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Urogallo.

Frontiere perdute

Non so che uccello sia l’Urogallo


e se l’ho visto, l’ho visto solo in una foto vista
sulla quarta di una certa rivista
So solo che vive solitario e libero
e so che la solitudine e la libertà
sono condizione di vita per chi
vuole alzare la testa sulla morte viva o morte morta…
[…]

Ruy Belo
Mia Couto

Ventizinco

Traduzione dal portoghese,


introduzione e glossario di Antonia Ruspolini

Edizioni dell’Urogallo
In copertina: Elaborazione grafica di Dario De Leonardis

Titolo originale: Vinte e Zinco, Caminho, Lisboa 1999


Copyright © Mia Couto 1999
By arrangement with Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e. K.,
Frankfurt | Germany

Obra apoiada pela Direcção-Geral do Livro e das Bibliotecas | Portugal


Opera sovvenzionata dalla Direcção-Geral do Livro e das Bibliotecas | Portogallo

Traduzione dal portoghese: Antonia Ruspolini


Copertina: Dario De Leonardis | Absolutezero Studio www.absolutezero.it
Revisione della traduzione, impaginazione ed editing: Marco Bucaioni

isbn/ean: 978-88-97365-19-8

Per l’edizione italiana: copyright © 2013, Edizioni dell’Urogallo. Tut-


ti i diritti riservati. La riproduzione dell’opera è possibile nei limiti fissa-
ti nell’accordo del 18 dicembre 2000 fra s.i.a.e., a.i.e., s.n.s. e c.n.a, Con-
fartigianato e c.a.s.a., Confcommercio, ora integrato dall’accordo del
novembre 2005, per la riproduzione a pagamento, a uso personale, dei libri fino
a un massimo del 15%, nell’ambito dell’art. 68, co. 3, 4 e 5 della legge 633/1944.
Edizioni dell’Urogallo, Corso Cavour, 39, i-06121 Perugia | www.urogallo.eu
Introduzione

«S ono un africano i cui genitori sono europei», così si


definisce Mia Couto in un’intervista pubblicata nel
blog della Companhia das Letras nel mese di giugno 2012.
Mia Couto, all’anagrafe António Emílio Leite Couto, nasce
il 5 Luglio 1955 a Beira, la seconda città del Mozambico per
estensione e numero di abitanti. Fin dall’infanzia e dalla pri-
ma adolescenza manifesta una naturale predisposizione per
la poesia, anche in virtù dell’influenza del padre, Fernando
Couto, anch’egli poeta. Il suo esordio letterario è la pubblica-
zione, all’età di quattordici anni, di alcune poesie sul giornale
«Notícias da Beira». Da qui comincia la sua carriera letteraria
inframezzata dall’attività politica; infatti, da ragazzo entra a
far parte del FRELIMO, il Fronte di Liberazione del Mozam-
bico, fondato nel 1962 da Eduardo Chivambo Mondlane. Ne-
gli anni tumultuosi della guerra coloniale prima, e degli esordi
della guerra civile poi, si dedica al giornalismo, per riaprirsi
alla poesia nel 1983 con la pubblicazione della prima raccol-
ta Raiz de Orvalho. In quegli anni si iscrive alla Facoltà di
Biologia dell’Università Eduardo Mondlane di Maputo nella
quale tutt’ora lavora. Ma è nel 1992 che entra nell’alveo degli
narratori con la pubblicazione del suo primo romanzo: Terra
Sonâmbula (tradotto in italiano con il titolo Terra sonnambu-
la), ritenuto uno dei migliori libri africani del secolo.
La prosa poetica di Mia Couto in Ventizinco riflette e rifran-
ge allo stesso tempo l’annosa questione della commistione della
cultura, della lingua e della storia del Mozambico con quella
6 Introduzione

dell’ex madrepatria, con le sue storie, le lingue, le sue culture.


Mia Couto è alfiere indiscusso di quello che Bhabha definisce
«ibridismo culturale», concetto, questo, che caratterizza molti
paesi che cercano e trovano rappresentazione, riconoscimento
e auto-riconoscimento nella propria letteratura.
Mia Couto, infatti, mette in discussione nella sua prosa il
modello di romanzo ereditato dalla tradizione europea, attra-
verso processi di reinvenzione e sovversione linguistica. A parte
la personale inclinazione e intenzione dell’autore per tale spe-
rimentalismo, Mia Couto si rifà a due grandi protagonisti della
letteratura novecentesca di espressione portoghese: il brasiliano
João Guimarães Rosa e l’angolano José Luandino Vieira. L’au-
tore, infatti, li indica apertamente tra le sue fonti letterarie.
Ma Mia Couto è particolarmente famoso per i suoi neologi-
smi, originati sia mediante crasi, sia a partire da lemmi di radi-
ce bantu per formazione denominale. Si veda il caso del verbo
mezungando-se, derivato dalla parola bantu mezungo che indi-
ca l’uomo bianco; con questa formazione Mia Couto crea il si-
gnificante dell’atteggiarsi come un uomo bianco. Ma l’esempio
forse più affascinante è rappresentato dalle crasi di parole. Un
esempio calzante è, secondo noi, l’aggettivo arredondosas, cra-
si del participio passato del verbo arredondar (“arrotondare”
o “dare forma rotonda”), e dell’aggettivo ondosas, anch’esso
una creazione, a partire dal sostantivo onda. Mia Couto crea
sovente parole tramite un processo di crasi, compensando così
il divario fra la sensibilità, nel suo caso, mozambicana, e il les-
sico della lingua europea nella quale non esiste un termine per
il concetto che viene espresso, in questo caso, un termine per
indicare donne che siano tonde, curve, quindi formose, che si
muovano dolcemente come onde del mare.
Gran parte di questo sperimentalismo è cifra dell’ambiente
linguistico e culturale in cui l’autore è immerso, caratterizza-
to in modo peculiare dall’importanza e dalla carica simbo-
Introduzione 7

lica della tradizione orale. Essa, infatti, costituisce una vera


e propria fonte di continua ispirazione per gli scrittori ma,
allo stesso tempo, rappresenta un sfida, poiché tale tradizio-
ne deve essere tradotta in un altro codice. Allo scrittore si
affida, quindi, il difficile compito – come se il muoversi in un
ambiente letterario multilingue non fosse già sufficientemente
gravoso – di colmare il divario tra due tradizioni che rifletto-
no due modi diversissimi di approcciarsi alla narrazione. La
tradizione orale, quindi, «inserita nel paradigma di una cultu-
ra scritta straniera», come afferma Bandia, diventa complice
della sperimentazione influenzando fortemente l’estetica del-
la narrazione.
Mia Couto è maestro indiscusso di questo tipo di narra-
zione dal momento che il vero protagonista, nei suoi testi, è
proprio quel patchwork culturale che diventa, poi, narrativo
e narratologico e formale e linguistico, unico in grado di con-
cretizzare in inchiostro e pagina la realtà multilingue, multi-
culturale, scissa (o fusa?) tra cultura orale e cultura scritta.
Mia Couto solleva dal polverone lasciato dal colonialismo
gli elementi più autentici delle tradizioni del suo Mozambi-
co, i miti, le leggende, le superstizioni, finalmente libere dal
giogo portoghese e non solo; tutti elementi fondamentali per
quel processo di unificazione e rinsaldamento della memoria
culturale che è l’unico vero strumento in grado di formare
un’identità nazionale, dal momento che essa non è connatura-
ta all’uomo, ma formata, e plasmata e trasformata, dalle rap-
presentazioni, dalle storie che un certo popolo narra di sé. Ed
è proprio ciò che Couto dipinge nei suoi testi.

Ventizinco

Ventizinco è stato pubblicato nel 1999 da una delle più presti-


giose case editrici portoghesi, la Caminho, recentemente con-
8 Introduzione

fluita all’interno del Grupo Leya. Fu proprio la casa editrice


portoghese a richiedere a Mia Couto la stesura di un romanzo
che trattasse dell’evento più importante della storia del Porto-
gallo del Novecento, la Rivoluzione dei Garofani, all’interno
di una più vasta azione editoriale volta a omaggiare il 25 Apri-
le nel suo 25º anniversario, sfociata nella realizzazione della
collana Caminhos de Abril.
La Rivoluzione dei Garofani, avvenuta il 25 aprile 1974
con un golpe portato avanti dai capitani delle forze arma-
te, impegnate da 13 anni nella sanguinosa Guerra Colonia-
le, mise la parola fine all’Estado Novo, il regime dittatoriale
di António de Oliveira Salazar, vigente dal 1933. Con essa si
diede uno scossone ai processi di liberazione nazionale delle,
allora dette, province ultramarine e parallelamente, al proces-
so istituzionale che avrebbe portato alla piena indipendenza
delle colonie africane. Essa, infatti, segnò non soltanto la libe-
razione del Portogallo continentale dal regime dittatoriale più
longevo dell’Europa Occidentale, ma anche il punto d’arrivo
per l’emancipazione di territori ben più vasti del Portogallo
stesso.
Il romanzo Ventizinco porta sulla pagina scritta proprio
questo doppio punto di vista su un evento cruciale come ap-
punto la Rivoluzione dei Garofani, a partire dalla piccola co-
stellazione di personaggi che popolano il romanzo. Sono per-
sonaggi studiati ad arte e profondamente umani; tanti loro,
tanti gli sguardi su questo giorno, su questo attimo di Storia.
Ognuno dei personaggi del romanzo, infatti, vede il mon-
do a suo modo e confonde il suo modo di interpretare la re-
altà con la realtà stessa, ognuno di loro ha una verità, una
convinzione che il 25 Aprile contribuirà a incrinare; questo
è particolarmente vero per Lourenço de Castro che all’insor-
gere del colpo di stato crolla e non trova più nessun credo in
cui rispecchiarsi. «Regime? Quale regime? Per lui non c’era
Introduzione 9

un regime. C’era il Portogallo. La patria eterna e immutabile.


Portogallo uno e indivisibile», al momento del colpo di sta-
to militare non riesce ad elaborare il lutto della perdita della
patria così come non è stato capace di elaborare quello del
padre. Egli si trova per la prima volta di fronte ai propri fan-
tasmi e al suo destino, a una parabola di declino costellata di
lutti e melancolie, molto simile a quella della sua patria «eter-
na e immutabile».
Mia Couto, sul piano narratologico, compie un’operazione
simile ai processi di appropriazione e modifica della lingua
dell’ex-oppressore che caratterizza i paesi africani di espres-
sione portoghese. Egli scrive effettivamente un testo in cui il
25 Aprile è centrale e centrato nella metà esatta del romanzo,
ma “sovverte” il progetto, spostando l’attenzione dal 25 Aprile
portoghese ad un altro 25, un 25 mozambicano. Queste sono,
infatti, le parole con cui l’autore descrive quegli avvenimenti
in un test contenuto nella raccolta Pensatempos: «Era la festa
del popolo portoghese. Noi eravamo solo degli invitati in una
casa altrui. La nostra festa, il nostro venticinque, doveva anco-
ra arrivare. E venne, un anno più tardi, con la proclamazione
dell’Indipendenza, il 25 giugno 1975». È in quell’anno che
il Mozambico conquista ufficialmente la sua autonomia, con
al comando Samora Machel, già leader del FRELIMO. Mia
Couto, nell’epigrafe iniziale, scrive: «Venticinque è per voi,
che vivete nei quartieri di cemento. Per noi, neri poveri che
viviamo nel legno e nello zinco, il nostro giorno deve ancora
arrivare». Già dal titolo e dalla primissima pagina, Mia Couto
sottolinea il «distanziamento dei due universi che guardano in
modo diverso la stessa effemeride».

Antonia Ruspolini
Bibliografia delle opere
di Mia Couto

Vozes Anoitecidas, Caminho, Lisboa 1986.


Cada Homen é uma Raça, Caminho, Lisboa 1990.
Cronicando, Caminho, Lisboa 1991.
Terra Sonâmbula, Caminho, Lisboa 1992.
Estórias Abensonhadas, Caminho, Lisboa 1994.
A Varanda do Frangipani, Caminho, Lisboa 1996.
Contos do Nascer da Terra, Caminho, Lisboa 1997.
Vinte e Zinco, Caminho, Lisboa 1999.
O Último Voo do Flamingo, Caminho, Lisboa 2000.
Na Berma de Nenhuma Estrada, Caminho, Lisboa 2001.
Um Rio Chamado Tempo, uma Casa Chamada Terra, Caminho,
Lisboa 2002.
O Fio das Missangas, Caminho, Lisboa 2004.
O Outro Pé da Sereia, Caminho, Lisboa 2006.
Venenos de Deus, Remédios do Diabo, Caminho, Lisboa 2008.
Jesusalém, Caminho, Lisboa 2009.
A Confissão da Leoa, Caminho, Lisboa 2012.
Raiz de Orvalho, Caminho, Lisboa 1999.
Mar Me Quer, illustrazioni di João Nasi Pereira, Caminho, Lisboa
2000.
A Chuva Pasmada, illustrazioni di Danuta Wojciechowska, Caminho,
Lisboa 2004.
O Gato e o Escuro, illustrazioni di Danuta Wojcciechowska,
Caminho, Lisboa 2001.
O Beijo da Palavrinha, illustrazioni di Danuta Wojcciechowska,
Caminho, Lisboa 2008.
Pensatempos. Textos de Opinião, Caminho, Lisboa 2005.
E se Obama Fosse Africano? e Outras Interinvenções, Caminho,
Lisboa 2009.
Pensageiro Frequente, Caminho, Lisboa 2012.

Traduzioni italiane

Voci all’imbrunire, Edizioni Lavoro, Roma 1993.


Il dono del viandante e altri racconti, Ibis, Como-Pavia 1997.
Terra sonnambula, Guanda, Parma 1999.
Sotto l’albero del frangipani, Guanda, Parma 2002.
Un fiume chiamato tempo, una casa chiamata terra, Guanda, Parma
2005.
Ogni uomo è una razza: storie, Ibis, Como 2008.
Perle, Quarup, Pescara 2011.
Veleni di Dio, medicine del Diavolo, Voland, Roma 2011.
Ventizinco, Urogallo, Perugia 2013.
Ventizinco
A Patrícia
«Il venticinque è per voi,
che vivete nei quartieri di cemento.
Per noi, neri poveri che viviamo
nel legno e nello zinco, il nostro giorno deve ancora arrivare».

Parole dell’indovina Jessumina

«L’uomo non è mai crudele o ingiusto con l’impunità: l’an-


sia che cresce in quelli che abusano del potere prende spesso la
forma di terrori immaginari e ossessioni deliranti. Nelle pian-
tagioni di canna da zucchero, il padrone maltrattava lo schia-
vo, ma temeva l’odio di costui. Lo trattava come una bestia da
soma, ma temeva i poteri occulti che gli erano attribuiti. Quan-
to più i neri erano sottomessi, più gli suscitavano terrore […] A
volte alcuni schiavi si sono veramente vendicati dei loro tiranni.
Ma il terrore che regnava nelle piantagioni aveva origini in stra-
ti più profondi dell’anima. Erano stregoneria e il mistero d’Afri-
ca che perturbavano il sonno dei signori della “casa grande”».

Woodoo in Haiti
Alfred Metraux, 1959
19 Aprile

«Il torturatore necessita di una vittima per


creare verità in questo gioco a due che è la
fabbrica del terrore».

Dai quaderni di Irene

L ourenço de Castro entra in casa, alla stessa ora di sem-


pre, quell’ora in cui la luce soffre, stanca di tanto giorno.
Ruota la maniglia della porta con cautela, come se il mondo
potesse disaggregarsi a partire da quel gesto. E subito la voce
della madre luminando la fine del corridoio.
«Sei tu, figlio mio?»
Donna Margarida compare nell’atrio della vecchia casa co-
loniale. Copre le spalle del figlio con una giacca fatta con le
sue mani. È fine estate, ma le notti sono già più fresche lungo
il litorale. Lourenço de Castro si stringe nelle spalle, lascia
che la mamma gliela metta. Un’altra volta stanco, più morto
di un pesce. Nessuno comprende fino in fondo la difficoltà di
essere un ispettore della PIDE, in mezzo alla foresta africana,
là dove il piede del bianco non si è mai posato. A Moebase ci
sono altri bianchi, sì, ma pochi. Le dita di una mano avanzano,
se li vogliamo contare. Chi c’è? Padre Ramos, il dottor Peixo-
to, l’amministratore Marques e l’agente Diamantino. Più le
due donne di casa, la mamma e la zia Irene. Ma le donne non
contano. Così si diceva in casa Castro. La maggior parte delle
volte addirittura scontano, aggiungevano.
20 Mia Couto

Il ritorno a casa di Lourenço de Castro è un rituale, sempre


uguale, la madre, infallibile, prodiga le cure che sono dovu-
te ad un guerriero. Ma questo guerriero non emana gloria.
L’ispettore Lourenço si trascina fino al bagno e si lava le mani.
L’acqua corre come se non bastasse un fiume a pulirlo.
«Perché non confessano? Che gli costerebbe…?»
Il sangue continua a gocciolinare nella bacinella. Lui sten-
de in avanti le braccia, ancora umide, la madre le asciuga con
tenero vigore.
«Ti sei lavato bene, tesoro? Adesso vieni. Ti ho già prepa-
rato il lettino».
Il pide va in cucina e passa di nuovo le mani sotto l’acqua.
Annusa le dita come se volesse confermare l’ostinazione di
qualche macchia. La vecchia madre lo prende fra le braccia,
gli bacia le dita delicate.
«Mani belle, mi ricordano…»
«Sono stanco, mamma, voglio dormire. Dov’è il panno?»
«Il panno è a lavare. Era tutto sbavato. Stai sbavando mol-
to, sono preoccupata, non sarà uno di questi malanni africa-
ni…»
«Io non dormo senza il panno, lo sai, mamma».
«C’è un altro panno già tutto lavato sotto il tuo bel cusci-
no».
Il pide si corica. La madre, al capezzale, gli rimbocca le
lenzuola. Il figlio, inquieto, scruta la stanza:
«Il cavallino?»
«Adesso ti porto il cavallino, non ti preoccupare».
Lei trascina un cavallino di legno, lo posiziona in modo che
Lourenço ne possa toccare la criniera. Il pide conficca le sue
dita nella groppa del cavallino e lo fa dondolare.
«E la zia Irene?»
La madre distoglie lo sguardo. Sempre la solita, questa Ire-
ne. Che vergogna, una bianca che si comporta in quel modo,
Ventizinco 21

disposseduta dal giudizio. E peggio che aver perso la ragione:


lei aveva perso il pudore.
«Che destino il nostro, figlio mio!»
Pausa, sospiri. L’agente smette di dondolare il cavallo. Si
solleva un pochino per guardare meglio il volto di Donna
Margarida.
«È uscita di nuovo oggi?»
«È uscita, sì».
«È tornata un’altra volta tutta sporca?»
«Sporca!? Quella è argilla, una cosa pulita».
«Argilla? È matope, te lo dico io. Questa faccenda deve
finire, mamma. La zia Irene ci compromette e noi abbiamo un
nome da difendere».
«Abbi pazienza, Lourenço. Irene è la nostra unica famiglia.
Non te ne dimenticare, non abbiamo più nessuno».
Il silenzio che cala fa pensare alla colpa. Qualche punizione
divina. Chissà, artigianato del diavolo. Sembra che la stanza
sia stata soffocata. L’ispettore si esamina le braccia, come se
cercasse un dettaglio fuori posto.
«Questo qui è sangue, no?»
«No, figlio mio, no. Stringiti al panno e dormi».
«Dormire? Se sapessi, mamma, l’odio che ho per questi
negri».
«Non dire così, figlio mio. Ce n’è di buoni e di catti-
vi».
La mamma si ritira, schiena curva, arrotondata come il
dorso del corvo. Il corridoio la riceve come se appartenesse
alle tenebre. E tutto fluisce, silenzio e oscurità. Passano le ore
e le luci di nuovo si accendono, interrompendo la notte. Le
grida di Lourenço echeggiano nel corridoio. La madre si pre-
cipita, senza fretta. Ha in mano un bicchiere di latte. Quando
si china sul figlio sa già cosa succede.
«Un altro incubo?»
22 Mia Couto

Lourenço non risponde, occupato a respirare. Il sudore si


svolge, un liquido lenzuolo lo ricopre.
«I tamburi, non li senti?»
«Era un batuque, ma ha già smesso da un po’».
«Ma io continuo a sentire, mamma».
Lei si siede al capezzale, gli pulisce il sudore e gli porge il
latte tiepido. Il figlio lo rifiuta. C’è una rabbia che non riesce
a controllare. La madre corregge la porta, benché non ci sia
nemmeno un refolo di vento. Se non tira brezza, per quale
ragione la bandiera portoghese è caduta dalla parete a cui era
appesa?
«È quel cieco, un giorno o l’altro quello là lo faccio fuo-
ri».
«Il cieco Tchuvisco? Dio già l’ha castigato. Che male può
fare quel povero diavolo?»
«È quello là che combina tutto questo, mamma».
«Sciocchezze, figlio mio».
«Credimi, io conosco questa gente».
«Mi sembri agitato, Lourenço. Promettimi: domani andia-
mo dal dottor Peixoto».
«Non sto male, mamma».
«Ma lui già cura la zia Irene, non costa nulla…»
«Non ci vado, ho già detto che non ci vado».
La madre accarezza i capelli del figlio. La respirazione dis-
soffoca, gli occhi sono sospesi nell’infinito del soffitto.
«Mamma, mi puoi controllare?»
«Un’altra volta l’ombelico, Lourencinho?»
«Mi sta crescendo, mamma. Davvero. Questa volta davve-
ro. Già sento uscirmi il cordone ombelicale».
«Lascia che ti faccia un massaggio e passa tutto».
La madre si stende sul letto e nasconde le mani sotto le
lenzuola. I suoi occhi ospitano molta tenerezza.
«Vedi, mamma? Non te lo dicevo?»
Ventizinco 23

«Adesso passa, figlio mio».


«Questa può solo essere una fattura da negri. È quel cieco,
mamma».
La mamma tenta di nuovo una ritirata. Sulla porta ripren-
de coraggio e domanda:
«Fa tanto caldo. Non vuoi proprio un ventilatore?»
«No, il ventilatore mai».
«Va bene, va bene! Era solo un’idea. Dormi, figlio mio.
Dormi».
20 Aprile

«Nessuno nasce di questa o di quella razza.


Solo dopo diventiamo neri, bianchi,
o di qualsiasi altra razza».

Frammento del diario di Irene


Parafrasando Simone de Beauvoir

I rene scuote le gambe. Invano. Il matope, ormai secco, si era


attaccato al corpo come se fosse un’altra pelle. La sorella,
Margarida, l’aspetta sull’uscio.
«Francamente, Irene. È questa l’ora di tornare?»
«È l’ora di tutto, sorelluccia».
«E dove sei stata, posso sapere?»
«Ai laghi. Guarda che cosa ho portato».
Dalla blusa tira fuori una vecchia boccetta. La solleva in
alto affinché si veda in trasparenza.
«Sai che cos’è? È un po’ d’acqua lavorata».
«Sei andata di nuovo dalla strega!»
«In Africa non ci sono streghe. Jessumina è una donna con
dei poteri. Tu lo sai, Guida, ma hai paura di accettarlo».
Irene danza intorno alla sorella. La differenza d’età, in
quella circostanza, si accentua. Irene, più giovane, è di quelle
donne indomite, vitali dalla nascita. Ha corpo e viso, tutto in
stato desiderabile. Se non fosse matta ci sarebbe perfino la
speranza di trovarle un pretendente.
Irene era venuta in Africa dopo che suo cognato Joaquim
de Castro era morto. La vedovanza è troppo pesante per es-
sere sopportata in solitudine. Per questo, Margarida, aveva
26 Mia Couto

richiesto la presenza di Irene e le chiese il pieno esercizio


della fratellanza. Invano. In Mozambico, la giovane Irene si
era sviata, esiliata dal giudizio e dalle buone maniere. Si era
mescolata con i neri, aveva dato adito a voci e vergogne. Com-
portamenti che sblasonavano l’onore della famiglia. Già suo
marito Joaquim de Castro era stato agente della PIDE. Il fi-
glio Lourenço aveva seguito i suoi passi. Ci si aspettava dalla
famiglia Castro che desse il buon esempio. Non succedeva,
per colpa di Irene. In fin dei conti, dove la notte si fa più scura
è proprio in prossimità della lucciola.
Margarida quasi prova pena per Irene quando la guarda
adesso, danzando con la boccetta tra le dita. Potrebbe quasi
essere compassione. Ma è invidia. Così bella e felice, Irene
sfuggiva alla grigitudine di quella casa, curva sotto silenzi e
sospiri. In tutto quello che faceva Irene si accendeva di un
fuoco interno. Dopotutto, non era certo un fuoco che non
brucia. La ragazza sfruttava il luogo, senza frontiere di pau-
ra. Passeggiava da sola nei quartieri dei neri. Si sedeva con
loro. Beveva e mangiava con loro. Di pomeriggio, sfuggiva
al tempo nei laghi di Nkuluine. Le era proibito, ma chi può
comandare alla follia?
«Per quel che mi riguarda, non è tanto pazza come sem-
bra».
Lourenço non si fidava dell’autenticità della zia. Si può im-
pazzire così, in così breve tempo? Se lui stesso, vivendo nelle
asperità dell’Africa, si manteneva lucido e sveglio per dare la
sua vita per questa lucidità?
«Quanti orrori ho visto, eppure non ho perso la ragio-
ne!»
Si riferiva, tutti lo sapevano, alla morte di suo padre Joa-
quim de Castro. Lui aveva assistito a tutto nell’elicottero. Il
padre era in uniforme e si teneva in piedi lottando contro il
dondolio. Le sue grida, aspre, si sovrappongono al rumore
Ventizinco 27

del motore. Dava l’ordine ai prigionieri, con le mani legate,


di avvicinarsi alla porta aperta dell’apparecchio. Poi, con un
calcio lui li faceva precipitare nell’Oceano.
Quella volta, il padre aveva deciso che Lourenço lo dove-
va accompagnare per vedere questo spettacolo. Diceva: sono
esperienze come quelle che temprano il vero uomo.
«Vedrai, figlio mio, quegli stronzi sbracciano nell’aria come
se volessero conquistarsi le ali».
Rannicchiato nell’angolo dell’apparecchio, Lourenço sof-
friva di nausea. Ma lui non poteva confessare questa debo-
lezza quasi femminile. Era in corso una prova così da macho
e lui era verde di nausea sull’imminenza del vomito. Forte,
essere forte poiché i deboli non godono della Storia. Parole
del vecchio Castro, scongiurando le sdolcinature di Marga-
rida. Effeminatezze, è questo che riduce un uomo in cenere.
Lourenço smaniava per dimostrare le sue abilità a fare delle
prodezze. Per questo, lì nell’elicottero, si sforzava di non fare
la figura del pappamolle.
All’improvviso, un groviglio di gambe si intrecciò attorno
a Joaquim de Castro. Come cesoie di carne le membra in-
feriori dei prigionieri si attorcigliarono intorno al corpo del
portoghese. I prigionieri lottavano, sistemati in precedente
combinazione. Sarebbero caduti, ma Castro sarebbe andato
giù con loro. Il portoghese gridò, chiese aiuto al figlio. Ma
questi nemmeno si mosse. Occhi fuori dalle orbite, vide il pa-
dre venir espulso dall’elicottero. Subito, gli sembrò che si li-
brasse un uccello, fatto di ali e piume. Ma nulla piombava nel
mare. Fluttuavano piume sparse come uscite da un buco tra
le nuvole. Queste piume ondeggianti in esitante brezza erano
l’unica memoria che gli era rimasta di quel momento. Al di là
del frastuono delle eliche, sopra la testa. Non avrebbe mai più
sopportato un ventilatore. Per quanto caldo facesse, il venti-
latore era proibito.
28 Mia Couto

Da allora, Lourenço aveva un unico proposito nella sua


esistenza. Solo un’idea gli si era fissata in testa. Non era un
uomo di parole, ancor meno di risate. Arido, ma scaltro. La
sua scalata nella polizia politica fu rapida, a forza di molto
servizio mostrato. E di molto altro servizio che non si poteva
mostrare.
Sua madre Margarida temeva per lo stato del suo unico
figlio. Perché lui non pensava ad altro. Nella sua vita non si
scorgeva alcun piacere, donna, divertimento. A volte, quando
lo vedeva lisciarsi con più attenzione i baffi, una breve spe-
ranza si accendeva. Subito frustrata, quando lui si rifugiava
nell’ufficio solitario. Così, solo e triste, si convocavano le ter-
ribili malattie. E, chissà, gli spiriti cattivi? Chissà se era stato
per questo che Irene aveva contraddetto quel suo sgiudizio?
«Irene non appartiene alla nostra famiglia, madre».
Tutta quella rabbia di Lourenço contro la zia affliggeva
Donna Margarida. Perché, allo stesso tempo, sulla penombra
della sala in cui il figlio si rinchiudeva, campeggiava sempre
l’album di fotografie di famiglia. La mattina seguente le foto
della zia albeggiavano fuori dall’album. E la madre, in silen-
zio, tornava a guardare le immagini dell’adolescenza di sua so-
rella. Come se riordinasse il tempo e correggesse il presente.
La maniglia che gira risveglia Margarida. Irene continua a
danzare, volteggiando per la sala. Lourenço, entrando nella
sala, rabbrividisce. Irene passa, roteando, con le gambe la-
sciate nude per essersi arrotolata la gonna fino alla cintola. Si
capisce che quella danza non è europea. È ritmo africano. La
donna bianca ondeggia come se il suo corpo ospitasse il mon-
do degli altri. Donna Margarida si rende conto dell’affronto.
Urge creare disattenzione. Fa il suo dovere di madre: compie
il rituale, la giacca già pronta a coprire il figlio. Un gesto bru-
sco fa saltar via la giacca.
«È stata un’altra volta alle lagune!»
Ventizinco 29

Sempre cullata da un’inudibile musica, Irene va incontro


al nipote e gli mostra la boccetta. Margarida, invano, gestico-
la. Intima alla sorella di darsi un contengo. Ma Irene sfida il
nipote. La ragazza che faceva? Apriva le finestre nelle notti di
tempesta?
«Sai che cos’è questo, nipote?»
«Sei stata di nuovo a quello schifo di lagune?!»
«Dentro questa boccetta c’è un’acqua che mi ha dato Jes-
sumina».
Si ferma, avvampata. E spiega con il cuore nelle paro-
le: quello era il liquido in cui gli avvoltoi lavano gli occhi.
Quell’acqua affinava le visioni a chi ne era sprovvisto. E lei
aveva chiesto quel liquido per lavare gli occhi di Tchuvisco, il
cieco suo amico.
«Non voglio sentir pronunciare quel nome».
«Chi? Tchuvisco? E perché, Lourenço?»
«Quel nome non sarà pronunciato un’altra volta in questa
casa. Non ti avevo detto che non ti volevo più vedere con quel
negro?»
Irene solleva il mento, sfrontata. La sua voce sossalta tra
acuti e raucità, versando frasi nei respiri. Ed ecco trasferito
qui il confronto di un’altra guerra. In questo conflitto la voce
di Irene è come un grilletto, a volte, come un filo tremante,
altre volte, sorpresa dalla sua stessa grandezza.
«Lourenço, non hai capito una cosa: tu non comandi, tu
dai solo ordini. Capito?»
«Allora ti comando una cosa: copri queste gambe imme-
diatamente».
Irene, di sfida, sbottona la gonna. La stoffa le cade, in un
sospiro, ai piedi. Poi, in un colpo, fa saltare i bottoni della
blusa. Così, in vasta nudità, si mette di fronte al nipote. L’uo-
mo reagisce con scatenata violenza. Le strappa dalle mani la
boccetta e la scaraventa contro il pavimento:
30 Mia Couto

«Guarda che faccio al tuo intruglio!»


Gli occhi di Irene si infiammano. Gradatamente il viso le
si spropria. La donna, si vede, perde la sostanza e il volume
del giudizio. Solleva i capelli con le due mani come se volesse
domare l’anima che le sfugge. Con un aspro sibilo fa gelare la
sala.
«Allora io vi dico: questa casa andrà alla rovina, fino a far
marcire lo spirito di quel mostro che fu tuo padre».
Lì c’è solo il tempo, avvinghiato al silenzio. In un angolo,
Margarida, si riassume in lacrime. Irene prosegue, svolgendo
il discorso con lentezza.
«Dovrete seppellire mille volte questo morto. E sarà sem-
pre sepoltura falsa. Ché questa terra mai e poi mai lo accet-
terà».
Svestita e stravolta, Irene si avvicina alla poltrona dove, in
vita, Castro celebrava i pasti. Il posto del morto si era conser-
vato lì, intoccabile. Nella tavola apparecchiata, posate, piatti e
bicchieri inscenavano presenza. Il nome di Joaquim de Castro
non si pronunciava mai, dopo la sua morte. Ma la sedia si
sorvegliava come se si vegliasse una resurrezione. Con furia,
Irene affronta il posto del morto. Rovescia la sedia, getta il
tovagliolo sul pavimento. Il nipote si alza con deciso alla vio-
lenza. Il braccio della madre gli impedisce il gesto. Lourenço
mostra debolezza nel fare, incompetente nel tacere. Di nuovo,
Irene gli tiene testa:
«Pensi di avere il potere di uccidere? Ma questa gente, i
negri come li chiami tu, ha poteri che non conosci. Questi
che hai ucciso stanno ancora qui, da questo lato della vita. Tu
uccidi solo quelli che loro lasciano morire».

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