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Urogallo.

Frontiere perdute

10

Non so che uccello sia l’Urogallo


e se l’ho visto, l’ho visto solo in una foto vista
sulla quarta di una certa rivista
So solo che vive solitario e libero
e so che la solitudine e la libertà
sono condizione di vita per chi
vuole alzare la testa sulla morte viva o morte morta…
[…]

Ruy Belo
João Paulo Borges Coelho

Indizi indiani
A cura di Vincenzo Russo
Traduzione dal portoghese di Alfredo Sorrini

Edizioni dell’Urogallo
Titolo originale: Índicos Indícios, Caminho, Lisboa 2005
Copyright © 2005 João Paulo Borges Coelho
By arrangement with Literarische Agentur Mertin
inh. Nicole Witt & K., | Frankfurt | Germany

Obra apoiada pela Direção-Geral do Livro e das Bibliotecas | Portugal


Opera sovvenzionata dalla Direção-Geral do Livro e das Bibliotecas | Portogallo

A cura di Vincenzo Russo


Traduzione dal portoghese: Alfredo Sorrini
Copertina: Dario De Leonardis | Absolutezero Studio www.absolutezero.it
Revisione, impaginazione ed editing: Marco Bucaioni

isbn/ean: 978-88-97365-36-5

Per l’edizione italiana: copyright © 2017, Edizioni dell’Urogallo. Tutti i di-


ritti riservati. La riproduzione dell’opera è possibile nei limiti fissati nell’ac-
cordo del 18 dicembre 2000 fra s.i.a.e., a.i.e., s.n.s. e c.n.a, Confartigianato
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per la riproduzione a pagamento, a uso personale, dei libri fino a un mas-
simo del 15%, nell’ambito dell’art. 68, co. 3, 4 e 5 della legge 633/1944.

Edizioni dell’Urogallo
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Indizi di un altro oceano:
il Mozambico indiano di João Paulo Borges Coelho

Ma è giusto non dimenticare che, oltre alla storia, sento


con lo stesso peso, la geografia, il respiro dei luoghi.

João Paulo Borges Coelho

un’africa di carta

I
n un romanzo di José Saramago dedicato alla regione
rurale del Portogallo, l’Alentejo (Levantado do chão, tr.
it. Una terra chiamata Alentejo), il Nobel portoghese
precisa di non volere scrivere “un libro sull’Alentejo”, ma che
desidererebbe poter dire “questo è l’Alentejo”. Per analogia,
si potrebbe dire che i racconti di João Paulo Borges Coelho,
“mozambicano nato a Oporto”, organizzati geograficamente
in due parti, Settentrione e Meridione (che riproducono la
suddivisione in due parti della edizione originaria del 2005)
perseguono la medesima, impossibile utopia. Questo è il
Mozambico. Luogo lontano da tutte le rotte (con la singolarità
contemporanea, per la sua posizione in Africa Australe, di
essere l’unico Paese del Commonwealth non di lingua inglese)
ma che, a lungo, tutte le rotte occidentali dirette in India, dopo
il viaggio di Vasco da Gama, lo hanno straordinariamente
avvicinato alla Europa per il tramite del Portogallo. Con un
transito che è divenuto nei secoli un museo a cielo aperto,
6 roberto vecchi | vincenzo russo

come la Ilha de Moçambique, a cui è dedicata proprio la


prima estória settentrionale, “Il tessuto incantato”.
La geografia dunque appare come un elemento dominante
gli Indizi. Si potrebbe osservare anzi che la geografia è stata una
delle discipline fondamentali nella costruzione degli Imperi
moderni europei in Africa. Di qui la enorme importanza
delle Società di Geografia che erano i bracci scientifici delle
occupazioni militari territoriali nei luoghi dell’ignoto, enorme
continente africano. Una tendenza assecondata anche dal
celebre e purtroppo molto strumentalizzato anatema di Hegel
quando definiva l’Africa un continente ai margini della storia,
dove la storia vera e propria non poteva avere luogo. Illimitati
spazi ma privi di tempo, di un tempo riconosciuto dal dominio
culturale dell’occidente.
E dunque ricorra il lettore al Mozambico “scritto” di
João Paulo Borges Coelho per evitare i pericoli della Storia
“unica” e della Geografia “unica” che il colonialismo europeo
aveva tracciato a suo uso e consumo: un’altra Storia e un’altra
Geografia imparerà a tracciare.

indizi indiani: della storia.

Borges Coelho è uno storico di formazione accademica. Vero


è che la sua disciplina di specializzazione ha strettamente a
che vedere con l’oggetto musale per eccellenza degli Indizi
indiani, l’Oceano, in particolare l’orlatura delle sue coste.
Si tratta, come si osserva scrupolosamente nelle note che
accompagnano le diverse narrazioni, di una costa immensa,
di 2500 chilometri che si dilata ulteriormente considerando i
bordi delle numerose isole al largo. E sono ricorrenti in questi
Indizi le storie ambientate su isole. Forse perché anche lo
stesso Mozambico, nel suo insieme, può essere visto come una
indizi di un altro oceano 7

specie di isola singolare, metaforica nel frastagliato arcipelago


dell’Africa Australe o, ampliando lo scala dello zoom,
nell’arcipelago oceanico che unisce insieme tre continenti ed
una infinità di mondi in cui riflessi remoti e attenuati finiscono
per infrangersi sulla cornice litoranea mozambicana. E a
lasciare tracce.
Anche la forma letteraria scelta poi ha a che vedere con il
ritaglio della insularità, la sua ricerca di un riscatto della storia.
Le estórias, le forme brevi, i racconti, sono infatti il risultato
disperso di una lunga genealogia letteraria che attraversa un
largo spazio delle culture di lingua portoghese. Per trovarne
la definizione più efficace, occorre varcare un altro oceano,
l’Atlantico, e approdare a un classico novecentesco della
letteratura brasiliana, João Guimarães Rosa, che in una delle
quattro prefazioni di Tutaméia (“Aletria e hermenêutica”)
del 1967 chiarisce le caratteristiche del genere “la estória non
vuole essere storia. La estória, a rigore, deve essere contro la
Storia. La estória, talora, vuole essere un po’ simile al motto
di spirito”. Così codificata e anzi indipendentemente dalla
sua configurazione critica, la estória (vale la pena non tradurla
per la forza significativa che conserva) prende a circolare
nell’Africa di lingua portoghese, negli anni ’60, ai tempi dei
primi segnali di agonia del colonialismo portoghese. I due
casi più vistosi citabili sono quelli dello scrittore angolano
José Luandino Vieira (Luuanda, 1963) e, in Mozambico, Luís
Bernardo Honwana (Nós matamos o cão tinhoso, 1964). Ma
a consacrare le estórias in epoche più ravvicinate, sempre in
Mozambico, in una fase sensibilmente ulteriore rispetto al
contrasto del colonialismo, il mozambicano Mia Couto con
incantevoli estórias, tra cui, non sole, Estórias abensonhadas,
1994, dominate proprio dal tema dell’acqua.
Le estórias così, nella ricollocazione letteraria nella
genealogia in portoghese tra secondo Novecento e inizio
8 roberto vecchi | vincenzo russo

millennio, si connotano non solo per la potentissima sovranità


che come forma letteraria circoscritta conferisce all’autore un
potere di condensazione e di rappresentazione, ma anche per
un connubio critico tra poetica e politica, proprio perché
contrastano, con l’acutezza del loro taglio, la Storia vera e
propria.
Nella forma, insomma, si può forse trovare una
argomentazione convincente a quella che è la singolarità più
vistosa di João Paulo Borges Coelho: uno storico professionista
la cui scrittura della storia ricorre alla narrazione, dedicata
in particolare alla guerra, coloniale prima, e poi a quella
interminabile e senza nome, la guerra civile dalla indipendenza
agli accordi di pace del 1992, mediati dalla Comunità di
Sant’Egidio – chiamata in modo neutrale ed anodino “guerra
dei sedici anni”. La ragione è evidente: la finzione permette di
giungere a una profondità di conoscenza talora interdetta agli
storici accademici, per il vuoto documentario o la distruzione
dell’archivio degli eventi. Soprattutto, in un continente come
l’Africa, in un Paese come il Mozambico che presenta amnesie,
ricorrenti ed incolmabili sul passato, coloniale e non solo.
Il vizio dello storico si scorge facilmente anche negli
Indizi indiani. In un paio di racconti, “I colori del nostro
sangue” della parte di Settentrione e “La ballata di Xefina”
del Meridione, la bibliografia critica è indispensabile per
originare la estória. Che si pone così non contro, ma in una
posizione supplementare rispetto alla Storia, illuminando
recessi altrimenti inesplorabili.
Per converso, proprio dalla letteratura, sgorga poi il tratto
fondamentale a cui il titolo della raccolta letteralmente rende
omaggio: quello riconducibile al paradigma indiziario. La
memoria che pazientemente si intesse con le estórias – che
ha come denominatore comune il riflesso acquatico di un
immenso oceano mare – è incompleta e frammentaria, non
indizi di un altro oceano 9

permette la ricostruzione piena e articolata di un tempo,


doloroso e trapuntato di tragedie personali e collettive, che
non si lascia più riscattare. Restano gli indizi, i segnali, le
spie (e qui riemerge lo storico attento alle metodologie della
microstoria) dei saperi asistematici, frammentari, lacunosi,
in grado però, proprio nella loro palese insufficienza, di
trattenere qualche brandello del passato.
Dai racconti qui riuniti emergono alcuni elementi
in particolare, situati in spazi così nitidamente distinti,
sommersi e vivificati da una diversità culturale che è la
ricchezza di un Paese all’apparenza piccolo, rispetto alle
vastità africane, dalla storia profondamente martoriata.
Il primo è costituito dalle trame di relazioni umane che
illuminano la terra e ne fissano un momento, dando così
una forma storica al Paese. È l’oceano, non letterale ma
metaforico, che questo Paese trattiene come una rete calata,
ma al contrario, dal mare verso la terra e che mostra la forza
delle culture e dei saperi, i valori della tradizione quando
si riequilibra rispetto alla distorsione del passato e di tante
modernità fallite (la principale delle quali è l’ombra ancora
densa del colonialismo portoghese e delle sue scomode
eredità di violenza ancora attive).
L’altro aspetto ha a che fare con una potenza della scrittura
di Borges Coelho, quella che riformula la storia in una direzione
letteraria. Si tratta di mantenere la fattualità sempre presente
certo, ma esplorandola nelle sue zone limitrofe, che vanno dal
sogno al mito, dalla immaginazione alla memoria. E plasmano
così una dimensione del tutto umana della storia. Questa
capacità di trasfigurazione, accanto alla umanità vivissima
ritratta dalle estórias, è una finestra che rende universale la
materia di cui si imbeve l’oceano indiano, facendola uscire
dalla sua singolarità ma, per paradosso si direbbe, valorizzando
proprio il suo tratto di straordinarietà.
10 roberto vecchi | vincenzo russo

È questo che in estórias come “I colori del nostro sangue”


dove le versioni del vero – dunque le interpretazioni possibili
– sono molteplici, fa emergere la figura del Mozambico come
un grande corpo ferito ma pieno di vita, una vita che è il
sangue, peraltro tema dominante della narrativa, ad assicurare.
Così, tra oceano indiano e altri mari (come il Mediterraneo)
si possono aprire straordinari varchi e inaspettate relazioni. È
sufficiente farsi guidare non solo dalla letteratura incorniciata
e brillante delle estórias, ma anche dalla esegesi colorata degli
indizi indiani disseminati in ogni racconto: oltre a dischiuderci
un mondo infinito e incantato, diventeranno subito una parte
di noi.

indizi indiani: della geografia.

La letteratura ha un potere che la cartografia non possiede:


la prima mapperebbe anche le geografie dell’invisibile,
dell’immaginato, dell’assenza, la seconda riduce a
convenzione grafica per i nostri limitati occhi lo spazio, gli
spazi sconfinati. Non era Borges che irrideva quei cartografi
dell’Impero che per anni avevano lavorato alla creazione di
una mappa del territorio che pretendendo di restituire la
realtà spaziale su scala 1 a 1 sarebbe stata inservibile? Non
era Italo Calvino che ironizzava sul cosmografo secentesco
della Serenissima, Vincenzo Coronelli, che poteva ancora
riempire la mappa di cose che non esistono nel territorio
rappresentato (“Mi sono trovato con uno spazio da riempire
e vi ho messo questa iscrizione”)? Insinuavano un dubbio: la
cartografia è solo riduzione scientifica del territorio? Oppure
ogni mappa, proprio perché le è impossibile sfuggire al
paradosso cartografico di ritrarre i fondamentali rapporti di
un mondo complesso, tridimensionale su un foglio di carta o
indizi di un altro oceano 11

su uno schermo “piatto”, deve inevitabilmente – anche essa –


distorcere la realtà?
La letteratura si serve della mappa in cui, come sosteneva
Calvino, ormai anche “l’inesplorato acquista il diritto di
cittadinanza”, per raccontarci, tra le increspature della
conoscenza del fatto territoriale e la convenzione della finzione
cartografica, una geografia di segni e di voci, di tempi e di
significati che se si sottrae alla razionalizzazione degli spazi
è dunque impossibile da riprodurre su qualsiasi mappa. Il
luogo non è solo la sua rappresentazione cartografica, anche
se – come ben sappiamo – la carta geografica ha da sempre
affascinato l’immaginario letterario.
Il potere della mappa deriva in gran parte dal fatto che cerca
di far vedere “ciò che esiste”. Eppure le mappe accendono
il fascino dell’immaginazione, diventano espressione di
desideri e sono, nonostante tutto, oggetto di mistificazione:
l’anamorfosi della proiezione cartografica consente di vedere il
mondo in un colpo d’occhio, secondo uno dei sogni faustiani,
ma inevitabilmente lo distorce.
Il territorio e la mappa. Il fatto e la sua rappresentazione.
Ma il luogo, ogni luogo è anche fortunatamente altro: i
luoghi, in quanto vólti dell’abitare e del passaggio, diventano
veri e propri palinsesti – diacronicamente stratificati – di
forme storiche e di costruzioni identitarie, di imposizioni
(spesso) violente di modelli culturali eterogenei (nel caso del
colonialismo europeo in Africa), o di traduzioni ripetibili –
nella limitatezza della terra – di paesaggi “unici”.
L’opera letteraria non si deve intendere unicamente come
specchio dell’oggettività geografico-territoriale, ma appunto
come archivio delle esperienze “soggettive” del territorio
(che sono della stessa sostanza di cui sono fatte le emozioni,
le passioni, le memorie…) in grado di trasmettere lo spirito, il
respiro dei luoghi, il genius loci.
12 roberto vecchi | vincenzo russo

Gli Indizi indiani di João Paulo Borges Coelho possono


esser letti come un potente e luminosissimo sforzo di sottrarre
alla geografia coloniale e post-coloniale del Mozambico (e alle
sue deterministiche ragioni) i luoghi di questo, per noi lettori
italiani, “esotico” e familiare paese africano, indipendente da
ormai 40 anni, dopo il lungo e estenuante periodo coloniale
portoghese. Uno sforzo che la letteratura di queste estórias,
tanto più perché praticate con gli strumenti dello storico, riesce
laddove falliscono altre ri-territorializzazioni: il Setentrião e il
Meridião sono anche nella loro struttura di raccolta di racconti
un archivio di luoghi e di storie, di affreschi o particolari
paesaggistici in cui coste e fiumi, spiagge e isole, quartieri
e periferie ripetute, foreste e radure, e persino insoliti non-
luoghi senza nome, tra frontiere irriconoscibili tra Stati e
il mare-dappertutto (l’Oceano Indiano), riscattano da un
ostinato silenzio della Storia, un indizio, un dettaglio, forse
un resto. “All’origine di tanti nomi e tanti incontri, di tanta
diversità, c’è sempre lui, il mare”, scrive João Paulo Borges
Coelho.
Indizi indiani, appunto, dove, l’attenzione dell’autore (da
storico qual è) si sposta come modus operandi sul marginale,
sull’anomalo, sul residuale: una scrittura controllatissima
e chirurgica che rivela la volontà di riscattare, per tutti
quei luoghi della nazione che per convenzione chiamiamo
Mozambico, il senso e la dignità.
Da nord a sud, dall’isola di Mozambico – luogo comune di
tanta letteratura mozambicana – a Nampula, da Quelimane
alla provincia di Sofala con la sua capitale Beira, fino a Maputo
passando per Inhambane, le estórias di João Paulo Borges
Coelho informano e relazionano (non a caso, l’autore cita in
certi casi la fonte di ispirazione: un saggio di storiografia o
un’anonima relazione ottocentesca) di luoghi ben precisi delle
dieci province del Paese. Il Nord e il Sud del Mozambico si
indizi di un altro oceano 13

raccontano all’incrocio delle tradizioni storiche e culturali,


linguistiche e religiose, all’ombra di un testimone silenzioso
e onnipresente che è l’Oceano Indiano, quasi a ristabilire
un’antica giustizia nei rapporti fra il mare e la costa, fra gli
uomini e le acque, l’acqua-paura e l’acqua speranza. Alla parola
letteraria spetta il minuzioso e infinito compito di scrivere e
riscrivere i termini di questo rapporto che il Mozambico ha o
riscopre di avere con il suo oceano: che stabilisca nuovi patti
o si fondi su antiche minacce la cui eco è ancora udibile, è
dell’inesauribile legame tra il Mozambico e il suo mare che ci
parlano questi Indizi indiani di João Paulo Borges Coelho.

Roberto Vecchi e Vincenzo Russo


Indizi indiani
Settentrione
L’
Oceano Indiano bagna, uno a uno, i circa mille e cin-
quecento chilometri di costa mozambicana – un’esten-
sione ragguardevole. Ancor di più se consideriamo le
isole sparse lungo questa costa, innumerevoli. E molto, molto
di più se teniamo conto delle storie che questo semplice fat-
to ha alimentato nell’immaginario del presente e del passato.
Un’acqua tranquilla che sa infuriarsi. Azzurra, se riflette il sole,
tante volte livida, intorbidita da tutto quello che la costa lascia
fluire dalle sue liquide vene – terre e cespugli, memoria e morti
affogati, intrighi e ricerche – che qui si aprono a nutrirla.
Sono questi gli Indizi Indiani, e li ho organizzati in due
parti, seguendo un criterio meramente geografico. La prima,
Settentrione, vaga lungo le coste e le isole del lontano nord
mozambicano.
Nella seconda, Meridione, sono narrate le storie della baia
una volta chiamata Delagoa.
“Il tessuto incantato” contiene il ricamo di diverse storie
dentro la stessa storia: sullo spazio, sul tempo e sulle miste-
riose forze che alimentano le nostre convinzioni; alcuni testi
inediti di Liazzat Bonnat mi hanno aiutato a percorrere que-
sto labirinto.
La morale contenuta in “Case di ferro” è che qualsiasi po-
sto può essere la nostra casa,
“L’hotel dalle due porte”, oggi antica rovina che l’erosio-
ne sbriciola come pane tra le dita, diventa lo scenario di una
storia di solitudine, ma anche sull’orrore che una scoperta a
volte può rivelare.
20 joão paulo borges coelho

“I colori del nostro sangue”, per il quale mi sono avvalso


del prezioso aiuto di un testo di Nina Bowen (Os Chupa-San-
gue na Província da Zambézia, in Estudos Moçambicanos, n.
19, Maputo, 2001), riguarda le rotture e le sfide che la moder-
nità trascina con sé, e tutto quanto siamo capaci di escogitare
per fornire risposte adeguate.
Infine, “Ibo Azul”, l’ultima isola, nonché quella delle
origini,1 parla della scintilla che il breve istante di un incontro
può innescare.
All’origine di tanti nomi e tanti incontri, di tanta diversità,
c’è sempre lui, il mare.

L’Isola di Ibo è una piccola isola corallina situata nell’arcipelago Qui-


1

rimbas, di fronte alla costa di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico.
Ibo è stata la prima capitale, nel xvii secolo, di quello spazio litorale oc-
cupato dai portoghesi che è oggi il Mozambico. Già prima dell’arrivo dei
portoghesi Ibo era un porto nevralgico nelle rotte commerciali della regio-
ne. Le vestigia di questo antico e ricco passato sono ancora oggi testimo-
niate dalla multietnicità della popolazione e dalla compresenza di diverse
lingue, culture e religioni.
Il tessuto incantato

P
er arrivare all’Isola di Mozambico bisogna attraversare
un ponte. Un ponte stretto, metallico, quasi infinito,
che ci porta dalla terraferma all’altro capo. Come sem-
pre, c’è il punto di vista di chi guarda l’Isola con diffidenza e
quello di chi la considera il centro del mondo, e dall’altro lato
solo giungla. Ad ogni modo, comunque la si voglia vedere, è
nel ponte che risiede tutto il mistero di ciò che unendo, ma-
terializza il ricordo della separazione. Senza ponte sarebbe un
mondo a parte; con esso l’Isola si è trasformata in un’isola, uno
spazio chiuso dal quale si entra o si esce solo se si attraversa il
ponte. Come in tutte le isole gli abitanti sono inquieti, quasi
sempre guardano al continente con sufficienza, altre volte con
desiderio. Sebbene mai si decidano a raggiungerlo.
È la stessa inquietudine di Jamal il sarto, seduto davanti al
suo banco di legno nero e senza età, in quell’immensa stan-
za antica dalle pareti spesse, tagliata a metà dalla cruda luce
del giorno che attraverso la porta irrompe dall’esterno come
una lama che lacera la carne. E a mano a mano che il giorno
avanza, rivoltando il coltello nella scura ferita, le penombre
cambiano di posto e con esse Jamal; ora rifugge la luce alla
ricerca di un po’ di frescura, ora la ricerca per poter vedere
quello che sta facendo con la sua Singer, anch’essa senza età,
i rozzi piedi azionando i pedali della macchina che comincia
a borbottare e, al ritmo di questo suono, a cucire i tessuti che
ha tra le mani.
22 joão paulo borges coelho

O meglio, sarebbe più corretto dire, per poter vedere quello


che sta facendo con la Singer del signor Rashid, il proprietario
della Sartoria 2000, una bottega con il nome di un futuro già
sorpassato. È questo il problema delle date quando trasmet-
tono la sensazione di essere fari che illuminano la meta. Come
se ritagliassero il tempo vero quando, in realtà, ritagliano solo
quello racchiuso nella nostra coscienza. Che bello sarebbe se
fosse così semplice, lento quello che ci procura piacere, ra-
pido il dolore; futuro quello che sta davanti, passato quello
che già è stato. Purtroppo così non è in quest’isola, dove le
relazioni che si stabiliscono tra le cose e il tempo obbediscono
a leggi misteriosissime.
Il signor Rashid, per esempio, decise un giorno che il fatto
di chiamare il suo negozio Sartoria 2000 servisse a proiettarlo
direttamente nel futuro, mostrando nell’immediato cosa sa-
rebbe accaduto una volta arrivati a quella data, in quel tempo
ancora così distante ma per lui già tangibile.
Sarà così quando varcheremo il millennio,
disse,
tutti gli affari fioriranno come fiorisce il mio adesso.
È che oltre a dare un bell’aspetto alla sartoria, il nome ab-
belliva il circondario e l’intera Isola. 2000. Futuro. Ma il tem-
po passò veloce, si approssimò alla fine del millennio supe-
rando l’ultimo dell’anno con la stessa disinvoltura con la qua-
le supera tutti gli altri, con l’unica differenza che la Sartoria
2000 divenne finalmente una sartoria comodamente adagiata
nell’anno che le spettava. Più tardi, quello stesso tempo che
non si ferma mai continuò veloce la sua marcia verso il futuro,
fino a provocare un’inversione del senso che il signor Rashid
aveva desiderato un giorno dare al suo progetto. Il futuro si
fece passato, e quella che un tempo era stata la promettente
Sartoria 2000 si trasformò in un’attività stagnante, se non de-
cadente, una prova dell’ingenuità di chi si illude di assogget-
indizi indiani | settentrione 23

tare il divenire alle proprie aspirazioni, sottraendolo al capric-


cio di chi governa su di noi e sul tempo, chiunque esso sia. Di
modo tale che dietro a quella pesante porta scorre adesso un
futuro del passato, invero un’ingenuità del signor Rashid più
che nostra, visto che sua fu l’idea e sua l’iniziativa.
O forse no. Perché, per quanto ci sforziamo di cercare, da
nessuna parte appare la scritta Sartoria 2000. Nessuna lette-
ra, nessun pannello, neanche un semplice foglio di carta con
un timbro, impresso in una sperduta tipografia di Nampula.
Sappiamo che è quello il nome del negozio perché il signor
Rashid ci avvicina per strada, parlando a voce bassa come chi
sussurra un segreto:
Entri pure, caro cliente, questa è la Sartoria 2000, facciamo
vestiti per uomo, donna e bambino, riparazioni,
dice proprio così, volendo intendere rammendi,
riparazioni, orli, aggiusti, di modo che se anche ingrassa o
dimagrisce – in genere dimagrisce, ché qui ingrassa solo chi è
malato – potrà continuare a indossare le stesse cose.
E il signor Rashid prosegue come un moscone a graffiare
l’aria intorno alle nostre orecchie:
ho già cucito vestiti per tanti portoghesi importanti, poli-
tici, dirigenti,
intendendo con questo che può farli anche per noi, che
siamo più terra terra, senza l’aspetto di un politico o di un
dirigente, con un corpo ordinario, facilissimo da misurare.
Posso perfino indovinare a occhio, senza l’aiuto del metro,
quanto misura il girovita, il busto e la gamba, quanto è alto
dalla parte di dentro della caviglia fino all’inguine, dalla parte
esterna fino all’anca: vuole scommettere?
Tutto questo detto a voce, niente per iscritto.
Come a voce è l’orario di apertura e di chiusura, a volte
alle sette, a volte alle undici, la mattina l’apertura, verso sera o
quando è già notte la chiusura. E, se ce ne fosse bisogno, se la
24 joão paulo borges coelho

nostra urgenza dovesse essere grande, non sarà certo un pro-


blema, basterà una parolina del signor Rashid perché Jamal
continui a cucire le nostre cose fino a notte fonda, alla luce
della lampada, Jamal a pedalare e la Singer a borbottare, men-
tre le sue mani guideranno la stoffa lungo i tratteggi lasciati
dal signor Rashid col morbido gessetto azzurro triangolare,
linee che riassumono i capricci del nostro corpo, lo spazio del
tessuto che occuperemo, una curva qui, una un po’ più in là,
ora a restringere sapientemente ora ad allargare con prudenza,
in modo da farci apparire il più possibile simili all’immagine
che desideriamo. Al momento ancora tutto piano, disteso. Ma
non ci dobbiamo preoccupare, è una fase appena provvisoria,
ché a decifrare meglio di chiunque altri gli arabeschi lasciati
sul tessuto dal signor Rashid ci penserà Jamal.
Con gesti attenti porterà alcune delle linee all’ago, per
forarle; ne ignorerà altre, false piste da non seguire, segnali
messi lì a indicare la necessità di un trattamento più radicale,
quello che il signor Rashid provvederà a mettere in atto con
l’aiuto delle sue scure e pesanti forbici. È che in queste altre
linee, segnate in maniera diversa, quasi a voler dire:
«Attenzione! Qui non bastano ago e filo, è necessario am-
putare!»
il signor Rashid ci passa le predette forbici, affilatissime
tagliano il morbido tessuto emettendo un suono pieno di erre
vellutate – un poco da una parte, un poco dall’altra, renden-
dolo oramai inutilizzabile o utilizzabile a malapena per scopi
che non è dato conoscere – e un brivido ci percorre, come se
insieme al tessuto le forbici tagliassero anche noi, e il signor
Rashid sorride, compatendo la nostra preoccupazione.
Non si preoccupi, quello che mi appresto a separare sarà
poi ricomposto in un nuovo e opportuno ordine; non si pre-
occupi che non la lascerò con le gambe separate dal busto.
Tutto quello che separo adesso sarà poi riunito nella nuova
indizi indiani | settentrione 25

e giusta maniera, in modo tale che possa uscire da qui con la


stessa stoffa con la quale è entrato, prima piatta, uguale a tutte
le altre, adesso trasformata in un’opera d’arte tridimensiona-
le, modellata sul suo corpo, sia esso magro, grasso o normale,
come pare nel suo caso. Così su misura, che le sembrerà di
essere nato con il vestito addosso. E tutto questo a un prezzo
che la lascerà a bocca aperta.
Il tutto a voce, sussurrato dalle labbra del signor Rashid
alle nostre orecchie, in assenza di testimoni, di modo che,
qualora dovesse essere smentito, gli basterebbe negare per la-
sciarci con un pugno di mosche in mano. Tutto a voce visto
che del resto non esiste, come già sappiamo, né carta intestata,
in quanto i conti sono fatti a mente, né contabilità, giacché il
denaro passa direttamente dalle nostre mani alle tasche del
signor Rashid, seguendo il percorso inverso di quei pantaloni
che lui ha disegnato e tagliato, Jamal ha cucito con quell’intu-
izione di cui lui solo è capace e il signor Rashid ha ripreso in
mano per stirarli – soffiando dentro il ferro da stiro per man-
tenere acceso il carbone – prima di piegarli. Pantaloni piegati
e ancora caldi di qua; il denaro di là. E tutto si conclude senza
lasciare traccia, come non fosse mai accaduto, come se il de-
naro fosse nato nelle tasche del signor Rashid e i pantaloni
fossero sempre stati nelle nostre mani, sulle nostre gambe.
Se ha ancora qualche dubbio provi a ricordare,
dice ancora il signor Rashid, ritenendo che abbiamo la fac-
cia di chi ha buona memoria,
e si ricordi di un gessato di ottima fattura che il dottor
Arantes de Oliveira amava tanto sfoggiare ai tempi in cui era
Governatore-Generale, e che gli stava a pennello; lo comprò
qui, Jamal non vi lavorava ancora, noi ci chiamavamo già Sar-
toria 2000, un nome che all’epoca suonava molto più che di
futuro, sembrava spaziale, marziano. Più avanzato del nostro
nome, e comunque appena di un anno, solo il titolo di quel
26 joão paulo borges coelho

film americano che proiettarono a Nampula, nell’Almeida


Garrett, e che ebbe tanto successo. Il signor Governatore
pagò quell’abito una sciocchezza. C’è una foto dove tutto ciò
che veste è mio, eccetto le estremità, ovvero il cappello che
usava portare a volte in testa altre in mano, pare inviatogli da
Salazar in persona, e le scarpe che non so da dove vengano,
del resto non si può sapere tutto. Non fosse per me vedrem-
mo in questa fotografia un Governatore-Generale tutto nudo,
con le sole scarpe ai piedi e il cappello in mano!
E il signor Rashid ride, trovando divertente la propria bat-
tuta.
Tutto questo ovviamente a voce, senza niente di scritto.
Nell’accettare, saliamo l’unico gradino e penetriamo nella
penombra di quel grande salone con il pavimento di pietra,
i nostri passi riecheggiano in quell’immenso vuoto mentre
tendiamo al signor Rashid il pezzo di stoffa che abbiamo in
mano. Sì, perché la Sartoria 2000 non crea dal nulla, si limita
a trasformare; lavora solo con la materia prima che il cliente
porta con sé.
Una volta c’era di tutto,
assicura il signor Rashid,
lana di stamme o di cheviot, cachemire, velluti di seta e
cotone, lino grosso e lino fine, canapa, mussolina, chints, tulle
e perfino stoffa-da-negro in puro cotone di Daman per i più
poveri.
Poi più niente, forse perché su un’isola le cose di fuori fan-
no più fatica ad arrivare.
O forse, viene da pensare, per non lasciare tracce di tutto
quanto avviene in questo posto.
Gli porgiamo il pezzo di stoffa in cui riponiamo tante
speranze, fonte di tante e così particolari fantasie, e il signor
Rashid lo esamina con aria critica. Lo tasta, lo annusa, poi
mugugna con malcelato disincanto:
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non esistono più i tessuti di una volta!


Forse questa riserva serve solo a preparare il terreno, deni-
grare il tessuto che gli abbiamo portato aggiungerà più valore
al miracolo che sta per accadere, per opera e per grazia sua e
di Jamal.
Comunque, vedrò cosa posso fare.
Afferra un capo del metro a nastro che gli pende dalla spal-
la come un serpente addormentato, lo gira con un gesto sec-
co, adesso è un domatore che dà inizio al suo numero dopo
aver svegliato la fiera. Il metro si scatena.
Il signor Rashid, quindi, ci ordina di stare fermi, braccia
alte e gambe larghe, manco fosse un poliziotto che si appresta
a perquisirci. Sonda le parti del corpo – donna o uomo cambia
poco, la differenza risiede appena nella rotondità delle forme,
e pertanto nella diversità delle misure, non certo nelle con-
venzioni morali – per sapere chi siamo veramente, cosa che af-
fiora, ovviamente, molto meno dalle parole che diciamo, mol-
to più dal volume che occupiamo. Solo dopo aver compreso
quel che siamo veramente il signor Rashid potrà avere accesso
ai nostri sogni per poterli soddisfare. Immobili e vagamente
inquieti, ci sentiamo esplorati in quanto abbiamo di più inti-
mo che è il corpo, molto più che le idee, consapevoli di quan-
to sia inutile trattenere la pancia, irrigidire i muscoli, poiché il
suo metodo per arrivare alla verità è infallibile. Insensibile alle
nostre misere e profonde ansie interne, il signor Rashid con-
tinua a misurare e annotare i misteriosi numeri delle nostre
superfici su di un minuscolo pezzo di carta, con una matita
grossa di quelle che si usavano una volta, a due punte, una blu
e l’altra rossa, probabilmente l’ultimo esemplare a meno che,
previdente com’è, non ne abbia un altro uguale nascosto da
qualche parte. Numeri così misteriosi, quelli che annota, che
probabilmente nemmeno il più autorevole dei revisori conta-
bili riuscirebbe a ricavarne un significato plausibile.
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Quel trentasei, sarà veramente un trentasei oppure è un


trentaseimila?
Un sorriso.
È solo un trentasei, ma in centimetri. Non ceda alla sma-
nia, non apponga zeri laddove non esistono. Non serviamo
giganti, sua eccellenza, soltanto gente normale. Inoltre, siamo
scrupolosi, misuriamo tutto al centimetro.
Prese le misure, svelato questo segreto, possiamo finalmen-
te riposare. Abbassare le braccia, riunire le gambe e tornare
alla posizione di prima, a ciò che eravamo. Possiamo addi-
rittura approfittare di quella vecchia sedia per recuperare la
serenità smarrita. È una sedia senza età quella che ci offre,
forse austriaca, unico suppellettile a vista nell’ampio salone
con le pareti spoglie e il pavimento di pietra, se escludiamo il
vecchio banco da lavoro di Jamal.
È meglio sedere perché l’attesa sarà lunga. In questo luogo
nessuno sembra dare importanza al tempo che, come abbia-
mo visto, si misura solo in millenni. Lo lasciamo scorrere eco-
nomizzando i gesti, attenti al flebile indizio che lascia mentre
ci attraversa in direzione al futuro. È così lieve che ci accorgia-
mo del suo passaggio solo prestando molta attenzione.
Il signor Rashid risponderà con monosillabi ai nostri ner-
vosi interrogativi (se i pantaloni non saranno troppo lunghi,
se avranno orli e tasche), addirittura con qualche breve frase,
se sarà in giornata sì. Da parte di Jamal solo una indifferen-
za olimpica, al massimo qualche vago sorriso di assenso ogni
qualvolta il signor Rashid necessiterà di una conferma alle sue
rassicurazioni; ambedue inteneriti dall’esagerata apprensione
per delle piccole operazioni di routine.
A un dato momento, momento lungo e greve, quando ci
abituiamo all’attesa, smettiamo di sorprenderci per la destrez-
za con cui Jamal segue le indicazioni del padrone, di fatto, le
uniche lasciate per iscritto, tracciate in azzurro sul tessuto che
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abbiamo portato. Ci stanchiamo di vederlo ripetere i medesi-


mi gesti, che interpretano misteriose disposizioni, e volgiamo
la nostra attenzione alla strada, a guardare chi passa.
Studenti che si avviano a due a due verso la madrasa, ra-
gazzi con ragazzi, chiassosi; ragazze con ragazze, silenziose e
con gli occhi rivolti al suolo, li alzano solo per guardarsi ra-
pidamente intorno e bruciare come fuoco un breve istante;
vecchi senza età, la kefiah in testa, montano vecchie biciclette,
che cigolano e tremano, ma non si fermano mai; belle donne
trasportano cose sull’anca o sulla testa; e turisti, quasi sempre
italiani.
Guarda che bello!
Entrano da un lato ed escono dall’altro, attraverso il ri-
stretto campo visivo che la porta consente, non lasciandoci
neppure il tempo di fissare i volti, che per questo sembrano
tutti uguali. Come se le coppie di ragazzi, il vecchio, la bella
giovane, i due o tre turisti che passano e ripassano, fossero
sempre gli stessi che si cambiano appena di abito, allo scopo
di confonderci. Come fossero figurini del signor Rashid che
sfilano su quella breve passerella per darci un’idea delle po-
tenzialità della Sartoria 2000.
Ogni tanto c’è chi rallenta il passo per sbirciare dentro,
strizzando gli occhi nella penombra mentre tenta di scorgerci,
noi poveri clienti in attesa, intenti a trattenere il disagio di
trovare già così poco elegante quello che indossiamo e l’ansia
per l’aspettativa riposta nel vestito nuovo che il signor Rashid
ci ha promesso.
Qualcuno che tenta di vedere senza riuscirvi, perché an-
cora accecato dalla luce intensa che arriva dalla strada. Noi
li vediamo, e con soddisfazione, poiché finalmente possiamo
distinguere dettagli più precisi di quelle vaghe generalità che
sfilavano poco prima sulla famosa passerella. E quella che noi
vediamo è una cieca curiosità che tenta di scoprirci, mentre il
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signor Rashid vede un corpo vestito male, e subito lo esorta


ad entrare in una incerta lingua straniera. Jamal, non sappia-
mo cosa vede.
È, come abbiamo detto, impenetrabile.
Dopo un po’ ci abituiamo anche alla presenza dei passanti,
allora sprofondiamo di nuovo nel pigro cerimoniale che si sta
consumando nella scura stanza, il signor Rashid impegnato a
controllare che tutto proceda come previsto, Jamal a pedala-
re, fisso sulla nostra stoffa. Entrambi ripetono gli stessi gesti.
Respiriamo a fondo e lasciamo assopire la coscienza, sentiamo
il corpo intorpidire, fino a sentire sulla pelle, al pari di loro
due, il lieve scorrere del tempo. È così lento, così impalpabile
e lieve, che riusciamo a sentirlo solo se restiamo veramente
inerti, fermi sulla soglia del sonno. Non è una brezza, il cui
arrivo non costituirebbe niente di straordinario, se non il fatto
di spirare. È il tempo stesso, e lo si può scoprire solo se l’aria
permane immobile, se noi rimaniamo immobili, se il silenzio
diventa totale, fatta eccezione per il leggero trotterellare del-
la Singer che Jamal pedala senza muoversi dal suo posto. A
questo punto chiudiamo gli occhi, lasciamo che la percezione
migri alle punte delle dita, alle orecchie, alle narici, e quan-
do rapiti da questa sensazione cutanea e periferica, quando
la quiete diviene veramente assoluta, riusciamo finalmente a
sentire la tenue erosione del tempo nella sua inesorabile mar-
cia verso il futuro. Sempre arrivando da dietro, dalle nostre
spalle; sempre muovendosi in avanti, in direzione del nostro
sguardo.
Più tardi, molto più tardi, quando sarà passato così tanto
tempo da considerarci oramai immuni, e pertanto eterni, il si-
gnor Rashid arriverà sorridente a scuoterci dal nostro torpore,
nelle mani l’abito quasi pronto, appena qualche filo ancora da
tagliare, qualche orlo da rifinire, e ovviamente il ferro da stiro
a suggellare il tutto. Ma prima vuole che lo vediamo per farci
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un’idea del lavoro di imbastitura, poiché i passaggi conclusivi


occulteranno tutto lo sforzo che c’è dietro. Acconsentiamo
con un sospiro, difficilmente il prodotto finale potrà eguaglia-
re l’aspettativa.
Notiamo lo smarrimento di Jamal di fronte alla Singer, os-
serva la macchina per cucire con vago imbarazzo, quasi che la
sua presenza fosse giustificata solo dall’atto di pedalare. Non
sa cosa fare delle mani, dei piedi, dello sguardo che mantiene
fisso da qualche parte sulla macchina, e rimane così, in attesa
che il signor Rashid gli dia un altro pezzo di stoffa, affinché
possa ripartire pedalando verso l’opera finita.
Il signor Rashid sorride. Indovina quello che stiamo veden-
do, intuisce a cosa pensiamo.
Jamal è così,
sembra dire il suo sorriso,
Jamal sta bene quando pedala, solo così si sente veramente
se stesso. E comunque, se desidera lasciargli qualcosina, una
gratifica che testimoni la sua soddisfazione, lo faccia adesso
mentre mi giro di spalle per provvedere agli ultimi ritocchi e
impacchettare il suo vestito, ché dalla Sartoria 2000 non esce
niente che non sia adeguatamente confezionato, presentabile
sia fuori che dentro. Ma sia accorto, non gli dica, per esempio,
che è per un bicchiere, poiché nonostante questo non offenda
me che sono più vecchio e molto più emancipato, offendereb-
be sicuramente il ragazzo, da sempre estremamente timorato
di Allah, il Misericordioso. Gli dica semplicemente che è un
pensiero, saprà lui cosa fare di quello che a lei avanza e qui
invece manca tanto.
Dopo aver ringraziato usciamo con il pacchetto in mano,
mentre ci apprestiamo a svoltare l’angolo in direzione di Rua
dos Arcos, il signor Rashid dirà:
Bene, Jamal, per oggi basta così.
E, subito dopo:
32 joão paulo borges coelho

Bene, Jamal, per oggi basta così.


Lo dirà due volte, quest’uomo condannato alla ripetizio-
ne dalla paura della dimenticanza. Due volte ordina che si
finisca il lavoro; allo stesso modo quando lascia sulla Singer,
alla mercé di Jamal, il pezzo di stoffa tratteggiato di azzurro,
torna subito dopo a sminuzzare con il dito per sincerarsi che
una certa linea a cui stava pensando risulti realmente trac-
ciata lì, e non soltanto nelle sue intenzioni. Così come, dopo
aver misurato il nostro giro vita ritornerà, con il metro che si
contorce nelle mani, pregandoci con mille scuse di tirarci su
per avere conferma che sia proprio questa la nostra misura.
Forse che nel frattempo saremo dimagriti? Ingrassati? Niente
di tutto questo, è solo il meccanismo del dubbio, la sfiducia
nella memoria, la necessità di ripetere ogni gesto, ogni misura
fatta, ogni linea tracciata.
Per oggi basta così, Jamal.
Dirà questo con la chiave di ferro in mano, attaccata a
uno spago anch’esso scuro e senza età. Da dove arriva que-
sta chiave? Per quali mani sarà passata prima di lasciarsi
legare al cordone che la tiene fissata ai pantaloni del mastro-
sarto?
Quando dirà questo saranno già le sette o le undici, verso
sera o già notte fonda, a seconda del tempo che il lavoro ha ri-
chiesto, quello stesso tempo che per noi è passato lievemente
dal prima al dopo. Il signor Rashid chiuderà la pesante porta
di legno massiccio, girerà la chiave con un rumore di ferro
contro ferro. Là dentro rimarrà un grande silenzio, più omo-
geneo, senza lame di luce a trafiggere il buio e senza il pus
delle penombre a colare dalle ferite. Solo un ratto che percor-
re gli angoli in punta di piedi, come l’ago della Singer seguiva
poco fa le righe azzurre tracciate sul tessuto; entrambi inter-
rompendo ogni tanto la loro marcia, come se l’uno e l’altro,
di fronte a un bivio, fossero assaliti da un dubbio o un’idea.
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A destra o a sinistra? E mentre il topo sceglie il percorso più


oscuro, l’ago ha obbedito come sempre ai pallidi segnali la-
sciati dal signor Rashid per indicare quale fosse il cammino da
seguire per arrivare all’opera.
Quando, ferro sfregando ferro, il signor Rashid girerà la
chiave nella serratura, i due uomini si guarderanno un’ultima
volta. Più distratto il signor Rashid, che già pensa a cosa fare
dopo; più attento Jamal, in attesa di un’ultima informazione,
un’ulteriore disposizione, se l’indomani sarà necessario ar-
rivare prima per sbrigare un nuovo ordine, o qualsiasi altra
cosa. I due uomini passano così tanto tempo insieme, più di
quanto ne passino separati, che succede sempre la stessa cosa
quando arriva il momento di salutarsi. E poi, sempre quel vi-
zio della ripetizione.
Tornerà indietro, so già che tornerà indietro,
pensa Jamal.
E il signor Rashid, come se lo sentisse, si ferma, si gira sui
tacchi, e torna indietro per accertarsi di aver effettivamente
chiuso a chiave la porta.
Solo allora Jamal comincia finalmente la sua camminata,
passettini corti perdendosi in direzione del bazar. Il signor
Rashid mantiene la distanza che si è creata tra i due, non di-
sdegnando un certo autocompiacimento.
Jamal potrebbe essere suo figlio, a meno di non esserci
ingannati sull’età che dimostra. Tuttavia, non si è instaura-
ta tra i due l’intimità che ci si potrebbe aspettare, si direbbe
soprattutto per colpa dell’atteggiamento di Jamal, rispettoso
ma privo di smancerie. Il che, a sua volta, forse starà alla base
della distanza manifestata dal signor Rashid. Il tutto in manie-
ra tacita, molto diluito perfino tra loro due. Mentre lavorano
sembrano due aristocratici che si misurano in quel salone an-
tico e decadente.
Signor Jamal!,
34 joão paulo borges coelho

dirà il signor Rashid a voce alta, che rimbomba in quel


grande vuoto, porgendogli il panno solcato da segreti arabe-
schi di gesso azzurro. All’inizio, complice la nostra ignoranza,
pensiamo a una messa in scena volta a impressionare i nuovi
clienti. Ma subito allontaniamo quest’idea. In fondo, già co-
noscono le nostre misure dalla caviglia interna all’inguine, da
quella esterna fino all’anca, il giro vita e tutto il resto. Eppure,
anche se conoscono bene il nostro corpo non sono ancora
sicuri delle nostre intenzioni (queste le sonderanno a poco a
poco, mentre aspettiamo).
Signor Jamal,
dirà lui, allungando il tessuto già imbastito, il tutto con ge-
sti espliciti affinché il cliente possa vedere che, nel passare di
mano, l’opera passa ad una nuova fase. Conclusa l’architettu-
ra dell’immaginazione e del sogno, è necessario adesso l’inter-
vento dell’ingegneria attenta e minuziosa, perché tutto si com-
pia come promesso e senza intoppi. Utilizzando tutto il tempo
necessario e il cerimoniale richiesto. Jamal si lascia sfuggire un
lieve accenno, come se salutasse tutti e tre – padrone, taglio di
stoffa e cliente - senza tuttavia muoversi dal posto. Non si alza
mai da quel banco di legno senza età, sempre seduto di fronte
alla Singer, eccetto quando arriva o quando va via. Quasi non
gli fosse concesso di girare per il salone; quasi non osasse. Al-
lunga le braccia e riceve il pezzo di stoffa con la stessa pompa
cerimoniosa di chi riceve un tesoro o un testimone.
Immaginiamo, pur senza esserne convinti, che il signor
Rashid pensi di essere lui a svolgere la parte essenziale del
lavoro – non solo la scintilla che accende l’idea ma anche l’in-
dicazione del cammino che porta al compimento dell’opera –,
a Jamal il resto, la fedele osservanza di un lavoro già tracciato,
senza dubbio minuziosa e perfetta, ma niente più della mera
esecuzione di un compito. Uno l’arte di studiare un corpo e
tradurlo nelle due dimensioni del tessuto, l’altro lo zelo e la
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pazienza. Uno il genio, l’altro l’obbedienza. Tuttavia, azzarda-


re quello che pensa il signor Rashid di Jamal, non è lo stesso
che azzardare cosa ne pensi Jamal.
Passa di fianco al bazar, come stavamo dicendo. Ancora
aperto in un ultimo anelito di vita, alla luce delle lampade e di
qualsiasi altra cosa possa illuminare. Dopo più niente, se non
bancali puliti e qualche cane a rimestare in silenzio nella spazza-
tura, perché per poco che ci sia, causa la grande penuria, l’im-
mondizia non manca mai. Pensa che è finita la frutta e che ormai
è tardi per comprarla. Riprende il suo passo corto abbozzando
un lieve, quasi impercettibile, cenno con la mano, dal quale su-
bito desiste, forse per salutare qualcuno che passa dall’altro lato
della strada e non si avvede della sua presenza o forse solo per
sottolineare una conclusione a cui era arrivato mentre cammina-
va. Superato lo spazio vuoto che una volta era un giardino, gira
a destra, all’angolo della Chiesa di Nossa Senhora da Saúde, o
meglio, quasi gira perché si ferma proprio lì, sentendo giungere
l’ora. È lì che si ferma e stende a terra il piccolo fazzoletto che
ha in tasca, una rimanenza di stoffa dimenticata da un anonimo
cliente, per potersi inginocchiare e pregare girato nella giusta
direzione. Il viso appare deformato da una lotta sorda, o forse è
solo la nostra immaginazione. Da un lato la dolcezza trasmessa
dalla preghiera, dall’altro la sorda irritazione di vedersi costret-
to a fare le orazioni in quel modo, all’angolo della Chiesa di
Nossa Senhora da Saúde, perché è già tardi.
Riconosco questa mia mancanza,
risponderebbe il signor Rashid, se Jamal trovasse il corag-
gio di affrontare l’argomento.
Ma non lo faccio per cattiveria. Anch’io sono timorato di
Dio, anch’io faccio le mie orazioni nelle ore comandate, e in-
vece di questi tuoi silenzi avresti potuto dirmi che si appros-
simava l’ora della preghiera. Ti avrei lasciato andare, ti avrei
dato il tempo necessario per arrivare alla moschea.
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E girandosi verso di noi:


Lo avrei fatto, potete starne certi, perché anch’io sono ti-
morato di Dio. Nonostante non senta certe esigenze con la
stessa intensità.
Poco dopo, ormai già buio, Jamal ripiega il fazzoletto e
riprende il cammino. Se fosse un’ora più idonea svolterebbe
a sinistra per far visita a un parente che vive in Marangonha
e risolvere una faccenda lasciata in sospeso da qualche gior-
no. Ma non lo è. Lascia la strada e si addentra in un sentiero
tortuoso, tracciato dall’ago di una Singer impazzita e priva di
comando che, senza la sapiente guida della riga di gessetto
azzurro, si incunea a suo piacimento tra le case. Un filo d’ac-
qua sporca indica la via insinuandosi entro il coacervo ur-
bano del quartiere Esteu, disorganizzata foresta di case così
piccole da esibire segreti che si vorrebbero nascosti; si tratta,
pertanto, di segreti rivelati che chi passa, salutando, finge di
non vedere.
Buona sera! Buona sera!
Buona sera!
gli rispondono.
Lampadari dalla luce tremula e giallognola. Fumi. Odore
di pasta che gorgoglia sul fuoco, di pesce che sfrigola in padel-
la. Perché è l’ora di questi gesti, di queste attività.
Dopo Esteu, Litine, stesso labirinto, stessa assenza di inti-
mità per chi ci vive, stesso pudore per chi vi passa evitando di
guardare, tutto così uguale che viene da chiedersi per quale
motivo chi li ha costruiti si sia preso la briga di dargli due
nomi – come il signor Rashid quando compie due gesti per la
stessa azione – visto che uno solo poteva bastare. Esteu e Liti-
ne. Jamal attraversa quella successione di piccoli mondi tutti
uguali, immersi in una pece che la tenue luce dei lampadari
non può sfidare; percorrendo una strada che gli occhi non
vedono ma che i passi ben conoscono.
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Accadrebbe lo stesso se mancasse la riga del signor Rashid


sul tessuto? Jamal andrebbe avanti sicuro di sé, come se nien-
te fosse? Jamal troverebbe la sua strada ad occhi chiusi sul
tessuto liscio, senza alcun segnale ad indicargli il cammino da
seguire?
Macaripe, infine, un altro quartiere uguale agli altri. E la
sua casa, anch’essa uguale alle altre. Stessi segreti esposti alla
vista di chi passa, stavolta i suoi; stessi resti di acqua sporca
gettata in strada; stessa agonia del pesce che si contorce nella
padella; la brocca di smalto punteggiata di ruggine; la stuoia
arrotolata che esala il suo odore; il basamento di pietra dove
sedere; la panchina dove sedere; la sedia vecchia dove sedere;
il setaccio grande dove seccano i peperoncini quando c’è il
sole, adesso in attesa di essere utile a qualcosa; la maçaniquei-
ra sul retro del cortile, a coprire le stelle, come fa in questo
momento, o a concedere uno scampolo d’ombra durante il
giorno; il filo per stendere i panni, dal ramo torto fino alla pa-
rete, da dove pendono tutto il giorno gli stracci, i pantaloni e
le capulanas che vestono e celano il corpo delle donne di casa,
adesso tutto raccattato perché è l’ora. Il filo rimane lì, costrin-
gendo tutti ad abbassarsi quando passano perché non gli si
conficchi in gola. Si abbassano per entrare in casa, si abbassa-
no per uscirvi, si abbassano per andare all’angolo a prendere
l’acqua con la pentola di coccio, si abbassano, infine, quando
si spostano senza un motivo apparente, solo per il bisogno di
usare lo spazio. La sua vecchia madre va avanti e indietro sen-
za mai abbassarsi, minuta com’è, mentre spazza ricurva e con
la paletta in mano, il volto quasi incollato al suolo. Una casa
uguale alle altre da dove di giorno si può vedere, e di notte
indovinare, non molto distante, la vecchia cisterna, e poco più
avanti il cimitero dei cristiani.
In casa Jamal passa le giornate seduto sulla sedia, immo-
bile come fosse una statua o stesse adoperando la Singer del
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padrone. Se nella sartoria questo atteggiamento è giustificato


da quanto già sappiamo, qui crea ancora maggiore distanza,
facendo aumentare la sua autorità. Correttamente seduto, con
la schiena dritta e le ginocchia unite.
Lo chiamano da fuori.
Vengo!
Ed è come se dicesse di non chiamarlo ancora. Così sedu-
to, apre con cura lo scuro fagotto di carta tirato fuori dalla
borsa che tiene sotto al letto, e se lo appoggia sulle ginocchia.
Dentro il fagotto un tessuto grosso, pesante, di un colore dif-
ficile da definire alla luce del lampadario (dovremo aspettare
che faccia giorno). Esita, con il tessuto ancora ripiegato Jamal
si guarda intorno come se cercasse qualcuno, come se temesse
una presenza. Ci viene da pensare si tratti di un cliente che
se ne sta immobile, con le gambe aperte e le braccia alzate,
in attesa di essere misurato da capo a piedi; e che Jamal, su
quella stessa sedia, alla luce del lampadario, trasformi i nu-
meri ricavati in segni disseminati sulla grossa stoffa dal colore
indefinito, bozza di un lavoro parallelo di cui il signor Rashid
non dovrà sapere nulla. Eppure no: sarebbe una spiegazione
troppo semplice. Pensiamo allora che tema proprio l’arrivo
improvviso del signor Rashid, giunto dal quartiere dell’Uni-
dade (che all’epoca dei cristiani si chiamava Sant’Antonio)
per sorprenderlo di nuovo. Forse è proprio questo che teme
Jamal, ben conoscendo la mania della ripetizione dei gesti del
suo padrone. Due volte per ogni azione.
La prima volta il signor Rashid sembrava distratto, intento
com’era a guardare i modelli passare là fuori, sulla sua pas-
serella personale. Una coppia di ragazzi, un’altra di ragazze,
un vecchio pedalando a fatica sulla sua vecchia bicicletta,
una mano sul manubrio l’altra sulla kefiah per evitare che
qualche raffica di vento, levatosi d’improvviso a sollevare la
polvere della strada, gliela portasse via; infine, una bella don-
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na con una pentola d’acqua riempita alla fonte e un gruppo


di turisti.
Guarda che bello!
Il signor Rashid rincorse immediatamente il potenzia-
le cliente mentre Jamal rimase da solo nel salone, in mezzo
alla penombra. Allora tirò fuori dal fagotto un altro tessuto,
più semplice di quello che ha adesso tra le mani, ma con
dentro la stessa idea, già quasi compiuta. Mancava soltanto
una passata d’ago della Singer perché l’opera fosse conclusa,
perché il cerchio si chiudesse. Jamal, anche allora, si guar-
dò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno. Il solito
ratto si dileguò dietro l’angolo, scegliendo come sempre il
percorso meno illuminato. Con le mani che gli tremavano
per la fretta infilò l’ago, stese il tessuto e cominciò a pedala-
re furiosamente, il sudore gli rigava la schiena. Per la prima
volta ebbe la sensazione che il tempo in quel posto corresse
troppo veloce.
Su questo primo tessuto aveva ricamato un piccolo fiore,
a indicare l’isola sorella di Zanzibar; una linea la univa a un
nuovo fiore di diverso colore, si trattava stavolta di Mogadi-
scio, la terra degli squali; e fu proprio mentre stava rifinendo
questo affrettato itinerario – i fiori si limitavano ad abbozzare
il luogo prescelto piuttosto che ritrarlo – che sentì il freddo
sguardo del signor Rashid gelargli il sudore lungo la schiena.
Che fai, Jamal?
Ricamo un tessuto senza importanza, padrone. Una cosa
mia. Per ingannare il tempo.
Non esistono lavori personali nella mia sartoria, Jamal.
E un pesante silenzio piombò nell’ampio salone. D’im-
provviso, i flash della macchina fotografica della turista ita-
liana irruppero nella penombra del salone, saettando come
bagliori distanti di una muta tempesta.
Guarda che bello!
40 joão paulo borges coelho

Esclamò, indicando il tessuto che Jamal non aveva fatto in


tempo a nascondere. Tante notti perse in quella lotta, tanta
rabbia perché gli mancavano sempre o il filo o una soluzione
in grado di dare corpo a un’idea.
Quanto è?
E il signor Rashid pronunciò il primo prezzo che gli passò
per la testa, senza tenere conto del tormentato cammino di
Jamal, di tutta la fatica per arrivare alla lontana isola sorella
di Zanzibar, di Mogadiscio ancora più lontana, di quei piccoli
fiori grigi sul tessuto azzurro, degli squali così difficili da ri-
camare. Il signor Rashid, senza tenere conto di tutto questo,
concluse velocemente la trattativa, manco si trattasse di un
paio di pantaloni misurati e disegnati da lui. Tirò via il tessuto
dalla Singer, attraversò il salone per provvedere alla stiratura
e alla confezione del prodotto, perché dalla Sartoria 2000 non
esce niente che non sia adeguatamente confezionato, presen-
tabile sia fuori che dentro.
Jamal, quella volta, fissò la Singer con lo sguardo vuoto, si
guardò le mani abbandonate sulla macchina senza sapere cosa
farne. Niente di scritto, il tessuto di Jamal di là e il denaro di
qua, come se il denaro fosse sempre stato del signor Rashid, e
della turista italiana il tessuto di Jamal. Di modo che, nel caso
dovesse insorgere qualche problema, la turista non saprebbe
come comprovare l’acquisto. Né Jamal saprebbe dire in che
modo gli fu portato via il sogno che stava scritto su quel primo
tessuto.
Non l’ho fatto per cattiveria,
direbbe il signor Rashid, se glielo chiedessero.
È stato solo un buon affare del quale una parte, una buona
parte, è finita nelle mani dello stesso Jamal, che è stato, lo
riconosco, colui che ha fatto il lavoro. E gli ho pagato quello
che spettava. Ma è necessario che lui capisca che si è servito
del mio spazio, della mia macchina per cucire, della reputa-
indizi indiani | settentrione 41

zione che questa sartoria dal nome avveniristico ha procurato


a tutti noi.
Non è da escludere, tuttavia, che fossero altre le ragioni del
signor Rashid, suscitate dalla convinzione che all’uno appar-
tenessero l’arte e la genialità, e all’altro soltanto la tecnica e la
meticolosità nell’eseguire. E Jamal aveva messo in discussio-
ne questo principio, procedendo senza che ci fossero linee di
gesso a guidarlo.
Non andrà così questa volta, con questo secondo tessuto.
Jamal si guarda di nuovo intorno, per essere certo che non vi
sia nessuno. A quest’ora il signor Rashid è nel patio di casa
sua, nel quartiere Unidade, in braccio il nipote, figlio di una
figlia venuta da Mecuburi a fargli visita. Perso in tenerezze da
nonno, il signor Rashid non pensa a Jamal; e, pertanto, non
riporrà il nipotino sulla stuoia, non passerà da Quirah per ar-
rivare furtivamente a casa del suo aiutante, a Macaripe. Non
gli passa per la mente che Jamal stia dispiegando un nuovo
tessuto alla luce del lampadario, per rivedere la rotta che vi
ha tracciato, la distanza coperta, calcolare quella che ancora
manca da percorrere.
Il tratto sul tessuto parte dalla casa di Jamal, da Macaripe;
traccia strani segni che stanno ad indicare i valori che il sar-
to attribuisce a quello spazio, alle idee che in esso prendono
forma.
Purezza, Devozione.
Poi, una linea tutta dritta che vuole significare un ponte,
un ponte metallico, quasi infinito, che passa per Lumbo, da lì
verso le Cabaceiras grande e piccola, infine Mossuril. Fa una
curva nella baia di Condúcia e guadagna quindi velocità, men-
tre perde in precisione. Mecufí è ancora nitido all’orizzonte,
subito dopo la baia di Pemba, ampia e azzurra, in questa pun-
ta il Wimbi, nell’altra Londo. A seguire, la chiara serenità di
Quissanga e il brulicare di donne e pescatori di Tandanhan-
42 joão paulo borges coelho

gue, vanno e vengono lungo i sentieri d’acqua incuneati tra gli


alberi che crescono nel mare, segni di gessetto azzurro su di
una parte di tessuto che Jamal ha ricamato di un verde inten-
sissimo. Le Quirimbas, brillanti pietruzze di un braccialetto;
Mucojo e i suoi silenzi, il suo lento e vasto palmeggiare dove
Jamal perse tante notti a ricamare minuscoli coqueiros, micro-
scopiche noci di cocco che gli consumarono la vista alla luce
del lampadario. Ma ne valeva la pena. Passiamo quindi a Qui-
terajo e a Palma, a Quionga, e qui la linea si interrompe per
lasciar filtrare le acque del fiume Rovuma, indicato da Jamal
con un tratto più grosso per distinguerlo dagli altri.
Il tessuto prosegue la sua narrazione. Mtwara, Lindi, Kilwa,
Mafia e Bagamoyo sono terre tristi e già straniere, che traspor-
tano con fatica il peso della memoria del tempo degli schia-
vi. Jamal non si è dimenticato di ricamare questa memoria in
punto catenella, così da evocarci le catene che imprigionavano
i disgraziati alle pietre, catene che stavano lì per far sì che a
scappare, se proprio qualcosa doveva scappare, fosse solo il
loro desiderio di libertà. A Zanzibar, quasi di fronte, le linee si
increspano, con queste ondulazioni Jamal ha voluto indicare i
profumi che si confondono nell’aria prima di salire al cielo, il
pepe e la cannella, i chiodi di garofano e il sesamo tostato alla
brace, il tutto in punto spino semplice o doppio, lo stesso che
ha utilizzato per richiamare le onde. Pemba, Mombasa, Malin-
di e Pate, l’ago scrive diligente luoghi che Jamal conosce bene
nonostante non ci sia mai stato. E, dopo, una successione di
nomi di terre le cui vocali si ripetono così come il signor Rashid
ripete i suoi gesti: Kaambooni, Buur Gaabo, Kismaayo e Ba-
raawa. E questa ripetizione di nomi è un’eco che risuona nella
testa di Jamal. A Mogadiscio il sarto ha voluto evidenziare, con
le tinte utilizzate, la costa color carta e le acque verde smeraldo
infestate di squali. Riprende a ricamare gli stessi puntini gri-
giastri già ricamati sul tessuto che l’italiana gli portò via: ogni
indizi indiani | settentrione 43

punto un piccolo squalo. Caluua, altre vocali che si rincorrono,


è già l’angolo del tessuto, la punta dove termina; ma è neces-
sario fare un’altra curva e proseguire un poco oltre, Berbera,
Gibuti, fino a che, terminato il continente, saremo costretti ad
attraversare il mare a Bab el-Mandeb. Nuovo tratto grosso, con
trama spessa ricamata di un azzurro vivissimo.
Dopo, solo terre sconosciute a noi genti di qua, che solo
i veri fedeli percorrono fiduciosi: Al-Mukha, Al-Hudaydah,
Mazaqif, Jizan, Al-Qunfudhah, che Jamal indica per averle
lette in un libro, e quindi è sicuro che siano proprio lì, in quel-
la successione. Ancora Gedda, l’anticamera, e finalmente La
Mecca, la terra santa e agognata.
Dovrebbe essere la fine. Dovrebbe, ma non lo è, perché
senza che ce ne accorgessimo, persi dietro le linee del rica-
mo, abbiamo fatto un giro completo e invece di andare da un
punto all’altro siamo tornati a quello di partenza. E La Mecca,
stando dove deve stare, è anche in una certa casa del quartiere
povero di Macaripe, nell’Isola di Mozambico, là dove è co-
minciato il lungo viaggio. Non sarà un errore del ricamatore,
partenza e arrivo nello stesso luogo? Confondere la realtà di-
retta del percorso con il circolo delle sue idee? Tutt’altro, con
quell’espediente Jamal ha voluto mostrare che è necessario
andare e tornare, perché tutto avesse senso e lui potesse essere
un haji, un fedele che è stato alla Città.
Jamal sorride, quasi non ci crede. Carezza l’opera quasi
finita e si guarda intorno. Nessuna turista infedele guarderà
quel tessuto con il desiderio di comprarlo; nessun padrone
verrà dal quartiere Unidade per portarglielo via. E sorride nel
buio, un sorriso feroce.
Jamal!
Vengo!
La mattina dopo, la preghiera che saluta il giorno; il tè e il
pane. E Jamal rifà lo stesso percorso, stavolta nel senso oppo-
44 joão paulo borges coelho

sto. È sempre così: Esteu, Litine, e Macaripe la sera; Macari-


pe, Litine, e Esteu al mattino, svoltato l’angolo della Chiesa di
Nossa Senhora da Saúde entra nella città delle rovine, il bazar
che si ridesta al suono dei primi dialoghi, e la sartoria ancora
assopita, in attesa che il signor Rashid, con gesti compassati,
Buongiorno, signor Jamal!
Buongiorno, padrone!
tiri fuori l’immensa chiave dalla tasca, ferro sfregando fer-
ro, suono rozzo, apra la porta lasciando che la lama di luce
tagli l’oscurità come fosse carne fresca. La vecchia Singer pa-
ziente, quasi pronta, basta un piccolo riallineamento del filo,
una leggera pressione sul pedale per ripartire borbottando.
Quel suono leggero ci avvisa che è giorno e che la sartoria è
già all’opera.
Anche il signor Rashid è timorato di Dio, sebbene meno
intransigente dell’impiegato. Lo teme a tratti, quando se ne
ricorda, quando lo sorprende la coscienza. Ma ha tante cose a
cui pensare – qualcuno che gli deve i soldi di una giacca, una
fornitura di filo che non arriva da Monapo – che gli resta solo
il tempo per pregare, non per riflettere. Prega nella Naqui-
ra, la confraternita più antica. O finge di pregare, pensa Ja-
mal. Perché, secondo lui, è impossibile pregare con il rumore
infernale prodotto dal batuque suonato durante la funzione
in quella rozza confraternita frequentata dal padrone, conta-
minata da valori umani e terreni, quando solo quelli di Dio
dovrebbero prevalere. Jamal disprezza tutte le manifestazioni
popolari che macchiano la purezza dell’officio della fede, e
forse risiede in questo, più che nel resto, la vera ragione della
distanza che lo separa dal padrone.
Tornando al tessuto. Terminato l’itinerario sul dritto, quello
che è andato e tornato con un unico movimento, occupiamoci
adesso del rovescio perché solitamente è lì che si trovano le
radici, il segreto dell’enigma racchiuso in ogni ricamo. Lì ri-
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siedono le fondamenta dell’edificio degli inganni nel quale ci


conduce il ricamatore, la sua ragione recondita. Lì si svelano e
si chiariscono tutti gli artifizi. Tuttavia, rivoltato il tessuto, con
nostra grande sorpresa invece della spiegazione troviamo un
nuovo e meraviglioso tracciato, un rovescio che è a sua volta il
dritto. Ma è un dritto dal significato completamente diverso,
contiene la storia che giustifica lo sforzo di Jamal, la storia
della sua dikiri, la confraternita a cui appartiene.
Un primo rosone, sbiadito dal tempo, indica dove tutto
ebbe inizio: al-Shaduli fondatore della confraternita Sha-
dhuliyya, nel lontano 1258, verità o leggenda. Subito dopo,
attraverso un piccolo ricamo in punto erba, passiamo a al-
Yashruti, un tunisino che darà grande impulso alla crescita
di questa confraternita. A seguire, una mano tesa e un’altra
nell’atto di ricevere, rappresentano al-Yashruti che conse-
gna la confraternita nelle mani del suo discepolo prediletto,
lo Sceicco Darwish, e poi ancora una mano che si tende e
un’altra che riceve, è la consegna della ijaza della confraterni-
ta a qualcuno che irrompe sulla scena dalla penombra di un
passato indefinito, rappresentato da un rosone maggiore, un
enorme sole che risplende nel centro del tessuto. È lo Sceicco
Ma’ruf discendente diretto di Fatima, l’amata figlia del Profe-
ta. Ma’ruf, nel centro, emana raggi di bordato veneziano, ne
fuoriesce con un punto catena, un ricamo che ci conduce fino
a Fatima, e dopo di lei, con un più tenue punto sabbia, fino al
Profeta stesso.
Proseguendo, vediamo tutt’intorno uno scintillio di pepite
gialle, anch’esse in punto sabbia, simbolizzano una cosa e il
suo contrario, la ricchezza di Ma’ruf e il suo disprezzo per
la famiglia reale delle Comore, e per i ricchi di quella terra.
Ma’ruf collerico, testimonianza dell’indignazione per l’asservi-
mento del sultano ai disegni degli infedeli, la vendita delle mi-
gliori terre ai francesi e l’inosservanza della parola di Dio con
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la condiscendenza a costumi odiosi al Suo cospetto. Ma’ruf


manifesta la sua collera e per questo motivo è costretto a fug-
gire a Zanzibar attraversando l’Oceano Indiano, inseguito dai
potenti; il sarto Jamal, rattristito, ritrae la fuga in-crociando
questo mare in punto croce. Nell’anno seguente, 1897, il tes-
suto mostra Ma’ruf mentre sbarca sull’Isola di Mozambico
– un piccolissimo fagiolo ricamato che riusciamo a scorgere
solo prestando molta attenzione – dove stabilisce la sua con-
fraternita Shadhuliyya Yashrutiyya, per diffondere la Parola
di Dio. Con un po’ di immaginazione possiamo addirittura
vedere che era una giornata di sole, e che c’era l’alta marea,
quando sbarcò nel punto in cui più tardi verrà costruita la
Grande Moschea, una mezza luna indica i due avvenimenti,
mentre un punto ritorto indica le acque.
Da questo punto in poi, la maniera in cui la storia è ricama-
ta sul tessuto corrisponde alla felicità che albergava nel cuore
di Jamal, alla leggerezza che c’era nei suoi gesti mentre rica-
mava, causando preoccupazione e sgomento alla famiglia che
lo vedeva in quello stato. La ricamò in una notte fresca e chia-
ra, la luna piena rendeva quasi inutile la luce della lampada.
Ma’ruf predicò sempre (era questa la sua battaglia) un
Islam puro e mondato dai costumi degli infedeli, e il sarto
crede profondamente che così dovrebbe essere. Ma’ruf ebbe
sull’isola due discepoli, sul tessuto due occhielli, uno sem-
plice, e che a Jamal pare interessare meno, rappresenta colui
che insediò la confraternita in Angoche, l’altro ombreggiato
usando un rilievo maggiore, corrisponde allo Sceicco Jimba,
colui che ricevette la ijaza della confraternita con l’incarico
di portare a compimento l’opera dopo il ritiro del maestro.
Nuova mano a consegnare e altra a ricevere, per raffigurare
l’avvenimento, A questo punto ricominciano le ombre, rica-
mate in un secondo momento, già con la luna nuova, da uno
Jamal di cattivo umore che prendeva a calci la brocca punteg-
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giata di ruggine se gli capitava tra i piedi, e che per poco, nella
sua irritata distrazione, non si aprì la gola sbattendo contro il
filo della maçaniqueira. Ombre che rappresentano i periodi
di decadenza, a volte ritratti con ricami appropriati, in punto
spino o in punto croce obliquo, altre con rabbiosi scarabocchi
che quasi feriscono il tessuto, l’odio e la frustrazione di Jamal
colato su di esso nelle tante notti di sofferenza, mentre l’intera
isola dormiva.
Muore lo Sceicco Jimba – il tessuto ci dice che siamo nel
1921 – lasciando allo Sceicco Gulamo il compito di dirigere i
destini della dikiri. Diversi notabili mettono in discussione la
legittimità di questa successione, il ricamo si aggroviglia per
dar conto degli argomenti dell’accesa discussione. Da uno dei
gruppi nasce la dikiri Shadulliyya Madaniyya, quella a cui ap-
partiene Jamal, per questo rappresentata con grande intensità
e dovizia di particolari, sebbene si trovi alla fine del tessuto.
Un ultimo anelito di purezza in mezzo alle macerie. Un fragile
e pallido fiore in mezzo alle pietre dell’Isola. In questo punto
vari segni ci descrivono il chiaro ripudio di Gulamo. È nar-
rato che predicava versioni deboli dell’Islam, che condiscen-
deva vigliaccamente al mondo europeo come a quello africa-
no, contaminando in questo modo la purezza del Messaggio.
A rivolgere le accuse è il solo al-Madani, anche se Jamal lo
considera, e lo ricama, nella linea destra della successione di
Jimba, di Ma’ruf, di Darwish, di al-Yashruti, di al-Shadhuli, e,
inshAllah!, del Profeta stesso.
Da qui il tessuto perde di nuovo lucentezza, soverchiato da
colori cupi e punti privi di tecnica in grado di distinguerli e di
suscitare incanto; solo scarabocchi simili a quelli di un bam-
bino. Scarabocchi sporchi che esalano l’odio trasudato dalle
mani di chi li ha cuciti, sebbene guidate dal candido intento
della purezza. Due risaltano sugli altri, eseguiti con un vago
punto zig zag, pieni di spigoli simili a spine. Uno si riferisce
48 joão paulo borges coelho

alla confraternita Sa’dat, una dikiri di notabili dimentica del


fatto che tutti gli uomini sono uguali agli occhi dell’Islam. E si
può vedere, curvo in un canto di questa stessa confraternita,
lo Sceicco Abdurrahman, una figura piccola e incoerente, tan-
to arrogante quanto sottomessa, intento a comporre su pietra
di tufo una qasida in onore del colonialista Carmona; duplice
crimine, a quello già grave di prestarsi a celebrare un infede-
le, si aggiunge quello ancora più grave di scrivere una qasida
in onore di una persona viva, ché Carmona all’epoca lo era.
Come se conoscessero il futuro che solo a Dio è dato cono-
scere, come se già sapessero dei peccati che il colonialista non
avrebbe commesso.
Questa storia sarebbe potuta essere come una grande e se-
tosa treccia di donna, tutte le dikiri intrecciate in direzione
del futuro per dar vita a un’unica fratellanza pura e forte. Sa-
rebbe potuta, è vero, ma così non è stato. E mentre due rami
oscuri si sfilacciano – la Naquira di padron Rashid sempre più
perduta nella lussuria africana e la Qadiriyya di Abdurraham,
ogni giorno più piegata al servizio di signori infedeli – nel cen-
tro, un tenue ma immacolato ricamo raffigura la Shadhuliyya
Madaniyya, la confraternita di Jamal, intatta e incrollabile nel-
la difesa della fede.
Completato questo ricamo, Jamal avverte sete e odio. Sten-
de la mano, tasta intorno fino a trovare la brocca punteggiata
di ruggine e saziare questa sete momentanea. Quella definiti-
va, la vera, la sazierà solo quando il tessuto sarà pronto e po-
trà lavarlo. Raccoglierà poi l’acqua del lavaggio, trasportando,
diluiti in essa, tutti i fregi ricamati: i luoghi e i santi, i versetti
del Libro e gli atti nobili. Solo quest’acqua sazierà la sua vera
sete.
Ma l’odio? Come placare l’odio?

***
indizi indiani | settentrione 49

Dopo qualche tempo torniamo alla sartoria. Nelle mani un


nuovo tessuto, nella testa il desiderio di una nuova immagine,
sentendo ormai logora quella che un giorno ci siamo porta-
ti via da lì. A conti fatti anche noi ripetiamo gli stessi gesti.
Nuovo taglio di stoffa nelle mani, nuova speranza di vederlo
rigonfiarsi fino ad assumere il volume adatto alla nostra fi-
gura. Chiediamo permesso, strizzando gli occhi in mezzo a
quell’oscurità che ci rimanda il silenzio di un dialogo interrot-
to. Sulla Singer, un tessuto spesso e strano dal colore indefini-
to. Dovremo aspettare che la luce lo ferisca per poter scoprire
il colore di questo tessuto che sembra gravato dal peso di tut-
to quanto rappresenta, così pesante che la vecchia macchina
a stento lo sorregge. Nel salone, a parte il tessuto, solo i due
uomini che si studiano in silenzio.
Chiediamo scusa per l’interruzione. Il signor Rashid si
sforza di mostrare lo stesso atteggiamento che tiene ogni qual-
volta riceve un cliente, lo stesso vezzo di ripetere i gesti da lui
ritenuto un indizio di saggezza. Due o più volte, tante quante
saranno necessarie. Crede che solo in questo modo si stabili-
scano le routine che ci permettono di andare avanti.
Dia un’occhiata a questa meraviglia!
e accresce la vergogna per il tessuto che abbiamo portato,
uno stampato modesto, privo delle trame e degli intrecci che
abbondano nell’altro.
Guardi, e mi dica che ne pensa!
Proprio così, inventando una modestia che abbisogna del
supporto dell’opinione altrui. Senza dirci che questa volta le
linee segnate col gessetto azzurro sul tessuto non sono le sue;
che sono state tracciate dalla fede di Jamal.
Osserviamo il pesante tessuto con genuino interesse, cer-
cando di stimarne il valore. In una punta il principio e l’Iso-
la stessa (adesso lo sappiamo), la casa di Jamal in Macaripe;
nell’altra, tuttavia nello stesso luogo, La Mecca, la terra sacra
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dove bisogna andare e tornare; in mezzo, una successione di


nomi, una sfilza di luoghi, e tutte le peripezie che è necessa-
rio affrontare per arrivarci. Lo giriamo al rovescio ma non ci
dice niente, ciechi che siamo, incapaci di leggere la bontà dei
seguaci del Profeta lì descritta con meridiana chiarezza. E la
debolezza di coloro che lasciarono che la sua fede si corrom-
pesse.
Che mi dice?
Osserviamo questo tessuto dalla forma che ricorda una ba-
nana e non vediamo, da qualsiasi parte lo guardiamo, niente
più che l’Isola stessa. In una punta il Forte, una pelle di rude
pietra con l’anima di calce bianchissima; nell’altra, il crema-
torio dei baneanes esalando, come disse il poeta, essenze e
ghirlande, gelsomino, e un’alta colonna di denso fumo ver-
ticale; in mezzo la fila serrata del blocco di quartieri, Esteu,
Litine e, dal lato dove sembra cominci il ricamo, Macaripe
stesso. E dall’altro, Quirahi, Unidade, Areal e Marangonha,
con l’antico lavatoio dei mainatos. A seguire, in fila più sparsa,
approssimativa e vaga, diradano le case di pietra.
Concludiamo che non furono certo queste strade che pe-
netrano tra le rovine a interessare il ricamatore. Al lato del
tessuto, un filo sciolto e dimenticato che Jamal, impruden-
te per la seconda volta, aveva pensato di poter rifinire con
la Singer del signor Rashid. Un cordone ombelicale che per
noi, che vediamo solo quello che è dato vedere, è un ponte
stretto, metallico, quasi infinito, che magari il signor Rashid
taglierà con le sue forbici scure e pesanti, in modo che l’Isola
torni nuovamente ad essere un’isola. Lo farà prima di conse-
gnarci l’opera, sempre che sia possibile e che sia questo che
vogliamo.
O forse no. Perché Jamal incrocia le mani sulla macchina
da cucire, stavolta sa bene cosa farne. Una la riserva per il si-
gnor Rashid e, attraverso lui, alla tradizione della terra, incolta
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e rumorosa, blasfema e eccessiva. L’altra la punta verso di noi,


meri clienti, e a tutto quanto rappresentiamo. Perché si com-
pia finalmente la purezza del suo disegno solitario.

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