Adoro te devote
Raniero Cantalamessa
Per rispondere al desiderio e alle intenzioni del Santo Padre nel dedicare l’anno in corso
all’Eucaristia, la predicazione di questo Avvento – e, se è volontà di Dio, anche della prossima
Quaresima- sarà un commento, strofa per strofa, dell’Adoro te devote.
Con la sua enciclica Ecclesia de Eucharistia il Santo Padre Giovanni Paolo II si è proposto,
dice, di ridestare nella Chiesa “lo stupore eucaristico” [1] e l’Adoro te devote si presta
meravigliosamente a ottenere questo scopo. Esso può servire a dare un afflato spirituale e
un’anima a tutto ciò che si farà, in questo anno, per onorare l’Eucaristia.
Un certo modo di parlare dell’Eucaristia, pieno di calda unzione e devozione oltre che di
profonda dottrina, scacciato dall’avvento della teologia cosiddetta “scientifica”, si è rifugiato
negli antichi inni eucaristici ed è qui che dobbiamo oggi andarlo a ricercare, se vogliamo
superare un certo arido concettualismo che ha afflitto il sacramento dell’altare in seguito alle
tante dispute intorno ad esso.
La nostra, però, non vuole essere una riflessione sull’Adoro te devote, ma sull’Eucaristia! L’inno
è soltanto la mappa che ci serve per esplorare il territorio, la guida che ci introduce all’opera
d’arte.
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Adoro te devote
Sono stati fatti tentativi di stabilire il testo critico dell’inno in base ai pochi manoscritti esistenti
anteriori alla stampa. Le varianti rispetto al testo che conosciamo non sono molte. La principale
riguarda proprio i primi due versetti di questa strofa che, secondo Wilmart, all’origine suonavano
così: Adoro devote latens veritas /Te qui sub his formis vere latitas, dove “veritas” starebbe per
la persona di Cristo e “formis” sarebbe l’equivalente di “figuris”.
Ma a parte il fatto che questa lettura è tutt’altro che sicura [2], c’è un altro motivo che spinge ad
attenerci al testo tradizionale. Questo, come altri venerandi inni liturgici latini del passato,
appartengono alla collettività dei fedeli che lo hanno cantato per secoli, lo hanno fatto proprio e
quasi ricreato, non meno che all’autore che lo ha composto, spesso, del resto, rimasto
anonimo. Il testo divulgato non ha meno valore del testo critico ed è con esso infatti che l’inno
continua ad essere conosciuto e cantato in tutta la Chiesa.
In ogni strofa dell’Adoro te devote c’è un’affermazione teologica e una invocazione che è la
risposta orante dell’anima al mistero. Nella prima strofa la verità teologica evocata riguarda il
modo di presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. L’espressione latina “vere latitas” è
densissima di significato; vuol dire: sei nascosto, ma ci sei veramente (dove l’accento è sul
“vere”, sulla realtà della presenza) e vuol dire anche: ci sei veramente, ma nascosto (dove
l’accento è su “latitas”, sul carattere sacramentale di questa presenza).
Per comprendere questo modo di parlare dell’Eucaristia bisogna tener conto della “grande
svolta” che si verifica circa l’Eucaristia nel passaggio dalla teologia simbolica dei Padri e quella
dialettica della Scolastica. Essa ha i suoi remoti inizi nel secolo IX, con Pascasio Radberto e
Ratramno di Corbie: il primo difensore di una presenza fisica e materiale di Cristo nel pane e
nel vino, il secondo di una presenza vera e reale, ma sacramentale, non fisica; esplode però
apertamente solo più tardi, con Berengario di Tours (H 1088) che accentua a tal punto il
carattere simbolico e sacramentale di Cristo nell’Eucaristia da compromettere la fede nella
realtà oggettiva di tale presenza.
Mentre prima si diceva che Cristo nell’Eucaristia è presente sacramentalmente, o, secondo gli
orientali, mistericamente, ora, con un linguaggio mutuato da Aristotele, si dice che è presente
sostanzialmente, o secondo la sostanza. Figura non indica più, come sacramentum, l’insieme
dei segni con cui si realizza la presenza di Cristo, ma semplicemente le “specie o apparenze”
del pane e del vino, nel linguaggio tecnico, gli accidenti [3].
Il nostro inno si colloca chiaramente al di qua di questa svolta, anche se evita il ricorso ai nuovi
termini filosofici, poco appropriati in un testo poetico. Nel verso “quae sub his figuris vere
latitas”, il termine figura indica le specie del pane e del vino in quanto nascondono quello che
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Adoro te devote
In devota adorazione
Dicevo che in ogni strofa dell’inno troviamo un’affermazione teologica seguita da una
invocazione con cui l’orante risponde ad essa e si appropria della verità evocata.
All’affermazione della presenza reale, anche se nascosta, di Cristo nel pane e nel vino l’orante
risponde sciogliendosi letteralmente in devota adorazione e trascinando con sé, nello stesso
movimento, le innumerevoli schiere di anime che per oltre mezzo millennio hanno pregato con
le sue parole.
Adoro: questa parola con cui si apre l’inno è da sola una professione di fede nell’identità tra
corpo eucaristico e il corpo storico di Cristo, “nato da Maria Vergine, che veramente ha patito e
fu immolato sulla croce per l’uomo”. È solo grazie a questa identità infatti e all’unione ipostatica
in Cristo tra umanità e divinità, che noi possiamo stare in adorazione davanti all’ostia
consacrata, senza peccare di idolatria. Già S. Agostino diceva: “In questa carne (il Signore) ha
qui camminato e questa stessa carne ci ha dato da mangiare per la salvezza; e nessuno
mangia quella carne senza averla prima adorata... Noi non pecchiamo adorandola, ma anzi
pecchiamo se non la adoriamo” [5].
Ma in che consiste propriamente e come si manifesta l'adorazione? L'adorazione può essere
preparata da lunga riflessione, ma termina con una intuizione e, come ogni intuizione, essa non
dura a lungo. E' come un lampo di luce nella notte. Ma di una luce speciale: non tanto la luce
della verità, quanto la luce della realtà. E' la percezione della grandezza, maestà, bellezza, e
insieme della bontà di Dio e della sua presenza che toglie il respiro. E' una specie di naufragio
nell'oceano senza rive e senza fondo della maestà di Dio.
Un'espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Adorare, secondo la
stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno, significa elevare a Dio un "inno di silenzio".
C’è stato un tempo quando, per entrare in un clima di adorazione davanti al Santissimo, mi
bastava ripetere le prime parole di un inno del mistico tedesco del Seicento Gerhard
Tersteegen, cantato ancor oggi nelle chiese protestanti e cattoliche della Germania:
Forse perché le parole di una lingua straniera sono meno consunte dall’uso e banalizzate, sta di
fatto che quelle parole mi davano ogni volta un brivido interiore. “Gott ist gegenwärtig, Dio è
presente, Dio è qui!: le parole si dileguavano in fretta, rimaneva solo la verità che avevano
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Adoro te devote
La contemplazione eucaristica
Resta da raccogliere la fiammata più alta che è quella che si leva dai due ultimi versi della
strofa: Quia te contemplans totum deficit: Contemplando te tutto vien meno. La caratteristica di
certi venerandi inni liturgici latini, come l’Adoro te devote, il Veni creator e altri, è la straordinaria
concentrazione di significato che si realizza in ogni singola parola. Ogni parola è in essi
“pregnante”.
Per comprendere appieno il senso di questa frase, come di tutto l’inno, è necessario tener conto
dell’ambiente e del contesto da cui nasce. Siamo, dicevo, al di qua della grande svolta nella
teologia eucaristica occasionata dalla reazione alle teorie di Berengario di Tours. Il problema su
cui si concentra quasi esclusivamente la riflessione cristiana è quello della presenza reale di
Cristo nell’Eucaristia, che a tratti sconfina nell’affermazione di una presenza fisica e quasi
materiale [9]. Dal Belgio è partita la grande ondata di fervore eucaristico che contagerà in breve
l’intera cristianità e, nel 1264, porterà all’istituzione della festa del Corpus Domini da parte del
papa Urbano IV.
Si accresce il senso di rispetto dell’Eucaristia e, parallelamente, aumenta il senso di indegnità
dei fedeli di accostarsi ad essa, a causa anche delle condizioni quasi impraticabili poste per
ricevere la comunione (digiuno, penitenze, confessione, astensione dai rapporti coniugali). La
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Adoro te devote
comunione da parte del popolo è diventata un fatto tanto raro che il concilio Lateranense IV nel
1215, deve stabilire l’obbligo di comunicarsi almeno a Pasqua. Ma l’Eucaristia continua ad
attirare irresistibilmente le anime e così a poco a poco, alla mancanza del contatto manducativo
della comunione si rimedia sviluppando il contatto visivo della contemplazione. (Notiamo che in
Oriente, per le stesse ragioni, ai laici viene sottratto anche il contatto visivo perché il rito
centrale della Messa si svolge dietro una cortina che poi diventerà il muro delle iconostasi).
L’elevazione dell’ostia e del calice al momento della consacrazione, prima ignoto (la prima
testimonianza scritta della sua istituzione è del 1196), diventa per i laici il momento più
importante della Messa, in cui sfogano i loro sentimenti di devozione e sperano di ricevere
grazie. Si suonano in quel momento le campane per avvertire gli assenti e alcuni corrono da
una Messa all’altra per assistere a diverse elevazioni. Molti inni eucaristici, tra cui l’Ave verum,
nascono per accompagnare questo momento; sono inni per l’elevazione. Ad essi appartiene
anche il nostro Adoro te devote. Dall’inizio alla fine il suo linguaggio è quello del vedere,
contemplare: te contemplans, non intueor, nunc aspicio, visu sim beatus.
Noi non abbiamo più la stessa concezione dell’Eucaristia; da tempo la comunione è divenuta
parte integrante della partecipazione alla Messa; le conquiste della teologia (movimento biblico,
liturgico, ecumenico) confluite nel concilio Vaticano II e nella riforma liturgica hanno rimesso in
valore, accanto alla fede nella presenza reale, altri aspetti dell’Eucaristia, il banchetto, il
sacrificio, il memoriale, la dimensione comunitaria ed ecclesiale…
Si potrebbe pensare che in questo nuovo clima non ci sia più posto per l’Adoro te devote e le
pratiche eucaristiche nate quel periodo. Invece è proprio adesso che essi ci sono più utili e
necessari per non perdere, a causa delle conquiste di oggi, quelle di ieri. Non possiamo ridurre
l’Eucaristia alla sola contemplazione della presenza reale nell’Ostia consacrata, ma sarebbe
anche una grave perdita rinunciare ad essa. Il papa non fa che raccomandarla fin dalla sua
prima lettera Il mistero e il culto della SS. Eucaristia, del giovedì santo 1980: “L’adorazione di
Cristo in questo sacramento d’amore deve trovare la sua espressione in diverse forme di
devozione eucaristica: preghiera personale davanti al Santissimo, ore di adorazione,
esposizioni brevi, prolungate, annuali... Gesù ci aspetta in questo sacramento dell’amore. Non
risparmiamo il nostro tempo per andare a incontrarlo nell’adorazione e nella contemplazione
piena di fede”.
I nostri fratelli ortodossi non condividono questo aspetto della pietà cattolica; qualcuno di loro fa
amabilmente notare che il pane è fatto per essere mangiato, non per essere guardato. Altri,
anche tra i cattolici, fanno presente che la pratica si è sviluppata in un tempo di grave
offuscamento della vita liturgica e sacramentaria.
A favore però della bontà della contemplazione eucaristica non stanno particolari spiegazioni
teologiche e teoriche, ma sta l’imponente testimonianza dei fatti, letteralmente “una nube di
testimoni”. Una abbastanza recente è quella di Charles de Foucauld che ha fatto
dell’adorazione dell’Eucaristia uno dei punti forza della sua spiritualità e di quella dei suoi
seguaci. Innumerevoli anime hanno raggiunto la santità praticandola ed è dimostrato il
contributo decisivo che essa ha dato all’esperienza mistica [10]. L’Eucaristia, dentro e fuori della
Messa, è stata per la Chiesa cattolica quello che nella famiglia era fino a poco fa il focolare
domestico durante l’inverno: il luogo intorno a cui la famiglia ritrovava la propria unità e intimità,
il centro ideale di tutto.
Questo non vuol dire che non vi siano anche ragioni teologiche alla base della contemplazione
eucaristica. La prima è quella che scaturisce dalla parola di Cristo: “Fate questo in memoria di
me”. Nell’idea di memoriale c’è un aspetto oggettivo e sacramentale che consiste nel ripetere il
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rito compiuto da Cristo che ricorda e rende presente il suo sacrificio. Ma c’è anche un aspetto
soggettivo ed esistenziale che consiste nel coltivare il ricordo di Cristo, “nell’avere
costantemente nella memoria pensieri che riguardano Cristo e il suo amore”[11].
Questa “dolce memoria di Gesú” (Jesu dulcis memoria) non è limitata al tempo che uno passa
davanti al tabernacolo; la si può coltivare con altri mezzi, come la contemplazione delle icone;
ma è certo che l’adorazione davanti al Santissimo è un mezzo privilegiato per farlo. I due aspetti
del memoriale - celebrazione e contemplazione dell’Eucaristia -, non si escludono a vicenda,
ma si integrano. La contemplazione infatti è il mezzo con cui noi “riceviamo”, in senso forte, i
misteri, con cui li interiorizziamo e ci apriamo alla loro azione; è il corrispettivo dei misteri sul
piano esistenziale e soggettivo; è un modo per permettere alla grazia, ricevuta nei sacramenti,
di plasmare il nostro universo interiore, cioè i pensieri, gli affetti, la volontà, la memoria.
C’è una grande affinità tra Eucaristia e Incarnazione. Nell’Incarnazione – dice sant’Agostino –
“Maria concepì il Verbo prima con la mente che con il corpo” (Prius concepit mente quam
corpore). Anzi, aggiunge, a nulla le sarebbe valso portare Cristo nel suo grembo, se non lo
avesse portato con amore anche nel suo cuore [12]. Anche il cristiano deve accogliere Cristo
nella sua mente, prima di accoglierlo e dopo averlo accolto nel suo corpo. E accogliere Cristo
nella mente significa, concretamente, pensare lui, avere lo sguardo rivolto su di lui, fare
memoria di lui, contemplando il segno che egli stesso ha scelto per rimanere tra noi.
Oblio di tutto
Te contemplans, contemplando te, dice il nostro inno. Cosa racchiude quel pronome “te”?
Certamente il Cristo realmente presente nell’ostia, ma non una presenza statica e inerte; indica
tutto il mistero di Cristo, la persona e l’opera; è un riascoltare silenziosamente il vangelo o una
sua frase in presenza dell’autore stesso del vangelo che da alla parola una forza e
immediatezza particolari.
Ma questo non è ancora il vertice della contemplazione. I grandi maestri di spirito hanno definito
la contemplazione: “Uno sguardo libero, penetrante e immobile” (Ugo di San Vittore), oppure:
“Uno sguardo affettivo su Dio” (san Bonaventura). Fare contemplazione eucaristica significa
dunque, concretamente, stabilire un contatto da cuore a cuore con Gesù presente realmente
nell’Ostia e, attraverso lui, elevarsi al Padre nello Spirito Santo. Nella meditazione prevale la
ricerca della verità, nella contemplazione, invece, il godimento della Verità trovata. La
contemplazione tende sempre alla persona, al tutto e non alle parti. Contemplazione eucaristica
è guardare uno che mi guarda.
Questo stadio di contemplazione è quello descritto dall’autore dell’Adoro te devote quando
afferma: te contemplans totum deficit, contemplando te tutto vien meno. Queste sono parole
nate certamente dall’esperienza. “Tutto vien meno”, cioè che cosa? Non solo il mondo esterno,
le persone, le cose, ma anche il mondo interno dei pensieri, delle immagini, delle
preoccupazioni. “Oblio di tutto fuorché di Dio”, scriveva Pascal descrivendo un’esperienza
simile a questa. E Francesco d’Assisi ammoniva i suoi frati: “Gran miseria sarebbe, e
miserevole male se, avendo Lui così presente, vi curaste di qualunque altra cosa che fosse
nell’universo intero!”[13].
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Adoro te devote
Intorno alla stessa data in cui veniva composto il nostro inno, cioè alla fine del secolo XIII,
Ruggero Bacone, un altro grande innamorato dell’Eucaristia, scriveva queste parole che
sembrano un commento alla prima strofa dell’Adoro te devote e una conferma dell’esperienza
che da essa traspare: “Se la maestà divina si fosse manifestata sensibilmente, non avremmo
potuto sostenerla e saremmo venuti meno (deficeremus!) del tutto per la riverenza, la
devozione e lo stupore…L’esperienza lo dimostra. Quelli che si esercitano nella fede e
nell’amore di questo sacramento non riescono a sopportare la devozione che nasce da una
pura fede, senza sciogliersi in lacrime e senza che la loro anima, uscendo da se stessa, si
liquefaccia per la dolcezza della devozione, al punto di non sapere più dove si trova e
perché”[14].
La contemplazione eucaristica è tutt’altro che un indulgere al quietismo. È stato notato come
l’uomo rifletta in sé, a volte anche fisicamente, ciò che contempla. Non si sta a lungo esposti al
sole senza portarne le tracce sul viso. Stando a lungo e con fede, non necessariamente con
fervore sensibile, davanti al Santissimo noi assimiliamo i pensieri e i sentimenti di Cristo, per via
non discorsiva ma intuitiva; quasi “ex opere operato”.
Avviene come nel processo di fotosintesi delle piante. In primavera spuntano dai rami le foglie
verdi; queste assorbono dall’atmosfera certi elementi che, sotto l’azione della luce solare,
vengono “fissati” e trasformati in nutrimento della pianta. Noi dobbiamo essere come quelle
foglie verdi! Esse sono un simbolo delle anime eucaristiche le quali, contemplando il “sole di
giustizia” che è Cristo, “fissano” il nutrimento che è lo Spirito Santo stesso, a beneficio di tutto il
grande albero che è la Chiesa. In altre parole, è ciò che dice anche l’apostolo Paolo: “Noi tutti, a
viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in
quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor
3, 18).
Se ora però, da questi squarci di luce che l’autore dell’inno ci ha fatto intravedere ritorniamo con
il pensiero alla nostra realtà e al nostro povero modo di stare davanti all’Eucaristia rischiamo di
sentirci avviliti e scoraggiati. Sarebbe del tutto sbagliato. È già un incoraggiamento e una
consolazione sapere che queste esperienze sono possibili; che quello che noi stessi abbiamo
forse sperimentato nei momenti di maggior fervore della nostra vita e poi smarrito, può
riaccendersi, grazie anche all’anno eucaristico che ci è dato di vivere.
L’unica cosa che lo Spirito Santo richiede da noi è solo di dargli il nostro tempo, anche se
all’inizio esso dovesse sembrare tempo perso. Io non dimenticherò mai la lezione che un giorno
mi fu data a questo riguardo. Dicevo a Dio: “Signore, dammi il fervore e io ti darò tutto il tempo
che vuoi per la preghiera”. Nel mio cuore trovai la risposta: “Raniero, dammi il tuo tempo e io ti
darò tutto il fervore che vuoi nella preghiera”. L’ho ricordato nel caso possa servire a qualcun
altro, oltre che a me.
NOTE
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riferita a Cristo. In favore di “latens Deitas” sta il parallelismo con “latens humanitas” della terza
strofa e anche la possibile allusione a Is 45,15: “vere tu es Deus absconditus”.
[3] Cfr. de Lubac, op. cit., p. 287.
[4] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Commento al vangelo di Giovanni, VI, lez. 6, n. 954: “La manna
prefigurava soltanto, mentre questo pane contiene quello che raffigura” (continet quod figurat).
[5] S. Agostino, In Ps. 98,9 (PL 37, 1264).
[6] G. Tersteegen, Geistliches Blumengärtlein 11, Stuttgart 1969, p.340 s.:
"Gott ist gegenwärtig; laßet uns anbeten,
Und in Ehrfurcht vor ihn treten!
Gott ist in der Mitte; alles in uns schweige
Und sich innigst vor ihm beuge!“
[7] Cfr. J. Charillon, art. Devotio, in Dict. Spir. 3, col. 715.
[8] S. Tommaso, S. Th. II, IIae, q.82 a.1-2, cf. J.W. Curran, art. Dévotion, Fondement
théologique, in Dict. Spir. III, coll. 716 ss.
[9] La prima formula di fede fatta sottoscrivere a Berengario sosteneva che, nella comunione, il
corpo e il sangue di Cristo fossero presenti sull’altare “sensibilmente e venissero in verità
toccati, e spezzati dalle mani del sacerdote e masticati dai denti dei fedeli”: Denzinger -
Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, 690. S.Tommaso d’Aquino corregge questa
affermazione, dicendo che il corpo di Cristo “non viene spezzato, né infranto, né diviso da colui
che lo riceve”: cfr. S. Th. III, q. LXXVII, a.7.
[10] Cfr. E. Longpré, Eucharistie et expérience mystique, in Dict. Spir. IV, coll.1586-1621.
[11] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI,4 (PG 150,653).
[12] Cf Agostino, Sulla santa verginità, 3 (PL 40, 398).
[13] S. Francesco, Lettera a tutti i frati, 2 (FF 220).
[14] Ruggero Bacone, De sacramento altaris, in Moralis philosophia, ed. E. Massa, Zurigo 1953,
pp. 231 s.
Cappella “Redemptoris Mater” del Palazzo Apostolico, Prima predica di Avvento, 3 dicembre
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nome) è certo che l’inno si colloca nel solco del suo pensiero e della sua spiritualità.
Il testo rimase pressoché sconosciuto per oltre due secoli e tale avrebbe forse continuato ad
essere, se san Pio V non l’avesse inserito tra le preghiere di preparazione e di ringraziamento
alla Messa stampate nel Messale da lui riformato del 1570. Da quella data l’inno si è imposto
alla Chiesa universale come una delle preghiere eucaristiche più amate dal clero e dal popolo
cristiano. Il nuovo Rituale Romano, edito per ordine di Paolo VI, lo ha accolto secondo il testo
critico stabilito dal Wilmart tra i testi per il culto eucaristico fuori della Messa [1].
L’abbandono del latino rischia oggi di ricacciarlo nell’oblio a cui lo sottrasse san Pio V; per
questo è auspicabile che l’anno dell’Eucaristia contribuisca a rimetterlo in onore. Esistono di
esso versioni metriche nelle principali lingue; una, in inglese, ad opera del grande poeta gesuita
Gerard Manley Hopkins.
Pregare con le parole dell’Adoro te devote significa per noi oggi inserirci nell’onda calda della
pietà eucaristica delle generazioni che ci hanno precedute, dei tanti santi che l’hanno cantato.
Significa forse rivivere emozioni e ricordi che noi stessi abbiamo provato nel cantarlo in certi
momenti di grazia della nostra vita.
L’unica osservazione circa il testo critico della seconda strofa dell’Adoro te devote riguarda
l’ultimo verso. Così com’è, sia nel canto che nella recitazione, si è costretti dalla metrica a
spezzare in due la parola veritatis (veri - tatis), per cui sembra da preferire la variante che
cambia l’ordine delle parole e legge Nil hoc veritatis verbo verius [2].
Non è che i sensi della vista, del tatto e del gusto, per se stessi, si ingannino circa le specie
eucaristiche, ma siamo noi che possiamo ingannarci nell’interpretare quello che essi ci dicono,
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se non crediamo. Non si ingannano, perché l’oggetto proprio dei sensi sono le apparenze - ciò
che si vede, si tocca e si gusta- e le apparenze sono realmente quelle del pane e del vino. “In
questo sacramento, scrive san Tommaso, non c’è alcun inganno. Gli accidenti infatti che sono
percepiti dai sensi ci sono veramente, mentre l’intelletto che ha per oggetto la sostanza delle
cose viene preservato dal cadere in inganno dalla fede” [3].
La frase “all’udito solo è sicuro credere, auditu solo tuto créditur ”, si rifà all’affermazione di
Romani 10,17 che nella Volgata suonava: “ Fides ex auditu , la fede viene dall’ascolto. Qui però
non si tratta dell’ascolto della parola di Dio in genere, ma dell’ascolto di una parola precisa
pronunciata da colui che è la stessa verità. Per questo mi sembra importante mantenere,
nell’ultimo verso, l’aggettivo dimostrativo “questa parola”( hoc verbo ).
È chiaro di quale parola si tratta: della parola dell’istituzione che il sacerdote ripete nella Messa:
“Questo è il mio corpo” ( Hoc est corpus meum); “Questo è il calice del mio sangue” ( Hic est
calix sanguinis mei ). La stessa parola con cui, secondo l’autore del Pange lingua, “il Verbo fatto
carne trasforma il pane nella sua carne” ( verbo carnem éfficit).
Un passo della Somma di san Tommaso che il nostro inno sembra aver semplicemente messo
in poesia dice: “Che il vero corpo e sangue di Cristo è presente in questo sacramento, è
qualcosa che non si può percepire né con i sensi né con l’intelletto, ma con la sola fede, la
quale si appoggia alla autorità di Dio. Per questo, commentando il passo di san Luca 22,19:
Questo è il mio corpo che viene dato per voi, Cirillo dice: Non mettere in dubbio se questo sia
vero, ma piuttosto accetta con fede le parole del Salvatore: perché essendo egli la verità, non
mentisce “ [4].
Su questa parola di Cristo si è basata la Chiesa nello spiegare l’Eucaristia; essa è la roccia
della nostra fede nella presenza reale. “Anche se i sensi ti suggeriscono il contrario, diceva lo
stesso san Cirillo di Gerusalemme, la fede deve farti certo. Non devi, in questo caso, giudicare
secondo il gusto, ma lasciarti guidare unicamente dalla fede” [5].
Sant’Ambrogio è tra i Padri latini colui che ha scritto le cose più penetranti sulla natura di questa
parola di Cristo: “Quando si arriva al momento di realizzare il venerabile sacramento, il
sacerdote non usa più parole sue, ma di Cristo. È dunque la parola che opera ( conficit) il
sacramento...Il Signore comandò e furono fatti i cieli…, comandò e tutto cominciò ad esistere.
Vedi quanto è efficace (operatorius) il parlare di Cristo? Prima della consacrazione non c’era il
corpo di Cristo, ma dopo la consacrazione, io ti dico che c’è ormai il corpo di Cristo. Egli ha
detto ed è stato fatto, ha comandato ed è stato creato (cfr. Sal 33, 9)”[6].
Il santo dottore dice che la parola “Questo è il mio corpo” è una parola “operativa”, efficace. La
differenza tra una proposizione speculativa o teorica (per esempio, “l’uomo è un animale
razionale”), e una proposizione operativa o pratica (per esempio: fiat lux, sia la luce) è che la
prima contempla la cosa come già esistente, mentre la seconda la fa esistere, la chiama
all’essere.
Se c’è qualcosa da aggiungere alla spiegazione di sant’Ambrogio e alle parole del nostro inno,
è che quella “forza operativa” esercitata dalla parola di Cristo è dovuta allo Spirito Santo. Era lo
Spirito Santo che rendeva efficaci e “operative” le parole pronunciate in vita da Cristo, come
dichiara in un caso lui stesso ai suoi nemici (cfr. Mt 12, 28). Fu nello Spirito Santo, dice la
lettera agli Ebrei, che Gesù “offrì se stesso a Dio” nella sua passione (cfr. Eb 9,14) ed è nello
stesso Spirito Santo perciò che egli rinnova sacramentalmente questa offerta nella Messa.
In tutta la Bibbia si nota una meravigliosa sinergia tra la parola di Dio, la dabar, e il soffio, la
ruach, che la vivifica e la porta: “Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua
bocca ogni loro schiera” (Sal 33,6); “La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento,
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con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio” (Is 11,4). Come si può pensare che questa mutua
compenetrazione si sia interrotta propria nel momento culminante della storia della salvezza?
Questa fu, all’inizio, una convinzione comune sia ai Padri latini che ai Padri greci.
All’affermazione di san Gregorio Nisseno: “È la santificazione dello Spirito Santo che conferisce
al pane e al calice l’energia che li rende corpo e sangue di Cristo” [7], fa eco, in occidente,
quella di sant’Agostino: “Il dono non è santificato in modo da divenire questo grande
sacramento se non per l’operazione dello Spirito di Dio” [8].
Fu il deteriorarsi dei rapporti tra le due Chiese che portò a irrigidire ognuno la propria posizione
e a fare, anche di questo, un punto di contesa. Per opporsi a chi sosteneva che “soltanto per la
virtù dello Spirito Santo il pane si converte nel corpo di Cristo”, i latini, basandosi sull’autorità di
sant’Ambrogio, finirono per insistere esclusivamente sulle parole della consacrazione [9].
Da quando si è rinunciato al tentativo indebito di determinare “l’istante preciso” in cui avviene la
conversione delle specie e si considera più giustamente l’insieme del rito e l’intenzione della
Chiesa nel compierlo c’è stato un riavvicinamento tra Ortodossia e Chiesa cattolica anche su
questo punto e ognuna riconosce la validità dell’Eucaristia dell’altra. Parole dell’istituzione e
invocazione dello Spirito, insieme, operano il prodigio.
Transustanziazione e transignificazione
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Passiamo ora alla risposta che l’autore dell’inno ci invita a gridare con lui alla verità enunciata.
Essa è condensata in una parola: Credo! Credo quidquid dixit Dei Filius . Al termine della
consacrazione del calice (nel vecchio Canone romano, addirittura nel mezzo di essa) risuona
l’esclamazione: Mysterium fidei ! Mistero della fede!
La fede è necessaria perché la presenza di Gesù nell’Eucaristia sia, non soltanto “reale”, ma
anche “personale”, cioè da persona a persona. Altro è infatti “esserci” e altro “essere presente”.
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Senza la fede Cristo è nell’Eucaristia, ma non c’è per me. La presenza suppone uno che è
presente e uno al quale è presente; suppone comunicazione reciproca, lo scambio tra due
soggetti liberi, che si accorgono l’uno dell’altro. È molto di più, quindi, che non il semplice
essere in un certo luogo. Già al tempo in cui Gesù era presente fisicamente sulla terra,
occorreva la fede; altrimenti – come ripete tante volte egli stesso nel Vangelo – la sua presenza
non serviva a niente, se non a condanna: “Guai a te Gorozaim, guai a te Cafarnao!”.
“Tutti coloro che videro il Signore Gesù Cristo secondo l’umanità, ammoniva Francesco
d’Assisi, e non videro né credettero, secondo lo Spirito e la divinità, che Egli è il vero Figlio di
Dio, sono condannati; e così ora tutti quelli che vedono il sacramento del corpo di Cristo, che
viene consacrato per mezzo delle parole del Signore sopra l’altare per le mani del sacerdote
sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono secondo lo spirito e la divinità,
che sia veramente il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono
condannati” [15]. “Non spalancare la bocca, ma il cuore, diceva sant’Agostino. Non ci nutre ciò
che vediamo, ma ciò che crediamo” [16].
Ma che significa esattamente l’esclamazione Mysterium fidei nella Messa? Non soltanto quello
che mistero sta a indicare nel linguaggio corrente e cioè una verità inaccessibile alla ragione
umana e conoscibile soltanto per rivelazione (mistero della Trinità, mistero dell’incarnazione);
non indica solo qualcosa che non si può comprendere, ma anche “ciò che non si finisce mai di
comprendere”.
Con l’espressione “Mistero della fede”, all’origine si volle probabilmente affermare che
“l’Eucaristia contiene e disvela tutta l’economia della redenzione” [17]. Attualizza tutto il mistero
cristiano. “Ogni volta che si celebra il memoriale di questo sacrificio – dice una preghiera del
Sacramentario gelasiano ancora oggi in uso – si compie l’opera della nostra redenzione” [18].
“Quando il sacerdote proclama “Mistero della fede!”, i presenti, fa notare il Giovanni Paolo II
nella sua enciclica, rispondono evocando l’essenziale di tutta la storia della salvezza:
‘Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua
venuta” [19].
Non solo l’intera storia della salvezza è presente nell’Eucaristia, ma anche tutta la Trinità che ne
è l’artefice; non solo quello che i Padri chiamavano la oikonomia, ma anche quello che
chiamavano la theologia. Il Padre tanto amò il mondo da dare il suo Unigenito per salvarli; il
Figlio ha tanto amato gli uomini da dare per essi la sua vita; Padre e Figlio hanno voluto unire
così intimamente a sé gli uomini da infondere in essi lo Spirito Santo, perché la loro stessa vita
dimorasse nei loro cuori. E la Messa è tutto questo!
Un frutto dell’anno eucaristico atteso dal papa, si diceva la volta scorsa, è ridestare lo stupore di
fronte al mistero eucaristico. “O mio Dio, questa cosa è troppo più grande di noi: sia chiaro che
sei tu l’unico responsabile di questa enormità”: così Paul Claudel esprime da poeta il suo
stupore di fronte all’Eucaristia [20].
Il pericolo più grave che corre l’Eucaristia è l’assuefazione, il darla per scontata e quindi
banalizzarla. Occorre che ogni tanto si riascolti anche tra noi il grido di Giovanni Battista: “In
mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!” (Gv 1, 26). Noi inorridiamo giustamente alle notizia
di tabernacoli violati, pissidi rubate per fini esecrandi. Forse di costoro Gesú ripete quello che
disse dei suoi crocifissori: “Non sanno quello che fanno”, ma ciò che più lo rattrista è forse la
freddezza dei suoi. Ad essi –cioè a noi- egli ripete le parole del salmo: “Se mi avesse insultato
un nemico, l'avrei sopportato…; ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente” (Sal 54,
13-14). Nelle rivelazioni a santa Margherita Maria Alacoque Gesú non si lamentava tanto dei
peccati degli atei del tempo, quanto della indifferenza e freddezza delle anime a lui consacrate.
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Adoro te devote
Il Signore si è servito di una donna non credente per farmi capire cosa dovrebbe provare uno
che prendesse l’Eucaristia sul serio. Le avevo dato da leggere un libro su questo argomento,
vedendola interessata al problema religioso, anche se atea. Dopo una settimana, me lo restituì
dicendomi: “Lei non mi ha messo tra le mani un libro, ma una bomba…Ma si rende conto della
enormità della cosa? Stando a quello che c’è scritto qui dentro, basterebbe aprire gli occhi per
scoprire che c’è tutto un altro mondo intorno a noi; che il sangue di un uomo morto duemila anni
fa ci salva tutti. Lo sa che nel leggerlo mi tremavano le gambe e dovevo ogni tanto smettere di
leggere e alzarmi? Se questo è vero, cambia tutto”.
Insieme con la gioia di vedere che il seme non era stato gettato invano, nell’ascoltarla provavo
un grande senso di umiliazione e di vergogna. Io avevo ricevuto la comunione pochi minuti
prima, ma non mi tremavano le gambe. Non aveva tutti i torti quell’ateo che disse un giorno a
un amico credente: “Se io potessi credere che in quell’ostia c’è veramente il Figlio di Dio, come
dite voi, penso che cadrei in ginocchio e non mi rialzerei mai più”.
La strofa dell’Adoro te devote che abbiamo commentato in questa meditazione richiama da
vicino quella del Pange lingua che dice:
Cantiamola insieme in latino, cercando di esprimere con essa la nostra fede e il nostro stupore
eucaristico:
NOTE
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Adoro te devote
[1] Rituale Romanum . De sacra communione et cultu Mysterii Eucharistici extra Missam, Typis
Polyglottis Vaticanis 1973, pp. 61 s.
[2] Wilmart, La tradition littéraire et textuelle de “l’Adoro te devote” , in Recherches de Théologie
ancienne et médiévale, 1, 1929, p. 159, legge “ nichil veritatis verbo verius ”; io credo che, con
la maggioranza dei manoscritti, va mantenuto l’aggettivo “questo” (hoc verbo) per il motivo che
spiegherò più avanti.
[3] S. Th. III, q. 75, a. 5, ad 2.
[4] S. Th. , IIIª, q. 75, a. 1.
[5] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche , IV, 2.6.
[6] S. Ambrogio, De sacramentis , IV, 14-15.
[7] S. Gregorio Nisseno, ….(PG 33, 1113. 1124).
[8] S. Agostino, De Trinitate , III, 4,10 (PL, 42, 874).
[9] Cf. S. Tommaso d’Aquino, S.Th, , III, q. LXXVIII, a.4: la frase citata è attribuita al
Damasceno.
[10] Denzinger - Schönmetzer, n. 1652.
[11] J.M. Powers, Teologia eucaristica, Brescia 1969, p.220.
[12] Mysterium fidei , 47.
[13] G.B. Card. Montini, Pane celeste e vita sociale , in “Rivista diocesana milanese, 1959, pp.
428 ss, riprodotto in Il Gesú di Paolo VI, a cura di v. Levi, Milano, Mondadori 1985, p.189.
[14] Cfr., per esempio, J.-M. R. Tillard, in Eucharistia. Encyclopédie de l’Eucharistie , a cura di
M. Brouard, du Cerf, Parigi 2002, pp. 407
[15] S. Francesco, Ammonizioni , I (FF, 142).
[16] S. Agostino, Sermo 112, 5 (PL 38, 645)
[17] Cfr. M. Righetti, Storia liturgica , III, Milano 1966, p. 396 (la spiegazione è di B. Botte).
[18] Vedi orazione della II Domenica del tempo ordinario.
[19] Enc. Ecclesia de Eucaristia , 5.
[20] P. Claudel, Hymne du Saint Sacrement, in Oeuvre poétique complète, Parigi 1967, p. 402 :
«Soyez tout seul, mon Dieu, car pour moi ce n’est pas mon affaire, responsable de cette
énormité».
Una laude di Jacopone da Todi, composta intorno all’anno 1300, contiene una chiara allusione
alla seconda strofa dell’Adoro te devote che abbiamo commentato la volta scorsa: “Visus,
tactus gustus…”. In essa Jacopone immagina una specie di contesa tra i diversi sensi umani a
proposito dell’Eucaristia: tre di essi (la vista, il tatto e il gusto) dicono che è solo pane, “solo
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l’udito” si oppone, assicurando che “sotto queste visibili forme c’è nascosto Cristo” [1].
Se ciò non basta ad affermare che l’inno è di san Tommaso d’Aquino, mostra però che esso è
più antico di quanto si pensava finora e, almeno per la data, non è incompatibile con una
attribuzione al Dottore angelico. Se Jacopone può alludere ad esso come a testo noto doveva
essere stato composto almeno una ventina d’anni prima e godere già una certa popolarità.
Veniamo ora alla terza strofa dell’inno che ci accompagnerà in questa meditazione:
Si avvicina ormai il Natale. Una certa tendenza romantica ha finito per fare del Natale una festa
tutta umana della maternità e dell’infanzia, dei doni e dei buoni sentimenti. Nella galleria
Tetriakov di Mosca il quadro della Vergine della Tenerezza di Vladimir che stringe a sé Gesú
Bambino, durante il regime comunista portava la didascalia: “Maternità”. Ma gli esperti sanno
cosa significa in quell’immagine lo sguardo preoccupato e venato di tristezza della Madre che
sembra quasi voler proteggere il bambino da un pericolo incombente: esso annuncia la
passione del Figlio che Simeone le ha fatto intravedere nella presentazione al tempio.
L’arte cristiana ha espresso in mille modi questo legame tra la nascita e la morte di Cristo. In
alcuni quadri di pittori celebri Gesú bambino dorme sulle ginocchia della Madre o disteso su un
drappo, nella posizione esatta in cui viene di solito rappresentato nelle deposizioni dalla croce;
l’agnello legato che spesso si vede nelle rappresentazioni della Natività allude all’agnello
immolato. In un dipinto del ‘400, uno dei Magi offre in dono al Bambino un calice con dentro
delle monete, segno del prezzo del riscatto che egli è venuto a pagare per i peccati. (Il Bambino
è in atto di prendere una delle monete e porgerla a colui che gliele offre, segno che morirà
anche per lui!) [2].
Gli artisti hanno espresso in tal modo una profonda verità teologica. “Il Verbo si è fatto carne,
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scrive sant’Agostino, per poter morire per noi” [3]. Nasce per poter morire. Nei Vangeli stessi i
racconti dell’infanzia sono nati in un secondo tempo, come premessa ai racconti della passione.
Non ci distacchiamo dunque dal significato del Natale se, sulla scia di questa strofa dell’inno,
meditiamo sul rapporto tra l’Eucaristia e la croce. L’anno dell’Eucaristia ci aiuta a cogliere
l’aspetto più profondo del Natale. La vera e vivente memoria del Natale non è il presepio ma
proprio l’Eucaristia. “L'Eucaristia, scrive il papa nella Ecclesia de Eucharistia, mentre rinvia alla
passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l'Incarnazione. Maria
concepì nell'Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue,
anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che
riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore” [4].
Nella terza strofa dell’Adoro te devote l’autore si porta spiritualmente sul Calvario. In una strofa
successiva, quella che inizia con le parole “O memoriale mortis Domini”, egli contemplerà il
rapporto intrinseco e oggettivo tra l’Eucaristia e la croce, il rapporto, cioè, che esiste tra evento
e sacramento. Qui è espresso piuttosto il rapporto soggettivo tra quello che avvenne in coloro
che assistettero alla morte del Signore e quello che deve avvenire in chi assiste all’Eucaristia; il
rapporto tra chi visse l’evento e chi celebra il sacramento.
È un invito a farsi “contemporanei” dell’evento commemorato. Farsi contemporanei, nel senso
forte ed esistenziale del termine, significa non considerare la morte di Cristo alla luce del poi,
vuole dire prescindere, almeno per un momento, dall’alone di gloria che la risurrezione le ha
conferito e immedesimarsi con coloro che vissero in tutta la sua crudezza lo “scandalo” della
croce.
Tra tutti i personaggi presenti sul Calvario l’autore ne sceglie uno in particolare con cui
identificarsi, il buon ladrone. Un profondo e schietto sentimento di umiltà e contrizione pervade
tutta la strofa che chi canta è invitato a fare suo. Nello stile allusivo dell’inno l’intero episodio del
buon ladrone e tutte le parole da lui pronunciate sulla croce sono evocate dall’autore, non solo
la preghiera finale: “Gesú, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”.
Egli anzitutto rimprovera il compagno che insulta Gesú: “Neanche tu hai timore di Dio che sei
condannato alla stessa pena? Noi giustamente perché riceviamo il giusto per le nostre azioni,
egli invece non ha fatto nulla di male” (Lc 23, 40 s.). Il buon ladrone fa una completa
confessione di peccato. Il suo pentimento è della più pura qualità biblica. Il vero pentimento
consiste nell’accusare se stessi e scagionare Dio, attribuire a sé la responsabilità del male e
proclamare che “Dio è innocente”. La formula costante del pentimento nella Bibbia è: “Tu sei
giusto in tutto ciò che hai fatto, rette le tue vie e giusti i tuoi giudizi, noi abbiamo peccato” (cfr.
Dn 3, 28 ss; cf Dt 32, 4 ss).
“Egli non ha fatto alcun male”: il buon ladrone (o, in ogni caso, lo Spirito Santo che ha ispirato
queste parole) si mostra qui un eccellente teologo. Solo Dio infatti, se soffre soffre da
innocente; ogni altro essere che soffre deve dire: “Io soffro giustamente”, perché, anche se non
è responsabile dell’azione che gli viene imputata, non è mai del tutto senza colpa. Solo il dolore
dei bambini innocenti somiglia a quello di Dio e per questo esso è così misterioso e così
prezioso.
C’è una profonda analogia tra il buon ladrone e colui che si accosta con fede all’Eucaristia. Il
buon ladrone sulla croce vide un uomo, per giunta condannato a morte, e credette che era Dio,
riconoscendogli il potere di ricordarsi di lui nel suo Regno. Il cristiano è chiamato a fare un atto
di fede, da un certo punto di vista, ancora più difficile. “In cruce latébat sola déitas; at hic latet
simul et humánitas” : Sulla croce si celava la divinità, qui però si cela pur l’umanità.
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L’orante però non esita un istante; si eleva all’altezza della fede del buon ladrone e proclama di
credere sia la divinità che l’umanità di Cristo: “Ambo tamen credens atque cónfitens”: Entrambe
io credo e professo fermamente. Due verbi: credo, confiteor, credo e professo. Non si tratta di
una ripetizione. San Paolo ha illustrato la differenza tra credere e confessare: “Con il cuore si
crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”
(Rom 10,10).
Non basta credere nel segreto del cuore, bisogna anche professare pubblicamente la propria
fede. Al tempo in cui fu scritto il nostro inno la Chiesa aveva da poco istituito la festa del Corpus
Domini proprio con questo scopo. In fondo esisteva già il ricordo dell’istituzione dell’Eucaristia
nel Giovedì Santo; se viene istituita questa nuova festa non è tanto per commemorare l’evento
quanto per proclamare pubblicamente la propria fede nella presenza reale di Cristo
nell’Eucaristia. E difatti, con la solennità straordinaria che essa ha assunto e le manifestazioni
che l’hanno caratterizzata nella pietà cristiana (processione, infiorate…), la festa ha assolto
proprio questo compito [5].
La verità teologica centrale in questa strofa (ogni strofa, abbiamo notato, ne ha una) è che
nell’Eucaristia è realmente presente Cristo con la sua divinità e umanità, “in corpo, sangue,
anima e divinità”, secondo la formula tradizionale. Vale la pena soffermarsi un poco su questa
formula e i suoi presupposti, perché, a questo riguardo, la teologia biblica moderna ha portato
qualche novità di cui non si può non tener conto.
La teologia scolastica affermava che per le parole “Questo è il mio corpo” sull’altare si fa
presente in forza del sacramento (vi sacramenti) soltanto il corpo di Cristo -cioè la sua carne,
composta di ossa, nervi, eccetera -, mentre il suo sangue e la sua anima si fanno presenti solo
in forza del principio della “naturale concomitanza”, per cui dove c’è un corpo vivo lì c’è anche
necessariamente il suo sangue e la sua anima. Parallelamente, per le parole: “Questo è il mio
sangue”, in forza del sacramento si fa presente solo il sangue, mentre il corpo e l’anima ci sono
per naturale concomitanza [6].
Tutta questa problematica è dovuta al fatto che si prende “corpo” nel significato che ha
nell’antropologia greca, e cioè come quella parte dell’uomo che, unita all’anima e
all’intelligenza, forma l’uomo completo. Il progresso delle scienze bibliche ci ha, però, resi
avvertiti che nel linguaggio biblico, che è quello di Gesú e di Paolo, “corpo” non indica, come
per noi oggi, una terza parte dell’uomo, ma l’uomo intero in quanto vive in una dimensione
corporea.
Nei contesti eucaristici corpo ha lo stesso significato che ha in Giovanni la parola carne.
Sappiamo cosa significa per Giovanni dire che il Verbo si è fatto “carne”: non che si è fatto
“carne, ossa, nervi”, ma che si è fatto uomo. La conclusione liberante è che l’anima di Cristo
non è presente nell’Eucaristia solo per la naturale concomitanza con il corpo, quasi
indirettamente, ma anch’essa in forza del sacramento, direttamente, essendo inclusa in quello
che Gesú intendeva parlando del suo corpo.
Se si intende “corpo” alla maniera filosofica greca, diventa difficile confutare l’obbiezione: che
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bisogno c’era di consacrare a parte il sangue, dal momento che esso non è che una parte del
corpo, al pari delle ossa, dei nervi e degli altri organi? La risposta che si dava un tempo a
questa obbiezione era la seguente: “Perché nella passione di Cristo, di cui il sacramento è
memoriale, nessun’altra componente fu separata dal suo corpo se non il sangue” [7]. Ma può
ancora soddisfare una tale spiegazione?
La spiegazione, assai più semplice, è che il sangue, nella Bibbia, è la sede della vita e
l’effusione del sangue è perciò il segno eloquente della morte. La consacrazione del sangue si
spiega tenendo conto che i sacramenti sono segni sacri e Gesú ha scelto tale segno per
lasciarci un vivo “memoriale della sua passione”. Dire che l’Eucaristia è il sacramento del corpo
e del sangue di Cristo significa dire che è il sacramento della vita e della morte di Cristo, nella
loro realtà ontologica e nel loro svolgersi storico. Corpo, sangue e anima, tutto dunque, per
nostra consolazione, è presente nell’Eucaristia in forza delle stesse parole di Cristo, non per
qualche loro effetto collaterale.
Nel nostro inno tutta questa problematica è tenuta fortunatamente fuori e tutto si riduce
sobriamente alla presenza di umanità e divinità di Cristo nell’Eucaristia. La presenza della
divinità, sia nel corpo che nel sangue di Cristo, è assicurata dall’unione indissolubile (ipostatica,
in linguaggio teologico) realizzatasi tra il Verbo e l’umanità nell’incarnazione. Ne risulta che
l’Eucaristia non si spiega se non alla luce dell’incarnazione; ne è, per così dire, il prolungamento
in chiave sacramentale [8].
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discepoli a chiedere a Gesú: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt
11, 3).
Non ci dovrebbe sfuggire il dramma che si cela dietro questo episodio della vita del Precursore.
Egli è in carcere, tagliato fuori da tutto; sa che la sua vita è appesa a un filo; ma il buio esterno
è nulla in confronto al buio che si è fatto nel suo cuore. Non sa più se tutto quello per cui ha
vissuto è vero o falso. Ha additato il Rabbi di Nazareth come il Messia, come l’Agnello di Dio,
ha spinto il popolo e perfino i suoi discepoli ad unirsi a lui e ora il dubbio lancinante che tutto
questo possa essere stato un suo errore, che non sia lui l’atteso. Come è diverso questo
Giovanni Battista da quello delle domeniche precedenti in cui tuonava sulle rive del Giordano.
Ma come mai Gesú che si mostra così severo di fronte alla mancanza di fede della gente e
rimprovera i suoi discepoli di essere “uomini di poca fede”, si mostra, in questa circostanza, così
comprensivo nei confronti del suo Precursore? Non rifiuta di fornire i “segni” richiesti, come fa in
altri casi: “Andate riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete…”; usciti gli inviati, fa del Battista
il più grande elogio mai uscito dalla sua bocca: “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande
di Giovanni il Battista”. Aggiunge solo: “Beato, disse Gesú in quella circostanza, colui che non si
scandalizza di me” (Mt 11, 6). Sapeva quanto fosse facile “scandalizzarsi” di lui, della sua
apparente impotenza, dell’apparente smentita dei fatti.
Quella del Battista è una prova che si rinnova a ogni epoca. Vi sono state anime grandi che
hanno vissuto solo di fede e che, in una fase della vita, spesso proprio quella finale, sono
piombati nel buio più fitto, tormentati dal dubbio di aver fallito tutto e vissuto di inganno. Da un
vescovo suo amico ho appreso che un momento del genere attraversò prima di morire anche
Don Tonino Bello, l’indimenticato vescovo di Molfetta. In questi casi la fede c’è, e più robusta
che mai, ma nascosta in un angolo remoto dell’anima, dove solo Dio arriva a leggere.
Se Dio ha tanto glorificato Giovanni Battista vuol dire che nel buio egli non ha smesso mai di
credere nell’Agnello di Dio che un giorno aveva additato al mondo. Il testamento dell’apostolo
Paolo è anche il suo: “Ho consumato la corsa, ho conservato la fede” (2 Tm 4,7).
La fede è l’anello nuziale che unisce in alleanza Dio e l’uomo (non per nulla l’anello nuziale,
almeno in italiano, si chiama proprio così, la fede). Essa, dice la Prima Lettera di Pietro, al pari
dell’oro, deve purificarsi nel crogiolo (cf. 1 Pt 1, 7) e il crogiolo della fede è la sofferenza,
soprattutto la sofferenza causata dal dubbio e da quella che san Giovanni della Croce chiama la
notte oscura dello spirito. Stando alla dottrina cattolica del Purgatorio, tutto si può continuare a
purificare dopo morte - la speranza, la carità, l’umiltà…- , eccetto la fede. Essa può purificarsi
solo in questa vita, prima che dalla fede si passi alla visione, per questo la prova così spesso si
concentra quaggiù su di essa.
Non si tratta solo di alcune anime eccezionali. La stessa difficoltà che spinse il Battista a inviare
messi a Gesù è quella che impedisce ancora al popolo ebraico di riconoscere in Gesú di
Nazaret il Messia atteso. E non solo loro. La Seconda Lettera di Pietro ci riferisce la domanda
che serpeggiava a suo tempo tra i cristiani: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in
cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3, 4).
Anche oggi è questa la ragione che tiene più gente lontana dal credere nell’avvenuta
redenzione: “Tutto continua come prima!”.
Pietro suggerisce una spiegazione: Dio “usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno
perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3, 9). Ma più che da ragioni speculative
bisogna attingere dal proprio cuore la forza che fa trionfare la fede sul dubbio e lo scetticismo. È
nel cuore che lo Spirito Santo fa sentire al credente che Gesù è vivo e reale, in un modo che
non si può tradurre in ragionamenti, ma che nessun ragionamento è in grado di sopraffare.
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Basta una parola della Scrittura a volte a rinfocolare questa fede e rinnovare la certezza. Per
me questa settimana ha assolto questo compito l’oracolo di Balaam proclamato nella prima
lettura di lunedì scorso: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino. Una stella
spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Nm 24,17). Noi conosciamo quella stella,
sappiamo a chi appartiene quello scettro. Non per astratta deduzione, ma perché da duemila
anni la realizzazione della profezia è sotto i nostri occhi.
Ci apprestiamo a celebrare, come ogni anno, l’apparizione di quella stella. Abbiamo ricordato
all’inizio che l’Eucaristia è il vero presepio in cui è possibile adorare il Verbo di Dio non in
immagine, ma in realtà. Il segno più chiaro della continuità tra il mistero dell’incarnazione e il
mistero eucaristico è che con le stesse parole con cui, nell’Adoro te devote, salutiamo il Dio
nascosto sotto le apparenze del pane e del vino, possiamo, a Natale, salutare il Dio nascosto
sotto le apparenze di un bambino. Poniamoci dunque in spirito davanti a Gesú Bambino nel
presepio e cantiamo insieme la prima strofa del nostro inno, come se fosse stata scritta per lui:
NOTE
[1] Jacopone da Todi, Laude XLVI: “Li quattro sensi dicono: / Questo si è vero pane. /Solo
audito resistelo, / Ciascun de lor fuor remane. / So’ queste visibil forme / Cristo occultato ce
stane” [“I quattro sensi dicono: Questo non è che pane. Soltanto l’udito si oppone e li costringe
alla ritirata. Sotto queste forme visibili c’è nascosto Cristo”]. Cfr. F.J.E. Raby, The Date and
Authorship of the Poem Adoro te devote, in “Speculum”, 20, 1945, pp. 236-238. Il testo
confermerebbe la lezione “quae sub his formis”, al posto di “quae sub his figuris”, nella prima
strofa.
[2] I dipinti con questo tema hanno costituito una sezione della mostra intitolata “ La salvezza in
immagini” (“Seeing Salvation”) tenuta a Londra nell’anno 2000 e riprodotta in parte nel catalogo
della mostra: cfr. The Images of Christ, Londra 2000, pp. 62-73.
[3] S. Agostino, Sermo 23°, 3 (CCL 41, 322); lo stesso afferma Gregorio di Nissa, Or. cat., 32
(PG 45, 80).
[4] Ecclesia de Eucharistia, 55
[5] Cfr. M. Righetti, Storia liturgica, II, Milano 1969, pp.329-339
[6] Cfr. S.Th. III, q. 76, a. 1. Il principio della naturale concomitanza è ripreso dal concilio di
Trento (Denzinger - Schönmetzer, 1640) che però in questo punto non fa che citare san
Tommaso, senza dare a questa spiegazione valore dommatico.
[7] S. Th. III, q.76. a.2,ad 2.
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[8] È il punto su cui basa tutta la sua trattazione dell’Eucaristia M.J. Scheeben, I misteri del
cristianesimo, cap. 6, Morcelliana, Brescia 1960, pp. 458- 526.
[9] S. Agostino, In Ioh. , 26, 2 (PL 35, 1077).
Cappella “Redemptoris Mater” del Palazzo Apostolico, Terza predica di Avvento, 17 dicembre
2004
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