Sei sulla pagina 1di 24

“GIUSTIZIA COSTITUZIONALE E COSTITUZIONE FINANZIARIA”

Giampiero di Plinio
Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università G. D’Annunzio di Chieti/Pescara.
giampiero.diplinio@unich.it

«Most of the evil in this world is done by people


with good intentions» (T.S. Eliot)

Sommario
1. Premessa ...............................................................................................................................................................................1
2. La dottrina del nucleo. ..........................................................................................................................................................2
3. La strana storia della legittimazione del “formante sovrano”. ..............................................................................................8
4. Il formante sovrano, la costituzione finanziaria e la terza (aurea) legge fondamentale della stupidità umana....................10
5. Gli imperativi finanziari come norme di nucleo e la Welthanschauung del giudice costituzionale ....................................12
6. Dall’interpretazione costituzionalmente “disorientata” all’expertise tecnico-scientifica? ..................................................19

1. Premessa
Un indiscusso Maestro come Gaetano Silvestri iniziava uno dei più bei saggi di diritto

costituzionale mai dedicati alla sovranità avvertendo che «I problemi connessi all'esplicazione del

concetto di «sovranità» sono lungi dall'essere risolti sia sul piano della riflessione teorica,
politologica e costituzionalistica, sia su quello della valutazione delle conseguenze pratiche dei

diversi punti di vista sulla configurazione dei rapporti tra Stato e cittadini e tra organi dello Stato» 1.

A distanza di più di vent’anni, non solo quei problemi non sono ancora risolti, ma, specie in
relazione alle “conseguenze pratiche”, si sono aggravati, e in più ad essi se ne sono aggiunti altri,
portati dalla crisi globale e dal mutamento geo-sociopolitico e rovesciati sulla civiltà giuridica
occidentale come macerie sollevate da uno tsunami.
Non ho ovviamente, in questa sede ma forse in nessuna, la presunzione di discuterne la
soluzione. Tenterò solo di contribuire a chiarire quelle che Silvestri indica come “conseguenze
pratiche dei diversi punti di vista sulla configurazione dei rapporti tra Stato e cittadini e tra organi
dello Stato”, nel caso di specie tra Parlamenti e Corti supreme, sul terreno, che ritengo cruciale per
la definizione e l’allocazione della sovranità, della titolarità (e delle modalità di esercizio) del potere
di decidere ‘in ultima istanza’ nelle materie disciplinate dalla costituzione economica, e, più in

1
G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Rivista di diritto
costituzionale, 1/1996, p. 3.
dettaglio, dalla costituzione finanziaria, che della costituzione economica è la partizione teorica (e
anche pratica) più rilevante 2.
Negli ordinamenti contemporanei, non solo di Western Legal Tradition, la decisione finanziaria,
e più in generale il potere decisionale delle Majoritarian Institutions, sta da tempo sempre più
scivolando nella sfera di influenza delle Corti, e in particolare di quelle cui è affidata la giustizia
costituzionale 3. Ma, se il core originario del costituzionalismo è costituito dall’endiadi - che
storicamente scaturisce dal principio No Taxation Without Representation – tra ‘potere limitato’ e
‘primato della legge’, il fenomeno della Judicialisation of Politics ha spezzato alla radice quella
endiadi, rendendo ancora più estremo ogni tentativo di definire i caratteri scientifici e i confini
materiali e formali della sovranità popolare.
Il mainstream della dottrina costituzionalista giustifica questa rottura materiale del circuito
democratico rappresentativo da parte delle Corti costituzionali, con la considerazione che il loro
potere si fonderebbe non sullo «Stato legale di diritto» ma sullo «Stato costituzionale», il quale
presuppone organi e strumenti di tutela dei diritti fondamentali «anche contro l'operato del
legislatore democraticamente eletto».
In tale contesto, in queste brevi note si vuole avviare un test di validità scientifica, di consistenza
logica e di razionalità empirica del teorema della supremazia assoluta della giustizia costituzionale
sulla democrazia rappresentativa, nei casi in cui le Corti si spingono fino a conformare la
‘costituzione finanziaria’, specie in presenza di vincoli finanziari (multilivello) e di
costituzionalizzazione, formale o sostanziale, del principio di equilibrio di bilancio.

2. La dottrina del nucleo.


L’ingerenza delle Corti nella sfera della politica è una questione, di diritto costituzionale
generale e comparato 4, risalente e densa di contrasti non solo dottrinali.

2
Una eccellente ricostruzione delle problematiche (e un razionale inquadramento teorico) in A. Morrone, Le
conseguenze finanziarie della giustizia costituzionale, in Quaderni costituzionali, 3/2015, p. 575 ss.
3
«Lo spazio della discrezionalità affidato all’interpretazione e all’argomentazione giudiziaria e corrispondente al
potere dei giudici è uno spazio enorme e, soprattutto, enormemente più esteso di quello che fu proprio dell’applicazione
della legge al tempo delle prime codificazioni all’indomani della stagione illuministica» (L. Ferrajoli, Contro il
creazionismo giurisprudenziale, in Ars interpretandi, 2, luglio-dicembre 2016, p. 24)
4
Magistrale sintesi in A. Barbera, La Costituzione della Repubblica italiana, in Enc. dir., Annali VIII, in particolare
p. 339 ss. Si tratta di una problematica sempre più ardente e diffusissima nella letteratura internazionale, di cui vale la
pena ricordare i lavori di J.L. Waldman - K.M. Holland (eds.), The Political Role of Law Courts in Modern
Democracies, London, MacMillan, 1988; D.W. Jackson - N.C. Tate (eds.), Comparative Judicial Review and Public
Policy, Westport, CT, Greenwood Press, 1992; M. Shapiro, Juridicalization of Politics in the United Statse, in Int’l Pol.
Sc. Rev., vol. 15, n. 2, 1994, p. 101 ss.; M. Shapiro - A. Stone Sweet, The New Constitutional Politics of Europe, in
Comp. Pol. St., 4/1994, p. 397 ss.; C.N. Tate - T. Vallinder, (eds.), The Global Expansion of Judicial Power, New York,
NYU Press, 1995; M. Shapiro, The Globalization of Judicial Review, in L. Friedman - H. Scheiber (eds.), Legal Culture
and the Legal Profession, Boulder, CO, Westview Press, 1996; A.M. Slaughter, Judicial Globalization, in Virginia J.
Int’l L., 2000, p. 1103 ss.; A. Stone Sweet, Governing with Judges: Constitutional Politics in Europe, Oxford, Oxford
Si tratta di una problematica delicata, come si intuisce dalla prudente ma significativa
conclusione 5, secondo cui: «Dove, invece, si supera ... il punto di rottura del sistema è ogni volta
che, in vista del raggiungimento del fine, la Corte abdica per intero alla “giurisdizionalità” delle
funzioni che le sono assegnate, per il fatto di venire meno all’obbligo di prestare scrupoloso
ossequio ai canoni che presiedono all’esercizio delle funzioni stesse. Quando ciò si verifica, la sua
attività non è più riconoscibile (nella sua ristretta e propria accezione) quale espressione di garanzia,
esattamente così come non lo è – si è dietro fatto notare – quella del decisore politico che dia vita ad
atti non identificabili alla luce delle metanorme che li riguardano: la politica, infatti, prende allora il
sopravvento e si manifesta col volto grintoso che è proprio di chi non intende restare alle regole del
gioco bensì reinventarle nel corso stesso della partita a proprio beneficio»6.
Ma gli effetti e le stesse determinanti scientifiche di questi problemi, in tutti i casi in cui siano in
rilievo questioni di tassazione e di finanza pubblica sembrano avere ― come cercherò di dimostrare
― un marcato carattere di specialità, nella misura in cui investono il cuore stesso della fiscal
constitution e i suoi principi chiave, primo fra tutti quello della rappresentatività della decisione
finanziaria 7, fino a configurare una forma di ‘usurpazione’ del potere impositivo da parte della
Corte 8.
Un ragionevole punto di partenza dell’indagine è costituito dal problema generale del rapporto
tra ‘democrazia costituzionale’ (la decisione politica racchiusa nella legge del Parlamento) e
‘giustizia costituzionale’ (la decisione, anch’essa politica come si vedrà, racchiusa nelle sentenze
della Corte costituzionale). Si tratta di una questione che, a mio avviso, non è sufficientemente
descritta dal teorema delle ‘due anime’ delle Corti e del ‘pendolo’ tra esse 9, così come non ne avvia
la soluzione la pur autorevole esortazione a «evitare sia l’eccesso di una totale
giurisdizionalizzazione della politica, sia, all’inverso, quello di una diretta politicizzazione della
giurisdizione»10.

University Press, 2000, p. 48 s.; J.L. Goldstein, M. Kahler, R.O. Keohane, A. Slaughter (eds.), Legalization and World
Politics, in Int’l Org., Special Issue, 3/2001.
5
A. Ruggeri, Teoria della costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, al bivio tra mantenimento della
giurisdizione e primato della politica, in federalismi.it, n. 25/2016.
6
Per una valutazione (molto) meno prudente, sia consentito rinviare al mio Teoria del nucleo e costituzione vivente
tra costituzionalismo ‘occidentale’ e ‘costituzionalismo islamico’, in Percorsi costituzionali., I/2016, p. 239 ss.
7
Pregevole l’impostazione di L.L. Fuller, The Forms and Limits of Adjudication, Harvard Law Review, Vol. 92, No.
2 (Dec., 1978), pp. 353-409, estesa nel più recente J. King, Judging Social Rights, New York, Cambridge University
Press, 2012, e rinverditi entrambi dalla critica, intelligente ma insufficiente, di B. Brancati, Decidere sulla crisi: le Corti
e l’allocazione delle risorse in tempi di “austerità”, in federalismi.it, n. 16/2015.
8
Ad esempio la lunga vicenda della causa Missouri v. Jenkins (su cui D.J. Brocker, Taxation without
Representation: The Judicial Usurpation of the Power to Tax in Missouri v. Jenkins, in North Carolina Law Review,
vol. 69, n° 2/1991, 741 ss.
9
Ampiamente A. Ruggeri, Teoria della Costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, op. cit.
10
E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2016, 324.
Infatti, anche, e forse a maggior ragione, questa apparentemente saggia posizione mediana sulle
relazioni tra politica e giurisdizione, e dunque tra democrazia e diritto, ha il suo punto di rottura e il
suo tunnel di contraddizione, che risultano chiaramente visibili anche solo provando a formulare
una innocente, quasi infantile, domanda: in caso di conflitto, prevale la decisione ‘democratica’ o
quella ‘giurisdizionale’? Chi è, realmente, il sovrano? Può la legge sovrascrivere la sentenza
costituzionale? O è la Corte, che attraverso l’interpretazione libera o la creazione di norme
costituzionali, è depositaria del potere assoluto ed esclusivo di riformattare di volta in volta, in
concreto o anche in via generale, il diritto costruito dall’istituzione rappresentativa?
Osserviamo subito che, se la prevalenza della politica non avrebbe bisogno di giustificazioni,
fondandosi direttamente sulla delega di esercizio della sovranità popolare, la supremazia delle Corti
necessita di un passaggio teorico in più, proprio perché quella delega non esiste (a meno di negare
la sovranità popolare o, più sottilmente ma entrando in terreni pericolosi, di attribuirne dosi
determinanti alle stesse Corti).
Il passaggio aggiuntivo, a mio avviso, è la dottrina del ‘nucleo’ ― inteso come constitutional
core sottratto, cioè non disponibile, alle istituzioni politiche, qualunque sia la loro legittimazione, e
protetto da una clausola di eternità 11 ―, e delle Corti come suoi ‘custodi’. Che il nucleo sia
identificato di volta in volta come sistema di principi e valori rigidi imposti dal potere costituente, o
come ‘natura delle cose’ 12, o come ‘unamendable core’ della stessa Costituzione 13, il prodotto finale
non cambia, perché esso si traduce sempre e comunque nella legittimazione della supremazia, su
ogni altro potere, delle istituzioni alle quali è affidato il compito di garantirne la validità e la stessa
esistenza. La giurisdizione costituzionale, appunto.
Ma qual è il fondamento di tale legittimazione? e come funziona concretamente questa garanzia?
Partiamo dalla seconda domanda, che presuppone un chiarimento sul ‘nucleo’. Si è discusso a
lungo, senza pervenire a soluzioni generalmente condivise, su natura e portata di un tale oggetto e
delle limitazioni da esso derivanti. Sappiamo che il nucleo è fuori della nozione procedurale di
mutamento costituzionale, e l’onda principale della dottrina costituzionalistica continua a ripeterci
che esso va ben oltre la lettera delle costituzioni formali, di cui il potere costituito può cambiare vari
contenuti, ma deve arrestarsi ai confini, appunto, dei valori (eterni?) racchiusi nel nucleo. Con la

11
Discussioni e sviluppi sul teorema del nucleo in S. Staiano (cur), Giurisprudenza costituzionale e principi
fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, Giappichelli, Torino, 2006, e sia consentito anche il
rinvio al mio Revisioni costituzionali, in G.F. Ferrari (cur.), Atlante di diritto pubblico comparato, Torino, Utet, 2010,
in part. p. 187 ss.
12
I. Massa Pinto, La superbia del legislatore di fronte alla ‘natura delle cose’, Torino, Giappichelli, 2011.
13
V. recentemente, in chiave critica, R. Albert, The Unamendable Core of the United States Constitution, in A.
Koltay (ed.), Comparative Perspectives in the Fundamental Freedom of Expression, Budapest, Wolters Kluwer, 2015,
13 ss., in cui l’A. riafferma e sviluppa una notevole serie di precedenti lavori in argomento, e L. Friedman, The
Potentially Unamendable State Constitutional Core, in Arkansas Law Review, Vol. 69, No. 2, 2016, p. 317 ss.
trascurabile specificazione che i poteri della ‘democrazia costituzionale’ non hanno certezza
precostituita di quali siano questi valori, per un fatto molto semplice, che essi sono vincolanti per la
democrazia stessa, ma non per i loro custodi, e ciò per la ancor più semplice ragione che questi
ultimi dispongono di poteri ‘dichiarativi’ non contendibili. Sono dunque poteri senza
responsabilità? Poteri liberi e pertanto ‘assolutamente’ sovrani?
Infatti, nella misura in cui le Corti dichiarano e applicano i valori di nucleo, senza risponderne,
possono violarli, perché la violazione si presenta precisamente come dichiarazione di quei valori,
dentro cui non c’è niente, perché non se ne può dare una univoca rappresentazione scientifica, ma
c’è anche tutto, perché le Corti possono leggerci quello che vogliono. In altre parole, la Costituzione
e il diritto costituzionale non sono entità oggettive, ma sono letteralmente scritti, giorno per giorno,
dalle Corti.
Si noti che questi argomenti, che non vogliono essere in nessun modo una critica alla loro
ineliminabile necessarietà, e alla grande professionalità e prudenza delle persone che le
compongono, non sono frutto di bizzarria letteraria, ma si possono leggere nei più accreditati
manuali di diritto costituzionale, che candidamente avvertono che le Corti «contribuiscono non
poco alla determinazione dello stesso concetto di Costituzione in senso reale-vivente, disponendo di
uno straordinario (perché autorevole e praticamente finale) potere ermeneutico: spetta infatti ad
esse, in fin dei conti, la individuazione del “contenuto” (norme- significati) presente nei
“contenitori”- o proposizioni linguistiche - costituzionali (disposizioni significanti). Si badi: tale
funzione “maieutica” spetta solamente alle Corti costituzionali e non al legislatore ordinario, cui
semmai e invece spetta (insieme a tutti gli organi dei pubblici poteri) la diversa funzione di attuare
le disposizioni costituzionali, ove possibile proprio nel significato normativo individuato dalla
Corte»14.
Ma l’aver riconosciuto che i sistemi di giustizia costituzionale non si limitano a una verifica
notarile della legalità della procedura seguita a fronte di quella prescritta per la revisione, ma
entrano nella sostanza delle scelte del legislatore ordinario ma anche di quello costituzionale,
implica per la dottrina costituzionalista la presa in considerazione, con sincerità, della possibilità
che tutto ciò produca la rottura materiale di grandezze teoriche del calibro di democrazia
costituzionale e sovranità popolare. Se è vero che le Corti sanzionano «tout court l'illegittimità
sostanziale della legge in relazione ai valori fondanti, e dunque “supremi”, dell'ordinamento dato»,
e la «difesa intransigente del “nucleo duro” di ogni Carta», oltre che la «generica difesa della mera
rigidità», costituisce «una sfida al carattere democratico dell'ordinamento giuridico», così che la

14
A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 2014, p. 9.
questione della sua «legittimità democratica» rappresenta un «mighty problem, un problema
formidabile»15, è anche ovvio che chiunque tenti di ignorare la mancanza di representativeness e il
«dato della natura non democratica» del ruolo delle Corti costituzionali rifiuta a priori di
considerare la complessità del problema, e compie semplicemente un atto di fede.
Difficile rimediare a questo deficit teorico attribuendo alle Corti ― sulla base del postulato che
«la giustizia costituzionale è ormai divenuta un elemento essenziale e imprescindibile del
costituzionalismo moderno e, come tale, deve essere necessariamente slegata da ogni legittimazione
democratica»16 ― il carattere di naturalità17 o meglio necessarietà, e proprio in quanto limite
costituzionale nei confronti della democrazia maggioritaria pura 18. Siamo a voli di incredibile
altezza: la legittimazione della supremazia della Corte sui Parlamenti in veste di rappresentanti della
sovranità popolare ― in altre parole ― deriverebbe proprio dalla sua mancanza di collegamento
con la delegazione popolare di sovranità. Talmente ardito, talmente bello, che qualcosa non torna.
Vediamo. Aggiungendo importanti varianti letterarie, il potere della Corte verrebbe fondato non
tanto sullo Stato democratico quanto sullo Stato costituzionale, il quale avrebbe «uno dei suoi tratti
più caratterizzanti proprio nell'esistenza di organi e strumenti di tutela dei diritti fondamentali
dell'uomo (e dei cittadini), anche contro l'operato del legislatore democraticamente eletto»19. Ne
deriva l’ineluttabile corollario che, di fronte a un parlamento che approvasse ad esempio, anche
all’unanimità, una stessa legge di revisione costituzionale, un tribunale costituzionale potrebbe
sempre e comunque eccepire la violazione del nucleo, di cui è il supremo custode 20, con il ‘piccolo’
problema che cosa ci sia o no dentro questo nucleo non è dato conoscere preventivamente a
nessuno, se non alla stessa Corte, che, ricordiamolo, può arricchirlo e anche trasformarlo creando
essa stessa, di volta in volta e senza alcun controllo, i suoi attributi materiali.
Il significato del nucleo è infatti imprevedibile, esattamente come il ‘vero’ significato delle
parole nell’immortale opera di Lewis Carrol, nel passo in cui Humpty Dumpty risponde ad Alice:
bisogna vedere chi è il Master delle parole 21.

15
Ruggeri e Spadaro, Lineamenti, cit., p. 8.
16
Ruggeri e Spadaro, op. cit., p. 9.
17
O. Chessa, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Milano, F. Angeli, 2015, in part. p.
31 ss.
18
G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 160.
19
Ruggeri e Spadaro, op. loc. cit., (corsivo mio),
20
La cosa fa impazzire i costituzionalisti anglosassoni.
21
«When I use a word – Humpty Dumpty said in rather a scornful tone – it means just what I choose it to mean,
neither more nor less. The question is – said Alice – whether you can make words mean so many different things. The
question is – said Humpty Dumpty – which is to be the master; that's all» (Through the Looking-Glass, 6.63-65).
Incredibile quante volte le Corti hanno fatto freudianamente e anche esplicitamente richiamo alla filosofia di Humpty
Dumpty (simpatica la raccolta di J. Bomhoff, Humpty Dumpty and the Law, in comparativelawblog.blogspot.it
12/2006).
Risposta semplicistica e leggera, ma in fondo è la stessa implicita nella teoria costituzionale che
da Carl Schmitt risale in verticale a Hobbes 22: Masters dell’interpretazione, e dunque signori del
nucleo, sono le Corti, non i poteri rappresentativi derivati dalla democrazia costituzionale, e ciò
proprio nella misura in cui le decisioni delle Corti non sono suscettibili di revisione, controllo,
caducazione, da parte di nessun potere costituito, anche quando si sovrappongono alle competenze
ed ai poteri degli organi costituzionali rappresentativi 23. Quindi le Corti, in questa dominante e
totalizzante teoria, sono esse stesse, in qualche modo, depositarie del potere costituente. Il “nucleo
duro” non preesiste alla giurisprudenza delle Corti, non è una entità autonoma, né una ordinata e
trasparente raccolta di certezze e di valori, ma è creato di volta in volta, di decisione in decisione,
dalle Corti attraverso l’interpretazione in concreto 24 in sede di controllo del «limite costituzionale
nei confronti della democrazia maggioritaria pura» 25, mediante atti sovrani che piegano,
conformano e condizionano la produzione e l’applicazione della legge da parte della democrazia
costituzionale. Insomma, il nucleo non esiste come entità giuridicamente caratterizzata, ma, nella
concezione della dottrina costituzionalistica dominante, coincide con la giurisprudenza delle Corti,
che è come dire che coincide con le Corti stesse, alle quali –– spettano potere di eccezione e
sovranità di ultima istanza (e quindi sovranità tout court) 26.
Concezione pericolosa, quando abbandona tutte le istanze di ‘controllo sui controllori’
racchiudendole nel gracile teorema del self restraint, che, come illustra mirabilmente la vivace
polemica tra Ely e Dworkin 27, è pura utopia. Ma ai pericoli presteremo attenzione più avanti.

22
«... con straordinaria acutezza, C. Schmitt - sulle orme del c.d. “cristallo di Hobbes” - lo poneva correttamente
sotto forma dell'interrogativo: «Quis interpretabitur?». Infatti, solo colui a cui è riconosciuto il potere di interpretazione
(auctoritas) è in grado di enunciare cosa realmente dice la Costituzione (quid est veritas), disponendo per ciò stesso del
vero potere sovrano (potestas)» (Ruggeri e Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 9).
23
Significativa al riguardo la secca stroncatura operata dalla Corte costituzionale italiana all’idea di applicare il
procedimento dei conflitti di attribuzione al caso in cui la Corte stessa sia individuata come parte del conflitto, su cui P.
Veronesi, I poteri davanti alla Corte. “Cattivo uso” del potere e sindacato costituzionale, Milano, Giuffrè 1999, p. 268,
al quale si rinvia per riferimenti e sviluppi critici.
24
«... la giurisprudenza costituzionale non si limita quindi a reinterpretare/integrare i significati normativi contenuti
nelle leggi e negli atti aventi forza di legge, ma - attraverso il ricorso a tecniche sofisticate, non ultimo un uso accorto e,
a volte, persino spregiudicato della motivazione - crea anche norme e dunque diritto “costituzionale”» (Ruggeri e
Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 10, corsivo mio). Non può pertanto geneticamente funzionare la
pur accorata esortazione ad “un atto di fiducia” nella scienza giuridica e “nel ruolo fondamentale della comunità
scientifica” (I. Massa Pinto, La superbia del legislatore di fronte alla ‘natura delle cose’, cit., p. 2), che si traduce
nell’invito, all’interprete, a comportarsi «come se» fosse possibile addivenire ad una corretta interpretazione (M.
Dogliani, Interpretazione, in S. Cassese (cur.), Dizionario di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 2006, p. 3187). Ma se,
come si è affermato traendo argomentazione proprio dalla dottrina costituzionalistica dominante, le Corti le creano, le
norme costituzionali, allora è inutile insistere: l’interpretazione dei parametri attraverso cui la Corte dovrebbe giudicare
è vana e inservibile, perché quei parametri proprio non esistono.
25
Zagrebelsky e Marcenò, Giustizia costituzionale, op. loc. cit.
26
Non per polemica, e indipendentemente dalla validità scientifica e pratica di questo teorema, corre l’obbligo di
rilevare subito che esso svalorizza non solo il principio democratico, ma anche la forza linguistica del testo, e, di
conseguenza, il principio di certezza del diritto.
27
Molto efficacemente presentata da Chessa, I giudici del diritto, cit., p. 129 ss.
A questo punto preme invece rilevare che il funzionamento materiale, sopra descritto, della
dottrina del nucleo, che disallinea i formanti dell’ordinamento assegnando al Giudice costituzionale
il ruolo di ‘formante sovrano’ 28, non può autogiustificarsi ma deve presupporre una forma, potente,
di legittimazione, di cui tuttavia sono rimasti per lungo tempo in ombra, e lo sono ancora, la natura
e la giustificazione teorica.

3. La strana storia della legittimazione del “formante sovrano”.


Si tratta di una storia che ha radici lontane e possenti, che affondano nel lungo e tormentato
passaggio dall’Assolutismo allo Stato di diritto. Come ha dimostrato una raffinata dottrina, il
costituzionalismo, con i suoi teoremi del potere limitato e della supremazia del diritto, è stato messo
a punto, nel suo essere insieme scienza della fondazione del potere legittimo e scienza della
limitazione del potere, dal genio di Hobbes. Scrive Massimo Luciani 29: «... con Hobbes si verifica
pertanto qualcosa di inaudito: il costituzionalismo, nel momento stesso in cui sembra rinunciare alle
pretese morali che avevano caratterizzato la teoria classica, ottiene il più concreto e rivoluzionario
risultato cui poteva aspirare: catturare il potere e assoggettarlo all’impero del diritto ... E’ in questo
momento, dunque, che il costituzionalismo definisce, una volta per tutte, la propria identità di
scienza della fondazione del potere legittimo: una volta che è entrato nel suo dominio, però, il
potere non può più sfuggire al costituzionalismo, che si struttura – conseguentemente – anche come
scienza della limitazione del potere».
L’aspetto più sorprendente è che dopo mezzo millennio il modello hobbesiano così ricostruito
entra ― ovviamente con il suo apparato di accumulazione dottrinaria di evoluzioni descrittive e
dilatazione di dettagli, ma con lo stesso nucleo teoretico ― nei manuali di diritto costituzionale con
la precisa funzione non solo teorica di fare a pezzi la critica basata sul deficit di legittimazione
democratica delle Corti, mediante il conseguente, e singolare, postulato che «le Corti sono
indispensabili (allo stesso regime democratico) non “benché” siano carenti di legittimazione
democratica diretta, ma – al contrario – proprio “perché” ne sono prive»30, da cui si estrae
l’elegante, ma inquietante, teorema della legittimazione funzionale della giustizia costituzionale
come formante sovrano.

28
In altro luogo (Teoria del nucleo e costituzione vivente, cit.) ho coniato il sintagma ‘formante schmittiano’, che,
sebbene non abbia avuto alcun successo, dice di più di ‘formante sovrano’.
29
In un lavoro suggestivo non solo nel titolo, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giur. cost.,
2006, vol. 51/2, p. 1643 ss.
30
Zagrebelsky e Marcenò, Giustizia costituzionale, cit., p. 160, che soggiungono «Alla Corte spetta far valere il
limite costituzionale nei confronti della democrazia maggioritaria pura che può degenerare in regime tirannico, cioè
antidemocratico. In questo senso si può ritenere ch’essa sia un istituto incompatibile con la democrazia, solo se la
democrazia viene intesa, come si suole dire, secondo la concezione giacobina; ma che essa è invece amica della
democrazia liberale e pluralista: anzi, che è un aspetto essenziale della sua complessa ed equilibrata organizzazione
costituzionale».
Ma al di là dei dilemmi logici, fortemente evidenti, è fondamentale notare che, sia in Hobbes (e i
suoi contemporanei) nel passaggio dall’Assolutismo allo Stato liberale di diritto, sia nel mainstream
del costituzionalismo del novecento ― nel passaggio dallo Stato liberale di diritto allo Stato
‘costituzionale’ ―, la limitazione del potere tramite il diritto non è fine a sé stessa, ma ha il preciso
scopo di controllare, stemperare, prevenire, reprimere la lotta di classe. Nessuno è riuscito a
descrivere questo aspetto meglio di Zagrebelsky, e dunque non posso che riportare, specie in
riferimento al secondo passaggio, le sue precise parole.
«Il compromesso di classe è la soluzione costituzionale che venne tentata dopo la prima guerra
mondiale, quando le masse popolari, con le loro organizzazioni sindacali e partitiche, si
affacciarono alla soglia dello stato autoritario-protocapitalistico, per entrarvi da protagoniste. Un
nuovo dualismo, potenzialmente assai più esplosivo di quello del passato, veniva a instaurarsi nella
vita sociale e politica» 31.
Questo dualismo e le sue vicende diventano l’anticamera del peggiore degli inferni possibili,
perché una Costituzione «senza sovrano», in cui manca cioè una «decisione sovrana», più che come
instrumentum pacis, «si presenta così, essenzialmente, come un espediente per ritardare lo scontro
decisivo» 32, che tuttavia potrebbe deflagrare in qualunque momento, gettando la società nel caos del
massacro sociale e della guerra civile. Dunque, l’unica alternativa a una «Costituzione dualista dalla
sorte segnata» è sostituire alla «costituzione senza sovrano» la «sovranità della costituzione»33. Il
pericoloso dualismo diventa così amichevole, mite, pluralismo, ma per ottenere questo risultato è
necessario prima di tutto abolirla, la sovranità, perché nella Costituzione pluralista «non c’è più un
sovrano effettivo e non c’è più neppure la lotta per la sovranità» 34, così che essa diventa una
«Costituzione del compromesso generale». Ogni conflitto viene così «depotenziato. Venendo meno
la tensione potenzialmente distruttiva legata alla lotta per la sovranità, può esservi autonomia della
sfera costituzionale e può delegarsi a un organo imparziale il compito di farla vivere e rispettare. Le
opposte debolezze che caratterizzano le forze in campo nei regimi pluralisti sorreggono la
compagine statale e, stando in equilibrio, consentono l’emergere di un ruolo neutrale di difesa delle
condizioni del pluralismo, al fine della sopravvivenza e della garanzia reciproca di ciascuna forza.
Anzi: richiedono la creazione di una giustizia costituzionale»35.

31
Ibid, p. 44.
32
Ibid, p. 45.
33
Ibid, p. 46.
34
Ibid, p. 50.
35
Ibid, p. 50/51.
Ovvio che a questa ricostruzione possono addebitarsi obiezioni più o meno potenti, alcune delle
quali già formulate sopra 36. Ma a me preme, in questa sede, guardare invece ai suoi presupposti e
alle sue condizioni di esistenza dal punto di vista di un’altra Costituzione, forse meno nobile e meno
gradevole, ma molto più potente, perché incrina e condiziona l’esistenza stessa delle strutture del
potere. Alludo, se non vi pare ovvio, alla Costituzione economica.

4. Il formante sovrano, la costituzione finanziaria e la terza (aurea) legge fondamentale


della stupidità umana.
Nel procedere alla divertente costruzione della teoria analitica delle leggi fondamentali della
stupidità umana, uno dei più grandi storici dell’economia dovette a un certo punto accorgersi che la
terza delle regolarità che andava scoprendo era probabilmente la più rilevante, essenziale, e
fondativa rispetto all’intera teoria. Essa infatti afferma – uso il testo inglese per raffinate ragioni
letterarie 37 ― che «A stupid person is a person who causes losses to another person or to a group of
persons while himself deriving no gain and even possibly incurring losses». Non a caso, l’Autore la
indica come «The third (and golden) basic law».
Tra le prove empiriche più robuste di questa regola aurea si collocano le teorie critiche del ruolo
dell’Unione Europea. Si tratta di postulazioni variamente formulate, il cui common core, se si può
usare qui un tale nobile sintagma, è questo: i vincoli (di bilancio, di regolazione, di incentivazione,
etc.), e la conseguente “austerity”, che l’Europa impone alla sovranità degli Stati nel “governo

36
La teoria infatti è un vulnus deliberato e sublime, sia alla democrazia rappresentativa, sia alla stessa dottrina del
costituzionalismo. Zagrebelsky, in definitiva, teorizza e giustifica lo spostamento di sovranità da Parlamento e Governo
alla Corte costituzionale, come soluzione storica dei conflitti di classe mediante l’evirazione del principio di
maggioranza (ridefinito per l’occasione ‘tirannia’ della maggioranza). E’ un pensiero immenso e unico, da cui consegue
la riduzione delle istituzioni rappresentative, di fronte alla geometrica fortezza della Corte, a poco più di un
assemblaggio di raffigurazioni, e lo scivolamento della decisione politica in un eccezionale judicial power spesso
imprevedibile nelle sue esternazioni, controllato da saggi, e più o meno simile, come struttura di potere in senso
russelliano, al modello sharaitico. La Zagrebelsky-doctrine fa appunto questo: mette un motore immobile al centro
dell’universo costituzionale. Lo divinizza e lo assolutizza. E condanna come eresia qualsiasi tentativo di bilanciamento,
di recupero, di respiro, di valorizzazione del funzionamento delle istituzioni politiche della democrazia rappresentativa.
Ma il predominio assoluto della Corte ― la quale, si badi, è assolutamente necessaria e deve essere autorevole e
indipendente, ma non può essere disegnata come un dittatore, se pur benevolo, assoluto ― entra in conflitto con
l’essenza stessa del costituzionalismo delle origini, perché introduce appunto un potere senza limiti. Il libro, che è stato
studiato da generazioni di giuristi, ha dichiarato l’ineluttabilità della ‘soumission’ di Governo e Parlamento alle leggi
supreme del costituzionalismo, anzi no, della Corte, la quale, tuttavia, a queste leggi non è essa stessa soggetta.
37
Carlo M. Cipolla ― la M. non sta proprio per nessun nome ma semplicemente è l’iniziale che il giovane Cipolla
si inventò per compilare la casella [middle name] del modulo per l’application a Berkeley, dove voleva trasferirsi e poi
effettivamente fu accettato come full professor nel 1959 ― scrisse il pamphlet The Basic Laws of Human Stupidity nel
1973, per fare un regalo di Natale ai suoi amici, e pregò la Casa editrice Il Mulino di tirarne una edizione limitata a
stampa. Una offerta che l’Editore non poteva rifiutare, visto che doveva pubblicare anche la prima traduzione italiana
dell’immortale Economic History of Europe: the Middle Ages. Ne furono tirate un centinaio di copie e beato chi ce l’ha.
Il libretto è stato poi ripubblicato in edizione normale, però Cipolla si rifiutò più volte di farne una edizione in lingua
italiana: «Impossibile rendere lo humour swiftiano dell'originale». Poi alla fine accettò, probabilmente stufo della
‘stupidità’ della insistenza, e ci furono rapidamente anche pubblicazioni in una dozzina di lingue. La vicenda è
raccontata da Armando Massarenti (Irresistibile spirito di Cipolla, in Il Sole 24 Ore, del 23 ottobre 2011, da cui è tratto
il precedente periodo tra sergenti).
dell’economia” sono la rovina degli Stati stessi, che mettono in ginocchio mentre avvantaggiano la
finanza speculativa; di conseguenza, il rimedio che viene proposto è quello di recuperare la
sovranità nazionale, rifiutare i vincoli (con varie gradazioni, fino a uscire dall’euro e/o dal mercato
interno) e avviare un sovrano governo nazionale dell’economia. Insomma, per resistere al dominio
del capitale finanziario (e delle sue cospirazioni) sarebbe necessario spezzare il dogma dello stato
minimo, del pareggio di bilancio, della libertà del mercato e delle sue conseguenze, e soprattutto i
suoi “antisovrani” custodi (le istituzioni europee), facendo risorgere la sovranità totale dello Stato-
nazione, costituzionale, democratico e sociale.
Se pure a prima vista tutto questo suona bene, non facciamoci ingannare: a meno che i
discontenti del “ce lo chiede l’Europa” non guadagnino qualcosa dalla loro martellante critica (e
sinceramente non vedo esiti del genere), si tratta di una sonora applicazione della terza (aurea) legge
del Professor Cipolla, per un fatto molto semplice, che se pure non esistesse l’Unione Europea, gli
Stati nell’età della globalizzazione sarebbero comunque obbligati (pena pesanti sanzioni materiali) a
rispettare regole e i vincoli di equilibrio di bilancio, come ho già cercato di dimostrare in altri
lavori 38. E, di conseguenza, rimane in piedi solo questo esito, che la teoria del ‘rifiuto’ dei vincoli di
bilancio non solo danneggia la costruzione europea, ma danneggia pure i sostenitori della teoria
stessa.
Ma di rilievo per queste note è soprattutto un’altra applicazione empirica della third golden basic
law, che si rileva spesso nell’analisi della cosiddetta ‘giurisprudenza di spesa’, quando il giudice,
per tutelare certi diritti, impone lui stesso vincoli di bilancio, che possono essere nuove tasse, nuovo
debito o modificazioni della struttura della spesa pubblica 39, ma comunque tali che nel breve/medio
termine portano a una diminuzione del prodotto interno lordo, così che quegli stessi diritti diventano
ancor più impossibili da tutelare. In questo modo il giudice, malgrado le sue eccellenti ‘buone

38
Sia consentito il rinvio ai miei precedenti contributi, in particolare Nuove mappe del caos. Lo Stato e la
costituzione economica della crisi globale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2011, p. 65-117 e La velocità
delle costituzioni economiche tra passato e presente della UEM, in A. Ciancio (cur.), Le trasformazioni istituzionali a
sessant’anni dai Trattati di Roma, Torino, Giappichelli, p . 207 ss., in cui ulteriori riferimenti e citazioni.
39
Per la Corte italiana, si può sinteticamente richiamare il trittico rappresentato dalle sentenze n. 10 e 70 del 2015, e
n. 275 del 2016, tutte sommerse da una cascata di critiche sia in dottrina che negli ambienti economici e politici. Mentre
con la prima la Corte cancellò una sostanziosa tassa sui superprofitti dei petrolieri, differendone però l’applicazione alla
successiva legge finanziaria, mentre quest’ultima, come è più che noto, ha dichiarato retroattivamente incostituzionale,
in riferimento agli art. 3, 36.1 e 38.2 Cost., il blocco della rivalutazione automatica, per il 2012 e il 2013, delle pensioni
superiori a 1.217 euro netti, pari al triplo del minimo INPS. Con la terza, di cui si parla poco oltre nel testo, la Corte
assolutizza il principio del bilanciamento ineguale (anzi del non bilanciamento) tra diritti sociali e equilibrio di bilancio,
in relazione al diritto dei disabili al trasporto scolastico, definito come superiore e preliminare rispetto a qualsiasi
valutazione economico finanziaria.
intenzioni’40, danneggia il bilancio approvato dagli organi della democrazia rappresentativa, ma
danneggia anche l’oggetto stesso della sua pretesa di tutela.
Un esempio particolarmente surrealistico è nella sentenza costituzionale italiana n. 275 del 16
dicembre 2016 in tema di diritto all’istruzione (e trasporto scolastico) dei disabili 41. Praticamente, la
Corte impone alla Regione Abruzzo il finanziamento integrale del trasporto scolastico
indipendentemente dai vincoli di bilancio della medesima. Al che alle Majoritarian Institutions
regionali, strette tra due tagliole, non resta che resettare e riallocare le poste in bilancio, sottraendo
risorse ad altri impieghi. Ma, se si suppone per un momento che quella ripartizione, l’originaria,
fosse ottimale per la crescita economica del PIL regionale, la nuova riallocazione presenterà
inevitabilmente punti di inefficienza, e farà perdere PIL alla Regione, con la conseguenza ― non
aggirabile, stante il tenore dell’art. 119 in c.d. con l’art. 81 Cost. ― che al “prossimo giro” vi
saranno meno risorse per finanziare il trasporto scolastico 42.
Neanche gli dei, di fronte a questo loop infernale, potrebbero farcela, figuriamoci una Regione.
E, interrogati, credo che gli stessi dei suggerirebbero che a questo punto le leggi di bilancio le
dovrebbero scrivere, anche formalmente, le Corti.

5. Gli imperativi finanziari come norme di nucleo e la Welthanschauung del giudice


costituzionale
Per concludere (anzi, per non concludere) – premesso che è superfluo sottolineare che una pietra
tombale va posta su qualsiasi tentativo di violare autonomia e indipendenza delle Corti ― vorrei
introdurre la questione se sia possibile, e come, costruire controlimiti e bilanciamenti per
riequilibrare il ruolo del Parlamento nella attuazione della Fiscal Constitution, anche mediante
soluzioni ‘tecniche’ che consentano di incrementare il tasso di evidenza scientifica delle soluzioni,
in modo da ridurre l’arbitrio di tutti i pubblici poteri nella allocazione delle risorse e prevenire la
conseguente spinta verso l’aggravamento della crisi fiscale 43.

40
Che lastricano il sentiero che tutti dovrebbero sapere dove spesso porta. E non posso nemmeno omettere di
rinviare alla citazione di Eliot, sopra in epigrafe.
41
Sulla sentenza cfr. E. Furno, Pareggio di bilancio e diritti sociali: la ridefinizione dei confini nella recente
giurisprudenza costituzionale in tema di diritto all’istruzione dei disabili, in Nomos, 1/2017; A. Longo, Una concezione
del bilancio costituzionalmente orientata: prime riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, in
Federalismi.it, 10/2017.
42
Questa considerazione mi pare che già in sé smonti il pur elegante tentativo di giustificare la decisione della
Corte, inquadrandola in un sofisticato, quanto evanescente, teorema del ‘bilancio costituzionalmente orientato’ (Longo,
Una concezione del bilancio costituzionalmente orientata, cit., p. 11).
43
Per una discussione approfondita di questi aspetti sono costretto ancora a rinviare ai miei precedenti contributi, tra
cui Diritto pubblico dell’economia, Milano, Giuffrè, 1998, nonché Nuove mappe del caos, e La velocità delle
costituzioni economiche, citt. supra, nt.38.
Sabino Cassese, dopo aver richiamato alcuni casi, tra cui quello, emblematico, della sentenza
costituzionale tedesca in tema di «minimo vitale»44, pone l’accento sulla «complessità delle
funzioni distributiva (per la quale lo Stato eroga le risorse ovvero muta le relazioni tra i soggetti
percettori di ricchezza) e allocativa (con cui lo Stato stabilisce le funzioni dei vari soggetti nel
mercato), comunque determinando le condizioni dell’agire economico» e formula
conseguentemente tre questioni:
1. il giudice deve valutare gli effetti diretti ed indiretti delle sue azioni? e come? In particolare, il
giudice deve darsi carico del costo che le sue decisioni hanno sulla finanza, sul mercato, sul lavoro,
sulla crescita economica?
2. il giudice può (o deve) calibrare i modi del suo intervento? In particolare, perché, nell’esempio
tedesco – e dunque, in generale e dove gli è consentito, in base a quali criteri giuridici – gli effetti di
una decisione sono fissati al 31 dicembre e non prima o dopo?
3. al giudice si applicano le stesse regole che si predicano per gli interventi dello Stato? Ad
esempio, rispetto al mercato ed alla concorrenza (ma anche alla finanza pubblica in regime di
pareggio di bilancio) deve astenersi da interventi o è libero o ha regole diverse?
Le tre domande sono evidentemente intrecciate tra loro e attraverso percorsi paralleli conducono
tutte a un luogo geometrico preciso, cioè alla questione di quanto sia razionale teorizzare un
processo di bilancio ‘costituzionalmente orientato’ senza teorizzare contestualmente una
giurisprudenza costituzionale anch’essa ‘costituzionalmente orientata’.
L’aporia è tutta qua. Vediamo come, e perché.
Prima dell’introduzione formale in Costituzione del pareggio, o meglio, dell’equilibrio di
bilancio, la Corte non ha mai negato un ruolo costituzionale alla necessità di una finanza pubblica
equilibrata e razionale, ritenendo, fin dalla sentenza n. 260/1990, che l’equilibrio di bilancio rientra
«nella tavola complessiva dei valori costituzionali», e che le scelte di finanza pubblica dovessero

44
Riproduco il caso e il suo contesto come lo ha formulato Cassese: «In Germania: tre famiglie deducono avanti a
più giudici, ed infine al tribunale costituzionale federale, la questione della pretesa insufficienza del sussidio di
inoccupazione (fissato da due istituti, uno dei quali introdotto nel 2005). L’esiguità della misura sarebbe contraria alla
Costituzione, in particolare al precetto di cui all’art.1, concernente il principio fondamentale della dignità della persona
e all’art.20, che prevede lo stesso Stato sociale. Occorre che le persone siano sussidiate per più dei 395 euro, cioè della
misura normativa: così la decisione del giudice costituzionale federale, assunta nel febbraio 2010, ma con effetti che
vengono, dalla Corte stessa, differiti a dicembre del 2010, secondo una competenza che appartiene alle decisioni
integrative dei poteri di dichiarazione di illegittimità costituzionale riservati in quell’ordinamento al giudice delle leggi.
Si è calcolato che gli aventi diritto alla misura integrativa sono circa 7 milioni di cittadini, più 2 milioni di minori, con
un costo di circa 5 miliardi di euro; mentre le norme avevano ridotto il sussidio, la decisione giudiziaria ha un impatto
diretto e forse opposto sull’economia, potendosi declinare come una ‘decisione’ economica, per gli effetti di fuoriuscita
dal mercato di persone che ritengono più conveniente ricevere il sussidio piuttosto che accettare o cercare un lavoro
peggio pagato» (in Corte di Cassazione, Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata. Convegno di studi: “Il
Giudice e l’Economia”, Roma, 17 febbraio 2010).
appartenere alla discrezionalità legislativa 45. Coerentemente, anche se non in forma esplicita, è la
Corte stessa che ha introdotto il concetto di ‘diritti finanziariamente condizionati’. Così, ad
esempio, in materia sanitaria, ha affermato che «il diritto a ottenere trattamenti sanitari, essendo
basato su norme costituzionali di carattere programmatico impositive di un determinato fine da
raggiungere, è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione
che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con
gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso
legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie
di cui dispone al momento» (sent. n. 455/1990). Si deve aggiungere che la Corte ha anche espresso
la consapevolezza della insostenibilità, nell’era delle crisi, della globalizzazione e dei vincoli di
deficit, debito e manovra della moneta, del principio di universalizzazione dei diritti sociali, quando
ha affermato che «l’esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale
nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità
finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli
interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario» (sent n. 248/2011) 46.
Resta fermo, e ovviamente condivisibile, il principio secondo cui l’azione del Legislatore deve
conformarsi, nella attribuzione e distribuzione delle risorse per i diritti sociali, al criterio di
ragionevolezza, mediante, appunto, un «ragionevole bilanciamento» dell’attuazione della tutela
costituzionalmente obbligatoria di un diritto sociale «con altri interessi o beni che godono di pari
tutela costituzionale e con la possibilità reale e obiettiva di disporre delle risorse necessarie per la
medesima attuazione: bilanciamento che è pur sempre soggetto al sindacato di questa Corte nelle
forme e nei modi propri all’uso della discrezionalità legislativa» (sent. n. 455/1990).
Il dramma è che il potere assoluto di valutazione della ragionevolezza, nonché dei termini e delle
modalità del bilanciamento, lo possiede solo la Corte, con la conseguenza che, a fronte del
bilanciamento ‘bilanciato’ operato dal legislatore, essa può, quando vuole, opporre un

45
Come ricorda A. Longo, Una concezione del bilancio costituzionalmente orientata, cit, p. 10. In dottrina il
dibattito sulla questione è assai risalente, con una notevole mole di letteratura variamente schierata. Ricordo un vivace
convegno della fine degli anni ottanta in tema di retroattività delle sentenze costituzionali, nel corso del quale, mentre
Carlo Mezzanotte individuava nell’equilibrio finanziario ex art. 81 la possibilità di limitare la clausola di retroattività
dell’incostituzionalità della legge, Gustavo Zagrebelsky ― già, proprio il Maestro dell’assolutizzazione del formante
sovrano ― metteva un carico da novanta, sottolineando che tale articolo «dovrebbe addirittura condurre a escludere
totalmente le decisioni di incostituzionalità che inducano una estensione della spesa». Sul punto cfr. T. Groppi, La
quantificazione degli oneri finanziari derivanti dalle decisioni della Corte costituzionale: profili organizzativi e
conseguenze sul processo costituzionale, in P. Costanzo (cur.)», L’organizzazione e il funzionamento della Corte
costituzionale, Torino, Giappichelli, 1995. Una pregevole ricostruzione di ampio respiro in S. Scagliarini, La
quantificazione degli oneri finanziari delle leggi tra governo, parlamento e corte costituzionale, Milano, Giuffrè, 2006.
46
Lo stesso tipo di “intonazione” la Corte ha utilizzato in numerose altre sentenze. Un sintetico ma significativo
elenco in A. Longo, op. cit., nt. 16 in fine.
bilanciamento ‘sbilanciato’ riordinando a piacere le gerarchie interne di quella mitologica e
cangiante ‘tavola di valori’. Non riesco, anche mettendocela tutta, ad accettare come
scientificamente fondata la giustificazione di questo bilanciamento sbilanciato, asimmetrico,
ineguale con la considerazione che «il fine (il soddisfacimento dei diritti sociali della persona) non
può essere posto sullo stesso piano del mezzo (l’efficienza economica)». Come correttamente
ammette l’Autore del brano appena riportato, in realtà, dobbiamo constatare come «non si tratti di
un vero e proprio bilanciamento (che è sempre fra eguali)» 47.
Nessuna logica, salvo quella della forza della sovranità materiale, può fondare una simile catena
di enunciati promananti da uno stesso soggetto in occasioni successive: 1) il Legislatore ha
discrezionalità; 2) nel costruire il bilancio può condizionare i diritti, bilanciandoli con la finanza, ma
ragionevolmente; 3) in sede di controllo (successivo) il bilanciamento può in qualsiasi momento
trasformarsi in supremazia assoluta dei diritti sulla finanza. Si tratta di una catena devastante,
perché le scelte di spesa pubblica non sono puntate alla roulette, e la redazione del bilancio non può
essere una variabile casuale, o, di più, dipendente dal mood della Corte in un determinato momento
della sua storia.
Il fatto è che la Corte, anche quando ha riconosciuto un certo livello di condizionamento
finanziario dell’allocazione delle risorse tra diritti sociali e altri impieghi (ma anche quando è
intervenuta talora pesantemente sul versante dell’entrata dei bilanci pubblici) 48, non si è mai posta il
problema di cosa significhi esattamente, cioè scientificamente, ‘ragionevolezza’ della valutazione
del Legislatore nelle scelte di finanza pubblica. In particolare, la Corte ha mostrato in parecchie
occasioni di non vedere, o di trascurare radicalmente, le dinamiche tecnico-economiche del
bilancio, né le conseguenze finanziarie delle sue sentenze, né l’effetto costituzionale dell’impatto
del bilancio (prima e dopo il suo intervento demolitorio) sulla crescita economica (futura).
Impossibile, senza provocare gravi danni, affermare nei giorni dispari che è vitale tutelare
l’equilibrio economico, la crescita e la razionalità finanziaria, ma nei giorni pari fare a pezzi queste
grandezze. La questione di fondo allora è proprio questa: fino a che punto si può ragionevolmente
controllare finanza pubblica e sistema economico ‘a colpi’ di sentenze? L’economia può essere
sottomessa a principi e regolazioni “arbitrariamente” imposti dalle Corti? Oppure sono le Corti
(oltre i legislatori e i governi) che ‘debbono’ agire entro limiti posti dall’economia? Qual è l’effetto,

47
M. Luciani, Sui diritti sociali, in Scritti in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova, Cedam, p. 126.
48
Penso ad esempio alla sentenza 10/2015 sulla c.d. “Robin Hood Tax” (che costituisce una esemplare esibizione di
Judicial Usurpation of Tax Power come descritta da D.J. Brocker, nell’articolo precedentemente citato, supra nt. 7) ma
anche a macroscopici risalenti arresti, come quello n. 5/1980, che, in sei scarne pagine, distrusse l’impianto della c.d.
legge Bucalossi, elevando così a potenza la quantità di risorse pubbliche necessarie per espropriazioni e governo del
territorio.
o se si vuole la sanzione, della violazione di tali limiti prodotta dai formanti degli ordinamenti
giuridici?
Non c’è dubbio che il diritto, sulla base di pressione volontaristica di dottrina, legislatori e
soprattutto Corti, possa prefiggersi lo scopo di ordinare l’economia e il mercato 49. E in effetti, anche
a prescindere dalle varie confutazioni teoriche dell’ordinazione giuridica del mercato 50, è piuttosto
ovvio che ogni società è libera di scegliere la morte di cui vuole morire. È scontato che i popoli
possono costruirsi il diritto costituzionale che desiderano, o quello che suggeriscono i
costituzionalisti o le Corti. Il problema è: se una tale costruzione funziona di fronte alle leggi del
moto del capitalismo, e a quali conseguenze portano gli ‘errori’ del legislatore (che però può essere
corretto dalle Corti) o del Giudice costituzionale (che, ahimè, non può essere corretto da nessuno).
Il sistema giuridico può certamente dirigersi verso la prevalenza di interpretazioni incoerenti con gli
imperativi del modo di produzione, ma in questo caso entrerà in contraddizione con esso, lo
indebolirà, e subirà evoluzioni regressive. In sostanza, violare le leggi “naturali” della costituzione
economica e finanziaria usando gli strumenti del volontarismo giuridico produce solo il ‘piccolo’
inconveniente, che tanto più i formanti degli ordinamenti si ostinano a ‘mettersi di traverso’ rispetto
alla «natura delle cose»51, imporre la loro geometrica volontà alla struttura economica, tanto più
veloce è il viaggio verso la loro entropia personale dentro lo tsunami dell’entropia del loro habitat.
Nella letteratura giuridica la consapevolezza di questi problemi è divenuta negli ultimi anni
sempre più frequente, ma è ancora minoritaria la convinzione che le pressioni e i limiti imposti dalla
‘materia’ economica debbano essere assorbiti ‘dentro’ la teoria giuridica.
Spesso questa problematica viene elusa appoggiandosi alla teoria delle fonti: i vincoli
quantitativi, si suppone, derivano da fonti di rango ‘superiore’ (il diritto europeo, ad esempio) e
quindi si tratterebbe ‘solo’ di trovare modelli procedurali e sostanziali di coordinamento e
adattamento 52. In questo modo, tuttavia, si dribbla la questione epistemologica, si approda alla
soggettività dell’interpretazione e si perde l’occasione per indagare che cosa, e perché, sta

49
In questo senso mi pare si legga il nucleo delle tesi di N. Irti, nei vari saggi raccolti in L’ordine giuridico del
mercato, Roma-Bari, Laterza, 1998.
50
Ad es. G. Rossi, Diritto e mercato, in Riv. soc., 1998, p. 1443 ss., e la recensione a Irti di P. Grossi, in Soc. dir.,
1998, p. 174 ss.
51
Come fondamento dell’interpretazione (in argomento v. G. Radbruch, La natura delle cose come forma giuridica
di pensiero, in Riv. int. fil. dir., 1941, p. 145 ss., ma v. la delimitazione accurata tracciata da N. Bobbio,
Giusnaturalismo, cit., p. 211 s.), rilanciata magistralmente da P. Grossi (v. ad esempio i saggi raccolti in Società, diritto,
stato. Un recupero per il diritto, Milano, Giuffrè, 2006). In riferimento a un serio studio in argomento (di I. Massa
Pinto, già citato sopra, nt. 11 e 23) si deve completare il quadro valutativo, perché se è vero che di fronte alla ‘natura
delle cose’ l’atteggiamento del Legislatore è spesso la superbia, quello delle Corti, per ragioni di potenza comparata,
non è solo superbia, è Hybris.
52
G. Rivosecchi, Il governo europeo dei conti pubblici tra crisi economico-finanziaria e riflessi sul sistema delle
fonti, in Osservatorio sulle fonti, 1/2011, p. 24 ss., in cui ampi richiami bibliografici.
frantumando il diritto pubblico nella forma e nel contenuto in cui lo conosciamo, e soprattutto per
includerne la valenza scientifica nel toolkit del diritto costituzionale.
Un indimenticabile Maestro, commentando un intelligente scritto sulle tensioni costituzionali tra
libertà economiche e diritti sociali 53, richiamava al contrario la necessità di fondare
l’interpretazione costituzionale su «un insieme di valori economici che, necessariamente condivisi,
non eliminino il conflitto, ma lo releghino in posizione secondaria». Si tratta di grandezze oggettive
e spontanee, come integrazione dei mercati, regolazione multilivello, crescita economica, PIL,
bilancia dei pagamenti, competizione tra gli ordinamenti. La costituzione economica, insomma.
Come ho già sostenuto in passato 54, si tratta di intuizioni profonde sulle relazioni tra economia e
diritto, che tuttavia si rivelano ‘indifese’ sul piano scientifico, perché non definiscono un quadro
teoretico validamente verificabile del contesto, delle forme e dei processi mediante i quali le ‘leggi
del moto’ dell’economia, assumendo la veste di regole superiori e principi costituzionali, divengono
oggetti di studio del giurista, e parametro di azione per legislatore e Corti, nella misura in cui
‘producono’ principi e regole superiori giuridicamente validi, divenendo così esse medesime fonti
del diritto a bassa discrezionalità interpretativa, perché si tratta di grandezze misurabili, di natura
tecnico-scientifica, per le quali è necessaria una specifica expertise, che non si addice alla
discrezionalità legislativa della mediazione politica né a quella giurisdizionale “dell’interpretazione
in concreto”.
È del tutto comprensibile come una impostazione del genere possa risultare indigeribile per il
costituzionalismo ideologicamente orientato 55, ma non vedo nemmeno la più minuscola collisione
con il costituzionalismo delle origini 56, anzi, il teorema del potere limitato ne verrebbe fuori
potenziato, perché l’oggettività delle grandezze economiche e finanziarie sarebbe un limite non
manipolabile, non solo dal Legislatore, ma nemmeno dalle Corti, il cui ruolo attuale,
paradossalmente, sfugge a quel teorema, attraverso la soggettività dell’interpretazione in concreto 57,
senza aver l’obbligo di valutare quanto l’interpretazione costituzionale ‘economicamente avventata’
possa danneggiare l’economia e di riflesso la stessa capacità di prendere decisioni economiche
conformi alla soluzione del caso concreto che ha originato quell’interpretazione. La regola del caso

53
G. Bognetti, Cos’e la costituzione? A proposito di un saggio di R. Bin, in Quaderni cost., 2008, p. 5 ss.
54
G. di Plinio, Costituzione e scienza economica, in Il Politico, 3/2009, p. 168 ss.
55
Che è una deformazione del costituzionalismo classico, e non una ineluttabile necessità (come mi pare affermi A.
Spadaro, Costituzionalismo versus populismo (Sulla c.d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali
contemporanee), in AA.VV., Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Vol. V, Napoli, Jovene, 2009, p. 2007 ss.)
56
C. H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, Ithaca, Cornell University Press, 1947; la centralità del
teorema del potere limitato è rilanciata da A. Pace, Le sfide del costituzionalismo nel XXI secolo, in Dir. pubbl., 3/2003,
p. 887 ss.
57
R. Guastini, Teoria e ideologia dell’interpretazione costituzionale, in Giur. cost., 1/2006, p. 743 ss.
concreto, infatti, non agisce deterministicamente 58, ma la somma degli errori, delle interpretazioni
disarmoniche con le esigenze della ‘struttura’ economica si scontra con una meccanica macro, non
quantistica, che può portare al declino e alla implosione della società in cui quegli errori sono
sistematicamente commessi. Non è deterministica «l’applicazione delle leggi», ma lo è la reazione
della struttura economica.
Le osservazioni precedenti possono spiegare perché il mainstream del costituzionalismo, sia sul
versante del formante dottrinario, sia nell’opera quotidiana della Corti, rifiuta da tempo una teoria
giuridica della costituzione economica 59.
Il diritto pubblico che ne scaturisce è pertanto fermo al Novecento, e alle salvifiche “Costituzioni
keynesiane”, che moltiplicano allegramente pane, pesci e diritti. Non sarebbe poi un gran problema,
se un tale atteggiamento non fosse esso stesso un fattore di crisi economica e se non ostacolasse
l’adattamento degli Stati nazionali alle pressioni della crisi anche mediante la formazione e la
stabilizzazione delle nuove forme del pubblico potere e l’accesso a nuove strumentazioni, di livello
adeguato alla dimensione della crisi stessa e al governo dei suoi processi e dei suoi effetti.
Credo che ciò che maggiormente manda in fibrillazione il costituzionalismo tradizionale di
fronte all’economia è data dall’evidenza empirica che la “costituzione economica” non può che
funzionare (o meglio effettivamente funziona) ponendo vincoli “superiori”, di tipo oggettivo e di
conseguenza non manipolabili attraverso l’uso dell’argomentazione e delle tecniche interpretative.
In effetti, non avrebbe senso costruire una teoria della costituzione economica, se questa non avesse
primato sulla costituzione politica e su quella dei diritti, ponendosi come precondizione della loro
attuazione.
È possibile un approccio metodologico differente, non soggettivo, una interpretazione
costituzionale compiuta da un giudice sinceramente “disinteressato”, che pertanto non è atto di
volontà ma «piuttosto un atto di conoscenza: è scoperta (o descrizione) dei significati che un testo
potenzialmente esprime»? 60. Come virare dalla sovranità arbitrale delle Corti verso una
interpretazione scientificamente basata?

58
R. Bin, Ordine delle norme e disordine dei concetti (e viceversa). Per una teoria quantistica delle fonti del diritto,
in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (cur.), Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli, Jovene, 2009, p. 41 ss.,
56, 59.
59
Per tutti, M. Luciani, Economia nel diritto costituzionale, in Dig. disc. pubbl., V, Torino, Utet, 1990, p. 374 e ss.
Per una visione non ideologicamente prevenuta, P. Bilancia, Modello economico e quadro costituzionale, Torino,
Giappichelli, 1996.
60
R. Guastini, Specificità dell’interpretazione costituzionale?, in P. Comanducci, R. Guastini (eds.), Analisi e diritto
1996. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 1996, p. 169 ss. La risposta negativa più importante si
basa sull’asserzione che l’interpretazione costituzionale possiederebbe “specificità”, e in particolare quella di esprimersi
in un bilanciamento tra i vari, differenti e talora antagonisti principi di nucleo che la costituzione stessa dichiara e
impone. Ma il problema, come in un loop infinito, torna a essere quello: come rendere non arbitrario il bilanciamento.
Il senso di una teoria degli effetti costituzionali dell’economia sta proprio in questo: essa,
azzerando la soggettività dell'interprete attraverso l’immissione nel reasoning di grandezze
economiche e finanziarie “quantitative”, renderebbe scientifica l’operazione di bilanciamento. Qui
la scienza economica può avere un ruolo significativo, fornendo l’esatta dimensione di quelle
grandezze e anticipando gli impatti e le conseguenze economiche delle scelte di bilanciamento. Alla
babele dell’interpretazione soggettivamente preorientata, allora, si deve (per ragioni sempre più
impellenti e drammatiche) sostituire la ricerca di basi scientifiche delle asserzioni giuridiche.
Se è alquanto banale l’osservazione che ogni modo di produzione storicamente determinato, nel
lungo periodo, non tolleri che modelli giuridici incoerenti con la propria dinamica interna, meno
facile da digerire è il corollario che l’economia reale produce norme di nucleo costituzionale. Ma se
si accetta tale premessa, allora è ‘necessario’, ma solo in senso condizionale (per l’adattamento e la
sopravvivenza della società sottostante), che l’interpretazione costituzionale nel suo complesso
incorpori in sé le determinanti fondamentali di quella coerenza.

6. Dall’interpretazione costituzionalmente “disorientata” all’expertise tecnico-scientifica?


Il discorso sopra sviluppato non porta affatto alla conclusione che legislatori, giuristi e giudici
costituzionali devono diventare economisti. Assumendo gli imperativi economici come norme di
nucleo, le Corti, la dottrina, i Parlamenti, possono emettere sentenze, fare ricerca, creare nuove
leggi ottenendo direttamente dalla scienza economica i parametri tecnico-scientifici necessari e
proceduralizzando la loro utilizzazione61. Specificamente, il Giudice costituzionale, potrà fornire
“interpretazioni nel caso concreto” utilizzando un supporto scientifico in grado di valutare gli effetti
economici del diritto 62, tra l’altro sgravando l’immagine della Corte dall’immane fardello di
responsabilità ‘politica’ delle soluzioni così individuate.
Tentiamo qui, conclusivamente, di dipanare l’intricata matassa costituita dal rapporto come
appena impostato tra norma economica e formanti costituzionali, Se alla luce del discorso finora
svolto si esaminano le reazioni in dottrina alla giurisprudenza costituzionale ‘di spesa’ più recente e

61
In senso analogo A. Gambaro, L’analisi economica del diritto nel contesto della tradizione giuridica occidentale,
in G. Alpa (cur.), Analisi economica del diritto privato, Milano, Giuffré, 1998, p. 453 ss. Sviluppi sul punto nel mio
Costituzione e scienza economica, cit., 168 ss. Interessanti spunti da L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle
conseguenze, in Id., Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, Giuffrè, 1996, p. 91 ss.
62
Più che dall’analisi economica del diritto un supporto importante in questa direzione deriva dagli sviluppi degli
studi di economia costituzionale empirica, avviati dai lavori seminali di Buchanan (v. ad esempio J.M. Buchanan, G.
Brennan, The Reason of Rules: Constitutional Political Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1985; una
selezione dei classici in materia in C.K. Rowley, F.G. Schneider (eds.), Readings in Public Choice and Constitutional
Political Economy, New York, Springer-Verlag NY Inc., 2008). L’economia costituzionale empirica ha ricevuto una
grande spinta da Persson e Tabellini (2003), che dimostrano che le norme di nucleo (costituzionali) hanno vistosi effetti
economici. Una applicazione nel mio Costituzione economica e regole elettorali, cit., passim.
in particolare alla n. 70 del 2015 in materia di pensioni, o alla n. 275 del 2016 sul trasporto
scolastico dei disabili si nota che, anche quando esse sono adesive nel merito, esprimono forti dubbi
sulla tenuta logica del reasoning che caratterizza questa tipologia di decisioni della Corte, sia
perché i presupposti valutativi su cui si basano (l’assoluta inviolabilità dei diritti a prestazione,
qualunque manifestazione concreta essi assumano, appare «più come un atto di scelta,
un'espressione di pura volontà che non come la coerente catena di un ragionamento» 63, sia,
soprattutto, perché il grande assente del ragionamento della Corte è la costituzionalizzazione
dell’equilibrio di bilancio introdotta dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, in un contesto di
diritto europeo originario e derivato che eleva le esigenze di balanced budget a norma generale
degli ordinamenti comunitario e interni e a precondizione della stessa esistenza di una Unione
Economica e Monetaria.
Paradossalmente, si potrebbe dire che le evoluzioni appena accennate della Higher Law
multilivello vedono addirittura una riduzione brutale dell’importanza che la Corte attribuisce alle
questioni di bilancio nel contesto della tavola dei valori costituzionali rispetto alla sua stessa
giurisprudenza più risalente in materia 64. Con la virata argomentativa delle citate sentenze,
insomma, è come se la Corte avesse emesso una sentenza interpretativa di accoglimento di una
ipotetica questione di costituzionalità della legge costituzionale n. 1/2012, da un lato, e come se
avesse applicato i controlimiti a diritto comunitario della crisi, dall’altro.
Non sorprende che accurati, ma sconcertati, studiosi, dopo aver constatato che la riforma dell’art.
81 «avrebbe potuto stravolgere l'intero assetto sociale del nostro Stato, facendolo deviare verso una
visione liberal-liberista», trovano consolazione nel fatto che «con forza e nettezza quasi brutale la
Corte smentisce questi timori e l'unico richiamo all'equilibrio di bilancio presente in sentenza, in
realtà ne (ri)definisce la portata semantica affermandone, come abbiamo già visto, l'inferiorità
assiologica. Icastica (quanto apodittica) l’affermazione sopra riportata nella quale la Consulta
liquida il problema affermando che “la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione
non corretta del concetto di equilibrio del bilancio”»65.
Una scelta politica, dunque, della Corte, ma non a fronte di una scelta altrettanto politica del
Legislatore, quanto in rapporto a imperativi e pressioni derivanti direttamente dalla dinamica
economica, della crisi e del suo superamento. In sostanza, la Corte, attraverso una interpretazione
costituzionalmente disorientata, ha fatto a pezzi la costituzione finanziaria ‘europea’ e le regole

63
Longo, op. cit., p. 11.
64
Uno studio eccellente e di ampio respiro, specificamente orientato all’analisi dell’impatto della giurisprudenza
costituzionale italiana sulla costituzione finanziaria, è in M. Belletti, Corte costituzionale e spesa pubblica. Le
dinamiche del coordinamento finanziario ai tempi dell’equilibrio di bilancio, Torino, Giappichelli, 2016.
65
Ancora Longo, op. cit, p. 12.
oggettive, scientifiche, che essa esprime in questa determinata fase storica. Si è appropriata della
zona ‘politica’ delle scelte di bilancio, ma di fronte a un Legislatore che in quella zona non ha più
discrezionalità.
E infatti, anche a voler richiamare quella che può essere considerata una (debolissima) emersione
della political questions doctrine nell’ordinamento costituzionale italiano, l’art. 28 della legge 11
marzo 1953, n. 87, per il quale il controllo di legittimità costituzionale «esclude ogni valutazione di
natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento», è evidente che si
sta scavando una galleria inutile, non solo e non tanto perché siamo ormai rassegnati al fatto che la
Corte stessa è il decisore di eccezione sulla natura “politica” o meno delle questioni che ha fra le
mani 66, quanto, e soprattutto perché la stessa discrezionalità del Legislatore si assottiglia, fino a
scomparire, di fronte agli imperativi imposti dalla dinamica delle grandezze tecnico-scientifiche
della Fiscal Constitution.
Ma come far transitare, camminando su di un terreno così delicato, tali grandezze dentro la
proceduralizzazione del giudizio costituzionale?
Si deve ovviamente intervenire sul processo argomentativo, sulle motivazioni delle decisioni
rilevanti per il bilancio; non solo, naturalmente, per la Corte, ma anche per il decisore politico, per il
quale, tuttavia, una fitta rete di condizionamenti tecnico-scientifici già esiste. Non mi spingo in
questa sede ad approfondire fino a che punto le amministrazioni, i legislatori e la dottrina, e
soprattutto le Corti, pratichino questa operazione interpretativa coniugando il metodo proprio del
diritto ‘per principi’ con la costellazione di grandezze economiche che ― filtrando attraverso il
ricorso all’expertise, i documenti economico-finanziari del Tesoro, i report della Corte dei Conti, la
letteratura scientifica, le documentazioni di autorità tecniche, nazionali o internazionali,
indipendenti e autorevoli (OCSE, Banca Centrale, FMI, etc.) e soprattutto il diritto sovranazionale
(dal WTO all'Unione europea) ― raggiungono l'interprete e gli offrono solide basi normative per
sviluppare l'interpretazione giuridica in senso coerente con gli imperativi e le grandezze di cui è
costellata la costituzione economica 67.

66
In tal senso l’accurata analisi, in chiave comparata, in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question
doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bologna, Libreria Bonomo, 2012.
67
Al riguardo, un esempio di significativa rilevanza deriva dalla problematica della cooperazione tra Commissione
europea e giudici nazionali in materia di concorrenza, o dalle esperienze sull’uso dell’economia e dell’expertise
economica da parte della Corte Suprema americana, sulle quali S. Breyer, Economic Reasoning and Judicial Review, in
Economic Journal, vol. 119, 535/2009 sect. F, p. 123 ss., il quale conclude «Clearly I favour participation in the judicial
process by those with economic or regulatory policy-making expertise. The more you are aware of judicial decision
making and willing to undertake informed criticism, the better. Whether serving as experts in individual cases, or more
generally as informed court watchers and critics, you can make more accessible to lawyers and judges the tools of
economic analysis and encourage their use». Alcuni interessanti spunti in A. Morrone, Corte costituzionale e
“Costituzione finanziaria”, in A. Pace (cur.), Corte costituzionale e processo costituzionale, Milano, Giuffrè, 2006, p.
624 ss., G. Rivosecchi, L’indirizzo politico finanziario tra costituzione italiana e vincoli europei, Padova, Cedam, 2007.
Se nulla si può oggi ‘imporre’, alla Corte, nemmeno si può più, da tempo, fare affidamento sul
solo self restraint, che occorre in qualche modo forzare. Messe da parte le reazioni ‘estreme’ (dalla
‘disubbidienza’ del Legislatore a pericolose manipolazioni del quadro costituzionale esistente in
materia di struttura e procedure), sul tappeto le idee sono ancora poche, e probabilmente anche
deboli, ordinate su tre livelli di intervento: a) un sedicente (e apparente) rafforzamento dei poteri
istruttori della Corte; b) l’introduzione della dissenting opinion; c) l’attribuzione di un potere
esplicito di modulazione degli effetti temporali della dichiarazione di incostituzionalità.
Non è un gran che. La modulazione degli effetti retroattivi la Corte l’ha già, pur
sorprendentemente, assorbita tra i suoi poteri, con la sentenza n. 10/2015 sulla Robin Tax e dunque
la riforma non fa altro che positivizzare qualcosa che è già accaduto, con un minuscolo effetto, se si
vuole, di ‘suggerire’ alla Corte di applicar la modulazione il più frequentemente possibile, in vista
della protezione degli equilibri finanziari già assestati. Toccherà comunque ai governi arrabattarsi
per trovare le risorse future adeguate alla copertura della voragine, più o meno ampia, che la
prossima sentenza aprirà.
D’altra parte, l’opinione dissenziente potrebbe pure avere qualche effetto, consentendo di
individuare in forma pubblica i giudici ‘spendaccioni’ e quelli ‘finanziariamente virtuosi’. Il self
restraint potrebbe uscire, anche se in misura minima, dal suo limbo personale. In più, va detto che
si tratta di un istituto importante non solo per la giurisdizione di spesa, ma anche, e forse
maggiormente, nei confronti di sentenze su argomenti più socialmente ‘sensibili’.
Maggiore senso ha l’introduzione di un’area istituzionalizzata di expertise economico-finanziaria
― che si connette direttamente alla necessità di conservare un valore centrale al nuovo articolo 81 e
alle già discusse esigenze di salute macroeconomica dello Stato ― creata attraverso la
predisposizione degli strumenti conoscitivi attraverso i quali la Corte può acquisire piena
consapevolezza e valutare, ovviamente in piena autonomia, l’interpretazione in concreto mediante il
bilanciamento. Come afferma la ottima relazione alla già citata proposta di legge AC 3200 l’idea è
quella di inserire nella legge che disciplina il funzionamento della Corte costituzionale «alcune
disposizioni con le quali si dà la facoltà alla Corte stessa di disporre ordinanze istruttorie ai fini
dell’acquisizione di dati e informazioni ...; in particolare si prevede che, qualora la soluzione della
questione di costituzionalità possa implicare maggiori oneri o minori entrate per la finanza pubblica,
la Corte, anche su richiesta dell’Avvocatura generale dello Stato o del rappresentante della Regione
interessata, ha la facoltà di chiedere all’Ufficio parlamentare di bilancio una relazione sugli effetti
finanziari dell’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto
dell’istanza o del ricorso 68.
L’Ufficio parlamentare di bilancio ― istituito in attuazione di indirizzi europei dalla legge
(rinforzata) n. 243 del 2012 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio, ai
sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione) ― è un «organismo indipendente per
l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle
regole di bilancio» (articolo 16.1), che ha come principali compiti quelli di effettuare analisi,
verifiche e valutazioni in merito, tra l’altro, all’impatto macroeconomico dei provvedimenti di
maggior rilievo, agli andamenti di finanza pubblica, alla sostenibilità della finanza pubblica nel
lungo periodo.
Attraverso l’expertise di questo organismo tecnico-scientifico indipendente, la Corte, può
acquisire gli elementi anche quantitativi necessari per valutare ‘oggettivamente’ le condizioni di
bilanciamento tra diritti e finanza, e conoscere le implicazioni macroeconomiche rilevanti ai fini del
rispetto dell’articolo 81 della Costituzione e, in particolare, del principio di sostenibilità del debito
pubblico.
In aggiunta, la proposta introduce anche una modifica della legge n. 196 del 2009 in materia di
contabilità e finanza pubblica, prevedendo che, qualora da una relazione dell’Ufficio parlamentare
di bilancio risulti che per effetto di sentenze definitive (sia ordinarie che costituzionali) derivino o
possano derivare oneri finanziari non ancora contabilizzati nei bilanci, il Governo assume
tempestivamente le conseguenti iniziative legislative al fine di procedere all’esecuzione delle
sentenze con modalità e tempi che ne assicurino la coerenza con gli articoli 11, 81, 97, primo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione. In sostanza, un minuscolo paracadute per il
Governo che si vedesse costretto a raschiare il fondo del barile per adempiere ai diktat di sentenze
di spesa.
Le suddette innovazioni, come si è già rilevato, appaiono insufficienti a frenare l’onda, ormai
tsunami, della Judicialization of Tax/Expenditure Power, ma potrebbero costituire un avvio almeno
per riconoscere e delimitare il problema. Peccato che le nebbie che avvolgono il fine legislatura non
consentano previsioni né sul se e sul quando esse potranno vedere la luce, né sull’altra faccia della

68
Tra i primi a proporre tale soluzione, in un convegno del 2013, M. Luciani, L’equilibrio di bilancio e i principi
fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, in www.cortecostituzionale.it, e in AA.VV., Il principio
dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012, Atti del seminario, Roma, Palazzo della Consulta,
22 novembre 2013, Milano, 2014. Sull’UPB: P. Magarò, L’ufficio parlamentare di bilancio, in A. Giovannelli (cur.),
Aspetti della governance economica nell’Ue e in alcuni Stati dell’Unione, Torino, Giappichelli, p. 93 ss.; C. Bergonzini,
Parlamento e decisioni di bilancio, Napoli, Franco Angeli, 2014; D.Capuano, E. Griglio, La nuova governance
economica europea. I risvolti sulle procedure parlamentari italiane, in A. Manzella e N. Lupo, Il sistema parlamentare
euro-nazionale. Lezioni, Torino, Giappichelli, 2014, p. 227 ss.
luna, cioè sulla necessità del recupero di dignità e autorevolezza della politica e delle istituzioni
rappresentative, che rappresenterebbero la medicina elettiva per la cura di una torsione abnorme di
democrazia e costituzionalismo verso il potere giurisdizionale, che fa male non solo a sovranità
popolare e organismi majoritarian, ma alla legittimazione delle stesse Corti.

Potrebbero piacerti anche