Frontiere perdute
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Ruy Belo
João Paulo Borges Coelho
Indizi indiani
A cura di Vincenzo Russo
Traduzione dal portoghese di Alfredo Sorrini
Edizioni dell’Urogallo
Titolo originale: Índicos Indícios, Caminho, Lisboa 2005
Copyright © 2005 João Paulo Borges Coelho
By arrangement with Literarische Agentur Mertin
inh. Nicole Witt & K., | Frankfurt | Germany
isbn/ean: 978-88-97365-36-5
Edizioni dell’Urogallo
Corso Cavour, 39 | 06121 Perugia | www.urogallo.eu
Indizi di un altro oceano:
il Mozambico indiano di João Paulo Borges Coelho
un’africa di carta
I
n un romanzo di José Saramago dedicato alla regione
rurale del Portogallo, l’Alentejo (Levantado do chão, tr.
it. Una terra chiamata Alentejo), il Nobel portoghese
precisa di non volere scrivere “un libro sull’Alentejo”, ma che
desidererebbe poter dire “questo è l’Alentejo”. Per analogia,
si potrebbe dire che i racconti di João Paulo Borges Coelho,
“mozambicano nato a Oporto”, organizzati geograficamente
in due parti, Settentrione e Meridione (che riproducono la
suddivisione in due parti della edizione originaria del 2005)
perseguono la medesima, impossibile utopia. Questo è il
Mozambico. Luogo lontano da tutte le rotte (con la singolarità
contemporanea, per la sua posizione in Africa Australe, di
essere l’unico Paese del Commonwealth non di lingua inglese)
ma che, a lungo, tutte le rotte occidentali dirette in India, dopo
il viaggio di Vasco da Gama, lo hanno straordinariamente
avvicinato alla Europa per il tramite del Portogallo. Con un
transito che è divenuto nei secoli un museo a cielo aperto,
6 roberto vecchi | vincenzo russo
rimbas, di fronte alla costa di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico.
Ibo è stata la prima capitale, nel xvii secolo, di quello spazio litorale oc-
cupato dai portoghesi che è oggi il Mozambico. Già prima dell’arrivo dei
portoghesi Ibo era un porto nevralgico nelle rotte commerciali della regio-
ne. Le vestigia di questo antico e ricco passato sono ancora oggi testimo-
niate dalla multietnicità della popolazione e dalla compresenza di diverse
lingue, culture e religioni.
Il tessuto incantato
P
er arrivare all’Isola di Mozambico bisogna attraversare
un ponte. Un ponte stretto, metallico, quasi infinito,
che ci porta dalla terraferma all’altro capo. Come sem-
pre, c’è il punto di vista di chi guarda l’Isola con diffidenza e
quello di chi la considera il centro del mondo, e dall’altro lato
solo giungla. Ad ogni modo, comunque la si voglia vedere, è
nel ponte che risiede tutto il mistero di ciò che unendo, ma-
terializza il ricordo della separazione. Senza ponte sarebbe un
mondo a parte; con esso l’Isola si è trasformata in un’isola, uno
spazio chiuso dal quale si entra o si esce solo se si attraversa il
ponte. Come in tutte le isole gli abitanti sono inquieti, quasi
sempre guardano al continente con sufficienza, altre volte con
desiderio. Sebbene mai si decidano a raggiungerlo.
È la stessa inquietudine di Jamal il sarto, seduto davanti al
suo banco di legno nero e senza età, in quell’immensa stan-
za antica dalle pareti spesse, tagliata a metà dalla cruda luce
del giorno che attraverso la porta irrompe dall’esterno come
una lama che lacera la carne. E a mano a mano che il giorno
avanza, rivoltando il coltello nella scura ferita, le penombre
cambiano di posto e con esse Jamal; ora rifugge la luce alla
ricerca di un po’ di frescura, ora la ricerca per poter vedere
quello che sta facendo con la sua Singer, anch’essa senza età,
i rozzi piedi azionando i pedali della macchina che comincia
a borbottare e, al ritmo di questo suono, a cucire i tessuti che
ha tra le mani.
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giata di ruggine se gli capitava tra i piedi, e che per poco, nella
sua irritata distrazione, non si aprì la gola sbattendo contro il
filo della maçaniqueira. Ombre che rappresentano i periodi
di decadenza, a volte ritratti con ricami appropriati, in punto
spino o in punto croce obliquo, altre con rabbiosi scarabocchi
che quasi feriscono il tessuto, l’odio e la frustrazione di Jamal
colato su di esso nelle tante notti di sofferenza, mentre l’intera
isola dormiva.
Muore lo Sceicco Jimba – il tessuto ci dice che siamo nel
1921 – lasciando allo Sceicco Gulamo il compito di dirigere i
destini della dikiri. Diversi notabili mettono in discussione la
legittimità di questa successione, il ricamo si aggroviglia per
dar conto degli argomenti dell’accesa discussione. Da uno dei
gruppi nasce la dikiri Shadulliyya Madaniyya, quella a cui ap-
partiene Jamal, per questo rappresentata con grande intensità
e dovizia di particolari, sebbene si trovi alla fine del tessuto.
Un ultimo anelito di purezza in mezzo alle macerie. Un fragile
e pallido fiore in mezzo alle pietre dell’Isola. In questo punto
vari segni ci descrivono il chiaro ripudio di Gulamo. È nar-
rato che predicava versioni deboli dell’Islam, che condiscen-
deva vigliaccamente al mondo europeo come a quello africa-
no, contaminando in questo modo la purezza del Messaggio.
A rivolgere le accuse è il solo al-Madani, anche se Jamal lo
considera, e lo ricama, nella linea destra della successione di
Jimba, di Ma’ruf, di Darwish, di al-Yashruti, di al-Shadhuli, e,
inshAllah!, del Profeta stesso.
Da qui il tessuto perde di nuovo lucentezza, soverchiato da
colori cupi e punti privi di tecnica in grado di distinguerli e di
suscitare incanto; solo scarabocchi simili a quelli di un bam-
bino. Scarabocchi sporchi che esalano l’odio trasudato dalle
mani di chi li ha cuciti, sebbene guidate dal candido intento
della purezza. Due risaltano sugli altri, eseguiti con un vago
punto zig zag, pieni di spigoli simili a spine. Uno si riferisce
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