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Rileggiamoli insieme
Tre culture? Rileggendo “Il formaggio e i vermi” e
“Masscult e Midcult”
di Pierfranco Pellizzetti
La situazione pre-moderna
“Il cosmo di un mugnaio del ‘500” era il sottotitolo del brillante saggio dello
storico torinese, che applica al territorio friulano i modelli di ricerca sulla
civiltà materiale messi all’opera soprattutto dalle terze generazioni della
scuola francese de Les Annales (dopo i fondatori Marc Bloch e Lucien Febvre,
il loro successore Fernand Braudel): Georges Duby per il Mâcon ed
Emmanuel Le Roy Ladurie per la Linguadoca e il mondo occitano in genere.
Sempre tenendo ben presente l’insegnamento braudeliano, secondo cui «dal
medioevo ad oggi il capitalismo è stato spesso presentato come il principale
motore o l’elemento propulsore del progresso economico. Mentre, in realtà, il
peso di tale sviluppo è stato sostenuto dalle enormi spalle della vita
materiale»[3] [#_ftn3].
Una domanda a cui Ginsburg si era già dato risposta esattamente dieci anni prima
del suo best seller, affrontando il problema della stregoneria, sempre in Friuli, e
incontrando la singolare figura dei “Benandanti”, attivi tra il ‘500 e la metà del
‘600, come portatori di antiche pratiche della fertilità; che si presentavano in un
primo momento come difensori dei raccolti contro le streghe e gli stregoni. Poi, in
meno di un secolo, sotto la pressione di inquisitori della Controriforma fanatizzati
e resi nevrotici dal sospetto di un’eresia che si coniugava con la stregoneria, in una
sorta di prequel maccartista alla triveneta, iniziavano a colpevolizzarsi, fino ad
assumere i tratti dei loro odiati antagonisti malefacenti. «Dalla loro assimilazione
agli stregoni scaturisce il problema della sincerità dei loro racconti. Essi
divergevano sostanzialmente dagli schemi degli inquisitori, e anzi li precedevano:
era quindi da escludere che a dettarli fosse la paura della tortura o del rogo […]
Con la trasformazione dei benandanti in stregoni i dati del problema mutano. Tale
trasformazione è, sì, spontanea; ma si tratta spesso di una ‘spontaneità’ incanalata
e deviata in una precisa direzione dagli opportuni interventi degli inquisitori»[6]
[#_ftn6].
Incontriamo Menocchio
Sulla base di queste letture, costui ha elaborato una sua teologia personale
(“tutto quello che si vede è Iddio, e nui semo dei”: un’identificazione di dio
con il mondo, così come i vermi nascerebbero dal latte) che non si perita di
esibire a tutti i suoi interlocutori. Tanto da entrare nel mirino del tribunale
ecclesiastico ed essere arrestato dall’inquisitore in persona – il francescano fra
Felice da Montefalco – il 4 febbraio 1584. Nonostante gli inviti alla prudenza
ricevuti dal figlio Ziannuto, davanti alla corte il mugnaio subisce una sorta di
attrazione fatale: troppo ghiotta è l’occasione di esibire a un tale uditorio,
colto quanto mai in passato aveva avuto modo di intrattenere, la sua “mente
subtile” e le sue idee alternative a quelle della dottrina egemonica. E così parla
a ruota libera. Una loquacità che lo conduce – inconsapevolmente – dritto alla
condanna per eresia, alla tortura per fargli rivelare i nomi di eventuali
complici e infine all’essere giustiziato.
Dunque l’esito finale del rapporto tra una cultura proto-storica sopravvissuta
nelle campagne e i settori più avanzati dell’alta cultura cinquecentesca, che
non autorizza a ipotizzare «una mera diffusione dall’alto verso il basso,
secondo cui le idee nascono esclusivamente nell’ambito delle classi
dominanti»[9] [#_ftn9]. Semmai si ripropone il tema delle radici popolari
dell’alta cultura europea nella transizione post-medievale, di cui le figure di
Rabelais e di Bruegel il vecchio sono lo straordinario punto di raccordo.
Inizia così quella che un cantore popolare ha definito “la guerra santa dei
pezzenti”.
Le visioni del mondo – alte o basse che fossero – sono state radicalmente
sovvertite da due rivoluzioni in sequenza, a partire dal XVII secolo: quella
scientifica e quella industriale. Due sovvertimenti tellurici della società che
hanno posto fine alle dispersioni spaziali delle comunità, nel passaggio dal
modo di produrre agricolo (immutato nei diecimila anni della rivoluzione
neolitica) alla produzione industriale: milioni di umani che abbandonano le
campagne per essere ammassati entro i perimetri degli opifici, dove le confuse
narrazioni identitarie evolvono in coscienza di classe, in sé e per sé. E insieme
a questa costruzione dell’immagine proletaria del lavoro come riscatto, prende
corpo una cultura, in larga parte organizzativa ma non solo, mentre le
solidarietà di sangue nella famiglia allargata contadina vengono soppiantate
dal mutualismo operaio a base sociale. Una cultura – “operaia” nelle sue
declinazioni popolari – che contrasta, senza complessi reverenziali, quella
egemone delle borghesie padronali, con cui troverà un trade-off epocale nel
compromesso storico keynesiano-fordista della seconda metà del Novecento.
«Fino ad allora erano esistite soltanto la Cultura Alta e l’Arte Popolare. Entro
certi limiti, il Masscult è il prosieguo dell’Arte Popolare, ma le differenze tra le
due produzioni sono più rilevanti delle somiglianze, L’Arte Popolare si è
sviluppata principalmente dal basso, in quanto prodotto autoctono creato dal
popolo per le proprie esigenze, per quanto si ispirasse spesso vagamente alla
Cultura Alta. Il Masscult invece scende dall’alto. Viene concepito e prodotto
da tecnici al servizio di imprenditori»[12] [#_ftn12]. Una forza dinamica,
rivoluzionaria, che abbatte le vecchie barriere di classe, tradizione e gusto,
dando vita a un prodotto omogeneizzato. Eterodiretto.
Tanto che l’insofferente Macdonald si chiede: «non è forse vero che, a tempo
debito, queste classi verranno assimilate nella Cultura Alta? O almeno, in
passato succedeva così. Ma io credo che oggi le cose siano cambiate. Prima del
secolo scorso, i canoni esistenti erano generalmente accettati da tutti e le
classi in ascesa si sforzavano di adeguarsi. Oggi, però, a causa delle
conseguenze distruttive del Masscult, i canoni non sono più universalmente
riconosciuti. Il rischio è che i modelli del Midcult, anziché essere transitori –
“il prezzo del progresso” – possano diventare essi stessi un nuovo canone
permanente, un canone più povero di quelli precedenti»[13] [#_ftn13].
Anche ai sommi vertici della piramide della bellezza (per inciso, chi stabilisce
per l’eternità cosa è bello e cosa no?).
Valga per tutti il caso di un grande pittore novecentesco, non di rado sublime
e che tutta la congrega dei nostalgici del buon tempo andato collocherebbe di
certo nella casella dell’eccelso: Salvador Dalì. Cui il poeta surrealista André
Breton aveva affibbiato un significativo nomignolo, storpiandone con un gioco
di parole il nome originario: Avida Dolars.
NOTE
[1] [#_ftnref1] J. B.Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, il Mulino,
Bologna 1998 pag. 22
[2] [#_ftnref2] R. Darnton, Il grande massacro dei gatti, Adelphi, Milano
1988 pag. 19