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dimenticare che compì i suoi studi musicali tra il 1890 e il 1902, vale a dire in un periodo
infinitamente problematico e caotico. L’astro wagneriano era allora più che mai potente, ed
esercitava la sua orgogliosa autocrazia sui tre quarti del mondo. È alquanto probabile che un
giorno si scopra qualche analogia tra le rivoluzioni compiute dal genio di Michelangelo e quello di
Wagner. In ogni caso, è fin d’oggi evidente che Wagner è stato il principale responsabile di questa
profonda e dolorosa crisi del teatro musicale, da cui cominciamo faticosamente ad uscirne oggi.
Ma dobbiamo a lui anche un’altra crisi, non meno grave: quella che ha attraversato l’armonia dal
Parsifal fino ai nostri giorni. La retorica verticale è in effetti il male essenziale che affligge tutta la
musica di quel periodo, e che doveva condurre per conseguenza finale al fenomeno Schönberg
(atonalità assoluta). Esiste oggi in Francia come in Italia un’intera generazione di giovani
musicisti che può considerare la musica puramente atonale, così come i giovani pittori attualmente
contemplano il defunto “cubismo”.
Tuttavia, se il buon senso latino ha preservato talune dagli eccessi armonici viennesi (le quali, oltre
tutto, erano necessarie e salutari in vista del chiarimento conclusivo), è però necessario ammettere
che nessun musicista europeo, durante il periodo compreso tra il 1880 ed il 1920, ha potuto
ignorare il grande “incubo armonico”, e che l’arricchimento febbrile dell’armonia è stata la
principale preoccupazione tecnica di tali musicisti.
Ravel non poteva dunque sottrarsi alla legge del suo tempo. E possiamo constatare, in effetti, che la
sua musica è caratterizzata da un’armonia raffinata, da una preziosità del tutto particolare e, nello
stesso tempo, da una perfeziona assoluta.
È necessario adesso capire quali siano le origini più o meno dirette di questa armonia ed in seguito
in cosa questa consista essenzialmente.
come nel meraviglioso Quartetto per archi (1902-03), dove troviamo i primi impieghi non equivoci
dell’undicesima armonica
Il primo ha fornito a Ravel delle notevoli possibilità, come nel seguente passaggio:
(Daphnis et Chloé)
Il secondo, con i suoi conseguenti, forma la base di una grande quantità di esempi preziosi, dei
quali citerò solo il seguente:
l’utilizzo di questo accordo riavvicini per un istante Ravel a Puccini, o viceversa. Puro caso, senza
dubbio, ma divertente data la diversità tra i due musicisti.
Ravel usa abbastanza frequentemente, al di fuori delle scale maggiori e minori tradizionali, le scale
greche, la dorica, l’ipodorica e talvolta anche la frigia. Questo significa che si riavvicina a
Debussy, probabilmente perché, così come l’autore di Pelléas, ha in precedenza subito l’influenza
russo-bizantina. Ma la sua polimodalità presenta una differenza essenziale con quella di Debussy
in quanto non impiega mai la scala esatonale per toni interi, ciò che distingue nettamente Ravel
non solo da Debussy, ma anche da d’Indy e da Dukas, musicisti che hanno sfruttato a pieno questa
scala ritenuta un tempo tanto ricca, e che poi si è rivelata così povera…
Quanto detto finora può bastare a dimostrare il profondo classicismo di questo linguaggio, che era
sembrato in un primo momento così rivoluzionario. L’armonia di Ravel è profondamente
tradizionale nelle sue radici. Non contiene nessuna velleità atonale. Non raggiunge neppure la
politonalità. Possiede un’ascendenza che ci è risultata facile da dimostrare. Lungi dall’essere un
pericoloso ed empirico salto nel vuoto, la forza di questa musica sta nel fatto di essere uno
splendido arricchimento, una stupefacente “variazione” ornamentale, portata da un artista geniale
e da un prestigioso tecnico all’edificio della grande tradizione.
Guardate queste battute, oggetto di molte discussioni in passato:
A proposito di Ravel non ho parlato di evoluzione armonica. Bisogna dire che questo musicista, fin
dall’uscita dai banchi di scuola, è in possesso di una tecnica miracolosamente perfetta che, come
per Bach, Mozart e Chopin, traccia necessariamente dei limiti alle possibilità di evoluzione…
Comunque, sarebbe profondamente sbagliato credere che quest’arte così raffinata e sottile non si
sia sufficientemente rinnovata. E si vede in effetti l’armonia cominciata con Jeux d’eau (1901),
raggiungere poco a poco un massimo di ricchezza nel Daphnis et Chloé (1910). In seguito, un
nuovo stile appare nel Trio (1914) e soprattutto in Le Tombeau de Couperin (1916/17). In questo
stile, senza rinnegare il suo passato, Ravel sembra voler semplificare, e raggiunge così un’armonia
meno pesante. Il senso tonale anch’esso tende a modificarsi verso una compenetrazione sintetica di
diverse scale (come nel delizioso inizio della Forlane in Le Tombeau de Couperin). E lo sforzo di
semplificazione prosegue nella Valse per orchestra e nel Duo per violino e violoncello.
Ravel è stato considerato “scolastico” da qualche giovane compatriota, e “arzigogolato” da altre
anime in pena. Ed entrambe le definizioni contengono almeno una buona parte di verità. Ma è
proprio perché Ravel ha saputo realizzare un equilibrio miracoloso tra la sana tradizione e una
sete ardente di novità, che ha potuto affermarsi come il più grande musicista che la Francia abbia
conosciuto dopo la morte di Debussy.
In ogni caso una sola cosa importa nell’arte: che l’artista raggiunga questo misterioso regno dove
lo spirito e la materia diventano una cosa sola, dove diventa impossibile distinguere la fantasia
dalla tecnica da quanto sono strettamente unite. Ed è a questo punto evidente che Ravel appartiene
a questa piccola compagnia di eletti, ai quali è stata donata la facoltà di contemplare il viso sereno
della perfezione ultima…
ALFREDO CASELLA