una malattia fisica. Che cos’avrebbe detto, per esempio, suo padre, se avesse potuto vedere come
si comportava il figlio, e fino a che punto i suoi atti irridevano al pensiero del padre?
E sua madre? E che cos’avrebbe detto Anna se gli avesse telefonato nel cuore della notte senza trovarlo
a casa? Be’, sono perduto, decise.
Forse sarebbe meglio se smettessi di cercar di resistere. Sono come i cani di Pavlov: quando il
campanello suona, sbavo. Sono persino più stupido di quei cani. Ciascuno ha momenti di delusione nei
confronti di se stesso, ma io sono come un automa caricato una volta per tutte. La Broadway era
illuminata come se fosse pieno giorno. Una tavola calda era aperta, e i nottambuli facevano uno
spuntino tardi leggendo il giornale con la data del giorno dopo come se si stessero precipitando
incontro al futuro. Come lo definiscono i poeti? «Il luminoso domani… il giorno che è più saggio della
notte.» Ma dopo due miliardi di anni trascorsi a diventare sempre più saggio, il giorno rimaneva tuttora
uno stupido. Com’era stato quel primo giorno all’inizio della Creazione?
Doveva aver avuto grandi illusioni, il momento in cui «fu sera e fu mattina: primo giorno.» Non avrebbe
di sicuro potuto immaginare che dopo miliardi di anni nel cui corso le sere si sarebbero trasformate in
mattini, sarebbero sorti uno Hitler, uno Stalin, una Esther, uno Yasha Kotik. Esther non era ancora
arrivata, e lui si mise a camminare avanti e indietro, gettando di quando in quando un’occhiata
attraverso la vetrina della tavola calda. La attraversò un cuoco con il cappello alto, faccia scarna, borse
sotto gli occhi. Gli parve un sacerdote che officiasse a una cerimonia idolatra notturna. Un omino
grasso stava mangiando e contemporaneamente facendo un cruciverba con una matita. Di punto in
bianco Grein vide Esther. La riconobbe a stento. Non era mai stata così elegante, vestita in una maniera
così costosa da rischiare il volgare. Portava una mantiglia spagnola sulla testa, un abito nero senza
maniche con un lungo spacco sulla schiena e guanti alti fino al gomito.
Tanti fronzoli quasi lo intimidirono. Esther era senza dubbio dimagrita.
Si era fatta più snella e apparentemente più alta. Il viso era pallido e cambiato come succede quando
una donna si stacca dal suo ambiente e affronta un’avventura nuova e fuori del comune. Lei lo vide, e
rimasero lì in piedi a guardarsi per un po’. Lui sapeva che non era il caso di dirlo, ma non riuscì a
trattenersi. «Perché ti sei vestita così?»
«Per te, carissimo, per te. Adesso però vedo che si gela. Mi sarei dovuta mettere uno scialle. Potremmo
magari entrare da qualche parte.»
«Dove?
In questa tavola calda?»
«Eh? Chiamerò un taxi e gli dirò di portarci a fare un giro. Non importa dove. Voglio parlarti in privato.
Ecco lì un taxi… guarda, è lo stesso con cui sono arrivata! Bene. Non capisce lo yiddish!» Montarono
entrambi, ed Esther disse al conducente: «Signor Pezzana, è destino che dobbiamo andare in giro
insieme tutta notte. Ci porti da qualche parte… non importa dove.»
«Nella zona uptown della Broadway?» * «Sì, perché no? Però non corra. Vogliamo soltanto parlare. Le
darò una buona mancia.»
«Okay!»
«Siediti vicino a me.
Ho freddo», disse Esther a Grein. «Sai una cosa? Visto che non lo indossi, mettimi il soprabito sulle
spalle. Ecco, così. C’è stato un caldo rovente tutto il giorno, per cui non mi sarei mai immaginata che si
sarebbe fatto freddo. Sono assolutamente priva di immaginazione… ecco il mio problema. Ah, adesso
sì che fa caldo. Non ti piace il mio vestito?» aggiunse cambiando tono. «E’ il più caro che si possa
comperare a New York.»
«Lo sai che i vestiti costosi non mi interessano.»
«Plotkin va pazzo per gli abiti. Su, avvicinati di più.
Non fare l’ebreo così devoto. Non sei un simile santo. Non desidero che un po’ di calore.»
CAPITOLO 16.
Per le navi di Boris Makaver le cose andavano male. Sulle prime era parso che i quattro soci avrebbero
guadagnato milioni di dollari, ma adesso fronteggiavano un autentico rischio di perdere tutto. Sapevano
già che ristrutturarle per il trasporto di carico sarebbe costato troppo, ma poi avevano scoperto che
rottamarle implicava spese impreviste. Bisognava pagare i costi di cantiere. Il numero di operai e
specialisti necessari per la demolizione era così alto che si dovevano spendere oltre trentamila dollari
alla settimana per le paghe. Ma il danno più grosso era provocato dai furti. Non soltanto venivano
rubati pezzi da tutte le parti, ma c’erano anche vandalismo e sabotaggio. Gli uomini nominati da Boris e
dai suoi soci per montare la guardia contro i furti o rubavano loro stessi o erano in combutta con altri
ladri. Quando i soci avevano cercato di intervenire, erano stati minacciati di percosse o morte. Ogni
volta che Boris andava al cantiere dov’erano ormeggiati i vascelli, ne usciva terrorizzato. Non aveva
assolutamente idea di che cosa si stesse facendo con le sue proprietà. Immensi martelli battevano, gru
trasportavano carichi. Gli operai gentili sbraitavano come selvaggi. Le ditte che avevano concordato di
comperare acciaio, ferro apparecchiature elettriche e altri macchinari e strumenti avevano capito che i
nuovi proprietari non sapevano come gestire ciò che possedevano e non ne comprendevano nemmeno
il valore, per cui non avevano offerto quasi niente. Oltre ai 750.000 dollari che aveva investito
nell’iniziativa, presi a credito dalla banca contro ipoteche sui suoi palazzi, Boris doveva anche trovare il
denaro per le paghe. Da un giorno all’altro, e una notte insonne dopo l’altra, gli era apparso chiaro di
aver commesso un grosso errore.
Avrebbe potuto perdere tutto; era profondamente indebitato. Non c’era più la minima possibilità di
districarsi da quella catastrofe. Quanto effettivamente grossi fossero i debiti lo avrebbe saputo soltanto
più tardi, una volta completate tutte le transazioni. Abituato da tutta la vita ad avere successo, sulle
prime non aveva creduto di poter rimanere del tutto senza mezzi. Aveva sperato in un miracolo. Aveva
fatto voto solenne di dare enormi cifre in carità. Aveva consultato avvocati e consulenti economici,
cercando ogni sorta di espedienti. Ma, come dice il proverbio biblico, né consigli né saggezza erano
potuti servire ad alcunché. Le sue imprese erano fallite. Tutti i beni terreni che aveva accumulato nel
corso degli anni, e per i quali aveva rischiato la vita fuggendo da Hitler, stavano colando via come vino
da una botte crepata. Di notte rimaneva completamente sveglio. Con quei soldi avrebbe potuto
compiere opere di carità concedendo prestiti senza interessi.
Avrebbe forse potuto salvare qualche ebreo dall’inferno di Hitler. E adesso la maggior parte di essi era
stata saccheggiata da rapine ed estorsioni. Erano scoppiate liti tra i soci: si erano scambiati insulti e
contumelie, persino picchiati. Come in un’esplosione, ciascuno cercava di salvare il suo, ma non si
poteva recuperare niente. Vergognandosi davanti a Frieda e non volendo angustiarla, Boris le teneva
nascosti i suoi guai. Ma per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a mascherarli?
Cercava di trattenersi, ma contro la sua volontà gli sfuggivano di continuo grossi sospiri, finché Frieda
non chiese: «Che cosa ti ambascia, Borukh?»
«Niente, anima mia, niente.»
«Hai qualche dolore fisico, Dio ne scampi?»
«No, muoia il pensiero.»
«Qualcosa non va nei tuoi affari?»
«Be’, non sono nato ricco. Viene tutto da Dio.»
«Voglio che tu sappia una cosa: non mi occorre la ricchezza. Cielo, aiutami, non ti ho sposato per i tuoi
soldi.»
«Dio ne scampi. E’ tutto preordinato da lassù.» E Boris tacque. A causa del perdurare della tensione, del
trambusto quotidiano e delle acrimoniose discussioni con i soci, Boris aveva cominciato a soffrire di
forti mal di testa. Le finestre della sua camera da letto erano sempre spalancate, le notti ancora fresche,
ma per quanto lui cercasse di mettersi comodo coprendosi soltanto con un lenzuolo, aveva sempre un
caldo terribile, per cui durante la notte doveva togliersi la giacca del pigiama. Riposando giaceva
perfettamente immobile, ma il suo cuore batteva come un tamburo, e soffriva di forti epistassi. Sapeva
che cosa significassero tutti questi sintomi: la pressione era salita vertiginosamente. Non soltanto
correva il rischio di rimanere nudo in mezzo alla procella, ma era anche sotto l’imminente minaccia di
un altro infarto. Mentre era a letto, recitò mentalmente la confessione da rendere prima della morte:
«Abbiamo trasgredito, abbiamo agito in maniera fraudolenta, abbiamo rubato, abbiamo calunniato…»
A ogni frase si batteva il petto con il pugno sotto il lenzuolo. Sono nel pericolo più grave, si disse. Il
colpo poteva arrivare da un momento all’altro. Gli appariva evidente che il suo cuore era sottoposto a
uno sforzo eccessivo, costretto a pompare come il motore di emergenza di una nave che affonda.
Emetteva un’ampia varietà di mormorii strani. Il ritmo era irregolare; di quando in quando o mancava
un battito o ne faceva rapidamente uno doppio, quasi cercasse di recuperare quello perduto. Ascoltò
intento. Devo stare calmo. Devo smettere di preoccuparmi! si disse. Sono pericolosamente debole. Che
cosa ne sarà di Frieda? Non ho avuto nemmeno il tempo di farle un’assicurazione. E che cosa ne sarà
della mia anima? Non lascio qui niente… nessun figlio maschio che reciti il Kaddish per me, nessuno
che possa studiare il Talmùd in mio ricordo. Mi rimane soltanto una figlia, che è una puttana. Ho
vissuto senza un pensiero per il rendiconto finale. Come mi giustificherò nel Mondo a Venire? Non ho
dato un decimo dei miei beni in carità. Mi sono lasciato distrarre dallo studio. Ho costruito per il
Diavolo. Come dice l’Ecclesiaste? «Qual vantaggio ricava dall’aver gettato le sue fatiche al vento?» Sì,
hanno ragione i Salmi: «Lo stolto e l’insensato periranno insieme e lasceranno ad altri le loro ricchezze.»
Per di più l’ho sempre saputo. Non posso giustificarmi dicendo che non conoscevo la verità. Sono uno
di coloro che hanno agito male di proposito, non uno che abbia peccato involontariamente. Perché ho
mandato Anna a studiare in scuole di gentili? Mentre altri ebrei allevavano figli devoti, io ho preparato
mia figlia a diventare una traditrice di Israele. Senza capire che cosa stessi facendo, l’ho spinta sulla
strada che adesso segue.
Boris si addormentò e sognò un’immensa conflagrazione. Tutta New York bruciava. Alcuni grattacieli
erano in fiamme; altri crollavano al suolo, abbattendosi uno sull’altro come alberi durante un uragano.
Un terremoto aveva aperto un abisso in mezzo alla Broadway, dentro cui ardeva infuocata la Geenna.
Suonavano allarmi. Un lamento lacerante e insistente, come l’ululato incessante di un’ambulanza,
riempiva la città, mentre al centro del cielo un mostruoso vulcano sputava lava fiammeggiante. Come
avrà fatto un vulcano a finire in mezzo al cielo? si chiese Boris. Non poteva che significare la fine del
mondo. Aprì gli occhi ed era giorno. Il suo orologio indicava le sei e venti. Sapendo che estate e inverno
Solomon Margolin si alzava ogni giorno alle sei in punto e faceva una vigorosa camminata esattamente
alle sei e tre quarti, Boris si precipitò nello studio per telefonargli. «Shloymele, sono io.» Margolin
rimase un attimo in silenzio. «Che cosa succede?»
«Shloymele, non sto bene.»
«Chi sta bene, di questi tempi?»
«Shloymele, sono malato.»
«Che cos’hai, vecchio mulo?»
«Il cuore mi batte come quello di un rapinatore.»
«Sei un rapinatore.»
«Shloymele, non è il momento di fare battute di spirito.»
«Che cosa vuoi da me? Che reciti i salmi?»
«Shloymele, non riesco a respirare. Temo che sia la fine, Dio ne scampi.»
«Non stai ancora per restare secco. Farai ancora per un bel po’ un grosso buco nelle riserve alimentari
dell’America.»
«Shloymele, devo venire a trovarti.»
«Così presto? Sto uscendo a fare una camminata.»
«Be’, per una volta non la farai. Adempirai al comandamento di salvare una vita.»
«Su, vieni qui, e ti spezzerò sulla mia ruota.»
«Dove devo venire?»
«Andrò in studio con un taxi. Se la porta è chiusa a chiave, aspettami.»
«Moltissime grazie.»
«E datti una mossa!» Boris appese la cornetta. Be’, è sempre un buon amico… un carissimo amico.
Andò in bagno a fare una doccia. Quando ne uscì vide Frieda che si aggirava per casa in vestaglia e
pantofole.
«Perché ti sei alzata così presto?» chiese. «Non ti lascerò uscire senza almeno un bicchiere di tè.» Boris si
vestì, si lavò le mani e recitò la Shemà. Frieda gli porse un bicchiere di tè e un biscotto all’uovo. Non ha
affatto un bell’aspetto neanche lei, pensò lui. La sua cera aveva assunto una sfumatura giallastra, e
avrebbe voluto chiederle che cosa c’era che non andava, ma era ansioso di vedere il dottor Margolin.
Fuori, il mattino era limpido, fresco, foriero della promessa di una lunga giornata estiva. Di colpo gli
vennero in mente latte cagliato, cipolle primaverili, ravanelli. Era malato e al tempo stesso aveva fame.
Il suo intestino rumoreggiava. Così sono gli esseri umani, pensò: sono sull’orlo della tomba, ma i loro
visceri continuano a fare come hanno sempre fatto, ogni organo ha la sua missione. Chiamò un taxi e
indirizzò il conducente verso uptown, in West End Avenue, all’ufficio del dottor Margolin. In realtà non
posso nemmeno concedermi il piacere di un taxi.
Sono senza un centesimo, senza un centesimo… «ripulito di ogni bene mondano», come dice il Talmùd.
Persino la camicia che indosso non è più mia. Il taxi si fermò, e Boris vide Margolin che lo aspettava: un
metro e ottanta, perfettamente rasato, dritto come un fuso, in immacolato abito chiaro e scarpe bianche.
Emanava un lindore assolutamente non ebraico, aveva l’aria di un nobiluomo, di uno yankee, di un
gentile da capo a piedi. Era quasi impossibile credere che quell’uomo avesse più di sessant’anni e un
tempo fosse stato studente di yeshivah. Come lo definivano un aspetto così, quei bastardi? Un ariano
puro sangue. Il dottor Margolin gli scoccò un’occhiata con la testa china di lato, in tono di presa in giro,
e sul viso un’espressione di finto dolore. «Dai, fessacchiotto, entra.»
«Ti prego, Shloymele, sii serio. C’è il momento giusto per tutto.»
«Che cosa succede? Una delle tue muffose navi è colata a picco?»
«Non una sola, ma trenta. Sono rovinato, Shloymele, in miseria.»
«Be’, ti farò l’elemosina. Vieni, shmegege.» Una volta in studio, Margolin ordinò: «Prima di tutto sali
sulla bilancia. Così. Ooh!
Che cosa mangi? Sassi? Piombo? Diventi sempre più pesante.»
«Giuro che non ho esagerato nel mangiare.»
«Che cos’hai fatto, allora? Hai dato retta a un buon consiglio? Togliti la giacca. Arrotola la manica.» E gli
misurò la pressione. «Sì, è salita.»
«Quanto?»
«Troppo.»
«Che cosa devo fare?» Margolin non rispose. Osservò Boris in silenzio. Avrebbe voluto fare un
cardiogramma, ma per farlo aveva bisogno dell’infermiera.
Comunque lo stetoscopio gli disse tutto ciò che gli occorreva sapere.
Accese una sigaretta. «Vuoi morire subito, o vuoi campare ancora qualche anno?»
«Che cosa c’è che non va, dunque?»
«Lascia perdere i tuoi fetenti affari e prenditi una prolungata vacanza in campagna. Porta con te tua
moglie.»
«Sei matto? Sei in combutta con i miei nemici? E’ colpa mia. Mi stanno facendo a pezzi. I miei soci…»
«Be’, allora va’ a ordinarti il sudario.»
«E’ impossibile, Shloymele! Non posso piantare in asso tutto e scappare!»
«Allora va’ al diavolo, idiota!» Il dottor Margolin si espresse con brutale franchezza. Era assolutamente
indispensabile che Boris si liberasse delle sue preoccupazioni. L’agitazione poteva essergli fatale. Era
perfettamente informato della sua situazione, avendogli Anna telefonato diverse volte. La stessa Anna si
teneva in costante contatto con Reytze. Quindi chiese: «Non hai un gruzzoletto da qualche parte? Non
hai messo via qualche migliaio di dollari di riserva?»
«Ho investito assolutamente tutto nelle navi.»
«Te ne presterò cinquemila.»
«Non sarò mai in grado di renderteli, Shloymele.»
«Scemo, finirai di nuovo immerso nei soldi fino al collo. La gente come te li sa fare anche nella tomba.»
E invece di fargli una ricetta, Margolin si sedette e gli firmò un assegno. Boris era così turbato e
preoccupato da non capire che cosa gli fosse stato dato. Prese l’assegno che Margolin gli porgeva invece
della ricetta. Gettò un’occhiata al pezzo di carta, parve leggerlo, vide il suo nome e la firma, ma la sua
mente non riuscì a capire ciò che i suoi occhi vedevano. Aveva già chiesto se poteva presentarla in
qualsiasi farmacia, quando improvvisamente si rese conto che era un assegno. La sua fronte si fece
rossa, il viso umido e rovente. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma gli si formò un groppo in gola. Sentì
Margolin dire: «Adesso ti faccio una ricetta.» Boris tirò fuori di scatto il fazzoletto e si terse il viso.
«Shloymele, sei un vero ebreo!»
«Lo sei anche tu!»
«Non lo accetto, Shloymele.» Margolin rizzò immediatamente il pelo. «Perché? Ne va della tua dignità?
Tutto sommato, ci conosciamo da quarantotto anni.»
«Sei un santo, Shloymele.
Hai un cuore da ebreo. Se non fossi troppo imbarazzato, ti bacerei su entrambe le guance. Ma non ho
bisogno di un assegno. Le cose non vanno ancora così male.»
«Fesso di un chassid! Bove arrogante! Snob! Che cosa sto facendo? Ti sto prestando qualche dollaro.
Vergognati!»
«Davvero, Shloymele, non mi occorre.»
«Allora amen, ma non attraversare mai più la mia soglia! Pensavo che mi considerassi un buon amico,
ma adesso vedo che hai soltanto disprezzo. Quindi esci immediatamente di qui e va’ all’inferno. Forza,
fuori! Trovati un altro dottore, feccia! Però hai ragione. Sono veramente un porco. Che cosa sono
cinquemila dollari? In realtà, se hai bisogno di soldi, tutto il mio conto in banca è a tua disposizione.»
«Shloymele, che cosa ti succede? Perché mi insulti? Non ho bisogno di altro per me. Quanto al mio
investimento, non prendiamoci in giro… è una società, non un’impresa privata. Non devo più buttare
via altri soldi. Questa iniziativa mangia dollari come il bestiame magro divorava quello grasso nel sogno
del faraone: ‘Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche, quelle grasse. Queste
entrarono nel loro corpo, ma non si capiva che vi fossero entrate, perché il loro aspetto era brutto come
prima’.»
«Chi se ne frega della tua società?
Vorrei che andassero tutti all’inferno e non ricomparissero mai più. E’ impellente che tu vada in
campagna e ti stacchi da ogni cosa per qualche settimana. Per te ormai c’è una cura sola: il riposo. Visto
che hai messo tutto ciò che possiedi in quelle sporche navi, non hai i soldi per andare da nessuna parte.
Ma se riposi e recuperi le forze, sarai presto in grado di sistemare tutto. La gente come te non va a
chiedere l’elemosina di porta in porta.»
«Sei una cara persona, Shloymele, un vero e buon amico, ma nelle prossime settimane ho troppo da
fare. Mi preoccuperei più là che qui, ecco il guaio. Ho mille impegni diversi, e se vado via andrà tutto a
pezzi.»
«E che cosa succederà se resti secco?
Il mondo smetterà di funzionare? La terra smetterà di girare sul suo asse? Bestione primitivo!»
«Un morto non deve pagare alcun debito. E’ esentato dall’obbligo di osservare i comandamenti.»
«Tu sei peggio che morto. Sei un cane vivente! Se non prendi quell’assegno, ti sputo addosso e non
poserò mai più lo sguardo su quella tua sporca ghigna.
Cretino! Fesso! Balordo!»
«Dio del cielo, che boccaccia hai!»
«Se non temessi Dio, ti spaccherei fuori tutti i denti!»
«Basta, Shloymele, basta! Non diventare un assassino. In tutta franchezza non ho bisogno di un prestito,
ma visto che ti comporti i questo modo sconvolgente, che cosa posso fare? Con l’aiuto di Dio, ti
ripagherò. Comunque non posso scappare e lasciare che tutto vada a rotoli. Per farlo bisognerebbe
essere un criminale totale. Ho appuntamento con certa gente. Già mentre sono qui, il mio telefono
suona tanto da saltar giù dal gancio.»
«Come sta scritto nella Torah: ‘Vedi, ti ho posto davanti questo giorno’. Devi scegliere tra vita e morte.»
«Che cosa dovrei fare, allora?»
«Hai ancora una figlia in giro.»
«Non voglio aver niente a che fare con lei.»
«Perché fai tanto chiasso? Non è più la moglie di un altro. Sto cominciando a pensare che tu sia anche
un analfabeta.»
«Perché lo sarei?»
«Perché ciò che sta facendo lei non è affatto peccato. Lo è mille volte di più strappare uno stelo d’erba
di shabbath.»
«Lo so. Lo so. Però. Mia figlia. L’onta.»
«E quando viveva con Luria, osservava forse le leggi della purezza femminile? Chi stai prendendo in
giro? Te stesso? Dal punto di vista della Legge ebraica, la generazione moderna è tutta fatta di bastardi
concepiti nel momento dell’impurità materna.»
«Sì, è vero.»
«E allora perché batti un cavallo morto? Telefonale e spiegale la situazione. Lei sa tutto, comunque. Tu
non sei mai stato un uomo d’affari. La tua testa è sempre stata persa in bigini e altre scemenze scritte
per i profani. Anna gestiva i tuoi affari a Berlino tanto quanto lo faceva qui. Se fosse stata al tuo fianco,
non ti avrebbe mai lasciato affondare in tutto questo fango. Chissà. Forse può ancora tirartene fuori.»
«Ormai nessuno può più fare niente.»
«Va’ e affidale tutti i tuoi marci affari. Poi parti e immaginati di essere già nel Mondo a Venire e di star
mangiando la carne del Leviatano. Ma non troppa, bada bene… devi anche seguire una dieta. Hai
bisogno di perdere dieci chili. A che cosa ti serve questa pancia? Per chi ti stai ingrassando? Per i vermi?
Se ti concedi un riposo totale per sei settimane e perdi dieci chili, ti si schiarirà anche la testa. Nel
frattempo Anna farà ciò che si può fare. E’ giovane e ha una bella testa sulle spalle… tranne che per
quanto concerne gli uomini. In quell’ambito ha persino meno giudizio del padre.»
«Dove devo andare?»
«Al mare, ma non in quegli alberghi di ebrei dove ti inzepperanno di fegato e cipolle, derma ripieno e
altre schifezze del genere. Prendi una villetta da qualche parte.»
«Davvero, Shloymele, non so che cosa fare.»
«Fuori di qui, o ti prendo a legnate. Ah, già… smetti di ciucciare quei sigari. Almeno per qualche
settimana.»
«Se non fumo, mi agito ancora di più.»
«Invece di fumare un sigaro, recita un capitolo dei Salmi. Come dice la Ghemarà: ‘Se non serve a niente,
almeno non farà male’. E poi mettiti tranquillo per un po’, rilassati! Non fare sforzi in ogni direzione. Il
Signore dell’Universo ha costruito questo miserabile piccolo mondo in maniera tale che nessuno è
indispensabile. Quando ho sentito che era morto Roosevelt, mi si è strappato un pezzo di cuore. Ma poi
è comparso Truman e adesso è lui a governare la nave, che continua a navigare. Ed è così per ogni cosa.
Ci prendiamo troppo sul serio. Per la natura non siamo meglio dei pidocchi… ecco la pura verità.»
«Quando ha debiti, anche un pidocchio è in pena.»
«I pidocchi non fanno debiti. Non sono scemi come gli uomini. Se si beccano una goccia di sangue la
succhiano; altrimenti rimangono completamente immobili e aspettano giorni migliori. Certe creature
non sprecano energie invano, specialmente quando le cose non vanno bene. Soltanto noi umani siamo
convinti che la responsabilità di tutto il cosmo gravi sulle nostre spalle.»
«Vivrò, Shloymele. Dici cose sensate.»
«E’ facile consigliare gli altri. Ma per quanto mi concerne, sono peggio di te.»
«In che senso?»
«Ah, non sono un essere umano rispettabile!»
«Sempre per via delle tue donne?»
«Non va bene.»
«Non ti ho implorato abbastanza?»
«A che cosa servono le tue implorazioni?»
«Devi trovarti una donna perbene e sposarti. Quanto continuerai ancora a vivere solo?»
«Già, quanto? Ma sono tutte chiacchiere inutili. Se hai potuto tirare avanti pazientemente senza moglie
per ventitré anni, sei fatto di una pasta diversa dalla mia. Hai nelle vene latte cagliato, non sangue. Da
dove ti venga la pressione alta, è veramente impossibile capirlo. A quanto pare anche il latte cagliato ha
bisogno di condutture libere in cui scorrere. Per converso, tua figlia è senz’altro una creatura di sangue
caldo, ma non ho avuto fortuna con lei. Prima si è innamorata di quel Yasha Kotik. Poi si è messa a
correre dietro a Stanislaw Luria, possa la terra non pesargli. E adesso Grein. Te lo dico io, Borukh, tutta
la faccenda dell’accoppiamento è un profondo mistero.»
«E’ quello che dicono i cabbalisti.»
«Come facevano a saperlo? Quante mogli ha avuto Rabbi Isaac Luria… o Rabbi Chaim Vital? E non
sono mai nemmeno stati in cielo. Dimmi un po’ tu. Donne vengono a trovarmi e si spogliano tutte…
non soltanto fisicamente ma anche spiritualmente. Che cosa ne sai di queste cose, Borukh? Se sapessi
che cosa è capitato nella mia vita, piangeresti, rideresti e sputeresti.»
«Non voglio saperlo. Ma se non altro prenditi cura della tua salute. Sei medico, in definitiva.»
«E a che cosa mi serve esserlo? I tuoi libri sacri parlano continuamente di libertà del volere. Ma io ti
dico che un essere umano ne ha quanto una bestiola o un sasso. Prendo risoluzioni solenni, faccio
giuramenti, e subito dopo li infrango a uno a uno. Siamo macchine, Borukh, automi ciechi.»
«No, l’anima esiste.»
«Dove sarebbe la prova?
Abbiamo basato tutto su un misero Pentateuco redatto da uno scriba da quattro soldi. Dopo di che ci si
è intrufolato un numero incalcolabile di scribacchini, che hanno aggiunto il loro contributo da quattro
soldi.
Niente di tutto ciò ha alcun legame con la realtà.»
«Chi ha creato il mondo, allora?»
«Chi ha creato Dio? Ci siamo illusi che tutto debba essere creato. Esisteva già tutto dall’inizio
dell’eternità.»
«E da dove sarebbe venuto? Da dove si sarebbe originato?»
«Non lo so. Ma ficcati una cosa in quel testone: noi ebrei non riceviamo alcun privilegio particolare
dalla natura. Tutta la nostra storia è un unico immenso pogrom, dall’Egitto fino a ora.»
«Se è vero, allora dovremmo convertirci, Dio ne scampi.»
«E che cosa sarebbe Gesù? Di nuovo un ebreo, di nuovo la vecchia storia frusta di porgere l’altra
guancia e ottenere come ricompensa il paradiso. E’ la medesima fantasia adattata per i gentili. La natura
sembra miracolosa, ma è probabile che siamo soltanto noi a immaginarci che sia così. Per un verme che
striscia nei bidoni della spazzatura, i rifiuti sono l’armonia più alta, il più grande piacere estetico.»
«Allora che cosa dovremmo fare?»
«Quello che si vuole.»
«E se si vuole ammazzare qualcuno?»
«Lo si ammazza. Chi decide che scannare un bue sia meglio che massacrare un essere umano?»
«Davvero, Shloymele, mi terrorizzi. Com’è possibile convivere con simili pensieri?»
«Si può. Io lo faccio, no? I tedeschi hanno massacrato sei milioni di ebrei e continuano a vivere. Il sole
splende sopra la Germania, e i campi tedeschi maturano. Proprio mentre loro assassinavano ebrei, gli
uccelli cantavano e gli alberi fiorivano. L’unica giustificazione che ci è data di tutto ciò è che riceveremo
la nostra ricompensa nel Mondo a Venire. Ma che cosa farai quando arriverai nell’altro mondo e, come
dice Rashi in un altro contesto, scoprirai che ‘non vi sono né alberi né orsi’… che è tutto immaginario?
Te la prenderai con Dio?»
«Smettila, ti prego, Shloymele, smettila! Questa conversazione mi sta facendo stare peggio, non meglio.»
«Be’, va’ a casa a pregare. Personalmente, non posso più legarmi un paio di filatteri e parlare rivolto alla
parete. Nessuno ha la più vaga idea di che cosa fossero quelle ‘frontali’ che Mosè ha ordinato agli ebrei
nel deserto di legarsi tra gli occhi. Non erano di sicuro pezzetti di pergamena chiusi in scatolette di
legno rette da strisce di cuoio. In termini scientifici, le ‘frontali’ sono le ossa anteriori del cranio. Quelle
cose che tu chiami ‘filatteri’ sono le ‘frontali’ bibliche quanto tu sei il governatore dell’Ohio.»
«Un Creatore esiste… Esiste!»
«Esista pure, ma io non Lo amo. Se ha qualcosa da dare, mostri la mano. Se vuole giocare a nascondino
per tre miliardi di anni, Si accomodi. Dove vuoi andare? Va’ ad Asbury Park. C’è il mare, oltre a ebrei
con le loro sinagoghe e tutti i loro marchingegni. Fammi sapere dove sei, e una domenica verrò a
trovarti in auto.»
«Dici tanto per dire, o manterrai la parola?»
«Verrò. C’è forse qualcuno, qui, con cui io possa parlare? Non sono né ebreo né gentile, né americano
né europeo. Ciò che dico a te non posso dirlo a nessun altro. Sei l’unica persona al mondo che mi
chiami Shloymele, ed è una cosa che per me vale un milione di dollari.» Boris Makaver era seduto nel
taxi che lo stava portando a casa e aveva gli occhi umidi. Per quante volte se li tergesse, continuavano a
offuscarsi.
L’assegno nel taschino della giacca lo riscaldava e al tempo stesso lo scottava. Dagli ammonimenti
datigli da Solomon Margolin gli appariva chiaro che la sua vita era appesa a un filo. Riuscirò davvero a
riposare? si chiese. Mi scoppia il cuore. Sapeva che non appena fosse entrato nel suo appartamento, il
telefono avrebbe cominciato a suonare e lui avrebbe dovuto parlare all’infinito. I suoi soci avevano
litigato con tale violenza tra loro che si era venuti alle mani. Era l’unico che avesse impedito a quegli
animali impazziti di farsi a pezzi.
Era il più anziano e l’unico dotato di cultura. Ma se doveva scappare come un fallito, avrebbe
dimostrato che tutta la sua istruzione etica non valeva un centesimo. Salì con l’ascensore. Come poteva
fare per spiegare tutto ciò a Frieda? Aveva sposato un Creso e adesso sarebbe dovuta vivere con un
poveraccio. Sarebbe persino potuta arrivare a pentirsi del loro matrimonio. Gli aveva detto più volte di
essere stata innamorata un tempo di quel pittore Jacob Anfang. Be’, Shloymele ha ragione: immaginerò
di essere già morto. Alla porta d’ingresso cominciò a trafficare con la chiave, ma Frieda aveva
evidentemente sentito i suoi passi, per cui gli aprì la porta, accogliendolo con un sorriso vagamente
stupito, il viso un po’ arrossato. Boris entrò. «Friedele, come stai?»
«Devo dirti una cosa, Borukh.»
«Devo dirtene una anch’io.»
«Vieni nel soggiorno? Siediti. Così.» Frieda si mise comoda sul divano, mentre lui si gettava su una
poltrona. Soltanto in quel momento si rese conto che sembrava gli fossero state tagliate via le gambe. Il
suo cuore riprese a tonfare e martellare dappertutto. Gli comparvero macchie verdi davanti agli occhi.
«Friedele, le cose mi vanno molto male!» sbottò. Lei inarcò i sopraccigli. «Che cos’è successo?»
«Ho perso tutto, Friedele.» Il viso della donna mantenne l’amabile espressione di tranquillità e mite
rimprovero di una madre il cui figlio le confessi di aver perso un giocattolo o rotto un gingillo. «Be’, non
preoccuparti. Con l’aiuto di Dio, troveremo abbastanza di cui vivere.»
«Friedele, non sto nemmeno bene di salute. Arrivo giusto da Solomon Margolin.»
«Sì, lo so. Ho già fatto le prenotazioni, in modo che tu possa avere un periodo di riposo completo.»
«Ma com’è possibile?»
«Il dottor Margolin ha telefonato un attimo fa.»
«Eh? Be’, allora sai tutto.»
«Partiremo oggi. Ti riprenderai.»
«Sei una santa!» E gli occhi di Boris Makaver si riempirono di lacrime. «Non esagerare. Sono tua
moglie.»
«Non tutte le mogli sono uguali.» E Boris non riuscì più a dire niente. «Borukh, voglio tu sappia che
sono incinta», annunciò Frieda dopo un attimo di silenzio. Lui sentì le parole, ma non le vide la faccia.
Si sentì montare dentro una grande gioia, ma gli mancava la forza di esultare ad alta voce. Cercò più
volte di tergersi le lacrime, trattenendosi con immenso sforzo di singhiozzare. Rimase a sedere
immobile e senza parole, mentre nel suo intimo tutto si irrigidiva e al tempo stesso tremava.
Spero di campare almeno fino alla circoncisione, pregò una voce dentro di lui, anche se si rendeva
conto che il figlio sarebbe potuto essere una femmina. «Perché taci?»
«Tutto viene da Dio», ansimò lui. «Aspetta, ti porto qualcosa.» Frieda uscì, tornando dopo un po’ con
una tisana.
Boris la bevve, ma non servì a farlo sentire più forte. Tutte le sue energie erano svanite. Mentre Frieda
si chinava su di lui con devozione, nonostante tutta la sua debolezza provò qualcosa di prossimo al
desiderio virile. «Friedele, mazal tov!»
«Puoi darmi un bacio!» E Frieda gliene scoccò uno sulle labbra. Quindi andò in cucina e si mise a
trafficare a lungo, tornando finalmente con una tazza di caffè. Boris la rifiutò con un cenno della mano.
«Stenditi sul divano.»
«Non qui.
Potresti magari prepararmi un letto nella mia casa di preghiera?» Mentre lo diceva, Boris stava
pensando: se muoio, voglio giacere lì sino al funerale. «Stenditi qui», replicò lei tra l’esortazione e
l’ordine. Ma mentre faceva il gesto di aiutarlo ad alzarsi, qualcuno suonò alla porta. Il timore che
potesse essere uno dei suoi soci mise Boris in grado di recuperare al tempo stesso forze e parola. «Chi
è? In questo momento non posso parlare con nessuno», gridò con voce limpida e forte.
«Non farò entrare nessuno.» Frieda andò alla porta, mentre lui rimaneva seduto ad ascoltare intento,
consapevole che l’attenzione gli restituiva le forze come un tonico o un’iniezione. Era di nuovo pronto
a infuriarsi, a dispensare precetti morali. Si terse il viso, si soffiò il naso e si riscosse dal suo torpore per
tornare ancora una volta Boris Makaver. Tossì e grugnì come l’incaricato di guidare la preghiera, che
prepara la voce prima di cominciare la funzione. Be’, con l’aiuto di Dio, combatteremo un’altra
battaglia! decise. Se mia moglie aspetta un figlio, è un segno che il cielo desidera che io viva. In quel
momento si pentì di aver chiesto a Frieda di non far entrare nessuno. Sarebbe stato meglio che mettesse
bene in chiaro la sua posizione con i soci, invece di nascondersi come un ladro. Frieda apparve
improvvisamente sulla soglia. «E’ tua figlia, Borukh!»
«Anna!» E Boris rimase seduto, con gli occhi fuori delle orbite. «Sì, il dottor Margolin le ha detto di
venire qui.»
«A quale scopo?»
«Il dottor Margolin ha ragione. E’ sempre tua figlia.»
«Be’, falla entrare. Alla pioggia segue il diluvio.» Boris pensò che sia Shloymele sia Frieda si stavano
comportando stupidamente.
Troppe sorprese non facevano bene al suo cuore. In un lampo gli venne in mente un versetto dei
Proverbi: «Una notizia lieta ingrassa le ossa.» Non sono già abbastanza grasso? Entrò Anna in un abito
a colori chiari con un fiore nel colletto. Lui non la vedeva dal funerale di Stanislaw Luria, quando era
tutta ammantata di nero e incedeva sotto il suo velo nero come una vecchia distrutta. Evidentemente
aveva fatto in fretta a trovare conforto. Adesso aveva un’aria straordinariamente giovane, quasi fosse
tornata all’infanzia. Si era tagliata o acconciata diversamente i capelli, era più snella e aveva
un’abbronzatura splendente. Tutto l’affetto paterno che si era risvegliato in Boris immaginandola
impegnata a fare penitenza svanì in un attimo. Non era sua figlia ma una sciksa sopravvissuta di New
York, una gatta che atterrava sempre sulle zampe. Sarà esattamente la stessa cosa quando morirò io,
pensò. E’ di quei tipi che ballano sulle tombe. Per loro la morte è una cosa che capita agli altri. La
guardò intensamente e in silenzio.
«Ciao, papà.»
«Siediti. Come stai?»
«Bene, grazie.»
«Anna, vuoi qualcosa da mangiare o bere?» offrì cortesemente Frieda. «No, grazie.»
«Be’, vi lascio tra voi.» E Frieda uscì. «Papà, so tutto. Ho parlato con Solomon Margolin. Ma sapevo dei
tuoi affari anche prima.»
«Che cosa succede? Perché quello là mette in allarme tutti?» chiese Boris in tono truce. «Io non sono
‘tutti’», replicò Anna. «Ti dimentichi che sono sempre tua figlia, papà.»
«Una figlia che non segue le vie di Dio è peggio di un’estranea.»
«Non ricominciamo da capo le solite diatribe, papà. Sono venuta qui per parlare d’affari.»
«Quali affari?
Come uomo d’affari sono finito. Se stavi aspettando con impazienza di costruire il tuo futuro su
un’eredità da parte mia, ormai puoi rinunciare alla speranza.»
«Non mi occorre nessuna eredità, papà. Né sono mai stata impaziente di riceverla. Non voglio litigare
con te, ma se mi avessi consultato prima non saresti mai finito in questo pasticcio.»
«Quale pasticcio? Posso vivere senza soldi. Mi bastano un pezzo di pane e un po’ d’acqua. La vera
disgrazia è quella che mi hai provocato tu.»
«Non sono venuta a farmi fare la predica, papà. Compirò presto trentacinque anni. Devi lasciarmi
andare per la mia strada.»
«Quale sarebbe questa strada? Be’, se vuoi staccarti sia da questo mondo sia da quello a Venire, non ci si
può far niente. Io non posso più occuparmi di nessuno.»
«In che razza di navi demenziali ti sei andato a impegolare?»
«Volevo diventare un secondo Rockefeller.» E Boris scoppiò a ridere forte. Sorrise anche Anna.
«Davvero, papà, sei proprio un bambino.»
«Non penso che tu possa fare qualcosa per me.»
«Qualsiasi cosa si possa fare, la farò. Ormai ho i miei affari. Ho comperato un grosso palazzo con
camere ammobiliate. Non è la migliore delle attività, ma non posso stare seduta a far girare le dita.»
Boris ebbe l’impulso di chiedere di Grein, ma non voleva nominarne il nome. Quell’uomo, che aveva
sempre amato come un figlio, gli aveva portato vergogna e onta, rovinato la vita. E in quel momento
decise che era colpa sua se aveva investito tutto il proprio capitale in quelle navi. Se non fosse stato per
Grein, non avrebbe mai affrontato alcuna iniziativa d’affari senza il consiglio della figlia. Era sempre
così: una disgrazia se ne porta dietro altre. Quando si pecca una volta, si è forgiata la prima maglia di
un’intera catena di peccati, mali e afflizioni. Nondimeno era curioso di sapere che cosa stesse facendo
Grein, se stesse cercando o no di ottenere il divorzio dalla moglie, se perlomeno Anna viveva in pace
con lui. Attese che fosse Anna ad affrontare l’argomento, ma lei rimaneva seduta sul bordo della
poltrona, serena, elegante, con le gambe accavallate, le mani ancora nei guanti bianchi serrate sulla
borsa, con l’espressione di una professionista cui non interessa niente se non gli affari. Dunque ha
comperato un palazzo… significa che Grein non le provvede nemmeno di che campare, concluse Boris.
Quindi adesso è diventata una affittacamere, che affitta stanze a ubriaconi di ogni risma. E che cosa
starà facendo Grein? Forse l’ha già messa da parte.
Tutto è possibile con simile gente sregolata. Devo dirle che, se Dio vuole, avrà un fratello o una sorella?
No, meglio di no! decise. Non aveva lui stesso assorbito appieno la buona notizia datagli da Frieda.
Tutto era accaduto troppo all’improvviso, troppo in fretta. Tenne la notizia per dopo, come un animale
che nasconde precipitosamente un pezzo di carne o un osso. Sentì Anna dire: «Papà, sii così buono da
mostrarmi tutta la tua documentazione.» Uscita dalla casa del padre, Anna raggiunse la laterale dove
aveva parcheggiato la sua auto nuova. Nei pochi mesi trascorsi dalla morte di Luria era cambiata in un
modo da stupire persino lei stessa. Aveva perso ogni insicurezza, il suo terrore, la sensazione di essere
intrappolata in una via senza uscita o in un’impasse irresolubile. Molti fattori avevano contribuito a
questo senso di liberazione: primo, ormai era legalmente libera, una bella vedova giovane. Secondo,
aveva ricevuto un’assicurazione di morte di diecimila dollari, che, uniti al denaro realizzato con le
obbligazioni di guerra e i gioielli venduti a Miami, le avevano messo a disposizione una liquidità di quasi
venticinquemila dollari. Aveva comperato un palazzo, imparato a guidare e raccolto alcune idee su come
fare affari in America. In lei si era risvegliato un desiderio atavico di far soldi.
Ma per questa sua nuova fiducia in se stessa c’era anche un terzo motivo. Dopo essere tornato da
Hollywood a mani vuote, Yasha Kotik era in procinto di recitare in yiddish sulla Seconda Avenue ed era
persino disposto a fare serate nei Catskill. Ma di punto in bianco aveva ottenuto una parte importante
in un teatro di Broadway e la stampa di New York era impazzita per il suo talento, pubblicando
ripetutamente sue foto. Da un giorno all’altro era balzato alla ribalta pubblica, e Hollywood aveva
immediatamente cambiato tono, offrendogli un contratto per recitare in diversi film. Yasha Kotik era
ridiventato una star.
Visto che Anna aveva firmato un contratto di affitto per tre anni per il suo appartamento di Lexington
Avenue, e lui aveva bisogno di una casa, lei glielo aveva subaffittato. E adesso lui si era innamorato di
nuovo di lei… o perlomeno così sosteneva. La inondava di biglietti per il teatro. La riempiva di regali.
Non perdeva occasione di dichiarare che non aveva mai smesso di amarla e che era stata lei il motivo
per cui aveva fatto tanti sforzi per venire in America. A ogni incontro le confessava le sue malefatte,
raccontava le sue scappatelle, lamentava i guai sofferti in Russia, descriveva nei particolari le prigioni in
cui era languito, la strampalata gente con cui era entrato in contatto. Lì in America aveva già stretto
legami con tutti i personaggi più importanti del mondo teatrale, produttori, registi, drammaturghi,
critici. Il nome di Anna era persino comparso nelle riviste di pettegolezzi teatrali. La donna aveva
assicurato innumerevoli volte a Grein che per lei Kotik non significava niente. Le suscitava una
repulsione che gli anni non avevano cancellato, ma al tempo stesso risvegliava la sua curiosità e le
serviva come bastone per pungolare Grein. Hertz sapesse che un altro la desiderava, che, se lui l’avesse
tradita, lei avrebbe potuto ripagarlo con la stessa moneta. Non sapeva spiegare lei stessa come fosse
successo, ma adesso lo aveva in pugno. Avendo Kotik conosciuto Esther, aveva appreso che la sua
rivale aveva un marito di nome Plotkin, un uomo ignorante che conosceva attori yiddish nei bagni di
vapore e li riempiva di sovvenzioni. Da come l’aveva descritta Kotik, Esther era una donna a pezzi, di
mezza età e mezza matta. Anna era arrivata alla conclusione che non aveva senso star sveglia di notte a
meditare il suicidio a causa di una persona così.
Aveva persino smesso di sognare che Leah concedesse il divorzio a Grein.
Si era, per così dire, svegliata da un incubo. In vita sua aveva commesso molte sciocchezze, ma era
ancora una donna attiva e bella che si era resa benestante e indipendente, aveva una laurea ottenuta in
Germania e parlava cinque lingue, o sei, a seconda che lo yiddish lo fosse considerato o no. Quando
ricordava il giorno in cui era andata da Luria per prendere le sue cose, allorché il banconista del
drugstore l’aveva coperta di contumelie e l’addetto all’ascensore insultata, le sembrava tutto un brutto
sogno. Prima, ogni pomeriggio si trovava sull’orlo della pazzia. Era arrivata a un passo dall’uccidersi.
Adesso invece era euforica, traboccante di energia. Persino il fatto che il papà avesse praticamente perso
tutto le sembrava una sciocchezza. Presto ne avrebbe salvato qualcosa, e questa volta avrebbe badato
bene ad averne anche lei una parte. Questa è l’America, non l’Europa! si diceva.
Bisognava muoversi e agire, non andare in giro con la testa tra le nuvole. Siccome tutta l’America era
basata sull’avere successo, bisognava averlo di persona. Quella stessa giornata appariva ben riuscita:
assolata, limpida, non troppo calda. La brezza che soffiava dall’Hudson portava con sé i profumi
dell’estate. Fuori dei negozi di fioristi sulla Broadway c’erano banchi di fiori venduti a prezzi
d’occasione. Gli ortolani erano carichi di frutta. Il gelataio in divisa bianca da ufficiale di marina
suonava gaiamente la sua campanella.
Un’autobotte dell’acqua passava lentamente, rinfrescando le vie con il suo spruzzo. Da quando aveva
comperato un’auto e imparato a guidare, New York, anzi, tutta l’America, le era diventata più
accessibile. Da Riverside Drive arrivò rapidamente ad attraversare Central Park, dove gli alberi
sembravano più verdi che negli anni precedenti, forse perché durante la primavera aveva piovuto molto.
Fermò l’auto accanto a un sentiero da equitazione per osservare due giovani, uomo e donna, che
cavalcavano. Il sentore di sterco di cavallo si mescolava all’odore di erba, acqua e benzina. E’ bello
essere vivi, nonostante tutte le difficoltà, pensò. L’America è un Paese benedetto. Qui, se si vuole
realizzare qualcosa, non ci sono così tanti ostacoli. Raggiunse con l’auto il suo appartamento sulla
Quinta Avenue perché aveva promesso di pranzare con Grein e perché aveva molte persone cui
telefonare, cosa che si fa con più comodo da casa. La regola fondamentale era fare tutto nella maniera
più comoda possibile. Parlare aveva un effetto diverso se lo si faceva seduti in una poltrona
confortevole piuttosto che in piedi a soffocare in una cabina lurida; gli affari si fanno in un modo
avendo soldi in banca e in un altro quando bisogna lesinare ogni centesimo.
Anche in amore, non ci si azzardi a dipendere totalmente dalla persona amata, rifletté. Se crede che tu
stia morendo per lui, ti calpesta anche se è innamorato di te. Bisogna sempre tenere un asso nella
manica. Anna percorse la Quinta Avenue, gettando occhiate nelle vetrine a ogni semaforo rosso. Non
c’era fine alle merci costose in esposizione: abiti, gioielli, biancheria, mobili, argenteria, tutta roba
all’ultima moda.
Persino le sovraccoperte dei libri nuovi quell’anno apparivano più colorate e attraenti che mai. A New
York c’erano migliaia di persone di talento che continuavano a escogitare nuovi motivi di fascino, nuove
variazioni, nuove attrazioni per attirare i clienti, esattamente nello stesso modo in cui i fiori si
agghindano di tutti i colori immaginabili per attirare le api che li impollinano. Sì, ha ragione Freud,
filosofeggiò: tutto è sesso. Che senso avrebbe avuto, per esempio, andare a casa, se non ci fosse stato lì
Hertz ad aspettarla? Non sarebbe valsa nemmeno la pena di fare il caffè. Aprì la porta d’ingresso con la
chiave e sentì Hertz parlare al telefono. Non appena entrò, lui si precipitò a concludere la
conversazione, sembrando interrompersi a metà di una frase. Dunque sta parlando con quella matta di
Esther, osservò lei tra sé. E’ una malattia. Di sicuro va ancora a letto con lei, il porco… tutte le sue
promesse non valgono un groschen! Anna era furibonda ma fermamente decisa a non far trasparire la
sua rabbia. Gli darò una lezione quando mi sembrerà più opportuno, risolse. Grein le uscì incontro in
pantofole, pantaloni e camicia sbottonata.
Evidentemente si stava vestendo quando l’altra lo aveva chiamato, o aveva telefonato lui a lei. Anna
notò che nelle ultime settimane i suoi capelli d’oro si erano fatti più radi e che le tempie erano striate di
grigio. Stava diventando calvo. «Be’, come vanno le cose da tuo padre?» Anna si morse le labbra. «Te
l’ho detto, senza me non è affatto un uomo d’affari. Ha perso quasi tutto. Ecco la realtà nuda e cruda.
Sembra veramente malato.»
«Ha detto qualcosa di me?»
«Non una parola.»
«Di che cosa ha parlato?» Lei non riuscì più a trattenersi. «Di che cosa stavi blaterando con quella
demente sgualdrina di Brooklyn? Perché hai appeso nell’attimo stesso in cui sono entrata? Se sei così
attaccato a quella baldracca di mezza età, perché mi prendi per il naso? Quanto credi che continuerò
ancora a tollerare te e le tue false promesse?
Quanto ti proponi di tirare avanti ancora a recitare questa disgustosa farsa con me?» Grein non rispose
subito. «Stavo parlando con Leah, non con lei.»
«Che cos’hai da dire a Leah?»
«E’ malata. Ha un tumore al seno.» Grein era impallidito e gli tremava la voce. Lei tacque. Capiva che
stava dicendo la verità. «Quando è successo?»
«Improvvisamente. La operano domani.»
«Male», disse Anna. La sua espressione aveva un significato doppio, quasi stesse pensando: se questo
può accadere a uno di noi, vuol dire che il tempo che viviamo ci è concesso in prestito.
Andò in camera da letto, si tolse l’abito, indossò vestaglia e ciabatte.
Tanto per controllare, si tastò i seni. Magari aveva un nodulo anche lei. No, grazie a Dio, nessuno. Andò
in cucina e lui la seguì. «Dove la operano?» Lui disse il nome dell’ospedale. «Be’, non è necessariamente
cancro. Ormai i medici prendono forti precauzioni.»
«Non voglio prevedere il peggio, ma sua madre è morta nello stesso modo.» Nella mente di Anna
lampeggiò un pensiero privo di qualsiasi sensibilità, davanti a cui si ritrasse immediatamente: in questo
caso lui sarà presto libero. «Cose del genere non sono sempre ereditarie», disse.
«Speriamo di no.»
«A proposito, di che cosa è morta mia madre?»
«Di tisi. Lo sai benissimo.»
«No. Ormai ricordo pochissimo.» Grein tacque un attimo. «Ha telefonato Yasha Kotik.»
«Che cosa voleva costui?»
«Una conduttura dell’acqua è scoppiata nel ripostiglio. I suoi vestiti si sono inzuppati.»
«Eh? Ne è responsabile la proprietà immobiliare, non io. Probabilmente hanno un’assicurazione.»
«E’ in subaffitto, quindi non può presentare una richiesta di rimborso.»
«Eh? Già, è vero.» Per un po’ lui non disse niente, e lei si mise a trafficare con caffettiera e caffè. Sul
tavolo del tinello c’era un mazzo di fiori, e aggiunse acqua al vaso. Il sole splendeva attraverso i vetri.
Una brezza calda soffiava attraverso la finestra aperta. Una mosca solitària ronzava e sbatteva contro i
vetri. Un aereo rombava nella vasta distesa di cielo azzurro.
L’aroma del caffè si mescolava con la fragranza di rose e fresie, tanto che Grein si sentì inebriare dal
forte profumo. Con la camicia penzolante fuori dei pantaloni si sedette con aria assente su una sedia, in
preda all’immobilità della morte. Dovunque avesse sbattuto la testa di recente aveva sentito la stessa
storia: infarti, cancro, colpi apoplettici. Sebbene gli sembrasse di conoscere poca gente a New York,
aveva abbastanza conoscenti da turbarsi di così tante morti: clienti che aveva assicurato con le azioni del
suo fondo comune, insegnanti già suoi colleghi in diversi Talmùd Torah di Brownsville e del Bronx,
tutti rimasti secchi all’improvviso. La notizia datagli da Leah circa l’operazione era stata un colpo che lo
aveva stordito. Gli aveva parlato chiaro: era convinta che quel cancro le fosse venuto per il crepacuore e
la vergogna che le aveva provocato lui. Aveva persino citato Stanislaw Luria: «Prima hai tolto di mezzo
lui. Adesso tocca a me.»
CAPITOLO 17.
Il lunedì Anna dovette raggiungere con l’auto la costa del Jersey per vedere suo padre ad Asbury Park e
fargli firmare alcuni documenti. Aveva raggiunto un così buon accordo con una ditta sottoscrittrice che
adesso c’era la possibilità di salvare parte dei beni di Boris Makaver. In pochi giorni soltanto aveva fatto
meraviglie: aveva avuto il sopravvento sui soci litigiosi, assunto un importante avvocato e stipulato un
contratto con un’agenzia la cui unica attività consisteva nel montare la guardia contro i furti nei porti.
Così agendo si rendeva conto di esporsi a un rischio fisico, e infatti era stata quasi immediatamente
avvertita di possibili «conseguenze», ma era fermamente decisa che sarebbe prevalsa la giustizia,
quand’anche le fosse dovuto costare la vita. In un tempo straordinariamente breve aveva stabilito
contatti e ottenuto l’appoggio di autorità da cui nessuno riteneva possibile ricevere udienza. Diverse
navi erano già state rottamate, e le loro parti saccheggiate, distrutte o vendute per quasi niente. Ma una
ventina di esse erano ancora intatte e valutate più dei tre milioni di dollari pagati per tutto il complesso
di vascelli. Lei aveva interrotto la demolizione, liquidato operai e tecnici e traslocato in un cantiere
economico, dove l’affitto era un terzo di quanto pagato in precedenza. E adesso la stessa marina
americana che aveva venduto le navi era interessata a ricomperarne alcune componenti. Più apprendeva
degli sbagli commessi dal padre e dai suoi soci, più Anna si sbalordiva. Avevano agito da stupidi
ignoranti, perso la testa. Le navi non sono palazzi su cui si può accendere un’ipoteca, contando sugli
affitti per rimborsarla. Commerciare in navi richiedeva iniziativa, intelligenza, competenza e presenza di
spirito.
Come sempre quando era eccitata e fortemente coinvolta, Anna aveva quasi smesso di mangiare e
invece fumava moltissimo, dimagrendo, con occhi giorno dopo giorno ardenti di un fuoco ossessivo.
Mentre la voce le si faceva rauca per il gran parlare, la sua mente lavorava sempre più veloce. Le
venivano in mente nuovi progetti ogni attimo. Certe volte si svegliava nel cuore della notte e telefonava
a questo o quello dei soci.
Discuteva anche ogni cosa con Grein. Molti dei suoi piani erano strambi e fantasiosi che nessuna
persona dotata di senso pratico li avrebbe ritenuti realizzabili, tanto che dopo un po’ ne rideva anche lei
stessa. Ma altre sue idee erano scaltre, logiche, facili da mettere in atto. Il tesoro dell’intelligenza umana
contiene evidentemente innumerevoli espedienti per salvare un affare andato storto. Era divertente
ascoltarla parlare con autorità di pratiche, persone e strumenti legali della cui esistenza non sapeva
niente fino a poco prima e di cui non aveva tuttora una comprensione totale. Dalle sue labbra si
esprimeva il secolare spirito commerciale che compera e vende senza sapere che cosa, che riduce tutti i
valori a prezzi e quantità, che misura tutto esclusivamente in termini di profitto. La sua mente, come
avviene in genere, speculava di questioni che non riusciva a capire a fondo, scavava cercando l’essenza
delle cose al fine di puntare tutte le sue energie verso un unico obiettivo. Di quando in quando scoccava
un’occhiata interrogativa a Grein. Che però le era ancora più estraneo di qualsiasi nave e trattativa
d’affari.
In lui stava succedendo qualcosa che lei non poteva né capire né lasciar perdere, e Sembrava essere
sfuggito del tutto alla sua comprensione, e che non aveva idea di come penetrare nella sua mente o
controllarlo. Era forse per questo che trovava tanto difficile staccarsi da lui. Nel bel mezzo di tutte le
sue recriminazioni e proteste, era travolta dal desiderio di baciarlo, di sentire una parola di lode da lui.
Visto che intendeva passare la notte ad Asbury Park, avendo moltissime cose da discutere con suo
padre e volendo trascorrere una notte di buon riposo e godersi l’aria pura di mare, Anna si era
prenotata una camera. Quel giorno era prevista l’operazione a Leah. Grein andò all’ospedale, dove
trovò Jack, sua moglie Patricia e Anita. Leah era a letto circondata da composizioni floreali. In un
secondo letto giaceva una donna operata di ulcera e in un terzo una ragazza con la schiena ingessata.
Ogni volta che doveva visitare un ospedale, Grein era profondamente scosso; gli sembrava una fabbrica
di dolore e morte, dove ogni intimità era messa a nudo e contaminata. I visitatori, secondo lui, si
guardavano tutti attorno furtivamente, si dicevano cose insincere, facevano domande cui non valeva la
pena di rispondere ciò che pensava. lo guardavano con ostilità e sospetto, pronti ad attaccare briga a
ogni momento. Sebbene si assicurasse che era tutta un’idea, non riusciva a liberarsene.
Chissà perché, l’addetto all’ascensore era irritato con lui, e i vicini che vi montavano con lui lo
guardavano di traverso, con riluttanza, quasi fossero dispiaciuti che abitasse tra loro. Ogni volta che
compariva lui, il portiere si metteva a fischiettare. Peggio di tutto, da qualche tempo i clienti gli stavano
girando le spalle. Aveva smesso di ricevere lettere e ordini. Ogni volta che chiamava l’ufficio riceveva la
stessa risposta: «Niente. Nessuno.» Si stava ordendo nei suoi confronti una sorta di congiura metafisica
e misteriosa, quasi che le forze che controllano il mondo avessero perso la pazienza con lui e fossero
decise a sabotarlo o a fargli del male. E adesso sedeva lì in poltrona tutto solo a cercar di valutare la
situazione. Era colpa dei suoi peccati? O nella sua mente c’era stato un terremoto? Stava cedendo a una
malattia fisica? Lui, Hertz Grein, non era di sicuro il peggior peccatore del mondo. Le potenze superne
proteggevano gente malvagia come Stalin e i suoi simili. In Germania vivevano tuttora assassini che
avevano fracassato teste di bimbetti, eppure si erano fatti una carriera e campavano nella prosperità.
Aveva semplicemente i nervi scossi. Ma che cosa poteva fare? Fare un viaggio da qualche parte? Il solo
pensiero di trovarsi in un albergo, di condividere la tavola con sconosciuti, lo riempiva di orrore. Non
voleva guardare nessuno negli occhi, non aveva la minima voglia di trascorrere tempo in compagnia di
altre persone, di sentirle chiacchierare. Fremeva di impazienza, avversione, rimpianto. Se ne sarebbe
andato, se fosse riuscito a trovare un’isola dove potesse stare completamente solo o con Esther. La
amava, dunque? Sarebbe stato capace di aiutarla, se si fosse trovata in stato di bisogno? No, non amava
nemmeno lei. Aveva desiderio sessuale di lei, ma detestava le sue sceneggiate melodrammatiche, i suoi
vaneggiamenti, il suo egoismo. Da quando aveva sposato quel Morris Plotkin, il desiderio che provava
per lei si era mescolato a repulsione, tanto che aveva al tempo stesso voglia di baciarla e sputarle
addosso. Nel profondo dell’intimo avrebbe voluto vederla ricevere la sua punizione: vederla perdere
tutto, ammalarsi, morire. Aveva addirittura sognato che era morta e che lui era lì accanto alla sua tomba.
Per converso, sapeva che, se Esther fosse davvero morta, sarebbe morto anche qualcosa di lui. Quella
donna sapeva farlo felice… non per sempre ma per molte ore. Quando era con lei, tutto diventava
interessante, carico, intenso. Il tempo volava, e lui era consapevole del suo trascorrere. Si era invischiato
a fondo, come un giocatore, un alcolizzato, un oppiomane. Ma quanto poteva continuare un simile
stato? Passando giorni, persino settimane in compagnia di Esther scopriva che prima o poi tra loro
sarebbe scoppiata una lite, così aspra, così carica di odio, che ne fuggiva come dal fuoco, con la paura di
poter commettere un omicidio per la rabbia. Per che cosa litighiamo esattamente? si chiese in quel
momento. Cercò di ricordarselo, ma non gli venne in mente niente. Le loro liti avvenivano sempre per
cose futili e vacue. Una volta, per esempio, Esther aveva preso in giro il suo accento di Varsavia, e la sua
imitazione satirica del modo in cui pronunciava certe parole aveva provocato un tale sconquasso; come
mai? che l’aveva letteralmente presa a schiaffi.
Un’altra volta era scoppiata una furibonda scenata per un’osservazione di spregio da lui fatta a
proposito di Liuba, la migliore amica di Esther. Ma le parole in sé erano un semplice pretesto, la scintilla
che dava fuoco alle polveri. Ogni volta che si trovavano insieme, gli umori si infiammavano, una lite
sobbolliva: il desiderio di farsi del male e persino annientarsi a vicenda diventava travolgente. La guerra
scoppiava improvvisa, con accuse, insulti, contumelie, persino percosse. Ogni volta che scappava da lei,
era con la sensazione di essere sfuggito a un pericolo mortale, a un demonio, a un cataclisma che voleva
distruggerlo.
Più di una volta si era detto: è mia nemica! Una nemica mortale! Adesso chiuse gli occhi, appoggiando
la testa sullo schienale della poltrona mentre fuori ronzava la notte estiva. L’America era piena di
alberghi, spiagge, fattorie che accettavano ospiti. Aveva a disposizione tutti i piaceri che può offrire
l’estate, eppure era lì seduto nell’appartamento buio come un prigioniero. Non poteva andare a vedere
niente, recarsi in nessun posto, perché non aveva nessuno che potesse scortare, nessuno che potesse
accompagnarlo. Andare a mangiare in un ristorante o una tavola calda gli faceva senso; trovava persino
difficile prendere un po’ di cibo dal frigorifero per nutrirsi. Ma perché? Com’era successo? E quanto
poteva continuare a vivere? Doveva mettere fine alla sua vita? Ho fatto uno sbaglio, un grosso sbaglio,
borbottò. Ma quale fosse esattamente questo sbaglio, non lo sapeva. Sarei dovuto rimanere con Leah?
Un marito è obbligato a vivere con la moglie anche se non l’ama più? O mi sarei dovuto comportare da
ebreo ortodosso, osservando tutte le leggi dello Shulchan Aruch anche se so esattamente attraverso
quali processi umani sono venute in essere tutte queste leggi e restrizioni? No, non potevo farlo, e in
ogni caso non mi sarebbe servito a niente. E’ vero che trovo l’esistenza tediosa, ma non posso servire
un Dio che non fornisce a nessuno la prova di aver bisogno dei miei servigi o di avere una qualsiasi
considerazione per gli esseri umani. Visto che Dio è fermamente deciso a tacere per tutta l’eternità, non
Gli devo niente. Verso le undici Grein decise di uscire. Sull’Ottava Avenue c’era una rosticceria dove
consumava spesso i suoi pasti. Dopo tutto il suo febbrile andare e venire, trovava strano trovarsi solo di
sera, a camminare lentamente, da persona che non ha più alcun motivo di affrettarsi. Stanislaw Luria era
morto. Leah era all’ospedale dopo un’operazione di cancro. Esther aveva un altro uomo. I figli lo
avevano piantato in asso. Tutto era andato a rotoli. Sospettava fortemente che presto lo avrebbe lasciato
anche Anna. Da quando Yasha Kotik aveva cominciato a fare il cascamorto con lei, aveva cambiato
tono nei suoi confronti, e lui aveva notato in lei la radiosità e sicurezza di sé di chi si è liberato da una
dipendenza forte e molesta. Si era persino vantata con lui che Kotik le correva dietro e la sommergeva
di complimenti. Anche altri uomini stavano cercando di conquistarsi il suo affetto: persino il dottor
Margolin, che a Berlino aveva rinunciato all’impresa, adesso cercava di nuovo di stabilire un rapporto
intimo con lei. Durante le prime settimane trascorse sulla Quinta Avenue non le telefonava nessuno, ma
ultimamente l’apparecchio suonava di continuo.
Tra quelli che chiamavano c’erano Kotik, Margolin, Korn, l’agente immobiliare, i soci di Boris Makaver
e vari altri uomini che lui non conosceva. Anna era in ascesa e lui in fase calante. Si stava mangiando i
soldi che aveva e non faceva affari. Be’, sparirò e amen, si disse.
Pianterò ogni cosa e scapperò. Sembrava che lo stesse spingendo il destino. La fuga era diventata
un’idèe fixe. Ci pensava da anni, e adesso se la sognava persino di notte. Spesso gli sembrava di aver
cominciato a programmarla ancora da ragazzo. Aveva cercato molto spesso di calcolare il minimo di cui
una persona poteva aver bisogno per tirare avanti, leggendo con particolare interesse articoli sulle diete
di diverse popolazioni e su famiglie costrette a vivere con un reddito limitato, contando ogni centesimo.
Si figurava spesso di vivere solo in un appartamento miserabile, senza riscaldamento né bagno, non
possedendo che un letto, un tavolo, pochi attrezzi, qualche libro. I suoi indumenti consistevano di un
paio di jeans a buon mercato, un golf, un paio di scarpe dure, qualche camicia che si lavava da sé nel
lavandino. Mangiava pane nero, patate, fiocchi d’avena con latte, e di quando in quando un frutto o un
po’ di verdura. Tutto, cibo, indumenti, spese, era ridotto all’essenziale: non andava da nessuna parte,
non telefonava a nessuno, non scriveva lettere, non andava a trovare e non riceveva nessuno. Gli
occorrevano soltanto duemila calorie al giorno, una coperta per ripararsi, un pezzo di sapone, una
tessera della biblioteca in modo da poter prendere libri a prestito. Aveva sistemato i conti con il mondo
e persino imparato a controllare l’impulso sessuale. Aveva risparmiato quanto bastava per sbarcare il
lunario ed essere libero da ogni preoccupazione, da ogni fretta, da ogni competizione. Aveva abbastanza
tempo da dedicare ai suoi studi… non quelli con fini pratici, alimentati da ambizione mondana, ma i
tranquilli studi con le loro particolari melodie, gioiosamente intrapresi per se stessi, che un tempo gli
ebrei perseguivano nelle loro case di studio. La stessa fantasia si ripeteva con variazioni. A volte si
immaginava a New York, nell’East Side; altre in Canada o in Sudamerica, dove tutto era a buon mercato
e la vita tranquilla, ricca di un riposo senza tempo. A volte progettava di stabilirsi in un’isola tropicale,
come Gauguin; altre in Palestina, in un kibbutz. A volte nei suoi sogni scriveva un libro; non
semplicemente uno in più degli innumerevoli che leggeva e buttava via, ma un trattato connotato da
elementi di eternità, una nuova filosofia ai confini della religione. Andando a piedi da casa sua al
ristorante della Ottava Avenue, Grein riprese a rimuginare sul suo progetto. Non era arrivato il
momento? Leah sarebbe morta presto. Esther lo aveva già piantato. Anna gli stava sfuggendo di mano.
Possedeva soltanto circa ventimila dollari in azioni, che ne rendevano quasi mille all’anno in dividendi.
Nel giro di pochi anni sarebbe potuto rimanere senza un centesimo ed essere costretto a cercarsi un
lavoro da operaio in fabbrica o persino da addetto di ascensore. Era convinto della sua idea ed era
arrivato al bivio: o adesso o mai più. Si fermò davanti alla vetrina di una libreria e guardò dentro. Dio
del cielo, quanti libri, eppure nessuno che sapesse spiegare come vivere! Tanti consigli, ma non il
minimo aiuto concreto per chi si trova in un vicolo cieco emozionale e spirituale! Che cosa sarebbe
successo se dall’oggi al domani si fosse trovato senza soldi? E se i suoi documenti di cittadinanza
fossero andati persi e non fosse più stato in grado di dimostrare che era entrato legalmente negli Stati
Uniti? Prima sarebbe marcito in prigione, poi lo avrebbero deportato su una nave da carico in Polonia,
dove probabilmente sarebbe finito di nuovo in carcere. Dopo di che nessuna cultura, nessuna religione,
nessuna poesia, nessuna sociologia gli sarebbero potute essere di aiuto. E quale conforto potevano dare
a Leah tutti i libri lì esposti? Di quale aiuto potevano esserle tutte quelle congetture sull’esistenzialismo?
Come dicevano i Salmi? «Mentre gli empi si aggirano intorno, emergono i peggiori tra gli uomini.» Non
arrivavano mai all’essenza delle cose. No, non posso sopportare più a lungo questa situazione! gridò
qualcosa nel suo intimo. Devo fuggire!
Era evidentemente il mio destino fin dall’inizio. Ma dove dovrei andare?
Come metto in atto il mio progetto? Improvvisamente ebbe un trasalimento. Qualcuno aveva gridato il
suo nome, ridendo. Si voltò e vide una Cadillac convertibile ferma alle sue spalle, con Esther che
ridacchiava e lo indicava a un uomo seduto al suo fianco: un tipo corpulento con capelli bianco latte,
faccia bruciata dal sole e l’aspetto riposato di chi è appena tornato da una località di vacanze estiva.
Portava una camicia di seta e una cravatta ricamata con filo d’oro e fissata da un fermaglio con
diamante. Gli fece venire in mente uno dei prosperi uomini anziani che celebrano le nozze d’oro o di
diamante, le cui foto comparivano spesso sulle pagine società e costume.
Anche Esther era elegantemente vestita, in abito bianco e cappello di paglia a larga tesa con una fascia
verde. L’individuo in camicia rossa al volante, che stava cercando di sistemare l’auto parallela al
marciapiede, aveva una faccia liscia e una zazzera di folti capelli castani che gli arrivavano bassi sulla
fronte. Dalle foto mostrategli da Esther, Grein riconobbe sia Morris Plotkin sia Sam, l’ermafrodito.
«Be’, hai esaminato abbastanza i libri?» chiese Esther. «Guarda come passa una sera d’estate.»
«Quindi lei sarebbe Grein?» gridò Plotkin con voce rauca e il tono borioso del ricco. «Esther parla di lei
giorno e notte. Eh, sì, è proprio Grein… la riconosco dalle foto. Su, monti in macchina… la portiamo a
fare un giro. Tanto la libreria è chiusa… adesso non può comperare nessun libro. Sono Plotkin, Morris
Plotkin.»
«Piacere.»
«E questo è il mio vecchio amico Sam… lo chiamano il mio gemello, perché mi segue dappertutto
come un fratello siamese. Sa che cosa sono, no? Due fratelli uniti alla nascita, che non possono
separarsi!» E Plotkin rise di cuore.
«Piacere», disse Sam con una voce né maschile né femminile. Ma non si voltò perché era ancora alle
prese con il volante, nel tentativo di raddrizzare l’auto, e sembrava trovare sgradevole tutto l’incontro.
Grein cercò di evitare di montare e fece per scusarsi, ma la portiera si aprì ed Esther lo afferrò per la
manica, tirandolo dentro. Evidentemente fermarsi lì non era consentito, perché di punto in bianco
comparve un poliziotto che prese a rampognare Sam, facendo il gesto di volergli dare una multa. Sam si
scusò e cominciò subito a far uscire l’auto dall’angusto spazio in cui l’aveva appena fatta entrare
manovrando con tanta fatica. «Non è strano, Morris?» attaccò Esther. «Stavamo appunto parlando di
lui, ed eccolo qui. Non è forse vero che stavamo proprio parlando di lui?»
«Sicuro. Non è la prima volta che mi capita. Non molto tempo fa stavo camminando per strada e
pensando a un amico che non vedevo da trent’anni… si chiama Mottele. Che cosa ne sarà stato di
Mottele? pensavo. Chissà se è ancora vivo. Forse non è nemmeno più in America. Era un socialista
sfegatato, e dopo la rivoluzione di Kerensky voleva tornare in Russia a dare una mano. Proprio mentre
stavo pensandolo, mi è comparso davanti come se lo avesse sputato fuori la terra. ‘Sei qui, Mottele’ ho
detto. E lui: ‘Stavo proprio pensando a te’.»
«E’ un classico caso di telepatia.»
«Sicuro. Ma come spiegarlo?
Esther mi ha detto di un certo professor Shrage, e voglio vederlo. Se è capace di evocare mio Padre e di
fare in modo che mi parli, gli do mille dollari sull’unghia.»
«A chi? A tuo padre o al professore?»
«Oh, sei una bella sagoma! Se nel Mondo a Venire avessimo bisogno di soldi, avrei cominciato a
metterli da parte da un pezzo. Ma non si può portarseli dietro, ecco perché bisogna spenderli qui. Se
passa un giorno senza che ne abbia spesi un po’, mi sento di peste, perché se non li spendo io lo farà
qualcun altro. Segue il mio ragionamento?»
«Molto chiaramente.»
«Dov’è che stai andando, Sam?» chiese Plotkin alzando la voce. «Perché ci trascini downtown?»
«Andiamo a casa.»
«A casa? Sei matto o cosa?
Visto che abbiamo qui il signor Grein, dobbiamo festeggiare… vero, Esther? Gira la macchina e
andiamo alla Zvezda, la sala da tè russa. Sa dov’è, Grein?»
«Lo so, ma adesso non sono dell’umore giusto.»
«Cosa dev’essere dell’umore per cosa? Non è mica la Casa Bianca… soltanto un caffè dove si cantano
canzoni russe e si mangiano bliny e shashhk. Se non vuole mangiare, può Limitarsi a mandar giù un
goccio di vodka.
Bisogna che ci conosciamo, Grein, perché Esther è innamorata cotta di lei, e tutti quelli che Esther gli
vuole bene sono amici miei… vero, Esther?» Grein si accorse improvvisamente del sentore di alcol. A
quanto pareva Plotkin aveva bevuto, e anche Esther. Seduta vicino a Morris sembrava in qualche modo
diversa: più viva, più mondana, più allegra.
Persino la risata aveva un suono diverso, perfettamente adatto alla situazione. «Sei un tipo comprensivo,
Morris, ed è per questo che ti amo. Se tu avessi vent’anni di meno, impazzirei per te. Hertz, noi
andiamo alla Zvezda, che tu lo voglia o no», disse lei. «Ho avuto nostalgia di te tutto il giorno, ed è ora
che tu e Morris diventiate amici. Quando amo due persone, voglio che si amino anche fra loro.»
«Devo andare alla Zvezda?» chiese Sam in un tono in cui si mescolavano irritazione e sottomissione.
«Sì, alla Zvezda!» ordinò Plotkin. «Qui comando io e basta! Se ti dico di andare alla Zvezda, tu ci vai, e
se ti dico di andare all’inferno, tu ci vai dritto filato. Nel Mondo a Venire non ti frusteranno, quindi cosa
c’è da temere?»
«Lo frusteranno eccome, altroché!» trillò Esther. «Perché dovrebbero farlo, se non pecca mai?»
«Ha pensieri peccaminosi.»
«E’ vero, Sammy? Che diavolo di pensieri hai? Dimmelo. Se c’è una dama cui stai dietro, ci fermiamo da
lei. Se non viene di sua spontanea volontà, la portiamo via con la forza. La rapiamo e amen.»
«Per favore, Morris, piantala con queste sciocchezze!»
«Sentite come mi parla! Non mi ero reso conto che lei fosse così alto, Grein. Perché è così alto? Io sono
cresciuto in larghezza, mi vergogno a dirlo. Fanno così anche le querce… Risucchiano i succhi della
terra e diventano più grosse invece che più alte. Cosa mi dice di Esther? E’ stato il suo amante per
undici anni, quindi conosce la merce, direi.»
«Posso parlarne soltanto bene.»
«Eh? Sicuro. Esther è come il brandy forte. Brucia, infiamma le budella, ma scalda. Non sono mica
geloso… non è il mio genere. Nel paese di un tempo avevo un fratello: si metteva sempre i miei calzoni,
le mie scarpe e tutta l’altra mia roba e se ne andava a ballare con le ragazze. E io restavo a casa a giocare
con il gatto. Invece, se appena toccavo una delle sue cose, attaccava subito a tirare pugni, possa la terra
non pesargli. E continuo a essere fatto così. Sono sempre pronto a dividere tutto con chiunque, non è
necessario che sia mio fratello. Sono ebreo, ma ho un gran cuore russo. Se un altro è contento, lo sono
anch’io. Sono fatto così. Ehi, Sammy, datti una mossa. Schiaccia sull’acceleratore! Il tempo non sta
fermo!» Era estate, ma il circasso all’ingresso della Zvezda, sulla Cinquantasettesima Avenue, era in
berretto di pecora e lungo cappottone russo con piccoli stiletti in taschini su più file di traverso sul
torace. Plotkin gli diede una manata sulla spalla e gli fece scivolare in mano una moneta.
Il ristorante era affollato. Sul palcoscenico, davanti a una piccola orchestra composta da armonica,
violoncello, balalaika e tamburello, un uomo gigantesco in camicia russa ricamata portata sopra i
pantaloni stava cantando una canzone russa, mentre una giovane lo accompagnava al piano, sebbene ci
fosse un baccano tale che non lo si sentiva affatto.
Tutti i camerieri erano in stivali e camicia russa con cintura in vita.
Plotkin ottenne immediatamente un tavolo. Aveva detto a Esther di non aver fame, ma non appena
comparve il cameriere, ordinò shashlik, vodka, strudel e vino… un vero e proprio banchetto. «Che
quest’uomo non scoppi è un miracolo del cielo!» esclamò Esther. «Sulla mia vita, Morris, comincio a
pensare che tu stia cercando di ammazzarti!»
«Nichego, mangiare è sano! Non c’è niente di più sano che mangiare!» ribattè lui. Quindi aspettò che gli
altri avessero ordinato prima di continuare con la sua tesi. «Tutte queste chiacchiere a proposito di
calorie e dimagrire non valgono un fico secco! Avevo un nonno che era capace di spazzolarsi un intero
fianco di montone e di berci sopra un quarto di acquavite, e quanto è campato secondo voi?
Novantotto anni! Ma può anche essere che il vecchio imbroglione abbia barato un po’ sugli anni. E io,
allora? Non sono un pollastrello neanch’io. Così come mi vede, Grein, non sono lontano dai settanta, e
non ho nessuna intenzione di tirare le cuoia. Ho preso il terreno migliore al cimitero, tutto pagato in
anticipo, pronta cassa, ma non ho fretta. Che bisogno c’è di correre? Sono più di quarant’anni che mi
avvertono che potrei restare secco da un giorno all’altro, ma sono ancora qui a far casino.
L’importante è il cuore, e un dottore una volta mi ha detto che ho quello di un leone. Se si è un essere
umano, bisogna mangiare, altrimenti vengono pensieri di ogni genere. Quando uno ha fame, pensa di
essere una specie di filosofo. Prenda la nostra Esther, qui… se non digiunasse tutto il giorno la
smetterebbe di rimuginare. Ma che cosa posso fare per lei? Non posso ficcare cibo nello stomaco di
un’altra persona. Fa bene anche l’alcol… non c’è rimedio migliore di un bicchiere di brandy. Guardi il
mio Sammy: non appena si alza, il mattino, si fa un bel bicchiere di whiskey, e per lui significa soltanto
sciacquarsi la bocca.»
«Stai mentendo, Morris.»
«Eh? Mi dai già del bugiardo? E’ capace di far finire sotto il tavolo chiunque, a furia di bere. Ai miei
tempi ho visto un sacco di bevitori, ma lui è di una categoria tutta speciale. E’ capace di gargarizzarsi
una bottiglia di whiskey e poi guidare come se fosse sobrio come un sasso. Quando bevo divento
allegro, gaio, potrei baciare tutto il mondo, lui invece resta un musone. Per lui l’alcol è acqua. A Esther,
invece, piacciono i goccetti… se ne fa versare un po’ da tutti. Ecco qui la vodka. Ci faccia vedere che
cosa sa fare, Grein, perché, secondo le mie regole, se uno non sa bere non è un uomo, anche se seduce
mille donne al giorno.»
«Sa bere. Eccome. Ma è uno di quelli che non si ubriacano mai», interloquì Esther. «Ah. Salute, Grein.
Un altro goccio? Metta qualcosa sotto i denti. Prendi qualcosa, Esther. Non ti farà male. Sam, perché
stai lì seduto come un manichino imbottito? Facci vedere che cosa sai fare! Oggi ha avuto una giornata
storta. Ogni tanto, senza un motivo al mondo, gli vengono le paturnie e non c’è niente da fare. Si
chiude a riccio e non si riesce a cavargli una parola, e mi guarda di brutto come se fossi il suo peggiore
nemico. Grein, si metta a suo agio con Esther, e anche con me. Non mi piacciono le ipocrisie. E’ stato il
suo uomo per undici anni, quindi non si comporti con lei come un estraneo. Avevo una moglie e
abbiamo divorziato. Quattro settimane dopo il divorzio ha sposato un altro, e siamo rimasti i migliori
degli amici. Veniva a trovarmi con lui, e uscivamo insieme.»
«Lo conosceva, prima?» chiese Grein, tanto per dire qualcosa. «Sicuro. Come no? Era il mio migliore
amico, ma in faccende del genere l’amicizia non esiste. Gli è venuta fame di lei, e io ho capito l’antifona.
Avevamo già tre figli, ma come si usa dire? Con l’amore non si scherza. Siamo rimasti amici fino al
giorno che è morto. I miei ragazzi li ha tirati su lui. Me mi chiamavano Papà primo, e lui Papà secondo.
Adesso hanno figli anche loro. Presto avrò un pronipote, perché la figlia del mio maggiore va già al
college, quindi non ci vorrà molto perché trovi uno che provi compassione per lei. Sento che anche lei
ha figli grandi, Grein.»
«Sì, un maschio e una femmina.»
«Bene. Bisogna avere figli. Visto che dal mondo prendiamo, tocca anche dargli indietro qualcosa.»
«Tu che cosa gli darai indietro?» chiese Esther. «Io muoio dalla voglia di avere figli. Ho sempre
desiderato essere madre. Già a quattro anni facevo bambole di stracci e me le cullavo sul petto. Ssst, il
bambino sta dormendo! Non svegliatelo!
Mia madre, riposi in pace, diceva sempre: ‘Oh, che madre devota sarà!’
Invece sono rimasta un canale arido.» Arrivò al tavolo un cameriere in camicia ricamata. «Gospodin
Plotkin, c’è una telefonata per lei.»
«Una telefonata? Qui? Senti che roba! Senti!»
«Eh. può essere? Un uomo?
Una donna?» chiese Esther in vago tono di scherzo. «E’ un nostro segreto», rispose il cameriere con aria
furba. «Ha la sua popolarità, non vi pare?»
«Be’, dovrete scusarmi.» Plotkin si alzò con difficoltà, quasi rovesciando il tavolo. Strizzò l’occhio e
sorrise, dicendo a Grein nell’andarsene: «Lei non tagli la corda con mia moglie, eh!» E gli diede una
calorosa pacca sulla schiena. Sam si alzò anche lui e seguì il suo capo come una guardia del corpo. Grein
ed Esther rimasero in silenzio a lungo. «Be’, così… è lui», disse finalmente Grein. «Sì, è lui.»
«Devo dire che è più simpatico di quanto pensassi.»
«E’ un orso dal gran cuore!» rispose lei. «Finché non l’ho conosciuto, non sapevo che cosa fosse la
bontà. E’ più russo che ebreo, con una vera anima russa, pronto a dare la vita. Ma tu dov’eri sparito?
Avresti dovuto telefonare!»
«Esther, Leah è all’ospedale. Ha avuto un’operazione al seno, oggi.» Lei tremò. «Ho notato che non eri
lo stesso.»
«Non posso più restare qui, Esther. Devo andare.»
«Aspetta, non puoi andartene senza salutare.
Quanto può essere stata seria questa operazione? Ho aspettato tre giorni la tua telefonata. Ho cercato di
chiamarti anch’io, ma a casa tua è sempre occupato. Chi sta al telefono tutto il giorno? Le poche volte
che era libero, ha risposto lei, e le ho dato un nome falso. Mi sembrava che ti stessi nascondendo, per
cui sono andata su a Lake George. Poi tutto a un tratto eccoti lì sulla Ottava Avenue a guardare una
vetrina. Dov’è andata quella là?»
«Anna è ad Asbury Park con suo padre e passa la notte lì.»
«In città si dice che Boris Makaver ha perso fino all’ultimo spicciolo.»
«Chi lo dice?»
«Te l’ho già detto: New York è un villaggio.» Caddero di nuovo entrambi in un prolungato silenzio. «Chi
può essere a telefonargli qui?» si chiese Esther ad alta voce. «Be’, non avrei mai immaginato che
saremmo stati tutti seduti allo stesso tavolo… tu, io e mio marito. Se uno mi avesse lanciato l’idea, lo
avrei considerato uno scherzo crudele. Che cos’è successo a Leah così di punto in bianco?»
«E’ successo e basta.»
«Già, è successo e basta. Ma prima che succeda, una passa per mille inferni. Non voglio darti pena,
Hertz, ma è colpa tua. Lo sai che cose così sono provocate dal dolore.»
«Grazie per l’informazione.»
«Prima che si mettesse di mezzo a forza la figlia di Boris Makaver, riuscivi a tenere insieme la tua
famiglia. Io non ho mai voluto che tu mandassi a monte tutto e venissi con me. Non ho mai preteso
un’offerta simile. Non sono un Moloch che esige sacrifici umani.
Ma poi è saltata fuori la figlia di Boris Makaver, e hai perso immediatamente la testa. Prima hai
ammazzato Luria e adesso stai uccidendo Leah. Io sto cercando di salvarmi, ma non so se ci riuscirò.»
«Se non altro, con lui non andrai a fondo.»
«Ci sto andando, Hertz, ci sto andando. Lui è una persona meravigliosa, ma non fa per me. Mi trascina
di palo in frasca per giorni e notti di seguito. Ti lamentavi sempre che io parlo troppo, ma quello là non
la smette un attimo di blaterare. Sospetto che sia per questo che si è sposato. Da quando sono con lui
non ho che un sogno… rimanere sola un attimo. Devo discutere alcune cose importanti con te.»
«Non posso più restare qui, Esther!»
«Perché scappi? Sono giorni che ti cerco. Se vuoi metterti la coscienza a posto con il pensiero che ho
trovato uno scopo e una casa, ti illudi da solo. Non ne verrà fuori niente, temo.»
«Che cosa vuoi fare? Tornare alle stanze in affitto di Brighton Beach?»
«Hertz, mi sta facendo impazzire! E’ un uomo gradevole, una cara persona, butta i soldi, ma non ho la
forza per reggerlo. Continua a invitare gente a casa. Parla su due telefoni contemporaneamente. Dicevi
sempre che sono estroversa, ma dovresti vedere questo qui. Sei anche tu una persona inquieta, ma, al
confronto, la vita con te era un porto tranquillo. Attorno a te c’è la calma, mentre attorno a lui c’è di
continuo una confusione spaventevole.
Temo di andar fuori di testa.»
«Voglio che tu capisca una cosa: non posso prendermi altri pesi sulle spalle.»
«Chi ti chiede qualcosa?
Faccio la mia vita a prescindere da te. Se lo lascio, non è perché voglio rubarti alla figlia di Boris
Makaver. Ho avuto una relazione con te contro la mia volontà. Tutto considerato, non ti ho stuprato.»
«Esther, sto vivendo la crisi peggiore della mia vita!»
«Eh? Come posso aiutarti? Hai attirato altre persone in una trappola e ci sei caduto anche tu. Devo
parlarti. Quello là vuole portarmi in Europa. Ho persino fatto domanda per il passaporto. E’ pazzo di
Parigi. Avrei sempre voluto andarci anch’io, ma più lui ne parla e si entusiasma, più io mi terrorizzo. Ho
la più arcana sensazione che mi distruggerà. Non per malizia, Dio ne scampi, ma con il suo
interminabile sbattersi in giro.»
«Non si stanca mai?»
«Parla persino nel sonno. A Parigi ha un milione di amici del cuore. E’ ossessionato da ogni genere di
imbroglioni e parassiti, ma se lo lasciano in pace un attimo, telefona e si lamenta che non vengono a
trovarlo. Ti imploro, Hertz, non lasciarmi adesso.
Tanto per cominciare, ho sentito la tua mancanza. Come avrei potuto evitarlo? Non potevo
semplicemente cancellare quegli undici anni dalla mia vita. E in ogni caso, lui tirerà tardi qui dentro fino
alle quattro di notte. Si siede a un tavolo, ma non passa neanche un’ora e si trasferisce a un altro.
Guarda, sta tornando. Dimmi… quando posso vederti?»
«Ti telefono domani.»
«Quando? Ho paura che non vivrò ancora a lungo.» Arrivò lì Morris Plotkin. «Be’, di che cosa parlano
gli ex amanti quando il marito non è nei paraggi? Reminiscenze? Dolci ricordi?
C’è gente che è gelosa del passato. Sposano una donna e vogliono fingere che il passato non sia mai
esistito. Baggianate, sciocchezze! La mia regola è che se una donna non ha amato, è un blocco di legno.
Alla mia età si desidera una donna che conosca tutto e sappia fare tutto. Io sono come quel sultano a
cui Sheherazade raccontava mille storie. Una storia interessante mi piace, soprattutto raccontata da chi
l’ha vissuta di persona.»
«A dire il vero, parla più di quanto ascolti», ribattè Esther in tono malizioso. Morris Plotkin stava per
ribattere, quando improvvisamente battè le manone. Qualcuno si stava avvicinando al tavolo. «Esther,
da’ un’occhiata!» gridò Plotkin. Grein si voltò e vide Yasha Kotik, in abito giallo a strisce rosse e
cravatta scarlatta con spillone di perla, che guidava per mano una giovane. Una donna snella, appena
tinta di biondo, con faccia affilata e occhi astuti e con un sorriso in cui si mescolavano sottomissione e
impudenza. Da tutto il suo abbigliamento emanava un che di ordinario e sconveniente. Per la sera erano
di moda gli abiti lunghi, mentre il suo arrivava a stento al ginocchio, e Grein notò che sotto una calza
portava un braccialetto da caviglia. I seni erano a punta, le palpebre dipinte di azzurro, gli occhi
sottolineati con il rimmel… persino i sopraccigli gli sembrarono artificiali. Si era pitturata le labbra in un
modo tale da ridurre la bocca a due strisce rosse. La lacca rossa sulle unghie era vitrea e mescolata a
un’altra sfumatura non definibile. Lui aveva già visto Kotik dopo la morte di Luria, ma adesso sembrava
più magro, invecchiato, con una faccia color stucco. Sembrava trascinarsi dietro la compagna, che
continuava a chinare la testa come se stesse attraversando una porta bassa o si apprestasse a guardare
sotto il cappuccio di una macchina fotografica. Tutto il loro incedere era teatrale. «Yasha Kotik!» gridò
Plotkin. «Ecco un ospite gradito! Molodets! Molodets’» Mentre Grein si alzava, Kotik si avvicinò e
sbattè teatralmente i tacchi, inchinandosi profondamente, la faccia color stucco, con le sue profonde
rughe, tutta sorrisi di scherno. «Gospodin Plotkin! Madame! Panie Grein!» Gridò ciascun nome con
un’intonazione diversa, accompagnandoli tutti con un gesto differente, come un maestro di cerimonie.
Prese a roteare teatralmente la destra, e tutto il suo atteggiamento parve chiedere: che genere di ménage
sarebbe questo? Poi, cambiando di nuovo tono, osservò in tono suadente in polacco: «Il mondo è
piccolo, eh? Mi permetta, Panie Grein, di presentarle una grande e famosa attrice polacca, Panna Justina
Kohn.»
«Non grande né famosa, semplicemente un’attrice», replicò lei in tono umile. «Ex attrice, anzi, visto che
per me a New York non c’è lavoro.»
«Prego, sedetevi, sedetevi! Prima di tutto dobbiamo sederci», sbraitò Plotkin. «E perché diavolo parlate
in polacco? Qui siamo in America, non in Polonia. Ehi, cameriere! Porti due sedie. Sedetevi!
Sedetevi! Certo, per una signora bisognerebbe alzarsi, ma mi risulta troppo difficile. Le zampe non mi
funzionano troppo bene. Ecco una sedia. Un’altra? Grazie! Qui siamo tutti amici… sono Morris
Plotkin», si presentò poi alla coppia del tavolo accanto, che aveva ceduto due sedie libere. «Sono amico
di tutto il genere umano senza eccezioni… bianchi, neri, indiani, tartari. Yasha Kotik, il mondo è in
subbuglio a causa sua!» E tirò diritto senza tregua in un altro tono. «Ha conquistato la stampa
americana! Tutta New York è sottosopra per lei!»
«‘La confusione ora ha compiuto il suo capolavoro. Io ho semplicemente recitato un po’. Che cosa
sarebbe questo entusiasmo demenziale? New York non aveva mai visto un po’ di teatro? Mi è
semplicemente stato dato un ruolo che mi sta a pennello. E il pubblico applaude talmente che mi fa
male la schiena a furia di inchinarmi.
Arrivo giusto dal teatro… direttamente dal palcoscenico alla Zvezda per ordinare qualche blintze e una
tazza di borsht.»
«Siete miei ospiti, miei ospiti!» gridò Morris Plotkin con voce rauca. «Dov’è il cameriere?
Berremo anche un po’ di vodka. Volevo telefonarle e congratularmi per aver messo a soqquadro la città,
ma in un modo o nell’altro non sono mai riuscito a farlo. Dove ha trovato questa bellezza? Dà luce a
tutto il locale! Schianti come lei, negli States non si vedono, sa!» Justina Kohn sorrise scaltramente. «Mi
prende in giro. Non si può essere tutti belli.»
«Non sto prendendo in giro! Non sono uno che schernisce! Quando dico una cosa, la dico sul serio.
Questa è mia moglie, Esther. Un semplice nome ebraico. Credo che lei l’abbia già conosciuta, Kotik.»
«Sì, certo. Ci siamo conosciuti all’ospedale.»
«Eh? Ah, sì, quando ero là con la caviglia slogata. Che situazione da ridere… mi sposo e il giorno dopo
sono uno sposino zoppo. Ma che cosa possiamo fare? Speravo che lei potesse recitare ancora nel teatro
yiddish a New York, ma non era scritto che avessimo un simile talento sulla Seconda Avenue. La
Broadway si becca tutto ciò che vale davvero… è una storia vecchia.»
«Recito comunque in yiddish. Che razza di inglese so, in definitiva? In Germania dovevo fare l’ebreo
che parla male il tedesco, in Russia facevo l’ebreo che parla male il russo, in Polonia l’ebreo che parla
male il polacco, e adesso, in America, inevitabilmente, mi tocca fare l’ebreo che parla male l’inglese.
Perché io possa salire in scena, dev’esserci qualcosa che faccio male… è la mia sorte. La Seconda
Avenue è l’unico posto dove posso fare la parte di uno che non parla male una lingua. Panie Grein, non
sapevo che venisse qui.»
«Non sapevo io stesso che questa sera sarei stato qui.»
«E’ dimagrito? Come sta Anna?»
«Bene, grazie.»
«Abbiamo parlato al telefono, lei e io. Quando è stato? Ieri? L’altro ieri? Sono vostro inquilino, in
definitiva.»
«Non mio, Panie Kotik.»
«Che differenza fa? E’ scoppiata una conduttura e mi ha rovinato tutti i vestiti. Vado dal, come si
chiama? – dall’amministratore, e lui dice che devo chiedere il rimborso a voi. Buffo, no? Be’, come avete
fatto a finire qui tutti insieme? E che cos’è successo a Boris Makaver? Ha perso fino all’ultimo
centesimo, eh?»
«Vedo che ne parla tutta la città.»
«Le cose si sanno. Adesso è suo suocero, per così dire, ma un tempo era il mio. Che sia andato al meno
è una cosa davvero stupefacente, perché quell’uomo saprebbe tirar fuori soldi dal fango. Forse non
dovrei dirlo in faccia a chiunque, ma qui siamo tutti amici… Anna era già innamorata di lei ai tempi di
Berlino. Lei era Dio sa dove, ma Anna continuava a parlare di lei: il mio insegnante, il mio primo amore.
Le chiedevo sempre: cosa continui a menarla? Lui si è probabilmente dimenticato che esisti.»
«Non l’ho mai dimenticata», ribattè Grein, stupefatto delle sue stesse parole, stordito da tutta la
situazione.
Esther si fece immediatamente tesa e all’erta. «Ormai non fa nessuna differenza, ma un tempo dicevi
che per te esisteva una sola donna, e sai chi intendo.»
«Plotkin ha appena detto che non si può dimenticare il passato. Ha assolutamente ragione.»
«Stai confessando che sei rimasto innamorato di lei per tutti questi anni?»
«Non sto confessando niente, Esther. Qui non siamo in Russia, e non si pretende nessuna confessione.»
«Però la gente confessa.»
«Che cos’è? Una scenata di gelosia?» chiese Kotik in tono ironico. «Da quelle parti è un vero affare,
questo confessarsi! Farlo mi ha salvato la vita. Ci ho messo poco a capire che là vogliono una cosa sola:
che si confessi. Una volta che lo si è fatto, perdonano tutto. Sono pratico di pulizie della coscienza.
Dov’è il cameriere?»
«Mi scusi, Panie Grein», interloquì Justina Kohn. «L’ho sentita nominare da qualche parte, ma non
ricordo dove. E’ per caso parente del defunto Stanislaw Luria?» Lui impallidì. «Si potrebbe anche dire
così.»
«Che cosa sta dicendo, quella lì? Che cosa sta dicendo», si precipitò a interloquire Kotik. «Sta creando
un guaio.»
«Può darsi che faccia confusione. Conosce un certo professor Shrage?»
«Sì, certo.»
«Una volta ero a casa sua, e credo sia stato lì che l’ho sentita nominare.»
«Lei conosce il professor Shrage?»
«Un po’. Conosco sua moglie, quella dentista matta.»
«Non è sua moglie.»
«Eh? Questo dimostra soltanto che genere di vacca intrigante sia quella donna! Falsa e scaltra insieme.
Adesso posso raccontarvi tutto. Quella vecchia troia mi ha assunto per fare la parte di Sonia, la moglie
morta del povero Luria.
E non mi ha neanche pagato come si deve, la strega.»
«Ahi–ahi-ahi, non c’era bisogno che lo raccontassi! Proprio nessun bisogno! Nessun bisogno!» urlò
Kotik. «Non si mettono in giro notizie del genere! Certe cose devono rimanere segrete… le si porta
nella tomba, come dice il proverbio.»
«Perché dovrebbe rimanere segreta? Un’imbrogliona del genere dovrebbe essere arrestata. L’hai detto tu
stesso che è stata quella cosa lì ad ammazzarlo.»
«Non ho mai detto niente del genere! Tieni la bocca chiusa! Certo, non bisogna imbrogliare la gente su
cose del genere, ma ci si imbroglia a vicenda di continuo… oh, altroché! La vita stessa è tutta un grosso
imbroglio. Chiedetelo a me… lo so. Se dovessi raccontare anche soltanto una millesima parte di quello
che hanno visto i miei occhiuzzi, potrei scrivere un librone grosso così. Vi farò un solo esempio. «A
quei tempi ero ancora a Berlino, e tutta la Germania parlava di me. I due personaggi più famosi del
teatro erano Gustav Stresemann e Yasha Kotik. Mi è capitato di conoscere un barone tedesco che
andava matto per gli uccelli. Sentite che cosa vi racconto. Fuori Berlino ne aveva una casetta zeppa, e ci
ha persino scritto su un libro. Aveva una moglie, figlia di un generale cosacco che era scappato dai
bolscevichi e a Berlino si era messo a fare l’autista. La figlia era una drittona, e ha messo le grinfie sul
barone. Oltre agli uccelli, al mio junker piaceva fare esperimenti con i cani. Li tagliava a pezzi ancora
vivi… Come si dice? Ah, sì, vivisezione. Voleva vedere come il loro cuore pompava il sangue e roba del
genere, per cui collezionava ogni sorta di strumenti diabolici. Ha castrato un cane, in nome di una
scienza strampalata. Si vantava che durante la Grande Guerra aveva sgozzato da solo una dozzina di
francesi con un pugnale. «Poi, tra tutta questa mattana compare in scena Yasha Kotik. Che cosa
c’entravo con il barone? Semplicissimo… giocavo al dottore con la sua bellona cosacca.
Che diavolo di sgualdrina fosse, non posso dirvelo in presenza di signore. Da quando le puttane si sono
messe a battere, non ce n’è mai stata una simile. A eccitarla più di tutto era tradire il marito mentre lo
guardava. Il suo problema principale, ovviamente, era come farlo.»
«Già, davvero, come si fa?» chiese Plotkin. Esther fece una smorfia di disgusto. «Sentite un po’, uomini.
Non sono una santa neanch’io, ma non si discute di cose del genere a tavola.»
«E dove si dovrebbe discuterne?
Ma no significa no. Ecco il cameriere!» Improvvisamente Grein si rivolse a Justina Kohn. «Luria ha
creduto che lei fosse la sua moglie morta?»
«Oh, altroché, ci ha creduto eccome. Perché non avrebbe dovuto? Era buio pesto, e sono sembrata
comparire dal nulla. Gli ho parlato in polacco.
Come si poteva pensare che fosse tutta una sceneggiata? Non dimenticherò mai il modo come gemeva.
Grazie a questo, ho conosciuto Yasha Kotik»
«Ti ho chiesto di non parlare troppo, dolcezza», interloquì Kotik. «Ormai è troppo tardi. Ho già svelato
tutto. Che cos’era Luria per lei, Panie Grein? Suo cugino?»
«No, non c’era nessuna parentela.»
«Vabbè, vabbè, continua con il tuo malestro!» sospirò Kotik. «Proprio mentre ne parliamo, il gatto se la
svigna dal sacco. Bisognerebbe saper mantenere i segreti, ma a che prò tentare di farlo, se è la stessa
colpevole a spiattellare tutto? Se dovessi raccontarvi la metà di quello che mi è capitato, vi si
rizzerebbero i capelli in testa. Ma Madame Plotkin ha ragione… non sono argomenti da tavola. Una
cosa però ve la debbo dire: il peggior delatore è l’individuo stesso. Si tradisce da sé ogni volta. In Russia,
mentre c’era gente che veniva eliminata per aver detto una parola o pensato qualcosa contro Stalin, c’era
chi veniva a spalancarmi davanti i visceri. Gli dicevo sempre: fammi un favore, zietto, tienti queste cose
per te, perché uno di noi è senz’altro un delatore. Credete che servisse a qualcosa? A Berlino c’era un
dottore che diceva sempre: ‘Non si muore, ci si uccide da sé’.» Morris Plotkin picchiò il pugno sul
tavolo. «Diceva così? E vero, è vero! Però a un certo punto la vita diventa noiosa. C’è un proverbio: la
troia viene a noia. Ci si può stufare anche di mangiare gnocchetti. Avrei voluto uscir di scena più di una
volta, ma ogni volta si è messa a svolazzarmi intorno una bella passeretta. Sentite, ragazzi, questa sera ci
ubriachiamo tutti!» Quando finalmente Grein lasciò la Zvezda erano le due di notte passate. Plotkin,
Kotik, Esther, Justina e diverse altre persone unitesi al gruppo, era stato unito un altro tavolo, rimasero
invece lì. Camminò per un po’ senza sapere se stesse andando a est o a ovest. Soffiava una brezza
fresca. Ecco, questo è il bassofondo! si disse. E io ne sono uno dei cittadini più eminenti. Una nullità
vivente.
Chiamato un taxi e dato l’indirizzo al conducente, a poco a poco si rese conto che non stava andando
dove avrebbe dovuto, ma del tutto nella direzione opposta. Che cosa sta facendo questo qui? Che cosa
sta facendo? si preoccupò. E’ ubriaco? In procinto di richiamarlo, si rese improvvisamente conto che
invece di dare il suo nuovo indirizzo della Quinta Avenue gli aveva chiesto di essere portato a quello
vecchio di Central Park West’ Avrebbe voluto dire al conducente di fare dietro front, ma esitava. Vabbè,
non fa nessuna differenza, si disse. In ogni caso devo andare domani a prendere la mia posta, che si sta
accumulando. da giorni. Okay, decise, questa notte non dormirò affatto.» Reclinò la testa nell’angolo e
rimase seduto in silenzio. Quindi quella là assume attrici per impersonare i morti. E’ una delle tante
imbroglione. Ma a quale scopo? Be’, tutto il mondo si basa sull’inganno. Gli venne in mente
l’argomento di un libello antireligioso che aveva letto un tempo: Mosè avrebbe una folla per fare un
rumore spaventevole e accendere fuochi dietro il monte Sinai, perché senza simili effetti scenici gli ebrei
non avrebbero mai accettato i Dieci Comandamenti. Che strano tornare di nuovo a casa nel suo
vecchio appartamento di notte tardi! Ma adesso tutto era deserto. Nel parco immerso in un silenzio
totale brillavano le luci gialle dei lampioni. Salì con l’ascensore, tirò fuori la chiave e aprì la porta,
accendendo le luci nel corridoio. Si aspettava di trovare la posta sul pavimento accanto alla soglia,
essendo ormai Leah all’ospedale da alcuni giorni, ma Bill, l’addetto alla distribuzione nel palazzo, aveva
evidentemente aperto la porta e sistemato le lettere sulla commode. Dovrò dargli una mancia, pensò.
Rimase lì a dare un’occhiata alle lettere. Niente da nessuno dei suoi clienti. Opuscoli pubblicitari, l’invito
a una riunione del Partito Democratico, appelli di associazioni filantropiche. Una lettera era di Morris
Gombiner, da Detroit. Avrebbe voluto leggerla tutta, ma era troppo tardi, e la calligrafia troppo fitta.
Be’, la terrò per domani, rifletté, mentre intanto decideva di non passare la notte lì. Anna avrebbe
potuto telefonare di mattino presto. Forse aveva persino chiamato quella sera. Aveva allungato la mano
per spegnere le luci, quando improvvisamente si tese. Aveva sentito un fruscio, passi. In un attimo si
paralizzò per il terrore. Avevano fatto irruzione i ladri, o era soltanto un topo? Gli parve di sentire
qualcuno parlare sottovoce.
Sono soltanto i nervi! si rassicurò, rimanendo immobile come un sasso, incerto sul da farsi. Doveva
avanzare e accendere le luci del soggiorno?
Se in casa c’erano davvero gli scassinatori, avrebbero potuto ucciderlo. Attese un attimo e tornò il
silenzio. Mah, me lo sarò immaginato. La paura svanì ed entrò con passo deciso nel soggiorno,
accendendo le luci. Ed ecco lì, in vestaglia e ciabatte, sua figlia Anita. Aveva un’aria stranamente pallida.
Leah è morta! fu il suo pensiero immediato. Era così confuso che sembrava aver perso la facoltà della
parola. Padre e figlia si guardarono. Poi Grein chiese: «Come sta tua madre?» Anita non rispose subito.
«Come sta tua madre? Che cosa ci fai qui?» Grein domandò di nuovo. Anita si avvicinò di un passo. «Lo
sai che la mar ma è all’ospedale.»
«Che cosa ci fai qui? Non eri andata via?» Anita parve riflettere su qualcosa. «Non sono sola, papà»,
disse finalmente. Grein arretrò come se qualcuno gli avesse dato un sonoro schiaffo in faccia. In un
attimo capì tutto. «Con chi sei? Con un uomo?» chiese. Anita annuì. «Ah.» Rimase lì a guardare la figlia,
provando qualcosa di simile a ciò che aveva sentito la sera in cui aveva appreso che Stanislaw Luria era
morto. Esternamente sembrava del tutto calmo, ma i visceri cominciarono a rumoreggiare e torcersi, e
lo stomaco parve dilatarsi. Fu preso da una specie di commiserazione per se stesso, per la propria
ingenuità. Nonostante tutta la sua esperienza e sfiducia nelle donne, accarezzava ancora l’illusione che
Anita fosse casta. In realtà si comportava troppo bene, chiusa in casa giorni e giorni di seguito, parlando
raramente al telefono. Leah si lamentava sempre che quella ragazza non era capace di dire niente di
coerente a nessuno.
Tutti in casa prevedevano che sarebbe rimasta una vecchia zitella. Lui era l’unico a credere che la figlia
avesse ereditato la castità delle sue nonne e bisnonne. Invece adesso eccola lì, in piedi di fronte a lui,
non ancora ventenne, a dirgli senza cerimonie che aveva un uomo in camera da letto. Si sentì lacerare
dall’onta della situazione e prendere dal malvagio desiderio di distruzione che la accompagna. Era
imbarazzato come uno scolaretto cui vengano mostrati per la prima volta atti osceni, e ugualmente
pieno di vergogna per l’altro, l’uomo invisibile in camera da letto, che stava ascoltando tutto ciò che si
dicevano padre e figlia.
«Be’, me ne vado», disse. Si voltò bruscamente verso la porta d’ingresso e cercò di aprirla, ma non ci
riuscì. La serratura sembrava essersi bloccata. Girò la maniglia in un senso e poi nell’altro, con la
sensazione di essere inerme e in trappola. Era rosso in viso e aveva voglia di vomitare. Anita venne lì.
«Aspetta, ti apro io.» Il tono di voce che usò fece sembrare che lei, la figlia, fosse diventata per un atto
di magia l’adulta della situazione, e lui, il padre, fosse stato ridotto a un ragazzino imbranato. Gli si
accostò, ma lui si allontanò di scatto per evitare che lo toccasse. Pieno di paura e disgusto, non volle
guardarla mentre gli apriva la porta liberandolo come da una gabbia.
Avrebbe voluto suonare per chiamare l’ascensore, ma in quel momento non era in grado di guardare in
faccia nessuno. Aprendo a spinta la porta delle scale, fece cadere il coperchio metallico di un bidone
della spazzatura. Lo raccolse e cercò di coprire i rifiuti, ma non voleva andare a posto e il contenuto
puzzava. Per un po’, prima di scendere le scale, rimase lì totalmente confuso, poi si avviò in un modo
molto strano, scendendo un gradino e poi fermandosi prima di affrontarne un altro. Avrei dovuto
romperle tutti i denti! infuriò qualcosa dentro di lui. Gli venne in mente un versetto del Levitico: «Se la
figlia di un sacerdote si disonora prostituendosi, disonora suo padre.»* E io discendo dalla casta
sacerdotale. Scese una rampa e si fermò qualche minuto, totalmente istupidito dal fatto in sé, dalle
circostanze in cui lo aveva scoperto e dal dolore che gli stava provocando. Ma io ho fatto esattamente
come quell’uomo! ricordò a se stesso. Non aveva idea di come fosse fatto costui, ma era un nemico, un
avversario appiattato che disonorava, calpestava, insozzava, distruggeva. Ma si rese conto che poteva
condannare soltanto sua figlia, non lui. E in realtà nemmeno la figlia. Il suo comportamento rientrava
nel limbo in cui fluttuava lui stesso da quando aveva abbandonato l’osservanza stretta della religione
ebraica. A quel punto si mise a correre come se gli stesse dando la caccia qualcuno, buttandosi giù per
l’ultima rampa di scale soltanto per ritrovarsi in cantina. Sentì il tanfo di petrolio. Davanti a lui
comparvero improvvisamente contatori del gas, lavatrici, un muro di mattoni rossi. Scosso
dall’incomprensibile errore commesso, cominciò a correre a ritroso, individuò la porta che dava
sull’atrio, cercò di aprirla, ma non ci riuscì. Era chiusa a chiave? Verrò preso per un ladro! Sudando a
profusione, con la camicia zuppa e appiccicosa, diede uno strattone vigoroso, la porta si aprì e fu quasi
subito fuori. La notte era fresca e la via deserta: non un passante solitario, non una sola auto.
Imperturbabili, i semafori continuavano a passare dal rosso al verde, e qualcosa di quel lampeggiare
singolarmente allegro e ritmico dei segnali, senza nessuno che li governasse, dava l’idea che dentro
ciascuno di essi fosse appiattato un agente segreto, infilato lì di nascosto, prima di sparire, da persone
adesso scomparse, al fine di spiare la natura. Grein rimase lì un attimo con lo sguardo fisso nel vuoto
davanti a sé. Che cosa doveva fare adesso?
Raggiungere la metropolitana? Di punto in bianco si sentì prendere da una specie di curiosità
oltraggiata e si portò sull’altro lato della via. Alzò lo sguardo al suo appartamento. La luce nel soggiorno
ardeva ancora. Dopo un po’ si accese anche quella della stanza adiacente. Il suo arrivo nel cuore della
notte aveva evidentemente gettato nella confusione anche loro. Devo vedere quell’uomo! Devo vederlo!
pensò. Dovrà pur andarsene, prima o poi. Devo dargli un’occhiata. Grein si sedette su una panchina. Sì,
la domanda retorica della Ghemarà circa la fragilità delle donne era vera: «Data la tentazione, che cosa
farà la figlia se non peccare?» L’ho allevata nella convinzione che oltre a questo mondo non ci sia
niente, che tutto sia senza legge, arbitrario. Ha avuto il mio esempio da seguire. Quindi che diritto ho di
arrabbiarmi? Oltre a ogni altra cosa, sono uno stupido.
Che cosa mi aspettavo? Sono tutte insolenti sgualdrine, puttane. Tutta la loro cultura è meretricio.
Cercava di consolarsi, ma si faceva sempre più agitato. Aveva allevato una puttana. Un magnaccia, ecco
che cos’era.
Per di più lei era stata falsa, sempre con quell’aria da anima virtuosa… non guardatemi, non toccatemi.
Giovani simili che considerazione avevano di lui, loro padre? Evidentemente ridevano di lui.
Probabilmente era giaciuta con il suo uomo nel letto del padre.
Grein non riusciva ormai più a staccare lo sguardo dalla finestra. Si aspettava da un momento all’altro di
vedere lassù un’ombra, una figura in movimento, ma tutto era immobile. Be’, è la mia giusta
ricompensa!
Per un attimo la sua mente fu vuota, e parve assopirsi. Poi si riscosse, sollevò di nuovo lo sguardo e
vide che le finestre erano di nuovo tutte buie. Significa che sono tornati al piacere della carne. Nella sua
immaginazione vide sua figlia e quell’uomo. Ma era soltanto una bambina.
Non tanto tempo prima la portava a Coney Island e al luna park, e lei andava sulla giostra. Forse aveva
addirittura cominciato a fornicare ancora alle superiori. A quel punto poteva aver avuto chissà quanti
uomini. Ecco la generazione che aveva allevato: Jack aveva sposato una gentile, e la sua unica figlia era
una puttana. E Leah che voleva portarla da uno psichiatra! Soltanto in quel momento Grein si rese
conto che era lo stesso giorno in cui sua moglie era stata operata. La madre era all’ospedale con il
cancro, e la figlia a letto con un amante.
Puttane simili erano capaci di fornicare sulle tombe dei genitori. Aveva un gusto amaro in bocca e
rabbrividì. Be’, ho fatto la stessa cosa con figlie di altri. Che cosa dice la Torah? «Come ho fatto, così il
Signore mi ha ripagato.» Per di più sono anche un assassino. Rimase seduto sulla panchina, sempre con
lo sguardo fisso alle finestre buie. I suoi pensieri sembravano vagare in sogno. Che cosa sarebbe
successo se la finestra si fosse aperta e quell’uomo fosse saltato giù? Avrebbero accusato lui di
omicidio? Anita avrebbe potuto testimoniare che era stato il padre a spingere fuori il suo amante. Il
tribunale avrebbe creduto a lei, non a lui. E che cosa sarebbe successo se costui gli avesse sparato non
appena aveva aperto la porta di casa? Quel satiro e Anita sarebbero scappati, e lui sarebbe rimasto lì
morto a marcire nell’appartamento finché Leah non fosse tornata dall’ospedale. Non ci sarebbero state
prove contro nessuno. Quel magnaccia gli avrebbe probabilmente ficcato la rivoltella in mano per far
sembrare che si fosse ucciso. E che cosa sarebbe successo se lui avesse accoltellato sia l’amante sia sua
figlia, come Pincas aveva scannato Zimri, figlio di Salu, e Cozbi, figlia di Zur? Che tipo di alibi avrebbe
potuto esibire, a meno che Esther non avesse testimoniato che aveva passato la serata con lei? Ma
Plotkin, Kotik e tutti gli altri sapevano ugualmente la verità. Il cameriere avrebbe testimoniato che lui se
n’era andato presto, mentre gli altri erano rimasti lì al ristorante. Il conducente del taxi si sarebbe
ricordato di averlo portato lì. E l’addetto all’ascensore? No, non sarebbe riuscito a sfuggire alla pena. Se
fosse passata una settimana o più prima che gli omicidi venissero scoperti, lui sarebbe magari riuscito a
tagliare la corda. Ma dove poteva scappare? No, sarebbe andato dritto alla polizia e avrebbe detto: ho
appena ucciso mia figlia e il suo seduttore. E in tribunale avrebbe spiegato: non ho allevato mia figlia
perché lasciasse la mia casa per un bordello. Grein si alzò e si avviò verso downtown. Di quando in
quando si guardava alle spalle, quasi si aspettasse che qualcuno lo seguisse, gli corresse dietro o lo
richiamasse. Aveva le gambe molli. Si sentiva il cuore svuotato. Diventava sempre più debole di
momento in momento. Si mise a cercare un taxi, ma a un’ora così tarda non ce n’erano in circolazione.
Passò un autobus, ma andava uptown, verso Harlem. Finché non avvistò una panchina, si sedette e
dopo un po’ ci si allungò. Era dura, per cui si mise il fazzoletto sotto la testa e rimase steso lì come un
barbone, un alcolizzato, uno dei derelitti sputati fuori dalla città. Era sveglio ma sognava, e mentalmente
sembrava, come un cordaio, far scorrere una cordicella piena di nodi. Quanti ce ne dovevano essere? E,
soprattutto, a quale scopo servivano? No, sto sognando. Sono steso su una panchina dalle parti di
Central Park. Nel giro di un paio d’ore sarò vittima di una rapina.
Qualcosa nel suo intimo rise, anche se continuava a far scorrere la cordicella e a contare i nodi
all’infinito, come se fosse la punizione eterna inflittagli dai poteri superiori. Qualcuno lo svegliò e, aperti
gli occhi, vide un poliziotto. Era l’alba di una giornata luminosa, e le auto stavano già correndo nei due
sensi. Per un attimo non si ricordò che cosa fosse successo. Che cosa ci faccio qui? Perché sono steso
su una panchina del parco? Mi sono ubriacato? Poi si ricordò. «Non è consentito dormire sulle
panchine pubbliche», disse il poliziotto quasi in tono di scusa. «Oh, mi spiace.» Grein si alzò e si avviò.
Era caduto in un sonno profondo e si era svegliato con un dolore alle ossa. Mah, guarda a che punto
sono arrivato! Avvertì che il poliziotto lo stava ancora tenendo d’occhio, per cui cercò di sparire il più in
fretta possibile. Svoltò in una laterale e aveva camminato per quasi mezzo isolato quando vide una
sinagoga, aperta e illuminata all’interno. Senza pensarci, entrò e vide una cosa che aveva dimenticato da
un pezzo. Da quando era arrivato in America era stato moltissime volte in sinagoga, ma soltanto di
shabbath o nelle Festività Importanti, non a metà settimana. Lì, invece, un minyan di ebrei stava
recitando le preghiere del mattino prima di andare al lavoro. L’uomo che guidava la preghiera dondolava
sopra il leggio. Ebrei in scialle da preghiera e filatteri erano fermi in piedi o in movimento. Uno di essi
pregava senza scialle, evidentemente un uomo non sposato. Grein non riusciva a distogliere lo sguardo.
Già ricordava soltanto in parte come si portano i filatteri… le strisce di cuoio, le maniche arrotolate. Un
omino anziano con i capelli grigi tagliati corti e una faccia da macellaio accostò le frange rituali del suo
scialle ai filatteri sulla testa e le baciò. Un giovanotto alto girò una pagina del suo libriccino di preghiere.
Quindi tutto questo esiste ancora! si disse Grein. Avrebbero pregato qui insieme a prescindere dal fatto
che venissi io o no. Non sapendo che cosa fare, rimase in piedi sulla porta. Purché non mi chiedano di
pregare! sperò, ma proprio in quel momento gli si avvicinò un omino, che gli chiese: «Vuole uno scialle
da preghiera e i filatteri?»
«Sì.»
«Un quarto di dollaro», disse l’omino. Grein si mise a cercare la moneta, ma non avendone gli diede una
banconota da un dollaro. «Le darò il resto dopo.»
«Non importa.»
«Grazie.» E l’omino aprì uno stipo, prendendone scialle da preghiera e filatteri. Non so davvero come
mettermeli, rifletté Grein. Soltanto in quel momento si rese conto che non aveva mai indossato uno
scialle da preghiera di giorno feriale, essendo già non credente quando si era sposato. Prese un libriccino
di preghiere e fece scorrere le leggi. Sì, ci si metteva subito lo scialle, prima dei filatteri. Quello che gli
era stato dato era grande, non del tipo che si portava in America ma di un’antiquata ampiezza
all’europea, con strisce larghe e lunghe frange rituali. Mi sarà consentito metterlo? gli lampeggiò nella
mente. Sono impuro! Nondimeno vi si avvolse, quindi arrotolò la manica, si avvolse il primo filatterio
attorno al braccio sinistro e si sistemò il secondo sulla fronte. Nessuno lo stava guardando. Arrivato
finalmente a legarsi la striscia di cuoio attorno alle dita della sinistra, ebbe un attimo di confusione
prima di ricordarsi che doveva attorcerla in modo che formasse le lettere ebraiche della parola
«Onnipotente.» Che cosa sto facendo? si chiese. La notte trascorsa sulla panchina lo aveva lasciato un
po’ annebbiato, per cui la sua testa lavorava lentamente, mezza addormentata. Non aveva la forza di
rimanere in piedi, per cui si sedette e cominciò a leggere la parte del Pentateuco prescritta per la
funzione mattutina, che tratta della consacrazione a Dio del primogenito di tutte le creature.
Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del Cananeo, come ha giurato a te e ai tuoi padri, e te
lo avrà dato in possesso, tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo
parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore.
Riscatterai ogni primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto; se non lo riscatti, gli
spaccherai la nuca. Che colpa può avere l’asino? si chiese Grein. Perché merita che gli venga spaccata la
nuca?
Come poteva, Dio, aver emanato simili ordini? A parte questo, una cosa era certa: gli ebrei che stavano
pregando lì non seducevano donne, non provocavano morte, malattia, pazzia ad altri. Allevavano da
generazioni i loro figli in castità e purezza. Se un residuo di ebrei per bene doveva sopravvivere, sarebbe
emerso dagli uomini riuniti lì. Mentre la vita ebraica della mia famiglia finisce con me: sono un adultero,
un assassino, un bugiardo. I miei figli hanno completamente rifiutato il loro retaggio. Io ho spezzato
l’eterna briglia che la Legge immutabile di Dio impone alla condotta umana. Appartengo alla stessa
schiera di bolscevichi, nazisti, criminali di tutte le nazioni. Incarno il limbo del bassofondo. Recitò
ancora un po’ della liturgia, fece una pausa, riprese e si fermò di nuovo. Continuava a fare intrusione
ogni sorta di pensieri brutti e disperati. Forse doveva sprofondare ancora più in basso. Forse doveva
letteralmente commettere un omicidio. Poteva procurarsi una rivoltella da qualche parte. Avrebbe
sparato a sua figlia, a quel debosciato, a Leah e poi a se stesso. Dev’esserci una sorta di eccitazione nello
spedire una persona all’altro mondo, altrimenti non se ne scriverebbe tanto né se ne strombazzerebbe
così di frequente alla radio e alla televisione. Forse avrebbe dovuto perpetrare una frode di massa. Ma
chi si sarebbe lasciato defraudare da lui? Forse sarebbe potuto andare in un posto dove si tenessero
orge. Se si precipita, si deve precipitare sino in fondo all’abisso. Fece una breve pausa, poi recitò: «Pietà
e tenerezza è il Signore… lento all’ira e ricco di grazia… Buono è il Signore verso tutti, la Sua tenerezza
si espande su tutte le creature.» Ma è vero? chiese lui a sua volta al libro di preghiere. Dio è veramente
buono verso tutti? Lo era stato con i sei milioni di ebrei in Europa? Era buono con tutti i buoi, maiali e
polli che si stavano scannando proprio in quel momento? Era buono con le decine di milioni di persone
che si trascinavano faticosamente per la vita con il cancro e morivano di morte lenta? Era buono con i
milioni di persone innocenti che marcivano nei campi di lavoro di Stalin, che soltanto la morte avrebbe
potuto redimere? E anche ammettendo che alla fine le loro anime assurgessero al paradiso, era
necessario che la strada che vi portava fosse pavimentata di tante sofferenze? Poteva qualcuno definire
buono un simile Dio? E si poteva continuare a servirLo giorno dopo giorno senza alcuna certezza che
desiderasse o apprezzasse tale servizio? No, non posso farlo! Gli venne una gran voglia di strapparsi di
dosso il più in fretta possibile lo scialle da preghiera e i filatteri. Smise di recitare la liturgia. Mentre
sbirciava il libro di preghiere, Grein notò che alcuni degli altri devoti chiacchieravano tra loro durante la
funzione. Passò in rassegna ciascun membro della congregazione. Chi erano questi ebrei che venivano lì
ogni giorno, shabbath dopo shabbath? Perché non avevano deviato dal sentiero dei loro genitori e
nonni persino nella difficile America? Erano immigrati? Erano nati lì? Venivano da famiglie colte o
semplici? Il fatto che venissero lì a pregare era connesso con una filosofia? O per loro era soltanto una
routine? Ma che cosa significava effettivamente «routine?» Non era facile alzarsi all’alba e andare dritto
in sinagoga: richiedeva impegno, disciplina, spese. New York non era un villaggetto polacco, dove tutti
abitavano a breve distanza dal viottolo polveroso della sinagoga. Lì l’influenza dei gentili pervadeva
ogni cosa. Vi erano impedimenti e tentazioni senza numero. Lì, soprattutto, bisognava avere un
carattere forte. Mentre quei devoti non avevano affatto l’aria di persone dalla volontà forte né di
pensatori profondi. Erano ebrei semplici, probabilmente piccoli bottegai, impiegati. Portavano abiti
americani da poco prezzo, camicie di tutti i colori, cappelli di paglia, cravatte sgargianti, orologi con il
cinturino di metallo. La congregazione si alzò per la recita delle Diciotto Benedizioni, ma Grein rimase
seduto.
Be’, Anita sia pure una puttana! pensò con furia. Ha ragione, tra l’altro. Perché non godersi la vita finché
si può? E quello era il suo modo di godersela. Ci si era torturati abbastanza a vicenda in nome di Dio!
Era più che tempo di fare quello che si voleva. I malvagi si ammazzavano tra loro? Lo facevano anche i
pii. Avendo Dio creato un mondo in cui sopravvivevano soltanto i meglio attrezzati, la battaglia era
forse il comandamento supremo. Chi aveva dato denti alla tigre, corna al bufalo, veleno al serpente? Chi
aveva prodotto la giungla? Chi aveva infuso nell’umanità ira, ferocia, fame di potere? Libertà del volere?
Quale lezione etica veniva da tisi, colera, inondazioni, carestie? Perché Dio pretendeva che bambini di
cinque anni morissero di fame? E anche se lo pretende, sono fatti Suoi. Non Lo loderò per questo!
Grein si precipitò a liberarsi di scialle e filatteri. Era un po’ perplesso per i pensieri eretici che lo
avevano assalito proprio in quel posto, nella sinagoga. Mentre cominciava a togliersi il filatterio dalla
fronte, gli venne in mente che, se tutto ciò che aveva polemicamente pensato era vero, aveva ragione
Hitler! Era precisamente il modo di pensare di Hitler! Il modo in cui tutti i malvagi assassini pensavano
da secoli, piazzando, come facevano, l’uomo e il suo volere al centro dell’universo. Significa che sono
dalla loro parte? Concordo con i nazisti che hanno ordinato agli ebrei di scavarsi la fossa?
L’umanesimo aveva postulato l’uomo come misura di tutte le cose. Quindi questo che cosa diceva
dell’umanesimo? Gli esseri umani dovevano evolversi, progredire, dal punto di vista non tecnologico
ma morale, altrimenti a quale scopo servivano? Ma allora perché un individuo soffriva mentre un altro
godeva in eccesso del meglio che il progresso sa offrire? Non era il progresso in sé il risultato di oltraggi
senza numero? La rivoluzione francese non era forse stata una pietra miliare nel progresso del genere
umano? E gli umanisti non si erano forse deliziati della rivoluzione francese e delle sue ghigliottine? Chi
erano gli eroi dell’umanesimo? Generali, sempre capi militari. Stalin non era forse a sua volta un
prodotto del tipo di umanesimo che piazzava il volere dell’uomo al centro di ogni impresa umana?
Tutto ciò che faceva era ritenuto un bene per l’umanità. Mah, non riesco a credere né in Dio né
nell’uomo. Ecco la dura verità. Grein rimase a sedere perfettamente immobile. Nondimeno, se
bisognava scegliere tra Dio e uomo, era preferibile Dio. L’uomo era certamente trascurabile. Anche se
era un assassino, se non altro Dio era un assassino di massa, un assassino abile, un assassino che
tiranneggiava su miliardi di mondi da tutta l’eternità. Anche il concetto spinoziano di Dio come Causa
Immanente era più confortante di tutte le promesse fatte dall’uomo. Grein si interruppe e cominciò a
recitare le Diciotto Benedizioni. Non poteva limitarsi a stare lì seduto con la bocca chiusa; doveva
giocare secondo le regole del gioco. Mormorò le parole che erano state ripetute migliaia di volte da suo
padre, dai suoi nonni e dai bisnonni su su fino al primo secolo e al tempo degli Uomini della Grande
Assemblea. Tali parole se non altro esprimevano il benigno desiderio che sia Dio sia l’uomo fossero
buoni, misericordiosi, santi. Gli ebrei erano riusciti a creare un Dio buono, ed era Lui che servivano. Il
Dio vero fosse pure l’abile assassino che desiderava essere; gli ebrei di Polonia, di Spagna, di Babilonia,
della Terra Santa avevano il loro Dio ideale: un Dio buono verso ciascuno e misericordioso con tutte le
Sue creature, un Dio che sorreggeva i caduti e rimetteva diritto chi era piegato, che era retto a modo
Suo e pieno di compassione nei Suoi atti, fedele a chi si rivolgeva a Lui con sincerità. Poteva lui volgere
le spalle a tutti questi principi? Poteva venire a patti con la realtà? No, non poteva.
Quell’immagine di Dio l’aveva nel sangue. Come non poteva mangiare un topo o una cimice, né andare
nudo per le strade, né fare i bisogni in mezzo a Times Square, alla stessa stregua non poteva venire a
patti con omicidio, saccheggio e licenziosità, anche se era lui stesso colpevole di tutto ciò. Era come un
ladro disgustato dal furto, un assassino che l’omicidio riempiva di orrore. Era un non credente costretto,
in tempi di angustie o alla vista di ingiustizia o vergogna, ad alzare gli occhi al cielo per invocare il Dio
la cui esistenza negava, e questo perché per gli ebrei Dio era una malattia, un’ossessione, una mania. Per
un ebreo, l’idea che Dio fosse buono e giusto costituiva la quintessenza della vita. Che lo volesse o no,
un ebreo aveva sempre qualche conto da fare con l’Onnipotente: Lo lodava o Lo bestemmiava, Lo
amava o Lo odiava, ma non poteva mai liberarsene. Di qualsiasi altro complesso egli soffrisse, quello di
Dio era il suo destino incurabile: poteva sfuggirgli quanto poteva sfuggire alla propria pelle, al proprio
sangue, al proprio midollo. Ogni volta che un ebreo immaginava di sfuggire a Dio, in realtà si aggirava
alla cieca in tondo come un asino in un mulino o una carovana perduta nel deserto. In effetti, questo
valeva per tutta l’umanità. Ci si poteva liberare dal concetto di Dio quanto da tempo, spazio, causalità. Il
buono e il giusto, il vero e l’onnipotente dovevano essere insiti in qualcosa. Quindi che senso aveva
combattere contro la propria natura? Dove aveva portato lui stesso, Hertz Dovid Grein, il suo tentativo
di fuggire? Dove aveva portato il mondo? Devo stare a questo gioco sino in fondo. Senza di esso non
posso respirare.
Senza di esso non ho identità. Si inchinò nel modo prescritto al momento della liturgia in cui le
preghiere proclamano: «Ringraziamo sempre Te, che sei il Signore nostro Dio e il Dio dei nostri padri.
Sei la forza della nostra vita e il nostro scudo di salvezza.» Ripetè le parole lentamente, sembrando
assaporarle in bocca per sentirne meglio il gusto.
Poi concluse la recitazione delle Diciotto Benedizioni: Mio Dio, trattieni la mia bocca dal male e le mie
labbra dal dire il falso. Possa la mia anima tacere nei confronti di chi mi insulta, essere umile al cospetto
di tutti come la polvere.. Sconfiggi rapidamente la congrega di tutti coloro che mi vogliono male e
manda in rovina il loro piano. Sì, era costretto a parlare al buon Dio e a sviscerare le cose con Lui. Non
faceva differenza che ci fosse o no, che fosse davvero benefico nel Suo imperscrutabile modo divino, o
che fosse cattivo, indifferente, o un diavolo Onnipotente. Essendo giovedì, il giorno della settimana in
cui la liturgia prescrive la recitazione di speciali preghiere di invocazione, Grein cominciò a ripetere:
«Abbiamo trasgredito, abbiamo agito in maniera fraudolenta, abbiamo rubato…»: la confessione che
l’ebreo osservante rende ogni lunedì e giovedì, a Yom Kippur e sul letto di morte. Quando Grein lasciò
la sinagoga, splendeva il sole. La via era affollata di bambini. Gli addetti alla nettezza urbana facevano
rotolare bidoni verso camion che trituravano la spazzatura. Portoricani, seminudi, in camicie
multicolori, con facce che parlavano di innumerevoli guerre, secoli di incroci razziali, atti primordiali di
violenza, un dolore senza limiti che lo scorrere di generazioni non poteva cancellare, sedevano su soglie
o portichetti. Un carro tirato da un vecchio ronzino era carico di pomodori mezzi marci, e l’ambulante
urlava come un invasato. Un poliziotto nero comparve da chissà dove, facendo roteare destramente il
manganello. Sul marciapiede, accanto a un bidone della spazzatura, era steso un ubriaco, la faccia
devastata, non rasata, infiammata come dalla peste, che borbottava colando saliva, con la pena di chi ha
perso ogni controllo di se stesso.
Il derelitto sembrava come incendiato dall’alcol, in procinto di esplodere in fiamme da un momento
all’altro come una lanterna di carta.
Grein si diresse verso Central Park West. Sebbene avesse fame, aveva già deciso, senza pensarci su
troppo, di digiunare tutto il giorno. Andò diritto al palazzo dove abitava la sua famiglia e salì con
l’ascensore.
Che cosa sto facendo? si chiese allibito. Probabilmente sono ancora lì.
Ma sapeva che non c’erano. Suonò il campanello e, visto che non rispondeva nessuno, aprì la porta con
la chiave a chiamò forte: «Anita!» Era sicuro che non avrebbe risposto nessuno, invece sentì un fruscio
di passi e comparve sua figlia, ancora in vestaglia e ciabatte. Aveva un’aria assonnata, pallida,
scarmigliata. La fissò come un’allucinazione che non volesse svanire. «Quell’uomo è ancora qui?» chiese.
«No», rispose lei, come se invitare un estraneo in casa dei suoi genitori fosse un fatto normale e
accettato. Lui rimase in silenzio un attimo.
«Voglio rimanere qui. Tu hai una casa tua, non venire più qui.»
«No.» E Anita tornò nella sua camera da letto. Ciò che aveva appena fatto non era in tono con il suo
carattere, e Grein lo sapeva. Era dominato da un forte senso di colpa, una sottomissione che non aveva
mai provato prima.
Non era più Hertz Grein ma un ebreo distrutto, un peccatore, un uomo pieno di vergogna. Andò nel
suo studio e si sedette. Durante le preghiere e dopo, mentre veniva lì, aveva preso una risoluzione:
tornare con Leah. Esther aveva un marito. Anna era giovane e piena di energie.
Se c’era una persona che aveva bisogno di lui, era Leah. Non avrebbe mai dovuto lasciarla: tutte le sue
pene erano il risultato di quell’unico gesto. Fece un esame di ciò che stava per fare. Leah era stanca,
amareggiata, senza una sola scintilla di desiderio sessuale. Si era praticamente condannato a una vita
priva di amore fisico. Ma tutti gli sbalorditivi eventi succedutisi da quando aveva lasciato Leah gli
avevano mostrato con chiarezza il da farsi. Aveva soltanto due strade da seguire: una verso l’abisso di
omicidio, fornicazione, falsità; l’altra verso astinenza e autocontrollo. Non c’era una via di mezzo. Lo
aveva sempre saputo, ma non gli era mai apparso chiaro come quel mattino.
Aveva ucciso un uomo. Moralmente era un assassino. Se quella notte non fosse scappato con Anna in
un albergo, Stanislaw Luria sarebbe stato ancora vivo. Forse anche Leah adesso non sarebbe stata in
ospedale con il cancro. Era persino possibile che anche Anita non se ne sarebbe andata di casa,
sprofondando in quel sozzume. Nel giro di pochi mesi si era sparso tutto attorno morte, dolore,
malattia, impurità. Era un assassino, un assassino! Lui, Hertz Grein, che aveva sempre provato un’ira
incontenibile e una timorosa avversione nei confronti dell’omicidio, era lui stesso un omicida. Lui
soltanto aveva spedito un uomo nella tomba. Per quanto potesse pentirsi, per quanto potesse
tormentarsi, non sarebbe mai riuscito a porre riparo a ciò che aveva distrutto. Era come Caino, che
aveva ucciso suo fratello Abele. Anzi, era peggio di Caino, perché era stato educato su sacri libri ebraici
e sapeva che cosa significa spargere sangue. Come lo consideravano i poteri superni? Se l’anima di
Stanislaw Luria esisteva da qualche parte delle sfere superiori, sapeva e ricordava chi era stato a
scacciarla dal suo corpo? E chissà quali punizioni lo aspettavano ancora. Era certo che in quel
momento Anna gli stava telefonando, chiedendosi come mai non fosse a casa. Sospettava di sicuro che
fosse andato da Esther. Persino la sua penitenza comportava infliggere dolore a qualcuno. Ma Anna
non sarebbe morta, né le sarebbe venuto il cancro. Le avrebbe spiegato tutto in una lettera. Chissà.
Forse avrebbe capito la sua posizione. Avrebbe forse persino trovato un sollievo il fatto di liberarsi di
lui. La loro vita in comune non era affatto stata ciò che lei sperava. Attraverso tutto l’amore fisico e le
carezze aveva continuato a gridare inavvertita la disillusione. Per quanto rimaneva di quell’anno lui
avrebbe continuato a pagare l’affitto dell’appartamento in cui abitava lei. Si sarebbe fatto carico di tutte
le spese. Notò i libri sacri della sua libreria e si alzò per prenderne uno, scegliendo a caso Il sentiero del
retta di Moshe Chaim Luzzatto. In chiusura dell’edizione che possedeva c’era la lettera di Rabbi Elijah,
il Gaon di Vilna, alla famiglia, scritta prima di partire per la Terra Santa. Cominciò a leggere lentamente:
Ed è noto che questo mondo è totalmente vano, e che tutti i piaceri non valgono nulla. E guai a coloro
che perseguono una stupidità che non può avere risultato… poiché l’indomani si piange su ciò che oggi
ha suscitato riso, e il tempo tradisce. Come una bilancia innalza ciò che è leggero e abbassa ciò che è
pesante, e questo mondo attuale è simile a chi beva acqua salata. Più beve, più gli viene sete.
Pensate ai primi che sono vissuti prima di noi e considerate che il loro amore, desiderio e gioia sono
ormai tutti perduti, e come ricompensa ne hanno ricevuto molte punizioni. E che cos’è il mondo del
piacere, se alla fine si deve scomparire nella terra che è piena di vermi e larve, e tutti i piaceri si
convertono in amarezza? Per ciascun uomo, anche in questo mondo, tutti i giorni non sono che ira e
sofferenza. A mano a mano che leggeva, le parole gli sembravano adattarsi specificamente a lui. Era
come se stesse parlando suo padre. Ne vedeva persino la figura davanti a sé. Quelle pagine ingiallite
contenevano la verità eterna. La lettera del Gaon era piena di consigli su come allevare i figli, insegnare
loro i sentieri della rettitudine. Invece lui che cosa aveva fatto? Aveva abbandonato arbitrariamente i figli
all’illegalità, dato loro un esempio di deboscia, egoismo e licenziosità. Perché Anita sarebbe dovuta
essere meglio di lui? Non aveva mai sfogliato un libro di precetti etici. Non aveva mai sentito
pronunciare da lui una parola di esortazione morale. Nei libri che leggeva, negli spettacoli teatrali che
vedeva, i protagonisti, i personaggi principali erano sempre assassini, adulteri. Che diritto aveva lui di
pretendere alcunché da lei? Era tutta colpa sua. Era stato lui a recidere le proprie radici. Era stato lui a
spingere i figli verso l’apostasia. Qualcuno bussò alla porta, ed entrò Anita. «Ti devo una spiegazione,
papà.»
«Che cosa potresti spiegarmi?»
«Papà, io lo amo. Vogliamo sposarci.» Lui rimase un attimo in silenzio.
Gli sembrava che sua figlia lo stesse guardando in un modo diverso da prima, con più rispetto e
intimità, quasi che per un sesto senso avvertisse il subbuglio che gli infuriava nell’intimo. «Chi è lui?»
«Un uomo interessante. Ma naturalmente non ti piacerà.»
«Che cos’è? Ebreo?»
«No. Cristiano.»
«Capisco.»
«Anzi, non è neanche cristiano. E’ un libero pensatore.»
«Un comunista?»
«Un progressista.»
«Lo sai che questi ‘progressisti’ hanno annientato venti milioni di innocenti in Russia? Lo sai che hanno
mandato milioni di persone nei campi di lavori forzati?»
«Sono tutte menzogne. Tutte calunnie inventate dalla stampa capitalista.»
«Però io ho parlato con persone che sono state imprigionate in quei campi. Erano trattate esattamente
come i nazisti trattavano gli ebrei.»
«Mentono.»
«Credi veramente che Bucharin, Kamenev e Zinov’ev fossero spie?»
«Erano certamente traditori.»
«Be’, che cosa posso fare? Non posso farci niente.»
«Non devi fare niente. Voglio semplicemente che non pensi che per me l’amore sia soltanto un gioco.»
«Non sto parlando di te. Per voi comunisti la vita è soltanto un gioco.
Non posso descriverti le violenze selvagge che hanno perpetrato negli ultimi trent’anni.»
«Non si può fare la rivoluzione con i guanti di seta.»
«Che cosa ne diresti se ti spedissero a scavare oro nella Siberia settentrionale, o se ti gettassero in
prigione senza alcun motivo e ti ci lasciassero dieci anni?»
«Non sono una nemica della classe operaia.»
«Quale legame puoi avere con la classe operaia? Non hai fatto nessun lavoro in vita tua. Non vuoi
neanche fare le pulizie in camera tua.» Anita rimase lì ancora un po’. Poi se ne andò e chiuse lentamente
la porta. Grein serrò gli occhi. Adesso, oltre a tutto, è diventata rossa!
Quando sarà successo? Be’, fa lo stesso. Erano evidentemente indifferenti alle sofferenze degli altri.
Amavano la malvagità.
Esaltavano persino Stalin. Bastava loro una scusa, una giustificazione.
Erano come i cacciatori, che prima allevano gli animali selvatici e poi gli sparano. Per gente del genere la
cosa fondamentale era che si spargesse sangue. E io, Hertz Dovid, figlio di Reb Jacob lo Scriba, mi sono
unito a mia volta alla banda. Sono diventato un assassino io stesso e ho allevato assassini. Date il potere
a Jack e Anita, e metteranno gente al muro con poche esitazioni come l’NKVD. I nostri nonni li
avrebbero assegnati tutti alla stessa specie: i malvagi della terra.
Grein era totalmente allibito. Come diavolo ho fatto a non capirlo prima? Che cosa ho sempre pensato?
Credevo che per i miei figli sarebbe avvenuto un miracolo? No. Tacitamente e inconsapevolmente ho
dato il mio contributo a tutto ciò, ho reso possibile che tutto ciò accadesse. Sono stato un libertino, un
epicureo. Ho fornicato e assassinato e ho allevato fornicatori e assassini. Ecco la pura verità. Per giunta,
ho dato dignità a tutto ciò con un eufemismo, definendolo scetticismo.
CAPITOLO 18.
Il venerdì, quando andò a trovare Leali all’ospedale, Grein le disse che aveva intenzione di tornare con
lei e che sarebbe venuto di nuovo a vivere nel loro appartamento. Lei lo ascoltò senza dire niente. Dopo
un po’ arrivarono Jack e Patricia. Anita invece non si fece vedere. L’ora di visita trascorse rapidamente, e
lui lasciò l’ospedale con la sensazione che Leah non gli credesse o che non le importasse. Che
differenza fa ormai per me? erano parsi dire i suoi occhi. E troppo tardi, troppo tardi. Avrebbero
dovuto dimetterla il lunedì, ma era sopravvenuta una complicazione. L’ospedale era sulla Quinta
Avenue, però lui non prese l’autobus che tagliava la città per il largo ma tornò a casa attraverso il parco.
Da anni le sue giornate e notti erano un’unica lunga corsa. Doveva sempre essere qui o là, tenersi a
disposizione, riferire a questo, telefonare a quello, tenere continuamente d’occhio l’orologio. Adesso,
invece, di punto in bianco si ritrovava con moltissimo tempo libero. Aveva davanti a sé tutto un venerdì
d’estate e non aveva fatto nessun progetto su come trascorrerlo. Si sedette su una panchina del parco a
riflettere sul da farsi. Non poteva andare con l’auto nel nord dello Stato di New York per visitare i suoi
clienti mentre Leah si trovava ancora all’ospedale. Inoltre, non soltanto l’estate è un periodo in cui la
gente ha la testa lontana dalle questioni economiche, ma le azioni stavano perdendo valore ogni giorno.
Aveva già visto i giornali del mattino, e i titoli di quelli del pomeriggio riguardavano per lo più il
baseball. Nel parco faceva molto caldo, e le foglie degli alberi avevano un’aria impolverata e stanca.
Alcuni vagabondi erano sdraiati sull’erba, a dormicchiare o a cercare di farlo. Alcuni ragazzi stavano
giocando a baseball. Un’inerzia tipica del venerdì, che aveva scordato da tempo, aleggiava sui palazzi
della Quinta Avenue e di Central Park West quasi che, per il trucco di un prestigiatore, tutta New York
fosse in uno stato di vigilia dello shabbath. Tutt’a un tratto gli venne in mente il trambusto del venerdì
nella casa dei suoi genitori: a mezzogiorno non si pranzava, in modo che tutti avessero un buon
appetito per il convito dello shabbath sera; si strofinava il pavimento; si preparava lo stufato dello
shabbath per il giorno dopo. Lui, il piccolo Hertz, veniva mandato dalla madre alla bottega di alimentari
per fare provviste a credito, ed era successo più di una volta che il bottegaio, non pagato, si fosse
irosamente rifiutato di concedere altro credito, per cui era tornato a casa a mani vuote.
Usciva per andare alla casa di studio chassidica, dove suo padre procedeva alle sue devozioni, ma lo
scaccino, Reb Kirsch, stava spruzzando il pavimento con acqua e spazzandolo con la scopa. Nemmeno
nel luogo sacro dove risiedeva l’arca il piccolo Hertz poteva trovare tregua. Negli anni in cui i suoi affari
erano in crescita e le relazioni sentimentali si moltiplicavano, pensava spesso al momento in cui si
sarebbe potuto liberare dalla tensione. Aveva sempre saputo che dovevano avere fine tutta
quell’agitazione, quegli intrighi, quell’urgenza, quel correre qua e là. Soffriva sempre più di ansia
nervosa, che si manifestava in forma di palpitazioni, mali di testa e affaticamento: viveva nel terrore
costante di un infarto. Si era ripromesso che, arrivato a cinquant’anni, avrebbe rinunciato a questa
pazzia, tornando a studiare, scrivendo magari persino un libro. Quanto poteva continuare a girare in
tondo all’infinito? Invece il momento era arrivato adesso, non a cinquanta ma a quarantasette anni -, e al
primo giorno non aveva idea di che cosa fare di se stesso. Studiare? Che cosa doveva studiare?
Cultura ebraica? In che cosa consisteva la sua cultura ebraica? Poteva conformarsi allo Shulchan Aruch
con tutte le sue leggi e i suoi divieti?
Era davvero capace di pregare tre volte al giorno? Aveva buoni motivi per rinunciare al mondo e alle
sue vanità, ma non aveva assolutamente alcuna predisposizione per il modo di vivere religioso. Poteva
credere che Dio avesse rivelato la Torah dal cielo? Poteva confidare che, osservando scrupolosamente le
leggi del giudaismo, stesse servendo Dio?
C’era spazio per uno come lui, che credeva in Dio ma non nella rivelazione o nel dogma? Poteva
esistere una sinagoga per puri deisti o ricercatori di Dio? Il principio fondamentale del giudaismo, a suo
modo di vedere, era che bisogna vivere in modo da non basare la propria felicità sulle disgrazie di altri.
Gli esseri umani, creature di Dio, non dovevano peccare l’uno contro l’altro e anzi aiutarsi il più
possibile. Era l’essenza della Torah, del cristianesimo, del buddhismo, di tutte le religioni. Tutto il resto
poteva essere etichettato come folclore. Ma una volta eliminato il folclore, la religione rimaneva nuda e
quasi completamente negativa. Vi rimaneva poco di positivo. Si restava lì sapendo mille cose che era
proibito fare, ma quasi niente su ciò che si doveva fare. Disciplina, coesistenza armoniosa, appagamento
e identificazione rimanevano tutti ai margini. Che aroma aveva la cultura ebraica in assenza di barbe,
cernecchi, case di studio, libri sacri, scialli da preghiera, filatteri, shabbath e festività? Una simile cultura
ebraica non soltanto non poteva riuscire a riempire il giorno, ma correva anche il pericolo di
disintegrarsi da un momento all’altro a causa dell’assenza di sistematicità e struttura simbolica. Agendo
come individui piuttosto che come gruppo, gli esseri umani non potevano servire Dio più di quanto
potessero difendere la loro patria. Non potevano dichiarare guerra a Satana più di quanto potessero
sconfiggere Hitler o Stalin da soli. Aveva sostenuto le stesse cose con Luria la sera in cui, subito dopo la
sua predica, gli aveva portato via Anna… quasi si fosse deliberatamente imposto di dimostrare che le
belle parole sono spesso l’antitesi delle belle azioni. Nel giro di quei sette mesi erano successe molte
cose. Luria era morto di dolore. A Leah era venuto il cancro. Jack aveva sposato una gentile. Anita
viveva con un comunista, anche lui gentile. Esther aveva sposato Morris Plotkin. La punizione per i
suoi peccati era venuta rapida e senza ambiguità. Era persino pronto a ricevere il colpo finale: la morte.
Era per paura della morte, infatti, che adesso lasciava Anna. Ma, in termini pratici, che cosa poteva fare
quel venerdì? E come avrebbe trascorso l’indomani… doveva osservare lo shabbath? Doveva accendere
le candele dello shabbath quella sera? Doveva comperare da mangiare, in modo che non gli toccasse
maneggiare denaro di shabbath? Doveva smettere di mangiare cibo non kasher? E che cosa sarebbe
successo quando Leah fosse tornata a casa?
Non era religiosa. Non poteva costringerla a salare la carne, a osservare le leggi dietetiche. Tra gli ideali
che si era tracciato per il giorno in cui fosse tornato a Dio c’era il vegetarianesimo. Come si poteva
servire Dio quando si macellavano le Sue creature? Come ci si poteva aspettare misericordia dal cielo
quando si spargeva sangue ogni giorno, si trascinavano le creature di Dio al mattatoio, si provocavano
loro sofferenze terribili, si abbreviavano i loro giorni e anni? Come si poteva chiedere compassione a
Dio quando si pescavano pesci dal fiume e li si guardava soffocare torcendosi all’amo? Una volta era
andato a visitare i mattatoi di Chicago e aveva fatto voto di smettere di mangiare carne. Ma si era reso
conto che anche mangiando latte e uova si uccidevano animali e uccelli: il latte si poteva procurarselo
soltanto distruggendo i vitelli per i quali esso era inteso, e gli allevatori prima o poi vendevano il
pollame al macellaio.
Perché non doveva comportarsi allo stesso modo di milioni di indù? Si poteva benissimo campare di
frutta, verdure, pane, cereali, olio: i prodotti della terra. Se il genere umano doveva continuare a
moltiplicarsi, si sarebbe comunque pervenuti a tanto. In teoria andava bene, ma cercare di metterlo in
pratica era tremendamente difficile.
Soltanto quel giorno, a pranzo, si era trovato di fronte a un problema.
Era entrato in una tavola calda, ma tutti i sandwich, le insalate e i piatti pronti contenevano carne, pesce,
latte o uova. Non poteva nemmeno bere caffè con panna. Aveva mangiato un piatto di verdure e una
tazza di prugne secche, accompagnandole con il tè. Ma che cosa poteva mangiare a cena? E l’indomani
come prima colazione? Per di più, come poteva indossare abiti di lana e scarpe di cuoio? Le pecore
venivano tosate soltanto finché non le si scannava. Una cosa portava inevitabilmente all’altra. Avrebbe
dovuto portare soltanto indumenti di lino e scarpe con suole di legno o gomma. Che cos’avrebbe detto
Leah? Non era più vegetariana di quanto fosse religiosa. E che cosa doveva fare quando andava a
trovare i clienti? Nessuno aveva la minima fiducia di un professionista che si comportava come Gandhi.
Le donne si comportavano sempre come se la loro vita dipendesse dal fatto che lui assaggiasse le loro
specialità gastronomiche. E su che cosa doveva dormire di notte? Il materasso conteneva crine di
cavallo e i cuscini erano imbottiti di piume. Tutto ciò che si toccava era fatto con la carne, la pelle, i peli,
le ossa di un’altra creatura. Grein si alzò dalla panchina e si avviò verso casa. Camminando pensava ai
criteri di Dio. Visto che odiava gli spargimenti di sangue, perché aveva creato un mondo fondato
sull’assassinio? Perché aveva creato migliaia di specie di animali, uccelli e serpenti che potevano vivere
soltanto divorando altre creature viventi? Perché la lotta per la sopravvivenza, se la violenza ripugnava al
Suo Diletto Nome? E che cosa avrebbe dovuto fare l’America se i bolscevichi avessero attaccato? Si
doveva desistere dal buttare la bomba atomica perché avrebbe distrutto civili innocenti? Si doveva
permettere passivamente agli stalinisti di far operare un NKVD in America, giustiziando milioni di
persone come era stato fatto in Russia e adesso si stava facendo in Cina? No, messi in pratica alla
lettera, gli insegnamenti del cristianesimo erano certamente inadeguati per opporsi alla malvagità
dell’uomo. Coloro che si definivano cristiani lo sapevano quasi tutti; ecco perché, secondo loro, il
Sermone della Montagna era soltanto un brano di poesia, irrilevante per la vita quotidiana. Ma il mondo
poteva vivere secondo lo spirito del giudaismo?
Si poteva rispettare il comandamento «non uccidere» e continuare a dichiarare guerre? Si poteva
applicare quel comandamento soltanto agli uomini e non agli animali? Si poteva davvero distinguere tra
l’aggressione e l’autodifesa? E i popoli che avevano troppo poco territorio? Non avrebbero potuto
ribattere che la loro aggressione era appunto una forma di autodifesa? E che cos’avrebbero fatto le altre
nazioni in risposta a una simile pretesa? Trascorrerò questo shabbath esattamente come avrebbe fatto
mio padre in circostanze analoghe! decise Grein. Non ho altro modello che lui. Non si può servire Dio
in astratto.
Bisogna avere una direzione, un percorso. Che io faccia il tentativo almeno questo shabbath! Che
cos’avrebbe fatto mio padre nella mia situazione? Non appena ebbe riflettuto sull’esempio del padre,
seppe che cosa fare. Doveva prepararsi da mangiare da sé per lo shabbath, ma doveva essere cibo che
non avesse bisogno di essere conservato nel frigorifero, perché quando lo si apre si accende una luce.
Secondo la Legge ebraica, di shabbath era proibito toccare un frigorifero. Che genere di cibo poteva
essere, quindi? Pane, frutta, noci… credo che siano consentiti. Controllerò nello Shulchan Aruch. Grein
lasciò il parco e raggiunse Columbus Avenue. In un A & P si comperò una forma di pane nero, una
bottiglia di olio di mais, un pacchetto di uva passa e mezzo chilo di albicocche. Quindi, in una bottega
di alimenti naturali sulla Broadway comperò mandorle e noccioline sgusciate. Fare la spesa per lo
shabbath stando attento che nessun alimento provenisse da creature viventi metteva a dura prova la sua
pazienza. D’altra parte stava facendo i preparativi per lo shabbath come da ragazzo. Andando verso
casa gli venne in mente che suo padre non avrebbe usato nessuna delle stoviglie che c’erano lì, per cui
comperò un piatto, un coltello e una forchetta in un negozio di casalinghi. Passando davanti a una
bottega di liquori, gli venne in mente che aveva bisogno del vino per celebrare il Kiddush la vigilia dello
shabbath, il mattino dello shabbath e lo stesso shabbath sera per la cerimonia della Havdalah, e, trovato
vino kasher sugli scaffali, ne comperò una bottiglia. A quel punto i pacchetti che portava erano pesanti,
ma non prese un taxi. Dove stava scritto che tutto dovesse essere facile? Proseguì a piedi portando i
suoi pesi e coprendosi di sudore. Aveva soltanto cominciato a adottare un modo disciplinato di vivere,
ma aveva già la soddisfazione di fare qualcosa di concreto. Adesso non era più solo. Migliaia di ebrei
stavano, come lui, preparandosi per lo shabbath. L’addetto all’ascensore si stupì vedendolo portare una
bracciata di provviste. Sapeva che sua moglie era all’ospedale e che lui abitava altrove. Ha probabilmente
litigato con l’amante! rifletté il gentile. E lo scrutò in silenzio con uno sguardo che sembrava dire: so
esattamente che cosa stai vivendo. A quel punto Grein cominciò a trafficare per casa. Leah aveva due
candelieri, e nella credenza della cucina c’erano alcune candele. Lucidò i candelieri e vi inserì le candele,
pronte per essere accese. Avrebbe lasciato le luci accese soltanto nel suo studio, perché di shabbath è
proibito accendere e spegnere la corrente elettrica. E l’ascensore? Di shabbath suo padre non lo
avrebbe preso. Certo, il divieto di servirsi di un ascensore elettrico non era che un’interpretazione
strettamente legalitaria dell’ingiunzione: «Non accenderai fuoco in alcuna delle tue dimore», ed era
certamente una camminata lunghissima, ma doveva osservare il suo shabbath esattamente come
avrebbe fatto suo padre, senza deviare di un solo capello. Avrebbe fatto gli undici piani a piedi in salita e
in discesa. Chi aveva detto che è pericoloso fare le scale a piedi? Avrebbe camminato lentamente e si
sarebbe fermato a riposare. Dio ne scampi, non aveva problemi al cuore. Gente della sua età andava a
fare arrampicate in montagna. Per un giorno si poteva benissimo fare a meno dell’ascensore, persino a
New York. E il trasporto di oggetti? Suo padre, riposasse in pace, di shabbath non avrebbe portato con
sé un fazzoletto da tasca. Quindi se lo sarebbe semplicemente legato al collo, come avrebbe fatto suo
padre, dopo di che sarebbe diventato un indumento ammesso. Tra le centinaia di libri che aveva nella
libreria c’era un compendio dello Shulchan Aruch, per cui si accertò di ciò che doveva fare
successivamente, quella sera e il mattino dopo. Doveva fare un bagno in onore dello shabbath, e per lo
stesso motivo doveva indossare abiti della migliore qualità. Prima di andare in sinagoga per dare il
benvenuto allo shabbath, doveva pulire e spazzare l’appartamento. Fino a quel momento aveva evitato
di andare nella camera da letto dove Anita aveva giaciuto con lo sconosciuto, ma era tenuto a pulire
anche quella, per cui prese l’aspirapolvere e lo fece passare sui tappeti. Era un pezzo che non faceva
tanta fatica fisica come quel venerdì. Erano anni che cercava di fare un po’ di attività fisica per impedire
ai muscoli di indebolirsi e farsi flaccidi, ma quella vigilia di shabbath gli aveva fatto fare più esercizio di
tutta la ginnastica fatta in base a un manuale. Pulì i tappeti con l’aspirapolvere, lucido il pavimento,
portò fuori la spazzatura. Poi fece un bagno. Immaginerò che sia un bagno rituale, come impone la
Legge. Si asciugò e si mise una camicia pulita presa dalla riserva di indumenti e biancheria che teneva
ancora a casa di Leah. Quindi arrivò il momento di accendere le candele. Per evitare di provocare un
incendio nel palazzo, posò i candelieri su un vassoio di metallo. Le due fiammelle ardevano
straccamente in quel fortissimo caldo, non facendo quasi luce. Stese una tovaglia sul tavolo, vi posò la
bottiglia di vino, l’oliera e un bicchiere da vino, preparò la forma di pane, la frutta, le noci. La tavola
divenne improvvisamente un’isola di celebrazione dello shabbath, circondata ma separata dal
quotidiano e dall’ordinario. Rimase in piedi un attimo interdetto. Possa tutto ciò risultare accettabile a
Dio! Gli sembrava che, per effetto di un potere segreto, in casa aleggiasse lo spirito di sua madre,
tenendo d’occhio tutto ciò che lui stava facendo; si aspettava quasi di avvistarla di sfuggita in un angolo.
Poco dopo uscì. Avendo già acceso e benedetto le candele, non si servì dell’ascensore ma andò a piedi.
Erano passati venticinque anni da quando aveva provato per l’ultima volta un senso della sua santità, ma
adesso gli sembrava che lo shabbath regnasse su tutto il mondo. I vicini lo osservavano con curiosità,
quasi capissero per istinto che in qualche modo era diverso da loro e anche da com’era prima. Andò a
compiere i suoi atti di devozione nella stessa sinagoga dove aveva presenziato alla funzione del mattino
dopo avere scoperto Anita con il suo amante. La trovò aperta e illuminata della maestosa luminosità di
un luogo santo. Anche altri ebrei erano venuti a dare il benvenuto allo shabbath, non penitenti come lui
ma ebrei che non avevano mai abbandonato gli usi di Dio. La congregazione era piccola, composta da
non più di una ventina di uomini, visto che la maggioranza dei devoti che la frequentavano con
regolarità stava trascorrendo l’estate in campagna. Ma le luci ardevano del fulgore dello shabbath, e il
vasto edificio di culto era lì pronto per loro con tutte le sue strutture. I componenti di quel manipolo di
ebrei lo scrutarono tutti attentamente.
In una normale sera di venerdì, una faccia sconosciuta era una rarità.
Ma alcuni lo riconobbero dalla sua precedente visita. I loro sguardi esprimevano il benvenuto con
riserva che si da agli estranei a una riunione di famiglia. Quindi tutto procedette come avveniva
trent’anni prima, un secolo prima, forse persino migliaia di anni prima. Ebrei che recitavano il Cantico
dei Cantici tra sé prima che il cantore si apprestasse a introdurre lo shabbath. Mentre la sua voce si
levava alta evocando echi, i fedeli si aggiravano mormorando e gesticolando come facevano gli ebrei in
sinagoghe e case di preghiera quando lui era soltanto uno scolaretto; persino gli odori gli sembravano
gli stessi. Un giovanotto gli si accostò e chiese: «Sta commemorando l’anniversario di un lutto?»
«No», rispose Grein, non sapendo lui stesso se fosse vero o no. Non riusciva a ricordare le date di
morte dei suoi genitori. Magari quel giorno cadeva davvero un ann