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2.Sulla (in)esistenza di vincoli costituzionali o comunitari alla modifica
della tutela reale
Sul vincolo costituzionale, sappiamo bene che non esiste nessuna tutela
reale nella costituzione come ricordato dalla sent.46/2002 c.cost. il quale
ammetteva la possibilità di porre a referendum l’abolizione dell’art.18
dichiarando il referendum legittimo anche in caso positivo (di abolizione
della norma), la corte individuava nell’art.4 il diritto al lavoro ma la misura
e il limite del potere di recesso del datore di lavoro indicando il legislatore
come titolare di tale vincolo.
Per il vincolo comunitario vi sono invece :
art.24 della Carta Sociale Eurpea di Strasburgo del 1996 resa esecutiva con la
l.30/99 e art.30 carta di nizza allegata
Trattato di Lisbona 2007
La prima è caratterizzata dallo scopo di assicurare l’effettivo esercizio del
diritto ad una tutela in caso di licenziamento contenente prescrizioni
dettagliate:
Necessità di valido motivo per licenziamento (condotta-funzionamento
lavoratore)
Diritto dei lavoratori di non esser licenziati senza quel valido motivo-con
indennizzo o altra tutela.
La seconda non manca di entrambe gli aspetti stabilendo:
diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato
necessarie conseguenze generate dal mancato rispetto della norma
Anche se la disciplina si lega al diritto e alle conseguenze non indica il grado
di effettività delle conseguenze, molti stati UE hanno adottato meccanismi
sanzionatori di tipo economico. Il giudice potrebbe ponderare gli interessi
organizzativi dell’impresa, nella dimensione soggettiva (vincolo fiduciario
con futuri adempimenti) e soggettiva (esigenze economiche) e l’interesse del
lavoratore per la sua famiglia e l’esigenza di un reddito. Massimo
D’Antona ritiene che il riequilibrio tra la dimensione
oggettiva/soggettiva/lavoratore ,sia garantita solo dalla reintegrazione nel
posto di lavoro.
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4.Scelte di fondo della nuova normativa
Si voleva ridimensionare l’ambito di operatività della tutela reale, dove si
parlava di reintegrazione nel posto di lavoro solo in caso di violazione di
diritti assoluti del prestatore di lavoro come quello discriminatorio e quello
per motivo illecito. Non si ebbe una vera e propria trattativa con i sindacati
ma una semplice audizione. Nel testo definitivo ha assunto un ruolo centrale
la tecnica normativa con la quale il precedente modello unitario
(reintegrazione-risarcimento) e stato sostituito dalla sola tutela risarcitoria
legata alle possibili causali di licenziamento. Il legislatore cerca di
diversificare il valore del lavoro:
QUALITATIVAMENTE: messa sul piano dei valori di legittimità-
illegittimità di tipo sostanziale(carenza di giustificazione)
QUANTITATIVAMENTE: spessori variabili dei canoni di legittimità
distinzione tra ingiustizia semplice e qualificata
La tutela reale scomposta in 4:
Classica: è riservata a licenziamento inefficace per difetto di forma
scritta/licenziamento discriminatorio o illecito
Reintegratoria: solo indennitaria ma forte x licenziamento ingiustificato x
ragioni soggettive e oggettive
Ridotta: per il licenziamento illegittimo x ragioni oggettive (inidoneità)
Debole: sul piano economico costituisce infine la sanzione per il
licenziamento inefficace per ragioni procedimentali
Con l’originaria riforma dell’art.18 si voleva colpire il datore di lavoro in
maniera maggiore rispetto alla riprorevolezza delle sue scelte e al disvalore
che questa comportava, ovviamente inteso come colpa in senso atecnico. Il
licenziamento è espressione di un potere attuato attraverso lo strumento
negoziale, e bisogna accertarne la sussistenza o meno dei presupposti per il
suo esercizio. Questo panorama molto ampio offrirebbe al datore di lavoro la
possibilità di scegliere “terreno” e “armi” per il licenziamento individuando
una motivazione più “morbida” per evitare sanzioni più dure, in quanto la
diversificazione delle sanzioni lo consentirebbe. In questo contesto
normativo cade sul lavoratore l’onere di prova del licenziamento illegittimo,
mentre in passato la prova era affidata alle presunzioni.
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5.Tesi di sovrapposizione fra licenziamento ingiustificato e licenziamento
discriminatorio.
Considerazioni critiche
Nella valutazione del testo normativo bisogna partire da un duplice
presupposto:
La convinzione che fattori di discriminazione siano esemplificativi es.
(discriminazione x convinzioni personali)
Una nozione di causa in concreto, ovvero le ragioni economiche individuali
e scopo immediato del negozio ed essa può disambiguarsi su 2 livelli:
Contratto di lavoro per cui causa di esso è l’interesse di rilievo
costituzionale a disporre un organizzazione in vista dello svolgimento di un
attività
Negozio unilaterale di licenziamento con il quale viene perseguito
l’interesse a modificare e garantire la funzionalità dell’organizzazione (x
evitare inadempimento o impossibilità)
La conseguenza è che al difuori delle ragioni (cause concrete) consentite il
licenziamento risulterebbe illecito/discriminatorio attivando comunque la
tutela dell’art.18 (ex novo).Vi e poi lo spazio residuale dove anche in
presenza di un licenziamento in linea con le norme, da queste sarebbe da
rilevare un certo scollamento, ovvero una distinzione tra le motivazioni
adottate dal datore di lavoro risultino diverse da quelle notificate al
lavoratore sia in maniera quantitativa che in maniera qualitativa.
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CAPITOLO II
CAMPO DI APPLICAZIONE E PROBLEMI DI COORDINAMENTO
Di Enrico Barraco
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CAPITOLO III
LA QUESTIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO
Di Elena Pasqualetto
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CAPITOLO IV
I quattro regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo tra tutela
reale rivisitata e nuova tutela indennitaria.
Di Carlo Cester
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Il secondo è quello del COMPORTAMENTO delle parti che, se riferito al
lavoratore, serve a dare rilievo a quelle circostanze di contorno della sua condotta
che conducono a considerare ingiustificato il licenziamento
il terzo è quello delle CONDIZIONI delle parti, nel quale si può individuare
un qualche collegamento con le caratteristiche e le dimensioni del danno e nel quale
può trovare spazio l' eventuale aliunde perceptum, anche se non nel senso proprio di
una detrazione, visto che non c' è un valore prefissato suscettibile di decurtazione,
ma un valore non predeterminato (tra il minimo e il massimo ) da costruire.
NB solo nel caso di licenziamento ingiustificato per ragioni oggettive si è
aggiunto il “criterio per le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di
una nuova occupazione” → riemerge così la rilevanza dell' aliunde
percipiendum.
Si è sostenuto in dottrina che sarà onere del lavoratore provare la sussistenza
dei criteri indicati dalla legge al fine di ottenere una liquidazione superiore al
minimo. Viceversa anche il ddl può farlo in funzione riduttiva dell' indennità.
Per quanto riguarda i poteri istruttori del giudice ed il rapporto tra questi e gli
oneri di allegazione e prova a carico delle parti: sicuramente però sul
comportamento e sulle condizioni delle parti, è improbabile che il giudice
svolga indagini d' ufficio ( ma per il comportamento delle parti nel corso
della procedura di conciliazione preventiva può essere acquisito il verbale);
c' è da dire che la previsione di un onere di motivazione trova una
giustificazione se il giudice utilizzi materiali probatori raccolti d' ufficio,
essendo del tutto ovvio che egli debba motivare in ordine ai materiali
probatori offerti dalle parti. In ogni caso sembra preferibile parlare di oneri di
semplice allegazione, e non di prova vera e propria. 2- nel secondo caso, cioè
nel caso di indennità tra 6 e 12 mensilità (nel caso di licenziamento
inefficace per ragioni procedurali) contiene un criterio autonomo di
determinazione dell' indennità risarcitoria.
criterio è dato dalla gravità della violazione formale o procedurale commessa
dal ddl.
Qui non si pongono problemi circa gli oneri probatori, visto che, se la
domanda del lavoratore riguarda i vizi procedurali, necessariamente dovrà
essere il lavoratore stesso a darne prova fin da subito, trattandosi di fatti
costitutivi della sua domanda.
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5.PROBLEMA: LA RICADUTA DELLA NUOVA DISCIPLINA
SANZIONATORIA SUL REGIME DELLA PRESCRIZIONE DEI
DIRITTI DEL LAVORATORE
→ il differimento della prescrizione , alla cessazione del rapporto opera solo
se non sia assicurata la stabilità (per tale si intende una disciplina del
licenziamento in cui si subordini la legittimità e l' efficacia della risoluzione
alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate”. Nell' area di
applicazione della l. 604 opera sempre il differimento della decorrenza della
prescrizione alla cessazione del rapporto; invece per quanto riguarda il nuovo
articolo 18:
c' è chi ritiene che la tutela del nuovo articolo, pur non essendo più quella
reale, sia pur sempre idonea a consentire al lavoratore l' esercizio dei propri diritti
senza timore di essere licenziato.
Altri sostengono la soluzione opposta, sottolineando il fatto che la stabilità
idonea ad escludere il timore del licenziamento non è più sempre garantita, ma è
solo eventuale e comunque tale, in caso di tutela reale non piena, da non produrre
quell' effetto di completa reintegrazione della posizione giuridica preesistente.
D' altra parte la nuova disciplina ha confermato la tutela reale, esplicitandola,
per il caso di licenziamento per motivo illecito, che indubbiamente è quello
di ritorsione rispetto alla rivendicazione dei propri diritti da parte del
lavoratore, però la prova dell' illiceità è difficile; il solo timore del
licenziamento potrebbe ostacolare il lavoratore nell' esercizio dei propri
diritti (es. timore di un trasferimento). In più bisogna prendere atto che la
problematica del decorso della prescrizione dei diritti del lavoratore è
assestata su una disciplina molto vecchia, cioè quella della corte
costituzionale espressa con la sentenza 63 del 1966, ed appare evidente il
bisogno di un intervento della corte, affinchè possa elaborare un nuovo
equilibrio tra le esigenze di protezione del lavoratore, nell' esercizio dei
propri diritti, e le esigenze di certezza giuridica su cui si fonda l' istituto della
prescrizione.
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Capitolo V
I LICENZIAMENTI NULLI.
Di Elena Pasqualetto
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1.Premessa
il nuovo testo dell' articolo 18 st.lav. Prevede che la nullità del licenziamento
viene dichiarata dal giudice, al verificarsi di una delle situazioni di cui al c.1
e comporta l' applicazione della tutela reale piena (che opera anche nel caso
di licenziamento inefficace perché intimato in forma orale).Al c.1 vengono
menzionate fattispecie diverse (licenziamento discriminatorio; intimato in
costanza di matrimonio; o in caso di maternità o paternità; quello causato da
motivo illecito determinante; quello riconducibile ad altri casi di nullità
previsti dalla legge) ed a tutte si applica la tutela reale piena.
Questa disciplina non era possibile con il vecchio articolo 18 che (per quanto
riguardava ai casi di nullità) rinviava alla legge 604/1966 , che conteneva un
elenco tassativo di ipotesi di nullità, tra cui il licenziamento discriminatorio
e non anche le altre ipotesi oggi ricomprese nel nuovo testo; anche la l.
108/1990 aveva previsto l' applicazione dell' articolo 18 solo a quelle ipotesi
di licenziamento discriminatorio. Quindi secondo l' opinione prevalente il
licenziamento intimato in costanza di matrimonio ; o quello in caso di
maternità/paternità; e in tutte le altre ipotesi di recesso datoriale nullo; non
cadevano sotto la protezione dell' articolo 18 , ma per essi operava la tutela
reale di diritto comune. L' unica eccezione, a cui era stata estesa l'
applicazione dell' articolo 18 era il caso di licenziamento per motivo illecito.
Quindi si è scelto di omogeneizzare le tutele per i casi di licenziamenti afflitti
dai peggiori difetti (prevedendone eccezionalmente l' operatività
indipendentemente dal numero di lavoratori occupati) → ricorda che la
disciplina dei primi 3 commi dell' articolo 18, trova applicazione ogni volta
che il licenziamento risulti effettivamente determinato da motivi
discriminatori o da una delle altre ragioni cui si fa riferimento al primo
comma, e ciò indipendentemente dalla motivazione addotta dal ddl (ciò lo
conferma il c. 7 che cita “se nel corso del giudizio, il licenziamento risulti
determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le
relative tutele previste dall' articolo 18). spetta al giudice, al di là delle
giustificazioni addotte dal ddl, ricercare (nel limite dei suoi poteri istruttori, e
quindi a condizione che vi sia una domanda del lavoratore in tal senso) la
vera ragione che sorregge il licenziamento, ed applicare la corrispondente
tutela.
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L' elenco delle fattispecie che il legislatore riconduce alla “categoria” del
licenziamento nullo, ha carattere esemplificativo → e ciò lo capiamo dal c.1
dove si dice “recesso riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla
legge”, ed è l' interprete che deve occuparsi di trovare altre violazioni diverse
da quelle scritte nello stesso comma, ma di tale gravità da comportare la
nullità del licenziamento. (NB se si guarda bene si può affermare che le
figure descritte al C. 1 esauriscono le possibili ipotesi di nullità.
CAPITOLO VI
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO
SOGGETTIVO O PER GIUSTA CAUSA
Di Marco Tremolada
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Quindi a seconda del tipo di licenziamento stabiliremo quale sia la tutela
prevista dall' articolo 18.
Il licenziamento disciplinare dichiarato nullo o inefficace perchè intimato
verbalmente → si applica la tutela reintegratoria piena, (c. 1-3) tali commi
riguardano i vizi del recesso → In tali casi deve esserci la reintegrazione del
lavoratore nel luogo di lavoro, indipendentemente dal motivo che ha portato
al licenziamento. Tale previsione si trova al c. 1 che sostituisce la precedente
previsione dell' articolo 18 della tutela di diritto comune, ed è proprio per
questa sua funzione sostitutiva che ha un' applicazione tendenzialmente
generale (solo per i rapporti a tempo indeterminato, in quanto l' articolo 18 si
riferisce al sistema normativo introdotto dalla l. 604, che infatti riguarda solo
i rapporti a tempo indeterminato) → in quanto non operano né il limite del
numero minimo di dipendenti (previsto invece dal c.8 per gli altri tipi di
tutele); né , salvo eccezioni (ad es.il rapporto di lavoro in prova, entro i 6
mesi dal suo inizio), l' esclusione di determinati rapporti di lavoro che invece
la l. 604 sottrae all' applicazione della regola di giustificazione necessaria del
licenziamento.
Il licenziamento disciplinare: tra le ipotesi di nullità del licenziamento
specificatamente richiamate dall' articolo 18 c. 1, ve ne sono due in ordine
alle quali, le leggi speciali che le regolano attribuiscono rilievo al
licenziamento disciplinare; si tratta delle ipotesi di licenziamento in costanza
di matrimonio o licenziamento nel periodo di tutela della maternità, in tali
ipotesi è ammesso il licenziamento solo in determinati casi (tassativi) come
ad esempio colpa grave. in tali ipotesi si desume la peculiarità del
licenziamento disciplinare, rispetto a quello delle ipotesi previsti dai commi
successivi al 3°.da un lato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo
è nullo anche se giustificato, in quanto l' esenzione dalla nullità opera solo in
caso di licenziamento per giusta causa; dall' altro lato per ciò che vi sia tale
esenzione deve trattarsi di recessi per giusta causa che non sia viziato, infatti
nel caso di vizio procedimentale del recesso, comporta l' ingiustificatezza del
recesso stesso, da qui vediamo che il licenziamento disciplinare è sanzionato
in modo molto più severo rispetto agli altri casi dell' articolo 18.
il licenziamento dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale (art.
18 c.1), due precisazioni:
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→ una di carattere generale: anche se la norma in esame non introduce un
vincolo di forma del recesso, è chiaro il riferimento all' articolo 2 della l. 604
che prevede la forma scritta del licenziamento, prevedendone l' inefficacia in
caso di mancanza di forma scritta ad substantiam → tutela reintegratoria
piena.
→ riferita specificatamente al licenziamento disciplinare: non è possibile
desumere dal c. 5 dell' articolo 7 st.lav. (che prevede il requisito della forma
scritta per l' atto di contestazione dell' addebito) che tale requisito di estenda
anche al caso di licenziamento, con l' effetto che (visto che tale norma è di
applicazione generale) il recesso disciplinare dovrebbe essere sempre
intimato per iscritto. Fin' ora abbiamo parlato di nullità o inefficacia → tutela
reintegratoria piena;
negli altri casi vengono in considerazione altre ipotesi di illegittimità del
licenziamento disciplinare contemplate dai commi 4,5,6. e 7, che danno
luogo a diverse tutele, applicabili (ai sensi del comma 8) solo ai ddl che
abbiano più di 60 dipendenti (requisito numerico non richiesto nei primi 3
commi) o più di 15 ( 5 per impresa agricola) nell' unità produttiva cui sia
addetto il lavoratore licenziato.
→ ipotesi in cui il giudice accerta un difetto di giustificazione (commi 4 e
5 );
→ ipotesi in cui viene accertato un vizio di motivazione o al procedimento
disciplinare (comma 6);
→ ipotesi di accertamento che il licenziamento intimato per giustificato
motivo oggettivo è stato determinato da ragioni disciplinari (comma 7)
NB: se ricorrono tali ipotesi, ma non ricorrono i requisiti numerici, allora le
conseguenze dell' illegittimità del licenziamento continuano a essere soggette
alle regole vigenti prima della riforma, si tratta di regole che vengono talora
enucleate dall' interprete in assenza di norme specifiche, ad esempio nel caso
di licenziamento viziato quanto al procedimento si ha l' applicazione delle
c.d. Sanzioni di area, cioè applicazione delle stesse conseguenze del recesso
ingiustificato, che sono diverse a seconda che il rapporto dia soggetto alla l.
604 o soggetto al regime del libero licenziamento ex art. 2118 e 2119 cc.
Il licenziamento disciplinare ingiustificato: quello annullato e quello
dichiarato risolutivo del rapporto → (c. 4 e 5) questa è l' ipotesi in cui il
giudice accerta che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo
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soggettivo o giusta causa addotti dal ddl ; cioè accerta che il licenziamento
è illegittimo per un vizio relativo al requisito della giustificazione. I
commi 4 e 5 suddividono il vizio di giustificazione in due classi di vizi del
licenziamento:
prima classe: tutela reintegratoria attenuata, che si applica dopo l'
annullamento del recesso; tale classe è regolata dal c. 4 e riguarda due fattispecie
tipizzate (due ipotesi di ingiustificatezza qualificata) e cioè l' ipotesi di
accertamento dell' insussistenza del fatto contestato, e l' ipotesi in cui si accerta che
il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
QUESTA E L' ECCEZIONE → La reintegra è l' eccezione ed è prevista in
presenza della rilevanza della colpa del datore nell' intimazione al licenziamento.
seconda classe: tutela indennitaria forte, che si applica dopo la dichiarazione
di risoluzione del rapporto; disciplinata dal c. 5 e riguarda le altre ipotesi in cui il
giudice accerta che non vi siano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o
della giusta causa e quindi ricomprende tutti i vizi riguardanti la giustificazione del
recesso, che siano diversi dai 2 elencati poco sopra. → E' LA REGOLA.
La funzione dei due commi è quella di indicare le conseguenze dell'
accertamento di un vizio di giustificazione del licenziamento; l' applicazione
dei diversi regimi di tutela presuppone solo la qualificazione disciplinare del
recesso e non che la motivazione sia stata esplicitata nell' atto o che ci sia
stato la previa contestazione dell' addebito.
Esaminiamo ora le due ipotesi di vizio della giustificazione (della prima
classe) per cui è prevista la reintegrazione:
→ insussistenza del fatto contestato: in tale formula è stato ricompreso
anche il caso in cui il lavoratore non abbia commesso il fatto (come era
previsto espressamente nell' originario c.4)
cosa si intende per fatto? (vedi slide da 40)
TESI RESTRITTIVA (fatto in senso naturalistico) sostiene che si tratti di
fatto in senso oggettivo, materiale cioè nel senso di azione od omissione, in cui
deve comprendersi il nesso di causalità tra fatto e danno. attribuzione del fatto
materiale al lavoratore e se la condotta non ha portato al danno c' è l' insussistenza
del fatto.
TESI ESTENSIVA: (fatto in senso giuridico) invece sostiene che
rientrerebbero nella nozione di fatto (ampliando la nozione): da un lato un
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comportamento qualificabile come inadempimento contrattuale, dall' altro lato i
profili soggettivi della condotta, cioè l' intenzione , la colpevolezza e l' intensità.
Quindi per fatto dovrebbe considerarsi un azione del lavoratore qualificata da una
specifica volontà e finalità, tale da poter configurare una causa legittima di
licenziamento, e cioè un' azione o omissione caratterizzata da una certa gravità
anche sotto il profilo degli intenti perseguiti. Questa interpretazione non viene
condivisa perchè forza la lettera della legge, per cui deve tenersi distinto l' elemento
del fatto, cui si riferisce il c. 4, da quelli della sua antigiuridicità e della
colpevolezza dell' agente.
Quindi partendo dal presupposto che la regola è l' indennità e l' eccezione è
la reintegra, quale è la tesi da preferire? Si deve optare per una tesi
restrittiva, salvo nei casi previsti per la reintegrazione. Tesi restrittiva
comunque necessita di correttivi, in quanto in certi casi la verifica dei fatti
può comportare abusi infatti:
Cosa succede se il fatto è sussistente ma è inconsistente? Cioè se per la sua
natura o entità appare ICTU OCULI, cioè come un mero pretesto cui è
ricorso il datore per liberarsi del dipendente con un recesso da doversi
considerare non ingiustificato ma arbitrario, in tale categoria potrebbero
rientrare alcuni casi ipotizzati dalla dottrina come quelli del licenziamento
intimato perchè il lavoratore ha assistito alla partita di calcio la domenica o
per un ritardo di qualche minuto del lavoratore.
In tali casi qual' è il rimedio? Secondo una prima tesi In tali casi c' è una
frode alla legge (1344 cc), utilizzata dal ddl che utilizza quel fatto per
godere della tutela per lui più favorevole per evitare quindi la
reintegrazione, quindi il ddl elude la norma, ovviamente in caso di frode alla
legge la sanzione è quella dell' applicazione del regime della tutela
reintegratoria piena (rientrerebbe nella previsione “gli altri casi di nullità
previsti dalla legge”) → secondo un' autorevole dottrina civilistica, la frode
alla legge determinerebbe (ex art. 1344) la nullità nel negozio, nel caso in cui
l' elusione riguardi norme proibitive, ed invece la mera inefficacia , se si tratti
di elusione di norme ordinatorie, l' inefficacia però sarebbe limitata all'
effetto elusivo , per cui l' atto sarebbe efficace, ma ad esso si applicherebbe
la norma elusa; un' ulteriore tesi invece sostiene che nel caso in cui il fatto è
inconsistente si deve ritenere che non è stato quello che ha portato al
licenziamento → cioè qui il fatto rappresenta solo la causa apparente del
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recesso e non quella reale, di conseguenza non c'è il nesso di causalità tra
fatto e licenziamento, quindi il fatto dovrebbe essere parificato al fatto
insussistente perchè è come se non esistesse al fine dell' applicazione del
regime della reintegrazione.
→ il secondo vizio per cui è prevista la reintegrazione è che il fatto
contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari
applicabili: cioè il fatto sussiste , ma prevede solo una sanzione conservativa
e non il licenziamento; in tal caso il giudice non può dar seguito alla
domanda del ddl di fare un accertamento se tale mancanza possa comportare
il licenziamento (non serve che sia stata accertata preliminarmente la
sussistenza del fatto contestato al lavoratore), perchè tale valutazione è già
fatta dal codice disciplinare, quindi il ddl che effettua il licenziamento
intercorre in colpa grave e quindi l' unica sanzione è quella conservativa: se
intercorre in colpa grave la sanzione irrogata e quella della reintegra. È da
osservare che le clausole dei codici disciplinari che prevedono le mancanze e
le sanzioni sono formulate in diverso modo: a volte sono puntuali, quindi
escludono ogni dubbio, si dice che soddisfano il requisito della
SPECIFICITA' QUALIFICATA cioè tale da consentire al ddl di capire
agevolmente (senza dover compiere valutazioni) che il tipo di mancanza
commessa dal lavoratore poteva essere punita solo con una sanzione
conservativa (ad esempio è il caso di un contratto collettivo che prevede una
sanzione conservativa per assenza ingiustificata fino a 3 giorni nell' anno
solare); altre volte non sono precise nell' indicare mancanze e sanzioni per
cui è necessario verificare di volta in volta se ricorre l' ipotesi del vizio del
licenziamento→ il ddl deve fare in tali casi una valutazione di gravità , nel
caso di errore non è soggetto a colpa grave.
NB → in materia disciplinare non è possibile l' estensione analogica delle
clausole perchè il licenziamento ha carattere punitivo; Le norme del codice
disciplinare sono state concepite come norme di stretta interpretazione. Le
altre ipotesi (comma 5) in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi
del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal ddl, e
quindi applica il regime indennitario forte → rientrano tutti gli altri casi di
difetto di giustificazione del licenziamento. Il caso di maggior rilievo
(succede spesso) è quello in cui il giudice ritenga il recesso ingiustificato
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sulla base di una valutazione delle circostanze del caso concreto, come ad
esempio la presenza di attenuanti che incidono sul requisito della
colpevolezza, rendendo sproporzionata in concreto, la sanzione estintiva del
rapporto di lavoro. Altri casi di difetto di giustificazione che determinano l'
applicazione del regime indennitario → pagine seguenti.
Il licenziamento disciplinare affetto da vizi di motivazione o procedimentali
dichiarato inefficace e al tempo stesso risolutivo del rapporto → (c. 6 art. 18)
articolo regola l' ipotesi di illegittimità del licenziamento dovuto a vizi circa
la motivazione o al procedimento disciplinare.
Entrambi i vizi comportano inefficacia che viene “sanata” dalla pronuncia
con cui il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data
del licenziamento e applica il regime indennitario dimezzato.
con la l. Fornero cosa succede? Si supera la distinzione tra vizi della
motivazione e vizi al procedimento e dall' altro lato si fa venire meno in entrambi i
casi, la tutela di carattere reale dell' interesse del lavoratore alla conservazione del
posto, attribuendo efficacia definitiva al licenziamento illegittimo.
Tuttavia il c. 6 prevede che se sia stata accertata anche l' ingiustificatezza (su
domanda del lavoratore), allora trovano applicazione le tutele previste dai c.
4, 5, che sostituiscono quelle del c. 6, quindi il giudice dovrà annullare il
licenziamento (se si verifica ipotesi di reintegrazione di cui al c. 4) o
dichiarare risolto il rapporto di lavoro ed applicare il regime indennitario
forte (se c. 5).
un interprete ha prospettato la tesi per cui il licenziamento intimato senza
procedimento né motivazione dovrebbe essere equiparato al licenziamento
per fatto insussistente → tesi che non può essere condivisa, in quanto contra
legem: il c. 6 prevede che il vizio procedimentale non può comportare di per
sé (quindi automaticamente) l' applicazione della tutela prevista per difetto
del requisito di giustificazione (c.4. Tutela reale attenuata) → ma tale tutela
sarà applicabile solo se vi sarà la domanda del lavoratore, sull'
ingiustificatezza del recesso, ed in tal caso a seconda del vizio si avrà tutela
reale attenuata o tutela indennitaria piena (quindi non automaticamente
nemmeno la reintegrazione, come invece si sosteneva nella tesi). In tale tesi è
stata anche affermata la svalutazione delle regole del contraddittorio (per cui
il lavoratore avrebbe diritto alla difesa preventiva e all' impugnazione) e
della conoscibilità dei motivi (per cui la motivazione dovrebbe essere
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contestuale al recesso) del licenziamento, ciò determinerebbe l' illegittimità
delle norme in esame che violerebbero l' articolo 24 cost Per cui chi è
soggetto ad un potere punitivo deve potersi difendere dalla accuse che gli
vengano mosse, come ha affermato la corte costituzionale quando ha sancito
l' applicabilità al licenziamento del procedimento disciplinare. Il lavoratore
che abbia rinunciato a chiedere l' accertamento dell' ingiustificatezza del
recesso o che sia risultato soccombente in relazione a tale accertamento ha
diritto ad un indennità compresa tra 6 e 12 mensilità.
NB nel caso in cui venga accertato il difetto di giustificazione, abbiamo
detto che si applicano uno dei due regimi previsti dai commi 4 e 5 a seconda
del caso. Però la legge non prevede una sanzione specifica per i vizi di
motivazione o del procedimento accertati dal giudice, dato che operano solo
quelle previste per l' ingiustificatezza del recesso → si supera tale perplessità
perchè una tutela c' è stata, ed è il lavoratore a chiedere che sia accertata l'
ingiustificatezza, di conseguenza lui è stato tutelato → si tempera così!!!!
cosa si intende per procedimento disciplinare al fine dell' applicazione della
tutela in caso di illegittimità del licenziamento per vizi procedimentali?
→ difetto di pubblicazione del codice disciplinare: dovrebbe comportare l'
ingiustificatezza del licenziamento, non essendo questo irrogabile per la
mancanza, con la conseguente applicazione del regime indennitario forte
(c.5.) tuttavia la giurisprudenza richiede la pubblicazione solo nei casi in cui
le mancanze assoggettabili a licenziamento non siano percepibili come tali
dai lavoratori, perchè connesse a peculiari esigenze dell' organizzazione
aziendale.
Il procedimento ai sensi dell' art. 7 st. lav. Si compone:
fase di contestazione dell' addebito
fase della difesa del lavoratore
e le regole procedimentali sono sia quelle legali che quelle dettate dai
contratti collettivi applicabili.
Non sembra compresa nel procedimento anche la fase di intimazione del
licenziamento e tale soluzione a parte confermata dal c. 41 art. 1 l. 92 in cui
si parla di licenziamento intimato all' esito del procedimento disciplinare. Di
cui all' articolo 7 st.lav. E il c. 41 prevede che tale licenziamento produce
effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato
avviato (innovazione rispetto al vecchio articolo), e cioè da quando il
37
lavoratore ha ricevuto la contestazione dell' addebito → ciò non provoca un
incorporazione ex post nel procedimento dell' atto di licenziamento.
Il licenziamento intimato pet giustificato motivo oggettivo ma determinato
da ragioni disciplinari → fattispecie del c. 7 che può definirsi
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE OCCULTO poiché il recesso è stato
intimato per giustificato motivo oggettivo, ma “nel corso del giudizio, sulla
base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulta
determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari” → in tali casi si
applicano le tutele dell' articolo 18 per i casi di illegittimità del licenziamento
disciplinare e non invece quelle tutele previste in caso di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo. In sostanza il c. 7 dice che ai fini dell'
applicazione delle tutele dell' articolo 18, ciò che viene in rilievo non è la
ragione formalmente addotta dal ddl a giustificazione del recesso, ma la
ragione che effettivamente lo ha determinato. → il fine della norma sarebbe
quello di impedire che il ddl possa scegliere il regime dell' illegittimità del
licenziamento da doversi applicare. Il c. 7 non presuppone un impiego
simulato o fraudolento del giustificato motivo oggettivo e ciò può trovare
conferma per esempio con l' ipotesi del licenziamento per scarso rendimento,
cioè se è vero che l' insufficiente rendimento può essere dovuto a negligenza
(rilevante sotto il profilo disciplinare) o imperizia (non rilevante sotto tale
profilo) del lavoratore, è altrettanto vero che può essere difficile stabilire in
concreto quale di queste ipotesi effettivamente ricorra e quindi quale sia la
forma corretta di recesso da adottare.
Il c. 7 poi si occupa delle ipotesi in cui vi sia concorrenza tra motivo
oggettivo e soggettivo del licenziamento poiché il ddl ha intimato un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo a fronte di una situazione che
si prestava a essere valutata sia sotto tale profilo che sotto quello
disciplinare. In tali ipotesi ci sono diverse opinioni:
→ tesi prevalente: c' è la priorità delle ragioni disciplinari rispetto al
giustificato motivo oggettivo, in tale ottica il c. 7 troverebbe applicazione.
→ tesi minoritaria: che lascia una certa discrezionalità nella scelta;
la seconda tesi è preferibile perchè anche l' articolo 3 della l. 604 configura
due distinti presupposti di legittimità del licenziamento: l' inadempimento da
un lato, e le ragioni aziendali dall' altro, ma non detta indicazioni circa la
prevalenza del primo → nel licenziamento disciplinare rileva l'
38
inadempimento in sé considerato a prescindere dalle conseguenze prodotte
sull' organizzazione aziendale; invece nel licenziamento per giustificato
motivo oggettivo assumono specifica importanze proprio tali conseguenze
sull' organizzazione aziendale. Il c. 7 dà rilievo al motivo disciplinare che ha
determinato il licenziamento; tuttavia nel caso concreto è da preferire la
seconda tesi. La legge prevede la necessità della domanda del lavoratore
perchè il giudice possa procedere ad accertare se il licenziamento sia stato o
no determinato da ragioni disciplinari, il lavoratore deve anche allegare e
provare i fatti da cui desume che il motivo del recesso intimato per
giustificato motivo oggettivo è di carattere sanzionatorio, tale situazione è
stata definita “paradossale e dagli esiti imprevedibili” perchè il lavoratore
dovrebbe provare che il recesso è riconducibile a un suo inadempimento. →
è evidente però che il lavoratore chiederà l' accertamento della natura
disciplinare del licenziamento solo quando non corra il rischio che i dati
addotti a tal fine sono idonei a giustificare il recesso.
Una volta accertato il carattere sanzionatorio del licenziamento (che può
rilevare solo se il ddl non ha provato l' esistenza di un giustificato motivo
oggettivo) è il ddl che deve provare la giustificatezza del recesso disciplinare
e pare che possa far valere qualsiasi fatto rilevante.
ED ECCOCI ARRIVATI AL PUNTO FONDAMENTALE DELLA
QUESTIONE: quali sono le modalità secondo cui devono essere applicate al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (del quale si sia accertata la
natura sanzionatoria) le tutele previste per il licenziamento disciplinare
illegittimo del c. 7????
per quanto riguarda i vizi di motivazione e procedimentali : sussistono
sempre, visto che il licenziamento è stato intimato per giustificato motivo oggettivo
ed è ovvio che al licenziamento illegittimo sotto tale profilo si applica la tutela
indennitaria attenuata di cui al c. 6
se sia stata accertata l' ingiustificatezza del recesso, vale quanto già detto per
i commi 4 e 5; e si applica la tutela nel caso in cui il lavoratore sia stato licenziato
senza motivazione ne procedimento disciplinare ed abbia richiesto l' accertamento
del difetto di giustificazione del licenziamento detto sopra.
C' è una tesi che dice: nel caso in cui il ddl abbia intimato il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, cioè per un fatto diverso da una mancanza del
lavoratore, comporterebbe automaticamente (ed escludendo quindi che il ddl possa
39
poi provare la giustificazione del recesso) il vizio dell' insussistenza del fatto
contestato (c. 4), per cui si dovrebbe sempre applicare la tutela reintegratoria
attenuata. DIFETTO DI TALE TESI: esclude a priori l' applicabilità del regime
indennitario forte stabilito dal c. 5 per il recesso ingiustificato. Pare preferibile
ritenere che anche nel caso di accertamento dell' ingiustificatezza del licenziamento
disciplinare occulto, il giudice debba applicare il regime reintegratorio di cui al c. 4
ove ricorrano i due vizi specifici, mentre debba applicare il regime indennitario di
cui al c. 5 in tutti gli altri casi di difetto di giustificazione del recesso.
CAPITOLO VII
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
Di Adriana Topo
43
la cassazione aveva distinto le due situazioni non solo per sottolineare l'
autonomia e la specialità della fattispecie al 2110, rispetto alle disposizioni
dettate dalla l. 604, ma anche soprattutto ai fini di escludere l' onere del ddl
di discutere ipotesi alternative al licenziamento con il lavoratore, essendo
sufficiente, secondo il giudice di legittimità, il trascorrere del tempo e lo
scadere del termine a favore del ddl, in assenza di una ripresa dell' attività
lavorativa per rendere giustificato il licenziamento.
La l. 92 al c. 42 , inteso a modificare l' art. 18, distingue tra licenziamento
per giustificato motivo oggettivo dal licenziamento ai sensi degli articoli 4 e
10 della legge 68 del 1999 per motivo oggettivo consistente nell' inidoneità
fisica o psichica del lavoratore e ancora dal licenziamento intimato in
violazione dell' articolo 2110 cc. La l. Fornero ha voluto condizionare la
facoltà di recesso all' attivazione della procedura di conciliazione solo nel
caso di licenziamento per ragioni tecniche, organizzative e produttive, e non
negli altri casi (quindi licenziamento per giustificato motivo oggettivo in
senso stretto) e non anche nel caso di superamento del periodo di comporto;
ed infine nel caso previsto dalla l. 68 del 1999 (cioè per inabilità per causa
imputabile al ddl) è prevista la non obbligatorietà della fase conciliativa. La
ratio di tale non obbligatorietà? Perchè i lavoratori divenuti inabili per causa
addebitabile al ddl, beneficiano comunque di un percorso volto a valorizzare
la residua capacità lavorativa, con il sostegno degli uffici competenti. Si
prevede l' esclusione della fase conciliativa anche per il licenziamento dei
lavoratori disabili obbligatoriamente assunti (68/99) dato che la legge già
prevede per tale categoria la proceduralizzazione del potere di licenziamento
volta a riscontrare le compatibilità tra: la modificazione dell' organizzazione
produttiva e la permanenza del disabile, o tra l' aggravamento delle
condizioni del disabile e l' organizzazione esistente.
44
diverse (se possibile), anche inferiori, con la conservazione della retribuzione
più elevata.
La l. del 2008 però non ha previsto in tali situazioni una forma di
ricollocazione assistita (come invece c' è nella l. 68) quindi risulta difficile
giustificare la non obbligatorietà della fase di conciliazione anteriore al
licenziamento.
Sopravvenuta inidoneità è un' ipotesi diversa dalla malattia: la malattia ha
carattere temporaneo e determina l' impossibilità della prestazione; la
sopravvenuta inidoneità ha carattere permanente, o indeterminato e
indeterminabile e non comporta l' impossibilità totale della prestazione,
dando luogo a risoluzione del contratto a prescindere dal superamento del
periodo di comporto. Per capire meglio vediamo cosa dice la cassazione: le
ripetute assenze del lavoratore riconducibili ad un unico disturbo, dipendente
dalle modalità di esecuzione della prestazione, ricorrerebbe proprio l' ipotesi
dell' inidoneità alle mansioni, per cui il datore non dovrebbe consentire la
prosecuzione della prestazione (pericolosa per il lavoratore), e quindi a
prescindere dal periodo di comporto (FATTO SALVO L' ONERE DEL DDL
DI VERIFICARE L' UTILIZZABILITA' DEL LAVORATORE IN ALTRE
MANSIONI) potrebbe recedere facendo valere il difetto di interesse del ddl
alla continuazione del rapporto.
Non sembra necessario che l' inidoneità sia definitiva.
Diverse sono le ipotesi di sopravvenuta inidonietà nelle mansioni e quella
del riconoscimento dello status di invalido del lavoratore da parte degli enti
previdenziali; tale status è finalizzato a soddisfare l' interesse del lavoratore
ad ottenere determinate prestazioni previdenziali e l' accertamento da parte
degli organi competenti dell' inidoneità allo svolgimento delle mansioni
contrattuali. Il ddl non potrebbe far valere la mera acquisizione di tale status
come presupposto per recedere dal rapporto di lavoro.
Oggi la sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, dal punto
di vista dei principi di diritto civile applicabili, è stata assimilata all'
impossibilità parziale della prestazione (1464) impossibilità che comporta la
legittimità del recesso, ove il ddl, non abbia un interesse apprezzabile al
proseguimento della prestazione. Non vi è però impossibilità nel caso in cui
si verifichi la mera difficoltà nello svolgimento delle mansioni, in tali casi
per superare tale difficoltà il ddl base che consenta l' adozione di diverse
45
modalità di esecuzione della prestazione, compatibili con l' assetto aziendale,
posto che grava sul ddl un obbligo di cooperazione all' esecuzione della
prestazione.
Il dovere del ddl di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le
proprie mutate condizioni fisiche, non sussiste secondo la giurisprudenza di
legittimità, nel caso in cui l' inidoneità sia imputabile al lavoratore a titolo di
dolo o colpa, si ha dubbi se tale limite sia ancora valido a seguito dell' entrata
in vigore della L del 2008 che non distingue tra dop o colpa, affermando solo
il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni diverse. Tale circostanza
rende opportuno (non necessario) l' effettuazione di un accertamento sulle
condizioni del lavoratore da parte degli organi competenti prima o durante la
procedura conciliativa anteriore al licenziamento, dovendosi sempre tenere
conto del dovere del giudice di valutare l' atteggiamento tenuto dalle parti in
tale contesto , al fine della determinazione del risarcimento dovuto e della
ripartizione delle spese processuali.
54
11.La sanzione per le altre ipotesi d' illegittimità del licenziamento
fondato su un giustificato motivo oggettivo e la prospettiva afflittiva
della legge n° 92
esclusi i casi in cui assume rilevanza il mancato adempimento degli oneri
strettamente formali e procedurali, il regime sanzionatorio del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, si articola in modo peculiare quando la
giustificazione addotta dal ddl non riguardi l' inidoneità delle mansioni o la
violazione dell' articolo 2110, o non sia stata verificata l' insussistenza del
fatto addotto. Comma 7 art. 18 si detta la formula di “altre ipotesi” che è
corrispondente a quella del comma 5 (per il licenziamento per giustificato
motivo soggettivo, quindi il giudice, dopo aver dichiarato risolto il rapporto,
condanna il ddl al pagamento di un' indennità risarcitoria onnicomprensiva
da 12 a 24 mensilità dell' ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'
anzianità del lavoratore, e tenuto conto del numero di dipendenti occupati,
dalle dimensioni dell' attività economica, del comportamento e delle
condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a riguardo. L'
interprete però deve individuare i casi che rientrano nella categoria “altre
ipotesi” Ciò sarà complicato dato che la nozione di giustificato motivo
oggettivo non esiste al di fuori della norma che la prevede, norma che, al di
là dell' opera di scomposizione (per dettare un nuovo regime sanzionatorio)
operata dalla l. 92, individua i limiti del potere di recesso. La giurisprudenza
formatasi sull' articolo 3 della l. 604 ha sottoposto le ipotesi concrete di
licenziamento a dei tipi di verifica (già detti sopra):
verifica sulla veridicità dei fatti affermati a fondamento del licenziamento da
parte del ddl
nesso di coerenza tra i fatti addotti e il licenziamento posto in essere
verifica dell' impossibilità per il ddl di adibire il lavoratore ad altre mansioni
quindi se non si ritiene che la non veridicità delle affermazioni del ddl
coincide con la “manifesta insussistenza del fatto” posto a fondamento del
licenziamento, è chiaro che le altre ipotesi sono costituite in primo luogo dal'
ipotesi del mancato riscontro del nesso di coerenza (da parte del giudice) o
dell' impossibilità per il ddl di adibire il lavoratore ad altre mansioni.
Per concludere: le “altre ipotesi” sembrerebbero coincidere in primo luogo,
con quelle situazioni che, prima della riforma, erano state descritte con la
formula repechage, o con situazioni caratterizzate dalla presenza di una
55
pluralità di lavoratori tutti esposti al licenziamento, in relazione ai quali il ddl
ha l' obbligo di adottare criteri oggettivi di scelta per la selezione del
dipendente da licenziare. La diversità delle sanzioni adottate dalla riforma
Fornero, può apparire ingiustificata agli occhi del lavoratore, che in ogni
caso si vede privato del posto di lavoro, senza un fondamento che giustifichi
il licenziamento; La scelta operata dalla legge di individuare diverse sanzioni
risulta comprensibile se si abbandoni la prospettiva tradizionale che
imponeva di interpretare il regime sanzionatorio del licenziamento
illegittimo come un regime inteso al ripristino della situazione economica
alterata dall' atto di recesso, e che leggeva nel diritto alla reintegrazione nel
posto di lavoro, una forma di risarcimento in forma specifica.
In realtà la l. 92 appare indifferente al danno patito dal lavoratore, ed invece
appare intesa ad affermare un' idea afflittiva di sanzione contro il
licenziamento → dunque in tale legge è massima la sanzione per il
licenziamento che appare basato su fatti insussistenti; invece è attenuata la
pena per il licenziamento anch' esso ingiustificato, che non evidenzi l'
imperizia datoriale; essendo solo l' ipotesi del licenziamento odioso, perchè
discriminatorio, assoggettata in ogni caso al regime più severo, ma coerente
con l' idea del pieno ristoro della perdita subita dal lavoratore.
12.Conclusioni
→ il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo crea molte incertezze; la distinzione tra “manifesta insussistenza
del fatto” e “altre ipotesi” di illegittimità del recesso ha provocato curiosità
tra i commentatori che si sono chiesti se la legge non avesse inteso in
qualche modo influire anche sulla nozione stessa di giustificato motivo
oggettivo.
L'attenzione della dottrina si è soffermata su situazione per cui si è dubitato
della possibilità di individuare il fatto, presupposto del recesso, fatto che,
prima della riforma, nessuna norma indicava come elemento necessario della
fattispecie di giustificato motivo oggettivo, fatto che secondo altri, invece,
consiste proprio nella “soppressione del posto di lavoro” le cui ragioni il ddl
deve chiarire. Il criterio interpretativo nella ricerca di una soluzione, implica
che la ricerca del fatto, la cui esistenza deve essere verificata dall' organo
56
giudicante, non può comportare mai la violazione della libertà organizzativa
dell' imprenditore e quindi consentire il controllo sulle scelte del ddl; la legge
impone invece al ddl trasparenza in ordine alle ragioni del licenziamento.
Se è vero che il principio affermato dalla norma è la trasparenza e se è vero
che le scelte dell' impresa non possono essere sindacate nel merito, non si
può negare la difficoltà di differenziare i casi in cui il fatto è
manifestatamente insussistente, rispetto a situazioni in cui appaia non del
tutto insussistente, perchè in realtà nel giudizio sulla graduazione della
sussistenza si possono tradurre proprio quelle valutazioni di merito sulle
scelte dell' impresa che il sistema espressamente esclude. Quindi la legge
dice che il ddl è libero di interpretare i fatti della realtà che incidono sulla
gestione dell' impresa, ma deve dichiararli esplicitamente insieme alle
conseguenze che ritiene di ricavarne, dovendo cercare di temperare le
ripercussioni delle proprie scelte gestionali ed organizzative nei confronti dei
dipendenti. A volte i fatti sono univocamente interpretabili, altre volte invece
sono legati a valutazioni economiche soggettive, effettuate dagli organi di
vertice dell' impresa, valutazioni che però concorrono a costituire il fatto
presupposto del recesso; tali valutazioni, devono essere palesate per
consentire alle parti di conoscerle ed eventualmente opporre soluzioni
alternative rispetto al recesso o soluzioni che consentano al lavoratore di
conservare quell' occupazione, o alta collocazione nella stessa azienda o in
altra dello stesso ddl.
CAPITOLO VIII
QUESTIONI SUL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO
Di Patrizio Bernardo
CAPITOLO IX
I LICENZIAMENTI INEFFICACI.
Di Francesco Rossi e Barbara de Mozzi
1.Premessa
60
la l. 92 non incide sul principio di cui all'art. 2 l. 604, per cui il lienciamento,
Per i rapporti soggetti alla regola di necessaria giustificazione, ed anche nel
caso del dirigente, deve essere intimato per iscritto a pena di inefficacia.
Invece l' art. 37 l. 92 introduce, tanto nell' area di tutela debole quanto in
quella forte, l' obbligo di motivazione del licenziamento a pena di inefficacia
→ con implicita abrogazione del disposto dell' articolo 6 l. 604, su cui la l.
92 non interviene espressamente, nella parte in cui faceva decorrere il
termine per l' impugnazione del licenziamento alternativamente alla scritta
dei motivi, ove non contestuale.
La l. 92 sancisce l' obbligo di contestuale motivazione del licenziamento, sia
per il licenziamento disciplinare sia per quello per giustificato motivo
oggettivo , ed anche per il licenziamento per superamento del periodo di
comporto. Invece non trova applicazione al licenziamento del dirigente,
salva una diversa previsione dai contratti collettivi. Il c. 42 della l. 92 riscrive
poi, il regime sanzionatorio del licenziamento inefficace perchè intimato in
forma orale, per i ddl che occupino fino a 15 dipendenti nell' unità produttiva
o nel comune, e comunque non più di 60 nel complesso; la l. 92 detta una
nuova disciplina sanzionatoria per il licenziamento inefficace per la mancata
contestuale comunicazione dei motivi, per violazione della procedura
disciplinare, o per violazione della procedura di cui al 7.1 l.604. → l'
assimilazione tra le diverse ipotesi di licenziamento inefficace è però solo
apparente. Il licenziamento orale inefficace viene sanzionato secondo i
commi 2 e 3 dell' art. 18 ed il lavoratore ha diritto alla reintegrazione, o in
alternativa al pagamento dell' indennità sostitutiva e in aggiunta, al
pagamento dell' indennità risarcitoria, non inferiore a 5 mensilità
commisurata all' ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del
licenziamento fino a quello dell' effettiva reintegrazione, con detrazione dell'
aliunde perceptum → cd tutela reale piena. Al licenziamento inefficace per
violazione del requisito di contestuale motivazione, viene applicato il regime
sanzionatorio di cui all' art. 18 c. 6 . il licenziamento (carente nella
motivazione scritta o viziato nella procedura) determina l' estinzione del
rapporto, con condanna del ddl al pagamento di un' indennità risarcitoria, in
relazione alla gravità della violazione commessa, tra un minimo di 6 a
massimo 12 mensilità dall' ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo → salvo che il giudice, sulla base della
61
domanda del lavoratore, accerti anche il difetto di giustificazione del
licenziamento, dando in tale caso applicazione al relativo regime
sanzionatorio. Quindi: da un lato (per il licenziamento orale, intimato dai ddl
di piccole o grandi dimensioni), un' inefficacia forte, trattata come una nullità
assoluta; dall' altro, per le ipotesi di mancata contestuale motivazione o
difetto delle procedura, si prevede una inefficacia nella versione debole,
prospettandosi un licenziamento dotato di effetto, idoneo a terminare il
rapporto, anche se illegittimo.
64
Un' altra questione è se possa rientrare nella procedura di cui all' articolo 7, il
principio di tempestività nell' irrogazione della sanzione. Innanzitutto
bisogna dire che la tempestività viene in rilievo sotto due profili:
tempestività della contestazione di addebito, rispetto alla conoscenza del
fatto da parte del ddl: la giurisprudenza ha sempre valutato il requisito della
tempestività della contestazione da due diverse prospettive: quella della possibile
lesione del diritto di difesa e quella dell' implicita manifestazione di volontà da
parte del ddl, ovvero della sua rinuncia a sanzionare il contegno posto in essere dal
lavoratore. La lesione del diritto di difesa rende inidonea la contestazione di
addebito ad adempiere la sua funzione e, quindi, può farsi rientrare nella violazione
della procedura di cui all' articolo 7, mentre la rinuncia implicita a far valere l'
inadempimento del lavoratore da parte del ddl si deve porre sullo stesso piano dell'
inesistenza del fatto contestato, con diritto alla reintegrazione con indennità
risarcitoria limitata. Quindi bisogna valutare la singola fattispecie e se vengono in
rilievo entrambi i profili, come accade nella maggioranza dei casi, dovrà darsi corso
alla sanzione prevista per l' inesistenza del fatto che, come previsto dall' art. 18,
assorbe quella relativa alla violazione formale. Alla stessa sanzione dovrà esser
sottoposto il licenziamento se sia la contrattazione collettiva a prevedere che la
contestazione debba essere formulata entro un dato termine da quando il ddl è
venuto a conoscenza dei fatti. In tale ipotesi è evidente come la norma contrattuale
costituisca una garanzia per il diritto di difesa che un limite temporale per il ddl ad
avvalersi dell' inadempimento, per cui dovrà farsi applicazione della sanzione più
grave. L' assenza di tempestività, invece, rispetto al momento in cui il lavoratore ha
già reso le sue giustificazioni sarà valutata nel senso di rinuncia ad esercitare il
potere disciplinare ed il relativo licenziamento comunque intimato sarà considerato
illegittimo per assenza del fatto contestato. Alla stessa sanzione dovrà assoggettarsi
il recesso intimato oltre il termine previsto dalla contrattazione collettiva per la
comunicazione del licenziamento, dopo che il lavoratore abbia esercitato il diritto di
difesa. Si tratta di un termine non previsto dall' articolo 7 dello statuto e quindi
estraneo alla procedura ivi disciplinata, introdotto come limite per il ddl all'
esercizio del potere disciplinare, decorso il quale le deduzioni (ove svolte) del
lavoratore, dovranno ritenersi accettate. Il licenziamento intimato, quindi, quando il
termine sia decorso dovrà essere posto sullo stesso piano di quello intimato per un
fatto insussistente.
65
tempestività dell' irrogazione della sanzione dopo che il lavoratore ha fornito
le sue giustificazioni.
69
Capitolo X
I poteri del giudice
Di Chiara Tomiola
70
2.I limiti al controllo giudiziale del licenziamento: l’integrazione
dell’art.30 comma 1 l.183/2010
Nelle massime giurisprudenziali è affermato il principio in ipotesi di
licenziamento per motivo oggettivo, secondo cui il giudice non può
sindacare la scelta dei criteri di gestione all’impresa, espressione della libertà
di iniziativa economica tutelata dall’art. 42 cost ma soltanto sull’effettiva
sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro e il nesso di causalità tra
tali ragioni e il licenziamento. L’ accertamento sul presupposto di legittimità
del recesso implica infatti sia l’esistenza e l’effettività della ragione tecnica,
organizzativa e produttiva posta dal datore di lavoro a fondamento del
recesso, sia la sua conformità alla legge, sia l’esistenza del nesso di causalità
del singolo licenziamento intimato. La l.92/12 (introducendo la violazione
di norme di diritto –limiti di sindacabilità) conferma la richiamata linea di
diritto nel senso di richiamare l’attenzione dell’interprete sulla necessaria
continenza dei poteri del giudice di merito.
71
4.Il potere del giudice di quantificare la tutela. La detrazione dell’aliunde e
la quantificazione delle indennità
L’ espressa previsione prima della riforma dell’ art.18 della deducibilità
dall’importo dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore reintegrato, di
quanto medio tempore percepito per lo svolgimento di altre attività
lavorative, nell’ambito della sola tutela reintegratoria attenuata e nel c.d.
alinde percipiendum, cioè quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire
dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In secondo
luogo la nuova formulazione della norma, se e vero che deve tenersi conto
della nuova espressa previsione normativa, essa non sembra travolgere i
vigenti principi in tema di allegazione della prova. In base ai principi
generali del processo sono le parti ad individuarne l’oggetto, attraverso le
allegazioni dei fatti, l’ambito dell’indagine probatoria, anche d’ufficio. Una
volta che tali fatti siano affermati la previsione legale espressa rende
doverosa la detrazione, il giudice ha potere dovere in presenza di rituale
affermazione del fatto di ammettere le istanze di esibizione formulate dal
datore di lavoro e di esercitare i propri poteri istruttori d’ufficio. Sul piano
della determinazione delle conseguenze dell’illegittimità viene in rilievo
l’ambito di tutela meramente economica, il potere del giudice è quello di
quantificare l’indennità nell’ambito della forbice predefinita dal legislatore,
mentre nella legislazione precedente esso non aveva alcun margine, tale
margine ad oggi risulta essere ridimensionato sotto 2 profili:
Vengono individuati i criteri in base ai quali il giudice è chiamato a
determinare l’importo dell’indennità risarcitoria
Viene precisata la sussistenza di un onere di specifica motivazione x
l’applicazione dei criteri per determinare indennità
72
Capitolo XI
la procedura preventiva di conciliazione.
Di Manuela Salvalaio
2.1AMBITO DI APPLICAZIONE
per quanto riguarda il primo profilo, si rileva che la nuova formulazione dell'
art. 18 st.lav. Ha introdotto una pluralità di regimi sanzionatori che, solo
75
apparentemente, tende a superare la tradizionale summa divisio tra tutela
reale ed obbligatoria del posto di lavoro. La distinzione tra le due tutele
resiste, infatti, alle modifiche della l. 92 ed emerge, anzi, in tutta la sua
pienezza.
Il legislatore , con una scelta i cui motivi non paiono comprensibili, ha infatti
riservato ai soli ddl con i requisiti dimensionali di cui all' art. 18 c. 8 ed alle
organizzazioni di tendenza, l' obbligo di rispettare la procedura preventiva da
espletarsi dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui al 410
cpc, allorchè gli stessi intendano procedere ad intimare il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
Con un singolare intervento normativo, l' art. 7 l. 604 , pur riguardando
esclusivamente i ddl con le dimensioni di cui al comma 8 art. 18 , non
interviene ad implementare il citato art. 18, ma modifica la l. 604,
sostituendone integralmente l' art. 7.
i ddl privi dei requisiti dimensionali di cui all' art. 18, se da un lato sono stati
esclusi dalla nuova procedua, sono invece tenuti a rispettare l' obbligo di
motivare il licenziamento, ai sensi del novellato art. 2 l. 604.
quanto al profilo oggettivo, anzitutto il nuovo incipit dell' art. 7 l. 604
ribadisce preliminarmente che per il licenziamento per giusta causa e per
giustificato motivo soggettivo resta ferma l' applicazione del procedimento di
cui all' art. 7 st.lav. Escludendo quindi l'applicabilità della procedura
preventiva in commento.
Il legislatore, invece, ha voluto mantenere assolutamente distinte le sanzioni
riconnesse alla violazione degli aspetti sostanziali relativi al licenziamento
disciplinare ed a quello per motivi economici.
Sempre sotto il profilo oggettivo, occorre chiedersi per quali tipi di
licenziamento sia obbligatorio l' espletamento della preventiva procedura di
conciliazione.
La questione impone preliminarmente di individuare quali siano i recessi che
rientrano nell' ambito della definizione di cui all' art. 3 l. 604, ovverosia
motivati da ragioni inerenti all' attività produttiva, all' organizzazione del
lavoro ed al regolare funzionamento di essa.
Non paiono dubbi che il tradizionale licenziamento per ragioni economiche
rientri nella definizione normativa, in cui sono comprese anche ipotesi per
sempre oggettive, ma legate a situazioni connesse alla persona del lavoratore
76
(es. sopravvenuta inidoneità fisica o psichica) in quanto si riflettano ed
incidano sul regolare funzionamento dell' organizzazione e dell' attività
produttiva.
Qualche dubbio suscita invece il licenziamento intimato ai sensi ai sensi dell'
art. 2110 comma 2, relativamente all' ipotesi del superamento del periodo di
comporto, giacchè i casi qui previsti, legati a gravidanza e puerperio, sono
autonomamente regolati dell' art. 18 comma 1 come novellato. → sulla
classificazione dello stesso non sembra sussistere una univocità di posizioni:
una parte della giurisprudenza ritiene che tale tipo di recesso rientri nell'
ambito del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, in quanto l'
assenza del prestatore di lavoro dal servizio pregiudicherebbe la regolarità dell'
organizzazione dell' attività produttiva.
Un secondo orientamento, più convincente, ritiene che il licenziamento
intimato per superamento del periodo di comporto configurerebbe un' autonoma
causa di giustificazione del licenziamento basata sul mero decorso del tempo, che
trova la propria disciplina nell' art. 2110 c.2 ; norma prevalente, in forza del
principio di specialità, sia rispetto alla disciplina generale in materia di risoluzione
del rapporto di lavoro, sia rispetto alla normativa codicistica generale in materia di
impossibilità sopravvenuta della prestazione.
La l. 92 sembra accogliere tale secondo orientamento, laddove all' art. 18
comma 7, pur equiparando, quanto a disciplina sanzionatoria, il
licenziamento per inidoneità fisica e psichica sopravvenuta del lavoratore ed
il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, tiene
invece distinte le due fattispecie anche dal punto di vista letterale,
adoperando la locuzione “ovvero” tra il licenziamento per motivo oggettivo
consistente nell' idoneità fisica o psichica del lavoratore e quello intimato in
violazione dell' articolo 2110 c. 2, espressamente includendo il primo nella
categoria del recesso per giustificato motivo oggettivo. → secondo tale
impostazione, pare potersi escludere che il ddl che intenda licenziare il
lavoratore per superamento del periodo di comporto, debba avviare una
preventiva procedura.
C' è un orientamento parzialmente diverso di chi reputa che attraverso il
comma 7 art. 18 st. lav. Sono stati ricondotti all' area del licenziamento per
motivi oggetti i casi di licenziamento per superamento del periodo di
comporto e di licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
77
Secondo tale dottrina, l' odierna previsione legale sancirebbe definitivamente
l' appartenenza, non scontata in passato, di tali ipotesi alla categoria del
licenziamento per motivo oggettivo connesso a motivi riguardanti la persona
del lavoratore. → ed anche in tali casi il ddl dovrà seguire la procedura
preventiva.
Un' altra questione problematica discussa dalla dottrina, ed oggetto di
decisioni diverse è l' identificazione della natura del licenziamento per scarso
rendimento, il cui inquadramento non viene purtroppo affrontato dal
legislatore neppure nella l. 92. → infatti determinare se lo scarso rendimento
costituisca un inadempimento colpevole e quindi disciplinarmente
sanzionabile, o se possa integrare, invece, giustificato motivo oggettivo di
licenziamento, ha grande rilievo pratico, anche ai fini di individuare la
procedura da avviare preventivamente al recesso.
Il nuovo regime delineato dal c. 7 art. 18, dovrebbe aver agevolato l'
individuazione della fattispecie di scarso rendimento → anche se è ancora
lontana una soluzione sul punto;: e si rileva che, qualora si optasse per una
classificazione dello stesso come recesso per giustificato motivo oggettivo,
esso dovrebbe essere preceduto dall' espletamento della procedura di
conciliazione di cui all' art. 7 l. 604. tale conclusione (come già rilevato a
proposito del licenziamento per superamento del periodo di comporto),
ancora una volta desterebbe perplessità, in ragione della natura, delle
modalità di svolgimento, e delle finalità del procedimento di conciliazione,
che probabilmente ma si sposano con l' ipotesi di licenziamento per scarso
rendimento . → qualche autore ha rilevato che il lavoratore potrebbe
impugnare il licenziamento intimato per scarso rendimento ed inquadrato in
un recesso per motivi oggettivi, deducendone, invece, la natura disciplinare,
così invocando tutte le conseguenze previste sul piano sanzionatorio. Il ddl,
al fine di evitare tale eventualità potrebbe attivare entrambe le procedure, sia
quella prevista dall' art. 7 l. 604 , sia quella prevista dall' art. 7 st.lav. →
tuttavia è difficile che le due diverse procedure, possano concludersi nello
stesso momento e portare ad un unico licenziamento, intimato sia per
giustificato motivo oggettivo, che per per ragioni soggettive. Infatti bisogna
tener presente che ciascuna procedura è scandita da una diversa tempistica e
di frequente la contrattazione collettiva impone che , espletato il
78
procedimento disciplinare, la sanzione debba essere comminata al lavoratore
entro un preciso termine, decorrente dalla giustificazioni rese dal lavoratore.
La questione riflette immediatamente le proprie conseguenze sul piano
pratico, se i due procedimenti, quello disciplinare e quello di cui all' art. 7 l.
604, si concludano con l' intimazione, in due diversi momenti temporali, di
due distinti atti di recesso, che si troverebbero allora a fare i conti con la
norma di cui all' art. 1 comma 41 l. 92 che prevede che il licenziamento
intimato all' esito del procedimento disciplinare e di cui all' art. 7 l. 604
produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento
stesso è stato avviato.
80
Sebbene la norma nulla precisi in ordine alla possibilità delle parti di
delegare altri soggetti a presenziare all' incontro dinanzi al DTL, la
previsione della sospensione della procedura in caso di legittimo e
documentato impedimento del solo lavoratore induce a ritenere che , salva la
facoltà di conferire valida procura ad un terzo, le parti dovrebbero essere
presenti personalmente all' incontro.
La volontà di imporre un ritmo serrato alla procedura emerge anche nella
precisazione relativa alla comunicazione della convocazione diretta al
lavoratore, la quale si intende validamente effettuata se recapitata al
domicilio indicato nel contratto di lavoro (oppure ad altro domicilio
formalmente comunicato al ddl) o se consegnata al lavoratore che ne
sottoscrive copia per ricevuta.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma di legge che preveda
specificatamente che nel contratto di lavoro debba essere indicato il
domicilio del lavoratore, tuttavia, spesso sono i contratti collettivi di settore
ad imporre anche il lavoratore fornisca al ddl le indicazioni in ordine al
proprio domicilio ed informi lo stesso nel caso di variazioni, da ciò capiamo
che in caso di mancato tempestivo aggiornamento, la comunicazione si
intende perfezionava se effettuata all' ultimo domicilio. Il ddl deve infatti,
poter far riferimento, per ogni eventuale comunicazione, su di un indirizzo
presso cui sia possibile reperire il lavoratore.
Se il contratto collettivo non prevede nulla a riguardo, o non né preveda l'
applicazione al rapporto in essere tra le parti, pare sussistere in ogni caso un
obbligo di comunicazione, secondo il principio di BF e correttezza, che
presiede al diritto delle obbligazioni.
Il c. 5 art. 7 riconosce alle parti la facoltà di farsi assistere dalle
organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato,
da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, da un
avvocato o da un consulente del lavoro.
Viene introdotto anche un termine, non perentorio, entro cui la procedura
dovrebbe concludersi, entro 20 giorni dal momento in cui la DTL ha
trasmesso la convocazione per l' incontro. → all' interno di tali 20 giorni si
devono computare anche quelli necessari alla ricezione della convocazione
trasmessa dalla DTL.
81
Inoltre risulta poco chiaro quale sia il DIES A QUO da prendere a
riferimento per il computo del termine in questione, ovvero se debba
considerarsi quale dies a quo il momento dell' invio della comunicazione
contenente la convocazione dell' incontro, o se, invece, si debba fare
riferimento alla data in cui deta comunicazione giunge a destinazione. In
questo ultimo caso il termine assunto per la decorrenza dei 20 giorni
potrebbe non coincidere per entrambe le parti, ben potendo ciascuna ricevere
la comunicazione in tempi diversi. → il termine è ordinatorio, la sua
violazione non comporta sanzioni.
L' intera procedura, quindi, è scandita in ciascuna sua fase al fine di evitare
procrastinazioni, tuttavia il carattere non perentorio del termine entro cui
essa deve concludersi trova conferma anche nella facoltà delle parti di
concordare la prosecuzione della discussione, anche oltre la scadenza, al fine
di raggiungere un accordo.
Inoltre il comma 9 art. 7 prevede che la procedura può essere sospesa, a
discrezione della DTL, per un periodo massimo di 15 giorni, nel caso di
legittimo e documentato impedimento del lavoratore; tale facoltà invece non
viene riconosciuta al ddl.
Nell' espletare la procedura, le parti sono tenute, con la partecipazione attiva
della commissione di conciliazione, ad esaminare anche soluzioni alternative
al licenziamento, prendendo anche in considerazione le indicazioni del ddl in
ordine alla ricollocazione del lavoratore nel mercato, contenute nella
comunicazione di avvio del procedimento.
Non si comprende tuttavia, quale ruolo attivo possa effettivamente avere la
commissione, tenuta a gestire una situazione di cui potrebbe avere solo una
conoscenza attraverso la lettera di avvio del procedimento.
Da quanto emerge al comma 8 art. 7, sembrerebbe che la commissione
provinciale di conciliazione debba procedere ad una proposta di
conciliazione, il cui rifiuto verrà successivamente valutato dal giudice al fine
della determinazione dell' indennità risarcitoria di cui all' art. 18 c. 7
nulla viene detto dalla norma in merito ai rapporti tra la proposta avanzata in
sede amministrativa dalla DTL e la proposta transattiva anche il giudice è
tenuto a formulare alle parti nel corso della prima udienza, potendo il
giudicante sia distanziarsene, sia prenderne liberamente spunto.
82
2.3.GLI ESITI DEL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE (una volta
concluso)
il ddl può procedere a comunicare il licenziamento, anzitutto, senza
espletare alcuna procedura allorchè sia decorso il termine previsto dall' art. 7
c. 3 , ovvero allorchè la DTL non abbia proceduto a trasmettere alle parti la
convocazione dell' incontro.
La natura perentoria del termine per la convocazione comporterebbe la
necessaria conseguenza che, una volta decorso inutilmente lo stesso, la DTL
sarebbe decaduta dalla facoltà di indire l' incontro, essendo consumato il
relativo potere, a danno soprattutto di un terzo incolpevole, quale il
lavoratore. La legge nulla prevede in merito ai vizi che affliggerebbero la
procedura tardivamente indetta dalla DTL, né in merito alla eventuale
sanabilità. Il legislatore della riforma, peraltro, non ha disposto che il
mancato espletamento della procedura comporti l' improcedibilità, intesa
come impossibilità di procedere al recesso; pertanto, la mancata attuazione
della procedura non paralizza il potere del ddl di procedere al licenziamento.
Se sussistono i motivi a giustificazione del recesso, infatti, il mancato
espletamento del procedimento non preclude al ddl la possibilità di recedere,
non essendo stata stabilita l' invalidità del licenziamento così intimato.
Peraltro, si deve dare atto, che la sanzione di carattere indennitario
risarcitorio, disposta dal c. 6 art. 18 st.lav. È stata prevista per le violazioni
della procedura, sempre purchè il licenziamento sia sostenuto da reali
giustificazioni sostanziali, non, invece, nel caso di mancato espletamento del
tentativo di conciliazione. Poiché si ritiene che possa essere viziato solo un
atto che esiste, di conseguenza si dovrebbe concludere che il mancato
espletamento della procedura non possa comportare l' applicazione delle
sanzioni di cui al comma 6, ma che, dinanzi al vuoto normativo, l' inesistenza
della procedura possa portare alla presunzione di mancanza dei motivi stessi
del recesso, con tutte le conseguenze del caso. Un problema si ha nel caso in
cui il ddl, non avendo ricevuto alcuna convocazione nel termine di 7 giorni
dalla avvenuta ricezione da parte della DTL della comunicazione di cui al
comma 2 art. 7, intenda dare seguito al licenziamento → infatti, non si
comprende se già l' ottavo giorno dal ricevimento da parte della DTL della
comunicazione di avvio del procedimento il ddl possa (in mancanza di
ricevimento della convocazione) procedere al recesso, o se, invece, debba
83
rimanere in attesa per un certo periodo, decorso il quale sia lecito presumere
che, in ragione dei mezzi utilizzati dalla DTL, per trasmettere la
convocazione, possa intendersi decorso il termine di 7 giorni, agli effetti di
cui all' art. 7. un' ulteriore questione è individuare quali siano le conseguenze
nel caso in cui il ddl, decorsi 7 giorni dal ricevimento della comunicazione di
avvio del procedimento, intimi il licenziamento e, successivamente, giunga
la convocazione dell' incontro fissato dalla DTL. In tal caso, se la DTL abbia
proceduto alla trasmissione (ovvero all' invio, effettuato attraverso i
strumenti a disposizione quali la posta certificata o la RRR) entro il termine
perentorio, si dovrebbe escludere l' avvenuta decadenza, anche in
applicazione dei principi espressi dalla corte costituzionale, la quale ha
chiarito che l' impugnazione del licenziamento si intende validamente
effettuata dal prestatore di lavoro allorchè essa venga inviata entro il termine
di decadenza, senza considerare il momento del ricevimento della stessa
impugnazione. Questa potrebbe essere una soluzione, che però non
preserverebbe il ddl dalle conseguenze sanzionatorie di un licenziamento
comunque intimato senza l' espletamento della procedura, fatto salva la
possibilità di revocare il recesso.
Il problema prativo sarebbe superabile con l' uso di strumenti di trasmissione
della comunicazione, quali la posta elettronica certificata, di cui i ddl, che
sono i soggetti maggiormente interessati alla verifica del rispetto del termine,
dovrebbero essere dotati (se svolgono la propria attività sotto forma di
impresa) e che garantisce una coincidenza tra invio e ricezione della
comunicazione. Se il ddl fosse comunque interessato a dare seguito al
procedimento di conciliazione, nonostante la intervenuta decadenza, la
partecipazione delle parti, potrebbe sanare la decadenza in cui è incorsa la
DTL con la tardiva trasmissione della convocazione. Se il tentativo di
conciliazione fallisce, cioè non si raggiunge un accordo, o per assenza o
abbandono , il ddl potrà procedere al licenziamento, i cui effetti decorreranno
dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato; così
avviene anche nel caso di licenziamento intimato a seguito di decorso del
termine previsto per l' invio della convocazione da parte della DTL, il
licenziamento avrà efficacia dal ricevimento della comunicazione di avvio
del procedimento , inviata per conoscenza al lavoratore dal datore. In
entrambe le ipotesi la lettera di licenziamento dovrà contenere le stesse
84
ragioni giustificative riportate nella comunicazione di avvio della procedura.
Tra la conclusione del procedimento e la comunicazione del licenziamento
non dovrà decorrere un lasso di tempo tale da far presumere che manchi un
nesso di causalità tra le ragioni del recesso sostenute durante la procedura del
tentativo di conciliazione ed il licenziamento stesso. Il termine di 60 giorni
previsto dall' art. 6 l. 604 per l' impugnazione del licenziamento decorrerà dal
momento della comunicazione dello stesso, e quindi alla fine della
procedura.
L' art. 7 l. 604 prevede due ulteriori distinti epiloghi al tentativo di
conciliazione, ovvero il caso din un esito positivo e di una risoluzione
consensuale → infatti l' obiettivo della procedura è quello di favorire ed
incentivare l' accordo tra le parti.
Le due ipotesi sono poste dal legislatore sullo stesso piano (lo notiamo dalla
congiunzione E che le collega), ciò porta a concludere che l' obiettivo della
conciliazione sia raggiunto tanto con la conclusione di un accordo, quanto
attraverso una risoluzione consensuale che viene considerata un esito
comunque positivo, specialmente se accompagnata, come avviene di solito,
da un qualche tipo di incentivo economico, che potrebbe rappresentare una
sorta di surroga della indennità risarcitoria prevista, invece, a titolo di
sanzione dell' art. 18 all' esito di un giudizio. La risoluzione consensuale
viene considerata epilogo positivo del tentativo di conciliazione in quanto il
lavoratore potrà fruire dei benefici di cui alla normativa in materia di
assicurazione sociale per l' impiego ASPI disciplinata dall' art. 2 l. 92. si
tratta di un' eccezione alla regolamentazione prevista per questo nuovo
ammortizzatore sociale, che normalmente esclude il riconoscimento dell'
indennità di cui al comma 1 per i lavoratore che siano cessati dal rapporto di
lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto, facendo
espressamente salvi appunto i casi in cui quest' ultima sia avvenuta nell'
ambito della procedura di cui all' art. 7 604. se è pacifico che il beneficio
dell' ASPI potrà essere chiesto dal lavoratore che abbia risolto il rapporto di
lavoro consensualmente all' esito del tentativo di conciliazione, in deroga alla
regola generale, la legge nulla dice in ordine all' ulteriore requisito
(disciplinato dalla lettera B, comma 4 art. 2 l. 92) richiesto al fine di poter
fruire dell' ammortizzatore sociale, ovvero aver maturato almeno due anni di
assicurazione ed almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'
85
inizio del periodo di disoccupazione. Tuttavia Il riconoscimento dell' ASPI
ai lavoratori che abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro all'
esito della procedura di cui all' art. 7 l. 604 potrebbe essere considerato una
fattispecie dotata, in ragione del proprio carattere eccezionale, di una
specifica autonomia, collocandosi al di fuori delle ipotesi e dei rispettivi
requisiti richiesti in linea generale dalla legge. L' ASPI troverà applicazione
per i nuovi eventi di disoccupazione verificatesi a decorrere dal primo
gennaio 2013. ci si chiede allora, quale sia la sorte per i lavoratori che
abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro nell' ambito della
procedura di cui all' art 7 dopo il 18 luglio 2012, dopo la riforma Fornero.
Essi si troveranno in una sorta di INTERREGNO tra la vecchia disciplina,
che nulla riconosceva ai lavoratori cessati a seguito di una risoluzione
consensuale (salvo nei casi in cui si riuscisse a dimostrare il carattere
involontario della disoccupazione) e la nuova normativa, non potendo
beneficiare di alcuna indennità di disoccupazione. Pare doversi concludere
che il ddl che risolva un rapporto di lavoro consensualmente prima del 1
gennaio 2013 all' esito del tentativo di conciliazione, non sarà tenuto a
corrispondere il contributo per l' ASPI, di cui all' art. 2 c. 31 l. 92, invece,
imposto a partire dal 1 gennaio 2013 in caso di interruzione del rapporto di
lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dqalle dimissioni del
lavoratore. Nell' accordo che dispone la risoluzione consensuale potrà essere
previsto l' affidamento del lavoratore ad un' agenzia per il lavoro, al fine di
agevolarne il ricollocamento professionale. Il riferimento è alle agenzie di
somministrazione, ma sarebbe stato piuà corretto rinviare alle agenzie di
supporto alla ricollocazione professionale; in ogni caso, si tratta di una
previsione superflua, visto che le parti potrebbero comunque includere nello
stesso accordo il riconoscimento di un servizio di OUTPLACEMENT, come
di fatto spesso avviene.
Si ritiene che la risoluzione del rapporto raggiunta davanti la DTL non
necessiti della convalida avanti le sedi indicate dall' art. 4 comma 17 l. 92. l'
accordo raggiunto all' esito della procedura di cui all' art. 7, infatti,
rappresenta l' esito di un processo in cui la volontà delle parti protagoniste
della stessa, in particolare del lavoratore, risulta essere già stata debitamente
assistita.
86
Il tentativo di conciliazione può concludersi con un esito positivo, diverso
rispetto ad una risoluzione consensuale, ovvero con un accordo i cui
contenuti possono peraltro essere i più vari, a partire dalla possibilità che il
ddl abbandoni l' intenzione di procedere al licenziamento, lasciando invariata
la posizione del lavoratore. Le parti potrebbero invece, arrivare ad un
accordo che comporti la conservazione della posizione lavorativa, con
detrimento di altri aspetti del rapporto di lavoro ad esempio, la ricollocazione
del lavoratore in altra sede di lavoro, la sospensione temporanea del
rapporto, la rinuncia ad una parte della retribuzione eccedente la paga base.
Dinanzi ad una eventuale proposta di modifica in peius delle mansioni ci si
scontrerebbe con l' inderogabilità dell' art. 2103, di recente oggetto di un'
interpretazione più elastica da parte della giurisprudenza che, quale via
alternativa ad un licenziamento considerato extrema ratio, sembra
riconoscere la legittimità di un inquadramento in mansioni inferiori del
lavoratore interessato. Il ddl, una volta espletato il tentativo di conciliazione,
in mancanza di una soluzione alternativa, potrebbe decidere di procedere ad
intimare il licenziamento, accompagnando il recesso con un accordo che
consenta al lavoratore una ricollocazione professionale, anche attraverso l'
affidamento del prestatore di lavoro ad una agenzia per il lavoro, come
previsto dall' art. 7 c. 7, che si ritiene applicabile anche al caso di specie e
non solo all' ipotesi di risoluzione consensuale.
Il comportamento tenuto da ciascuna parte nell' espletamento della
procedura, desumibile anche dal verbale redatto dalla commissione
provinciale di conciliazione e dalla condotta conseguente alla proposta
conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato sia ai fini della misura dell'
indennità risarcitoria (nel caso in cui sia accertata la manifesta insussistenza
del fatto o non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo) sia ai fini della determinazione delle spese legali, ai sensi degli
art. 91 e 92 cpc. In caso di violazione della procedura preliminare al
licenziamento per giustificato M. Oggettivo, trova applicazione il regime di
cui al comma 6 art. 18, con la previsione di una riduzione dell' indennità
risarcitoria tra 6 e 12 mensilità dall' ultima retribuzione globale di fatto,
determinata in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale
commessa dal ddl. In tal caso, il comportamento tenuto dalle parti durante il
tentativo di conciliazione non riveste alcun rilievo ai fini della
87
determinazione dell' indennità, diversamente da quanto previsto dal c. 7 art
18. notiamo quindi una modestia del regime sanzionatorio che è indice di
una svalutazione della forma e delle regole procedurali del licenziamento,
che perdono la funzione di garanzia e trasparenza (più volte messa in luce
dalla corte cost. In materia di licenziamento disciplinare) dell' esercizio di un
potere unilaterale riconosciuto al ddl.
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Capitolo XII
L’impugnazione del licenziamento
Di Enrico Barraco e Andrea Sitza
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La riforma 2012 ha introdotto un rito speciale per le controversie aventi ad
oggetto impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.18st.lav.
Il giudice dovrebbe con l’ordinanza dichiarare la domanda inammissibile con
pronunzia di rigetto in rito, in quanto l’ammissibilità del rito si presenta
come un presupposto processuale.
Capitolo XIII
LA MOTIVAZIONE E LA DECORRENZA DEGLI EFFETTI DEL
LICENZIAMENTO INDIVUDALE
Di Claudio Fabris
Cosa NON cambia con la riforma:
La nozione di “giustificato motivo oggettivo”, che resta invariata e continua
a essere dettata dall’art. 3
della legge n. 604/1966, ai sensi del quale il licenziamento per giustificato
motivo è determinato «…. da ragioni
inerenti al!’ attività produttiva, a!l ’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa».
Cosa cambia con la riforma:
• Obbligo di motivazione
• Introduzione di una procedura obbligatoria di conciliazione
• Regime sanzionatorio
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Obbligo di motivazione
In base alla disciplina previgente il datore di lavoro non aveva l’obbligo di
indicare la motivazione nella lettera di licenziamento ma il lavoratore poteva
chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che avevano
determinato il recesso. In tal caso, il datore di lavoro doveva, nei 7 giorni
dalla richiesta, comunicarli per iscritto. La nuova formulazione dell’art. 2,
comma II, della legge n. 604/1966 prevede ora, a pena di inefficacia, che la
comunicazione del licenziamento deve contenere la SPECIFICAZIONE dei
motivi che lo hanno determinato, non essendo più possibile comunicarli in
un momento successivo.
La procedura di conciliazione preventiva
Ai sensi del nuovo art. 7 della legge n. 604/1966, prima di procedere al
licenziamento, il datore di lavoro che abbia i requisiti dimensionali prescritti
dalla legge per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (più di
15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di
60 nell’ambito nazionale) deve OBBLIGATORIAMENTE esperire una
procedura volta all’esame congiunto dei motivi posti a base del recesso e
finalizzata al raggiungimento di un eventuale accordo tra le parti.
Il datore di lavoro deve inviare alla DTL del luogo dove il lavoratore presta
la sua opera, una comunicazione in cui dichiara l’intenzione di procedere al
licenziamento e indica i motivi del licenziamento e le misure di assistenza
alla ricollocazione del lavoratore. La comunicazione deve essere trasmessa
per conoscenza anche al lavoratore.
La Direzione territoriale del lavoro convoca il datore di lavoro e il lavoratore
nel termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta. In caso di
mancata convocazione da parte della DTL entro il termine di 7 gg., il datore
di lavoro può procedere
al licenziamento. La comunicazione contenente l’invito si considera
validamente effettuata quando è recapitata al domicilio
che il lavoratore ha indicato nel contratto di lavoro od altro domicilio
formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro ovvero è
consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta. In caso di
legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare
all’incontro la procedura può essere sospesa per un periodo max. di 15 gg.
91
A. Fattispecie: “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato
motivo oggettivo (art. 18, comma 7, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• il Giudice Può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro
• indennità risarcitoria pari ad un massimo di 12 mensilità, dedotto quanto il
lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di
altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova
occupazione (c.d. “aliunde percipiendum”)
• versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
Resta salvo il diritto del lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva della
reintegrazione - pari a 15 mensilità - entro trenta giorni dalla sentenza ovvero
dall’invito del datore del lavoro a riprendere servizio (art. 18, comma 3,
Statuto dei Lavoratori).
B. Fattispecie: altre ipotesi (diverse dalla “manifesta insussistenza”) in cui
non ricorrono gli
estremi del giustificato motivo oggettivo (art. 18, comma 7, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro
• indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e
un massimo di 24 mensilità, tenuto conto del numero dei dipendenti
occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e
delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo
(art. 18, comma 7, Statuto dei Lavoratori)
C. Fattispecie: mancata indicazione dei motivi nella lettera di recesso;
violazione della procedura di conciliazione preventiva introdotta dalla
riforma (art. 18, comma 6, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• non opera più la reintegrazione
• indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 6 e un
massimo di 12 mensilità, dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere
di specifica motivazione al riguardo (art. 18, comma 7, Statuto dei
Lavoratori) Se il Giudice accerta, sulla base della domanda del lavoratore,
che vi è anche un vizio di giustificazione del licenziamento applica, in luogo
92
del regime summenzionato, le tutele previste per i licenziamenti disciplinari
o economici, già esaminate.
CAPITOLO XIV
LA REVOCA DEL LICENZIAMENTO
Di Irene Corso
95
CAPITOLO XV
I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Di Andrea Sitza
2.Il procedimento
96
L’impresa che intende procedere ad un licenziamento collettivo nelle ipotesi
previste nel paragrafo precedente è obbligata ad informare in primo luogo le
rappresentanze sindacali presenti in azienda ed i Sindacati maggiormente
rappresentativi.
Il datore di lavoro, in particolare, deve specificare quali sono i motivi che
hanno condotto alla decisione di dare corso ai licenziamenti e soprattutto per
quali ragioni ritiene impossibile utilizzare strumenti diversi da quelli del
licenziamento.
Nella comunicazione l’impresa deve chiarire anche quali misure intende
mettere in atto preliminare o ridurre l’impatto sociale che deriva dai
licenziamenti. Questo aspetto è particolarmente importante nelle ipotesi in
cui il licenziamento collettivo riguarda grandi società che occupano molti
lavoratori in un determinato ambito territoriale e il numero dei dipendenti
interessati dal licenziamento è elevato. Una copia della comunicazione va
poi inviata anche all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione (UPLMO).I sindacati hanno la facoltà di richiedere un esame
congiunto della pratica entro sette giorni dal ricevimento della
comunicazione. A questo punto si apre una fase nella quale le parti
esaminano la situazione concreta dell’impresa per trovare un accordo con il
quale è possibile stabilire dei criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare
differenti rispetto a quelli previsti dalla legge n. 223/1991.La procedura ha
una durata massima di 45 giorni dopodichè l’impresa deve comunicare per
iscritto all’UPLMO l’esito della consultazione specificando i motivi di un
eventuale mancato accordo.
In caso di mancato accordo l’UPLMO ha il potere di riconvocare le parti
per tentare di trovare un’intesa. Questa seconda fase della procedura ha una
durata massima di 30 giorni terminati i quali, anche in mancanza di accordo,
l’impresa può procedere ai licenziamenti. Se il datore di lavoro decide di
licenziare uno o più dirigenti si applicano le procedure di mobilità con
regole sostanzialmente analoghe a quelle previste per il licenziamento
collettivo degli altri lavoratori. Se vengono violate le regole che disciplinano
la procedura o i criteri di scelta per il licenziamento dei dirigenti il datore di
lavoro è sanzionato con il pagamento, in favore del dirigente ingiustamente
allontanato, di un'indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura
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e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura
dell'indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al
rapporto di lavoro.
CAPITOLO XVIII
DIMISSIONI E RISOLUZIONE CONSENSUALE
Di Maria Giovanna Mattarolo e Alessia Muratorio
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L’ordinamento ritiene che nel periodo di vita del bambino la libertà negoziale
della donna possa essre particolarmente esposta a condizionamenti e
pressioni del datore di lavoro.
1.1.I precedenti
Il primo intervento normativo nella direzione di un controllo della reale
volontà della donna di dimettersi si ha con il regolamento delle lavoratrici
madri che imponeva le dimissioni presentate durante il periodo di vigenza
del divieto di licenziamento e fossero comunicate anche all’ispettorato del
lavoro per la convalida, che era condizionata la risoluzione del rapporto di
lavoro, era una norma nulla in quanto nulla precisava sulla questione
afferente l’organizzazione e la competenza regolamentare. Con
l’approvazionedell’art.18 comma 2 della l.53 del 2000 si è prevista la
richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o lavoratore durante il
primo anno di vita del bambino o nel 1 anno di accoglienza del minore
adottato convalidata dal servizio ispezione della direzione provinciale del
lavoro, da un lato limitava il periodo protetto non tenendo conto del periodo
di gravidanza, dall’altro estendeva la tutela anche al padre secondo linea di
endenza,parificava in oltre le figure dei genitori naturali a quelli adottivi
nelle direttive della Corte Cost.
4.1.La convalida
Da effettuarsi presso apposita Direzione territoriale del lavoro, anche se la
legge usa lo stesso termine per convalida sia di dimissioni del padre che della
madre il significato è notevolmente diverso nelle 2 ipotesi, già
nell’approvazione una dalla direzione territoriale l’altra dal servizio ispettivo
del ministero. La convalida può avvenire anche presso le sedi individuate dai
Cont.Collettivi Cgil, cisl e uil. L’accordo stabilisce la relativa procedura
richiamando le disposizioni del codice di procedura civile, se si raggiunge la
conciliazione le dimissioni produrranno effetto ma se per cause diverse la
conciliazione fallisse le dimissioni resterebbero improduttive non ostante a
volontà del lavoratore di porre fine al rapporto di lavoro.
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