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CAPITOLO I

LA RIFORMA E LA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI:


PRINCIPI GENERALI E TECNICHE NORMATIVE
Di Carlo Cester

1.Il nuovo art.18 dello statuto dei lavoratori: il tabù è caduto?


Nell’evoluzione di questo art. il dibattito si è focalizzato su approccio law &
economics con il quale il controllo sulla cessazione del rapporto incide sulla
utilità, per il datore di lavoro, del rapporto stesso e contribuisce a definire e
modellare la funzione assicurativa. Le obbiezioni furono infinte sul merito, e
vengono contestate le premesse economiche delle opposte teorie
sull’influenza negativa dell’art.18 sul mercato del lavoro. Si individuano 2
regole:
1. PROPERTY RULE(proprietà posto di lavoro): alla base di difesa
dell’art.18
2. LIABILITY RULE (responsabilità da licenziamento): in caso di
licenziamento illegittimo (insindacabilità scelte imprendit)
Le ragioni politiche per giustificare l’intervento del nuovo art.18 sono da
ricondurre all’influsso negativo che la rigidità nell’uscita del rapporto si
ritiene eserciti sul mercato del lavoro ingessandolo e ostacolando una reale e
proficua mobilità accentuando lo squilibrio tra i lavoratori protetti (insiders)
e quelli non protetti (outsiders).
La l.92/2012(imputa all’art.18 la fuga degli investitori stranieri) mira proprio
a scardinare il mercato del lavoro riequilibrando i meccanismi di
entrata(minore tutela)uscita (maggiore tutela)dal rapporto di lavoro (dove è
più semplice licenziare non occorre contratto a tempo determinato):
 Contrastando usi impropri di elementi di flessibilità
 Adeguando al suo contesto la disciplina del licenziamento
L’ intervento se fosse stato volto a ridisegnare i presupposti del
licenziamento* (*giusta causa-giustificato motivo) non avrebbe attratto gli
investitori stranieri, mentre la messa in discussione della reintegrazione
avrebbe avuto effetti maggiori. Il nuovo art.18 di fatto rompe con il vecchio
riducendo a situazioni risarcitorie nel caso di licenziamento* ma crea
sicuramente maggiori incertezze nettamente criticabili.

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2.Sulla (in)esistenza di vincoli costituzionali o comunitari alla modifica
della tutela reale
Sul vincolo costituzionale, sappiamo bene che non esiste nessuna tutela
reale nella costituzione come ricordato dalla sent.46/2002 c.cost. il quale
ammetteva la possibilità di porre a referendum l’abolizione dell’art.18
dichiarando il referendum legittimo anche in caso positivo (di abolizione
della norma), la corte individuava nell’art.4 il diritto al lavoro ma la misura
e il limite del potere di recesso del datore di lavoro indicando il legislatore
come titolare di tale vincolo.
Per il vincolo comunitario vi sono invece :
 art.24 della Carta Sociale Eurpea di Strasburgo del 1996 resa esecutiva con la
l.30/99 e art.30 carta di nizza allegata
 Trattato di Lisbona 2007
La prima è caratterizzata dallo scopo di assicurare l’effettivo esercizio del
diritto ad una tutela in caso di licenziamento contenente prescrizioni
dettagliate:
 Necessità di valido motivo per licenziamento (condotta-funzionamento
lavoratore)
 Diritto dei lavoratori di non esser licenziati senza quel valido motivo-con
indennizzo o altra tutela.
La seconda non manca di entrambe gli aspetti stabilendo:
 diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato
 necessarie conseguenze generate dal mancato rispetto della norma
Anche se la disciplina si lega al diritto e alle conseguenze non indica il grado
di effettività delle conseguenze, molti stati UE hanno adottato meccanismi
sanzionatori di tipo economico. Il giudice potrebbe ponderare gli interessi
organizzativi dell’impresa, nella dimensione soggettiva (vincolo fiduciario
con futuri adempimenti) e soggettiva (esigenze economiche) e l’interesse del
lavoratore per la sua famiglia e l’esigenza di un reddito. Massimo
D’Antona ritiene che il riequilibrio tra la dimensione
oggettiva/soggettiva/lavoratore ,sia garantita solo dalla reintegrazione nel
posto di lavoro.
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4.Scelte di fondo della nuova normativa
Si voleva ridimensionare l’ambito di operatività della tutela reale, dove si
parlava di reintegrazione nel posto di lavoro solo in caso di violazione di
diritti assoluti del prestatore di lavoro come quello discriminatorio e quello
per motivo illecito. Non si ebbe una vera e propria trattativa con i sindacati
ma una semplice audizione. Nel testo definitivo ha assunto un ruolo centrale
la tecnica normativa con la quale il precedente modello unitario
(reintegrazione-risarcimento) e stato sostituito dalla sola tutela risarcitoria
legata alle possibili causali di licenziamento. Il legislatore cerca di
diversificare il valore del lavoro:
QUALITATIVAMENTE: messa sul piano dei valori di legittimità-
illegittimità di tipo sostanziale(carenza di giustificazione)
QUANTITATIVAMENTE: spessori variabili dei canoni di legittimità
distinzione tra ingiustizia semplice e qualificata
La tutela reale scomposta in 4:
 Classica: è riservata a licenziamento inefficace per difetto di forma
scritta/licenziamento discriminatorio o illecito
 Reintegratoria: solo indennitaria ma forte x licenziamento ingiustificato x
ragioni soggettive e oggettive
 Ridotta: per il licenziamento illegittimo x ragioni oggettive (inidoneità)
 Debole: sul piano economico costituisce infine la sanzione per il
licenziamento inefficace per ragioni procedimentali
Con l’originaria riforma dell’art.18 si voleva colpire il datore di lavoro in
maniera maggiore rispetto alla riprorevolezza delle sue scelte e al disvalore
che questa comportava, ovviamente inteso come colpa in senso atecnico. Il
licenziamento è espressione di un potere attuato attraverso lo strumento
negoziale, e bisogna accertarne la sussistenza o meno dei presupposti per il
suo esercizio. Questo panorama molto ampio offrirebbe al datore di lavoro la
possibilità di scegliere “terreno” e “armi” per il licenziamento individuando
una motivazione più “morbida” per evitare sanzioni più dure, in quanto la
diversificazione delle sanzioni lo consentirebbe. In questo contesto
normativo cade sul lavoratore l’onere di prova del licenziamento illegittimo,
mentre in passato la prova era affidata alle presunzioni.

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5.Tesi di sovrapposizione fra licenziamento ingiustificato e licenziamento
discriminatorio.
Considerazioni critiche
Nella valutazione del testo normativo bisogna partire da un duplice
presupposto:
 La convinzione che fattori di discriminazione siano esemplificativi es.
(discriminazione x convinzioni personali)
 Una nozione di causa in concreto, ovvero le ragioni economiche individuali
e scopo immediato del negozio ed essa può disambiguarsi su 2 livelli:
 Contratto di lavoro per cui causa di esso è l’interesse di rilievo
costituzionale a disporre un organizzazione in vista dello svolgimento di un
attività
 Negozio unilaterale di licenziamento con il quale viene perseguito
l’interesse a modificare e garantire la funzionalità dell’organizzazione (x
evitare inadempimento o impossibilità)
La conseguenza è che al difuori delle ragioni (cause concrete) consentite il
licenziamento risulterebbe illecito/discriminatorio attivando comunque la
tutela dell’art.18 (ex novo).Vi e poi lo spazio residuale dove anche in
presenza di un licenziamento in linea con le norme, da queste sarebbe da
rilevare un certo scollamento, ovvero una distinzione tra le motivazioni
adottate dal datore di lavoro risultino diverse da quelle notificate al
lavoratore sia in maniera quantitativa che in maniera qualitativa.

6.La qualificazione dei diversi vizi del licenziamento. Conferme (poche)


discontinuità molte
La nuova disciplina individua la qualificazione dei vizi del licenziamento:
 NULLITA’: Il licenziamento nullo inerisce al licenziamento discriminatorio
di cui all’art. 3 della legge n. 108/1990. Il licenziamento è nullo quando
“giustificato” dalle seguenti ragioni:
matrimonio;
violazione del divieto di licenziamento durante la gravidanza fino al termine
del periodo di interdizione;
fruizione dei congedi parentali;
motivo illecito disciplinato dall’art. 1345 c.c.
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Conseguenze del licenziamento nullo
Nei casi suddetti il Giudice annulla l’atto di recesso e condanna il datore di
lavoro a:
reintegrare il lavoratore: risarcire il danno. Il risarcimento deve essere pari
allo stipendio maturato dal lavoratore dal giorno del licenziamento fino a
quello del reintegro, considerando l’ultima retribuzione complessiva di fatto,
sottratto l’aliunde perceptum (eventuale retribuzione percepita dal lavoratore
nel caso di rioccupazione tra la data del licenziamento e quella della
pronuncia giudiziale), e non inferiore a cinque mensilità. Nel risarcimento
sono inclusi i pagamenti dei contributi previdenziali.
Indennità sostitutiva:
Il lavoratore può richiedere la possibilità di monetizzare la reintegrazione nel
posto di lavoro e cioè sostituirla con un’indennità pari a 15 mensilità
dell’ultimo stipendio complessivo di fatto (somma non soggetta a
contribuzione previdenziale per espressa previsione di legge). Entro 30
giorni dalla sentenza o dalla richiesta del datore di lavoro di riprendere
servizio il lavoratore deve presentare la richiesta di indennità sostitutiva, alla
quale segue la fine del rapporto di lavoro, ipotesi che ricorre anche nel caso
in cui il lavoratore non faccia richiesta di indennità, ma non si presenti entro
30 giorni sul posto di lavoro per riprendere servizio
 ANNULLABILITA’: si verifica quando manca una giusta causa o un
giustificato motivo oggettivo o soggettivo; il licenziamento annullabile
rimane valido solo nel caso in cui il lavoratore non decida di impugnare l'atto.
 INEFFICACIA: si produce quando questo è avvenuto senza il rispetto della
procedura e della forma scritta prevista dalla legge. In caso di nullità,
annullabilità e inefficacia del licenziamento il lavoratore, assistito anche
dall'organizzazione sindacale a cui ha aderito, può impugnare l'atto entro 60
giorni dalla sua ricezione, con un qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la
volontà del lavoratore.

7.insussitenza del fatto


Con la sentenza 23669/14 la Cassazione, rendendo la propria interpretazione
dell'articolo 18, comma 4, della Legge 300/70, introdotto a seguito della
Riforma Fornero (Legge 92/12), afferma che, al fine del riconoscimento
della tutela reintegratoria in alternativa alla tutela indennitaria va verificata
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la ricorrenza delle condotte inadempienti ascritte al lavoratore nella loro
componente materiale, prescindendo da una qualificazione del fatto sul piano
giuridico. La Suprema corte ha ritenuto che occorre operare una netta
distinzione tra l'esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione
giuridica, in quanto la verifica sulla presenza, o meno, del fatto storico posto
a base del licenziamento disciplinare si risolve e si esaurisce
nell'accertamento, positivo o negativo, del fatto stesso nella sua componente
materiale.
La Cassazione ha spiegato quanto al licenziamento di natura disciplinare,
che l'articolo 18, nella sua attuale formulazione, si sostanzia in due regimi
differenziati di tutela: quello della reintegrazione in servizio del lavoratore
illegittimamente licenziato, cui si accompagna il versamento delle
retribuzioni mensili maturate nell'intervallo non lavorato (fino a un massimo
di 12 mensilità, dedotto l'aliunde perceptum e l'aliunde percipiendum), che si
applica nel caso in cui il giudice accerti l'insussistenza del fatto contestato,
ovvero che il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa
sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva o dei codici
disciplinari applicabili; quello del riconoscimento di un indennizzo
risarcitorio tra 12 e 24 mensilità, che si applica, invece, in tutte le altre
ipotesi in cui emerga in giudizio che non ricorrono gli estremi della giusta
causa o del giustificato motivo soggettivo richiamati nella lettera di
licenziamento. L'interpretazione resa con la sentenza ribalta un precedente
orientamento della giurisprudenza di merito, in forza del quale per
insussistenza del fatto contestato, alla luce del nuovo testo dell'articolo 18,
comma 4, della Legge 300/70, si deve intendere il fatto nella sua dimensione
giuridica, comprensivo non solo della sua componente oggettiva, ma anche
della sua dimensione soggettiva. In forza di questa interpretazione, le prime
pronunce della giurisprudenza di merito chiamate a dare applicazione della
nuova disciplina dell'articolo 18 sui licenziamenti illegittimi avevano molto
ridimensionato e circoscritto gli effetti della nuova tutela meramente
indennitaria, facendo rientrare nella nozione d'insussistenza del fatto
contestato il fatto globalmente accertato, nell'unicum della sua componente
oggettiva e nella sua componente inerente all'elemento soggettivo, e non
invece il solo fatto materiale.

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CAPITOLO II
CAMPO DI APPLICAZIONE E PROBLEMI DI COORDINAMENTO
Di Enrico Barraco

1.Un nuovo impianto sanzionatorio a misura del diritto del lavoro:la


scomparsa della tutela reale di diritto comune
Nella nuova prospettiva, pare uscire decisamente compressa la vitalità della
tutela reale di diritto comune date da una onnicomprensiva prospettiva di
rotazione del mercato del lavoro. Quello che un tempo era tutelato con la
reintegrazione di diritto comune oggi viene ricondotto al solo profilo
sanzionatorio ossia la classica tutela reale applicata indipendentemente dal
numero di dipendenti e dirigenti. L ‘unica ipotesi in cui resta formalmente
valida la tutela reale concerne la mancata contestuale comunicazione dei
motivi nelle piccole imprese e nelle organizzazioni di tendenza, restando
fuori le imprese di maggiori dimensioni per il quale resta solo la tutela
indennitaria. Sul licenziamento effettuato da datori di lavoro di grandi
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dimensioni resta fuori dal panorama legislativo il disvalore del licenziamento
con conseguente applicazione del quarto livello di tutela dell’art.18
novellato, sarà il lavoratore a chiedere attraverso domanda il caso in cui si
voglia accertare giurisdizionalmente la sussistenza anche di un difetto di
giustificazione. Es.(lavoratore di grande azienda che licenziato in via
definitiva e mal assistito non produce la domanda e deve accontentarsi del
trattamento minimo indennitario (Art.186). Onere di domanda spetta al
lavoratore mentre il datore ha onere di prova della sussistenza della giusta
causa (o motivo) di licenziamento.

2.Dimensioni occupazionali, nuovo rito speciale e ricadute sul tema


dell’onere della prova
Mentre l’applicazione dell’art.181-2-3 sono applicati in maniera universale, i
commi da 4 a 7 vengono applicati ai datori di lavoro anche non imprenditori
che occupano più di 60 dipendenti oppure ai dipendenti che occupino + di 15
dipendenti nella stessa unità produttiva o ambito comunale. Nel nuovo
articolo 18 sorgono dei problemi:
1. Individuare il campo di applicazione del nuovo rito speciale: esso è destinato
a trovare applicazione quando il ricorrente invoca attraverso domanda
l’applicazione dell’art.18.
Per tale ipotesi sembrerebbe trovare applicazione l’indennità risarcitoria in
base all’interpretazione dei giudici. Il lavoratore potrà quindi richiedere la
sua applicazione anche se sa che non ricorrono i presupposti (via principale)
e quella obbligatoria (via subordinata).

3.Computo dei dipendenti


Per tale situazione il governo non ha indicato i criteri di computo dei
dipendenti. La giurisprudenza cerca di risolvere tale problema con il vecchi
orientamento secondo cui rientrerebbero i rapporti di lavoro a tempo
determinato solo per esigenze non provvisorie ed occasionali. La franchigia
(di 60 dipendenti) introdotta dalla riforma 2012 non riguarda solo la
giustificazione e il limite legale, ma anche la computabilità dell’organico.

4.Riscrittura dell’art.18 e problemi di coordinamento


2.1.Lavoratori anziani.
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Prima del 2012 il lavoratore in età pensionabile era licenziabile senza
giustificazione ne tantomeno di forma scritta. Il SALVA ITALIA estende la
tutela reale contro il licenziamento al lavoratore che pur essendo
pensionabile abbia scelto di continuare a lavorare fino a 70 anni. Si voleva
tutelare il lavoratore anziano dall’art.18 mentre il giovane lavoratore restava
legato al contratto (unico)di apprendistato. La norma lascia aperto piccoli
problemi la libera recedibilità non legata più all’età pensionabile (66) ma la
tutela contro il licenziamento (70), non è chiaro se applicato ad aziende di
piccole o medie dimensioni. Si potrebbe pensare che il lavoratore anziano
potrebbe esser tutelato (art.18 tutela piena) in quanto potrebbe esser stato
licenziato per ragioni d’età. Effetti non previsti in materia di licenziamento
collettivo (possesso di requisiti pensionistici x licenziamento come criterio
di selezione dei licenziandi.)

2.2.Dipendenti di pubbliche amministrazioni


Per i dipendenti privati è intervenuta la frantumazione nei quattro nuovi
livelli di tutela, per i pubblici invece dovrebbero continuare ad operare la
sanzione monolistica della reintegrazione in tutti i casi.

3.Revoca del licenziamento.


Essa può essere effettuata in 15 giorni dalla comunicazione al datore di
lavoro dell’impugnazione dello stesso. In tal caso il rapporto si intende
ripristinato senza soluzione di continuità spettando al lavoratore soltanto la
retribuzione per il periodo compreso tra il licenziamento e la revoca ma con
espressa esclusione di qualsiasi sanzione connessa al licenziamento. A fronte
di tale revoca tempestiva il lavoratore non ha diritto ad alcuna tutela salva la
retribuzione spettante.

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CAPITOLO III
LA QUESTIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO
Di Elena Pasqualetto

1.Inapplicabilità della l. 28 giugno 2012,n.92, al pubblico impiego


privatizzato (P.I.P.)
Le disposizioni non sono immediatamente applicabili al P.I.P. ma fornisce
linee guida per regolare i rapporti. Si è voluto temporeggiare circa
l’operatività delle nuove regole. L’ostilità dei sindacati ha pesato in siffatta
scelta del governo , il timore riguardava la prospettata estensione all’area del
lavoro al pubblico di quella parte di riforma che riguarda i licenziamenti,
cioè mentre era arroccata da sempre su una tutela reintegratoria si temeva
che tale tutela finisse in alcuni casi per passare ad una tutela pochistica ed
indennitoria. Sul piano e intervenuto il ministro della p.a. che rivendicava la
sua scelta pretendendo una moratoria di tale azione ritardando in tal modo
l’applicazione di tali situazioni al settore pubblico.
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2.La tesi a favore dell’applicabilità della riforma alla pubblica
amministrazione.
Secondo alcuni si potrebbe applicare tale norma in quanto ha dei punti di
contatto tra lavoro pubblico e privato quantomeno in materia di
licenziamento. Se si valorizza all’estremo il significato dell’inciso “per
quanto da esse non espressamente previsto” e “salvo espressa previsione in
senso diverso” implicitamente si farebbe riferimento alla pubblica
amministrazione in tutte quelle disposizioni che risultano necessariamente
applicabili al datore di lavoro pubblico. In materia di licenziamenti si
riterrebbe applicabile ai dipendenti PIP dell’art.18 in quanto interviene sulle
questioni pregnanti e riguardanti il licenziamenti.

3.La “strana norma” di cui all’art.1.comma 7


Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente
previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di
lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive
modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma 2, del
medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 3
del medesimo decreto legislativo

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CAPITOLO IV
I quattro regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo tra tutela
reale rivisitata e nuova tutela indennitaria.
Di Carlo Cester

1.LA TUTELA REALE IN GENERALE: CONFERME E RITOCCHI


ALL' ARTICOLO 18 ST. LAV:
Nel nuovo articolo 18 (dopo la legge 92 del 2012) la tutela reale sopravvive
in un' area più circoscritta: accertamento delle ipotesi di nullità del
licenziamento e dell' ipotesi di inefficacia per mancanza di forma scritta , ed
in ipotesi marginali di licenziamento ingiustificato. Nonostante il suo campo
applicativo sia stato limitato, per compensare ciò bisogna andare a guardare
al carattere tendenzialmente onnicomprensivo dei casi di nullità ai quali si
applicherà quindi la tutela reale del nuovo articolo 18. Anche se la tutela
reale viene ridimensionata sul campo applicativo, viene scomposta in due
livelli differenziati tra loro soprattutto per quanto riguarda la copertura
risarcitoria (che viene rinnovata solo per quanto riguarda il secondo
livello).Per quanto riguarda l' ordine di reintegrazione e la sua effettività non
cambia nulla, anche se il suo utilizzo è sempre più ridimensionato a causa di
una sempre minore (e monetizzata) applicazione dell' articolo 18, per cui il
lavoratore nelle soluzioni conciliative rinuncia alla reintegrazione. → d'
altro canto l' obiettivo di questa nuova disciplina normativa è quello di
ridimensionare la reintegrazione e rafforzare le soluzioni di tipo economico –
indennitario.
VARIANTI rispetto al vecchio testo:
→ la nuova definizione di retribuzione che va presa come parametro dal
giudice per la quantificazione della indennità risarcitoria (in entrambi i livelli
della nuova tutela reale). Nel vecchio testo si parlava di “retribuzione
globale di fatto”, che il lavoratore avrebbe avuto il diritto di percepire se il
rapporto avesse avuto il suo normale svolgimento con tutti gli aggiornamenti
retributivi mentre ora la retribuzione da considerare è l' ultima, cioè quella
cristallizzata al momento del licenziamento senza considerarne il possibile
sviluppo; è da notare che anche nella nuova tutela reale, il rapporto prosegue
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nonostante il licenziamento e dovrebbe essere garantito nella sua effettiva
evoluzione, quindi è ovvio che il nuovo criterio è riduttivo rispetto alla
precedente disciplina, anche se comunque non è idoneo a configurare un
criterio predeterminato di quantificazione dei danni, includendo solo il lucro
cessante (retribuzione non percepita per licenziamento illegittimo) e non altri
danni emergenti diversi, con titolo autonomo.
→ l' applicabilità all'indennità risarcitoria parametrata all'ultima retribuzione,
della disciplina relativa a interessi e rivalutazione monetaria, con la funzione
di garantire il costante valore nel tempo di un certo bene (qui la
retribuzione), e quindi fare in modo che il lavoratore non subisca un danno
per il fatto di non aver potuto più lavorare a causa del licenziamento → è
ovvio che (per evitare contrasti con l' articolo 36 cost.) interessi e
rivalutazione devono sempre calcolarsi.
PRECISAZIONI rispetto al vecchio testo:
→ comma 3 articolo 18 riguardante l' indennità sostitutiva della
reintegrazione; con questo nuovo comma vengono risolte due questioni che
avevano creato molte discussioni in passato:
 la definizione delle modalità cronologiche dell' opzione per l' indennità
sostitutiva: prima c' era il comma 5 che prevedeva la conseguenza della cessazione
del rapporto di lavoro, allo scadere congiunto di due termini (entrambi di 30
giorni), ma aventi decorrenza iniziale diversa: quello per rispondere positivamente
all' invito del datore di lavoro (decorrente dall' invito stesso) e quello per chiedere l'
indennità sostitutiva (decorrente dalla comunicazione dell' avvenuto deposito in
cancelleria della sentenza di reintegrazione). La giurisprudenza è intervenuta
superando tale anomalia, considerando il secondo termine come termine finale
massimo, oltre il quale l' indennità sarebbe stata perduta, ma che poteva essere
anticipato se il datore avesse interpellato il lavoratore sulle sue intenzioni, con l'
invito a riprendere servizio entro 30 giorni, così determinando la riunione dei due
termini. Il nuovo comma 3 riproduce tali conclusioni, conferma il termine di 30
giorni ma lo fa decorrere alternativamente, dalla comunicazione dell' avvenuto
deposito della sentenza o dall'invito del datore a riprendere servizio (se anteriore);
quindi se viene per prima la comunicazione, la lavoratore avrà 30 giorni di tempo
per optare a favore dell' indennità ed in caso di mancata opzione conserverà intatto
il diritto ad essere reintegrato; se invece l' invito del datore di lavoro precede la
comunicazione del deposito della sentenza, il lavoratore sarà costretto a scegliere e
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l' eventuale silenzio comporterà sia l' estinzione del rapporto che la perdita
dell'indennità (nella prassi poco usato).
 l' individuazione del momento estintivo del rapporto in caso di esercizio dell'
opzione stessa: il nuovo comma stabilisce che la semplice richiesta d' indennità
determini la cessazione, così dando applicazione ai principi in materia di
obbligazioni (prima era l' opposto perché la giurisprudenza di legittimità riteneva
che la cessazione del rapporto si avesse solo nel momento del pagamento
dell'indennità)

2.LA TUTELA REALE PIENA


(si qualifica come piena, per il confronto con il secondo livello, che è
evidentemente regressivo): è il primo livello della nuova tutela reale. Il punto
qualificante del primo livello sta nella disciplina (ulteriore a quella sulla
determinazione della retribuzione) dell'indennità risarcitoria contenuta nel
comma 2:
→ da un lato si conferma il limite minimo (per risarcimento del danno) delle
5 mensilità anche in assenza di danno, o anche nel caso di danno inferiore, e
ciò perché si vuole sanzionare l' illegittimità del licenziamento e quindi il
datore che abbia illegittimamente licenziato.
→ dall'altro si prevede la detrazione dall'indennità risarcitoria di quando
percepito, nel periodo di estromissione dal posto di lavoro, per lo
svolgimento di altre attività lavorative (C.D. ALIUNDE PERCEPTUM), ciò
ha alcune implicazioni: prima di tutto dobbiamo partire dal presupposto che
l' articolo 18 non introduce un criterio forfettario di determinazione del
danno, però comunque vi è il limite minimo di 5 mensilità detto sopra,
dovuto per la tutela economica del lavoratore illegittimamente licenziato
(ecco la RATIO) ed è proprio questa tutela ad essere ridotta con la previsione
di tale detrazione (quindi è un contro senso rispetto alla RATIO).
In secondo luogo non passa inosservato il confronto con la disciplina di
secondo livello di tutela, in cui la detrazione investe anche L' ALIUNDE
PERCIPIENDUM cioè quanto il lavoratore avrebbe potuto guadagnare,
usando l' ordinaria diligenza, nel periodo di estromissione dal rapporto → il
principio di solidarietà all'articolo 1227 che giustifica la detrazione dell'
ALIUNDE PERCIPIENDUM, non ha ragione di essere applicato se l' autore
del danno abbia palesemente violato i principi di corretta e civile convivenza
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sul terreno del contratto, e quindi abbia violato proprio quel principio di
solidarietà. La Terza ricaduta è la più problematica: la formula che lega la
detrazione dell' aliunde perceptum direttamente al procedimento di
determinazione del danno ad opera del giudice, potrebbe indurre a ritenere
introdotto un vero e proprio obbligo a carico del giudice, di operare la
detrazione, con conseguente vizio della sentenza che non l' abbia fatto. La
risposta ipotizzata a tale problema è positiva nel senso che sarebbe imposto
al giudice di adottare i provvedimenti istruttori necessari, anche d' ufficio,
con conseguente spinta al superamento del regime delle detrazioni dell'
aliunde perceptum. Comunque si tende a preferire la soluzione negativa, per
cui i poteri istruttori del giudice potranno svilupparsi solo sulla base delle
allegazioni delle parti e ciò perchè si è arrivati ad un equilibrio (aliunde
perceptum come eccezione) e soprattutto anche per evitare che il processo
sul licenziamento assuma un carattere di tipo inquisitorio.

3.LA TUTELA REALE ATTENUATA (o depotenziata):


è il secondo livello di tutela. La reintegrazione non viene toccata , ma
vengono limitate le conseguenze risarcitorie a beneficio del lavoratore e
vengono anche ammorbiditi gli altri oneri posti a carico del datore in caso di
licenziamento. Prima di tutto viene abolita la garanzia del limite minimo di 5
mensilità, quindi il risarcimento sarà dovuto solo in relazione ad un danno
effettivo, senza presunzioni ne meccanismi sanzionatori; ma il ritorno al
diritto comune, viene subito smentito attraverso la previsione della nuova
disposizione che prevede una misura massima del risarcimento (di 12
mensilità) tale quindi, da minimizzare il costo dell' atto illegittimo del datore
di lavoro , che senza quel limite sarebbe tenuto a corrispondere somme molto
elevate → INDUBBIO FAVORE PER IL DATORE DI LAVORO.
La questione del risarcimento del danno va a toccare una debolezza dell'
applicazione concreta (dell' articolo 18) legata a fattori esterni, quali: la
lunghezza del processo e la situazione del mercato locale in funzione della
rioccupabilità del lavoratore licenziato. Il legislatore quindi tenta di porre
rimedio al primo problema riducendo il termine per l' impugnazione
giudiziale del licenziamento da 270 a 180 giorni, attraverso l' introduzione di
una procedura di tutela urgente per le controversie relative a licenziamenti;
invece per il secondo problema il legislatore vuole rimediare con un
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intervento tutto da inventare (riguardante iniziative contro la disoccupazione
i c.d ammortizzatori sociali) . Quello che succede realmente però (oltre ai
buoni propositi del legislatore) è il limitato risarcimento per il lavoratore
fissandogli un tetto massimo, ciò significa che se gli interventi del legislatore
non funzioneranno, allora graveranno sul lavoratore sia la lunghezza del
processo, sia la situazione del mercato con l' alto tasso di disoccupazione,
che priverà il lavoratore di ogni sostentamento, posto che l' eventuale
prestazione fruita in seguito al licenziamento, diventerà indebita una volta
che il licenziamento sia stato annullato e dovrà essere restituita all'ente
previdenziale erogatore. Individuazione dell' ambito temporale nel quale il
tetto delle 12 mensilità è destinato ad operare. → l' indennità risarcitoria è
commisurata alla retribuzione dal giorno del licenziamento fino a quello dell'
effettiva reintegrazione, e fino a che quest'ultima non avviene, il risarcimento
corre, ma viene limitato al tetto delle 12 mensilità, in questo modo, l' obbligo
di reintegrare (che ha scarsa efficacia) potrebbe essere tranquillamente eluso
dal datore di lavoro, senza che ciò aggravi la sua posizione. A causa di queste
conseguenze si sono prospettate diverse soluzioni:
→ per alcuni, il tetto delle 12 mensilità opererebbe solo per il periodo
corrente fino all'atto introduttivo del giudizio
→ per altri, fino alla sentenza di reintegrazione, mentre nel periodo
successivo il datore di lavoro sarebbe tenuto alla retribuzione in virtù del
ripristino del rapporto contrattuale ; Gli argomenti usati per limitare la
copertura fino alla sentenza di reintegrazione non sono convincenti. → è solo
la concreta reintegrazione nel posto di lavoro ad opera del datore di lavoro
che può garantire anche la funzionalità di fatto del rapporto ricostituito e
quindi la effettività della reintegrazione stessa.
Un' altra novità è quella dell' ALIUNDE PERCIPIENDUM, quanto ai
meccanismi per l' introduzione della detrazione , è la stessa vista per la tutela
reale piena, con la riproposizione del problema della prova e dell' eventuale
vincolo per il giudice di acquisirla d' ufficio, ferma restando l'' allegazione.Il
comma 4 si chiude con ancora uno sconto per il datore, che è tenuto a versare
i contributi previdenziali dal licenziamento fino alla effettiva reintegrazione,
maggiorati solo degli interessi legali, senza applicazione delle sanzioni civili
per il ritardo nel pagamento dei contributi → funzione di alleggerire il carico
del datore, nei casi di licenziamento in un rapporto di lavoro subordinato.
16
4.LA TUTELA SOLO INDENNITARIA, FORTE E DEBOLE:
sono il 3° e 4° livello di tutela regolati dai commi 5 e 6 del nuovo articolo
18: qui la tutela reintegratoria sparisce e resta la sola compensazione
economica, quantificata in misura variabile, dall'ultima retribuzione globale
di fatto: da 12 a 24 mensilità per il 3° livello e dalle 6 alle 12 mensilità per il
4° livello.La scelta sembra chiara: con il licenziamento (anche illegittimo) si
intende estinguere il rapporto di lavoro e quindi non si può ipotizzare la
reincarnazione del rapporto stesso, invece è proprio questo che caratterizza la
vecchia (e ancora attuale ) tutela obbligatoria; anche se nel nuovo comma 5
non c' e alternativa alla liquidazione economica, infatti la nuova tutela da un
lato è puramente economica e dall'altro pone qualche problema in più
rispetto alla tradizionale tutela obbligatoria in relazione al titolo da attribuire
alle somme dovute dal datore di lavoro. Nel comma 5 infatti ci si riferisce ad
una pronuncia del giudice che dichiara risolto il rapporto, come se il
licenziamento fosse improduttivo di effetti fino alla sentenza e come se solo
quest'ultima potesse conferirgli efficacia estintiva. La stessa questione si
pone nel caso di inefficacia del licenziamento disciplinato dal comma 6(che
rinvia al 5). ma in entrambe le ipotesi non si tratta di risoluzione giudiziale:
la risoluzione del rapporto non può essere pronunciata dal giudice, ma va
necessariamente ricondotta alla volontà (per quanto ingiustificata) del datore
di lavoro → infatti il giudice comunque dichiara risolto il rapporto dalla data
del licenziamento.
3 questioni che derivano dai nuovi commi 5 e 6:
→ la precisazione della natura giuridica delle somme dovute dal datore di
lavoro: la disposizione parla qui di “indennità risarcitoria” e quindi sembra
voler mescolare la funzione risarcitoria, con quella indennitaria (che è
riconducibile ad un meccanismo sanzionatorio dell'illegittimità del
licenziamento). E ciò ci porterebbe ad affermare (come anche nella tutela
reale) il carattere polifunzionale delle somme che il datore deve versare.
Quindi la natura sembra risarcitoria, in quanto la rottura illegittima di un
vincolo contrattuale non può che produrre un danno (che va oltre la mera
perdita di retribuzione). Solo che il legislatore, introducendo una
disposizione speciale rispetto alle regole generali in tema di risarcimento,
17
forfetizza, e facendo ciò rischia di imporre di pagare somme in assenza del
danno effettivo da perdita della retribuzione ; A conferma di ciò basta vedere
il carattere onnicomprensivo attribuito all' indennità risarcitoria che assorbe
ogni altro danno (danno previdenziale, danni non patrimoniali di altra
natura). → questione che non ha grande rilevanza pratica.
→ l' individuazione della ratio che sta alla base dei due diversi ordini di
grandezza di tali somme:
1- il comma 5 prevede tra le 12 e 24 mensilità e costituirà il punto di
riferimento di una più ampia applicazione, ed è il valore da dare al rapporto nei
casi più frequenti di illegittimità del licenziamento (ricorda che il minimo di 12
mensilità sono dovute anche in assenza totale di danno o in caso di danno anche
inferiore; e comunque sembra essersi realizzato un arretramento nella tutela del
lavoratore, sia perchè l' indennità è onnicomprensiva, in particolare del danno
previdenziale, [che invece la tutela reale fa salvo, ed i commi 5 e 6 invece
esclude], sia per il venire meno del carattere deterrente della tutela reale).
2- invece il comma 6 prevede (ed è il 4° livello sanzionatorio del licenziamento
illegittimo) l' indennità tra 6 e 12 mensilità, perchè tale diminuzione? Perchè nel
nuovo articolo 18 c' è stata una svalutazione dei vizi di carattere formale (eccetto
per il licenziamento orale) o procedurale, rispetto a quelli di carattere
sostanziale.
→ la terza questione riguarda la concreta determinazione dell' indennità
risarcitoria, all' interno dei due livelli (cioè l' individuazione della ratio che
sta alla base di uno o dell' altro livello):
1- tale determinazione nel primo caso (c. 5) resta affidata a criteri estranei al
danno, la formula normativa sembra distinguere tra un criterio principale
(quello dell' anzianità del lavoratore, in relazione alla quale l' indennità deve
essere quantificata) e altri parametri dei quali va tenuto conto secondo una
valutazione discrezionale del giudice (dal 2010 con la l. 183 (C.d collegato
lavoro) modificativa dell' articolo 8 della l. 604, impone anche la specifica
motivazione del giudice), in ogni caso i parametri nel comma 5 sono 3:
 il primo è quello relativo al PESO dell' azienda (secondo il n° dei dipendenti
e secondo le dimensioni dell' attività economica) con il ricorso ad elementi diversi
come ad esempio il fatturato, o il tasso di tecnologia applicata.

18
 Il secondo è quello del COMPORTAMENTO delle parti che, se riferito al
lavoratore, serve a dare rilievo a quelle circostanze di contorno della sua condotta
che conducono a considerare ingiustificato il licenziamento
 il terzo è quello delle CONDIZIONI delle parti, nel quale si può individuare
un qualche collegamento con le caratteristiche e le dimensioni del danno e nel quale
può trovare spazio l' eventuale aliunde perceptum, anche se non nel senso proprio di
una detrazione, visto che non c' è un valore prefissato suscettibile di decurtazione,
ma un valore non predeterminato (tra il minimo e il massimo ) da costruire.
NB solo nel caso di licenziamento ingiustificato per ragioni oggettive si è
aggiunto il “criterio per le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di
una nuova occupazione” → riemerge così la rilevanza dell' aliunde
percipiendum.
Si è sostenuto in dottrina che sarà onere del lavoratore provare la sussistenza
dei criteri indicati dalla legge al fine di ottenere una liquidazione superiore al
minimo. Viceversa anche il ddl può farlo in funzione riduttiva dell' indennità.
Per quanto riguarda i poteri istruttori del giudice ed il rapporto tra questi e gli
oneri di allegazione e prova a carico delle parti: sicuramente però sul
comportamento e sulle condizioni delle parti, è improbabile che il giudice
svolga indagini d' ufficio ( ma per il comportamento delle parti nel corso
della procedura di conciliazione preventiva può essere acquisito il verbale);
c' è da dire che la previsione di un onere di motivazione trova una
giustificazione se il giudice utilizzi materiali probatori raccolti d' ufficio,
essendo del tutto ovvio che egli debba motivare in ordine ai materiali
probatori offerti dalle parti. In ogni caso sembra preferibile parlare di oneri di
semplice allegazione, e non di prova vera e propria. 2- nel secondo caso, cioè
nel caso di indennità tra 6 e 12 mensilità (nel caso di licenziamento
inefficace per ragioni procedurali) contiene un criterio autonomo di
determinazione dell' indennità risarcitoria.
 criterio è dato dalla gravità della violazione formale o procedurale commessa
dal ddl.
Qui non si pongono problemi circa gli oneri probatori, visto che, se la
domanda del lavoratore riguarda i vizi procedurali, necessariamente dovrà
essere il lavoratore stesso a darne prova fin da subito, trattandosi di fatti
costitutivi della sua domanda.

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5.PROBLEMA: LA RICADUTA DELLA NUOVA DISCIPLINA
SANZIONATORIA SUL REGIME DELLA PRESCRIZIONE DEI
DIRITTI DEL LAVORATORE
→ il differimento della prescrizione , alla cessazione del rapporto opera solo
se non sia assicurata la stabilità (per tale si intende una disciplina del
licenziamento in cui si subordini la legittimità e l' efficacia della risoluzione
alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate”. Nell' area di
applicazione della l. 604 opera sempre il differimento della decorrenza della
prescrizione alla cessazione del rapporto; invece per quanto riguarda il nuovo
articolo 18:
 c' è chi ritiene che la tutela del nuovo articolo, pur non essendo più quella
reale, sia pur sempre idonea a consentire al lavoratore l' esercizio dei propri diritti
senza timore di essere licenziato.
 Altri sostengono la soluzione opposta, sottolineando il fatto che la stabilità
idonea ad escludere il timore del licenziamento non è più sempre garantita, ma è
solo eventuale e comunque tale, in caso di tutela reale non piena, da non produrre
quell' effetto di completa reintegrazione della posizione giuridica preesistente.
D' altra parte la nuova disciplina ha confermato la tutela reale, esplicitandola,
per il caso di licenziamento per motivo illecito, che indubbiamente è quello
di ritorsione rispetto alla rivendicazione dei propri diritti da parte del
lavoratore, però la prova dell' illiceità è difficile; il solo timore del
licenziamento potrebbe ostacolare il lavoratore nell' esercizio dei propri
diritti (es. timore di un trasferimento). In più bisogna prendere atto che la
problematica del decorso della prescrizione dei diritti del lavoratore è
assestata su una disciplina molto vecchia, cioè quella della corte
costituzionale espressa con la sentenza 63 del 1966, ed appare evidente il
bisogno di un intervento della corte, affinchè possa elaborare un nuovo
equilibrio tra le esigenze di protezione del lavoratore, nell' esercizio dei
propri diritti, e le esigenze di certezza giuridica su cui si fonda l' istituto della
prescrizione.

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Capitolo V
I LICENZIAMENTI NULLI.
Di Elena Pasqualetto

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1.Premessa
il nuovo testo dell' articolo 18 st.lav. Prevede che la nullità del licenziamento
viene dichiarata dal giudice, al verificarsi di una delle situazioni di cui al c.1
e comporta l' applicazione della tutela reale piena (che opera anche nel caso
di licenziamento inefficace perché intimato in forma orale).Al c.1 vengono
menzionate fattispecie diverse (licenziamento discriminatorio; intimato in
costanza di matrimonio; o in caso di maternità o paternità; quello causato da
motivo illecito determinante; quello riconducibile ad altri casi di nullità
previsti dalla legge) ed a tutte si applica la tutela reale piena.
Questa disciplina non era possibile con il vecchio articolo 18 che (per quanto
riguardava ai casi di nullità) rinviava alla legge 604/1966 , che conteneva un
elenco tassativo di ipotesi di nullità, tra cui il licenziamento discriminatorio
e non anche le altre ipotesi oggi ricomprese nel nuovo testo; anche la l.
108/1990 aveva previsto l' applicazione dell' articolo 18 solo a quelle ipotesi
di licenziamento discriminatorio. Quindi secondo l' opinione prevalente il
licenziamento intimato in costanza di matrimonio ; o quello in caso di
maternità/paternità; e in tutte le altre ipotesi di recesso datoriale nullo; non
cadevano sotto la protezione dell' articolo 18 , ma per essi operava la tutela
reale di diritto comune. L' unica eccezione, a cui era stata estesa l'
applicazione dell' articolo 18 era il caso di licenziamento per motivo illecito.
Quindi si è scelto di omogeneizzare le tutele per i casi di licenziamenti afflitti
dai peggiori difetti (prevedendone eccezionalmente l' operatività
indipendentemente dal numero di lavoratori occupati) → ricorda che la
disciplina dei primi 3 commi dell' articolo 18, trova applicazione ogni volta
che il licenziamento risulti effettivamente determinato da motivi
discriminatori o da una delle altre ragioni cui si fa riferimento al primo
comma, e ciò indipendentemente dalla motivazione addotta dal ddl (ciò lo
conferma il c. 7 che cita “se nel corso del giudizio, il licenziamento risulti
determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le
relative tutele previste dall' articolo 18). spetta al giudice, al di là delle
giustificazioni addotte dal ddl, ricercare (nel limite dei suoi poteri istruttori, e
quindi a condizione che vi sia una domanda del lavoratore in tal senso) la
vera ragione che sorregge il licenziamento, ed applicare la corrispondente
tutela.

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L' elenco delle fattispecie che il legislatore riconduce alla “categoria” del
licenziamento nullo, ha carattere esemplificativo → e ciò lo capiamo dal c.1
dove si dice “recesso riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla
legge”, ed è l' interprete che deve occuparsi di trovare altre violazioni diverse
da quelle scritte nello stesso comma, ma di tale gravità da comportare la
nullità del licenziamento. (NB se si guarda bene si può affermare che le
figure descritte al C. 1 esauriscono le possibili ipotesi di nullità.

2.LICENZIAMENTO DETERMINATO DA MOTIVO ILLECITO


DETERMINANTE:
con la nuova disciplina a tale recesso si applica la tutela reintegratoria forte.
Si parla di illiceità del motivo quando esso sia contrario a norme imperative,
all' ordine pubblico o al buon costume, secondo la giurisprudenza non può
bastare che esso sia semplicemente arbitrario o irrazionale. La
giurisprudenza ha individuato l' esistenza di ipotesi di licenziamento fondato
su motivo illecito, solo nei casi (frequenti) di recesso di natura vendicativa
(intimati per ritorsione); è stato considerato tale anche il licenziamento per
rappresaglia (legato quindi alla resistenza del lavoratore a illegittime
richieste del ddl) → in tali casi i giudici hanno assimilato (vista l' analogia
della struttura) il licenziamento ritorsivo al licenziamento discriminatorio,
con la conseguenza di applicare in tali casi l' articolo 18 → anticipando la
soluzione che è diventata definitiva dopo la l. 92.
a tali ipotesi è stata affiancata dalla dottrina l' ipotesi del recesso provocato
dalla domanda o dalla fruizione dei congedi parentali, familiari o formativi
(la dottrina ha forzato tale affiancamento per garantire la tutela
reintegratoria) → ora l' articolo 18 prevede la nullità nel caso di tali
licenziamenti ed in ogni caso la nullità del licenziamento legato alla
genitorialità.
L' articolo 1345 cc (applicabile agli atti unilaterali, e quindi al licenziamento,
per il tramite dell' articolo 1324) richiede l' esclusività del motivo illecito →
esso deve rappresentare l' unica motivazione determinante; l' eventuale
concomitanza con una ragione diversa, impedisce l' applicazione della
disposizione citata e la qualificazione come nullo del recesso intimato. → l'
articolo 18 cita “ la nullità si produce quando il recesso è determinato da un
motivo illecito determinante ai sensi del 1345 cc” anche in tale caso , anche
23
se non è espresso, si richiede l' esclusività; infatti il richiamo al 1345 non
lascerebbe spazio a diverse interpretazioni.
Quindi : prima della l. 92 si prevedeva che la nullità del licenziamento per
illiceità dell' unico motivo avrebbe dovuto comportare la tutela reale di
diritto comune.

3.IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO:


è una delle ipotesi di licenziamento nullo prevista dal nuovo articolo 18, ed
ha sollecitato molto interesse nei primi commentatori della riforma
Fornero.Il legislatore rinvia all' articolo 3 della l. 108/1990 che definisce
questo tipo di licenziamento attraverso ulteriori rinvii: art. 4 l. 604 e art. 15
st.lav. Nonostante tali richiami si deve ritenere che la nozione di
discriminazione (e quindi di licenziamento discriminatorio) che viene qui in
considerazione, sia quella che risulta dalla complessiva evoluzione della
disciplina in materia, e che appare oggi sparpagliata in molti testi (in ultimo
il d.lgs 216/2003), ma che conserva come punto di riferimento l' articolo 15
st.lav. Nel testo attualmente in vigore; e proprio per questo motivo il
legislatore ha ritenuto opportuno tenere tale ultima disposizione aggiornata,
quanto meno dal punto di vista dei vari tipi di motivi di discriminazione che
sono espressamente vietati al ddl. → il dibattito fa leva da un lato, sul rilievo
da attribuirsi al fatto che il legislatore interno, stimolato da quello
comunitario, abbia avvertito la necessità di incrementare la lista dei fattori di
discriminazione vietati, e questo depone a favore della tesi restrittiva,
condivisa anche dalla CdG ciò lo capiamo anche da una sentenza (riferita all'
ordinamento comunitario):
 sent. CHACON NAVAS riferendosi alla direttiva 78/2000 ha respinto l'
estensione analogica dell' ambito di applicazione della normativa comunitaria, al di
là delle discriminazioni fondate sui motivi enunciati dalla direttiva stessa, negando
in specie, che la malattia rappresenti un fattore di differenziazione vietato.
Dall' altro lato c' è chi ritiene che l' elenco dei motivi di discriminazione sia
solo esemplificativo, un significativo argomento a favore di tale tesi viene
ancora dall' ordinamento comunitario, in in particolare dall' articolo 21 della
carta di Nizza (carta dei diritti fondamentali dell' UE, a cui è stato attribuito
il valore di trattato e quindi ha acquisito il ruolo di diritto primario) tale
articolo contiene un' elencazione sicuramente non tassativa dei motivi di
24
differenziazione. È da ricordare che secondo parte della dottrina, l'
elencazione è tassativa ma ciò non comporta il rischio di vuoti di tutela nei
confronti dei lavoratori, per quanto riguarda quegli aspretti dell' identità
personale che non sono nominati dalla legge, e ciò in quanto è possibile fare
ricorso agli articoli del cc 1343 e 1345, che consentono di sindacare in
giudizio qualunque atto o patto dal punto di vista del motivo illecito unico e
determinante → è il licenziamento fondato su motivo illecito gode di tutela
reale rafforzata di cui ai primi tre commi dell' articolo 18, così come per il
licenziamento discriminatorio, quindi si risolve il problema della tassatività.
Ma il motivo è illecito quando è contrario a norme imperative, all' ordine
pubblico o al buon costume, quindi per potersi considerare nullo, dovrebbe
individuarsi una specifica norma imperativa violata dalla condotta datoriale.
l' art. 1345 (che opera in via suppletiva rispetto all' impiego della normativa
antidiscriminatoria), e la normativa antidiscriminatoria operano su piano
distinti perchè le condizioni per l' applicazione della prima sono molto più
rigorose rispetto a quelle previste per il secondo caso.
→ prima differenza: condizione dell' esclusività della ragione vietata:
genericamente illecita nel primo caso e più specificamente discriminatoria
nel secondo; infatti il recesso fondato su motivo illecito , per potersi definire
nullo, non deve poggiare su altra giustificazione, diversa dalla finalità
illecita, invece per gli atti discriminatori non si richiede come necessario tale
elemento.
→ seconda differenza: l' articolo 1345 dà rilevanza all' intento soggettivo
perseguito, con la conseguenza che se si tratta di un atto unilaterale, la sua
stessa esistenza diviene inafferrabile; Nell' ambito della normativa
antidiscriminatoria invece il problema della necessità o meno di uno
specifico intendo discriminatorio si pone in modo più variegato. Con le
successive normative la discriminazione viene elevata a ruolo di fattore
causativo della differenziazione, la sua rilevanza passa da necessario motivo
soggettivo dell' atto di recesso, a quello di causa in concreto dello stesso. Un
esempio di tale trasformazione lo abbiamo Nei decreti 215 e 216 del 2003 ed
il codice delle pari opportunità, nella definizione stessa di discriminazione. Il
divieto di licenziare per un motivo illecito e quello di licenziare per una
ragione discriminatoria poggiano su presupposti diversi.: esempio il
lavoratore licenziato per obesità che agisce contr il ddl per illiceità del
25
motivo, avrebbe l' onere di provare l' intenzionalità del ddl, invece nei caso
di licenziamento discriminatorio , tale onere di prova non sussiste. Per
quanto riguarda la regola della permanente incombenza sul lavoratore dell'
onere della prova del carattere discriminatorio del licenziamento NON è
STATA SCALFITA DALL' ENTRATA IN VIGORE DELLA L. 92, infatti in
tal caso, come nelle altre ipotesi di licenziamento nullo, siamo di fronte a
divieti, quindi solo la dimostrazione positiva della violazione del divieto
porterà all' applicazione della tutela reale → quindi l' onere di provare la
sussistenza della giusta causa o giustificato motivo non grava sul ddl, ma se
per caso lui riuscisse a provare tale sussistenza , comunque non sarebbe
completamente scagionato dall' accusa di aver posto in essere l' atto
discriminatorio.
Prima della l' 92 erano previsti , con riferimento al licenziamento
discriminatorio, meccanismi di tipo presuntivo, per agevolare il lavoratore
nella dimostrazione dell' illecita differenziazione → dopo la riforma si
prevede l' applicabilità ai licenziamento per i quali opera l' articolo 18, del
nuovo rito speciale (rendendo inapplicabile il rito sommario di cognizione,
che doveva generalmente seguirsi solo nel caso di controversie in materia di
discriminazione) → tale conclusione potrebbe essere evitata se si ritenesse
esistente un rapporto di specialità tra le norme che regolano il rito sommario
di cognizione e le norme che regolano il nuovo rito speciale operante
generalmente per tutti i licenziamenti dell' articolo 18; se tale rapporto di
specialità non fosse possibile allora si arriverebbe alla disapplicazione del
rito sommario di cognizione per cui spetta al convenuto provare l'
insussistenza della discriminazione. QUINDI: il legislatore ha posto sullo
stesso piano, dal punto di vista delle tutele per il prestatore, il recesso per
motivo illecito e quello discriminatorio, ma ciò non comporta un'
appiattimento di una nozione sull' altra. Resta comunque più conveniente per
il prestatore ottenere dal giudice la qualificazione del recesso come
discriminatorio e non invece fondato su di un motivo illecito.

4. IL LICENZIAMENTI INTIMATO IN CONCOMITANZA DI


MATRIMONIO
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Il licenziamento intimato in concomitanza di matrimonio → è nullo ai sensi
dell' articolo 18, ed in tal caso dobbiamo fare riferimento all' articolo 35 del
codice delle pari opportunità che definisce nullo il licenziamento attuato a
causa di matrimonio, cioè intimato alla lavoratrice nel periodo che va dalla
richiesta delle pubblicazioni di matrimonio sino ad un anno dopo le nozze. Il
c. 6 dell' articolo sancisce il diritto della lavoratrice ad essere reintegrata nel
posto di lavoro successivamente all dichiarazione giudiziale di nullità del
licenziamento. → si applica in tal caso la c.d tutela reale di diritto comune.
(la lavoratrice avrà diritto anche al risarcimento danni) la disciplina resta
immutata dopo la riforma tranne per una piccola particolarità: la dottrina ho
post in evidenza la connessione tra la causa di matrimonio e la
discriminazione legata all' appartenenza al genere femminile, facendo
rientrare la prima ipotesi nella categoria dei licenziamenti discriminatori, con
conseguente applicabilità della tutela reale specifica di cui all' articolo 18. ed
ecco la soluzione della l. 92 , e la nuova disciplina ha abrogato implicitamente
l' articolo 35.

5. IL LICENZIAMENTO LEGATO ALLA MATERNITA’ E ALLA


PATERNITA’
Il licenziamento legato alla maternità e alla paternità → nullo ai sensi dell'
articolo 18; le ipotesi soggette a nullità sono quelle previste dall' articolo 54
del TU sulla maternità e paternità (151/2001) : divieto di licenziare la
lavoratrice dall' inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età
del bambino; divieto di recedere dal rapporto a causa della domanda o della
fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino avanzata da
lavoratrice o lavoratore; divieto di licenziare il lavoratore in congedo di
paternità; divieto opera anche in caso di adozione o affidamento.
Parte della dottrina sostiene che il licenziamento della lavoratrice madre
durante i periodi di protezione è riconducibile al licenziamento
discriminatorio, per tale motivo Vi era stato un dibattito sulla tutela
applicabile in tali casi, ma con la sistemazione del licenziamento legato alla
maternità nei primi commi dell' articolo 18, assolutamente non
ricomprendendolo nell' ipotesi di licenziamento discriminatorio, la tutela è
sicuramente la tutela reale piena (prima si riteneva applicabile la tutela reale
di diritto comune).
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6.IL LICENZIAMENTO RICONDUCIBILE AD ALTRI CASI DI
NULLITA’ PREVISTI DALLA LEGGE
→ applicabile l' articolo 18, la norma così consente di applicare la tutela
forte quando il licenziamento sia stato adottato ad esempio in frode alla legge
(1344) o in violazione di norma imperativa (1418)
→ licenziamento in Frode alla legge: dà rilevanza ai comportamenti del ddl ,
volti ad aggirare un divieto, che appare formalmente rispettato; viene
adottato per eludere l' applicazione di una norma imperativa e ottenere così
un effetto vietato dalla legge.
Esempio: la norma imperativa elusa è il divieto di discriminazione, tale
meccanismo permette di considerare illecito anche il licenziamento fondato
su di una giusta causa o giustificato motivo, ma in realtà impiegato come
mezzo per evitare di confliggere con il divieto legale.
Esempio: licenziamento attuato prima o in coincidenza con un trasferimento
d' azienda, seguito da una riassunzione → si vuole eludere il 2112. in tali casi
il giudice deve spingersi sino a verificare se il recesso è elusivo, e così vi è il
rischio dell' estensione del controllo giudiziale oltre i limiti imposti ad esso
dalla l.
→ per quanto attiene il licenziamento in violazione di norma imperativa, la
dottrina suggerisce di considerare tale, ad esempio il recesso adottato in
violazione della l. 146 del 1990 che esclude l' adozione di misure
disciplinari estintive del rapporto nei confronti dei lavoratori che scioperino
in violazione di alcune disposizioni contenute nella legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali.

CAPITOLO VI
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO
SOGGETTIVO O PER GIUSTA CAUSA
Di Marco Tremolada

→ Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa:


le norme della l. 92 apportano varie modifiche in materia di licenziamenti
individuali, e tali norme si riferiscono a 2 diversi ambiti di applicazione:
1° ambito: da un lato modifiche alla 604/66:
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→ all' art. 2 è introdotta la regola della necessaria motivazione che ha
portato al licenziamento (prima non era obbligatorio, e veniva data solo se
richiesta dal lavoratore).
→ l' art. 7 viene completamente riformulato, ma nell' ambito del
licenziamento ciò che interessa è che qui si rimanda all'articolo 7 st.lav. Per
quanto attiene il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo
soggettivo.
→ infine viene ridotto dal 270 a 180 giorni il termine di decadenza previsto
all'articolo 6 , entro il quale il lavoratore che abbia impugnato in via
stragiudiziale il licenziamento deve attivare il giudizio, o il tentativo di
conciliazione o l' arbitrato.
1° ambito: dall' altro si introduce una innovativa regola in tema di
decorrenza degli effetti del recesso (art.1 c. 41 l. 92) per cui il licenziamento
intimato all' esito del procedimento disciplinare (salvo specifici casi) produce
effetto dal giorno in cui il procedimento stesso è stato avviato.
2° ambito: riforma articolo 18 st. lav.:
partiamo dal presupposto che la l. 92 contiene molte norme che identificano
il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa con il
licenziamento disciplinare, ed anche l' articolo 18 appare orientato in tal
senso: si pensi alla formulazione “licenziamento per motivi disciplinari” che
fa riferimento a quello per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo: si allude al
licenziamento per grave inadempimento degli obblighi contrattuali del
prestatore di lavoro, di cui all' articolo 3 della l. 604, e viene identificato
come licenziamento disciplinare con obbligo di preavviso.
Licenziamento per giusta causa: la l. 92 lo fa coincidere con il
licenziamento disciplinare con esonero dall' obbligo di preavviso, e in tal
modo impedisce di ipotizzare una giusta causa oggettiva (cioè che
legittimerebbe il recesso in tronco all' avverarsi di una causa che
impedirebbe la continuazione anche temporanea del rapporto); dall' altro lato
potrebbe far riaprire la discussione circa la possibilità di qualificare come
giusta causa tutte quelle situazioni inerenti al lavoratore, non qualificabili
come inadempimento, ma che incidano irrimediabilmente sul “rapporto
fiduciario”.
A riguardo ci sono 3 tesi:
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1- opinione dottrinale che prospetta la concezione contrattuale della giusta
causa per cui questa può essere integrata solo da un inadempimento;
2- opinione giurisprudenziale per cui, non solo l' inadempimento, ma
qualsiasi fatto idoneo a compromettere il rapporto fiduciario del rapporto di
lavoro, può configurare ipotesi di giusta causa, tale tesi fa leva sull' articolo
2119 cc.
3- tesi intermedia per cui qualsiasi comportamento del lavoratore può
costituire giusta causa solo se questo sia idoneo a far venire meno l'
affidamento del ddl per gli adempimenti futuri, in analogia con il contratto di
somministrazione art. 1564 cc.
Cosa succede oggi? Oggi la tesi più credibile è che La qualificazione
disciplinare del licenziamento per giusta causa, disposta dalla l. 92, prevede
la limitazione di tale causa a “grave mancanza”, confermando così l'
inscindibile collegamento del recesso disciplinare con l' articolo 2106 cc
norma che non solo parla di infrazione, ma fa implicito riferimento all'
inadempimento, riviando agli articolo 2104 e 2105 per quanto attiene agli
obblighi del lavoratore, per stabilire che l' inosservanza di tali norme può dar
luogo a sanzioni disciplinari.
in ogni caso la riforma più rilevante della materia dei licenziamenti
individuali riguarda le garanzie contro il licenziamento illegittimo → si
prevedono quindi 4 regimi di tutela decrescente che sostituiscono quello
unitario previsto dal vecchio articolo 18.
→ tutela reintegratoria piena: si applica al licenziamento dichiarato nullo
o inefficace, che assicura una garanzia uguale a quella del vecchio articolo
18.
→ tutela reintegratoria attenuata: prevista per il licenziamento annullato,
ed è così chiamata a causa dell' indennità risarcitoria (riferita tra il periodo
del licenziamento e quello della reintegrazione) e rispetto al regime
precedente non prevede il minimo di 5 mensilità ma un massimo di 12.
→ tutela indennitaria forte: è esclusa la reintegrazione, è prevista solo un'
indennità tra 12 e 24 mensilità.
→ tutela indennitaria debole: in caso di licenziamento inefficace, ma al
tempo stesso risolutivo del rapporto, è prevista un' indennità tra 6 e 12
mensilità.

30
Quindi a seconda del tipo di licenziamento stabiliremo quale sia la tutela
prevista dall' articolo 18.
Il licenziamento disciplinare dichiarato nullo o inefficace perchè intimato
verbalmente → si applica la tutela reintegratoria piena, (c. 1-3) tali commi
riguardano i vizi del recesso → In tali casi deve esserci la reintegrazione del
lavoratore nel luogo di lavoro, indipendentemente dal motivo che ha portato
al licenziamento. Tale previsione si trova al c. 1 che sostituisce la precedente
previsione dell' articolo 18 della tutela di diritto comune, ed è proprio per
questa sua funzione sostitutiva che ha un' applicazione tendenzialmente
generale (solo per i rapporti a tempo indeterminato, in quanto l' articolo 18 si
riferisce al sistema normativo introdotto dalla l. 604, che infatti riguarda solo
i rapporti a tempo indeterminato) → in quanto non operano né il limite del
numero minimo di dipendenti (previsto invece dal c.8 per gli altri tipi di
tutele); né , salvo eccezioni (ad es.il rapporto di lavoro in prova, entro i 6
mesi dal suo inizio), l' esclusione di determinati rapporti di lavoro che invece
la l. 604 sottrae all' applicazione della regola di giustificazione necessaria del
licenziamento.
Il licenziamento disciplinare: tra le ipotesi di nullità del licenziamento
specificatamente richiamate dall' articolo 18 c. 1, ve ne sono due in ordine
alle quali, le leggi speciali che le regolano attribuiscono rilievo al
licenziamento disciplinare; si tratta delle ipotesi di licenziamento in costanza
di matrimonio o licenziamento nel periodo di tutela della maternità, in tali
ipotesi è ammesso il licenziamento solo in determinati casi (tassativi) come
ad esempio colpa grave. in tali ipotesi si desume la peculiarità del
licenziamento disciplinare, rispetto a quello delle ipotesi previsti dai commi
successivi al 3°.da un lato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo
è nullo anche se giustificato, in quanto l' esenzione dalla nullità opera solo in
caso di licenziamento per giusta causa; dall' altro lato per ciò che vi sia tale
esenzione deve trattarsi di recessi per giusta causa che non sia viziato, infatti
nel caso di vizio procedimentale del recesso, comporta l' ingiustificatezza del
recesso stesso, da qui vediamo che il licenziamento disciplinare è sanzionato
in modo molto più severo rispetto agli altri casi dell' articolo 18.
il licenziamento dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale (art.
18 c.1), due precisazioni:

31
→ una di carattere generale: anche se la norma in esame non introduce un
vincolo di forma del recesso, è chiaro il riferimento all' articolo 2 della l. 604
che prevede la forma scritta del licenziamento, prevedendone l' inefficacia in
caso di mancanza di forma scritta ad substantiam → tutela reintegratoria
piena.
→ riferita specificatamente al licenziamento disciplinare: non è possibile
desumere dal c. 5 dell' articolo 7 st.lav. (che prevede il requisito della forma
scritta per l' atto di contestazione dell' addebito) che tale requisito di estenda
anche al caso di licenziamento, con l' effetto che (visto che tale norma è di
applicazione generale) il recesso disciplinare dovrebbe essere sempre
intimato per iscritto. Fin' ora abbiamo parlato di nullità o inefficacia → tutela
reintegratoria piena;
negli altri casi vengono in considerazione altre ipotesi di illegittimità del
licenziamento disciplinare contemplate dai commi 4,5,6. e 7, che danno
luogo a diverse tutele, applicabili (ai sensi del comma 8) solo ai ddl che
abbiano più di 60 dipendenti (requisito numerico non richiesto nei primi 3
commi) o più di 15 ( 5 per impresa agricola) nell' unità produttiva cui sia
addetto il lavoratore licenziato.
→ ipotesi in cui il giudice accerta un difetto di giustificazione (commi 4 e
5 );
→ ipotesi in cui viene accertato un vizio di motivazione o al procedimento
disciplinare (comma 6);
→ ipotesi di accertamento che il licenziamento intimato per giustificato
motivo oggettivo è stato determinato da ragioni disciplinari (comma 7)
NB: se ricorrono tali ipotesi, ma non ricorrono i requisiti numerici, allora le
conseguenze dell' illegittimità del licenziamento continuano a essere soggette
alle regole vigenti prima della riforma, si tratta di regole che vengono talora
enucleate dall' interprete in assenza di norme specifiche, ad esempio nel caso
di licenziamento viziato quanto al procedimento si ha l' applicazione delle
c.d. Sanzioni di area, cioè applicazione delle stesse conseguenze del recesso
ingiustificato, che sono diverse a seconda che il rapporto dia soggetto alla l.
604 o soggetto al regime del libero licenziamento ex art. 2118 e 2119 cc.
Il licenziamento disciplinare ingiustificato: quello annullato e quello
dichiarato risolutivo del rapporto → (c. 4 e 5) questa è l' ipotesi in cui il
giudice accerta che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo
32
soggettivo o giusta causa addotti dal ddl ; cioè accerta che il licenziamento
è illegittimo per un vizio relativo al requisito della giustificazione. I
commi 4 e 5 suddividono il vizio di giustificazione in due classi di vizi del
licenziamento:
 prima classe: tutela reintegratoria attenuata, che si applica dopo l'
annullamento del recesso; tale classe è regolata dal c. 4 e riguarda due fattispecie
tipizzate (due ipotesi di ingiustificatezza qualificata) e cioè l' ipotesi di
accertamento dell' insussistenza del fatto contestato, e l' ipotesi in cui si accerta che
il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
QUESTA E L' ECCEZIONE → La reintegra è l' eccezione ed è prevista in
presenza della rilevanza della colpa del datore nell' intimazione al licenziamento.
 seconda classe: tutela indennitaria forte, che si applica dopo la dichiarazione
di risoluzione del rapporto; disciplinata dal c. 5 e riguarda le altre ipotesi in cui il
giudice accerta che non vi siano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o
della giusta causa e quindi ricomprende tutti i vizi riguardanti la giustificazione del
recesso, che siano diversi dai 2 elencati poco sopra. → E' LA REGOLA.
La funzione dei due commi è quella di indicare le conseguenze dell'
accertamento di un vizio di giustificazione del licenziamento; l' applicazione
dei diversi regimi di tutela presuppone solo la qualificazione disciplinare del
recesso e non che la motivazione sia stata esplicitata nell' atto o che ci sia
stato la previa contestazione dell' addebito.
Esaminiamo ora le due ipotesi di vizio della giustificazione (della prima
classe) per cui è prevista la reintegrazione:
→ insussistenza del fatto contestato: in tale formula è stato ricompreso
anche il caso in cui il lavoratore non abbia commesso il fatto (come era
previsto espressamente nell' originario c.4)
cosa si intende per fatto? (vedi slide da 40)
 TESI RESTRITTIVA (fatto in senso naturalistico) sostiene che si tratti di
fatto in senso oggettivo, materiale cioè nel senso di azione od omissione, in cui
deve comprendersi il nesso di causalità tra fatto e danno. attribuzione del fatto
materiale al lavoratore e se la condotta non ha portato al danno c' è l' insussistenza
del fatto.
 TESI ESTENSIVA: (fatto in senso giuridico) invece sostiene che
rientrerebbero nella nozione di fatto (ampliando la nozione): da un lato un
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comportamento qualificabile come inadempimento contrattuale, dall' altro lato i
profili soggettivi della condotta, cioè l' intenzione , la colpevolezza e l' intensità.
Quindi per fatto dovrebbe considerarsi un azione del lavoratore qualificata da una
specifica volontà e finalità, tale da poter configurare una causa legittima di
licenziamento, e cioè un' azione o omissione caratterizzata da una certa gravità
anche sotto il profilo degli intenti perseguiti. Questa interpretazione non viene
condivisa perchè forza la lettera della legge, per cui deve tenersi distinto l' elemento
del fatto, cui si riferisce il c. 4, da quelli della sua antigiuridicità e della
colpevolezza dell' agente.
Quindi partendo dal presupposto che la regola è l' indennità e l' eccezione è
la reintegra, quale è la tesi da preferire? Si deve optare per una tesi
restrittiva, salvo nei casi previsti per la reintegrazione. Tesi restrittiva
comunque necessita di correttivi, in quanto in certi casi la verifica dei fatti
può comportare abusi infatti:
Cosa succede se il fatto è sussistente ma è inconsistente? Cioè se per la sua
natura o entità appare ICTU OCULI, cioè come un mero pretesto cui è
ricorso il datore per liberarsi del dipendente con un recesso da doversi
considerare non ingiustificato ma arbitrario, in tale categoria potrebbero
rientrare alcuni casi ipotizzati dalla dottrina come quelli del licenziamento
intimato perchè il lavoratore ha assistito alla partita di calcio la domenica o
per un ritardo di qualche minuto del lavoratore.
In tali casi qual' è il rimedio? Secondo una prima tesi In tali casi c' è una
frode alla legge (1344 cc), utilizzata dal ddl che utilizza quel fatto per
godere della tutela per lui più favorevole per evitare quindi la
reintegrazione, quindi il ddl elude la norma, ovviamente in caso di frode alla
legge la sanzione è quella dell' applicazione del regime della tutela
reintegratoria piena (rientrerebbe nella previsione “gli altri casi di nullità
previsti dalla legge”) → secondo un' autorevole dottrina civilistica, la frode
alla legge determinerebbe (ex art. 1344) la nullità nel negozio, nel caso in cui
l' elusione riguardi norme proibitive, ed invece la mera inefficacia , se si tratti
di elusione di norme ordinatorie, l' inefficacia però sarebbe limitata all'
effetto elusivo , per cui l' atto sarebbe efficace, ma ad esso si applicherebbe
la norma elusa; un' ulteriore tesi invece sostiene che nel caso in cui il fatto è
inconsistente si deve ritenere che non è stato quello che ha portato al
licenziamento → cioè qui il fatto rappresenta solo la causa apparente del
34
recesso e non quella reale, di conseguenza non c'è il nesso di causalità tra
fatto e licenziamento, quindi il fatto dovrebbe essere parificato al fatto
insussistente perchè è come se non esistesse al fine dell' applicazione del
regime della reintegrazione.
→ il secondo vizio per cui è prevista la reintegrazione è che il fatto
contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla
base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari
applicabili: cioè il fatto sussiste , ma prevede solo una sanzione conservativa
e non il licenziamento; in tal caso il giudice non può dar seguito alla
domanda del ddl di fare un accertamento se tale mancanza possa comportare
il licenziamento (non serve che sia stata accertata preliminarmente la
sussistenza del fatto contestato al lavoratore), perchè tale valutazione è già
fatta dal codice disciplinare, quindi il ddl che effettua il licenziamento
intercorre in colpa grave e quindi l' unica sanzione è quella conservativa: se
intercorre in colpa grave la sanzione irrogata e quella della reintegra. È da
osservare che le clausole dei codici disciplinari che prevedono le mancanze e
le sanzioni sono formulate in diverso modo: a volte sono puntuali, quindi
escludono ogni dubbio, si dice che soddisfano il requisito della
SPECIFICITA' QUALIFICATA cioè tale da consentire al ddl di capire
agevolmente (senza dover compiere valutazioni) che il tipo di mancanza
commessa dal lavoratore poteva essere punita solo con una sanzione
conservativa (ad esempio è il caso di un contratto collettivo che prevede una
sanzione conservativa per assenza ingiustificata fino a 3 giorni nell' anno
solare); altre volte non sono precise nell' indicare mancanze e sanzioni per
cui è necessario verificare di volta in volta se ricorre l' ipotesi del vizio del
licenziamento→ il ddl deve fare in tali casi una valutazione di gravità , nel
caso di errore non è soggetto a colpa grave.
NB → in materia disciplinare non è possibile l' estensione analogica delle
clausole perchè il licenziamento ha carattere punitivo; Le norme del codice
disciplinare sono state concepite come norme di stretta interpretazione. Le
altre ipotesi (comma 5) in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi
del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal ddl, e
quindi applica il regime indennitario forte → rientrano tutti gli altri casi di
difetto di giustificazione del licenziamento. Il caso di maggior rilievo
(succede spesso) è quello in cui il giudice ritenga il recesso ingiustificato
35
sulla base di una valutazione delle circostanze del caso concreto, come ad
esempio la presenza di attenuanti che incidono sul requisito della
colpevolezza, rendendo sproporzionata in concreto, la sanzione estintiva del
rapporto di lavoro. Altri casi di difetto di giustificazione che determinano l'
applicazione del regime indennitario → pagine seguenti.
Il licenziamento disciplinare affetto da vizi di motivazione o procedimentali
dichiarato inefficace e al tempo stesso risolutivo del rapporto → (c. 6 art. 18)
articolo regola l' ipotesi di illegittimità del licenziamento dovuto a vizi circa
la motivazione o al procedimento disciplinare.
Entrambi i vizi comportano inefficacia che viene “sanata” dalla pronuncia
con cui il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data
del licenziamento e applica il regime indennitario dimezzato.
 con la l. Fornero cosa succede? Si supera la distinzione tra vizi della
motivazione e vizi al procedimento e dall' altro lato si fa venire meno in entrambi i
casi, la tutela di carattere reale dell' interesse del lavoratore alla conservazione del
posto, attribuendo efficacia definitiva al licenziamento illegittimo.
Tuttavia il c. 6 prevede che se sia stata accertata anche l' ingiustificatezza (su
domanda del lavoratore), allora trovano applicazione le tutele previste dai c.
4, 5, che sostituiscono quelle del c. 6, quindi il giudice dovrà annullare il
licenziamento (se si verifica ipotesi di reintegrazione di cui al c. 4) o
dichiarare risolto il rapporto di lavoro ed applicare il regime indennitario
forte (se c. 5).
un interprete ha prospettato la tesi per cui il licenziamento intimato senza
procedimento né motivazione dovrebbe essere equiparato al licenziamento
per fatto insussistente → tesi che non può essere condivisa, in quanto contra
legem: il c. 6 prevede che il vizio procedimentale non può comportare di per
sé (quindi automaticamente) l' applicazione della tutela prevista per difetto
del requisito di giustificazione (c.4. Tutela reale attenuata) → ma tale tutela
sarà applicabile solo se vi sarà la domanda del lavoratore, sull'
ingiustificatezza del recesso, ed in tal caso a seconda del vizio si avrà tutela
reale attenuata o tutela indennitaria piena (quindi non automaticamente
nemmeno la reintegrazione, come invece si sosteneva nella tesi). In tale tesi è
stata anche affermata la svalutazione delle regole del contraddittorio (per cui
il lavoratore avrebbe diritto alla difesa preventiva e all' impugnazione) e
della conoscibilità dei motivi (per cui la motivazione dovrebbe essere
36
contestuale al recesso) del licenziamento, ciò determinerebbe l' illegittimità
delle norme in esame che violerebbero l' articolo 24 cost Per cui chi è
soggetto ad un potere punitivo deve potersi difendere dalla accuse che gli
vengano mosse, come ha affermato la corte costituzionale quando ha sancito
l' applicabilità al licenziamento del procedimento disciplinare. Il lavoratore
che abbia rinunciato a chiedere l' accertamento dell' ingiustificatezza del
recesso o che sia risultato soccombente in relazione a tale accertamento ha
diritto ad un indennità compresa tra 6 e 12 mensilità.
NB nel caso in cui venga accertato il difetto di giustificazione, abbiamo
detto che si applicano uno dei due regimi previsti dai commi 4 e 5 a seconda
del caso. Però la legge non prevede una sanzione specifica per i vizi di
motivazione o del procedimento accertati dal giudice, dato che operano solo
quelle previste per l' ingiustificatezza del recesso → si supera tale perplessità
perchè una tutela c' è stata, ed è il lavoratore a chiedere che sia accertata l'
ingiustificatezza, di conseguenza lui è stato tutelato → si tempera così!!!!
cosa si intende per procedimento disciplinare al fine dell' applicazione della
tutela in caso di illegittimità del licenziamento per vizi procedimentali?
→ difetto di pubblicazione del codice disciplinare: dovrebbe comportare l'
ingiustificatezza del licenziamento, non essendo questo irrogabile per la
mancanza, con la conseguente applicazione del regime indennitario forte
(c.5.) tuttavia la giurisprudenza richiede la pubblicazione solo nei casi in cui
le mancanze assoggettabili a licenziamento non siano percepibili come tali
dai lavoratori, perchè connesse a peculiari esigenze dell' organizzazione
aziendale.
Il procedimento ai sensi dell' art. 7 st. lav. Si compone:
 fase di contestazione dell' addebito
 fase della difesa del lavoratore
e le regole procedimentali sono sia quelle legali che quelle dettate dai
contratti collettivi applicabili.
Non sembra compresa nel procedimento anche la fase di intimazione del
licenziamento e tale soluzione a parte confermata dal c. 41 art. 1 l. 92 in cui
si parla di licenziamento intimato all' esito del procedimento disciplinare. Di
cui all' articolo 7 st.lav. E il c. 41 prevede che tale licenziamento produce
effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato
avviato (innovazione rispetto al vecchio articolo), e cioè da quando il
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lavoratore ha ricevuto la contestazione dell' addebito → ciò non provoca un
incorporazione ex post nel procedimento dell' atto di licenziamento.
Il licenziamento intimato pet giustificato motivo oggettivo ma determinato
da ragioni disciplinari → fattispecie del c. 7 che può definirsi
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE OCCULTO poiché il recesso è stato
intimato per giustificato motivo oggettivo, ma “nel corso del giudizio, sulla
base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulta
determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari” → in tali casi si
applicano le tutele dell' articolo 18 per i casi di illegittimità del licenziamento
disciplinare e non invece quelle tutele previste in caso di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo. In sostanza il c. 7 dice che ai fini dell'
applicazione delle tutele dell' articolo 18, ciò che viene in rilievo non è la
ragione formalmente addotta dal ddl a giustificazione del recesso, ma la
ragione che effettivamente lo ha determinato. → il fine della norma sarebbe
quello di impedire che il ddl possa scegliere il regime dell' illegittimità del
licenziamento da doversi applicare. Il c. 7 non presuppone un impiego
simulato o fraudolento del giustificato motivo oggettivo e ciò può trovare
conferma per esempio con l' ipotesi del licenziamento per scarso rendimento,
cioè se è vero che l' insufficiente rendimento può essere dovuto a negligenza
(rilevante sotto il profilo disciplinare) o imperizia (non rilevante sotto tale
profilo) del lavoratore, è altrettanto vero che può essere difficile stabilire in
concreto quale di queste ipotesi effettivamente ricorra e quindi quale sia la
forma corretta di recesso da adottare.
Il c. 7 poi si occupa delle ipotesi in cui vi sia concorrenza tra motivo
oggettivo e soggettivo del licenziamento poiché il ddl ha intimato un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo a fronte di una situazione che
si prestava a essere valutata sia sotto tale profilo che sotto quello
disciplinare. In tali ipotesi ci sono diverse opinioni:
→ tesi prevalente: c' è la priorità delle ragioni disciplinari rispetto al
giustificato motivo oggettivo, in tale ottica il c. 7 troverebbe applicazione.
→ tesi minoritaria: che lascia una certa discrezionalità nella scelta;
la seconda tesi è preferibile perchè anche l' articolo 3 della l. 604 configura
due distinti presupposti di legittimità del licenziamento: l' inadempimento da
un lato, e le ragioni aziendali dall' altro, ma non detta indicazioni circa la
prevalenza del primo → nel licenziamento disciplinare rileva l'
38
inadempimento in sé considerato a prescindere dalle conseguenze prodotte
sull' organizzazione aziendale; invece nel licenziamento per giustificato
motivo oggettivo assumono specifica importanze proprio tali conseguenze
sull' organizzazione aziendale. Il c. 7 dà rilievo al motivo disciplinare che ha
determinato il licenziamento; tuttavia nel caso concreto è da preferire la
seconda tesi. La legge prevede la necessità della domanda del lavoratore
perchè il giudice possa procedere ad accertare se il licenziamento sia stato o
no determinato da ragioni disciplinari, il lavoratore deve anche allegare e
provare i fatti da cui desume che il motivo del recesso intimato per
giustificato motivo oggettivo è di carattere sanzionatorio, tale situazione è
stata definita “paradossale e dagli esiti imprevedibili” perchè il lavoratore
dovrebbe provare che il recesso è riconducibile a un suo inadempimento. →
è evidente però che il lavoratore chiederà l' accertamento della natura
disciplinare del licenziamento solo quando non corra il rischio che i dati
addotti a tal fine sono idonei a giustificare il recesso.
Una volta accertato il carattere sanzionatorio del licenziamento (che può
rilevare solo se il ddl non ha provato l' esistenza di un giustificato motivo
oggettivo) è il ddl che deve provare la giustificatezza del recesso disciplinare
e pare che possa far valere qualsiasi fatto rilevante.
ED ECCOCI ARRIVATI AL PUNTO FONDAMENTALE DELLA
QUESTIONE: quali sono le modalità secondo cui devono essere applicate al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (del quale si sia accertata la
natura sanzionatoria) le tutele previste per il licenziamento disciplinare
illegittimo del c. 7????
 per quanto riguarda i vizi di motivazione e procedimentali : sussistono
sempre, visto che il licenziamento è stato intimato per giustificato motivo oggettivo
ed è ovvio che al licenziamento illegittimo sotto tale profilo si applica la tutela
indennitaria attenuata di cui al c. 6
 se sia stata accertata l' ingiustificatezza del recesso, vale quanto già detto per
i commi 4 e 5; e si applica la tutela nel caso in cui il lavoratore sia stato licenziato
senza motivazione ne procedimento disciplinare ed abbia richiesto l' accertamento
del difetto di giustificazione del licenziamento detto sopra.
 C' è una tesi che dice: nel caso in cui il ddl abbia intimato il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, cioè per un fatto diverso da una mancanza del
lavoratore, comporterebbe automaticamente (ed escludendo quindi che il ddl possa
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poi provare la giustificazione del recesso) il vizio dell' insussistenza del fatto
contestato (c. 4), per cui si dovrebbe sempre applicare la tutela reintegratoria
attenuata. DIFETTO DI TALE TESI: esclude a priori l' applicabilità del regime
indennitario forte stabilito dal c. 5 per il recesso ingiustificato. Pare preferibile
ritenere che anche nel caso di accertamento dell' ingiustificatezza del licenziamento
disciplinare occulto, il giudice debba applicare il regime reintegratorio di cui al c. 4
ove ricorrano i due vizi specifici, mentre debba applicare il regime indennitario di
cui al c. 5 in tutti gli altri casi di difetto di giustificazione del recesso.

CAPITOLO VII
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
Di Adriana Topo

1.la l. 92 e la disciplina del giustificato motivo oggettivo. Profili


sostanziali e procedurali della disciplina →
la l. Fornero ha introdotto importanti modifiche alla disciplina del mercato
del lavoro ed ha ridefinito anche la materia del licenziamento sia individuale
che collettivo, intervenendo anche sui profili sanzionatori del recesso
illegittimo posto in essere dal ddl. Per quanto attiene al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo la l. prevede un procedimento precedente all'
invio della comunicazione di recesso da parte del ddl, ed un procedura di
conciliazione → essa precede la comunicazione del recesso ed è diretta ad
attivare un confronto tra lavoratore ed azienda in merito alla veridicità dei
presupposti del licenziamento ed in ordine a possibili soluzioni alternative
all' estinzione del rapporto di lavoro. I protagonisti della procedura: ddl,
lavoratore, e organi amministrativi deputati alla gestione della fase
40
conciliativa. → quindi tale fase è estranea rispetto al profilo delle sanzioni, la
l. 92 però delinea un collegamento tra l' esercizio del potere sanzionatorio del
giudice e le vicende della fase consultiva, condizionando così la
determinazione del risarcimento del danno per licenziamento illegittimo alle
evidenze raccolte in tale fase e imponendo al giudice di tenere conto del
comportamento tenuto dalle parti in tale fase. Nel sistema previgente gli
oneri di motivazione del licenziamento individuale per motivi di tipo
oggettivo erano sottovalutati se confrontati con gli oneri imposti nelle altre
ipotesi di licenziamento → infatti in virtù dell' assorbimento del
licenziamento per ragioni soggettive nella fattispecie del licenziamento
disciplinare, mentre le ragioni riconducibili all' inadempimento del
lavoratore dovevano essere constatate al lavoratore in una fase dialettica
anteriore al licenziamento, l' articolo 2 della 604, che definiva gli oneri
formali del licenziamento per ragioni oggettive, imponeva invece al ddl di
dichiarare le ragioni del licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo
a seguito di una richiesta del lavoratore, richiesta che avveniva dopo il
ricevimento da parte del lavoratore, della comunicazione di recesso. Quindi
nel sistema previgente non c' era interesse a far conoscere al lavoratore
(prima del licenziamento) le ragioni che ne stavano alla base, ciò favoriva l'
impugnazione del recesso.
La giurisprudenza di cassazione aveva sviluppato la nozione di giustificato
motivo oggettivo, imponendo al ddl di discutere previamente con il
lavoratore possibili alternative tra cui l' adibizione a mansioni inferiori, così
inglobando la fase di consultazione, che la riforma rende ora autonoma e
necessaria, all' interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo.
La conciliazione ha ad oggetto la ricerca di soluzioni alternative al
licenziamento, ma intende aprire una discussione concreta su eventuali
ipotesi di adibizione ad altro posto di lavoro, anche tramite l' accesso ad un
percorso di formazione.
La soluzione che la l. sembra favorire consiste nella risoluzione consensuale
del rapporto di lavoro alla quale sembrerebbe collegata la possibilità per il
lavoratore di accedere all' assicurazione sociale per l' impiego ASPI destinata
a sostituire l' indennità di mobilità.
Peraltro l' art. 2 l. 92, prevede che l' ASPI spetti in genere ai lavoratori che
hanno perduto involontariamente il posto di lavoro, escludendo i lavoratori
41
dimissionari, o che abbiano stipulato un accordo risolutivo (l' accordo
risolutivo stipulato in fase conciliativa rappresenta un ' eccezione, rispetto
alla regola prevista all' articolo 2 e non è presupposto per l' accesso all'
ASPI).
Sanzione prevista per mancata attivazione del procedimento dal parte del
ddl: risarcimento del danno nella misura compresa tra 6 e 12 mensilità di
retribuzione globale di fatto, con onere di motivazione per il giudice in
ordine alla specifica quantificazione, potendo comunque il lavoratore far
valere, anche nel caso di mancato adempimento degli oneri procedurali, il
difetto sostanziale di giustificazione del licenziamento.
Il giustificato motivo oggettivo dal punto di vista sostanziale. Le situazioni
che giustificano il potere di licenziamento per ragioni inerenti all' attività
produttiva. Le ipotesi regolate dalla legge: l' assenza per malattia (art. 2110
cc) → la l. 92 non ha espressamente modificato la l' articolo 3 della 604, che
descrive le ragioni di tipo oggettivo atte a giustificare il licenziamento.
Accanto a tali ragioni, la l. 92 ne menziona altre “autonome” riconducibili al
regolare funzionamento dell' attività produttiva.
Tra le ragioni autonome (perchè oggetto di specifiche disposizioni di legge)
va considerato il caso dell' assenza per malattia, assenza che va ad incidere
sul regolare funzionamento dell' attività produttiva, ma che è presa in
considerazione espressamente dall' articolo 2110 → Tale norma non prevede
solo la sospensione del rapporto di lavoro in occasione della malattia del
lavoratore, ma prevede anche il legittimo esercizio el potere di licenziamento
da parte del ddl solo a seguito del periodo di comporto, cioè il periodo di
assenza garantito e protetto dalla legge. Tale articolo da una parte vuole
tutelare il lavoratore che si trovi in situazioni di debolezza, e dall' altra, nei
casi di malattia o infortunio di lunga durata, costituiva un' eccezione alla
tutela.
Con l' entrata in vigore della l. 604, essa limitava il potere del licenziamento,
tale legge ha introdotto la nozione di licenziamento per ragioni oggettive, l'
articolo 2110 così ha perso il carattere di UNICO BALUARDO contro il
potere di recesso del ddl, pur conservando la sua specificità nell' individuare
la fattispecie in oggetto, che attiene pur sempre a una ipotesi di legittima
estinzione del rapporto di lavoro. La cassazione infatti ha affermato che la
fattispecie regolata dal 2110 costituisce un' autonoma ed ulteriore causa di
42
recesso, che non si pone in contrasto con i principi costituzionali della
previdenza ed assistenza sociale e del mantenimento del posto di lavoro,
visto che tali principi non comportano affatto che il rapporto debba
proseguire senza limiti di tempo, quando il lavoratore è impossibilitato ad
adempiere la propria obbligazione per un periodo imprecisato, considerati gli
oneri che deriverebbero al datore sia sotto il profilo patrimoniale, sia sotto
quello dell' organizzazione aziendale.
Quindi il superamento del periodo di comporto determina l' estinzione del
rapporto, ed in tale caso non c' è la necessità di prova relativa all' esistenza
delle ragioni di tipo oggettivo, la specificità della fattispecie rende non
necessario un sindacato del giudice sul presupposto, ma non esclude l' onere
del ddl di adeguarsi ai dettami della l. 604 quanto a forma e indicazione delle
ragioni del recesso, non dovendo il ddl addurre ragioni diverse e ulteriori
rispetto al perdurare della malattia a seguito dello scadere del periodo di
comporto.
NB non ricade nell' ambito del 2110 il caso della malattia certa con
prognosi a durata incerta, malattia che prima della scadenza del periodo di
comporto renda però evidente la mancanza di interesse alla prosecuzione del
rapporto. In tal caso il ddl deve provare le ragioni che rendono inevitabile l'
estinzione del rapporto, non potendosi ammettere alcun automatico effetto
estintivo, o la comprovata rilevanza dell' interesse all' estinzione.

3.Assenza per malattia e procedura conciliativa


posto che l' applicabilità del 2110 è limitata al superamento del periodo di
comporto, ci si chiede come il licenziamento connesso alla malattia possa
essere coordinato con l' introduzione delle regole che impongono l'
esperimento della procedura conciliativa.
La questione si pone poiché la l. 92 al c. 42 dell' art. 1 distingue (ed anche la
cassazione lo aveva fatto prima) :
 il licenziamento per ragioni di tipo tecnico, organizzativo, produttivo, cioè il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo in senso stretto;
 altre ipotesi residuali, ma importanti, di licenziamento giustificato dall'
esigenza di tutelare gli interessi dell' imprenditore al funzionamento dell' attività
produttiva

43
la cassazione aveva distinto le due situazioni non solo per sottolineare l'
autonomia e la specialità della fattispecie al 2110, rispetto alle disposizioni
dettate dalla l. 604, ma anche soprattutto ai fini di escludere l' onere del ddl
di discutere ipotesi alternative al licenziamento con il lavoratore, essendo
sufficiente, secondo il giudice di legittimità, il trascorrere del tempo e lo
scadere del termine a favore del ddl, in assenza di una ripresa dell' attività
lavorativa per rendere giustificato il licenziamento.
La l. 92 al c. 42 , inteso a modificare l' art. 18, distingue tra licenziamento
per giustificato motivo oggettivo dal licenziamento ai sensi degli articoli 4 e
10 della legge 68 del 1999 per motivo oggettivo consistente nell' inidoneità
fisica o psichica del lavoratore e ancora dal licenziamento intimato in
violazione dell' articolo 2110 cc. La l. Fornero ha voluto condizionare la
facoltà di recesso all' attivazione della procedura di conciliazione solo nel
caso di licenziamento per ragioni tecniche, organizzative e produttive, e non
negli altri casi (quindi licenziamento per giustificato motivo oggettivo in
senso stretto) e non anche nel caso di superamento del periodo di comporto;
ed infine nel caso previsto dalla l. 68 del 1999 (cioè per inabilità per causa
imputabile al ddl) è prevista la non obbligatorietà della fase conciliativa. La
ratio di tale non obbligatorietà? Perchè i lavoratori divenuti inabili per causa
addebitabile al ddl, beneficiano comunque di un percorso volto a valorizzare
la residua capacità lavorativa, con il sostegno degli uffici competenti. Si
prevede l' esclusione della fase conciliativa anche per il licenziamento dei
lavoratori disabili obbligatoriamente assunti (68/99) dato che la legge già
prevede per tale categoria la proceduralizzazione del potere di licenziamento
volta a riscontrare le compatibilità tra: la modificazione dell' organizzazione
produttiva e la permanenza del disabile, o tra l' aggravamento delle
condizioni del disabile e l' organizzazione esistente.

4.Licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore


la l. 92 indica espressamente che vi debba essere attivata la procedura di
conciliazione nelle ipotesi degli articoli 41 e 42 del decreto 81/2008, per
regolare i profili sanzionatori del licenziamento.
Riguarda il generico caso di inidoneità alle mansioni assegnate, la legge oggi
impone al ddl di verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni

44
diverse (se possibile), anche inferiori, con la conservazione della retribuzione
più elevata.
La l. del 2008 però non ha previsto in tali situazioni una forma di
ricollocazione assistita (come invece c' è nella l. 68) quindi risulta difficile
giustificare la non obbligatorietà della fase di conciliazione anteriore al
licenziamento.
Sopravvenuta inidoneità è un' ipotesi diversa dalla malattia: la malattia ha
carattere temporaneo e determina l' impossibilità della prestazione; la
sopravvenuta inidoneità ha carattere permanente, o indeterminato e
indeterminabile e non comporta l' impossibilità totale della prestazione,
dando luogo a risoluzione del contratto a prescindere dal superamento del
periodo di comporto. Per capire meglio vediamo cosa dice la cassazione: le
ripetute assenze del lavoratore riconducibili ad un unico disturbo, dipendente
dalle modalità di esecuzione della prestazione, ricorrerebbe proprio l' ipotesi
dell' inidoneità alle mansioni, per cui il datore non dovrebbe consentire la
prosecuzione della prestazione (pericolosa per il lavoratore), e quindi a
prescindere dal periodo di comporto (FATTO SALVO L' ONERE DEL DDL
DI VERIFICARE L' UTILIZZABILITA' DEL LAVORATORE IN ALTRE
MANSIONI) potrebbe recedere facendo valere il difetto di interesse del ddl
alla continuazione del rapporto.
Non sembra necessario che l' inidoneità sia definitiva.
Diverse sono le ipotesi di sopravvenuta inidonietà nelle mansioni e quella
del riconoscimento dello status di invalido del lavoratore da parte degli enti
previdenziali; tale status è finalizzato a soddisfare l' interesse del lavoratore
ad ottenere determinate prestazioni previdenziali e l' accertamento da parte
degli organi competenti dell' inidoneità allo svolgimento delle mansioni
contrattuali. Il ddl non potrebbe far valere la mera acquisizione di tale status
come presupposto per recedere dal rapporto di lavoro.
Oggi la sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, dal punto
di vista dei principi di diritto civile applicabili, è stata assimilata all'
impossibilità parziale della prestazione (1464) impossibilità che comporta la
legittimità del recesso, ove il ddl, non abbia un interesse apprezzabile al
proseguimento della prestazione. Non vi è però impossibilità nel caso in cui
si verifichi la mera difficoltà nello svolgimento delle mansioni, in tali casi
per superare tale difficoltà il ddl base che consenta l' adozione di diverse
45
modalità di esecuzione della prestazione, compatibili con l' assetto aziendale,
posto che grava sul ddl un obbligo di cooperazione all' esecuzione della
prestazione.
Il dovere del ddl di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le
proprie mutate condizioni fisiche, non sussiste secondo la giurisprudenza di
legittimità, nel caso in cui l' inidoneità sia imputabile al lavoratore a titolo di
dolo o colpa, si ha dubbi se tale limite sia ancora valido a seguito dell' entrata
in vigore della L del 2008 che non distingue tra dop o colpa, affermando solo
il diritto del lavoratore ad essere adibito a mansioni diverse. Tale circostanza
rende opportuno (non necessario) l' effettuazione di un accertamento sulle
condizioni del lavoratore da parte degli organi competenti prima o durante la
procedura conciliativa anteriore al licenziamento, dovendosi sempre tenere
conto del dovere del giudice di valutare l' atteggiamento tenuto dalle parti in
tale contesto , al fine della determinazione del risarcimento dovuto e della
ripartizione delle spese processuali.

5.Il licenziamento connesso al provvedimento dell' autorità, o FACTUM


PRINCIPIS e la procedura conciliativa
licenziamento per factum principis si verifica quando al lavoratore venga
revocata (ad esempio) l' autorizzazione a svolgere una certa attività che
costituisce oggetto del contratto di lavoro. La legge 92 non menziona
espressamente tale ipotesi, non chiarendo se il ddl debba attivare la
procedura volta ad individuare una soluzione alternativa al recesso. Negli
anni 90 la giurisprudenza di merito aveva deciso il licenziamento del
lavoratore, in tal caso, non poteva essere considerato giustificato, ove
potessero essere adottate soluzioni alternative rientranti nella normale
gestione aziendale.
La giurisprudenza di cassazione già da tempo ha trattato tale fattispecie nella
figura del giustificato motivo oggettivo, escludendo che emerga nel caso un'
autonoma figura estintiva del rapporto, con l' obiettivo di fornire al
lavoratore le garanzie in tema di licenziamento. Quindi anche per il
licenziamento per FACTUM PRINCIPIS o per forza maggiore trova
applicazione il procedimento di conciliazione anteriore al licenziamento. Il
caso di carcerazione preventiva è ipotesi di giustificato motivo oggettivo, ed
ovviamente a tale ipotesi non sembrerebbe conciliarsi la procedura
46
conciliativa; tale ipotesi non costituisce un' ipotesi autonoma come il
licenziamento per superamento del periodo di comporto. In tale caso la legge
(il CPP) regola le conseguenze del successivo proscioglimento del
lavoratore, garantendogli (nel caso in cui la carcerazione sia dovuta a fatto
estraneo al rapporto di lavoro) il diritto alla reintegrazione → tale soluzione
per la giurisprudenza, è dovuta dalla prevedibilità del periodo di assenza, che
sarebbe quantificabile in relazione al titolo del reato addebitato al lavoratore;
ed è tale prevedibilità che dovrebbe consentire al ddl di poter effettuare una
valutazione prognostica sulla tollerabilità dell' assenza nel contesto dell'
organizzazione aziendale → VALUTAZIONE PROGNOSTICA della quale
deve rendere conto in sede di giustificazione del licenziamento.
Quindi tale circostanza, unita al fatto che il lavoratore privato della libertà
personale può essere rappresentato nella fase conciliativa da un proprio
mandatario → tutto ciò ci consente di confermare la necessità di esperire il
tentativo di conciliazione e laddove si concludesse con la risoluzione
consensuale, escluderebbe l' obbligo di reintegra per il ddl, alla fine della
carcerazione.
Se non si raggiungesse un accordo sulla risoluzione consensuale del
rapporto, verrà attivato un contenzioso successivo che sarà attivato dal
lavoratore, in tale contenzioso la fase dialettica ha un ruolo importante.
Infatti il giudice, se si convincesse dell' ingiustificatezza del licenziamento e
dovesse condannare il ddl, dovrebbe tenere conto del comportamento delle
parti e delle proposte formulate e magari respinte, ai fini della graduazione
della sanzione economica ed ai fini della distribuzione delle spese del
giudizio. Quindi il ddl in sede conciliativa dovrà fare la massima attenzione
dando motivazioni esaustive, tenendo presente che spesso (dopo la l. 92) il
lavoratore tenta di provare il motivo discriminatorio, che di per sé garantisce
sempre il diritto alla reintegrazione , ed il completo risarcimento del danno
per perdita della retribuzione..

6.le ragioni inerenti all' attività produttiva e all' organizzazione del


lavoro, presupposto del potere di licenziamento. La soppressione del
posto di lavoro
la fattispecie del giustificato motivo oggettivo consente anche il
licenziamento per circostanze attinenti all' attività produttiva, cioè il
47
licenziamento che deriva da eventi che riguardano l' azienda in cui il
lavoratore presta la propria opera.
In tali casi il licenziamento non è a causa del lavoratore e delle sue
condizioni oggettive, ma dell' azienda, dell' organizzazione produttiva e le
sue vicende, situazioni che condizionano il giudizio del ddl sull' opportunità
di conservare il n° di lavoratori occupati. Tra gli eventi ricondotti al
giustificato motivo oggettivo quali ragioni inerenti all' attività produttiva, la
giurisprudenza ha individuato in primo luogo l' ipotesi della
SOPPRESSIONE DEL POSTO DI LAVORO O DELL' UNITA'
PRODUTTIVA ALLA QUALE IL LAVORATORE è ADDETTO. La
soppressione del posto di lavoro appare come un' espressione volta a
sintetizzare le regole elaborate dalla giurisprudenza in materia di
licenziamento per ragioni oggettive; la giurisprudenza di legittimità sostiene
l' idea per cui la soppressione del posto non significa necessariamente
soppressione delle mansioni, cioè l' eliminazione totale del tipo di attività
alla quale era addetto il lavoratore; infatti la giurisprudenza ammette che
legittimamente il ddl può affidare ad altri dipendenti le mansioni prima
assegnate ad un solo lavoratore, ed ammette anche che lo stesso ddl possa
decidere di svolgere direttamente l' attività o attraverso l' utilizzo di
macchinari, e ammette che il ddl possa affidare ad un' impresa o a un
lavoratore autonomo la fornitura di quell' attività. Quindi in parole povere la
funzione già assegnata ad un dipendente resta tra le attività utilizzate in
azienda, e la soppressione del posto si riduce in realtà al fatto in sé del
licenziamento del dipendente adibito allo svolgimento dell' attività;
licenziamento che non esclude che in un secondo momento, il ddl possa
legittimamente assumere un' altra persona per affidarle le mansioni connesse
alla funzione → tale conclusione è confermata dalla giurisprudenza, che però
pone un limite a carico del ddl, il limite del “ragionevole lasso di tempo”,
tale limite conferma, ma non esclude la legittimità di successive assunzioni ,
per lo svolgimento della stessa attività già svolta dal lavoratore licenziato.

7.Il giudizio sulla soppressione del posto di lavoro e il controllo nel


merito sulle scelte imprenditoriali circa la dimensione dell' organico
Il problema c' è stato nel 2006 quando la suprema corte ha affermato che il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 l. 604 è determinato
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non da un generico ridimensionamento dell' attività imprenditoriale, ma dalla
necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto
il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente
strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a
fronteggiare situazioni sfavorevoli. Quindi secondo la corte di cassazione il
lavoratore avrebbe diritto a vedere dimostrato dal ddl, il nesso tra
licenziamento subito e le ragioni di carattere produttivo-organizzativo portate
a giustificazione del recesso, ragioni che a loro volta non potrebbero
consistere nella mera intenzione di incrementare il profitto, ma nella
necessità di reagire ad avverse condizioni di mercato. La giurisprudenza di
legittimità però non si dimostra coesa nell' affermare la sindacabilità delle
scelte imprenditoriali poste a fondamento della soppressione del posto,
perchè ha anche escluso l' ammissibilità di tale controllo, quando ha
dichiarato che ogni ragione economica può costituire fondamento del
licenziamento , non escludendo nemmeno la ragione del perseguimento del
profitto, attuato attraverso una riorganizzazione aziendale. Ciò che il giudice
potrebbe controllare sarebbe quindi la veridicità delle ragioni addotte e il
loro legame con la scelta di licenziare il lavoratore e quindi il nesso di
causalità rispetto alla scelta di recedere da uno specifico rapporto di lavoro.
Tale approccio (rispettoso delle prerogative imprenditoriali) appare
confermato anche da delle sentenze della cassazione: sentenze che hanno
dovuto considerare il problema della rilevanza di circostanze future ed
eventuali poste a fondamento della scelta di recedere operata dal ddl; invece
due decisioni più risalenti hanno affermato che il licenziamento deve essere
giustificato da circostanze di fatto esistenti già al momento del recesso,
dovendo considerarsi quindi irrilevante un progetto di ristrutturazione
destinato ad operare in epoca successiva al recesso; un' altra decisione più
recente, ha ritenuto che il licenziamento può legittimamente precedere una
ristrutturazione aziendale volta a rendere più efficiente la gestione aziendale.
Appare chiaro che non esiste una uniformità di vedute in seno alla cassazione
circa i limiti del potere di controllo del giudice sulle ragioni del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche se a partire dal 2003
con il decreto 276, la legge ha cercato più volte di stabilire il confine del
potere di controllo del giudice in relazione all' esercizio delle prerogative del
ddl che hanno effetti sui lavoratori, chiarendo che il giudice, chiamato a
49
valutare il corretto esercizio delle prerogative datoriali, non può intromettersi
nel merito, cioè non può tentare di sostituirsi al ddl nella valutazione relativa
al migliore esercizio della libertà di organizzare l' attività produttiva. Tale
ultimo orientamento è stato incorporato anche nella l. 92, ed anzi va oltre a
quanto previsto, integrando l' articolo 30 della legge 183 del 2010, e
prevedendo in generale che il giudice non possa estendere il proprio
controllo al merito delle valutazioni tecniche produttive ed organizzative di
competenza del ddl . Inoltre l' articolo 30 è stato integrato da un' ulteriore
disposizione, dal comma 43 art. 1 l. 92, che stabilisce che l' inosservanza
delle disposizioni in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche organizzative e produttive che spettano al ddl, costituisce motivo di
impugnazione per violazione di norme di diritto. Quindi la l. 92 non solo
conferma la disciplina del licenziamento per motivi oggettivi, nella
direzione di un ampliamento dei poteri del giudice, ma prevede la possibilità
per la parte di ricorrere in cassazione se il giudice abbia erroneamente
ricostruito il giustificato motivo oggettivo in modo tale da estendere il
proprio controllo sul merito delle scelte aziendali, in tal modo garantendo
“ingiustamente”il ricorrente.

8.La prova del giustificato motivo oggettivo, e l' obbligo di


REPECHAGE quale limite sostanziale al licenziamento per giustificato
motivo oggettivo
la prova che il ddl deve fornire in giudizio, come anche l' oggetto della
procedura di conciliazione anteriore al licenziamento, attiene in primo luogo
all' esistenza delle ragioni addotte dal ddl a sostegno del recesso, ragioni che
per avere rilevanza non devono essere imprevedibili ed eccezionali; e non
devono essere fatte valere nemmeno immediatamente rispetto alla loro
emersione, come invece impone la regola in materia di licenziamento per
ragioni soggettive, regola che chiede al ddl, di reagire prontamente al grave
inadempimento del lavoratore (non applicata in materia di giustificato
motivo oggettivo).
Altra prova che il ddl deve fornire (quindi altra informazione che deve essere
fornita nel corso della procedura di conciliazione) riguarda l' impossibilità di
adibire il lavoratore ad altre mansioni → si tratta di prova negativa, per cui il
ddl ha l' onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo
50
indiziario o presuntivo idonei a persuadere l' organo giudicante della
veridicità di quanto affermato circa l' impossibilità di una collocazione
alternativo del lavoratore nel contesto aziendale globalmente considerato →
tale onere diventa gravoso se il lavoratore abbia una professionalità
suscettibile di ampia utilizzazione.
Per fare in modo che il ddl riesca ad ottemperare all' onere della prova, si
prevede che il lavoratore abbia l' onere di dedurre e allegare le alternative al
licenziamento, dovendo indicare il posto disponibile in azienda. La
cassazione più recente ha valorizzato il limite della ragionevolezza dell'
onere imposto al ddl, aggravando quindi il lavoratore dell' onere di
deduzione. Dall' altro lato la cassazione ha però ampliato l' onere probatorio
del ddl → la corte ha affermato l' obbligo del ddl di proporre al lavoratore la
possibilità di essere reimpiegato in mansioni anche inferiori, seppure
rientranti nelle sue competenze, e comunque utilizzabili nell' organizzazione
esistente, superando l' ostacolo dell' articolo 2103 che vieta la modifica
anche consensuale, delle mansioni in senso peggiorativo. Tale orientamento è
stato applicato in un caso di licenziamento per sopravvenuta infermità
permanente del lavoratore, e conseguente impossibilità della prestazione
pattuita, la cassazione in tal caso sostenne che l' adibizione a mansioni
inferiori non costituiva una dequalificazione, ma un adeguamento del
contratto alla nuova situazione di fatto → dovendosi ritenere le esigenze di
tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (art. 4 e 36 cost.)
prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art.
2103). la giurisprudenza sembra orientarsi anch' essa in tal senso
prevedendo, che in caso di soppressione di alcune mansioni, afferma l' onere
del ddl di proporre al lavoratore lo svolgimento dell' attività residua nell'
ambito di un rapporto di lavoro a tempo parziale. L' ampliamento dell' onere
a carico del ddl si può dedurre anche dall' affermazione ella regola per cui la
diversa utilizzabilità del lavoratore non dovrebbe essere verificata solo all'
interno dell' unità produttiva nella quale il dipendente risulta occupato, ma
dovrebbe riguardare tutta l' azienda essendo rilevante, ai fini della prova del
giustificato motivo oggettivo, il rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso
altra sede al fine di evitare il licenziamento. La prova della non utilizzabilità
del lavoratore in mansioni diverse da quelle svolte viene descritta come
ONERE DI REPECHAGE, tale onere ha finito con l' assumere un significato
51
sostanziale e costituisce uno dei tratti distintivi della fattispecie di
giustificato motivo di licenziamento risultante dalla pluriennale elaborazione
giurisprudenziale.

9.L' impatto della disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo


sulla fattispecie del giustificato motivo oggettivo
la l. 92 non ha regolato solo il regime sanzionatorio del recesso, ma ha
previsto anche l' obbligo del ddl di promuovere la procedura conciliativa
(che rappresenta un nuovo limite esterno al potere di recedere dal rapporto)
ora ci si chiede se la stessa legge abbia modificato anche i presupposti del
potere di recesso in relazione ad aspetti ulteriori e diversi dall' obbligo
indicato.
Uno dei problemi interpretativi causato dalla nuova disciplina è quello
relativo alla sorte del repechage, incorporato nella fattispecie del giustificato
motivo oggettivo, ed ora oggetto di specifica considerazione nell' ambito
della procedura di conciliazione. Le difficoltà interpretative che riguardano il
repechage non solo legate al fatto per cui la procedura conciliativa dovrebbe
ora farsi carico di individuare la possibile collocazione del lavoratore; ma
sono connesse alla scelta legislativa di individuare e graduare le sanzioni
applicabili al licenziamento illegittimo in relazione a una sorta di
classificazione, secondo gravità, delle ipotesi d' illegittimità del recesso. La
tutela forte , in caso di licenziamento determinato da ragioni oggettive
riguarda oggi le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in
cui il ddl abbia fatto valere, senza fondamento, l' inidoneità fisica o psichica
del lavoratore → la sanzione “FORTE” contro il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo trova anche applicazione nel caso di preteso,
ma non provato, superamento del periodo di comporto. Quindi nelle ipotesi
di superamento del periodo di comporto, di inidoneità fisica o psichica, e nei
casi di factum principis, le norme introdotte recentemente riescono ad
assicurare una certa prevedibilità Circa le conseguenze sanzionatorie alle
quali sarà assoggettato il ddl a seguito di un licenziamento privo di
giustificazione; invece per quanto attiene agli altri casi di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo vediamo che in materia sanzionatoria domina l'
incertezza. La nuova disciplina sanzionatoria di cui alla l. 92 (per quanto
riguarda le ipotesi non tipizzate in modo analitico, ma rientranti nella
52
nozione di giustificato motivo oggettivo) è fonte di incertezza. In particolare
è incerto il regime sanzionatorio riservato alle situazioni in cui il
licenziamento sia conseguenza di una scelta organizzativa del ddl che
colpisca il lavoratore nel suo interesse alla conservazione del posto di lavoro,
e alle quali in passato trovava applicazione il regime della reintegrazione. La
legge oggi opera una graduazione di sanzioni applicabili, sulla base della
gravità dell' illecito compiuto del ddl, però nel graduare il regime
sanzionatorio applicabile , la l. ha disgregato la fattispecie delle “ragioni
inerenti all' attività produttiva, all' organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa” già contenuta nell' art. 3 l. 604, individuando e
contrapponendo al “fatto” e alla sua insussistenza, per la prima volta “le
altre ipotesi di illegittimità → l' introduzione di nuove espressioni
terminologiche ha provocato dubbi interpretativi molto rilevanti se si pensa
che la dottrina in passato aveva sostenuto che “ per le ragioni che stanno alla
base del giustificato motivo oggettivo, le sanzioni non sono suscettibili di
una graduazione” a differenza del licenziamento per ragioni soggettive →
ipotesi edificata sulla nozione graduata d' inadempimento.

10.La manifesta insussistenza del fatto e le false alternative offerte al


potere sanzionatorio del giudice
facciamo una premessa: l' articolo 18 sembra introdurre un potere
discrezionale di scelta tra alternative diverse a favore del giudice, (che
sommato alla graduazione delle sanzioni) complica ancora di più il quadro di
riferimento. Art. 18 c. 7 detta tale possibilità per il giudice, cioè esso può
stabilire il regime sanzionatorio nell' ipotesi di manifesta insussistenza del
fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nella norma però non vengono menzionate le alternative offerte al giudice,
che può, ma non deve necessariamente ordinare la reintegrazione nel posto di
lavoro → quindi in alternativa il giudice sarebbe libero di prevedere il
risarcimento del danno per equivalente previsto dal codice. Tale soluzione
però si scontro con il fatto per cui il regime risarcitorio del licenziamento
illegittimo gode ormai di una propria autonomia, per cui sarebbe
inappropriato ricorrere a schemi forniti dal codice (come nel caso sopra) e
sarebbe più adatto cercare all' interno della disciplina sul licenziamento,
proprio quella dell' articolo 18 come riformato dalla legge 92 → in tale
53
prospettiva pare ragionevole ritenere che il giudice debba applicare anche al
caso della manifesta insussistenza del fatto, posto a fondamento del
licenziamento, la sanzione prevista dalla l. 92 per le “altre ipotesi di
licenziamento illegittimo. Nelle ipotesi di inidoneità alle mansioni o di
violazione dell' articolo 2110 cc, il lavoratore avrebbe diritto alla
reintegrazione e da un risarcimento attenuato da 6 a 12 mensilità; invece nel
caso di giustificato motivo oggettivo riconducibile a problematiche di tipo
organizzativo, il giudice potrebbe invece scegliere se attribuire il diritto alla
reintegrazione, secondo il regime sopra descritto, nell' ipotesi di manifesta
insussistenza del fatto, potendo però, nello stesso caso, attribuire anche un
risarcimento meramente economico. Quindi appare evidente che il
licenziamento fondato su fatti manifestatamente insussistendi potrebbe
essere assoggettato a sanzioni diverse: la reintegrazione, con diritto
accessorio all' opzione economica sostitutiva alla reintegrazione, o il
risarcimento previsto come sanzione unica per tutte le ipotesi residuali
diverse da quelle indicate in modo specifico dalla legge. La conclusione
quindi è che se il fatto deve essere manifestatamente insussistente, per poter
assumere rilevanza, non si vede perchè il giudice possa differenziare il
trattamento sanzionatorio, anzi tale diversità sul piano sanzionatorio, e la
discrezionalità del giudice, realizza un' irragionevole diversità di trattamento
tra diversi ddl, diversità che rende la norma, non conforme alla costituzione,
per violazione dell' articolo 3 della cost. La necessità di fornire un
interpretazione costituzionalmente conforme dell' articolo 18 comma 7 ,
vuole attribuire a quel “può” un significato diverso. Il realtà tale potere
sarebbe in realtà il potere del giudice di accogliere la domanda del
lavoratore, e potendo accogliere il ricorso, accertando la manifesta
insussistenza del fatto, dovrebbe sempre ordinare la reintegra del lavoratore.
Il giudice quindi può ordinare la reintegra in virtù di un potere di scelta tra
sanzioni diverse ma in quanto può o meno accogliere la domanda fondata
sull' insussistenza del fatto indicato a giustificazione del recesso

54
11.La sanzione per le altre ipotesi d' illegittimità del licenziamento
fondato su un giustificato motivo oggettivo e la prospettiva afflittiva
della legge n° 92
esclusi i casi in cui assume rilevanza il mancato adempimento degli oneri
strettamente formali e procedurali, il regime sanzionatorio del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, si articola in modo peculiare quando la
giustificazione addotta dal ddl non riguardi l' inidoneità delle mansioni o la
violazione dell' articolo 2110, o non sia stata verificata l' insussistenza del
fatto addotto. Comma 7 art. 18 si detta la formula di “altre ipotesi” che è
corrispondente a quella del comma 5 (per il licenziamento per giustificato
motivo soggettivo, quindi il giudice, dopo aver dichiarato risolto il rapporto,
condanna il ddl al pagamento di un' indennità risarcitoria onnicomprensiva
da 12 a 24 mensilità dell' ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'
anzianità del lavoratore, e tenuto conto del numero di dipendenti occupati,
dalle dimensioni dell' attività economica, del comportamento e delle
condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a riguardo. L'
interprete però deve individuare i casi che rientrano nella categoria “altre
ipotesi” Ciò sarà complicato dato che la nozione di giustificato motivo
oggettivo non esiste al di fuori della norma che la prevede, norma che, al di
là dell' opera di scomposizione (per dettare un nuovo regime sanzionatorio)
operata dalla l. 92, individua i limiti del potere di recesso. La giurisprudenza
formatasi sull' articolo 3 della l. 604 ha sottoposto le ipotesi concrete di
licenziamento a dei tipi di verifica (già detti sopra):
 verifica sulla veridicità dei fatti affermati a fondamento del licenziamento da
parte del ddl
 nesso di coerenza tra i fatti addotti e il licenziamento posto in essere
 verifica dell' impossibilità per il ddl di adibire il lavoratore ad altre mansioni
quindi se non si ritiene che la non veridicità delle affermazioni del ddl
coincide con la “manifesta insussistenza del fatto” posto a fondamento del
licenziamento, è chiaro che le altre ipotesi sono costituite in primo luogo dal'
ipotesi del mancato riscontro del nesso di coerenza (da parte del giudice) o
dell' impossibilità per il ddl di adibire il lavoratore ad altre mansioni.
Per concludere: le “altre ipotesi” sembrerebbero coincidere in primo luogo,
con quelle situazioni che, prima della riforma, erano state descritte con la
formula repechage, o con situazioni caratterizzate dalla presenza di una
55
pluralità di lavoratori tutti esposti al licenziamento, in relazione ai quali il ddl
ha l' obbligo di adottare criteri oggettivi di scelta per la selezione del
dipendente da licenziare. La diversità delle sanzioni adottate dalla riforma
Fornero, può apparire ingiustificata agli occhi del lavoratore, che in ogni
caso si vede privato del posto di lavoro, senza un fondamento che giustifichi
il licenziamento; La scelta operata dalla legge di individuare diverse sanzioni
risulta comprensibile se si abbandoni la prospettiva tradizionale che
imponeva di interpretare il regime sanzionatorio del licenziamento
illegittimo come un regime inteso al ripristino della situazione economica
alterata dall' atto di recesso, e che leggeva nel diritto alla reintegrazione nel
posto di lavoro, una forma di risarcimento in forma specifica.
In realtà la l. 92 appare indifferente al danno patito dal lavoratore, ed invece
appare intesa ad affermare un' idea afflittiva di sanzione contro il
licenziamento → dunque in tale legge è massima la sanzione per il
licenziamento che appare basato su fatti insussistenti; invece è attenuata la
pena per il licenziamento anch' esso ingiustificato, che non evidenzi l'
imperizia datoriale; essendo solo l' ipotesi del licenziamento odioso, perchè
discriminatorio, assoggettata in ogni caso al regime più severo, ma coerente
con l' idea del pieno ristoro della perdita subita dal lavoratore.

12.Conclusioni
→ il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo crea molte incertezze; la distinzione tra “manifesta insussistenza
del fatto” e “altre ipotesi” di illegittimità del recesso ha provocato curiosità
tra i commentatori che si sono chiesti se la legge non avesse inteso in
qualche modo influire anche sulla nozione stessa di giustificato motivo
oggettivo.
L'attenzione della dottrina si è soffermata su situazione per cui si è dubitato
della possibilità di individuare il fatto, presupposto del recesso, fatto che,
prima della riforma, nessuna norma indicava come elemento necessario della
fattispecie di giustificato motivo oggettivo, fatto che secondo altri, invece,
consiste proprio nella “soppressione del posto di lavoro” le cui ragioni il ddl
deve chiarire. Il criterio interpretativo nella ricerca di una soluzione, implica
che la ricerca del fatto, la cui esistenza deve essere verificata dall' organo
56
giudicante, non può comportare mai la violazione della libertà organizzativa
dell' imprenditore e quindi consentire il controllo sulle scelte del ddl; la legge
impone invece al ddl trasparenza in ordine alle ragioni del licenziamento.
Se è vero che il principio affermato dalla norma è la trasparenza e se è vero
che le scelte dell' impresa non possono essere sindacate nel merito, non si
può negare la difficoltà di differenziare i casi in cui il fatto è
manifestatamente insussistente, rispetto a situazioni in cui appaia non del
tutto insussistente, perchè in realtà nel giudizio sulla graduazione della
sussistenza si possono tradurre proprio quelle valutazioni di merito sulle
scelte dell' impresa che il sistema espressamente esclude. Quindi la legge
dice che il ddl è libero di interpretare i fatti della realtà che incidono sulla
gestione dell' impresa, ma deve dichiararli esplicitamente insieme alle
conseguenze che ritiene di ricavarne, dovendo cercare di temperare le
ripercussioni delle proprie scelte gestionali ed organizzative nei confronti dei
dipendenti. A volte i fatti sono univocamente interpretabili, altre volte invece
sono legati a valutazioni economiche soggettive, effettuate dagli organi di
vertice dell' impresa, valutazioni che però concorrono a costituire il fatto
presupposto del recesso; tali valutazioni, devono essere palesate per
consentire alle parti di conoscerle ed eventualmente opporre soluzioni
alternative rispetto al recesso o soluzioni che consentano al lavoratore di
conservare quell' occupazione, o alta collocazione nella stessa azienda o in
altra dello stesso ddl.

CAPITOLO VIII
QUESTIONI SUL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO
Di Patrizio Bernardo

1.Riforma del lavoro e licenziamento per scarso rendimento: il quadro


previgente e la prospettata incidenza dei novellati profili sanzionatori.
Fino all’entrata in vigore della legge si poteva affermare che detto
licenziamento, era da considerarsi impossibile, in quanto era impossibile la
sua verifica sul piano giudiziale. Il datore di lavoro non riusciva a porre a
fondamento del suo licenziamento lo scarso rendimento del suo lavoratore,
57
anche se si fosse riuscito a dimostrare in giudizio il difetto di rendimento e di
esigibilità di quest’ultimo, risultava un ampia aerea di incertezza in ordine
alla prova, che quindi fosse causa di una colpa o di un notevole
inadempimento del lavoratore.

2.La nozione di scarso rendimento


Secondo Ichino la questione dello scarso rendimento può scomporsi in una
pluralità di sotto questioni:
 Deve determinarsi il livello di rendimento dovuto
 Se e quando il difetto di rendimento dovuto debba qualificarsi come
inadempimento
 Come si distingue l’inadempimento colpevole da quello incolpevole
 Se l’inadempimento incolpevole debba considerarsi come mancanza
disciplinare o motivo oggettivo di licenziamento
 Se non può considerarsi come licenziamento se e quando essa possa
costituire giustificato motivo di licenziamento
Non è sufficiente che il lavoratore applichi correttamente le regole tecniche
di esecuzione della prestazione se egli non è in grado di fornire anche quella
intensità quantitativa “normale” che è necessaria affinché la prestazione
stessa sia concretamente utilizzabile e coordinabile con gli altri fattori
produttivi. Ciò che si rileva è il “rendimento” inteso come il rapporto tra
tempo dedicato alla prestazione ed il risultato che non è l’oggetto
dell’obbligazione ma un termine di misura del quantum della prestazione.

3.La tesi di Pietro Ichino su regime indennitario delineato ai commi 4 – 5


del nuovo art.18, l.n.300 del 1970 (co.42,lett.b, art.1 l. 92 del 2012)e
scarso rendimento
Nell’ambito dei 4 regimi sanzionatori del licenziamento illegittimo, detta
tipologia di recesso potesse dirsi unicamente afferente all’area della “nuova
tutela indennitaria” il datore di lavoro sarebbe posto nelle condizioni di
valutare il rendimento scarso determinando la propria scelta di ricorrere al
licenziamento de quo quando il “costo-opportunità per l’azienda” determina
una perdita attesa attualizzata pari o inferiore al regime indennitario
applicabile, secondo la legge della “severance cost”. Nel momento in cui il
tema possa effettivamente “ridursi” a profili di mero costo/opportunità il
58
rischio della difficoltà di dimostrare in giudizio l’effettiva sussistenza di uno
scarso rendimento si potrà considerare un normale “rischio d’impresa”.
Nella prospettiva oggettiva, ove si intende assumere il licenziamento per
scarso rendimento nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
evidenzia come in presenza di una situazione di obbiettivo, notevole e
costante difetto del rendimento individuale rispetto alla norma” a fronte
della c.d. ingiustificatezza semplice del recesso. Secondo Ichino ove il
lavoratore facesse valere in giudizio la natura soggettivo-disciplinare del
licenziamento ed il giudice avesse accolto la predetta impostazione difensiva,
a norma dell’ultimo periodo del comma 7 potrebbe determinare la condanna
dell’imprese alla reintegrazione. Se il licenziamento sia qualificato ab origine
come per giustificato motivo soggettivo; infatti in presenza di un comprovato
obbiettivo e notevole e costante difetto del rendimento individuale rispetto
alla norma sembra evidente che non si possa parlare di insussistenza del
fatto.

4.Profili problematici: natura in concreto “anfibia” del licenziamento e


lineamenti procedurali
Il primo è se possa ancora oggi considerarsi possibile, come certamente
prima dell’entrata in vigore della riforma, sia in sede di qualificazione sia
quantomeno per il giustificato motivo oggettivo, in sede di giudizio dar corso
ad un licenziamento contestualmente per giustificato motivo soggettivo ed
oggettivo. Il secondo è quale debba essere la conseguenza del mero vizio
procedurale nel caso di giustificato motivo soggettivo o della “non
manifesta sussistenza” nel caso di giustificato motivo oggettivo del fatto
contestato. Non sarà più possibile qualificare anche come giustificato motivo
oggettivo un licenziamento all’esito di rituale procedura di contestazione
disciplinare ex art.7 statuto dei lavoratori, ne si potrà esser fatto in ragione di
giudizio, a fronte delle difese del lavoratore quantomeno in violazione
procedimentale. Il datore di lavoro che intende licenziare qualificando come
giusto motivo oggettivo un dipendente per scarso rendimento dovrà esperire
una peculiare procedura che si apre con la comunicazione alla Direzione
Territoriale del Lavoro dove ha sede l’unità produttiva di assegnazione del
lavoratore, le intenzioni di procedere al licenziamento indicandone i motivi.
Il datore di lavoro potrà consegnare la lettera di contestazione disciplinare
59
che segna il momento di avvio del procedimento, lo stesso giorno consegna
per conoscenza la lettera di avvio del procedimento conciliativo; in
alternativa può compiere in un unico plico la notifica al lavoratore. In
assenza di termini decadenziali si potranno gestire le tempistiche di
licenziamento disciplinare modellandole su quelle della procedura
conciliativa per giustificato motivo oggettivo. Se il procedimento
disciplinare dovesse concludersi in tempi estremamente brevi o prima della
conclusione del procedimento il datore di lavoro posticipare le proprie
valutazioni all’esito del procedimento attivato per giustificato motivo
oggettivo e darne per iscritto comunicazione al lavoratore, e coincideranno
data di licenziamento e giorno di definizione della questione.

CAPITOLO IX
I LICENZIAMENTI INEFFICACI.
Di Francesco Rossi e Barbara de Mozzi

1.Premessa
60
la l. 92 non incide sul principio di cui all'art. 2 l. 604, per cui il lienciamento,
Per i rapporti soggetti alla regola di necessaria giustificazione, ed anche nel
caso del dirigente, deve essere intimato per iscritto a pena di inefficacia.
Invece l' art. 37 l. 92 introduce, tanto nell' area di tutela debole quanto in
quella forte, l' obbligo di motivazione del licenziamento a pena di inefficacia
→ con implicita abrogazione del disposto dell' articolo 6 l. 604, su cui la l.
92 non interviene espressamente, nella parte in cui faceva decorrere il
termine per l' impugnazione del licenziamento alternativamente alla scritta
dei motivi, ove non contestuale.
La l. 92 sancisce l' obbligo di contestuale motivazione del licenziamento, sia
per il licenziamento disciplinare sia per quello per giustificato motivo
oggettivo , ed anche per il licenziamento per superamento del periodo di
comporto. Invece non trova applicazione al licenziamento del dirigente,
salva una diversa previsione dai contratti collettivi. Il c. 42 della l. 92 riscrive
poi, il regime sanzionatorio del licenziamento inefficace perchè intimato in
forma orale, per i ddl che occupino fino a 15 dipendenti nell' unità produttiva
o nel comune, e comunque non più di 60 nel complesso; la l. 92 detta una
nuova disciplina sanzionatoria per il licenziamento inefficace per la mancata
contestuale comunicazione dei motivi, per violazione della procedura
disciplinare, o per violazione della procedura di cui al 7.1 l.604. → l'
assimilazione tra le diverse ipotesi di licenziamento inefficace è però solo
apparente. Il licenziamento orale inefficace viene sanzionato secondo i
commi 2 e 3 dell' art. 18 ed il lavoratore ha diritto alla reintegrazione, o in
alternativa al pagamento dell' indennità sostitutiva e in aggiunta, al
pagamento dell' indennità risarcitoria, non inferiore a 5 mensilità
commisurata all' ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del
licenziamento fino a quello dell' effettiva reintegrazione, con detrazione dell'
aliunde perceptum → cd tutela reale piena. Al licenziamento inefficace per
violazione del requisito di contestuale motivazione, viene applicato il regime
sanzionatorio di cui all' art. 18 c. 6 . il licenziamento (carente nella
motivazione scritta o viziato nella procedura) determina l' estinzione del
rapporto, con condanna del ddl al pagamento di un' indennità risarcitoria, in
relazione alla gravità della violazione commessa, tra un minimo di 6 a
massimo 12 mensilità dall' ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo → salvo che il giudice, sulla base della
61
domanda del lavoratore, accerti anche il difetto di giustificazione del
licenziamento, dando in tale caso applicazione al relativo regime
sanzionatorio. Quindi: da un lato (per il licenziamento orale, intimato dai ddl
di piccole o grandi dimensioni), un' inefficacia forte, trattata come una nullità
assoluta; dall' altro, per le ipotesi di mancata contestuale motivazione o
difetto delle procedura, si prevede una inefficacia nella versione debole,
prospettandosi un licenziamento dotato di effetto, idoneo a terminare il
rapporto, anche se illegittimo.

2.Il licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione


la differenziazione delle tutele introdotta dalla l. 92 tra licenziamenti viziati
sotto il profilo formale e recessi ingiustificati, rende necessaria l'
individuazione delle fattispecie effettivamente riconducibili all' ambito dei
licenziamenti inefficaci, perchè dalla loro individuazione discende il tipo di
tutela applicabile. Il c. 6 dell' art. 18 riconosce al lavoratore una tutela
indennitaria limitata (maggiore nel caso il licenziamento si riveli anche
ingiustificato, su domanda del lavoratore), nel caso in cui vi sia violazione
del requisito di motivazione di cui all' art. 2 l. 604 come modificato dalla l.
92. violazione del requisito di motivazione: ci si chiede se una motivazione
generica o non sufficientemente specifica possa essere equiparata ad una
motivazione del tutto assente → si e si applicano le stesse sanzioni! La
motivazione deve essere chiara ed esaustiva, tale da consentire al lavoratore
di valutare le ragioni del licenziamento e decidere se impugnarlo. Nel caso in
cui il ddl non fornisca contestualmente al licenziamento, la motivazione, o
non la fornisca in modo sufficientemente preciso, potrà successivamente
allegare e provare in giudizio le ragioni del recesso, se il lavoratore chieda
che l' esame giudiziale si estenda anche ai profili della giustificatezza del
licenziamento, fermo restando che comunque per la sola presenza dei vizi
formali avrà diritto al pagamento dell' indennità di cui al c. 6 art. 18.
tuttavia, cioè che il ddl indica nella lettera di licenziamento (anche se non sia
una completa motivazione) non è privo di rilievo. Ad esempio → la
incompleta motivazione del licenziamento fa riferimento a ragioni
disciplinari, allora il ddl non può allegare e dedurre in giudizio che la
motivazione del licenziamento risiede in motivi di carattere oggettivo; salvo
che non alleghi e provi anche le ragioni per cui, erroneamente, aveva fatto
62
riferimento nella lettera di recesso a ragioni di carattere disciplinare. Quindi
l' indicazione, pur generica, contenuta nella lettera di licenziamento costituirà
un indice presuntivo su quali siano state le ragioni del recesso, per cui il ddl
se vorrà dedurre e provare la giustificatezza del licenziamento , dovrà
integrare quelle indicazioni, ma non potrà modificarle radicalmente → pena:
ritenere che il fatto posto alla base del recesso sia del tutto inconsistente, con
diritto del lavoratore alla reintegrazione, seppur con tutela risarcitoria
limitata. Salvo che lo stesso ddl non alleghi e provi anche i motivi per cui, in
un primo momento aveva indicato una diversa ragione di licenziamento.
Non sembra invece, che l' indicazione lacunosa contenuta nella lettera di
licenziamento possa ritenersi vincolante in modo assoluto per il ddl, in
rapporto al principio di immutabilità dei motivi di recesso → tale principio
ha come fondamento l' affidamento del lavoratore in ordine ai motivi del
licenziamento, per cui egli si determina ad esperire l' azione giudiziale
proprio a fronte dei motivi di recesso che gli sono stati compiutamente
indicati e che non possono poi essere modificati; se però quei motivi non
sono indicati in modo compiuto, per cui il lavoratore non è posto nella
condizione di operare la sua scelta in modo ponderato, non vi è ragione per
tutelarne un inesistente affidamento.

3.Il licenziamento inefficace per difetto della procedura ex art. 7 l. 604


un' altra ipotesi cui il comma 6 art. 18 ricollega l' inefficacia del
licenziamento è la violazione della procedura per l' intimazione del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo prevista dal nuovo art. 7 l.
604. valgono anche per tale ipotesi, le considerazioni dette sopra in ordine
alla necessaria completezza della motivazione del licenziamento, che deve
essere indicata nella comunicazione preventiva che il ddl ha l' obbligo di
inviare alla direzione territoriale del lavoro. La motivazione che il ddl
indicherà nella comunicazione alla direzione del lavoro sarà immutabile, e
cioè fisserà in modo non modificabile le ragioni di carattere oggettivo poste
alla base del recesso. E questo per ragioni di tutela dell' affidamento che
stanno alla base del principio di immutabilità dei motivi di risoluzione del
rapporto; proprio su quelle ragioni il lavoratore misura l' opportunità di una
conciliazione o l' opportunità dell' impugnazione giudiziale, per cui è su
quelle che si dovrà misurare anche la valutazione giudiziale. Un mutamento
63
delle ragioni del recesso, pur nell' ambito del licenziamento per ragioni
legate all' interesse dell' impresa, non darebbe luogo, solo all' applicazione
della sanzione per vizi formali del recesso, ma costituirebbe una palese
ammissione dell' insussistenza delle ragioni del licenziamento, con diritto del
lavoratore alla reintegrazione con indennità limitata.
Inoltre, la sanzione di cui al comma 6 dovrà applicarsi per ogni violazione
della procedura di cui all' articolo 7 l. 604, sia essa una violazione relativa
all' incompleta motivazione del recesso, al mancato rispetto dei termini
previsti dalla norma, all' invio presso un domicilio diverso della
comunicazione di avvio.

4.Il licenziamento inefficace per violazione della procedura di cui all'


art. 7 st. lav.
il c. 6 prevede infine l' applicazione della sanzione per i licenziamenti
inefficaci per quelli intimati in violazione della procedura di cui all' art. 7
st.lav. La procedura di cui all' articolo 7 comprende le previsioni di cui ai
commi 2 e 3 e 5. infatti il comma 6 è ampio , comprendendo tutte le ipotesi
in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione della
procedura. Il licenziamento e la sua intimazione sono cioè, parte della
procedura. Con riferimento alla contestazione degli addebiti: dovrà
presentare i caratteri di specificità, fermo restando (come detto
precedentemente) nel caso di contestazione generica (che fornisca
comunque indicazioni non equivoche sui fatti per cui è avvenuta la
risoluzione del rapporto) essa avrà comunque rilievo nel successivo
giudizio , se il lavoratore chieda che l' accertamento si estenda anche alla
verifica della giustificatezza del recesso.
Per quanto attiene il termine a difesa: la violazione di quello più ampio
eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva comporta violazione
dell' articolo 7 st lav. Con le conseguenze di cui al comma 6 art. 18 → in tal
caso interviene la norma collettiva, modificando la legge in senso
maggiormente garantista, ed ampliando il termine di cui dispone il lavoratore
per discolparsi.

64
Un' altra questione è se possa rientrare nella procedura di cui all' articolo 7, il
principio di tempestività nell' irrogazione della sanzione. Innanzitutto
bisogna dire che la tempestività viene in rilievo sotto due profili:
 tempestività della contestazione di addebito, rispetto alla conoscenza del
fatto da parte del ddl: la giurisprudenza ha sempre valutato il requisito della
tempestività della contestazione da due diverse prospettive: quella della possibile
lesione del diritto di difesa e quella dell' implicita manifestazione di volontà da
parte del ddl, ovvero della sua rinuncia a sanzionare il contegno posto in essere dal
lavoratore. La lesione del diritto di difesa rende inidonea la contestazione di
addebito ad adempiere la sua funzione e, quindi, può farsi rientrare nella violazione
della procedura di cui all' articolo 7, mentre la rinuncia implicita a far valere l'
inadempimento del lavoratore da parte del ddl si deve porre sullo stesso piano dell'
inesistenza del fatto contestato, con diritto alla reintegrazione con indennità
risarcitoria limitata. Quindi bisogna valutare la singola fattispecie e se vengono in
rilievo entrambi i profili, come accade nella maggioranza dei casi, dovrà darsi corso
alla sanzione prevista per l' inesistenza del fatto che, come previsto dall' art. 18,
assorbe quella relativa alla violazione formale. Alla stessa sanzione dovrà esser
sottoposto il licenziamento se sia la contrattazione collettiva a prevedere che la
contestazione debba essere formulata entro un dato termine da quando il ddl è
venuto a conoscenza dei fatti. In tale ipotesi è evidente come la norma contrattuale
costituisca una garanzia per il diritto di difesa che un limite temporale per il ddl ad
avvalersi dell' inadempimento, per cui dovrà farsi applicazione della sanzione più
grave. L' assenza di tempestività, invece, rispetto al momento in cui il lavoratore ha
già reso le sue giustificazioni sarà valutata nel senso di rinuncia ad esercitare il
potere disciplinare ed il relativo licenziamento comunque intimato sarà considerato
illegittimo per assenza del fatto contestato. Alla stessa sanzione dovrà assoggettarsi
il recesso intimato oltre il termine previsto dalla contrattazione collettiva per la
comunicazione del licenziamento, dopo che il lavoratore abbia esercitato il diritto di
difesa. Si tratta di un termine non previsto dall' articolo 7 dello statuto e quindi
estraneo alla procedura ivi disciplinata, introdotto come limite per il ddl all'
esercizio del potere disciplinare, decorso il quale le deduzioni (ove svolte) del
lavoratore, dovranno ritenersi accettate. Il licenziamento intimato, quindi, quando il
termine sia decorso dovrà essere posto sullo stesso piano di quello intimato per un
fatto insussistente.

65
 tempestività dell' irrogazione della sanzione dopo che il lavoratore ha fornito
le sue giustificazioni.

5.La domanda del lavoratore, diretta a far accertare anche il difetto di


giustificazione del licenziamento intimato in violazione del requisito di
motivazione o viziato dalla procedura →
il lavoratore può chiedere di far accertare non solo il vizio formale, ma
anche l' ingiustificatezza del recesso, nonché la sua gradazione dell' indennità
tra minimo e massimo prevista dal comma 6. nel caso di esito favorevole
dell' accertamento esso dà diritto alla reintegrazione o comunque ad una
diversa maggiore indennità, e ciò indurrà il lavoratore a chiedere sempre al
giudice tale accertamento, con richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro
o dell' indennità da 12 a 24 mensilità ed, in subordine, accerti la presenza del
vizio formale con diritto al pagamento del minore indennizzo. Infine, per
quanto attiene la gradazione dell' indennità, la norma fa riferimento al
criterio della gravità della violazione formale , ed il giudice proprio su questa
dovrà incentrare la sua motivazione.
6.Il regime sanzionatorio del licenziamento inefficace per violazione del
requisito di forma e per violazione del requisito di contestuale
motivazione nell (ex) area di tutela forte e nell' area di tutela debole
come già detto il regime sanzionatorio per il licenziamento orale dell'
articolo 18 commi 1 2 e 3 è destinato a trovare applicazione tanto nell' (ex)
area di tutela reale, quanto in quella di tutela debole. Si determina così un
ulteriore aggravio per i ddl di minori dimensioni, rispetto all' attuale regime
di diritto comune, in quanto il lavoratore avrà la possibilità (nel caso in cui
non abbia interesse ad essere reintegrato), di optare per l'indennità sostitutiva
della reintegrazione. Una novità riguarda la divaricazione, nell' area di tutela
reale, tra regime sanzionatorio del licenziamento orale (c.1 2 3) e regime
sanzionatorio del licenziamento comunicato in forma scritta, ma senza la
contestuale indicazione dei motivi (prescritta a pena di inefficacia c.6). La l.
92 non prevede nullità per il licenziamento che sia dichiarato inefficace per
violazione del requisito della motivazione di cui all' art. 2 l. 604 → alla
fattispecie quindi dovrebbe continuare a trovare applicazione la tutela reale
66
di diritto comune, con diritto del lavoratore al ripristino del rapporto e al
pagamento di tutte le retribuzioni perdute, dal licenziamento all' effettivo
ripristino (una specie di risarcimento del danno). Ci sono però perplessità,
circa la razionalità di una previsione che pare sanzionare in modo meno
grave il licenziamento inefficace per mancata contestuale comunicazione dei
motivi nell' area di tutela forte, rispetto ad analoga fattispecie, nell' area di
tutela debole.

7.Il regime sanzionatorio del licenziamento inefficace per violazione


della procedura disciplinare nell' (ex) area di tutela forte, e dell' area di
tutela debole
come si è detto, il regime di tutela indennitaria debole, di cui all' articolo 18
comma 6 (come modificato dal comma 42 l. 92 art. 1) trova applicazione ai
ddl di medio grandi dimensioni, che occupano nell' unità produttiva o nel
comune più di 15 dipendenti (5 se imprenditori agricoli) o più di 60 nel
complesso, anche nel caso in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace
per violazione della procedura di cui all' articolo 7 dello statuto. Ad una
prima lettura, potrebbe sembrare pacifico che al licenziamento disciplinare
viziato nella procedura nell' area di tutela obbligatoria, continui a trovare
applicazione l' art. 8 della l. 604. la qualificazione come inefficace del
licenziamento disciplinare viziato nella procedura, sia pure esplicitata nell'
ambito di una norma sanzionatoria applicabile, nel suo contenuto precettivo,
ai soli ddl di medio grandi dimensioni, non è quindi, circoscritta a tale
ristretto ambito, ma ha portata generale. Essa, come tale, sembrerebbe
reagire anche sul regime sanzionatorio del licenziamento inefficace per
violazione della procedura di cui all' art. 7 dello statuto, nell' area di tutela
debole. Com' è noto nell' area di tutela debole, le conseguenze sanzionatorie
di cui all' art. 8 l. 604 sono testualmente previste solo per il licenziamento
privo di giusta causa o giustificato motivo. Secondo un pregresso
orientamento dottrinale e giurisprudenziale, il licenziamento disciplinare
intimato senza l' osservanza delle garanzie procedimentali di cui al commi 2
e 3 dell' art. 7 st.lav. Dovrebbe essere ritenuto nullo, in base ai principi
generali di cui agli articoli 1418 e 1324 cc; ovvero dovrebbe essere
qualificato come inefficace, per assenza di un presupposto formale.
Conseguentemente il lavoratore avrebbe diritto alla retribuzione sino all'
67
effettivo ripristino della piena funzionalità del rapporto , sia pure sub specie
di risarcimento del danno. Se non che, la corte di legittimità ha oggi disatteso
tale impostazione, applicando al licenziamento disciplinare intimato in
violazione della procedura nell' area di tutela debole, l' art. 8 l. 604, in base
all' argomento che, da un lato, sarebbe incongruo applicare ad un difetto
meramente formale conseguenze più gravi di quelle che sarebbero applicabili
in conseguenza di un vizio sostanziale; dall' altro, che la sanzione speciale
dovrebbe trovare applicazione non solo nel caso di carenza di
giustificazione, ma anche nel caso in cui la giustificazione, non essendo stata
fatta valere nel rispetto delle regole procedurali, risulti inutilizzabile. In
sostanza secondo la corte, si tratterebbe di un atto emesso in una situazione
di carenza di potere e, pertanto, quanto agli effetti, del tutto assimilabile ad
un licenziamento in mancanza di giusta causa (o giustificato motivo).
Analoga soluzione (c.d. Tutela d' area) non si è invece potuta affermare con
riferimento alla fattispecie (di cui all' art. 2 l. 604) della mancata
comunicazione scritta dei motivi tempestivamente richiesti dal lavoratore. E
ciò, proprio a causa dell' ostacolo rappresentato dalla testuale qualificazione
di inefficacia del licenziamento di cui all' art. 2 l. 604.
alla luce di tali considerazioni, ci si deve dunque chiedere se la esplicita
qualificazione del licenziamento disciplinare viziato nella procedura
siccome inefficace, di cui all' art. 18 c. 6, e l' assenza, nell' area di tutela
debole, di un regime sanzionatorio speciale prefigurato per la sola area di
tutela reale, dalla norma stessa, debbano , oggi, comportare l' applicazione
alla fattispecie, nell' area di tutela debole, delle regole di diritto comune.
Con diritto del lavoratore, licenziato per motivi disciplinari in violazione
della procedura nell' area di tutela debole, al ripristino del rapporto di lavoro
e al pagamento di tutte le retribuzioni perdute, dal licenziamento, all'
effettivo ripristino (sia pure sub specie di risarcimento del danno). Si deve
osservare che, la qualificazione del licenziamento viziato nella procedura (in
specie disciplinare) come inefficace è atecnica. Essa viene infatti, riferita ad
un licenziamento che, ancorchè illegittimo, è comunque idoneo a produrre l'
effetto estintivo del rapporto. Ed infatti, quella prefigurata dal comma 6, non
è affatto una risoluzione giudiziale, tanto meno con effetto costitutivo;
poiché la risoluzione del rapporto (con effetto dalla data del licenziamento) è
pur sempre ricondotta alla volontà (per quanto non sorretta da giustificazione
68
del ddl). Non sembra allora, che l' atecnica qualificazione del licenziamento
viziato nella procedura disciplinare come inefficace possa sovvertire il
consolidato orientamento (vero e proprio diritto vivente) che prescrive l'
applicabilità, al licenziamento disciplinare viziato nella procedura, nell' area
di tutela obbligatoria, della sanzione di cui all' art. 8 l. 604.

8.il regime sanzionatorio che licenziamento inefficace per violazione del


requisito di contestuale motivazione nell' area di tutela debole
alla luce di tali considerazioni , resta da chiedersi se si possa prospettare un'
interpretazione correttiva del regime sanzionatorio del licenziamento privo di
contestuale motivazione, intimato nell' area di tutela obbligatoria, capace di
ricondurlo a ragionevolezza. È indubbio che nell' (ex) area di tutela reale, la
qualificazione come inefficace del licenziamento privo di contestuale
comunicazione dei motivi è contraddetta dalla espressa previsione della sua
idoneità a produrre l' effetto estintivo del rapporto di lavoro. In passato la
comunicazione dei motivi era solo eventuale, e dunque certo non integrava
un elemento essenziale inerente alla struttura del negozio, laddove, per
effetto della novella, da un lato la motivazione è necessariamente
contestuale, dall' altro i motivi che contraddistinguono i vari tipi di
licenziamento acquisiscono nuova centralità poiché alle diverse causali sono
ricollegate sanzioni diversamente combinate. È indubbio che la riforma
introduce un decisivo declassamento del dato formale, apprezzato ieri come
fattore di garanzia per il lavoratore e criticato oggi come elemento di
incertezza per il ddl. Sicchè l' argomento di utilizzo atecnico della nozione di
inefficacia anche con riferimento al licenziamento intimato senza contestuale
comunicazione dei motivi nell' area di tutela obbligatoria non sembra del
tutto incongruo.

69
Capitolo X
I poteri del giudice
Di Chiara Tomiola

70
2.I limiti al controllo giudiziale del licenziamento: l’integrazione
dell’art.30 comma 1 l.183/2010
Nelle massime giurisprudenziali è affermato il principio in ipotesi di
licenziamento per motivo oggettivo, secondo cui il giudice non può
sindacare la scelta dei criteri di gestione all’impresa, espressione della libertà
di iniziativa economica tutelata dall’art. 42 cost ma soltanto sull’effettiva
sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro e il nesso di causalità tra
tali ragioni e il licenziamento. L’ accertamento sul presupposto di legittimità
del recesso implica infatti sia l’esistenza e l’effettività della ragione tecnica,
organizzativa e produttiva posta dal datore di lavoro a fondamento del
recesso, sia la sua conformità alla legge, sia l’esistenza del nesso di causalità
del singolo licenziamento intimato. La l.92/12 (introducendo la violazione
di norme di diritto –limiti di sindacabilità) conferma la richiamata linea di
diritto nel senso di richiamare l’attenzione dell’interprete sulla necessaria
continenza dei poteri del giudice di merito.

3.Il potere del giudice di determinare la tutela applicabile


Il legislatore avrebbe inteso in tal modo relegare le incertezze che sono
proprie dell’indagine circa la giustificatezza o meno del licenziamento e
quindi l’esercizio della discrezionalità del giudice, all’applicazione della
tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui il risultato della suddetta indagine
appaia fin dall’inizio prevedibile. L esercizio del potere di cui è stato
garantito il controllo fino al giudizio di legittimità, risulterebbe reso meno
rilevante essendo limitato. Ad esempio il licenziamento per motivi soggettivi
per il quale la legge prevede l’applicazione della tutela reintegratoria
(attenuata) nell’ipotesi di insussistenza del fatto contestato rientra tra le
condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni
dei contratti collettivi:
 Insussitenza del fatto contestato: i fatti sono scomponibili in tanti elementi
passibili di essere considerati essenziali, per cui un primo margine di incertezza
e il primo margine di discrezionalità del giudice implica una delimitazione
dell’ambito Compete al giudice con riferimento alla nozione di insussistenza
(anche se vero non sufficiente a giustificare il licenziamento.)

71
4.Il potere del giudice di quantificare la tutela. La detrazione dell’aliunde e
la quantificazione delle indennità
L’ espressa previsione prima della riforma dell’ art.18 della deducibilità
dall’importo dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore reintegrato, di
quanto medio tempore percepito per lo svolgimento di altre attività
lavorative, nell’ambito della sola tutela reintegratoria attenuata e nel c.d.
alinde percipiendum, cioè quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire
dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In secondo
luogo la nuova formulazione della norma, se e vero che deve tenersi conto
della nuova espressa previsione normativa, essa non sembra travolgere i
vigenti principi in tema di allegazione della prova. In base ai principi
generali del processo sono le parti ad individuarne l’oggetto, attraverso le
allegazioni dei fatti, l’ambito dell’indagine probatoria, anche d’ufficio. Una
volta che tali fatti siano affermati la previsione legale espressa rende
doverosa la detrazione, il giudice ha potere dovere in presenza di rituale
affermazione del fatto di ammettere le istanze di esibizione formulate dal
datore di lavoro e di esercitare i propri poteri istruttori d’ufficio. Sul piano
della determinazione delle conseguenze dell’illegittimità viene in rilievo
l’ambito di tutela meramente economica, il potere del giudice è quello di
quantificare l’indennità nell’ambito della forbice predefinita dal legislatore,
mentre nella legislazione precedente esso non aveva alcun margine, tale
margine ad oggi risulta essere ridimensionato sotto 2 profili:
 Vengono individuati i criteri in base ai quali il giudice è chiamato a
determinare l’importo dell’indennità risarcitoria
 Viene precisata la sussistenza di un onere di specifica motivazione x
l’applicazione dei criteri per determinare indennità

72
Capitolo XI
la procedura preventiva di conciliazione.
Di Manuela Salvalaio

1.I nuovi aspetti formali e procedurali


73
il legislatore della riforma ha messo mano ad alcuni rilevanti aspetti sia
formali che procedurali connessi all' intimazione del licenziamento
individuale.
→ è stato modificato il c. 2 art. 2 l. 604 , che ora prevede che il
licenziamento debba sempre contenere la specificazione dei motivi che lo
hanno determinato.
→ è stato anche sostituito integralmente l' art. 7 della stessa legge, che in
origine prevedeva un tentativo di conciliazione SUCCESSIVO al
licenziamento, con l' introduzione dell' obbligo per il ddl di dare corso ad una
procedura preventiva di conciliazione , se intenda procedere a licenziamento
per giustificato motivo oggettivo.
→ novità riguarda anche il momento a partire dal quale il licenziamento
produce i suoi effetti all' esito delle procedure di cui all' art. 7 st. lav ed all'
art. 7 l. 604.di seguito vedremo i nuovi aspetti procedurali del licenziamento,
evidenziando la ratio sottostante a ciascuna normativa riformata.

2.Il tentativo obbligatorio di conciliazione, preventivo al licenziamento


per giustificato motivo oggettivo
con l' integrale modifica dell' art. 7 l. 604, il ddl che intenda intimare un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovrà dare corso ad un
preventivo procedimento di conciliazione, da effettuarsi dinanzi la direzione
territoriale del lavoro, così interponendo un utile intervallo di tempo tra il
momento in cui il ddl manifesta la volontà di recedere e l' esercizio della
facoltà stessa. Con l' introduzione del tentativo di conciliazione preventivo, il
recesso per giustificato motivo oggettivo potrà essere equiparato sotto l'
aspetto procedurale ai licenziamenti collettivi ed a quello disciplinare, per i
quali è previsto un procedimento anticipato rispetto alla comunicazione della
cessazione del rapporto di lavoro. La funzione del procedimento di cui all'
articolo 7 può dirsi simile a quella contemplata dalla l. 223 del 1991, essendo
finalizzata a favorire una composizione delle controversie negoziata, nel caso
di licenziamento individuale, in sede stra giudiziale ed amministrativa
mediante la ricerca di una soluzione che eviti il licenziamento, o comunque,
allevi le conseguenze dello stesso. L' obiettivo del legislatore è infatti quello
di tentare di monitorare la realizzazione della decisione del ddl, in modo da
poter intervenire (nel rispetto della libertà imprenditoriale costituzionalmente
74
garantita) nella fase della formazione della stessa scelta datoriale,
proponendo vie alternative al licenziamento. La procedura di cui all' art. 7
della l. 604 si differenzia da quella preventiva ai licenziamenti collettivi; ed
inoltre il procedimento di cui all' art. 7 riecheggia, inoltre, per molti aspetti il
modello tedesco, modello nel quale qualsiasi licenziamento, compreso quello
per motivi economici, deve passare attraverso una preliminare consultazione
con il consiglio di fabbrica, a cui la parte datoriale deve fornire una
informazione esaustiva in ordine alla motivazione del recesso che intende
esercitare. In caso contrario, il licenziamento è nullo. → nel modello tedesco
il consiglio di fabbrica , una volta ricevute le informazioni, ha 3 o 7 giorni a
disposizione per formulare le proprie osservazioni (a seconda che si tratti di
licenziamento con o senza preavviso) e, ove possibile, deve sentire il
lavoratore interessato. Il consiglio di fabbrica può opporsi al licenziamento
con preavviso:
 se il ddl, nel selezionare i lavoratori da licenziare non abbia tenuto in debito
conto i criteri sociali di scelta.
 Se il lavoratore di cui prevede il licenziamento possa essere rimpiegato nella
stessa o in altra unità produttiva dell' impresa
 se il lavoratore possa essere mantenuto in servizio a seguito di un periodo di
formazione o a seguito del mutamento consensuale delle condizioni economiche e
normative applicabili al rapporto di lavoro.
 Se il licenziamento violi le linee guida concordate con il consiglio di fabbrica
in materia di scelta dei lavoratori da licenziare.
L' espletamento della procedura preventiva ha, inoltre, una funzione deflativa
del contenzioso e, quand' anche si arrivasse in giudizio, essa potrebbe
operare quasi come un filtro per il giudice degli elementi rilevanti della
fattispecie concreta, così riducendo il rischio di eventuali ingerenze indebite
sulle scelte aziendali.
Il novellato art. 7 della l. 604 sembra rievocare il tentativo obbligatorio di
conciliazione di cui all' articolo 410 ss c.p.c. Abrogato dalla l. 183 del 2010,
la quale ha invece, introdotto una procedura facoltativa di conciliazione.

2.1AMBITO DI APPLICAZIONE
per quanto riguarda il primo profilo, si rileva che la nuova formulazione dell'
art. 18 st.lav. Ha introdotto una pluralità di regimi sanzionatori che, solo
75
apparentemente, tende a superare la tradizionale summa divisio tra tutela
reale ed obbligatoria del posto di lavoro. La distinzione tra le due tutele
resiste, infatti, alle modifiche della l. 92 ed emerge, anzi, in tutta la sua
pienezza.
Il legislatore , con una scelta i cui motivi non paiono comprensibili, ha infatti
riservato ai soli ddl con i requisiti dimensionali di cui all' art. 18 c. 8 ed alle
organizzazioni di tendenza, l' obbligo di rispettare la procedura preventiva da
espletarsi dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui al 410
cpc, allorchè gli stessi intendano procedere ad intimare il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo.
Con un singolare intervento normativo, l' art. 7 l. 604 , pur riguardando
esclusivamente i ddl con le dimensioni di cui al comma 8 art. 18 , non
interviene ad implementare il citato art. 18, ma modifica la l. 604,
sostituendone integralmente l' art. 7.
i ddl privi dei requisiti dimensionali di cui all' art. 18, se da un lato sono stati
esclusi dalla nuova procedua, sono invece tenuti a rispettare l' obbligo di
motivare il licenziamento, ai sensi del novellato art. 2 l. 604.
quanto al profilo oggettivo, anzitutto il nuovo incipit dell' art. 7 l. 604
ribadisce preliminarmente che per il licenziamento per giusta causa e per
giustificato motivo soggettivo resta ferma l' applicazione del procedimento di
cui all' art. 7 st.lav. Escludendo quindi l'applicabilità della procedura
preventiva in commento.
Il legislatore, invece, ha voluto mantenere assolutamente distinte le sanzioni
riconnesse alla violazione degli aspetti sostanziali relativi al licenziamento
disciplinare ed a quello per motivi economici.
Sempre sotto il profilo oggettivo, occorre chiedersi per quali tipi di
licenziamento sia obbligatorio l' espletamento della preventiva procedura di
conciliazione.
La questione impone preliminarmente di individuare quali siano i recessi che
rientrano nell' ambito della definizione di cui all' art. 3 l. 604, ovverosia
motivati da ragioni inerenti all' attività produttiva, all' organizzazione del
lavoro ed al regolare funzionamento di essa.
Non paiono dubbi che il tradizionale licenziamento per ragioni economiche
rientri nella definizione normativa, in cui sono comprese anche ipotesi per
sempre oggettive, ma legate a situazioni connesse alla persona del lavoratore
76
(es. sopravvenuta inidoneità fisica o psichica) in quanto si riflettano ed
incidano sul regolare funzionamento dell' organizzazione e dell' attività
produttiva.
Qualche dubbio suscita invece il licenziamento intimato ai sensi ai sensi dell'
art. 2110 comma 2, relativamente all' ipotesi del superamento del periodo di
comporto, giacchè i casi qui previsti, legati a gravidanza e puerperio, sono
autonomamente regolati dell' art. 18 comma 1 come novellato. → sulla
classificazione dello stesso non sembra sussistere una univocità di posizioni:
 una parte della giurisprudenza ritiene che tale tipo di recesso rientri nell'
ambito del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, in quanto l'
assenza del prestatore di lavoro dal servizio pregiudicherebbe la regolarità dell'
organizzazione dell' attività produttiva.
 Un secondo orientamento, più convincente, ritiene che il licenziamento
intimato per superamento del periodo di comporto configurerebbe un' autonoma
causa di giustificazione del licenziamento basata sul mero decorso del tempo, che
trova la propria disciplina nell' art. 2110 c.2 ; norma prevalente, in forza del
principio di specialità, sia rispetto alla disciplina generale in materia di risoluzione
del rapporto di lavoro, sia rispetto alla normativa codicistica generale in materia di
impossibilità sopravvenuta della prestazione.
La l. 92 sembra accogliere tale secondo orientamento, laddove all' art. 18
comma 7, pur equiparando, quanto a disciplina sanzionatoria, il
licenziamento per inidoneità fisica e psichica sopravvenuta del lavoratore ed
il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, tiene
invece distinte le due fattispecie anche dal punto di vista letterale,
adoperando la locuzione “ovvero” tra il licenziamento per motivo oggettivo
consistente nell' idoneità fisica o psichica del lavoratore e quello intimato in
violazione dell' articolo 2110 c. 2, espressamente includendo il primo nella
categoria del recesso per giustificato motivo oggettivo. → secondo tale
impostazione, pare potersi escludere che il ddl che intenda licenziare il
lavoratore per superamento del periodo di comporto, debba avviare una
preventiva procedura.
C' è un orientamento parzialmente diverso di chi reputa che attraverso il
comma 7 art. 18 st. lav. Sono stati ricondotti all' area del licenziamento per
motivi oggetti i casi di licenziamento per superamento del periodo di
comporto e di licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
77
Secondo tale dottrina, l' odierna previsione legale sancirebbe definitivamente
l' appartenenza, non scontata in passato, di tali ipotesi alla categoria del
licenziamento per motivo oggettivo connesso a motivi riguardanti la persona
del lavoratore. → ed anche in tali casi il ddl dovrà seguire la procedura
preventiva.
Un' altra questione problematica discussa dalla dottrina, ed oggetto di
decisioni diverse è l' identificazione della natura del licenziamento per scarso
rendimento, il cui inquadramento non viene purtroppo affrontato dal
legislatore neppure nella l. 92. → infatti determinare se lo scarso rendimento
costituisca un inadempimento colpevole e quindi disciplinarmente
sanzionabile, o se possa integrare, invece, giustificato motivo oggettivo di
licenziamento, ha grande rilievo pratico, anche ai fini di individuare la
procedura da avviare preventivamente al recesso.
Il nuovo regime delineato dal c. 7 art. 18, dovrebbe aver agevolato l'
individuazione della fattispecie di scarso rendimento → anche se è ancora
lontana una soluzione sul punto;: e si rileva che, qualora si optasse per una
classificazione dello stesso come recesso per giustificato motivo oggettivo,
esso dovrebbe essere preceduto dall' espletamento della procedura di
conciliazione di cui all' art. 7 l. 604. tale conclusione (come già rilevato a
proposito del licenziamento per superamento del periodo di comporto),
ancora una volta desterebbe perplessità, in ragione della natura, delle
modalità di svolgimento, e delle finalità del procedimento di conciliazione,
che probabilmente ma si sposano con l' ipotesi di licenziamento per scarso
rendimento . → qualche autore ha rilevato che il lavoratore potrebbe
impugnare il licenziamento intimato per scarso rendimento ed inquadrato in
un recesso per motivi oggettivi, deducendone, invece, la natura disciplinare,
così invocando tutte le conseguenze previste sul piano sanzionatorio. Il ddl,
al fine di evitare tale eventualità potrebbe attivare entrambe le procedure, sia
quella prevista dall' art. 7 l. 604 , sia quella prevista dall' art. 7 st.lav. →
tuttavia è difficile che le due diverse procedure, possano concludersi nello
stesso momento e portare ad un unico licenziamento, intimato sia per
giustificato motivo oggettivo, che per per ragioni soggettive. Infatti bisogna
tener presente che ciascuna procedura è scandita da una diversa tempistica e
di frequente la contrattazione collettiva impone che , espletato il

78
procedimento disciplinare, la sanzione debba essere comminata al lavoratore
entro un preciso termine, decorrente dalla giustificazioni rese dal lavoratore.
La questione riflette immediatamente le proprie conseguenze sul piano
pratico, se i due procedimenti, quello disciplinare e quello di cui all' art. 7 l.
604, si concludano con l' intimazione, in due diversi momenti temporali, di
due distinti atti di recesso, che si troverebbero allora a fare i conti con la
norma di cui all' art. 1 comma 41 l. 92 che prevede che il licenziamento
intimato all' esito del procedimento disciplinare e di cui all' art. 7 l. 604
produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento
stesso è stato avviato.

2.2LA DISCIPLINA DELLA PROCEDURA PREVENTIVA


il ddl che intenda procedere ad un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo deve effettuare una comunicazione per iscritto alla direzione
territoriale del lavoro (DTL) del luogo dove il lavoratore presta la sua opera,
e trasmessa per conoscenza al lavoratore.
La procedura passa attraverso una serie di fasi.
A differenza dell' art. 413 cpc che prevede una pluralità di fori alternativi,
ove radicare legittimamente le cause connesse ad un rapporto di lavoro
subordinato; il novellato articolo 7 della 604 individua la DTL
territorialmente competente. → la scelta di espletare il tentativo di
conciliazione in sede amministrativa, dinanzi al DTL, anziché sindacale,
potrebbe fornire alla parte datoriale, la garanzia di terzietà, volta a favorire
la conclusione di un' intesa tra le parti.
Per quanto riguarda i contenuti della comunicazione che il ddl dovrà redigere
per promuovere il procedimento, la legge precisa che essa deve contenere :
 la dichiarazione dell' intenzione di licenziare
 l' indicazione dei motivi del preannunciato licenziamento
 eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore
ci si chiede se tale comunicazione possa già comprendere tutti gli elementi
sufficienti a qualificarla come un vero e proprio atto di recesso, in modo che
in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, il ddl possa limitarsi ad
una mera lettera finalizzata a rendere edotto il lavoratore dalla volontà
datoriale di avvalersi degli effetti del recesso di cui alla comunicazione con
79
cui è stato promosso il procedimento, rinviando integralmente a quanto già
contenuto nella stessa → la risposta sembra affermativa → la lettera con cui
il licenziamento viene intimato costituisce il vero nucleo forte del recesso, a
cui fare riferimento anche per rilevare le ragioni a fondamento dello stesso;
d' altro canto l' obbligo imposto dall' articolo 2 c.2. l. 604, di specificare i
motivi del licenziamento, imporrebbe al ddl che voglia procedere al recesso
all' esito della procedura di cui all' art. 7 l. 604 di non limitarsi al rinvio a
quella comunicazione con cui è stata avviata la procedura; tale specifica
indicazione sarebbe anche necessitata dal successivo esame che deve essere
compiuto dalla commissione provinciale di conciliazione delle “soluzioni
alternative al recesso” che presuppone la precisazione del substrato, e
dunque, delle motivazioni, in cui l' intenzione di procedere al licenziamento
è venuta a maturazione.
→ in tale senso deporrebbe anche l' art. 1 c. 42 l. 92 che prevede che gli
effetti dell' intimato licenziamento si producano dal giorno della
comunicazione con cui viene dato avvio alla procedura, che, nel caso di
recesso per giustificato motivo oggettivo, è rappresentata proprio dalla
comunicazione con cui il ddl promuove il procedimento, comunicazione che
viene in tal modo valorizzata sia quanto alla funzione che nei propri
contenuti.
Si ritiene inoltre che le motivazioni a fondamento dell' intimato
licenziamento debbano essere le stesse contenute nella comunicazione di
avvio della procedura e che, ove della coincidenza non sussista, il lavoratore
possa invocare l' inefficacia del licenziamento per contrasto con l' art. 7 l.
604, con richiesta delle sanzioni di cui all' art. 18 c. 6.
la comunicazione del licenziamento all' esito della procedura, potrà invece,
tenere e dare conte, anche ai fini della motivazione, di eventuali circostanze
intervenute nel corso dell' espletamento del procedimento stesso.
La DTL, entro il termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta,
trasmette alle parti la comunicazione della convocazione fissata avanti la
commissione provinciale di conciliazione, istituita ai sensi del art. 410 cpc e
costituita, come noto, da un funzionario della stessa DTL e da un
rappresentante per parte, nominato dalle associazioni sindacali territoriali dei
lavoratori e dei ddl maggiormente rappresentative.

80
Sebbene la norma nulla precisi in ordine alla possibilità delle parti di
delegare altri soggetti a presenziare all' incontro dinanzi al DTL, la
previsione della sospensione della procedura in caso di legittimo e
documentato impedimento del solo lavoratore induce a ritenere che , salva la
facoltà di conferire valida procura ad un terzo, le parti dovrebbero essere
presenti personalmente all' incontro.
La volontà di imporre un ritmo serrato alla procedura emerge anche nella
precisazione relativa alla comunicazione della convocazione diretta al
lavoratore, la quale si intende validamente effettuata se recapitata al
domicilio indicato nel contratto di lavoro (oppure ad altro domicilio
formalmente comunicato al ddl) o se consegnata al lavoratore che ne
sottoscrive copia per ricevuta.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma di legge che preveda
specificatamente che nel contratto di lavoro debba essere indicato il
domicilio del lavoratore, tuttavia, spesso sono i contratti collettivi di settore
ad imporre anche il lavoratore fornisca al ddl le indicazioni in ordine al
proprio domicilio ed informi lo stesso nel caso di variazioni, da ciò capiamo
che in caso di mancato tempestivo aggiornamento, la comunicazione si
intende perfezionava se effettuata all' ultimo domicilio. Il ddl deve infatti,
poter far riferimento, per ogni eventuale comunicazione, su di un indirizzo
presso cui sia possibile reperire il lavoratore.
Se il contratto collettivo non prevede nulla a riguardo, o non né preveda l'
applicazione al rapporto in essere tra le parti, pare sussistere in ogni caso un
obbligo di comunicazione, secondo il principio di BF e correttezza, che
presiede al diritto delle obbligazioni.
Il c. 5 art. 7 riconosce alle parti la facoltà di farsi assistere dalle
organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato,
da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, da un
avvocato o da un consulente del lavoro.
Viene introdotto anche un termine, non perentorio, entro cui la procedura
dovrebbe concludersi, entro 20 giorni dal momento in cui la DTL ha
trasmesso la convocazione per l' incontro. → all' interno di tali 20 giorni si
devono computare anche quelli necessari alla ricezione della convocazione
trasmessa dalla DTL.

81
Inoltre risulta poco chiaro quale sia il DIES A QUO da prendere a
riferimento per il computo del termine in questione, ovvero se debba
considerarsi quale dies a quo il momento dell' invio della comunicazione
contenente la convocazione dell' incontro, o se, invece, si debba fare
riferimento alla data in cui deta comunicazione giunge a destinazione. In
questo ultimo caso il termine assunto per la decorrenza dei 20 giorni
potrebbe non coincidere per entrambe le parti, ben potendo ciascuna ricevere
la comunicazione in tempi diversi. → il termine è ordinatorio, la sua
violazione non comporta sanzioni.
L' intera procedura, quindi, è scandita in ciascuna sua fase al fine di evitare
procrastinazioni, tuttavia il carattere non perentorio del termine entro cui
essa deve concludersi trova conferma anche nella facoltà delle parti di
concordare la prosecuzione della discussione, anche oltre la scadenza, al fine
di raggiungere un accordo.
Inoltre il comma 9 art. 7 prevede che la procedura può essere sospesa, a
discrezione della DTL, per un periodo massimo di 15 giorni, nel caso di
legittimo e documentato impedimento del lavoratore; tale facoltà invece non
viene riconosciuta al ddl.
Nell' espletare la procedura, le parti sono tenute, con la partecipazione attiva
della commissione di conciliazione, ad esaminare anche soluzioni alternative
al licenziamento, prendendo anche in considerazione le indicazioni del ddl in
ordine alla ricollocazione del lavoratore nel mercato, contenute nella
comunicazione di avvio del procedimento.
Non si comprende tuttavia, quale ruolo attivo possa effettivamente avere la
commissione, tenuta a gestire una situazione di cui potrebbe avere solo una
conoscenza attraverso la lettera di avvio del procedimento.
Da quanto emerge al comma 8 art. 7, sembrerebbe che la commissione
provinciale di conciliazione debba procedere ad una proposta di
conciliazione, il cui rifiuto verrà successivamente valutato dal giudice al fine
della determinazione dell' indennità risarcitoria di cui all' art. 18 c. 7
nulla viene detto dalla norma in merito ai rapporti tra la proposta avanzata in
sede amministrativa dalla DTL e la proposta transattiva anche il giudice è
tenuto a formulare alle parti nel corso della prima udienza, potendo il
giudicante sia distanziarsene, sia prenderne liberamente spunto.

82
2.3.GLI ESITI DEL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE (una volta
concluso)
il ddl può procedere a comunicare il licenziamento, anzitutto, senza
espletare alcuna procedura allorchè sia decorso il termine previsto dall' art. 7
c. 3 , ovvero allorchè la DTL non abbia proceduto a trasmettere alle parti la
convocazione dell' incontro.
La natura perentoria del termine per la convocazione comporterebbe la
necessaria conseguenza che, una volta decorso inutilmente lo stesso, la DTL
sarebbe decaduta dalla facoltà di indire l' incontro, essendo consumato il
relativo potere, a danno soprattutto di un terzo incolpevole, quale il
lavoratore. La legge nulla prevede in merito ai vizi che affliggerebbero la
procedura tardivamente indetta dalla DTL, né in merito alla eventuale
sanabilità. Il legislatore della riforma, peraltro, non ha disposto che il
mancato espletamento della procedura comporti l' improcedibilità, intesa
come impossibilità di procedere al recesso; pertanto, la mancata attuazione
della procedura non paralizza il potere del ddl di procedere al licenziamento.
Se sussistono i motivi a giustificazione del recesso, infatti, il mancato
espletamento del procedimento non preclude al ddl la possibilità di recedere,
non essendo stata stabilita l' invalidità del licenziamento così intimato.
Peraltro, si deve dare atto, che la sanzione di carattere indennitario
risarcitorio, disposta dal c. 6 art. 18 st.lav. È stata prevista per le violazioni
della procedura, sempre purchè il licenziamento sia sostenuto da reali
giustificazioni sostanziali, non, invece, nel caso di mancato espletamento del
tentativo di conciliazione. Poiché si ritiene che possa essere viziato solo un
atto che esiste, di conseguenza si dovrebbe concludere che il mancato
espletamento della procedura non possa comportare l' applicazione delle
sanzioni di cui al comma 6, ma che, dinanzi al vuoto normativo, l' inesistenza
della procedura possa portare alla presunzione di mancanza dei motivi stessi
del recesso, con tutte le conseguenze del caso. Un problema si ha nel caso in
cui il ddl, non avendo ricevuto alcuna convocazione nel termine di 7 giorni
dalla avvenuta ricezione da parte della DTL della comunicazione di cui al
comma 2 art. 7, intenda dare seguito al licenziamento → infatti, non si
comprende se già l' ottavo giorno dal ricevimento da parte della DTL della
comunicazione di avvio del procedimento il ddl possa (in mancanza di
ricevimento della convocazione) procedere al recesso, o se, invece, debba
83
rimanere in attesa per un certo periodo, decorso il quale sia lecito presumere
che, in ragione dei mezzi utilizzati dalla DTL, per trasmettere la
convocazione, possa intendersi decorso il termine di 7 giorni, agli effetti di
cui all' art. 7. un' ulteriore questione è individuare quali siano le conseguenze
nel caso in cui il ddl, decorsi 7 giorni dal ricevimento della comunicazione di
avvio del procedimento, intimi il licenziamento e, successivamente, giunga
la convocazione dell' incontro fissato dalla DTL. In tal caso, se la DTL abbia
proceduto alla trasmissione (ovvero all' invio, effettuato attraverso i
strumenti a disposizione quali la posta certificata o la RRR) entro il termine
perentorio, si dovrebbe escludere l' avvenuta decadenza, anche in
applicazione dei principi espressi dalla corte costituzionale, la quale ha
chiarito che l' impugnazione del licenziamento si intende validamente
effettuata dal prestatore di lavoro allorchè essa venga inviata entro il termine
di decadenza, senza considerare il momento del ricevimento della stessa
impugnazione. Questa potrebbe essere una soluzione, che però non
preserverebbe il ddl dalle conseguenze sanzionatorie di un licenziamento
comunque intimato senza l' espletamento della procedura, fatto salva la
possibilità di revocare il recesso.
Il problema prativo sarebbe superabile con l' uso di strumenti di trasmissione
della comunicazione, quali la posta elettronica certificata, di cui i ddl, che
sono i soggetti maggiormente interessati alla verifica del rispetto del termine,
dovrebbero essere dotati (se svolgono la propria attività sotto forma di
impresa) e che garantisce una coincidenza tra invio e ricezione della
comunicazione. Se il ddl fosse comunque interessato a dare seguito al
procedimento di conciliazione, nonostante la intervenuta decadenza, la
partecipazione delle parti, potrebbe sanare la decadenza in cui è incorsa la
DTL con la tardiva trasmissione della convocazione. Se il tentativo di
conciliazione fallisce, cioè non si raggiunge un accordo, o per assenza o
abbandono , il ddl potrà procedere al licenziamento, i cui effetti decorreranno
dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato; così
avviene anche nel caso di licenziamento intimato a seguito di decorso del
termine previsto per l' invio della convocazione da parte della DTL, il
licenziamento avrà efficacia dal ricevimento della comunicazione di avvio
del procedimento , inviata per conoscenza al lavoratore dal datore. In
entrambe le ipotesi la lettera di licenziamento dovrà contenere le stesse
84
ragioni giustificative riportate nella comunicazione di avvio della procedura.
Tra la conclusione del procedimento e la comunicazione del licenziamento
non dovrà decorrere un lasso di tempo tale da far presumere che manchi un
nesso di causalità tra le ragioni del recesso sostenute durante la procedura del
tentativo di conciliazione ed il licenziamento stesso. Il termine di 60 giorni
previsto dall' art. 6 l. 604 per l' impugnazione del licenziamento decorrerà dal
momento della comunicazione dello stesso, e quindi alla fine della
procedura.
L' art. 7 l. 604 prevede due ulteriori distinti epiloghi al tentativo di
conciliazione, ovvero il caso din un esito positivo e di una risoluzione
consensuale → infatti l' obiettivo della procedura è quello di favorire ed
incentivare l' accordo tra le parti.
Le due ipotesi sono poste dal legislatore sullo stesso piano (lo notiamo dalla
congiunzione E che le collega), ciò porta a concludere che l' obiettivo della
conciliazione sia raggiunto tanto con la conclusione di un accordo, quanto
attraverso una risoluzione consensuale che viene considerata un esito
comunque positivo, specialmente se accompagnata, come avviene di solito,
da un qualche tipo di incentivo economico, che potrebbe rappresentare una
sorta di surroga della indennità risarcitoria prevista, invece, a titolo di
sanzione dell' art. 18 all' esito di un giudizio. La risoluzione consensuale
viene considerata epilogo positivo del tentativo di conciliazione in quanto il
lavoratore potrà fruire dei benefici di cui alla normativa in materia di
assicurazione sociale per l' impiego ASPI disciplinata dall' art. 2 l. 92. si
tratta di un' eccezione alla regolamentazione prevista per questo nuovo
ammortizzatore sociale, che normalmente esclude il riconoscimento dell'
indennità di cui al comma 1 per i lavoratore che siano cessati dal rapporto di
lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto, facendo
espressamente salvi appunto i casi in cui quest' ultima sia avvenuta nell'
ambito della procedura di cui all' art. 7 604. se è pacifico che il beneficio
dell' ASPI potrà essere chiesto dal lavoratore che abbia risolto il rapporto di
lavoro consensualmente all' esito del tentativo di conciliazione, in deroga alla
regola generale, la legge nulla dice in ordine all' ulteriore requisito
(disciplinato dalla lettera B, comma 4 art. 2 l. 92) richiesto al fine di poter
fruire dell' ammortizzatore sociale, ovvero aver maturato almeno due anni di
assicurazione ed almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l'
85
inizio del periodo di disoccupazione. Tuttavia Il riconoscimento dell' ASPI
ai lavoratori che abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro all'
esito della procedura di cui all' art. 7 l. 604 potrebbe essere considerato una
fattispecie dotata, in ragione del proprio carattere eccezionale, di una
specifica autonomia, collocandosi al di fuori delle ipotesi e dei rispettivi
requisiti richiesti in linea generale dalla legge. L' ASPI troverà applicazione
per i nuovi eventi di disoccupazione verificatesi a decorrere dal primo
gennaio 2013. ci si chiede allora, quale sia la sorte per i lavoratori che
abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro nell' ambito della
procedura di cui all' art 7 dopo il 18 luglio 2012, dopo la riforma Fornero.
Essi si troveranno in una sorta di INTERREGNO tra la vecchia disciplina,
che nulla riconosceva ai lavoratori cessati a seguito di una risoluzione
consensuale (salvo nei casi in cui si riuscisse a dimostrare il carattere
involontario della disoccupazione) e la nuova normativa, non potendo
beneficiare di alcuna indennità di disoccupazione. Pare doversi concludere
che il ddl che risolva un rapporto di lavoro consensualmente prima del 1
gennaio 2013 all' esito del tentativo di conciliazione, non sarà tenuto a
corrispondere il contributo per l' ASPI, di cui all' art. 2 c. 31 l. 92, invece,
imposto a partire dal 1 gennaio 2013 in caso di interruzione del rapporto di
lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dqalle dimissioni del
lavoratore. Nell' accordo che dispone la risoluzione consensuale potrà essere
previsto l' affidamento del lavoratore ad un' agenzia per il lavoro, al fine di
agevolarne il ricollocamento professionale. Il riferimento è alle agenzie di
somministrazione, ma sarebbe stato piuà corretto rinviare alle agenzie di
supporto alla ricollocazione professionale; in ogni caso, si tratta di una
previsione superflua, visto che le parti potrebbero comunque includere nello
stesso accordo il riconoscimento di un servizio di OUTPLACEMENT, come
di fatto spesso avviene.
Si ritiene che la risoluzione del rapporto raggiunta davanti la DTL non
necessiti della convalida avanti le sedi indicate dall' art. 4 comma 17 l. 92. l'
accordo raggiunto all' esito della procedura di cui all' art. 7, infatti,
rappresenta l' esito di un processo in cui la volontà delle parti protagoniste
della stessa, in particolare del lavoratore, risulta essere già stata debitamente
assistita.

86
Il tentativo di conciliazione può concludersi con un esito positivo, diverso
rispetto ad una risoluzione consensuale, ovvero con un accordo i cui
contenuti possono peraltro essere i più vari, a partire dalla possibilità che il
ddl abbandoni l' intenzione di procedere al licenziamento, lasciando invariata
la posizione del lavoratore. Le parti potrebbero invece, arrivare ad un
accordo che comporti la conservazione della posizione lavorativa, con
detrimento di altri aspetti del rapporto di lavoro ad esempio, la ricollocazione
del lavoratore in altra sede di lavoro, la sospensione temporanea del
rapporto, la rinuncia ad una parte della retribuzione eccedente la paga base.
Dinanzi ad una eventuale proposta di modifica in peius delle mansioni ci si
scontrerebbe con l' inderogabilità dell' art. 2103, di recente oggetto di un'
interpretazione più elastica da parte della giurisprudenza che, quale via
alternativa ad un licenziamento considerato extrema ratio, sembra
riconoscere la legittimità di un inquadramento in mansioni inferiori del
lavoratore interessato. Il ddl, una volta espletato il tentativo di conciliazione,
in mancanza di una soluzione alternativa, potrebbe decidere di procedere ad
intimare il licenziamento, accompagnando il recesso con un accordo che
consenta al lavoratore una ricollocazione professionale, anche attraverso l'
affidamento del prestatore di lavoro ad una agenzia per il lavoro, come
previsto dall' art. 7 c. 7, che si ritiene applicabile anche al caso di specie e
non solo all' ipotesi di risoluzione consensuale.
Il comportamento tenuto da ciascuna parte nell' espletamento della
procedura, desumibile anche dal verbale redatto dalla commissione
provinciale di conciliazione e dalla condotta conseguente alla proposta
conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato sia ai fini della misura dell'
indennità risarcitoria (nel caso in cui sia accertata la manifesta insussistenza
del fatto o non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo) sia ai fini della determinazione delle spese legali, ai sensi degli
art. 91 e 92 cpc. In caso di violazione della procedura preliminare al
licenziamento per giustificato M. Oggettivo, trova applicazione il regime di
cui al comma 6 art. 18, con la previsione di una riduzione dell' indennità
risarcitoria tra 6 e 12 mensilità dall' ultima retribuzione globale di fatto,
determinata in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale
commessa dal ddl. In tal caso, il comportamento tenuto dalle parti durante il
tentativo di conciliazione non riveste alcun rilievo ai fini della
87
determinazione dell' indennità, diversamente da quanto previsto dal c. 7 art
18. notiamo quindi una modestia del regime sanzionatorio che è indice di
una svalutazione della forma e delle regole procedurali del licenziamento,
che perdono la funzione di garanzia e trasparenza (più volte messa in luce
dalla corte cost. In materia di licenziamento disciplinare) dell' esercizio di un
potere unilaterale riconosciuto al ddl.

88
Capitolo XII
L’impugnazione del licenziamento
Di Enrico Barraco e Andrea Sitza

1.I nuovi termini di impugnazione del licenziamento


Ai sensi dell’art.1. comma 38 della riforma del 2012 il termine per
l’impugnazione giudiziale è stato ridotto da 270 a 180 gg con espressa
regolazione del profilo intertemporale: la riduzione si applica solo ai
licenziamenti (individuali e collettivi)intimati dopo il 18 luglio 2012, si
applicano anche a tutti i casi di invalidità.

2.Fattispecie assimilate e impugnazione del contratto a tempo


determinato
Il descritto meccanismo impugnatorio si applica anche alle seguenti ipotesi:
 Licenziamenti che basano la soluzione di questioni relative alla
qualificazione del rapporto di lavoro/nullità termine
 Recesso del committente nei rapporti di lavoro parasubordinato
 Trasferimento d’azienda
 Somministrazione irregolare di appalto
A tal punto possiamo considerare che il lavoratore ha un termine che può
arrivare a 240 gg (60 imp.stragiudiz+180 giudiz). Il lavoratore che invece
intenda far valere la nullità del termine ha a disposizione un tempo più
ampio(120stragiudiz.+180giudiz)

3.Il termine per l’impugnazione giudiziale e il nuovo rito speciale per le


controversie sui licenziamenti regolati dall’art.18 st.lav: profili
sostanziali

89
La riforma 2012 ha introdotto un rito speciale per le controversie aventi ad
oggetto impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.18st.lav.
Il giudice dovrebbe con l’ordinanza dichiarare la domanda inammissibile con
pronunzia di rigetto in rito, in quanto l’ammissibilità del rito si presenta
come un presupposto processuale.

Capitolo XIII
LA MOTIVAZIONE E LA DECORRENZA DEGLI EFFETTI DEL
LICENZIAMENTO INDIVUDALE
Di Claudio Fabris
Cosa NON cambia con la riforma:
La nozione di “giustificato motivo oggettivo”, che resta invariata e continua
a essere dettata dall’art. 3
della legge n. 604/1966, ai sensi del quale il licenziamento per giustificato
motivo è determinato «…. da ragioni
inerenti al!’ attività produttiva, a!l ’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa».
Cosa cambia con la riforma:
• Obbligo di motivazione
• Introduzione di una procedura obbligatoria di conciliazione
• Regime sanzionatorio
90
Obbligo di motivazione
In base alla disciplina previgente il datore di lavoro non aveva l’obbligo di
indicare la motivazione nella lettera di licenziamento ma il lavoratore poteva
chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che avevano
determinato il recesso. In tal caso, il datore di lavoro doveva, nei 7 giorni
dalla richiesta, comunicarli per iscritto. La nuova formulazione dell’art. 2,
comma II, della legge n. 604/1966 prevede ora, a pena di inefficacia, che la
comunicazione del licenziamento deve contenere la SPECIFICAZIONE dei
motivi che lo hanno determinato, non essendo più possibile comunicarli in
un momento successivo.
La procedura di conciliazione preventiva
Ai sensi del nuovo art. 7 della legge n. 604/1966, prima di procedere al
licenziamento, il datore di lavoro che abbia i requisiti dimensionali prescritti
dalla legge per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (più di
15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di
60 nell’ambito nazionale) deve OBBLIGATORIAMENTE esperire una
procedura volta all’esame congiunto dei motivi posti a base del recesso e
finalizzata al raggiungimento di un eventuale accordo tra le parti.
Il datore di lavoro deve inviare alla DTL del luogo dove il lavoratore presta
la sua opera, una comunicazione in cui dichiara l’intenzione di procedere al
licenziamento e indica i motivi del licenziamento e le misure di assistenza
alla ricollocazione del lavoratore. La comunicazione deve essere trasmessa
per conoscenza anche al lavoratore.
La Direzione territoriale del lavoro convoca il datore di lavoro e il lavoratore
nel termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta. In caso di
mancata convocazione da parte della DTL entro il termine di 7 gg., il datore
di lavoro può procedere
al licenziamento. La comunicazione contenente l’invito si considera
validamente effettuata quando è recapitata al domicilio
che il lavoratore ha indicato nel contratto di lavoro od altro domicilio
formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro ovvero è
consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta. In caso di
legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare
all’incontro la procedura può essere sospesa per un periodo max. di 15 gg.

91
A. Fattispecie: “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato
motivo oggettivo (art. 18, comma 7, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• il Giudice Può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro
• indennità risarcitoria pari ad un massimo di 12 mensilità, dedotto quanto il
lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di
altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum), nonché quanto avrebbe
potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova
occupazione (c.d. “aliunde percipiendum”)
• versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
Resta salvo il diritto del lavoratore di optare per l’indennità sostitutiva della
reintegrazione - pari a 15 mensilità - entro trenta giorni dalla sentenza ovvero
dall’invito del datore del lavoro a riprendere servizio (art. 18, comma 3,
Statuto dei Lavoratori).
B. Fattispecie: altre ipotesi (diverse dalla “manifesta insussistenza”) in cui
non ricorrono gli
estremi del giustificato motivo oggettivo (art. 18, comma 7, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro
• indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e
un massimo di 24 mensilità, tenuto conto del numero dei dipendenti
occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e
delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione al riguardo
(art. 18, comma 7, Statuto dei Lavoratori)
C. Fattispecie: mancata indicazione dei motivi nella lettera di recesso;
violazione della procedura di conciliazione preventiva introdotta dalla
riforma (art. 18, comma 6, Stat. Lav.)
Sanzioni:
• non opera più la reintegrazione
• indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 6 e un
massimo di 12 mensilità, dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere
di specifica motivazione al riguardo (art. 18, comma 7, Statuto dei
Lavoratori) Se il Giudice accerta, sulla base della domanda del lavoratore,
che vi è anche un vizio di giustificazione del licenziamento applica, in luogo
92
del regime summenzionato, le tutele previste per i licenziamenti disciplinari
o economici, già esaminate.

CAPITOLO XIV
LA REVOCA DEL LICENZIAMENTO
Di Irene Corso

La legge 92/2012, meglio conosciuta come Riforma Fornero, ha apportato


numerose ed incisive modifiche al mercato del lavoro. Tra le novità
apportate, in tale sede, ci soffermeremo sull’istituto della revoca del
licenziamento, che grazie a tale riforma trova il suo fondamento giuridico.
Fino ad allora, infatti, tale fattispecie non era prevista da alcuna norma.
Com’è noto il licenziamento è una delle cause di estinzione del rapporto di
lavoro subordinato. La comunicazione del licenziamento, avendo natura
di atto unilaterale recettizio, soggiace alla disciplina dettata dagli artt.
1334 e 1335 del c.c. la quale chiaramente stabilisce che “gli atti unilaterali
producono effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza della
persona alla quale sono destinati”. Ed è per tale motivo che, sino all’entrata
93
in vigore dell’ultima riforma del lavoro, il datore di lavoro non poteva
unilateralmente revocare il licenziamento, in quanto era necessario il
consenso del lavoratore. In caso di consenso alla revoca del licenziamento da
parte del lavoratore, come da consolidata giurisprudenza, veniva riconosciuto
al lavoratore, per il periodo di effettiva interruzione del rapporto, a titolo di
risarcimento del danno, un importo di misura non inferiore a cinque
mensilità. A differenza di quanto avveniva ante riforma Fornero, a partire dai
licenziamenti intimati dal 18/07/2012, la legge 92/2012 riconosce la facoltà
al datore di lavoro di revocare il licenziamento indipendentemente dal
consenso del lavoratore. La revoca del recesso può essere effettuata entro 15
giorni dall’impugnazione del licenziamento e non dalla comunicazione del
licenziamento. Pertanto, considerando che il lavoratore ha a disposizione 60
giorni di tempo per impugnare il licenziamento, la procedura di revoca
prevede un limite temporale massimo di 75 giorni. A seguito della revoca il
rapporto di lavoro risulterà ricostituito, come se non fosse mai stato
interrotto, con diritto alle retribuzioni non percepite dal licenziamento alla
ripresa del servizio. Alla luce di quanto sopra evidenziato, la norma
attribuisce al datore di lavoro un vero e proprio diritto potestativo, il cui
esercizio determina la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro. Ne
consegue che il lavoratore non può rifiutare la revoca e se non riprenderà
servizio, sarà considerato come assente ingiustificato e sottoposto a
procedimento disciplinare. L’istituto della revoca del licenziamento nasce
dall’esigenza di ridurre il contenzioso che ogni anno consta di un numero
ragguardevole di cause. La riduzione delle controversie di lavoro sia in sede
extragiudiziale che in sede giudiziale, si tramuta in una ulteriore riduzione di
costi nonché nell’annullamento di lungaggini burocratiche. Basti pensare al
vantaggio che trarrà il datore di lavoro che applica l’istituto della revoca, in
caso di impugnazione del licenziamento illegittimo da parte di un lavoratore,
in termini di spese legali, ma soprattutto nella mancata applicazione (in caso
di accertata illegittimità del licenziamento) delle tutele previste dalla legge
anche alla luce delle recenti modifiche (tutela reale ed obbligatoria). Dal
canto suo, il lavoratore licenziato potrà nuovamente riprendere l’attività
lavorativa, evitando dunque tutte le conseguenze economiche e non solo
derivanti dalla perdita del posto di lavoro. Tuttavia il lavoratore, qualora non
ritenga piò opportuno continuare la propria attività lavorativa presso il
94
medesimo datore di lavoro, potrà sempre rassegnare le proprie dimissioni. Il
ripensamento da parte del lavoro di lavoro che ha intimato il licenziamento
ad un dipendente, può avvenire non solo a seguito di impugnazione di
licenziamento disciplinare ma anche, e forse soprattutto, nei casi di
licenziamento per motivi economici (giustificato motivo oggettivo). Per
esempio ad un’azienda edile alla quale abbiano revocato una commessa di
lavoro e dopo qualche tempo gli venga nuovamente concessa.
L’imprenditore, suo malgrado, sarà costretto a licenziare il personale ma, al
verificarsi della riassegnazione della commessa, potrà revocare il
licenziamento ai propri dipendenti. L’istituto della revoca del licenziamento
non si applica solo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ma
anche quelli legati a provvedimenti disciplinari. Il datore di lavoro, in seguito
all’adozione del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta
causa o giustificato motivo soggettivo, può sempre ravvedersi, in seguito
all’emersione, ad esempio, di nuovi elementi giustificativi da parte del
lavoratore o a seguito di una più attenta riflessione circa la gravità del
comportamento posto in essere dal lavoratore e che ha dato luogo al
licenziamento.

95
CAPITOLO XV
I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Di Andrea Sitza

Si parla di licenziamento collettivo per indicare l'ipotesi nella quale una


impresa, per motivi di crisi, di ristrutturazione aziendale o di chiusura
dell'attività, effettua una importante riduzione del personale. I licenziamenti
collettivi sono possibili soltanto in casi specifici individuati dalla legge e
unicamente dopo la conclusione di un complesso procedimento al quale
prendono parte anche le rappresentanze sindacali. Il datore di lavoro non è
libero nella scelta dei lavoratori da licenziare dal momento che la legge
stabilisce dei criteri ai quali questo deve attenersi nel predisporre la lista dei
dipendenti interessati.

2.Il procedimento
96
L’impresa che intende procedere ad un licenziamento collettivo nelle ipotesi
previste nel paragrafo precedente è obbligata ad informare in primo luogo le
rappresentanze sindacali presenti in azienda ed i Sindacati maggiormente
rappresentativi.
Il datore di lavoro, in particolare, deve specificare quali sono i motivi che
hanno condotto alla decisione di dare corso ai licenziamenti e soprattutto per
quali ragioni ritiene impossibile utilizzare strumenti diversi da quelli del
licenziamento.
Nella comunicazione l’impresa deve chiarire anche quali misure intende
mettere in atto preliminare o ridurre l’impatto sociale che deriva dai
licenziamenti. Questo aspetto è particolarmente importante nelle ipotesi in
cui il licenziamento collettivo riguarda grandi società che occupano molti
lavoratori in un determinato ambito territoriale e il numero dei dipendenti
interessati dal licenziamento è elevato. Una copia della comunicazione va
poi inviata anche all’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione (UPLMO).I sindacati hanno la facoltà di richiedere un esame
congiunto della pratica entro sette giorni dal ricevimento della
comunicazione. A questo punto si apre una fase nella quale le parti
esaminano la situazione concreta dell’impresa per trovare un accordo con il
quale è possibile stabilire dei criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare
differenti rispetto a quelli previsti dalla legge n. 223/1991.La procedura ha
una durata massima di 45 giorni dopodichè l’impresa deve comunicare per
iscritto all’UPLMO l’esito della consultazione specificando i motivi di un
eventuale mancato accordo.
In caso di mancato accordo l’UPLMO ha il potere di riconvocare le parti
per tentare di trovare un’intesa. Questa seconda fase della procedura ha una
durata massima di 30 giorni terminati i quali, anche in mancanza di accordo,
l’impresa può procedere ai licenziamenti. Se il datore di lavoro decide di
licenziare uno o più dirigenti si applicano le procedure di mobilità con
regole sostanzialmente analoghe a quelle previste per il licenziamento
collettivo degli altri lavoratori. Se vengono violate le regole che disciplinano
la procedura o i criteri di scelta per il licenziamento dei dirigenti il datore di
lavoro è sanzionato con il pagamento, in favore del dirigente ingiustamente
allontanato, di un'indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura
97
e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura
dell'indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al
rapporto di lavoro.

3.Criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare


La scelta dei lavoratori da licenziare non è libera. L’impresa infatti deve
attenersi ai criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva.
Se i contratti collettivi nello specifico non prevedono nulla la legge n.
223/1991 stabilisce dei criteri generali in base ai quali l’individuazione dei
lavoratori da licenziare deve avvenire considerando:
 i carichi di famiglia (ovverosia l’impatto che un eventuale
licenziamento può avere in relazione alla presenza di un coniuge a carico e del
numero dei figli)

 l’anzianità del lavoratore (tenendo conto del principio per il quale un


lavoratore molto anziano trova maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo del
lavoro)

 le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa.


Tuttavia all’interno degli accordi tra impresa e sindacati raggiunti al termine del
procedimento di cui abbiamo parlato al paragrafo precedente, è possibile che le
parti stabiliscano dei criteri diversi da quelli previsti dalla legge.
Nel derogare ai principi di legge, tuttavia, le parti devono comunque rispettare i
principi:

 di non discriminazione (sindacale, religiosa, politica, sessuale,


linguistica ecc)

 di razionalità (in particolare i criteri adottati devono


essere coerenti con le ragioni aziendali che sono alla base della richiesta di
mobilità).

Le sanzioni in caso di violazione delle regole procedurali


La sanzione contro i licenziamenti collettivi effettuati in violazione delle
regole che disciplinano la procedura o i criteri di scelta (concordati o imposti
dalla legge) sino all'entrata in vigore del c.d. Jobs Act era rappresentata dal
98
potere del Giudice di disporre il reintegro del lavoratore. Questa regola è
stata profondamente modificata dal D.Lgs. n. 23/2015 che, è bene ricordarlo,
si riferisce tendenzialmente solo ai licenziamenti a carico di lavoratori con
qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti a partire dal 7 marzo 2015 con
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Con riferimento a
questi rapporti, infatti, si applicano le sanzioni previste per il licenziamento
illegittimo per giustificato motivo oggettivo.

CAPITOLO XVIII
DIMISSIONI E RISOLUZIONE CONSENSUALE
Di Maria Giovanna Mattarolo e Alessia Muratorio

1.Le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro della


lavoratrice madre e del lavoratore padre

99
L’ordinamento ritiene che nel periodo di vita del bambino la libertà negoziale
della donna possa essre particolarmente esposta a condizionamenti e
pressioni del datore di lavoro.

1.1.I precedenti
Il primo intervento normativo nella direzione di un controllo della reale
volontà della donna di dimettersi si ha con il regolamento delle lavoratrici
madri che imponeva le dimissioni presentate durante il periodo di vigenza
del divieto di licenziamento e fossero comunicate anche all’ispettorato del
lavoro per la convalida, che era condizionata la risoluzione del rapporto di
lavoro, era una norma nulla in quanto nulla precisava sulla questione
afferente l’organizzazione e la competenza regolamentare. Con
l’approvazionedell’art.18 comma 2 della l.53 del 2000 si è prevista la
richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o lavoratore durante il
primo anno di vita del bambino o nel 1 anno di accoglienza del minore
adottato convalidata dal servizio ispezione della direzione provinciale del
lavoro, da un lato limitava il periodo protetto non tenendo conto del periodo
di gravidanza, dall’altro estendeva la tutela anche al padre secondo linea di
endenza,parificava in oltre le figure dei genitori naturali a quelli adottivi
nelle direttive della Corte Cost.

1.2. Le modifiche della l.92 del 2012 all’art.55,4 comma,dlgs 151/01


Con l’art.4 comma 16 della l.92 la disciplina delle dimissioni da parte dei
genitori viene modificata:
 E’ introdotta la stessa regola procedurale sia per dimissioni sia per
risoluzione consensuale
 Aumenta da 1 a 3 anni il periodo protetto
Una ulteriore novità è introdotta anticipa l’obbligo di convalida delle
dimissioni per i genitori che effettuino una adozione internazionale.In
conclusione la convalida delle dimissioni o della risoluzione consensuale del
rapporto è richiesta ora per la lavoratrice durante il periodo di gravidanza e
fino a 3 anni del bambino, per il lavoratore padre fino a 3 anni del figlio; per
entrambi i genitori adottivi o affidatari per i primi tra anni di accoglienza del
minore, ma se si tratta di adozione internazionale il termine si computa dalle
comunicazioni anzidette.
100
2.3Le conseguenze della mancata convalida delle dimissioni
In caso di mancata convalida delle dimissioni si dispone che “a detta
convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del
rapporto di lavoro, quindi tale condizione si perfezione solo con la
convalida,in quanto vale come l’avverarsi di una condizione sospensiva.
Manca però il termine entro il quale deve avvenire la convalida delle
dimissioni. Il venir meno della possibilità di convalida in relazione ad un
termine perentorio non farebbe che rendere definitiva l’inefficacia delle
dimissioni, e di conseguenza il datore di lavoro sarebbe meramente liberato
dall’obbligo retributivo finché manca la controprestazione lavorativa o
almeno finche non vi sia stata formale offerta della lavoratrice a riprendere il
lavoro.
3.La disciplina delle dimissioni nella l.188/07
Tale norma era volta esclusivamente a limitare la pratica delle dimissioni in
bianco, ossia di quelle dimissioni sottoscritte dal lavoratore in genere al
momento dell’assunzione su foglio senza data trattenuto dal datore di lavoro
che avrebbe provveduto a completarlo qual’ora avesse deciso di chiudere il
relativo rapporto di lavoro. Così il legislatore stabilì che nella lettera di
dimissioni volontarie fosse presentata dai lavoratori su appositi moduli
riportanti la data di emissione e aventi una validità temporale di 15 giorni.
Secondo alcuni la nuova disciplina non era applicabile ad ogni caso di
dimissioni ma solo a quelle presentate per iscritto e non toccava la regola
delle dimissioni orali; nulla era previsto per le risoluzioni consensuali.

4.La nuova disciplina delle dimissioni e della risoluzione consensuale del


rapporto applicabile a tutti i lavoratori subordinati
Il nuovo intervento legislativo è diretto (secondo il legislatore) ad accertare
la veridicità della data delle dimissioni ma anche a verificare l’autenticità
della manifestazione di volontà della lavoratrice/lavoratore in merito alla
risoluzione del rapporto. È applicabile ad ogni tipo di dimissione tranne ai
casi di maternità e paternità ma è estesa ai lavoratori sub e para sub.
Le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto non possono
produrre l’estinzione del rapporto stesso se non si verifica una delle seguenti
condizioni sospensive:
101
 Convalida: effettuata presso le sedi competenti
 Sottoscrizione: da parte della lavoratrice/lavoratore di apposita
dichiarazione

4.1.La convalida
Da effettuarsi presso apposita Direzione territoriale del lavoro, anche se la
legge usa lo stesso termine per convalida sia di dimissioni del padre che della
madre il significato è notevolmente diverso nelle 2 ipotesi, già
nell’approvazione una dalla direzione territoriale l’altra dal servizio ispettivo
del ministero. La convalida può avvenire anche presso le sedi individuate dai
Cont.Collettivi Cgil, cisl e uil. L’accordo stabilisce la relativa procedura
richiamando le disposizioni del codice di procedura civile, se si raggiunge la
conciliazione le dimissioni produrranno effetto ma se per cause diverse la
conciliazione fallisse le dimissioni resterebbero improduttive non ostante a
volontà del lavoratore di porre fine al rapporto di lavoro.

4.2.La sottoscrizione di conferma


Con la sottoscrizione si tende alla semplice conferma della veridicità della
data, ma come possono essere imposte le dimissioni potrebbero essere
imposte le sottoscrizioni e dunque potrebbe di fatto essere contraddetta la
affermata finalità della legge verificare la autenticità della manifestazione del
lavoratore di interrompere il rapporto di lavoro.

5.La revoca delle dimissioni


La revoca delle dimissioni è un atto unilaterale e recettizio che debba
avvenire prima che questo sia giunto alla conoscenza del destinatario: in
questo caso si da seguito al c.d. diritto al ripensamento. Il lavoratore può non
convalidare le dimissioni, revocarle nel lasso di tempo assegnato, ovvero nei
casi + gravi ricorre all’azione di annullamento. Nelle ipotesi di revoca per
vizio è necessario individuare un errore proprio nel significato proprio
dell’agire o deve trattarsi di un rilevante errore di diritto non riconoscibile
dal datore di lavoro nella valutazione di quanto a fondamento delle
dimissioni. Il termine secondo il quale il lavoratore o la lavoratrice possono
revocare le proprie dimissioni in 7 giorni, termine per convalidarle sarebbe
questo il termine secondo il quale poter bloccare una dimissione. Il
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legislatore ha voluto procedimentalizzare il diritto di ripensamento senza
comprimere la posizione datoriale, in tale periodo di 7 giorni in cui vi è la
possibilità di revocare la propria decisione decorre dal momento in cui il
lavoratore riceve l’invito datoriale a convalidare le proprie dimissioni ovvero
a sottoscriverle.

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