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Alle sorgenti del teatro moderno: i nuovi «giochi» della commedia

ariostesca

Nicola Bonazzi

Il credito fornito alle date come a puntelli su cui fissare lo svolgimento dell'ampia tela dei fatti storici
per ricavarne una cronologia che fermi, in maniera rudimentale, gli avvenimenti più rilevanti, anche a
costo di semplificazioni poi difficilmente estirpabili, ha elevato quella della prima rappresentazione
della Cassaria (1508) a momento fondativo della commedia in volgare1.
Al solito, è solo la lettura che può fornire la riprova di un'opinione ormai acquisita e su cui si dimentica
spesso di esercitare una pur minima verifica.
Così, aprendo il prologo della prima commedia ariostesca, si vedrà qual grado di consapevolezza
muovesse lo scrittore ferrarese nell'affrontare i casi piuttosto avviluppati delle due coppie di giovani
Erofilo-Eulalia e Caridoro-Corisca: consapevolezza di uno scarto dai modelli latini2 e della necessità di
un nuovo registro comico che poggiasse su «giochi» scenici ma soprattutto linguistici, in grado di
riscattare la fragilità del volgare, qui chiamato alla sua prima, impegnativa prova teatrale:

la vulgar lingua, di latino mista,


è barbara e mal culta, ma con giochi
si può far una fabula men trista.3

La distanza della nuova commedia in volgare da quella latina costituirà poi quasi sempre l'argomento
del prologo dei successivi testi teatrali di Ariosto, a partire dai Suppositi in prosa, dove dichiarati sono i
rimandi ai modelli antichi (l'Eunuco di Terenzio e i Captivi di Plauto), benché circoscritti alla facoltà di
una “poetica imitazione” piuttosto che del “furto”; dove, soprattutto, vengono immediatamente esibiti i
1
Su Ferrara e l'ambiente culturale estense si è soffermato Giovanni Getto, La corte estense in Ferrara, in Letteratura e
critica nel tempo, Milano, 1954. Da non dimenticare inoltre il vecchio, ma sempre utile saggio di Giulio Bertoni, L'Orlando
Furioso e la Rinascenza a Ferrara, Modena, 1919, nonché Antonio Piromalli, La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico
Ariosto, Firenze, 1953 e Silvio Pasquazi, Rinascimento ferrarese, Caltanissetta, 1957. Sul mondo teatrale in cui operò
Ariosto si veda naturalmente la documentazione raccolta da Guido Davico Bonino in appendice a Il teatro italiano. II. La
commedia del Cinquecento, tomo primo, Einaudi, Torino, 1977, pp. 405-18.
2
Sui prestiti latini nel teatro di Ariosto, nel quadro più ampio della commedia rinascimentale, aveva fatto il punto Ettore
Paratore, Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel Cinquecento, Roma, 1971. Più recentemente, Vincenzo De
Amicis, L'imitazione latina nella commedia italiana del XVI secolo, Firenze, 1987. Per una ricognizione generale, invece,
sul concetto di riscrittura e imitazione si veda Luciana Borsetto, Il furto di Prometeo: imitazione, scrittura, riscrittura nel
Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990.
3
Cassaria in prosa, Prologo, vv. 16-18. Tutte le citazioni si intendono tratte da Ludovico Ariosto, Tutte le opere. IV.
Commedie, a cura di Angela Casella, Gabriella Ronchi, Elena Varasi, Milano, Mondadori, 1974.
«giochi» linguistici di cui si dava conto nel prologo della Cassaria, attraverso l'anfibologia della parola
“supposito” applicata qui ai gusti sessuali degli antichi:

Che li fanciulli per l'adrieto sieno stati suppositi, e sieno qualche volta oggidì, so che non pur ne le comedie,
ma letto avete ne le istorie ancora; e forse è qui tra voi chi l'ha in esperienzia auto o almeno udito referire. Ma
che li vecchi sieno da li gioveni suppositi, vi debbe certo parere e novo e strano; e pur li vecchi alcuna volta si
suppongono similmente; il che vi fia ne la nuova fabula notissimo4.

Curiosamente la puntualizzazione teorica e l'allusione oscena sui posteriori si inseguono nei prologhi
del teatro ariostesco, definendo in apertura il timbro ludico degli spettacoli: nel Negromante (seconda
redazione) si avverte il pubblico di non aspettarsi, almeno in testa, una spiegazione distesa
dell'argomento, perché a volte «metterlo/di dietro, giovar suol». Ancora: se il primo prologo della Lena
si diffonde in una captatio benevolentiae per l'autore che ha osato fare una commedia nuova laddove
nemmeno i latini osavano, traducendole «da i Greci», il secondo prologo, apposto dopo che la
commedia fu ampliata di due scene nel finale (ovvero «in coda»), rimarca l'ostinazione di certi
«increscevoli vecchi» che «disprezzano tutte le fogge moderne», ma premia la «piacevolezza» di altri,
«li quai non hanno le code a fastidio».
Tornando però alla Cassaria, e ricordando il più che probabile tirocinio ariostesco sulla grammatica
teatrale negli anni della giovinezza, non dovrà sorprendere l'abilità con cui Ludovico padroneggia da
subito le convenzioni e il linguaggio della scena; sin dall'apertura, quando compare Erofilo impegnato
in una reprimenda contro i servi che il pubblico deve immaginare in quinta.
Erofilo è figura di giovane esemplata su quelle dei testi plautini e terenziani, così come Crisbolo è un
tipico vecchio da commedia e Volpino, erede di tutta una sequenza di servi furbi, inaugura a sua volta
una dinastia di servi che, nel corpo del teatro ariostesco, e, più in generale, nel teatro del Rinascimento,
si fanno registi delle beffe ordite in scena e del loro difficile scioglimento. Per non parlare, infine, del
ruffiano Lucramo, avido e sospettoso, borbottone e malaticcio: insomma, il tipico avaro che,
continuando a suggere antiche linfe, arriverà sino a Molière e oltre5.

4
Importante, per la messa a punto di certi procedimenti ariosteschi filtrati dalla commedia antica, Aulo Greco, L. Ariosto:
modelli per l'istituzione del teatro comico, in Id., L'istituzione del teatro comico del Rinascimento, Napoli, 1976.
5
Sulla Cassaria è da vedere Riccardo Scrivano, Finzioni teatrali. Da Ariosto a Pirandello, Messina-Firenze, 1982, pp. 60-
76 e l'introduzione di Luigina Stefani alla recente riproposizione delle prime due commedie: Ludovico Ariosto, Commedie,
Milano, Mursia, 1997, pp. 5-61. Sulle versioni in prosa delle prime due commedie, Giulio Ferroni, Sulle commedie in prosa
dell'Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, a cura di Cesare Segre, Milano, 1976, pp. 391-425.
Ma se appunto l'archetipo latino è ancora operante, né può essere diversamente per il rapporto di
fruttuosa imitazione che il Rinascimento istituisce con i modelli, nuovo e variato è invece il gioco
scenico nel quale i personaggi sono inseriti, in un susseguirsi di beffe, inganni, travestimenti, raggiri,
che nella Cassaria appare addirittura pletorico e che deve perciò essere gestito non da uno, bensì da
due servi, Volpino in prima battuta e Fulcio in seconda. La rete amplificata dei casi, padroneggiata non
senza squilibri da Ariosto (di lì a poco impegnato nell'arduo controllo delle trame ben più numerose del
Furioso, sì che non sembra inopportuno dire che il teatro è davvero un'anticamera necessaria al
poema), la rete amplificata dei casi, dunque, si giova di una sintassi teatrale già matura, dove i momenti
riflessivi, affidati alle parti monologanti, e quelli patetico-amorosi, appannaggio dei giovani, si
alternano sapientemente ai momenti comici, giocati su un'ampia tastiera di variazioni, dall'equivoco
linguistico al lazzo osceno, a ribadire l'accortezza e la maturità teatrale di Ariosto.
Si veda per esempio la scena in cui Volpino tenta di spiegare al padrone Erofilo il piano per ottenere
senza spesa dal ruffiano Lucramo la fanciulla amata: qui il comico nasce dalle continue interruzioni
con cui il pavido Erofilo interrompe il discorso del servo, irritandolo al punto da portarlo quasi
all'abbandono del dialogo e della scena, poi ricondottovi grazie alle insistenze dall'altro giovane
Caridoro.
La battuta di quest'ultimo, impegnato a recuperare al dialogo i due interlocutori, dà conto di un'azione
che nelle sue dimensioni di gioco scenico, di schermaglia mimica, è passibile di ulteriori effetti comici,
solo immaginabili per un lettore moderno (nella versione in prosa: «Non te ne partir, Volpino; ben te
ascoltarà. Odilo, lassalo dire»6; ancor meglio nella versione in versi, dove si raddoppia alternativamente
l'intenzione fàtica sui due contendenti: «Non ti partir: t'udirà. - Odilo./- Non ti partir, Vulpin, ritorna. –
Ascoltalo/un poco, tu»7).
Questa del dialogo continuamente interrotto è una tecnica dell'amplificatio (nella praticaccia teatrale
potrebbe definirsi più agevolmente “tormentone”) che Ariosto utilizza spesso8, costruendo scene che
raggrumano l'azione in una schermaglia potentemente comica, non necessariamente breve nella sua
articolazione, ma veloce nello scambio delle battute. Se si considera che tali momenti vengono
solitamente dopo un monologo, si vedrà confermato il grado di padronanza della sintassi scenica da
parte di Ariosto. Il quale, a riprova delle proprie competenze non soltanto drammaturgiche, non
tralascia di giovarsi delle risorse mimiche e fisiche degli attori, come accade ancora in Cassaria IV, 7,

6
Cassaria in prosa, Atto II, scena 1.
7
Cassaria in versi, Atto II, scena 3.
8
Si veda per esempio la scena 2, atto IV, della Cassaria, o la scena seconda dell’atto terzo della Lena.
dove lo sciocco Trappola, vestito degli abiti di Crisobolo, non trova letteralmente le parole per
giustificarsi di fronte al medesimo, e il furbo Volpino coglie il destro per fingerlo muto: ne consegue
tutta una serie di giochi mimici che possiamo immaginare davvero spassosi.
Allo stesso modo, Corbolo, nella Lena, di fronte al possibile svelamento di una bugia da parte di un
inconsapevole servo alle prese con il vecchio Ilario, si pone alle spalle di quest'ultimo e si affida alla
mimica per comunicare col primo («CREMONINO : [...] Che m'accenni, bestia?/Vo' dir la
verità… /CORBOLO: Accenno io?»9).
Tra tutti i servi del teatro ariostesco, Corbolo appare il più consapevole delle proprie astuzie, delle
proprie capacità creative, ovvero, in ultima analisi, della propria intelligenza. E' una consapevolezza,
ancora una volta, tutta di Ariosto, che non manca occasione, come già nei prologhi, di misurare la
distanza dagli antichi:

CORBOLO: [...]
Deh, se ben io non son Davo né Sosia,
se ben non nacqui fra i Geti né in Siria,
non ho in questa testaccia anch'io malizia?
Non saprò ordir un giunto anch'io, ch'a tessere
abbia Fortuna poi, la qual propizia
(come si dice) agli audaci suol essere?
Ma che farò, che con un vecchio credulo
non ho a far, qual a suo modo Terenzio
o Plauto suol Cremete o Simon fingere?
Ma quanto egli è più cauto, maggior gloria
non è la mia, s'io lo piglio alla trappola?10

L'abilità di ingarbugliare e risolvere situazioni, dovuta a facoltà intellettive non comuni, e certo in
palese contrasto con la scioccaggine un po' ottusa dei padroni, comporta per i servi un'attitudine
ragionativa che si evidenzia non solo nelle parti monologanti, ma anche nei numerosissimi “a parte” di
cui è prodigo il teatro ariostesco. Si tratta di momenti privilegiati per attingervi situazioni comiche,

9
Lena, atto III, scena 6.
10
Lena, atto III, scena 1. Ma si vedano anche i numerosi interventi in cui Corbolo, alle prese con l'ordito delle sue
menzogne, si legittima narcisisticamente quale artefice d'inganni, istituendo un rapporto quasi fisico con le «bugie»
personificate: «Or aiutatemi/bugie; se non, siamo spcciati» (III, 6); «post'ho l'artegliaria alli canti. Facciano/qui testa ormai
le bugie che fuggivano/cacciate e rotte e, tornando con impeto, /Ilario, che le avea cacciate, caccino» (V, 1); «Ben succede
l'impresa: avrà l'essercito/de le bugie, dopo tanti pericoli,/dopo tanti travagli, al fin vittoria,/malgrado di Fortuna, che a
difendere/contra me tolto avea il borsel d'Ilario» (V, 6)
soprattutto laddove tali momenti svolgano ruolo di commento, in funzione demistificante, di quanto un
secondo personaggio viene dicendo o facendo in un'altra zona del palco, come per esempio nella
bellissima scena del Negromante (I, 3), in cui Fisico abbindola lo stupido Maximo con promesse di
ciarlatano, mentre il servo Nebbio ne svela al pubblico la portata truffaldina11.
In generale, ai personaggi “bassi” è affidato non solo l'estro comico che dà sale all'azione, ma anche un
atteggiamento derisorio ed eversivo, ben lontano delle ottuse convenzioni sociali, delle pose irrigidite e
monomaniacali dei padroni.
Nella complessa trama di beffe della Cassaria, il furbo Trappola, condotto dal servo Volpino
all'abitazione del laido Lucrano perché vi riscatti la giovane Eulalia fingendosi emissario di un ricco
mercante, si pone subito in un rapporto di antagonismo combattivo e provocatorio, senza che l'altro
colga la caustica ostilità, anzi sentendosene quasi lusingato.12
Identico movimento comico si ha nei Suppositi, poiché identica attitudine demistificante mostra, nei
confronti del vecchio e avaro Cleandro, il giovane rivale Erostrato, travestito da servo; la grana
“bassa”, fuori dalle convenzioni mondane, suggerita dagli abiti impropri, legittima in quel momento il
gioco aspro e pungente della provocazione verbale, anche in questo caso non colta dall'interlocutore,
anzi avvallata da certi sintomi fisici:

DULIPPO: Egli ha detto che tu sei fastidioso et ostinato sopra tutti li altri, e che tu la farai consumare di affanno.
CLEANDRO : O uomo maligno!
DULIPPO: E che dì e notte non fai altro che tossire e sputare, e che li porci averieno schifo di te.
CLEANDRO : Io non tosso, né sputo pur mai. Uòh, uòh, uòh... E' vero che io sono adesso un poco infreddato; ma
chi non lo è di questo tempo? 13.

Siamo davvero in presenza di un «teatro della parola e del gesto», come è stato detto14, a riprova delle
grandi risorse inventive e comiche di Ariosto, della sua maturità nella gestione non solo della
drammaturgia, ma dell'intero impianto scenico, che ne fanno veramente, come era, uomo di teatro a
tutto tondo, regista, nel senso più ampio e moderno della parola, di tutti gli elementi che vanno a
comporre la rappresentazione.

11
Sul Negromante si veda l’importante studio di Maria Luisa Doglio, Lingua e struttura del “Negromante”, in Ludovico
Ariosto: lingua, stile e tradizione, cit., pp. 427-33, le cui risultanze sono state fondamentali anche ai fini della stesura di
questo saggio.
12
Cassaria in prosa, atto III, scena 3.
13
Suppositi in prosa, atto II, scena 3
14
Luciano Bottoni, Il teatro del Rinascimento, in Storia generale della letteratura italiana. V. L’età della Controriforma. Il
tardo Cinquecento, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Milano, Motta, 1999, p. 31.
Su un piano più squisitamente letterario, si può dire che a dispetto dell'immagine corriva di un Ariosto
perso dietro le sue fantasie un po' solipsistiche, quasi a estraniarsi dai fastidi mondani, le commedie ci
restituiscono l'immagine di un poeta conscio dei propri mezzi, in gara con la tradizione per rinnovarla e
complicarla.
In particolare, è quando Ariosto può agire direttamente sul corpo linguistico della battuta, innescando
equivoci, bisticci, storpiamenti e doppi sensi, che la cifra comica raggiunge punte di virtuosistica
giocoleria verbale. Vediamone qualche esempio.
Lamentandosi della scarsa liquidità garantita dal giovane Flavio nel riscattare Licinia, Lena si lancia in
un'improbabile frase fatta latina, non senza ironizzare sulla saccenteria degli studenti: «maria in monte
(come dicono questi scolari) promettea»15. La storpiatura della dizione corretta maria et montes non
garantisce di per sé un risultato comico di grande efficacia, ma messa in bocca alla garrula e popolana
Lena ci regala un altro tassello del suo ritratto, giocato su un'ostinata quanto sciocca burbanza, qui
evidenziata dalla scarsa stima per gli «scolari».
Al solito, è ai personaggi “bassi” che viene delegata la possibilità dell'equivoco linguistico o
dell'invenzione verbale, riportando tutto a un alveo del “quotidiano”, del realismo minuto che
disinnesca la boria o le fissazioni un po’ridicole degli antagonisti.
Alla reprimenda del vecchio dottor Cleandro, che lo accusa di essere «poco dotto ne la Bibia», il
parassita Pasifilo risponde: «anzi dottissimo, ma di quella che sta ne la botte» (Suppositi in prosa, I, 2).
Ancora nei Suppositi a un senese che, intimorito dalla cattiva accoglienza ricevuta a Ferrara, ordina al
servo di appellarlo d'ora in avanti Filogono di Catania, il servo palesa una difficoltà e un vanto: «Di
questo nome strano mi ricorderò male; ma quella Castagnia non mi dimenticherò già» (Suppositi in
prosa, II, 2). L'invenzione onomastica si moltiplica nelle parole di Erostrato alle prese col rivale
Cleandro (ma Erostrato, il protagonista giovane, è travestito da servo, quindi legittimato alla celia
cattiva): egli finge di chiamarsi Maltivenga, proveniente dal castello di Fossucciso nel territorio di
Tagliacozzo (Suppositi in versi, II, 4)
Capolavoro comico è la scena terza, atto I, del Negromante, giocata sulla saccenteria truffaldina di
Fisico, il cui linguaggio oscuro, come si conviene a chi esercita una professione stregonesca, viene
male interpretato dallo sciocco Maximo: qua siamo davvero agli albori di tanto teatro comico della
parola equivocata, quello per intenderci (si parva licet) di certi numeri del varietà nostrano. E Fisico è
maschera riconoscibilissima di un'incoercibile quanto ottusa furfanteria italica, incarnata poi alla
15
Lena, atto II, scena 2. Sulla Lena si veda Guido Davico Bonino, Lo scandalo della Lena, in Id., Letteratura e teatro,
Torino, 1979.
perfezione dalla spavalda millanteria di certi attori della tradizione comica (da Edoardo Ferravilla a
Totò):

FISICO : Ah! quasi che 'l pentacolo


m'ero scordato.
MAXIMO : Ho in casa delle pentole
assai.
FISICO : Pentole non: dico pentacolo.
[...]
MAXIMO : Tanto cotesti pennacchi si vendono?
FISICO : Io non dico pennacchi, ma pentacoli.
MAXIMO : Che ho a far del nome: io miro a quel che costano.16

Il gioco di parole, ovviamente, non può non trovare una sua risoluzione nel campo dell'osceno. Qui è la
Lena a fare la parte del leone: il mestiere della protagonista legittima il lazzo equivoco, soprattutto da
parte del servo Corbolo, che appunto in quanto servo ha istinti irrefragabili.
L'entrata in scena della donna scatena subito la frenesia sessuale e verbale di Corbolo:

FLAVIO: So ben che 'l mio buon dì sta nel tuo arbitrio.
LENA : E 'l mio nel tuo.
CORBOLO Anch'io il mio nel tuo mettere.
vorrei.17

Il lazzo viene recuperato e rilanciato subito dopo, fidando sul senso plurivoco del verbo “fregare”
(titillare, ma anche fare le “fregagioni”, ovvero i massaggi, e bastonare), in risposta alla scontrosa
ostilità di Lena:

FLAVIO: Tu temi ch'io te la freghi?


CORBOLO: Sì, fregala,
padron, che poi ti sarà più piacevole.
LENA : Io non ho scesa.
CORBOLO: (Un randello di frassino
di due braccia ti freghi le spalle, asina!)18

16
Negromante, atto I, scena3.
17
Lena, atto I, scena 2.
L'ottativa feroce di Corbolo smaschera la sua disistima per Lena, del resto ricambiata: così, gli assalti
del primo alla seconda, il rifiuto acido e superbo di questa, e i successivi improperi del servo,
trasformano quello che potrebbe essere un momento di esplosione viscerale, in un “gioco delle parti” di
compulsiva meccanicità, dove il comico viene risolto sempre su un piano di polemica ludica, di acre
ma innocua schermaglia verbale.
Così è, per esempio, nella scena terza dell'atto secondo, dove Corbolo mostra a Lena la spesa appena
fatta su sua istanza, alla quale mancano i piccioni, dal momento che lei ne porta «in seno dui grossi
bellissimi». «Lascia pormivi/la man, ch'io tocchi come son morbidi», scongiura Corbolo, ricevendone
in cambio la previsone di un «pugno»; e l'interpretazione del raglio degli asini, che «vorrebbono/a
punto quel ch'anch'io da te desidero», guadagna al servo l'appellativo di «malizioso più che 'l fistolo».
Così, al termine della lunga scena, Corbolo sbotta in un'altra ottativa che coinvolge le «vivande»
appena comprate e ora requisite da Lena: «Possano esser l'ultime che tu mangi mai più; ch'elle
t'affoghino!».
Il carattere verbale dell'osceno ariostesco si compiace dunque del doppio senso, della metafora di cui
appunto la Lena è la commedia maggiormente prodiga, all'interno del corpus teatrale ariostesco.
Qui l'ambivalenza semantica di certo lessico facile ad essere equivocato, spiana la strada a un comico
avventizio, tutto di parola: la «faccenda» (I, 2) è certo il garbuglio nel quale si ritrovano i personaggi,
ma anche l'organo maschile; l'immagine della «carne» che deve essere cotta nella «pentola» (IV, 9)
evoca le pietanze preparate nella cucina della popolana Menica, ma anche l'atto sessuale cui vorrebbe
accingersi Flavio con Licinia; e l'«uscio» (V, 11) è, concretamente, quello della casa di Lena, ma
insieme, metaforicamente, quello del suo corpo, «dinanzi» e «di dietro», secondo un equivoco di cui si
ricorderà il Goldoni della Bottega del caffé («flusso e riflusso per la porta di dietro», dirà Don Marzio
nella Bottega del caffè, I, 6). Infine, la fantasiosa immagine del lavoro a telaio («menar le calcole e
batter fisso» I, 1) riprendendo una metafora già boccacciana (Decameron II, 10; IV, 7; VIII, 9),
rimanda al lavorìo costante di braccia e gambe sul telaio per indicare il ritmo altrettanto costante
dell'atto sessuale.
Anche il Negromante regala, pur rara, qualche figurazione di carattere osceno: se la «lancia» di I, 1 è
traslato non troppo inventivo, più interessante pare quello di II, 3, messo in bocca al malizioso Fisico

18
Ibid. Si veda questo passaggio quasi identico negli Studenti (II, 5), con il solito gioco equivoco tra capponi e seni della
domestica: «BONIFAZIO : (...) Trovastene pur? S TANNA : N'ho trovati senza molto avolgermi;/e sono buoni, in fé di Dio.
Toccategli./BONIFAZIO : Oh, come son ben sodi! STANNA: Non dicevo di/questi, che non sono però da cuocere./BONIFAZIO :
Da cuocer no, ma sì ben da goderceli vivi e sani».
che ironizza sulla impotenza di Cintio, ovvero sulla sua impossibilità di «cacciare il vomere...nel
campo» della moglie e sulla propria millantata capacità di «drizzare il manico de l'aratro».
La raccolta delle oscenità ariostesche, di là dalla divertita casistica cui può dare luogo, serve anche a
individuare la volontà dello scrittore ferrarese di rivitalizzare gli schemi adusati della commedia latina
attraverso un lessico esercitato sui novellieri e sui poeti giocosi fiorentini dei secoli precedenti; Ariosto
dimostra insomma, a dispetto di una critica che ha sempre faticato a rilevare tale elemento, la
pertinenza di inserzioni della tradizione volgare su un sostrato di ascendenza classicistica.
«Lancia» è per esempio in Boccaccio, Sercambi, Masuccio e nei Canti carnascialeschi; «vomere» è
parimenti in Boccaccio, così come «uscio» che si ritrova anche nel Pataffio, in Sermini e nel Poliziano
dei Detti piacevoli; «pentola» è di nuovo in Sermini, mentre «carne» è nei Canti Carnascialeschi; e se
«faccenda» è del Cornazano, il sintagma «battere fisso» richiama il «battere la lana» che si trova, con
significato identico, in Sercambi, Sermini e Masuccio19.
Al termine di questa ricognizione inevitabilmente parziale, è ormai chiaro che i «nuovi giochi»
preannunciati nel Prologo della Cassaria, vengono declinati soprattutto sul piano verbale, spesso con
compiaciuta abilità, attraverso un fuoco di fila di equivoci e doppi sensi che, possiamo immaginare,
dovevano divertire molto il pubblico cortigiano presente alle rappresentazioni.
Ma, si è visto anche questo, Ariosto non rinuncia a nessuna delle risorse che il teatro gli consente per
realizzare quegli effetti comici in grado di ravvivare la trama delle commedie, a partire dalle capacità
mimiche degli attori e da quello che possiamo definire, per la sua parziale riuscita, un conato di azione:
si tratta cioè di un'azione in qualche modo embrionale, sopraffatta spesso (in particolare nel rifacimento
delle due prime commedie in prosa) dalla pletora delle parole: ma il fatto che il tentativo sia esperito,
raggiungendo risultati ragguardevoli per esempio nella Lena, dimostra ancora una volta che Ariosto è
uomo di teatro assolutamente maturo, in grado di comprendere i problemi della scena, capace di
padroneggiare la sintassi drammaturgica con smaliziata accortezza, se è vero, com'è vero, che pieni e
vuoti, momenti riflessivi e momenti agiti, monologhi e dialoghi, si succedono nelle sue commedie con
abilità stupefacente, propria di chi riesce a estraniarsi dall'oggetto e vederlo nella sua interezza, che si
vuole armonica e ben proporzionata.

19
Senza ricorrere all'uso essenziale dei moderni strumenti informatici per aggiornare la casistica delle occorrenze (su tali
necessità si veda quanto viene argomentando, dopo vari altri interventi, Pasquale Stoppelli in Machiavelli e la novella di
Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma, Salerno editrice, 2007, p. 48) si può agevolmente consultare, per una rapida
ricognizione, Walter Boggione - Giovanni Casalegno, Dizionario storico del lessico erotico italiano, Milano, Longanesi,
1996.
Propria di chi sa, ed è requisito fondamentale volendo adoperare al meglio gli strumenti della
drammaturgia, che il pubblico è facile alla noia e al senso di sazietà, e occorre dunque essere sempre in
grado di ridestare il suo interesse.
Propria di chi, come Ariosto, si occupava di ogni aspetto della rappresentazione, assumendo il ruolo di
quello che oggi viene definito “regista”20. Perché la modernità di Ariosto uomo di teatro non consiste
solo nell'aver saputo rinnovare gli statuti della commedia, trasformandola (e l'ovvietà dell'affermazione
scusi il dettato un po' manualistico) in uno spettacolo pienamente laico e contemporaneo, ma consiste
soprattutto nella capacità gestionale di tutti gli apparati festivi, di cui la rappresentazione delle
commedie costituisce il momento culminante. E' una modalità davvero fondativa della tradizione
teatrale occidentale: lo sforzo ariostesco è quello di un demiurgo che comprende e tenta, per la prima
volta, di economizzare le immense risorse del teatro, non relegandolo a confezione lussuosa ed
estemporanea delle prove di forza di una qualsivoglia signoria in carica, ma facendone la lente
d'ingrandimento delle contraddizioni dell'esistente. Nel teatro la corte si può specchiare,
riconoscendovisi e riconoscendo in pari tempo le aporie del potere e dei privilegi, le virtù ma anche i
vizi degli uomini, l'attivismo operoso ma insieme cialtrone della città.
Il desiderio di dare dignità letteraria allo spettacolo comico, non è così solo una solipsistica ubbìa da
poeta, ma risponde ad un'intuizione che sarà per esempio di Goldoni un paio di secoli dopo, ovvero che
la scena obiettiva la realtà e, obiettivandola, se ne fa carico per interpretarla e criticarla.
Di là dagli sporadici riferimenti alla Ferrara contemporanea che danno luogo a certi spunti di non
troppo acuminata satira sociale, se si osserva il corpus del teatro ariostesco da una prospettiva
grandangolare, si vedrà come uno dei centri tematici di tutte le commedie sia l'ingombrante presenza
del denaro nei rapporti umani: necessità di riscattare le fanciulle dalle mani di un ruffiano nella
Cassaria, di procacciarsi una dote adeguata nei Suppositi, di estorcere soldi a clienti sciocchi nel
Negromante, di far scendere Lena a più miti consigli nella commedia omonima.
Tutti sono perennemente alla ricerca di denaro, perché solo il denaro, infine, sembra poter soddisfare i
desideri, reconditi o meno, degli uomini. E se a ciò si aggiungono (ma questo richiederebbe molto altro
spazio) le tantissime metafore animali con cui vengono gratificati spesso, da parte dei loro momentanei

20
Su tutti questi temi, sull'attività di Ariosto regista e sulle incidenze dell'attività teatrale ariostesca sul poema, si veda
Marco Marangoni, In forma di teatro. Elementi teatrali nell'Orlando furioso, Roma, Carocci, 2002. Su questi temi si era
soffermato il commediografo Gino Rocca nel saggio Elementi di teatro nell'Orlando furioso, in AA.VV., L’ottava d'oro,
Milano, Mondadori, 1933, pp. 627-38, un volume tanto dimenticato quanto suggestivo (con interventi, per esempio, di
Filippo Tommaso Marinetti e Achille Campanile).
antagonisti, i personaggi delle commedie21, si vedrà come Ariosto sia pienamente uomo del
Rinascimento, non di quel Rinascimento un po' scolastico che si vuole sgombro di nuvole e di ogni
turbamento, ma di quello, ben più moderno e problematico, in grado di rintracciare la componente
ferina dell'uomo, di vederne le pieghe e le zone d'ombra, di leggerne le contraddizioni di là da ogni
facile schematismo: il Rinascimento di Machiavelli e di Erasmo, per intenderci.
Sono spesso, i protagonisti di questo teatro, dei monomaniaci, persi dietro le loro private ossessioni,
d'amore o d'interesse, un po' come accade ai personaggi che si perdono nel castello delle illusioni di
Atlante, un po' come avverrà per tutti i personaggi del teatro di Molière, di parte del teatro di Goldoni
e, con i dovuti riguardi, del teatro di Pirandello (non perché Pirandello debba per forza aver letto
Ariosto, ma perché la monomaniacalità è materia straordinariamente teatrabile ed è merito del ferrarese
averlo messo in evidenza).
Il linguaggio comico, di cui solo la costrizione dentro metri poetici classici stempera l'aggressività,
serve allora a dare contorni ancor più nitidi a questa grottesca alienazione umana, a cui perfino i servi,
nella loro compulsiva volontà di ingarbugliare le situazioni per poi scioglierle, appunto, quasi
“illusionisticamente”, non sembrano in grado di sottrarsi: un linguaggio educato alla scuola di Plauto e
di Terenzio, in grado di parlare delle cose, di adeguarsi mimeticamente ai diversi aspetti dell'esistente,
che si trasfonderà secondo misure ben più accorte nell'opera maggiore, insieme al piacere di intrecciare
trame e confondere sentieri, per poi rilanciarsi nel gusto tutto moderno della caricatura non pacificata e
della lettura prospettica di un reale multiforme e molteplice, irriducibile alle interpretazioni univoche.
Così l'esperienza della scena diventa anticamera non solo del poema, ma di una più ampia visione del
mondo insieme disillusa e divertita, critica ma non cinica, quella visione che piacerà sommamente, per
la combinatoria apparentemente svagata e invece calibratissima nei suoi contrappunti chiaroscurali, a
tutto il Novecento.

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Massime nel Negromante. Si vedano questi esempi: NEBBIO: «De le tre starne ch'in pié hai, qual pensi tu mangiarti al
fin?» (III, 3); FISICO: «Ho cento modi facili di mandarti sicur. Ti farò prendere forma, s'io voglio, d'un cane dimestico o
d'una gatta. Or che dirai, vedendoti tramutare in un topo, ch'è sì piccolo? Che, s'in un ragno? Che, s'in una pulce?» (Ibid.);
NEBBIO: «...Or che pensi tu di far? FISICO : Tosar ad una ad una e mugnere queste pecore ch'hanno, chi 'l vello aureo, chi
d'ariento» (III, 4); CAMBIO: «Non deve esserti meraviglia, perché tenere è solito in stalla barbareschi, e fargli correre; e
veramente t'avrà tolto in cambio d'un cavallo» (IV, 5).

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