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penitenziali
Ludwig Monti
Q uaresima, tempo di penitenza, di pianto per i propri peccati e di ritorno al Signore, attraverso
l’amore fraterno. Scegliamo di accompagnare questo cammino con il commento ai sette salmi
penitenziali, uno per ogni venerdì di Quaresima: giorno particolarmente simbolico, nel quale, anche
grazie alla pratica intelligente del digiuno a cui la chiesa ci invita, possiamo conoscere meglio il nostro
cuore e disporci ad accogliere la chiamata del Signore a fare ritorno a lui.
Questi sette salmi non sono una raccolta messa in evidenza dal Salterio con qualche titolo specifico, non
appartengono neanche a un determinato genere letterario. È la sapienza della grande tradizione cristiana
ad averli costituiti in un settenario glorioso, da leggere, meditare e pregare per accompagnare il proprio
pentimento. Tracce di tale raggruppamento sono già presenti in Origene (185-254) e in Agostino (354-
430; il suo biografo scrive che egli amava e meditava con particolare intensità una collezione di
“pochissimi salmi di penitenza”); ma il primo a collegare esplicitamente tra loro questi sette salmi è
Cassiodoro (485-580): “Nel libro del Salterio, secondo l’uso recepito dalle chiese, i penitenti vengono
ammaestrati da sette particolari insegnamenti, utilissimi a chi vuole chiedere perdono al Signore …
Questi salmi sono gli strumenti più efficaci per la purificazione del nostro cuore, per rinascere dalla morte
dei peccati e passare dal pianto alla gioia nel Signore”.
Intraprendiamo dunque questo itinerario dal pianto alla gioia, percorrendo le sette tappe indicate dalla
sapienza di questi salmi.
Il salmo 6 è la preghiera di un uomo malato, impossibilitato al riposo notturno: nella sua sofferenza
supplica con toni accorati il Signore di guarirlo (vv. 2-4), descrive accuratamente il proprio stato di
prostrazione (vv. 5-8) e infine confessa la propria fiducia nel Signore, che – ne è convinto – accoglierà il
suo grido e svergognerà i suoi nemici (vv. 9-11). Sempre la preghiera è espressione di tutto il nostro
corpo: qui le ossa del salmista tremano sconvolte, il suo respiro è affannoso. Soprattutto, i suoi occhi si
consumano nella sofferenza, versando lacrime abbondanti: preghiera non verbale, linguaggio più
eloquente di tanti discorsi, “battesimo delle lacrime”…
Ma anche in questa prostrazione (“sono sfinito!”) il credente ha la forza di rivolgersi con insistenza al
Signore, nominato per ben otto volte e supplicato con sette verbi all’imperativo. Grande è la sua
franchezza, pari alla consapevolezza di non avere alcun merito da vantare. Egli sa di poter contare solo
sull’amore del Signore, sulla sua fedeltà, più forte di ogni sofferenza e più grande di ogni peccato. È
come se dicesse: “Salvami a causa del tuo amore, non per la mia giustizia, perché io so di essere
colpevole”. Qui si tocca un punto delicato: la relazione tra peccato e malattia, o meglio tra la malattia e il
nesso stabilito dal malato tra questa condizione e il castigo di Dio per i suoi peccati (cf. Sal 37; 40;5;
102,3). Come affrontare tale relazione “scandalosa”, specie per gli uomini e le donne del nostro tempo?
“Quando queste preghiere sono capite nel contesto dell’intera Scrittura, la confessione di peccato può
riferirsi alla condizione peccaminosa di ogni essere umano. La malattia non è associata ad alcun peccato
specifico, ma è la condizione che porta alla luce la nostra peccaminosità e il nostro bisogno di grazia” (J.
L. Mays). Insomma, legando la malattia al peccato, l’uomo biblico tenta di rendere comprensibile ciò che
altrimenti potrebbe apparire un puro non senso. Ma nessun perverso corto circuito tra malattia e peccato,
come Gesù ha chiarito una volta per tutte (cf. Gv 9,1-3)!
Si diceva della franchezza di quest’uomo. Egli apre la sua supplica chiedendo al Signore di rimproverarlo
sì, ma senza scatenare la sua ira, come un padre che corregge un figlio: “il Signore corregge colui che
egli ama” (Pr 3,12; Eb 12,6). Poi l’orante rivolge al “tu” confessato nella fede una domanda frequente nei
salmi: “Signore, fino a quando?”, interrogativo lasciato in sospeso che contiene un rimprovero fatto con
confidenza e, nel contempo, una richiesta sottintesa: fino a quando non libererai tutto il mio essere, non
lo guarirai? Al centro del salmo, dopo aver chiesto al Signore di ritornare, cioè di “convertirsi”, giunge fino
a “ricattarlo”: “Non c’è ricordo di te nella morte, negli inferi chi ti rende grazie?”. Sarebbe dunque il
Signore a perdere un credente che lo loda e lo confessa, se lo lascia morire (cf. Sal 29,10-11; 87,11-13;
113,17-18)!
Nell’ultima parte fanno capolino i nemici del malato, genericamente definiti “voi che fate il male”. Forse
quest’uomo è reso più sensibile dal suo stato a un’ostilità passata, ora ingigantita dal suo cuore sconvolto
e dai suoi occhi velati di lacrime; o forse è la sua prostrazione che lo induce a considerare come
avversari anche gli amici più cari, incapaci di confortarlo. In ogni caso, ciò che per l’orante conta davvero
è che il Signore ascolta il suo pianto: la sua preghiera sarà dunque accolta, e così i suoi nemici saranno
sconvolti, ritorneranno indietro (stessi verbi utilizzati in precedenza rispettivamente per il salmista e per il
Signore) e conosceranno la vergogna. Il salmo si chiude dunque su una nota di speranza e di fiducia:
anche il lamento ha un senso, se rivolto al Signore, colui che sempre ascolta la preghiera del misero.
Nei vangeli per due volte risuonano sulle labbra di Gesù espressioni tratte dal salmo 6. Nell’imminenza
della sua passione egli esclama: “Adesso ‘l’anima mia è turbata’; che cosa dirò? Padre, ‘salvami’ da
quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto: per quest’ora! Padre, glorifica il tuo Nome” (Gv 12,27-28).
Gesù porta a compimento la fede del salmista: spera di poter annunciare la fedeltà di Dio anche nella
tomba, crede fermamente che il suo amore vada oltre la morte. Per questo si dispone a ricevere da lui la
gloria riservata a chi “ama fino alla fine” (cf. Gv 13,1), anche al prezzo di una morte ignominiosa. Di altro
tenore sono le sue parole di giudizio rivolte a quanti lo invocano quale Signore senza però mettere in
pratica ciò che egli chiede: “Io dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti. ‘Allontanatevi da me, voi che
operate l’iniquità!’” (Mt 7,23). Pregando questo salmo, non possiamo non ricordare tale monito di Gesù,
più sottile di quanto si pensi. Egli infatti non ci invita solo a metterci nei panni di quanti fanno il male (e
non solo del malato!); con la sua interpretazione del salmo ci fa pure comprendere che si può presumere
di agire, di compiere prodigi nel suo Nome (cf. Mt 7,22) e invece ingannarsi miseramente: anche in
questo può consistere l’agire in modo ingiusto, come ci verrà svelato nell’ultimo giorno…
Infine, nel nostro salmo si incontrano due cammini di conversione:
“Volgiti, Signore” (Sal 6,5). Da dove? Da Dio in uomo, da Signore in servo, da giudice in padre, affinché la
tua conversione mostri il tuo amore (Pietro Crisologo, V secolo).
“Volgiti, Signore” (Sal 6,5), cioè aiutaci, affinché si compia in noi quella conversione che dona la
comunione con te a chi ti ama (Agostino).
È proprio in questo reciproco venirsi incontro tra Dio e l’uomo, realizzatosi pienamente nella persona di
Gesù Cristo, che trascorre tutta la nostra vita di uomini e donne credenti, e viene consolata e asciugata
ogni nostra lacrima (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4): nessuna lacrima andrà perduta, perché il Signore le
raccoglie tutte nel suo otre (cf. Sal 55,9).
1 Di David. Maskil.
Beato l’uomo assolto dalla colpa
Hai tolto la mia colpa
perdonato dal peccato
2 beato l’uomo a cui il Signore
non imputa la trasgressione
e nel cui spirito non c’è inganno.
“Questo salmo dipinge con la massima chiarezza le parole, le opere, i pensieri e i sentimenti di un cuore
penitente”. Così Lutero riassume il salmo 38, il terzo dei penitenziali, accomunato al primo (il 6) dal
medesimo inizio. “Voce di colui che nella malattia fa penitenza” (titoli antichi, serie II): un uomo accasciato
da una durissima malattia descrive accuratamente il suo stato di prostrazione, si lamenta e supplica il
Signore di essere liberato, sperando in lui e confidando nel suo aiuto. Il testo presenta gli elementi
tradizionali dei salmi di supplica:
il destinatario della preghiera è il Signore, invocato all’inizio (v. 2), al centro (vv. 10 e 16) e alla fine del
salmo (vv. 22-23);
quelli che un tempo erano gli amici del malato ora lo sfuggono, quelli che gli erano vicini, forse i parenti,
stanno lontani da lui (v. 12); a ciò si aggiunge la classica ostilità dei nemici, che approfittano della
situazione per odiare senza ragione il malcapitato (vv. 13.17.20-21); quest’ultimo mette davanti agli occhi
del lettore lo sfacelo del suo corpo, senza nascondere alcun particolare (ossa, midolla, carne, cuore,
occhi); si trova in una condizione di isolamento, di assenza di relazioni, è come un sordomuto (vv. 14-15).
Questa segregazione è probabilmente dovuta alla lebbra (si parla di “piaga”, termine che per ben 56 volte
nel Levitico designa tale malattia), un vero e proprio flagello per la Bibbia: chi ne è colpito è “come uno a
cui suo padre ha sputato in faccia” (cf. Nm 12,14), è come morto pur essendo ancora in vita. La lebbra è
il caso per eccellenza in cui la mentalità biblica fa valere la teoria della retribuzione: ogni malattia, e
questa con particolare evidenza, sarebbe il castigo del peccato commesso; alle sofferenze del lebbroso si
aggiunge anche il marchio della colpa.
Quello della malattia come castigo di Dio per un peccato commesso – qui espresso attraverso l’immagine
delle frecce scagliate da Dio e del peso della sua mano – è un tema delicatissimo e sempre esposto al
rischio di grossolani fraintendimenti. Su di esso Gesù ha pronunciato parole risolutive, in risposta alla
domanda dei suoi discepoli a proposito di un uomo cieco dalla nascita: “‘Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché sia nato cieco?’. Rispose Gesù: ‘Né lui ha peccato né i suoi genitori’” (Gv 9,2-3). Ma se
n’è già parlato a proposito del salmo 6…
Il dato significativo è che anche in una condizione di estrema sofferenza quest’uomo osi aprire con fiducia
il proprio cuore a quello stesso Dio che pure descrive come un implacabile arciere: ecco il paradosso del
salmo 38, secondo per intensità espressiva solo al salmo 87 (88). È in questo quadro che si colloca
anche la consapevolezza del proprio peccato da parte del salmista (tratto comune al salmo 31 [32], dove
la malattia fisica è solo accennata), manifestata a più riprese davanti al Signore: “Per il mio peccato
neppure un osso è intatto. Le mie colpe ricadono sul mio capo, sono un peso superiore alle mie forze …
Ecco, io confesso la mia colpa, sono turbato a causa del mio peccato”. Anche l’affermazione “il mio
dolore mi è sempre davanti” sembra suonare come: “il mio peccato mi è sempre davanti” (Sal 50,5).
Quest’uomo non accampa scuse, non si scaglia neppure in modo eccessivo contro i nemici, di cui si
limita a riconoscere l’esistenza: confessa con onestà la propria colpevolezza, collegandola forse
inconsciamente alla sua prostrazione fisica, e lo fa davanti al Signore.
Il suo atteggiamento è ben riassunto dall’affermazione del v. 10, vertice del salmo: “Tutto il mio desiderio
è davanti a te, Signore”; tutta la mia epithymía, traduce la versione greca con un termine ambiguo, che
può designare desideri buoni ma anche pulsioni meno nobili, frutto di concupiscenza mondana (cf. 1Gv
2,16-17). Grande insegnamento! Occorre la fatica di discernere tutto il proprio desiderio e tutti i propri
desideri, insieme al coraggio di porli davanti a Dio, senza escluderne alcuno: solo così si può fare spazio
in sé al desiderio profondo di Dio, quello di purificare e portare a compimento ogni nostro desiderio.
Commenta magnificamente Agostino:
“Davanti a te è ogni mio desiderio”. Non davanti agli uomini, che non possono vedere il cuore, ma
“davanti a te”. Sia davanti a lui il tuo desiderio; “e il Padre, che vede nel segreto, ti esaudirà” (cf. Mt 6,6). Il
tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha
detto l’Apostolo: “Pregando senza interruzione” (cf. 1Ts 5,17). Forse senza interruzione pieghiamo il
ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani? Se intendiamo il pregare in tal modo, non lo possiamo
fare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore ininterrotta: il desiderio. E se è davanti a lui il
desiderio, non sarà davanti a lui anche il gemito? Come potrebbe non essere così, dal momento che il
gemito è la voce del desiderio? Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre esso
giunge agli orecchi degli uomini, ma mai resta lontano dagli orecchi di Dio.
Balzano agli occhi i parallelismi del nostro salmo con quanto avviene a Gesù durante la passione: il suo
essere abbandonato da parte degli amici (cf. Mc 14,50; Mt 26,56); le donne che osservano da lontano la
sua crocifissione (cf. Mc 15,40-41 e par.); il suo silenzio davanti agli accusatori (cf. Mc 14,61; 15,5; Mt
26,63; 27,14), lo stesso vissuto dal Servo del Signore (cf. Is 53,7; At 8,32). Nell’ora finale della sua vita, di
fronte a quanti lo odiavano senza ragione, Gesù “senza minacciare vendetta si è affidato a colui che
giudica con giustizia” (cf. 1P 2,23). In quest’ottica è stata intesa la versione greca del v. 18: “Sono pronto
ai colpi dei flagelli”, nonché due interessanti aggiunte presenti in alcuni manoscritti della stessa versione,
di probabile origine cristiana: “Io sono stato appeso da loro” (v. 14); “Essi hanno rigettato me, l’amato,
come un cadavere aborrito, e hanno inchiodato la mia carne” (v. 21).
Più in generale, però, credo che l’intero salmo possa essere posto sulla bocca di Gesù: nel suo frequente
accompagnarsi con malati e peccatori, egli ha finito per identificarsi con essi; ha vissuto la com-passione
con loro a tal punto da “aver preso su di sé le loro infermità ed essersi caricato delle loro malattie” (cf. Is
53,4; Mt 8,17). Ecco come bisogna intendere l’ardita affermazione paolina: “Colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2Cor 5,21).
Così la preghiera del malato e del sofferente è diventata la preghiera di Cristo: egli prega questo salmo
con noi e per noi, condividendo fino alla fine la nostra condizione umana e insegnandoci a porre davanti a
Dio tutto e ogni nostro desiderio, sempre mescolato ai nostri gemiti. Chi non desidera e non geme, non
può aprirsi alla comunione con Gesù Cristo.
Caro lettore, cara lettrice, mi rivolgo a te per confessarti lo sgomento che mi assale nel presentarti il
salmo 51, il Miserere (così inizia in latino), il quarto dei salmi penitenziali: il vertice di questa collezione,
uno dei capolavori dell’intero Salterio e oltre. Concedimi dunque un commento un po’ più ampio del
solito…
Siamo di fronte a un abisso di indicibile profondità, che raggiunge ogni umano nel suo oggi, leggendolo
più che essere da lui letto. Il salmo 51 è una supplica individuale del tutto particolare. Manca ogni traccia
di lamento, di professione di innocenza e di accusa dei nemici: l’orante confessa con franchezza la sua
condizione di peccatore e senza addurre alcuna giustificazione chiede a Dio di essere perdonato. I due
termini più attestati, entrambi sette volte, sono la radice del “peccare” e il Nome di Dio. Tra il peccato
abbondante e l’amore di Dio sovrabbondante: ecco la condizione di ciascuno di noi. Ecco “il salmo della
conversione” (tradizione rabbinica), “l’insegnamento del vero pentimento, nel quale stanno due cose: la
conoscenza del peccato e la conoscenza della grazia, quindi la fiducia nella misericordia di Dio” (Lutero).
In esso si passa dalla regione oscura del peccato (vv. 3-11) alla regione luminosa della grazia (vv. 12-
19), con un’appendice dal sapore liturgico (vv. 20-21).
Prima di entrare nel testo, incontriamo la soprascritta, storicamente inverosimile, ma inserita con rara
intelligenza spirituale: “Salmo. Di David. Quando andò da lui il profeta Natan, dopo che egli era andato
con Betsabea”. Con un gioco di parole il salmo viene attribuito al re David, che lo avrebbe composto
quale confessione di peccato in seguito agli eventi narrati in 2Sam 11-12 : l’adulterio con Betsabea, di cui
egli si invaghisce follemente; l’inganno con cui fa uccidere suo marito in battaglia; la parabola con cui il
profeta Natan induce David a confessare il suo enorme peccato, insieme adulterio e omicidio. Nella
tradizione ebraica si giungerà a questa geniale interpretazione, che può sembrare eccessiva, ma che
andrebbe meditata: “Con la stessa sincerità e lo stesso ardore con cui era andato da Betsabea, David si
rivolse a Dio e gli disse il suo canto. Perciò fu subito perdonato”.
È con la stessa passione di David che il salmista si rivolge a Dio per invocare il perdono di un peccato
grande, seppur imprecisato. Ora, se è vero che la prima parte del salmo insiste maggiormente sulla
confessione del peccato, è però situata all’interno dell’amore preveniente di Dio, che la rende possibile:
l’amore di Dio (dunque il suo perdono) precede la conversione! Il salmo è inequivocabile al riguardo,
poiché prima dei tre termini che definiscono il peccato e dei tre verbi che indicano il perdono, vi è l’amore
di Dio in tutta la sua potenza: la pietà/compassione, l’amore e la misericordia. Proprio come avviene in
uno dei passi più alti della Torah, l’autorivelazione del Nome del Signore a Mosè (cf. Es 34,6-7).
In principio è l’amore del Signore, ben prima del peccato umano, definito nella sua varietà con i tre termini
classici. Si mescolano la trasgressione disobbediente e volontaria, il calcolo sbagliato, l’errare su vie
perdute, che finisce per condurci in vicoli ciechi: insomma, la nostra multiforme miseria… A tanta miseria
corrisponde una varietà di azioni di Dio, invocato perché si faccia prossimo all’essere umano per
cancellare, lavare a fondo, purificare. Ma questo lavoro richiesto a Dio necessita di una previa
disponibilità umana: “Sì, io riconosco la mia rivolta, il mio peccato mi è sempre davanti”. Parole nette, che
contrastano con la naturale tendenza ad autogiustificarci, quasi una seconda pelle per noi umani, riflesso
inconscio e velocissimo a ogni minima accusa che ci viene mossa. Quanto ci è difficile dire: “Io ho
sbagliato, è colpa mia!”. Nella rinuncia alla giustificazione si riconosce la giustizia di Dio e gli si dice:
“Contro te, contro te solo ho peccato”. Ciò che rattrista Dio, in profondità, sono le offese contro i nostri
simili: contro di lui pecchiamo solo quando pecchiamo contro gli altri…
Proprio nel momento in cui si percepisce l’amore giustificante di Dio, riappare in tutta la sua forza la
miseria dell’orante: “Colpevole sono nato, peccatore mi ha concepito mia madre”. Il salmista tenta di
esprimere con parole inadeguate l’inclinazione al male tipica della condizione umana. Si risale all’origine
per indicare quella radicale condizione di peccato che a un certo punto ciascuno di noi scopre in sé.
Quando il mio primo peccato? Non ricordo, dunque posso solo risalire al mio in-principio… Insomma,
“l’uomo è un essere a cui è capitato qualcosa” (Jean Paul Sartre)! Ma questa sensazione di innata
inadeguatezza non sprofonda l’orante nella disperazione, perché egli sa di potersi rivolgere con fiducia al
suo Dio: “Tu gradisci la sincerità del mio cuore, nel profondo mi insegni la sapienza”. La vera sapienza,
divinamente umana, è il riconoscersi peccatori: questa lucida coscienza è fonte di un sano realismo e di
una costante possibilità di ricominciare, come chiarirà definitivamente Gesù.
Ai vv. 9-11 si torna a invocare la purificazione, con sei richieste, che riprendono in parte le tre iniziali,
creando così un’inclusione: cancellare, lavare, purificare (vv. 3-4), purificare, lavare, cancellare (vv. 9 e
11). Nel leggere il salmo puoi dunque riprendere fiato, e insieme condividere l’insistenza del salmista, che
non si limita a ripetere, ma chiosa con creatività.
Con il v. 12 siamo al centro e al vertice del salmo, e le nostre parole vacillano… Si chiede a Dio stesso di
ricreare il cuore, cioè il centro della persona, l’intero suo essere; e di ricrearlo “puro”. Sì, con la potenza
del Signore si può ricominciare, ricevendo da lui in dono anche “uno spirito saldo”, cioè solido, fermo,
affidabile. Al momento però il salmista è ancora esitante e la coscienza del suo peccato lo spinge a
temere che Dio possa privarlo della sua presenza, riprendendo il suo Spirito, il che equivarrebbe alla
morte. Ma ecco che subito ritorna il desiderio di sperimentare “la gioia d’essere salvato”, che si
accompagna a uno “spirito risoluto”, generoso, nobile e gentile. Al centro del salmo si applicano dunque
al singolo le promesse che Geremia e Ezechiele avevano rivolto all’intero popolo dei credenti:
all’orizzonte si intravede dunque niente meno che la prospettiva della “nuova alleanza”, ultima e
definitiva, con tutta la profondità di tale concetto (cf. Ger 31,34; Ez 11,19-20; 36,24-28).
Comprendiamo dunque che, giunto a questo vertice, l’orante sia spinto ad ampliare i propri orizzonti,
coinvolgendo la comunità di cui vuole nuovamente essere parte. Egli desidera esprimere la sua
gratitudine a Dio per la nuova creatura che sente di essere. Ma questa novità chiama ulteriori novità: egli
non offre, come previsto, un sacrificio cruento. Comincia invece con l’esprimere a Dio il suo proposito:
“Insegnerò agli smarriti le tue vie, i peccatori ritorneranno a te”. Senza bisogno di eccessiva
sovraesposizione, il suo esempio sarà di insegnamento per i peccatori, che comprenderanno
l’insperabile, l’insperato: è possibile fare ritorno a Dio, accogliendo il suo perdono, e colui che è stato
“malato” è forse il “medico” che meglio può mostrarlo.
Ma subito il salmista torna a invocare Dio perché lo “preservi dal versare il sangue…”: quale che sia il
senso di tale espressione, egli sente ancora su di sé l’ombra della morte per il peccato commesso, stenta
a liberarsene. I gravi errori che commettiamo tornano a presentare il conto, provocano pesanti
conseguenze: è così, è realismo… Ma è possibile spezzare questa spirale, e non per le nostre forze,
bensì grazie all’amore offerto dal Signore. Quest’uomo, infatti, pone le sue fatiche di fronte a Dio, si
rivolge a lui con insistenza: “… o Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia”. Ecco il secondo
proposito: celebrare Dio con la lingua, cantare la sua lode. Interpretazione alla quale se ne può affiancare
un’altra: la verità del cambiamento si mostra nell’assumere responsabilità verso gli altri, esortandoli a non
percorrere vie di morte; se non lo faremo, il Signore chiederà conto a noi dei peccati del fratello non
avvertito (cf. Ez 3,17-21; 33,1-9)!
Segue, questa volta esplicita, la lode: “Signore, apri le mie labbra, e la mia bocca canterà la tua lode”. Il
salmista chiede a Dio di essere ispirato per poterlo lodare come si conviene. Con le parole, certo, ma
soprattutto con la vita, riassunta in quell’organo fondamentale che la Bibbia chiama “cuore”, centro
dell’intera persona. Poi continua: “Ti offrirei un sacrificio, ma non lo accetti, l’olocausto ora non lo gradisci.
Sacrificio a Dio è uno spirito contrito, un cuore contrito e spezzato non lo respingi, o Dio”. Questo il vero,
unico sacrificio gradito a Dio! È una sorta di unicum, nell’Antico Testamento, una vetta insuperabile.
Senza questa disposizione interiore, la lode è esposta al rischio della doppiezza, l’ascolto obbediente può
soggiacere alla logica del merito, persino l’offerta della vita (cf. Rm 12,1) può nascondere un orgoglio
volontaristico. Solo quando ci si riconosce peccatori e si ha il coraggio di guardare in faccia la propria
infinita debolezza, allora si può lasciare che questa miseria sia invasa dalla misericordia di Dio, ben più
potente: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)…
Giungiamo così ai vv. 20-21, un’aggiunta posteriore: vi si auspicano la ricostruzione delle mura della città,
che avverrà sotto Neemia, dopo il 450 a.C., e la ripresa nel tempio dei sacrifici. Nulla però va perduto
della radicalità di cui si è detto: nella nuova situazione, il popolo umiliato durante l’esilio celebra anche
liturgicamente il rendimento di grazie al Dio che gli ha usato misericordia; ma sa di doverlo fare in novità
di vita, perché i sacrifici sono veramente giusti solo se sgorgano da un cuore nuovo e puro.
Al termine di questo appassionante percorso, resterebbe da dire qualcosa sulla fortuna del nostro salmo
nella tradizione ebraica e cristiana. Ma ho già abusato della tua pazienza: sarà per un’altra volta…
Consentimi però di chiudere notando un particolare decisivo: la parabola terrena di Gesù riattualizza il
nucleo incandescente del salmo 51. Gesù è venuto per rivolgere proprio ai peccatori la buona notizia del
Vangelo e per donare loro in modo gratuito e preveniente il perdono di Dio, l’amore misericordioso di cui
ogni vivente ha estremo bisogno. E che può gustare solo se si riconosce peccatore. Per questo amava
dire: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti,
ma i peccatori” (Mc 2,17). Ieri, oggi e sempre, chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di
Dio, si avvicina a Gesù perché sente in lui una persona affidabile, un uomo che sa incoraggiare e
rinnovare la vita di chi accetta la propria miseria e desidera ricominciare. In una parola, il perdono fatto
persona, che sempre fa l’offerta della vita nuova: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare
più” (Gv 8,11).
Ci congediamo dunque da questo salmo con una delle tante perle che esso non cessa di suscitare in chi
lo ascolta con cuore libero, rileggendolo alla luce della vita di Gesù:
“Pietà di me, o Dio”. Dio, che sei Misericordia, togli la mia miseria, togli i miei peccati, che sono la mia
maggior miseria. Solleva me misero, mostra in me la tua azione. “L’abisso chiama l’abisso” (Sal 41,8):
l’abisso della miseria invoca l’abisso della misericordia. È più grande l’abisso della misericordia che
l’abisso della miseria. Dunque l’abisso della tua misericordia assorba l’abisso della mia miseria. Chi
dunque può disperare? Chi non avere fiducia? (Girolamo Savonarola).
Forse solo chi non pensa di aver bisogno di misericordia: nessuno è più lontano dalla guarigione di colui
che pensa di non aver bisogno di guarigione.
O Dio Trinità, Nome ineffabile di misericordia inesauribile,
tu che purifichi dai suoi vizi l’abisso del cuore umano
e lo rendi più bianco della neve,
rinnova nei nostri cuori il tuo Spirito santo
affinché possiamo annunciare con la nostra vita la tua lode.
(Orazione salmica di tradizione romana, inizio VI secolo)
“Preghiera di un povero che soffre e sfoga davanti a Dio il suo lamento”: nella soprascritta del salmo 102
è contenuta la sua efficace sintesi. Siamo di fronte a un testo composito, che alterna la dimensione
personale e quella comunitaria, collettiva:
lamento per la sofferenza personale (vv. 2-12);
lamento per la sofferenza comunitaria, del popolo di Dio in esilio (vv. 13-23; si veda il riferimento alle
rovine di Sion, Gerusalemme, ai vv. 14-15);
lamento per la sofferenza personale (vv. 24-28);
speranza finale: la discendenza dei servi del Signore vivrà in pace alla sua presenza (v. 29).
Riprendendo numerose affermazioni tratte da altri salmi e da passi profetici, l’orante descrive con
immagini molto intense la sofferenza che lo attanaglia. Per una volta, soprattutto dopo l’ampio e
dettagliato commento al salmo 50 (51), lascio ai lettori il compito di soffermarsi su tali immagini, di
gustarne tutto l’aspro sapore leggendole, rileggendole e riascoltandole nell’audio qui proposto. Faccio
solo notare che quest’uomo sente la propria condizione come punizione divina, secondo quel riflesso
psicologico che abbiamo già commentato in altri salmi. In realtà non è Dio che castiga, ma nella nostra
debolezza umana, non riusciamo a esprimerci diversamente… Il miglior commento alle parole del v. 11 si
trova in un altro salmo, che ancora una volta si esprime con gli stessi toni:
Siamo consumati dalla tua ira, Signore,
dalla tua collera siamo spaventati:
tu metti le nostre colpe davanti a te
le nostre opacità alla luce del tuo volto.
Per la tua collera svaniscono i nostri giorni,
i nostri anni se ne vanno come un soffio.
La nostra vita arriva a settant’anni,
a ottanta se ci sono le forze:
quasi tutti sono pena e fatica.
passano presto e noi ci dileguiamo (Sal 89,7-10).
Qui addirittura il salmista non può nemmeno spingersi così avanti, ma è come annichilito da una
tristissima prospettiva: “Ho gridato: ‘Mio Dio! Non prendermi alla metà dei miei giorni!’” (v. 25; cf. Is
38,10).
Eppure, anche in tale condizione, continua a confidare nel Signore, a rivolgersi a lui con enorme fiducia e
speranza: “Tu, Signore, regni per sempre, il tuo ricordo di età in età … Il Nome del Signore sarà esaltato
in Sion, sarà lodato in tutta Gerusalemme … I cieli sono opera delle tue mani, ma essi passeranno, tu
resterai; si consumano come un tessuto, come un vestito tu li rinnoverai. Saranno rinnovati, ma tu
resterai” (vv. 13.22.26-28). Da dove nasce questo slancio interiore? Dalla coscienza che “l’amore del
Signore è per sempre” (ritornello del salmo 135), ed è un amore che tocca certamente il singolo, ma si
estende anche a tutto il popolo dei credenti di cui egli fa parte, anzi a tutti gli umani, per sempre: “I tuoi
anni nei secoli dei secoli … I tuoi anni non hanno mai fine” (vv. 25.28). Ecco un discernimento davvero
liberante, che ci fa alzare lo sguardo e respirare nell’esteso spazio della misericordia di Dio: i miei giorni
finiranno, ma l’amore di Dio no, il suo amore è per sempre. Amore per me, per ciascuno, per tutti.
Dunque, anche quando si consumeranno i cieli e giungerà il Giorno, il giorno del giudizio, della venuta
gloriosa del Signore, della fine di questo cielo e di questa terra (cf. 2P 3,8-10), non dovremo temere nulla.
Sarà l’ora del suo giudizio temibile e misericordioso, del quale Gesù ci ha svelato il criterio: saremo
giudicati in base all’amore concreto che avremo saputo vivere verso ogni nostro fratello e sorella in
umanità, soprattutto gli ultimi, i più poveri (cf. Mt 25,31-46). La prospettiva del nostro salmo non è molto
diversa: unire la propria sofferenza a quella comunitaria (in una visione che si allarga fino al mondo
intero, alla comunità di tutti gli esseri umani), significa già ampliare i nostri orizzonti, dilatare i nostri cuori
ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fili 2,5), sapere anche noi ascoltare il lamento di ogni
prigioniero (di ogni tipo di catene!), soffrire insieme a quanti vanno verso la morte (cf. v. 21), cioè tutti gli
umani. Nessuna sofferenza di nessun essere umano ci può essere estranea: solo con questa chiara
consapevolezza, potremo rivolgerci a Dio e supplicarlo anche per le nostre personali sofferenze, con
“cuore puro e spirito saldo” (Sal 50,12).
È esattamente ciò che ha fatto Gesù, come ha saputo cogliere con un’intelligente sintesi Agostino,
commentando la soprascritta del salmo:
Un povero prega. Quale povero? Colui che “si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per
mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Guarda le sue ricchezze: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Gv
1,3). Come è giunto a mangiare un pane di cenere e a mescolare la sua bevanda con le lacrime (cf. v.
10)? Sì, è lui che ha assunto la forma di schiavo (cf. Fili 2,7), è lui lo stesso povero che dice: “Dai confini
della terra ho gridato a te” (Sal 60,3).
Sì, nel farsi uomo il Signore Gesù ha assunto dall’interno tutta e ogni nostra povertà, dunque si è fatto
povero della nostra povertà, fino a “prendere su di sé le nostre debolezze e caricarsi delle nostre
malattie” (cf. Mt 8,17; Is 53,4), fino a morire d’amore, potremmo dire. Proprio per l’amore che ha vissuto e
patito è stato richiamato dai morti e ora, risorto per sempre, “sta alla destra di Dio e intercede per noi”
(Rm 8,34): ormai in Dio c’è la nostra umanità crocifissa con Cristo e risorta con lui (cf. Rm 6,8; Col 2,12)!
Questo stile proprio del passare sulla terra di Gesù, del suo condividere le nostre sofferenze, è espresso
splendidamente in un testo liturgico che dovremmo meditare con più attenzione, in particolare in questo
tempo di Quaresima:
O Cristo,
la tua passione è anche passione dell’umanità:
è la fame degli affamati, la sete degli assetati.
O Cristo,
la tua passione continua tra i viventi:
è il languire dei malati, l’agonia dei morenti.
O Cristo,
la tua passione è presente nella storia:
è l’oppressione dei poveri, la tortura dei perseguitati.
O Cristo,
la tua passione è sofferta in mezzo a noi:
ogni dolore è tuo dolore, ogni vergogna è tua vergogna.
Ed è proprio per Cristo, con Cristo e in Cristo che possiamo accogliere con gratitudine un’audace
intuizione della tradizione ebraica sul nostro salmo: “Sta scritto: ‘Preghiera di un povero’, ma si può anche
leggere: ‘Preghiera a un povero’”. È Dio il povero che soffre con noi e ci prega di accogliere il suo patire
insieme a noi: a ciascuno di noi e a noi tutti insieme.
Il salmo 130, il penultimo della serie dei penitenziali, è una richiesta di perdono, perché anche il pellegrino
che canta i canti delle salite al tempio (salmi 120-134) deve disfarsi di qualche peso. Qui però, piuttosto
che insistere sulla confessione delle proprie colpe – come nel salmo 50 (51) –, l’orante esprime fiducia
nelle inesauribili risorse di misericordia del Signore, ponendo l’accento sul perdono preveniente da lui
accordato: è il Signore, nominato per ben otto volte, il vero protagonista del salmo 130. La speranza e
l’attesa del suo perdono-amore-redenzione dominano sulla coscienza del peccato, che pure è l’ineludibile
punto di partenza per rivolgersi al Signore: si guarda a lui, non a se stessi! È su questa dinamica
spirituale che si innesta il timore del Signore (cf. v. 4), sentimento ben diverso dalla paura: il salmo 130 ce
lo indica come la consapevolezza che la sua misericordia precede la nostra conversione, è la fonte del
nostro possibile ritorno al Signore e dunque dell’accesso a una vita rinnovata.
Questa una possibile struttura del salmo, tenendo conto che nei primi 4 vv. ci si rivolge al Signore, negli
ultimi 4 alla comunità:
vv. 1-2: solenne supplica introduttiva;
vv. 3-4: confessione delle colpe e richiesta di perdono;
vv. 5-6: confessione di fiducia nel Signore, che è l’attesa e la speranza del salmista;
vv. 7-8: esortazione alla comunità affinché condivida la stessa attesa della redenzione.
È questo però un caso evidente in cui ogni possibile schematizzazione si rivela incapace di rendere il
calore e la forza di un testo di straordinaria potenza immaginifica, umana e teologica. Cerchiamo dunque
di lasciarci illuminare da questo piccolo gioiello.
“Dal profondo, dalle profondità grido a te, Signore”. La prima parola, nota dall’incipit latino De profundis,
fornisce la cifra simbolica all’intero salmo. Il salmista ha già gridato: “Salvami, o Dio, l’acqua mi arriva alla
gola! Affondo in un abisso di fango, nulla mi trattiene. Discendo nelle profondità delle acque, il vortice mi
inghiotte” (Sal 68,3). La particolarità del nostro salmo è che in esso si parla di profondità, di abissi, senza
specificarli in altro modo: è un simbolo aperto, sicché ogni lettore e lettrice può pensare ai propri abissi di
non senso, di disperazione, prima ancora che di peccato. È dai tentativi sbagliati di uscire da tali abissi,
infatti, che nasce ogni pensiero, parola, azione peccaminosa… Commenta Lutero:
“Dal profondo grido a te, Signore”. Sono parole ben scelte, veementi e molto intime, parole d’un cuore
sincero e penitente, che nel modo più profondo è volto alla propria miseria: uno stato d’animo che non
può essere compreso, se non da quelli che lo provano e ne fanno esperienza. Noi versiamo tutti in una
profonda e grave miseria, ma non tutti avvertiamo dove ci troviamo.
Solo quando si va a fondo si scoprono le fondamenta e si può davvero cominciare a risalire. Quest’uomo
sembra capirlo, sembra sapere dov’è, dove si trova, perciò insiste due volte nel chiedere al Signore di
ascoltarlo. Ma non basta gridare, parlare, nemmeno a Dio. Prima occorre, appunto, capire dove si è:
occorre capire che si è in radice peccatori. Se il giusto pecca sette volte al giorno (cf. Pr 24,16)… E più ci
si avvicina al Signore, più ci si sente peccatori e miseri, come ricordano Isaia (cf. Is 6,5) e Pietro (cf. Lc
5,8). Ecco allora una lucida presa di coscienza, in forma di domanda: “Se tu ricordi le colpe, Signore,
Signore, chi potrà resistere?”. È come se dicesse: “Non entrare in giudizio con il tuo servo. Nessun
vivente può giustificarsi davanti a te” (Sal 142,2). Tale consapevolezza non è però fonte di paura, bensì
sfocia in una convinta confessione: “… ma presso di te è il perdono”. Il miglior commento sono forse le
parole del profeta Michea:
Quale Dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato?
Non serbi per sempre la tua ira, ma trovi gioia nel manifestare il tuo amore.
Torni sempre ad avere misericordia di noi, calpestando le nostre colpe.
Tu getti in fondo al mare tutti i nostri peccati (Mi 7,18-19).
Si va al Signore nell’abisso della colpa, e si vede il proprio peccato gettato in un altro abisso: abisso del
mare sì, ma più in profondità abisso del suo amore misericordioso, che neanche le grandi acque possono
spegnere (cf. Ct 8,6). Davvero il perdono viene da Dio, è divino! Ecco perché Gesù, quando con il suo
agire narrava questo tratto di Dio, incarnandolo e donandolo come possibilità agli umani, scandalizzava
alcuni uomini religiosi: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio
solo?” (Mc 2,7). Ma Gesù non si cura di tale rimprovero, anzi comanda il perdono ai suoi discepoli come
compito fondamentale: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà
anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt
6,14-15).
A questo punto l’orante inizia a rivolgersi al Signore alla terza persona, senza però perdere nulla del suo
pathos. Il pellegrino del salmo 130 spera nel Signore e lo attende. Anzi, spera e attende la sua parola,
“annunciatrice di perdono: è nel dialogo che si realizza l’incontro d’amore” (André Chouraqui). Chi si
comporta in questo modo è una sentinella che precede l’aurora: ecco perché l’orante confessa che tutto il
suo essere è rivolto al Signore, addirittura “più che le sentinelle all’aurora”. Dagli abissi acquatici o da una
“terra riarsa, arida, senza acqua” (Sal 62,2) i cercatori di Dio sono sempre sentinelle dell’aurora, “che
precedono il mattino per meditare sulla promessa del Signore” (cf. Sal 118,148). E così possono cantare:
“Le misericordie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue compassioni. Esse sono rinnovate
ogni mattino, grande è la sua fedeltà” (Lam 3,22-23). È solo questo, in radice, che ci rimette in piedi e ci
fa rialzare ogni mattino…
Dopo la notte, l’aurora tanto attesa verrà certamente, le misericordie del Signore saranno rinnovate. Il
tutto è espresso in ebraico con un sottile gioco di parole, dato che “sentinella” e “ricordare/osservare (le
colpe)” contengono la medesima radice verbale: il credente “veglia” per il Signore, il quale però non
“veglia” sulle sue colpe… Commenta Rashi, un maestro ebreo dell’XI secolo: “‘L’anima mia è rivolta al
Signore…’: vale a dire, io spio l’arrivo della redenzione. ‘… più che le sentinelle all’aurora’, le quali
aspettano e ancora aspettano: di fine in fine”. Una lezione che la vita può insegnarci: forse può imparare
ad andare di inizio in inizio solo chi si esercita anche ad andare di fine in fine, arte difficilissima…
Prima di concludere, il salmista sente il dovere di rivolgersi a tutta la comunità, esortandola alla stessa
attesa del Signore. E questo perché? Ancora una volta, perché l’amore del Signore precede e guida ogni
vivente, dunque dovrebbe ispirare quanti dicono di aderire a lui: “presso il Signore è la misericordia,
decisiva la redenzione”, il riscatto, il perdono dei peccati. Ecco l’esperienza salvifica per Israele, per la
chiesa e per ogni credente: sulla terra “la conoscenza della salvezza” si ha “nella remissione dei peccati”
(Lc 1,77) – come i cristiani cantano nel Benedictus –, fino a quando il Signore riscatterà tutta l’umanità
“dalla mano degli inferi” (Os 13,14), dalla morte.
E così, ecco aprirsi l’ampio terreno dell’esegesi cristiana del salmo 130. “Cristo, non guardando alle
nostre colpe, ci dona il perdono dei peccati”. Questo antico titolo coglie bene l’attitudine con cui Gesù si è
sempre avvicinato ai peccatori pubblici, ai derelitti, che potevano gridare a lui con fiducia la loro richiesta
di compassione e ricevere da lui il perdono dei peccati. Mai Gesù si è negato ai peccatori, sempre ha
offerto loro consolazione, vicinanza, perdono. Per questo ha potuto dire di sé: “Il Figlio dell’uomo non è
venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc 10,45). Questo lo
stile dell’incarnazione, alla luce del quale si proclama il salmo 130 a Natale, confessando che con la sua
venuta nella carne Gesù “ha salvato il suo popolo dai suoi peccati” (cf. Mt 1,21) ed è venuto per “togliere
il peccato del mondo” (cf. Gv 1,29), compiendo la missione contenuta nel suo Nome: Jeshu‘a, “il Signore
salva”. La riflessione del Nuovo Testamento e dei padri svilupperà ampiamente i concetti chiave del
nostro salmo, applicandoli a Cristo: egli è il perdono, l’espiazione (cf. 1Gv 2,1-2; 4,10); è la
manifestazione vivente dell’amore del Padre (cf. 1Gv 3,16); è la redenzione, il riscatto (cf. 1Cor 1,30; Tt
2,13-14).
Letto in Cristo, il salmo 130 è anche un salmo di resurrezione, perché la notte del peccato e della morte è
illuminata dalla luce dell’alba pasquale. Di conseguenza, è anche uno dei salmi classici della liturgia dei
defunti: la redenzione definitiva, infatti, di cui Cristo è la primizia, sarà la liberazione dal potere della
morte. Al cristiano che prega questo salmo è dunque chiesto di non guardare troppo a se stesso, ma di
volgere il proprio sguardo al Signore Gesù Cristo, accogliendo con fiducia la sua offerta di vita, fino alla
fine dei suoi giorni, e anche al suo ingresso nell’abisso della morte: “Coraggio, figlio, ti sono rimessi i
peccati” (Mt 9,2).
Leggiamo, rileggiamo e meditiamo con cura il De profundis, che è tutto un abisso di profondità, dall’inizio
alla fine; e facciamolo con il coraggio di guardare in faccia i nostri personali abissi, senza evitarli, senza
fuggirli, senza gettarne il peso addosso agli altri. Come chiede anche Agostino:
Dobbiamo cantare con intelligenza: “Dal profondo grido a te, Signore, Signore, ascolta la mia voce” …
Ciascuno di noi comprenda quale sia l’abisso in cui si trova e da cui grida al Signore. Se nell’abisso
riesce a gridare, già si sta sollevando dall’abisso e lo stesso suo gridare gli impedisce di rimanere proprio
sul fondo. Sono invece nelle profondità estreme dell’abisso coloro che nell’abisso non provano nemmeno
a gridare. Il Signore Gesù Cristo non ha disdegnato di guardare i nostri abissi, ma ha assunto la nostra
vita e ci ha promesso la remissione di tutti i peccati. Remissione che avviene grazie alla legge della
misericordia, del perdono di Dio: la legge dell’amore ottiene il perdono dei peccati, cancella le colpe del
passato e ammonisce per il futuro …“Sì, presso il Signore è la misericordia, decisiva la redenzione”.
Splendido! Per quanto l’essere umano si senta gravato di colpe, c’è sempre la misericordia di Dio.
Ecco la legge dell’amore, quella di cui ci parla anche uno scritto minore del Nuovo Testamento, la Lettera
di Giuda, che contiene un’autentica perla, degna sintesi del salmo 130: “Conservatevi nell’amore di Dio,
attendendo la misericordia del Signore” (Gd 21).
1 Salmo. Di David.
“I salmi penitenziali cominciano nel pianto e terminano nella gioia, in modo che nessuno disperi del
perdono”. Queste parole di Cassiodoro, simili a quelle dello stesso autore con cui abbiamo aperto il
nostro itinerario, sono particolarmente adatte per introdurre la settima e ultima tappa del nostro percorso:
dopo il pianto, la coscienza del proprio peccato, il desiderio, il canto della miseria e misericordia, la
sofferenza personale e comunitaria, il passaggio attraverso le nostre abissali profondità, eccoci alla gioia
della resurrezione.
Ma è una gioia a caro prezzo: gioia in mezzo alle lacrime che segnano questo venerdì santo, passaggio
duro ma necessario attraverso la morte, per giungere all’alba di Pasqua. È questo il clima del salmo 143,
estrema supplica del Salterio, che menziona per l’ultima volta l’estremo limite temporale, l’enigma della
vita umana: la morte. La morte prende il centro della scena nel nostro salmo: basta rileggere i vv. 3-4 e 7,
segnati in particolare dal riferimento allo spegnersi del respiro umano… Con la conseguente, elementare
ma più che mai vitale, richiesta da parte del salmista: “A causa del tuo Nome, fammi vivere, Signore, per
la tua giustizia fammi uscire dall’angoscia”. È anche l’ultima volta in cui nei salmi si parla di angoscia: a
dire che l’angoscia estrema di ogni umano è la morte, e la speranza estrema è la vita, una vita che
assuma i tratti dell’eternità.
Questo, dunque, il quadro di fondo di una supplica abilmente costruita, con parallelismi e inclusioni
testuali, che disegnano la seguente struttura, individuata da Gianfranco Ravasi:
a appello alla giustizia di Dio da parte del servo (vv. 1-2)
b incubo della morte, vissuto in una terra assetata (vv. 3-6)
b’ incubo della fossa, ma speranza di camminare su terra pianeggiante (vv. 7-10)
a’ appello alla giustizia di Dio da parte del servo (vv. 11-12)
L’esordio è all’insegna della richiesta pressante: “Signore, ascolta, … tendi l’orecchio, … rispondimi!”.
L’orante non ha però alcun sacrificio, nemmeno delle labbra, da offrire (cf. Sal 140,2); non si dichiara
innocente, in cammino su una via giusta sbarratagli dai nemici (cf. Sal 141,4). Si riconosce peccatore,
incapace di giustizia, dunque pronto all’ammissione che ha reso celebre questo salmo, al punto da
suggerire di classificarlo come ultimo dei penitenziali: “Signore, non entrare in giudizio con il tuo servo,
nessun vivente può giustificarsi davanti a te”. Insomma, quest’uomo può contare solo sulle qualità di Dio:
fedeltà all’alleanza, giustizia e amore. Qualità che a prima vista possono sembrare in contrasto tra loro
(soprattutto giustizia e amore), ma che in realtà concorrono insieme a tratteggiare il volto misericordioso
del Signore. “Questo salmo viene recitato nella persona di tutto il popolo di Cristo e di ciascuno in
particolare. Di questo popolo sono quotidianamente nemici i sapienti di questo mondo e quelli che si
giustificano da sé, i quali non vogliono saperne della grazia misericordiosa di Dio … Le parole’il tuo
amore’ e ‘la tua giustizia’ significano la grazia e la giustizia mediante cui Dio ci rende credenti e giusti per
mezzo di Gesù Cristo” (Lutero).
Parole, queste, inserite nell’ampio fiume della tradizione interpretativa del salmo 143, che le precede e le
segue:
In base alle opere della Leggenessun vivente sarà giustificato davanti a Dio (Rm 3,20).
L’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, …
poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno (Gal 2,16).
“Nella tua giustizia rispondimi”. Chi si gloria in sé non riceve risposta, non è esaudito. Non sono esauditi
quanti ignorano la giustizia di Dio e, volendo affermare la propria, non si sottomettono a quella di Dio.
Come il fariseo che nel tempio volle affermare la propria giustizia e perciò fu rimproverato dal Signore (cf.
Lc 18,9-14). Gloriamoci dunque nella giustizia di Dio, se chiediamo di essere esauditi, per poter dire con il
salmista: “Nella tua giustizia rispondimi” (Gregorio Magno).
L’orante di questo salmo si sente alle soglie della morte, e l’unica consolazione che gli resta è quella di
meditare sulle meraviglie compiute da Dio nella storia: “Mi ricordo dei giorni di un tempo, rimedito su tutte
le tue azioni” (cf. Sal 76,6.12-13)… Potrà forse il Signore dimenticarsi di mostrare ancora il suo amore
fedele (cf. Sal 76,8-10)? No di certo, perciò quest’uomo si protende verso il Signore con tutto il suo
essere assetato di vita, di salvezza (cf. Sal 42,2; 62,2), invoca la sua risposta, facendo leva sulla richiesta
– così frequente nei salmi – che il Signore non “nasconda il suo volto”, altrimenti finirebbe nella fossa.
Egli spera ancora in un nuovo mattino, l’ora dell’esaudimento, perché confida nel Signore. E mentre
chiede di essere liberato dai nemici – il classico terzo lato del “triangolo” dei salmi di supplica –, rinnova la
promessa di impegnarsi a vivere nell’alleanza con il suo Dio. Questa è la via da seguire, la volontà da
compiere: in una parola, la vita (“fammi vivere”)!
Tutto ciò all’insegna di una grande fiducia nel Signore, il vero filo rosso del nostro testo, fiducia espressa
con insistenza nell’ultima parte, ma che rischiara anche la parte più buia del salmo (è al Signore che si
esprime la propria angoscia!):
“‘In te mi rifugio, mi nascondo’: nascondo le mie tribolazioni a ogni persona per raccontarle a te solo,
Signore” (Rashi, maestro ebreo dell’XI secolo).
“Con bontà mi guidi il tuo Spirito su terre che non conoscono inciampi”. Se anche il respiro dell’uomo
viene meno, il Respiro del Signore, identificato da gran parte della tradizione cristiana con lo Spirito
santo, continuerà a guidare chi si affida lui sulla terra pianeggiante, “la terra dei viventi” (Sal 141,6). Sarà
questo il cammino che il solo Signore conosce, anche oltre la morte, quando verrà meno il nostro respiro
(cf. Sal 141,4), quando avremo paura dell’enigma che ci attende?
L’intero salmo è come riassunto nelle due affermazioni conclusive, ispirate alla teologia dell’alleanza: “Sei
tu il mio Dio … io sono il tuo servo”, cioè un credente che vive una profonda comunione con il suo
Signore, nonostante tutto e tutti.
Già si sono anticipate le linee di fondo della lettura cristiana del salmo 143. Innanzitutto quella
cristologica, così sintetizzata da Girolamo: “Questo salmo contiene la voce di colui che, per salvare
l’essere umano, si svuotò, assumendo forma di schiavo, per liberare dalla schiavitù tutta l’umanità”. Si
legge addirittura in un antico titolo: “Cristo, dall’alto della croce stese le braccia sia verso il popolo non
credente (!) sia verso il Padre”. Non dimentichiamolo…
Fino alla fine Gesù ha pregato il Padre perché gli insegnasse a compiere la sua volontà: “Non ciò che
voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39); “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).
Ed è stato esaudito in modo straordinario: il suo Spirito lo ha condotto alla resurrezione, alla vita eterna, a
quell’amore pieno che Gesù ha sperimentato su di sé, nel mattino ultimo e definitivo, l’alba di Pasqua.
Ogni credente in Gesù Cristo, di conseguenza, può pregare il salmo 143 attraverso di lui: nessuno si
salva da solo, ma nulla è impossibile “in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza, giustizia,
santificazione e redenzione” (1Cor 1,30). Come egli ha accolto i peccatori pubblici nel corso della sua vita
terrena, così accoglie nella sua misericordia questa preghiera di confessione del peccato, chiedendo a
chi va a lui solo di riconoscere la propria fallibilità, le proprie tenebre, la propria morte: così Cristo potrà
diventare “la via, la verità” – cioè la volontà di vivere nella fedeltà – “e la vita” (Gv 14,6) di chi aderisce a
lui. Al punto da donare a ogni suo discepolo il Respiro ricevuto dal Padre, quale dono fondamentale dopo
la resurrezione (“Venne Gesù, stette in mezzo … soffiò e disse loro: ‘Ricevete lo Spirito santo’”: Gv
20,19.22), Spirito che è la forza in cui donare a nostra volta la remissione dei peccati (cf. Gv 20,23). È
questa la verità ultima e definitiva cui ci vuole guidare lo Spirito di verità (cf. Gv 16,13).
Ecco dove può condurre, nel quotidiano, la “vita in Cristo”: a fare di lui il respiro del nostro respiro, ad
attraversare con lui ogni angoscia e battaglia, ad accogliere il volto di Dio da lui narrato, in tutta la nostra
vita. Lo aveva ben compreso ancora Lutero, a chiusura del suo commento:
“Perché io sono il tuo servo”. Ciò significa: “Io vivo nella grazia, perciò tutta la mia vita serve te, non me;
infatti io non cerco me stesso, ma te e ciò che è tuo. Cerco solo e unicamente Gesù Cristo”. Confesso
che tutte le volte che ho trovato nella Scrittura qualcosa meno di Cristo non mi sono mai saziato: Cristo è
la grazia di Dio, la sua misericordia, la sua giustizia, la sua verità, sapienza, forza, consolazione e
beatitudine che Dio ci ha donate senza alcun nostro merito.
Ecco dove ci ha condotti l’itinerario attraverso i sette salmi penitenziali: alla gioia della resurrezione in
Cristo. Gioia che ci sarà data in pienezza nel Regno, ma che possiamo incominciare a sperimentare,
almeno un po’, già qui e ora, lottando contro le tante forme di morte che ci assalgono, la prima delle quali
è il non riconoscere i propri peccati. Strumento di tale lotta è anche il pregare con amore e intelligenza i
salmi giorno dopo giorno, meditandoli alla luce del Vangelo di Gesù Cristo, il Signore risorto, vivente e
sempre veniente.