parlavate senza stare troppo attenti al filo dei vostri pensieri, dicendovi: "Non parlare a vanvera"? Sì? E capitato anche a voi? E vi siete mai chiesti come è nato questo strano modo di dire? Se ve lo siete chiesti, ecco la risposta alla vostra domanda... Il fatto che dette origine a questa frase, a sua volta, ebbe origine nel secolo scorso. Il 12 agosto 1897 ai coniugi Van, di lontana origine olandese, nacque una bella bambina di tre chili e mezzo, che fu battezzata col nome di Vera. La signora Van, da signorina, era stata un'attrice famosa. Sposandosi aveva abbandonato a malincuore la carriera per dedicarsi alla famiglia. Così ora, quando cullava la piccola Vera per farla addormentare, invece di cantarle le solite ninne nanne, le recitava dei lunghi monologhi, sforzandosi di usare un tono calmo e monotono, adatto a chiamare, come ben sapeva per esperienza, prima la noia e poi il sonno. Vera ascoltava con gli occhietti sgranati, zitta, ma addormentarsi non si addormentava. Anzi, più la madre le parlava, più lei drizzava la testolina pelata, ben sveglia e attenta ad ascoltare. Quando fu in età di andare alla scuola materna, con gli altri bambini Vera voleva sempre giocare al dottore. Non, come qualche maligno potrebbe sospettare, per tirar giù le mutande e fare punture, clisterini e cose del genere. Nossignore. Vera tirava fuori un piccolo stetoscopio giocattolo, lo poggiava alla schiena o al petto del "malato", e ordinava seria seria: - Dica trentatré. Quello obbediva: - Trentatré, trentatré... E lei beata ad ascoltare... Quando ebbe cinque anni, Vera chiese di andare a scuola. Le avevano detto che, poiché era troppo piccola per essere iscritta in prima elementare, l'avrebbero ammessa a frequentare come uditrice. Non doveva fare i compiti a casa, né rispondere alle interrogazioni, o disegnare alla lavagna. Doveva solo starsene lì nel primo banco, zitta zitta, ad ascoltare quello che dicevano gli altri. - Ti annoierai, poverina! - le diceva la maestra. Ma Vera scuoteva la testa, seduta composta nel suo banco, con le manine incrociate sul quaderno e la faccia raggiante di felicità. Fu proprio in quel tempo che la bambina sentì nominare per la prima volta il proprio nome preceduto dal cognome. Aveva sempre saputo di chiamarsi Vera Van. Ma la maestra, quando faceva l'appello, diceva Van Vera. Il nuovo nome le piacque tanto che decise che, d'ora in avanti, si sarebbe fatta chiamare solo così. Quando ebbe quindici anni, con gran dispetto delle sue coetanee, più belle, più spigliate e più disinvolte di lei, Van Vera si ritrovò piena di corteggiatori. - Ma cosa ci trovate in quella gattamorta? - chiedevano acide le amiche ai compagni. - Vuoi mettere? - rispondevano i ragazzi. - Una che ti sta ad ascoltare e non ti interrompe mai? Una che si interessa veramente a quello che le stai dicendo? Ed era proprio così. A furia di ascoltare e ascoltare, in tutti gli anni Van Vera aveva immagazzinato nella mente una tale quantità di storie che, se avesse voluto ritirarle fuori, avrebbe avuto da raccontare per anni e anni di fila, come Sheherazade, la principessa delle "Mille e una notte". Ma lei non aveva nessuna voglia di raccontare quello che sapeva già, mentre c'erano tante storie che non conosceva. Non si era ancora saziata di quello che la gente aveva da dirle. E non importava che fossero delle storie strepitose. Le parlassero di cose banali come il tempo, i dolori reumatici del nonno; oppure di una incredibile vincita alla lotteria, di un naufragio, di una storia d'amore complicata; o anche di un assalto a una banca con sparatoria e inseguimento... lei ascoltava tutto con lo stesso vivissimo interesse. Quando compì vent'anni chiese di far parte del Telefono Amico. Le ore che passava al banco del centralino, con la cuffia, ad ascoltare gli sfoghi e le lamentele di gente sconosciuta, erano per lei i momenti migliori della giornata. Quando poi si trattò di scegliere un lavoro, naturalmente Van Vera non ebbe esitazioni. Avrebbe fatto l'uditrice giudiziaria. A quarant'anni si sentiva felice e realizzata. Chi la invidiava, chi le dava della stupida, chi le diceva: - Beata te che ti accontenti di così poco! Passarono gli anni, e Vera, con la sua disponibilità ad ascoltare, era sempre circondata da una quantità di gente. Fra costoro c'erano anche una quindicina di nipoti, pronipoti e bisnipoti, che intanto erano nati ai suoi fratelli e ai suoi cugini, e ai figli dei fratelli, dei cugini, dei nipoti. Come tutti i ragazzi, erano felici di avere un adulto che li prendeva sul serio e che ascoltava i loro problemi senza mai sgridarli e senza fare la spia ai loro genitori; ed erano fra i più assidui visitatori della casa di Van Vera. Ma, ascolta che ti ascolta, evidentemente anche i timpani umani hanno un limite di usura. Un bel giorno, anzi un brutto, un bruttissimo giorno, Vera, che stava ascoltando piena di interesse le confidenze di un suo bisnipote di nome Potito, improvvisamente vide il ragazzo che apriva e chiudeva la bocca come un pesce in un acquario. Non le riusciva di sentire una parola, un suono, un sussurro. Era diventata sorda! Non si rassegnò subito alla sua disgrazia. Consultò i medici più famosi, fece il giro del mondo alla ricerca della cura miracolosa che le potesse ridare l'udito. Ma non ci fu nulla da fare. Sorda era, e sorda sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni. Figuratevi la sua disperazione! Piangeva, gridava (e non sentiva) che non c'era più uno scopo per la sua vita, che voleva morire. Allora il bisnipote Potito, che era un ragazzo sveglio e intelligente, radunò tutti i cugini di primo, secondo e terzo grado, e disse loro: - La prozia Van Vera ci ha ascoltato quando eravamo piccoli e nessuno ci dava retta. Non ci ha mandato al diavolo quando a tredici anni le raccontavamo per la centesima volta dei nostri brufoli o delle nostre pene d'amore. Non ha mai fatto neppure una smorfia di noia come tutti gli altri quando qualcuno di noi cominciava: "Sapessi cosa ho sognato stanotte!..." Adesso tocca a noi ricambiarle il favore. Non possiamo restituirle l'udito, ma possiamo darle la sensazione di essere ancora utile. A turno andremo a trovarla tutti i pomeriggi e le parleremo, ogni volta, dal dopo pranzo all'ora di cena. I quindici ragazzi pagarono il loro debito di riconoscenza e intrattennero Vera con i loro discorsi senza senso fino alla fine dei suoi giorni. - Ma cosa le diremo? - protestò una pronipote di nome Nicoletta. - Io non riesco a fare un discorso sensato se ho l'impressione che chi mi ascolta non capisce. Mi sembrerebbe di parlare in turco a un eschimese. E chi ti chiede di fare dei discorsi sensati? - rispose Potito. - Basta che diciamo qualcosa, non importa cosa. La prozia Van Vera ci vedrà muovere le labbra, sentirà lo spostamento d'aria, magari avvertirà dei ronzii, delle vibrazioni... Capirà che le stiamo ancora parlando, nonostante la sua sordità, e anche se non comprenderà niente, sarà felice. E così fù. I quindici ragazzi pagarono il loro debito di riconoscenza e intrattennero Vera con i loro discorsi senza senso fino alla fine dei suoi giorni. La signora Van Vera morì a novantanove anni, felice. Ma dopo di allora, quando i ragazzi parlando con i loro genitori - che ci sentivano benissimo - dicevano qualche stupidaggine, si sentivano rimproverare: - Ehi! Cosa stai dicendo? Non stai mica parlando a Van Vera! Col tempo, nome e cognome si fusero in un'unica parola e la fama si sparse al punto che, ancor oggi, quando qualcuno parla dicendo delle cose senza senso, si usa dire che "parla a vanvera". Le storie che leggerete d'ora in poi su questo libro, sono state raccontate a Van Vera dai suoi nipoti negli anni della sordità. Perciò prendetele per quello che valgono, e non ditemi che non vi avevo avvertito. Capitolo 2: Mangiare la foglia.
Una volta, tanti anni fa, al tempo
degli antichi Romani, c'era una ragazzina dai capelli rossi che viveva tutta sola in una grotta. Tutta sola veramente no, perché nella grotta abitavano anche due pipistrelli, una civetta e una gatta di nome Pulcherrima. Quanto alla ragazzina, si chiamava Gaia Tulliola Enobarba, ma tutti la chiamavano "la Sibilla". Era sempre vestita di bianco e aveva un velo e dei nastri bianchi in testa, perché era una sacerdotessa del dio Apollo. La gente era convinta che quel dio saggio e potente abitasse anche lui nella grotta (invisibile però), e che mandasse a dire le cose ai suoi devoti usando la Sibilla come ambasciatrice. A quel tempo nessuno prendeva una decisione importante senza chiedere prima consiglio al dio Apollo. E poiché non si poteva parlare direttamente con lui, c'era l'abitudine di rivolgersi alla sua sacerdotessa: la Sibilla, appunto. La consultazione si svolgeva pressappoco in questo modo. Supponiamo che un soldato dovesse partire per la guerra e che avesse una fifa tremenda di lasciarci le penne. Faceva preparare dalla moglie un bel dolce di pasta fritta e miele e se ne andava alla grotta. - Ho portato questo regalo per il dio Apollo - diceva. - Vorrei sapere come andrà a finire una certa faccenda che mi sta a cuore. La Sibilla prendeva l'offerta e si ritirava nella parte più buia della caverna, dove, in un vaso, cresceva un alberello di mele le cui foglie erano leggere e pallidissime, perché non vedevano mai la luce. Mentre il soldato stava fuori ad aspettare, zitta zitta la ragazzina sgranocchiava il dolce, gettando le briciole alla civetta, che era la sua preferita (con gran gelosia della gatta Pulcherrima). Poi prendeva una penna d'oca e un vasetto d'inchiostro e strappava dai rami del melo una manciata di foglie. A questo punto era pronta per ascoltare il dio Apollo, che, invisibile, le parlava all'orecchio dettandole la risposta alla domanda del soldato. La Sibilla scriveva... PARTIRAI TORNERAI NON MORIRAI IN GUERRA Su ogni foglia scriveva una sola parola, e poi disponeva le foglie per terra in bell'ordine a formare la frase. - Fatto! Adesso puoi entrare! - gridava al soldato. Questo avanzava trepidante, inciampando nella penombra, ansioso di conoscere il proprio destino. Lo spostamento d'aria faceva tremare le foglie. Qualche volta ne spostava una... PARTIRAI NON TORNERAI MORIRAI IN GUERRA. Così leggeva il soldato diventando pallido. Qualche altra volta era la gatta, con un colpetto di zampa, a cambiare il senso della frase. La Sibilla non interveniva a rimettere le cose (o meglio le foglie) al loro posto. Anche quei piccoli incidenti dipendevano dalla volontà del dio Apollo. L'oracolo della Sibilla era così famoso che, fuori dalla grotta, la gente faceva la fila per conoscere il proprio futuro. Un bel giorno arrivò su un cocchio, accompagnato da tre schiavi delle Gallie, un senatore romano, tutto elegante con la sua toga bordata di porpora e lo scettro d'avorio intagliato. La sua offerta, portata da uno schiavo su un vassoio d'oro, era un pasticcio o sformato di porcospini ripieni di frutta secca e annegati in salsa di pesce fermentato: il famoso garum, orgoglio della cucina romana. La folla, piena di ammirazione davanti a tanto sfoggio di ricchezza, si aprì per lasciarlo passare; ma la Sibilla ordinò seccata: - Deve fare la coda come gli altri! - e tra sé pensava: "Chi si crede di essere, questo bellimbusto?" Era molto contrariata perché, se c'era una cosa che proprio le faceva schifo, ma schifo da vomitare, era il pasticcio di porcospini in agrodolce: "Cercherò di rifilarlo alla gatta e ai pipistrelli" decise tra sé. (Non dimentichiamo che la civetta era la sua cocca.) Quando finalmente arrivò il suo turno, l'elegantone si presentò con aria d'importanza: - Sono il senatore Gneo Pupilio Rotundo. La domanda che vorrei fare al dio Apollo è questa: mio zio Pomponio il Temporeggiatore sta per morire; quale dei nipoti erediterà la sua immensa fortuna? La Sibilla si ritirò in fondo alla grotta barcollando sotto il peso del piatto d'oro massiccio e dell'enorme sformato. - Mussi mussi! Vieni qua, gattina bella! Guarda cosa ti ho portato! - sussurrò. La gatta annusò il pasticcio e si allontanò con aria schifata, grattando per terra con la zampa come quando ricopriva di sabbia i suoi escrementi. - Assaggialo, almeno! - la supplicò la Sibilla. - Se l'offerta non viene consumata, Apollo si offende e non mi detta la risposta. La gatta miagolò in direzione dei pipistrelli, che dormivano a testa in giù. - Pippi, pippi! Uccellini belli! A tavola! Guardate cosa vi ho portato di buono! - riprovò la ragazza; e questa volta con maggiore fortuna, perché i due pipistrelli si precipitarono sul piatto e in un batter d'occhio divorarono tutto il pasticcio, senza lasciarne una briciola. La Sibilla sospirò di sollievo e si dispose a scrivere quello che Apollo le avrebbe dettato... Gneo Pupilio entrò nella parte buia della grotta ripetendo impaziente tra sé e sé: "Quale dei nipoti avrà l'eredità?" Sulle foglie c'erano scritte queste parole... “NON CERTO TU”. Di solito, davanti a una risposta diversa dalle loro aspettative, i devoti di Apollo chinavano la testa e se ne andavano con la coda tra le gambe. Il senatore invece diventò paonazzo per la rabbia e chiese con voce strozzata: - Come sarebbe a dire? - Non sai leggere? - rispose sprezzante la Sibilla, fingendo di essere occupatissima ad aggiustarsi il nastro bianco sulla fronte. (Era un'acconciatura che le donava molto, e lei lo sapeva benissimo.) Gneo Pupilio dette un calcio alle foglie, sparpagliandole attorno. - Hai capito male, scema. Oppure hai formulato male la domanda! - Il tempo a tua disposizione è scaduto - disse la ragazza, avviandosi verso l'ingresso della grotta per accogliere il prossimo interrogante. Ma il senatore la acchiappò per il velo, agitandole lo scettro d'avorio sotto il naso. - Provaci ancora, dannata pasticciona! Fuori la gente assisteva esterrefatta a quel sacrilegio. Mai nessuno, prima d'allora, aveva osato mettere le mani addosso alla sacerdotessa di Apollo. E se il dio avesse punito il senatore trafiggendolo con una delle sue frecce d'argento? La Sibilla però non era una di quelle che strillano: "Papà, aiuto! Pupilio mi picchia!" I suoi problemi preferiva risolverli da sola. - Senza una nuova offerta, non posso fare una nuova domanda - disse calmissima. - Tornerò domani - rispose in tono minaccioso il senatore; e si allontanò a grandi passi. L'indomani la scena si ripeté tale e quale, con l'unica differenza che, invece di agitare lo scettro d'avorio sotto il naso della Sibilla, questa volta Gneo Pupilio glielo batté sulla zucca, facendole un grosso bernoccolo. - Tornerò domani! - ripeté andandosene. Si era fatto montare dagli schiavi, vicino alla caverna, una grande tenda militare, completa di cucina da campo per preparare i manicaretti da offrire ad Apollo. Quella notte la Sibilla andò a dormire con un impacco freddo sul bernoccolo; era più decisa che mai a non chiedere aiuto al divino protettore contro quel prepotente. La gatta Pulcherrima si acciambellò come al solito sui suoi piedi e cominciò a fare le fusa. Ronnnrrrronnnrrrron... - Tornerò domani - rispose in tono minaccioso il senatore; e si allontanò a grandi passi. Intanto, anche il suo piccolo cervello lavorava come un motorino. "Testardo il senatore, e ancora più testarda la ragazza" pensava la gatta. "Cosa le costerebbe mescolare un poco le carte, anzi, le foglie? Bisognerà che ci pensi io..." E si mise a fare mentalmente tutte le possibili scomposizioni e ricomposizioni della frase... CERTO NON TU CERTO TU NON NON TU CERTO TU CERTO NON. Sospirò, come può sospirare una gatta. C'era poco da fare. Il significato era sempre lo stesso. "Vuol dire che il mio intervento sarà più drastico" decise alla fine. Il giorno dopo, la scena si ripeté tale e quale, fino al momento in cui la Sibilla chiamò dentro il senatore a leggere la risposta. Ma a quel punto, rapidissima, la gatta saltò sulle foglie, ne prese una in bocca, la inghiottì e andò a nascondersi sotto il letto. "Guarda cosa mi tocca fare!" pensava. "Io, un nobile felino cacciatore d'uccelli e di topi, mettermi a brucare l'erba come una pecora; anzi, a mangiare le foglie come una giraffa!" Il senatore questa volta lesse: "CERTO TU"; e se ne andò tutto soddisfatto del responso. - Finalmente - sospirò la Sibilla, convinta di essersi liberata di quello scocciatore. Ma l'indomani ecco di nuovo Gneo Pupilio con una nuova domanda: - La vedova Gaia Prudentilla accettera' la mia proposta di matrimonio? Dopo che i pipistrelli ebbero mangiato l'offerta, che consisteva in un porcellino ripieno di gamberi e uova di pavone, Apollo dettò alla sacerdotessa le sue parole... PER LEI NON SEI NESSUNO. SPOSERA’ UN ALTRO FORTUNATO "Ahi!" pensò la gatta. "Siamo punto e a capo. Pupilio non accetterà mai questa risposta..." E mentre la Sibilla, rassegnata a un'altra aggressione, chiamava dentro l'irascibile senatore, Pulcherrima saltò sulle foglie e le rimescolò, inghiottendone due. Poi si sedette lì vicino con l'aria più innocente del mondo. Pupilio lesse... SEI FORTUNATO, LEI NON SPOSERA' NESSUN ALTRO. - Vedi che, quando ti ci metti, sei capace di fare un buon lavoro? - disse con una insopportabile aria di degnazione, dando un buffetto sulla guancia della Sibilla (che più tardi passò mezz'ora a fregarsela con lo sputo, per cancellare anche la minima traccia di quell'antipatico). Ormai la gatta aveva imparato la lezione. "Non permetterò più che la gente se la prenda con la padrona quando non è soddisfatta dell'oracolo" decise. Qualche giorno dopo arrivò una ragazza furibonda. Scaraventò l'offerta - un cestino di fichi d'India - addosso alla Sibilla, e si piazzò davanti alla grotta con le mani sui fianchi. - E' inutile che fingi di essere una santarellina, Gaia Tulliola! - disse in tono aggressivo. - Ti hanno vista in molti fare la smorfiosa col mio Lucio. Ti sembra bello rubarmi il fidanzato? Proprio a me, che sono la tua più cara amica d'infanzia? La Sibilla, come il suo solito, non si scompose. - Non capisco di cosa stai parlando, Domizia. Lo sai benissimo che noi sacerdotesse di Apollo siamo fidanzate con lui, che è bello, biondo come il sole, splendente, suonatore di cetra... e oltretutto è un dio. Cosa vuoi che me ne importi del tuo Lucio? - Lo vedremo! - ringhiò Domizia. - Prova un po' a chiedere al tuo Apollo se Lucio mi è fedele oppure no. Il dio dettò la sua risposta... NON FIDARTI E' UN TRADITORE. "Sarà, ma non è certo con me che la tradisce" pensò la Sibilla, a cui Lucio piaceva ancor meno dei porcospini in agrodolce. E, testarda come al solito, lasciò il responso così com'era, e se ne stette tranquilla ad aspettare la reazione dell'amica. Ma la gatta, sentendo che tirava aria di strilli e di graffi, decise di intervenire alla sua maniera. Velocissima mangiò la foglia con la scritta "FIDARTI", per cui Domizia si trovò davanti una frase rassicurante... NON E’ UN TRADITORE. E poiché sapeva che Apollo non mente mai, chiese scusa all'amica e se ne tornò a casa tranquillizzata. Molte altre volte la gatta, fiutato il pericolo, intervenne per togliere la padrona dai pasticci. E da allora, quando una persona, in una situazione delicata o imbarazzante, capisce qual è il problema senza che nessuno glielo spieghi e poi agisce di conseguenza, si dice che ha "mangiato la foglia." Capitolo 3: Filare all'inglese.
L'origine di questo modo di dire
risale a un episodio avvenuto alla corte di Carlo Magno. Carlo Magno, come ricorderete, visse nel Medio Evo; e come tutte le persone di questo mondo, aveva una mamma, medievale anche lei. La mamma di Carlo Magno si chiamava Berta di Laon; ma a corte la chiamavano tutti "Berta dal Gran Piè". Il che non era esattamente un complimento, perché nel suo ambiente più una ragazza aveva i piedi minuscoli, più veniva considerata affascinante. In compenso, la regina Berta era abilissima in una attività che a quei tempi godeva di grande considerazione: sapeva filare meglio di ogni altra dama di Francia. Filava tutto il giorno, circondata dalle sue ancelle, e non per questo trascurava i suoi doveri di regina madre. Riceveva gli ambasciatori, ascoltava le canzoni dei menestrelli, premiava i vincitori dei tornei, combinava matrimoni fra i paladini e le damigelle di corte, strapazzava la servitù, tesseva intrighi, spettegolava con i gentiluomini del suo seguito... sempre col fuso tra le mani. Tanto che la sua epoca, dai raccontatori di favole, sarà chiamata "il tempo in cui Berta filava". Berta naturalmente filava alla francese. E ci sarebbe mancato altro, madre com'era del più famoso re di Francia! Di filare all'inglese, non ne aveva mai sentito parlare fino al momento in cui comincia questa storia. Anzi, fino al momento in cui finisce. Ma non anticipiamo gli eventi. Come ben sapete, i paladini di Carlo Magno ogni tanto se ne partivano a cavallo per il vasto mondo in cerca di avventure. Soli o, meglio, accompagnati soltanto dal loro fido scudiero. Uno di questi paladini, chiamato Singhinolfo, un giorno capitò sulle coste della Bretagna durante un fortissimo temporale. Anche il mare era in burrasca, e dalla riva il cavaliere vide una barchetta che saltava pericolosamente sulle onde. A bordo c'erano tre bellissime fanciulle, mezze morte dalla paura, con le vesti fradice e i lunghi capelli scompigliati dal vento. Aiuto! Aiutoooo! - gridavano, con voce resa fioca dal mugghiare della tempesta. Singhinolfo disse al suo scudiero: - Ecco un'ottima occasione per dimostrare la mia prodezza. Adesso mi butto in acqua e le salvo. - Sarà meglio che prima vi togliate la corazza, messere - osservò lo scudiero che era un tipo pratico. - Altrimenti andrete a fondo prima di loro. Mentre i due armeggiavano con fibbie e tiranti per liberare il cavaliere dal suo guscio di ferro, un'ondata più alta delle altre sollevò la barchetta e la scaraventò sulla spiaggia. - Le abbiamo salvate! - esclamò tutto contento Singhinolfo; e davanti allo sguardo meravigliato dello scudiero, si degnò di spiegare: - In fondo, è l'intenzione quella che conta. Le tre fanciulle raccontarono la loro avventura. Erano sorelle, figlie di un nobile castellano inglese; e quella mattina si erano avventurate sul mare tranquillo a pesca di gamberi. Poi era scoppiata la tempesta: aveva strappato loro di mano i remi e lacerato la vela della barchetta; il vento le aveva poi trasportate verso la costa francese. - Siamo salve per miracolo! - esclamò la maggiore delle ragazze, che si chiamava Elaine. - Già. Ma la nostra barca è distrutta. Come facciamo, adesso, a tornare a casa? - chiese la seconda, che si chiamava Iseult. La più piccola, che si chiamava Guinewere e aveva solo dieci anni, si mise a piangere singhiozzando: - Voglio la mia mamma! - Non temete damigelle - disse protettivo Singhinolfo. - Penserò io a procurarvi un passaggio su una nave più robusta di quel vostro guscio di noce. Prima però dovete seguirmi alla corte di re Carlo, che è giusto qui dietro l'angolo, per rifocillarvi e mettervi degli abiti asciutti. Il fatto è che Singhinolfo, come tutti gli altri paladini, se voleva ottenere il riconoscimento ufficiale della sua prodezza, doveva mostrare alla corte le prove concrete dell'avventura. Era un provvedimento che re Carlo aveva dovuto prendere - un po a malincuore - in seguito alle sbruffonate sempre più numerose di alcuni cavalieri pigri e codardi, i quali avevano la brutta abitudine di allontanarsi dal castello o dall'accampamento, attirando l'attenzione di tutti sul fatto che partivano in cerca d'avventure. Dopo di che si limitavano a un tranquillo giretto nei dintorni e tornavano tutti tronfi a vantarsi. - Ho sconfitto un drago con sette teste! - Ho sbaragliato un esercito di giganti! - Ho liberato da un incantesimo un santo eremita! Che bravo che sono! Che coraggioso! Che prode! Ammiratemi, ammiratemi tutti! E lo scudiero, unico testimone dell'impresa, convinto dalle promesse o dalle minacce del suo principale, teneva bordone: - Sì, sì! Dovevate vedere com'era tremendo il drago! E che pugni enormi avevano i giganti! - senza che nessuno lo potesse smentire. Per evitare simili ridicole fanfaronate, adesso il regolamento chiedeva che, insieme al resoconto fatto a voce, venissero esibite anche le prove tangibili dell'avventura: teste mozzate, armi strappate al nemico, cavalli rubati, prigionieri in catene... Quando Singhinolfo comparve con le tre fanciulle nella grande sala dove la corte stava pranzando, fu un cadere di coltelli e cucchiai (le forchette non erano state inventate) e di "Oh!" e "Ah!" di meraviglia. Le inglesine erano davvero deliziose; e con gli abiti ancora stillanti d'acqua per il naufragio, sembravano boccioli di rosa ingemmati di rugiada. - Prigioniere? - si informò il duca Orlando pulendosi i baffi col tovagliolo... - Ospiti. Sono sotto la mia protezione... - cercò di spiegare Singhinolfo; ma la regina lo interruppe: - Queste ragazze arrivano proprio a puntino. Ho giusto promesso di trovar moglie ai nostri alleati, principi di Katailandia, Turkandia e Lurkandia. Mi pare che le vostre protette, messere, dovrebbero essermi grate di questo onore. Le damigelle francesi presenti nella grande sala tirarono un sospiro di sollievo, mentre i cavalieri guardavano le nuove arrivate con rimpianto e profonda compassione. Tutti a corte sapevano che i tre principi alleati erano dei veri tipacci, vecchi e irascibili, abituati a frustare sui malleoli le defunte mogli (erano vedovi), i figli e la servitù. Uno era guercio; l'altro era completamente sdentato; il terzo era calvo, ma con una gran barba pungente come un cespuglio di spine. (E costui, figurarsi, la regina Berta lo pensava destinato alla piccola Guinewere, che aveva solamente dieci anni, e una carnagione di pesca.) Per tornare agli aspiranti mariti, tutti e tre erano inoltre avari, sospettosi, scorbutici, bestemmiatori; si pulivano gli stivali infangati con le cortine del letto e si mettevano le dita nel naso anche quando c'erano ospiti a pranzo. Le tre fanciulle inglesi non sapevano niente di tutto questo, ma non avevano nessuna intenzione di lasciar spadroneggiare a quel modo la regina. Perciò, con cortesia ma fermamente, dissero che non erano interessate alle nozze e che se ne volevano tornare a casa con la prima nave. Berta andò su tutte le furie. Chi si credevano di essere quelle tre smorfiose? - Chiudetele nella torre più alta del castello - ordinò alle guardie, - e lasciatecele dentro fino a che non avranno cambiato idea! - Ma... veramente... sarebbero sotto la mia protezione... - azzardò balbettando Singhinolfo. La regina lo fulminò con lo sguardo. L'unico modo per proteggerle, mio bel messere, è convincerle ad accettare le nozze - tagliò corto. Singhinolfo pensò: "Chi me lo fa fare di mettermi in urto con la regina madre? In fondo, queste ragazze, le conosco solo da poche ore. Che si arrangino..." Chiamò lo scudiero e, senza dar troppo nell'occhio, se ne partì in cerca di un'altra avventura un po' meno compromettente. Così adesso le tre sorelle erano prigioniere nella camera più alta della più alta torre del castello. Una volta al giorno il carceriere portava loro un vassoio con una brocca d'acqua, tre pagnotte e tre mazzi di rose: rosse per Elaire, gialle per Iseult e bianche per la piccola Guinewere. - Da parte dei vostri fidanzati - diceva, facendo dondolare la chiave della torre sotto il naso delle ragazze. - Basta che diciate di sì, e vi accompagno nell'appartamento della regina, dove le ancelle vi aspettano per aiutarvi a indossare l'abito da sposa... Elaine allora prendeva le rose rosse e le gettava fuori dalla finestra, giù nel mare che rumoreggiava alla base della torre. Iseult prendeva le rose gialle, le buttava per terra e le calpestava sotto ai piedi. Guinewere prendeva le rose bianche, strappava loro tutti i petali e, ridendo, li gettava nel secchio col coperchio dove le prigioniere facevano i loro bisogni. - Riferite alla regina - diceva poi Elaine, freddamente. - Riferirò - diceva il carceriere. E passavano i giorni. Non bisogna credere che le tre ragazze si fossero rassegnate alla loro sorte. Tanto più che almeno dieci volte al giorno la più piccola andava dalla maggiore e le diceva sbuffando: - Elaine, mi sono stufata di stare qui. Quand'è che torniamo a casa? Ma progettare un'evasione non era così facile. La porta che dava sulle scale era di legno massiccio, rinforzata da borchie di ferro. E sul pianerottolo sostavano giorno e notte due sentinelle armate fino ai denti. La finestra invece non aveva inferriate, ma solo un uccello l'avrebbe potuta prendere in considerazione come via di fuga, perché la torre era altissima sulla scogliera, e aveva il muro liscio e compatto, senza una crepa fra le pietre squadrate, senza una pianta rampicante che potesse servire d'appiglio... - Ci vorrebbe una scala di corda. E lunghissima anche, - sospirava Iseult sporgendosi a guardare verso il basso. Ma nella stanza c'erano solo tre giacigli di foglie secche, senza un straccio di lenzuolo; tre rozzi sgabelli di legno; la brocca dell'acqua; e il secchio col coperchio di cui si è già detto. Intanto Berta continuava a filare circondata dalle sue ancelle e dalle nipotine. Carlo Magno infatti aveva undici figlie e una di queste, l'undicenne Rotrude, era fidanzata col principe ereditario di Bisanzio. Per cui, oltre a tutti gli altri impegni donneschi, doveva anche studiare il greco con certi vecchioni noiosissimi, mandati alla corte di Francia dalla futura suocera. - Non è giusto, ecco! - protestò Rotrude un giorno che la nonna l'aveva sgridata perché si distraeva a guardare le mosche. - Non è giusto che io non abbia mai un momento libero, mentre quelle tre fannullone di inglesi se ne stanno a girarsi i pollici tutto il santo giorno! "E vero!" pensò la regina nonna. "Non sta bene che delle ragazze da marito se ne stiano con le mani in mano. Come mai non ci ho pensato prima?" Così, l'indomani, il carceriere portò nella torre, insieme al cibo e ai mazzi di fiori, tre fusi e una certa quantità di bioccoli di lana. - La regina Berta dice che d'ora in poi dovrete guadagnarvi il pane - annunciò. Le tre ragazze si scambiarono uno sguardo esultante. Adesso avrebbero potuto intrecciare una corda per calarsi giù dalla finestra! Ma il carceriere aggiunse: - E perché non vi vengano delle idee strane, ogni mattina ritirerò tutto il filo che avrete filato e vi porterò dell'altra lana in bioccoli. Buon lavoro, damigelle! A domani. Appena fu uscito, Guinewere, dalla rabbia, scagliò a terra il suo fuso, che si mise a girare come una trottola. Ma Elaine disse tranquilla: - Non disperatevi, sorelline. Riusciremo ugualmente a sfruttare questa occasione. Ho un piano... Berta era una filatrice eccellente, le tre ragazze inglesi non lo erano da meno. L'indomani il carceriere ritirò tre gomitoli di filo soffice e uniforme, senza un grumo, senza un nodo, senza la minima irregolarità. Non se ne intendeva molto, essendo uomo e soldato, ma non poté fare a meno di esclamare: - Un ottimo lavoro, in fede mia! Non ho mai visto produrre in un solo giorno dei gomitoli così grossi e un filato così soffice e leggero! - E’ perché noi filiamo all'inglese - spiegò asciutta Elaine. E al carceriere non passò nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di controllare se le tre ragazze avessero utilizzato tutta la lana, o ne avessero nascosta un poco da qualche parte. Così, tutti i giorni le prigioniere consegnavano i tre gomitoli e ricevevano tre misure di bioccoli di lana. La fama della loro bravura si sparse in tutto il paese e alcune dame attempate, poco diplomaticamente, chiesero alla regina madre il permesso di mandare le loro figlie nella torre, perché imparassero dalle tre belle a filare all'inglese. Ma Berta non volle, adducendo il pretesto che solo il più completo isolamento avrebbe potuto fiaccare l'ostinazione delle prigioniere. E' facile comprendere, invece, quanto la regina si sentisse offesa da quella preferenza; e quanta gelosia nutrisse nei confronti di quelle tre gattemorte inglesi, com'era solita chiamarle. Comunque, nessuna visita interruppe la solitudine delle prigioniere; e questo fu un gran bene per loro, perché permise ad Elaine di portare a compimento il suo piano. Le tre sorelle non solo erano capaci di far rendere la lana quasi il doppio, ottenendo un filo schiumoso come zucchero filato. Erano anche velocissime. Perciò, se un uccello curioso si fosse preso la briga di spiare dalla finestra (nessun altro, se non un uccello sarebbe potuto arrivare così in alto), avrebbe visto che le ragazze impiegavano soltanto due ore per ottenere, con la metà della lana ricevuta, i tre gomitoli che avrebbero consegnato al carceriere (e che ad altre damigelle avrebbero richiesto un giorno intero di lavoro.) - Il resto del tempo - lo dedicheremo a filare la lana che ci sarà avanzata, per farne una corda che ci permetterà di calarci dalla finestra. - Ma sarà abbastanza robusta? - chiese Guinewere, che era un po' fifona. - La lana non è resistente come la canapa... - Non preoccuparti. Per rinforzare il filo lo intrecceremo coi nostri capelli. - Basteranno? - Direi proprio di sì - aveva riso Elaine, scrollando le chiome bionde e lucenti, che erano foltissime e, sciolte, le arrivavano sin quasi ai calcagni. Anche le altre due sorelle avevano riccioli lunghi e abbondanti, specie Iseult, che ne era sempre stata molto orgogliosa. - Ma dovremo strapparceli tutti? - piagnucolò costei. - Io non voglio restare pelata. - Non preoccuparti. Per rinforzare il filo lo intrecceremo coi nostri capelli. - Io sì - rise Guinewere. - Preferisco essere libera e calva come un ginocchio che tenermi i miei riccioli qua dentro, dove tra l'altro non c'è nessuno che li possa ammirare. - Va bene... - sospirò Iseult. - Ma se il carceriere si insospettisce e decide di ispezionare la cella? Dove potremo nascondere il frutto del nostro lavoro clandestino? Infatti sarebbero dovuti passare molti giorni prima che la fune (quanto mai ingombrante) raggiungesse la lunghezza necessaria. Elaine ci pensò su per qualche minuto. - Ma nel punto più logico! - disse Elaine. - Nel punto che non desterà mai sospetti a nessuno. In testa! A lungo andare, il carceriere aveva preso in simpatia le tre inglesine, vedendole così decise a non cedere, ma anche così laboriose. - Finiranno per ammalarsi, a stare là dentro! - confidava preoccupato alla moglie. - Vedessi come sono pallide! Aveva preso l'iniziativa di aggiungere alle pagnotte tre scodelle di minestra e tre fichi del suo orto. Ma nonostante la nuova dieta, le ragazze gli sembravano sempre più deperite. - Vedessi! Hanno certi visini smunti, magri, piccoli piccoli sotto la corona delle trecce... La moglie decise di aggiungere al cibo tre uova fresche del suo pollaio. - Mi fanno una pena! - continuava però a dire il marito. - Vedessi! Sta succedendo loro una cosa terribile. Ti ricordi com'erano bionde quando le abbiamo rinchiuse? Che bei capelli avevano? Lucidi, luminosi... Be', a poco a poco stanno diventando opachi, sbiaditi, lanosi... Quelli della maggiore ormai sono del tutto bianchi... E pensare che non ha ancora vent'anni. Mi si stringe il cuore, quando la guardo. La moglie sospirava. D'altronde, se l'erano voluta loro, le inglesine testarde. Che senso c'era a mettersi contro a una regina potente e ostinata come Berta di Laon, detta dal Gran Piè? Se invece del carceriere, uomo generoso ma rude e ignorante, a visitare tutti i giorni le inglesine fosse andato un cortigiano esperto di acconciature femminili, si sarebbe accorto che quella che sembrava canizia, cioè capelli bianchi, era solo un trucco per nascondere la calvizia, cioè capelli... zero. Con la fune già pronta, dove il bianco della lana prevaleva sull'oro dei capelli, le tre ragazze facevano giorno per giorno delle trecce che poi avvolgevano attorno al capo in pettinature eleganti e complicate. Ogni giorno la quantità di capelli veri diminuiva ed aumentava la massa delle trecce finte. Con i gomitoli per così dire "ufficiali", le tessitrici di corte avevano tessuto un mantello bianco e soffice per Carlo Magno; costui lo aveva apprezzato molto e, ogni volta che vedeva le figliolette trotterellare col fuso in mano verso gli appartamenti della nonna, diceva: - Bambine, non sarebbe il caso che imparaste anche voi a filare all'inglese? E con quale rabbia della regina Berta, lo potete ben immaginare!... Le tre prigioniere continuavano a filare con grande impegno, nonostante il caldo dei parrucconi sempre più voluminosi. E un bel giorno, finalmente la corda raggiunse la lunghezza necessaria alla fuga. Così, una mattina, entrando col solito vassoio del cibo e dei fiori, il carceriere trovò la cella deserta. La finestra era spalancata. "Un incantesimo le ha trasformate in colombe e hanno preso il volo" gli venne da pensare. Ma subito dopo vide il capo della fune annodata alla maniglia della finestra. - Dannazione! - esclamò. - E questa chi l'ha portata qui dentro? La soppesò con le mani. Era una strana fune, leggera, flessibile e insieme fortissima, bianca con dei barbagli d'oro. Il carceriere si fece il segno della croce. Questa è certamente opera di magia. Chissà adesso quanto si arrabbierà la regina! Ma io non ho nessuna colpa... Berta invece riconobbe subito l'origine della corda e sportivamente, ammirò la bravura e l'astuzia delle tre prigioniere. Da allora, se qualcuno se la squaglia zitto zitto senza farsene accorgere, si usa dire che se l'è "filata all'inglese”. Capitolo 4: LA STOFFA DEL CAMPIONE.
Ai tempi di Federico II viveva, in
una villa di campagna nei dintorni di Foggia, una bella e ricca vedova, chiamata madonna Orsetta Berlinghieri. Sebbene fosse ancora giovane, non si era mai voluta risposare per amore dei due figli, dei quali era solita dire: - Mio marito buonanima mi ha lasciato una piccola consolazione e una grande disperazione... La piccola consolazione era Amadigi, un bambinetto di cinque anni, bello, buono, ubbidiente e affettuoso, che a detta dei suoi maestri prometteva di diventare un savio cortigiano e un perfetto cavaliere. La grande disperazione era la sedicenne Peronella, anche lei di aspetto leggiadro e di cuore generoso, ma bizzarra e stravagante più di quanto una ragazza del suo tempo potesse permettersi. Fra le altre stranezze, come andarsene da sola a cavallo per i campi, o leggere libri d'astronomia, Peronella si era messa in testa di continuare la professione del padre defunto, che era medico, sostenendo di avere imparato da lui tutto quanto era necessario per curare gli ammalati. La madre levava gli occhi al cielo e sospirava: - Spiegami un po' questo mistero. Avrai visto tuo padre al lavoro sì e no una dozzina di volte in tutto; e dici che ti è bastato per diventare una medichessa. Me, mi vedi tutti i giorni al telaio, a tessere le stoffe più belle della regione; e non hai ancora neppure a distinguere la trama dall'ordito. Peronella rideva: - Che bisogno c'è che impari a tessere anch'io, quando ci sei già tu in casa che lo fai così bene? Madonna Orsetta era giustamente orgogliosa dei suoi tessuti, dai colori e dai disegni originalissimi. Sapeva che nessun'altra donna in tutto il regno riusciva a farne di altrettanto belli, ma non era smaniosa di mostrarli in giro. Anzi, una volta che li aveva terminati li riponeva in una grande cassapanca di legno scolpito. - Serviranno per il tuo corredo, Peronella. Peronella scuoteva le trecce bionde. - Io non mi sposerò mai, mamma. Voglio partire con l'imperatore Federico per la crociata. Voglio andare a Gerusalemme a impratichirmi nella medicina degli arabi. Le tue belle stoffe, se me le dai, le userò come mercanzia... - Mi farai morire! - esclamava scoraggiata la madre. In effetti, in quei giorni i crociati provenienti da tutta Italia si erano radunati a Brindisi per imbarcarsi sulle navi che li avrebbero portati oltremare. Ma il segnale della partenza veniva rimandato di giorno in giorno con vari pretesti. Finalmente, si venne a sapere che l'imperatore Federico era ammalato e che i medici di corte non riuscivano a trovare un rimedio per rimetterlo in piedi. Peronella non stette a pensarci due volte. Poiché sapeva che la madre non le avrebbe mai permesso di andare a corte, durante la notte si calò dalla finestra travestita da cavaliere, montò a cavallo, e in poche ore raggiunse il palazzo reale di Foggia. Chiese di vedere l'imperatore ammalato; capì subito qual era il problema; e grazie a certe erbe che aveva visto usare tante volte dal padre, in pochi giorni lo guarì. Non fece tempo a inorgoglirsene, però, e neppure a scrivere alla madre: "Visto? Te l'avevo detto, io. Mi lascerai fare il medico, adesso?" Non sapeva, la ragazzina imprudente, che l'invidia è il sentimento più facile da incontrare nelle case dei potenti. I medici di corte infatti, furibondi di essere stati superati da una femmina giovane e sconosciuta, per vendicarsi e toglierla di mezzo, la accusarono di essere una strega. E seppero accumulare contro di lei una serie così abbondante di indizi, che l'imperatore non poté fare a meno di condannarla al rogo. A meno che... - disse però Federico, cercando di guadagnare tempo (perché, strega o no, lo aveva guarito; e poi gli era simpatica) - a meno che entro dieci giorni non si presenti un campione a difenderla, sostenendo con le armi la sua innocenza. A quei tempi l'innocenza delle ragazze si difendeva così. Da un lato c'era l'accusatore che diceva: - Io affermo che costei è una strega (oppure una ladra, un'assassina, una traditrice...). Non ci sono prove? Non fa niente. Basta la mia parola... Il re, o chi per lui, replicava: - D'accordo. Se però arriva qualcuno di parere contrario e, sfidandoti a duello, riesce a dartele di santa ragione, allora vuol dire che menti e che la poverina non ha fatto nulla. Alle accusate non era consentito difendersi da sole. Dovevano sperare che ci fosse nei pressi qualcuno così generoso e così robusto o, comunque, così attaccabrighe da mettersi elmo e corazza e sfidare l'accusatore a singolar tenzone. L'imprudente Peronella non aveva molte speranze a proposito. Il padre era morto; il frattellino era giovane; altri parenti maschi non ce n'erano; i corteggiatori li aveva sempre scoraggiati, con quella mania di voler fare la medichessa... E oltre a tutto, questo medico, capo degli accusatori, era un tedesco grande e grosso, famosissimo per non essere mai stato sconfitto in un torneo. Madonna Orsetta, che era stata informata del pasticcio a cose fatte, era fuori di sé dalla rabbia e dalla preoccupazione. - Se quella peste di Peronella se ne fosse rimasta a casa! Se l'avessi costretta a dedicarsi al telaio, invece di lasciar correre... Però non è giusto che la trattino così! In fondo, non ha fatto niente di male. L'ho sempre detto io, che a corte si incontra solo gentaglia. Le vicine, che venivano con la scusa di consolarla ma in realtà volevano solo spettegolare, le dicevano: - Vedi? Hai sbagliato a non volerti risposare. Adesso Peronella avrebbe almeno un patrigno che potrebbe presentarsi come suo campione. Le donne non possono vivere senza la protezione di un uomo! Arrivò il decimo giorno. La catasta di legna per bruciare la strega era già pronta, e Peronella era legata al palo lì vicino, con i capelli sciolti e una camicia bianca da penitente. Il capo degli accusatori, armato di tutto punto, caracollava all'interno del recinto, sotto gli occhi preoccupati dell'imperatore Federico, che se ne stava sul palco ornato di drappi e di ghirlande, con i cortigiani e le dame in pompa magna. Il tempo concesso al difensore di Peronella era agli sgoccioli. Federico fece un cenno e l'araldo suonò la tromba. - In nome dell'imperatore, se c'è qualcuno disposto a sostenere con le armi l'innocenza di questa ragazza, si faccia avanti... Sul palco tutti i cavalieri più in vista della corte fischiettavano facendo gli indifferenti. - In nome del cielo! - sbottò l'imperatore alzandosi e guardandosi intorno. - Possibile che non ci sia nessuno che voglia difenderla? Siete un branco di rammolliti! La moglie lo tirò per una manica. - Pssst! Di che cosa t'immischi?... Evidentemente sono tutti convinti che sia colpevole. L'accusatore galoppò trionfante tutt'intorno al recinto; poi fece un cenno al servitore che stava accanto al rogo con una torcia accesa. Un prete si avvicinò a Peronella offrendole il crocifisso da baciare. In quel momento all'orizzonte si levò una nuvola di polvere e un rumore di zoccoli che martellavano il terreno con ritmo precipitoso. - Fermi! Aspettate! - gridò tutto contento l'imperatore. - Sta arrivando un cavaliere sconosciuto: non riesco a riconoscere le sue insegne... Lo sconosciuto arrivava a gran galoppo, in un turbinìo di colori. Quando finalmente arrestò il cavallo sotto il palco dell'imperatore, tutti i presenti videro che sopra la corazza indossava una sopraveste meravigliosa, di seta pesante, tessuta a disegni di fiamme e di gigli con tutti i colori dell'arcobaleno. Nessuno, in tutti i regni cristiani e neppure d'oltremare, aveva mai visto una stoffa simile a quella. Il cavaliere teneva la celata dell'elmo abbassata a nascondere il volto, e non la sollevò neppure quando l'imperatore gli disse benignamente: - Suppongo siate venuto a offrirvi come campione di questa fanciulla indifesa. Vi faccio i miei complimenti e vi auguro buona fortuna. Potevate pensarci prima però. Siete arrivato appena appena in tempo... Lo sconosciuto chinò la testa in segno di omaggio; poi, con uno strattone alle briglie fece impennare il cavallo e lo portò all'altra estremità del recinto. Allora i cortigiani videro chiaramente che la bellissima sopravveste era strappata. Su un fianco mancava un bel pezzo di stoffa; e questo contrastava stranamente con l'eleganza dell'insieme. Le dame tuttavia erano piene di ammirazione per l'abbigliamento dello sconosciuto. - Chissà chi è? - bisbigliavano. - Chissà da quale lontano paese è venuto? - Certo, sotto quell'armatura, si nasconde un uomo bellissimo. - Chissà se è tanto valoroso quanto elegante? A Peronella era tornato un po di colore sul viso. Quando gli avversari furono di fronte, Federico di nuovo fece un cenno e l'araldo suonò la tromba. I tamburi rullarono e i due cavalieri, al galoppo, si lanciarono l'uno contro l'altro con le lance in resta. Fu questione d'un attimo. I due cavalli si incrociarono schiumando dalle narici e la lancia dello sconosciuto sollevò di sella l'accusatore, mandandolo a fare una capriola per aria prima di abbattersi a terra con fragore di ferraglia. Dal palco si levò un mormorio di disappunto. Erano i medici di corte. Le dame invece applaudivano freneticamente. Il duello a questo punto poteva considerarsi concluso ma il campione di Peronella, non ancora soddisfatto, fece voltare il cavallo, che per lo slancio era arrivato al margine del recinto, e tornò verso l'accusatore, che si stava rialzando tutto ammaccato. Lo sconosciuto, con un salto elegante, scese di sella, impugnò a due mani la grande spada e dette sul capo all'avversario una gran piattonata, facendolo ruzzolare come un birillo. Le dame raddoppiarono gli applausi. A un cenno dell'imperatore, il carceriere aveva sciolto i legami di Peronella. Lo sconosciuto rimontò a cavallo, si portò sotto al palco reale e chinò di nuovo la testa. Federico si sporse e gli toccò la spalla con la punta della spada. "Se non lo sei ancora, ti consacro cavaliere" voleva dire quel gesto. Poi, lo sconosciuto campione galoppò verso la fanciulla, ancora tutta frastornata; e, senza fermarsi, se la trasse in arcione. - Bravo ragazzo! - approvò Federico. I due erano ormai lontani in una nuvola di polvere, e ancora i cortigiani continuavano a mormorare: - Ma chi sarà quel cavaliere così valoroso? - Certo, nessuno lo ha mai visto prima d'oggi. Una sopraveste come quella non si dimentica. E non la dimenticarono. Anzi, con gran rabbia del medico tedesco sconfitto, alla corte di Foggia si parlò tanto a lungo e con tanta ammirazione del campione dalla sopraveste multicolore che, col passare degli anni, si formò attorno a lui e al suo abbigliamento un'aura di leggenda. Finché un giorno si presentò all'imperatore un ragazzo giovanissimo che portava legato attorno a un braccio - come i cavalieri sono soliti portare un lembo della veste dell'amata - un pezzo, logoro ma inconfondibile, di quella seta colorata. Per appagare la curiosità dei lettori a questo punto faremo un passo indietro, al momento in cui Peronella e il suo campione galoppavano verso l'orizzonte, nascosti dalla nuvola di polvere. Appena furono abbastanza lontani, la ragazza abbracciò con entusiasmo il suo salvatore esclamando: Fu questione d'un attimo. I due cavalli si incrociarono schiumando dalle narici e la lancia dello sconosciuto sollevò di sella làccusatore... - Mamma! Adesso non ci vede più nessuno. Puoi solevare la celata... Io ti avevo riconosciuta subito. - Lo credo bene - rispose madonna Orsetta. - Mi sono fatta la sopraveste con la mia stoffa più bella proprio perché tu capissi subito chi era che ti veniva a salvare, e riprendessi coraggio. Era proprio così. Stanca di aspettare che un uomo si facesse avanti per salvare la vita della sua bambina, madonna Orsetta, da quella donna energica che era, aveva deciso di provvedere personalmente. Le sue donne la scongiurarono di non andare. - Non ce la farete a sconfiggere quel fortissimo cavaliere. A malapena sapete montare a cavallo... - E con questo? Io sono sicura che Peronella non e una strega. Sarà la verità a darmi la forza necessaria - rispondeva l'intrepida madre. Il più disperato di vederla partire era il piccolo Amadigi, che la inseguì piangendo oltre il portone di casa, aggrappandosi alla bella sopraveste per trattenerla. Ma la madre spronò il cavallo; e al bambino, che tirava con tutte le sue forze, restò in mano un gran lembo della stoffa strappata. Durante l'assenza di madonna Orsetta, Amadigi non si separò mai da quello straccio multicolore. Di giorno, lo stringeva al petto ciucciandosi un dito e pensando alla mamma lontana, mentre due lucciconi gli spuntavano agli occhi. Quando andava a dormire, se lo avvolgeva attorno come una copertina, e ne traeva conforto e consolazione. Allorché la madre tornò con la sorella strappata al rogo, lo straccio di seta per il bambino era ormai diventato un'abitudine; e poiché non faceva danno a nessuno, nessuno pensò di farglielo abbandonare. Passarono gli anni. Perché la figlia non si mettesse di nuovo nei guai, madonna Orsetta la convinse ad entrare in un convento di Benedettine. Lì, Peronella poteva praticare le sue arti mediche al riparo da ogni sospetto; e rispettare il suo proposito di non sposarsi mai, senza il fastidio di respingere noiosi pretendenti, bella e ricca com'era. Quanto alla madre, inaspettatamente si innamorò di un avventuriero lombardo; lo sposò, e si trasferì in quella lontana terra sempre avvolta dalle nebbie. Ma prima raccomandò all'adolescente Amadigi di andare a mettersi sotto la protezione dell'imperatore. Amadigi, crescendo, aveva mantenuto tutte le sue promesse ed era diventato un savio e cortese cavaliere, valoroso e invincibile. Quando si presentò a corte, tutti riconobbero la stoffa del salvatore di Peronella, e mille volte gli chiesero per qual ventura se la fosse procurata. Ma il ragazzo non volle mai svelare il segreto della madre. Era così bravo in ogni cosa che l'imperatore lo prese a benvolere; lo chiamava sempre ad esibirsi nelle giostre e nei tornei, ai quali Amadigi partecipava col suo straccio multicolore legato al braccio sopra la corazza lucente. E vinceva sempre. Così, si sparse la fama che quella stoffa avesse poteri prodigiosi e, come ai tempi dell'ignoto campione, conferisse a chi la portava una forza invincibile. Ogni volta che Amadigi raccoglieva un nuovo trionfo, sia le dame piene di ammirazione che gli avversari invidiosi commentavano: - Sfido che Amadigi vince sempre! Ha la stoffa del campione... Da allora, quando un giovane mostra fin dall'inizio di saper fare qualcosa in modo eccellente (soprattutto in campo sportivo) si usa dire che ha "la stoffa del campione". Capitolo 5: Orecchie da mercante.
In una cittadina della Toscana
viveva attorno al Cinquecento un orafo chiamato maestro Teofilo Alamanni, che godeva fama di essere, nel suo mestiere, il migliore di tutta Italia. I suoi anelli, le sue catene; e poi gli arredi d'altare, le patene, gli ostensori; le rilegature per messali in argento gemmato; e ancora le else di spade e pugnali, e i finimenti da parata per i cavalli... erano richiesti da tutti i ricchi signori, i principi e i vescovi della regione. Ma nonostante lavorasse tutto il giorno, senza sosta, nella sua bottega, e i suoi oggetti preziosi venissero pagati dai ricchi acquirenti al giusto prezzo, maestro Teofilo non riusciva a diventare ricco. La causa di ciò era sua moglie, monna Lucrezia, donna bella e orgogliosa, di origini aristocratiche, e perciò amante del lusso e delle comodità, la quale spendeva per il sostentamento della famiglia sempre un po' di più di quanto il marito riuscisse a guadagnare. Teofilo e Lucrezia avevano tre figli: Scipione di tredici anni, Sofonisba di undici e Gabriellino che ancora veniva portato in braccio dalla nutrice. Fin da quando era nato Scipione, la famiglia Alamanni era sempre vissuta inseguita dai creditori, perciò in quell'anno 1500 l'offerta della Corporazione dei Mercanti della vicina città di Ardenza arrivò come una manna dal cielo. L'offerta, l'aveva portata un messo, stilata su pergamena punto per punto con la massima esattezza, come è d'uso nei documenti dei mercanti, ed era vantaggiosissima. Maestro Teofilo doveva trasferirsi con tutta la famiglia ad Ardenza, dove avrebbe ricevuto in cambio del proprio lavoro vitto, alloggio, cavalli e servitù, più uno stipendio mensile di trenta fiorini. L'oro, l'argento e le pietre preziose necessarie per il suo lavoro, li avrebbe ricevuti gratuitamente dalla Corporazione; inoltre avrebbe avuto la possibilità, due giorni alla settimana, di lavorare per proprio conto, su ordinazione di altri clienti privati, arrotondando così il già lauto stipendio. E, per finire, avrebbe goduto della protezione delle grandi famiglie mercantili di Ardenza, i Bisaccioni, i Riccoboni, i Tesauro, gli Straparola, gli Zuccoli, che erano i veri signori della città, sebbene questa si fosse data una costituzione da repubblica. - Folle chi si lascia sfuggire una simile occasione! - aveva detto maestro Teofilo; e monna Lucrezia non gli aveva dato torto. Scipione e Sofonisba avevano fatto al padre mille domande e il padre pazientemente aveva risposto, perché non era di quei genitori burberi che pretendono un'obbedienza senza obiezioni. Però non aveva potuto spiegare che cosa esattamente avrebbe dovuto fabbricare nella nuova bottega per i mercanti di Ardenza in cambio di tutto quel ben di Dio, visto che nella pergamena non c'era scritto. - Messer Guidubaldo Bisaccioni, capo della Corporazione, me lo comunicherà a voce non appena avrò accettato la sua offerta e ci saremo trasferiti ad Ardenza. Così, avevano fatto i bagagli e si erano messi in viaggio. Il messo aveva raccomandato loro di arrivare in città prima del tramonto, perché a quell'ora i guardiani chiudevano le porte e non lasciavano più entrare nessuno entro la cerchia delle mura. - La città sarà circondata da cupi boschi abitati da bestie feroci e da briganti sanguinari - avevano fantasticato i due ragazzi, con un brivido non del tutto piacevole di paura. Ma adesso, attraversando la ridente campagna toscana, con le mura e le torri di Ardenza che si stagliavano nette all'orizzonte, guardavano meravigliati le belle fattorie, le capanne dei pastori, i frutteti, le peschiere, i campi di grano, tutti privi di difesa o recinzione. Un piccolo bosco nereggiava in lontananza, ma non pareva incutere timore a nessuno: le abitazioni costruite al suo limitare non erano difese da mura e neppure da steccati di legno. - Come mai i villici non hanno paura e i cittadini al calare del buio devono barricarsi nelle loro case? - domandò al padre Scipione. - Ogni città ha le sue regole - spiegò pazientemente maestro Teofilo. - E a tutto c'è un perché. Non dubito che entro pochi giorni questo mistero troverà la sua spiegazione. Quello che stuzzicava maggiormente la curiosità dei due ragazzi, però, era il motivo per cui il loro padre era stato ingaggiato, e a condizioni così vantaggiose. Perciò, quando furono arrivati e maestro Teofilo fu andato a rendere omaggio a messer Guidubaldo Bisaccioni e agli altri mercanti nella sede della loro Corporazione, tutta la famiglia lo aspettò con impazienza. Quando tornò, maestro Teofilo aveva una faccia strana. Sofonisba, che era la sua prediletta e lo conosceva bene, non avrebbe saputo dire se fosse spaventato, preoccupato, oppure se si stesse trattenendo per non scoppiare a ridere. Certo aveva in corpo un sentimento nuovo che cercava di non rivelare. - E allora? - chiese la moglie. - Vi hanno detto finalmente quale genere di oggetti preziosi dovrete fabbricare per loro? Hanno fatto voto di donare alla Basilica un nuovo corredo di arredi per l'altare? Oppure vogliono dei gioielli per rendere omaggio a qualche fidanzamento principesco? Maestro Teofilo la guardava senza rispondere, e un piccolo muscolo gli tremava sulla guancia. Sofonisba era piena di meraviglia, perché non era abituata a questo comportamento. Sapevano, lei e Scipione, di poter sempre contare su una risposta da parte del padre. Non c'era nessun altro uomo al mondo così attento, così preciso nell'ascoltare e nel dare poi risposte chiare ed esaurienti, persino agli infantili "pecché" di Gabriellino. - Ve lo hanno detto, sì o no? - insistette spazientito Scipione. - Perché hanno bisogno del vostro lavoro? Cosa dovrete fare esattamente, che tipo di gioielleria, per i mercanti di Ardenza? Maestro Teofilo si guardò imbarazzato le punte degli stivali e disse a voce bassissima: - Orecchie... - Come? - saltò su monna Lucrezia, che non era sicura di aver sentito bene. - Orecchie? Vorrete dire orecchini. - Orecchie - ripeté il marito a voce più alta. - Orecchie, orecchie! D'oro, d'argento, di cristallo, di alabastro. Lisce, cesellate, semplici; incrostate di perle, diamanti e rubini; lucide e satinate; di filigrana e d'oro massiccio; di madreperla e di corallo; di giada e di lapislazzuli... a seconda delle richieste che mi verranno fatte volta per volta. - E perché mai orecchie, in nome del cielo?! - esclamò monna Lucrezia. - Un orafo deve fare collane, posate, arredi d'altare, armi, scrigni, catene, messali.... Le orecchie, le fa il buon Dio, agli uomini e agli animali. Cosa c'entra un orafo con le orecchie? Capirei un chirurgo, un pittore, un costruttore di maschere... Ma un orafo! Maestro Teofilo sospirò e sedette pesantemente sulla panca. - Ogni città ha le sue usanze, come vi ho detto più tardi di ieri. E ad Ardenza c'è l'uso che, sopra a quelle che gli ha fatto il buon Dio, i mercanti portino delle orecchie d'oro e d'argento, tempestate di pietre preziose. - Oh, questa poi non l'avevo mai sentita! - esclamò monna Lucrezia. - Eppure mio cugino Jacopo de' Baldi passa tutti i mesi da Ardenza col suo carico di tessuti fini. Com'è che non mi ha mai parlato di un'usanza così strana? - Perché è un'usanza recente. L'hanno decisa i mercanti, con una votazione segreta, appena una settimana fa. Messer Guidubaldo mi ha mostrato la pergamena con l'editto, che per tutti i membri della Corporazione ha valore di legge. D'ora in poi, se vorranno esercitare la loro arte, tutti i mercanti della città e anche quelli forestieri di passaggio, dovranno indossare sulle proprie, un paio di orecchie di materiale prezioso. Se non lo faranno, verranno espulsi dalla Corporazione e mandati in esilio. - Ma perché? - chiese Scipione. - Perché è un modo di distinguersi dagli altri cittadini - spiegò maestro Teofilo, - una specie di insegna del potere, come la mitra per l'arcivescovo. E dovranno essere quindi orecchie bellissime. Per questo hanno mandato a chiamare me, che sono l'orafo più rinomato della regione. - Ma come faranno a stare attaccate alla testa? Ci metterete della colla? - chiese incuriosita Sofonisba. - No. Le salderò a una sottile striscia d'argento ricurva che passerà tra i capelli come un nastro - spiegò il padre. - Ho già in mente il disegno. - E che forma avranno? - continuò la ragazzina eccitata. - Orecchie d'asino, d'elefante, di topo, di coniglio? Oppure vi potrete sbizzarrire e potrete, per esempio, farle a forma di foglia di ninfea, di coda di pavone, di grappolo d'uva, di conchiglia... - No, sciocchina. Saranno orecchie umane, solo un po' più grandi di quelle vere che devono ricoprire. - Ma i mercanti a questo punto non ci sentiranno più - osservò Scipione. - Ci sentiranno, perché le orecchie preziose saranno forate a imbuto, ed anzi i rumori suoneranno più forti dentro alla testa - disse maestro Teofilo. - E quante ne dovete fare? - chiese la moglie. - Oh, a centinaia! I mercanti ad Ardenza sono moltissimi. Inoltre i più ricchi tra loro desiderano possedere un assortimento di orecchie di varia foggia. Poi ci dovrà essere, alle porte, la riserva per i mercanti di passaggio che dovranno indossarle prima di varcare le mura, pena l'espulsione dalla città. Ci sarà da lavorare per anni. Potremo crescere nell'abbondanza questi figlioli. A proposito, dov'è Gabriellino? - E’ di fuori nel cortile con Artemisia. Sta facendo i primi passi, e gioca a rincorrere i polli. Artemisia, coetanea di Scipione, era la servetta addetta alla sorveglianza del bambino. Veniva dal contado, era piccola e magra, con due treccine che parevano codini di topo. Era sveglia, curiosa, svelta di lingua; e spesso si pigliava dalla cuoca una razione di frustate per la sua impertinenza e la sua indiscrezione. Però era sempre allegra e conosceva mille canzoni. Gabriellino l'adorava, e anche i due fratelli maggiori la trovavano simpatica e si divertivano alle sue chiacchiere. Era una fonte preziosa di informazioni, perché erano già tre anni che stava a servizio della Corporazione dei Mercanti, che l'aveva ceduta alla famiglia Alamanni insieme alla casa e al resto della servitù. Ora Artemisia, invece di sorvegliare il lattante in cortile (dove infuriava una battaglia, con strappi di penne da parte di Gabriellino e beccate furiose da parte dei suoi avversari), se ne stava appoggiata allo stipite della porta seguendo con interesse la conversazione; e quando incrociò lo sguardo di Sofonisba, le strizzò un occhio e fece col dito un segno che significava: "Più tardi ne parliamo. Su questo argomento so molto più di quanto non crediate." Pieni di curiosità, appena il padre fu andato nella bottega e la madre in cucina a ordinare il pranzo, i due fratelli raggiunsero la servetta che, con aria di grande mistero, li condusse nella scuderia dei cavalli e chiuse la porta. - So tutto sulle orecchie! - esordì. - Altro che insegne del potere! Sono una maschera, una copertura dei loro imbrogli! Avete visto il capo della Corporazione, messer Guidubaldo Bisaccioni? E il tesoriere, messer Ippolito Tesauro? E ser Terenzio Riccoboni, e ser Lorenzo Zuccoli? - No, che non li abbiamo visti. Siamo arrivati solo da pochi giorni... - Be', state attenti quando li incontrerete. Questi signori non vanno mai in giro a testa nuda, e neppure portano un comune berretto come gli altri. No! Loro hanno sempre la zucca coperta da una cuffia di velluto col bordo di pelliccia, come il camauro del papa: una cuffia che nasconde le orecchie. E sapete perché? - Perché avranno freddo... - azzardò Sofonisba. - Ma va'! Freddo, adesso? Di luglio? Con le zanzare, e il sudore che gli cola nel collo? - E allora? Artemisia si avvicinò e fece una voce misteriosissima, un sussurro pieno di scherno e di complicità. - E’ per nascondere il fatto che, le orecchie, non le hanno più. Torquato Cortesi gliele ha tagliate. - Torquato Cortesi!!! - esclamarono i due fratelli, con la voce piena di orrore e di meraviglia. - Chi è Torquato Cortesi? - Un brigante dal cuore d'oro. Il difensore dei poveri e della gente semplice - rispose la servetta, sospirando di ammirazione. - Dovete sapere che Torquato Cortesi era uno dei più gentili ed eleganti aristocratici di Ardenza. E ricchissimo, anche, era! Ma gli imbrogli dei mercanti lo hanno rovinato. Per prima cosa gli hanno fatto perdere l'innamorata, vendendogli per vere delle pietre false che lui ingenuamente ha fatto montare per l'anello di fidanzamento. Poi gli hanno rifilato un cavallo dalle gambe fragili che lo ha fatto cadere in un fosso. Poi delle sementi guaste che sono marcite sotto terra senza germogliare... E intanto altri mercanti gli facevano dei prestiti a un interesse così alto che, quando è arrivato il momento di pagare, il povero Torquato Cortesi ha dovuto vendere le sue terre e le sue case. E chi gliele ha comprate per un tozzo di pane? Un altro mercante! Il poveraccio, così, ha perso tutto ed è finito sulla strada come un pezzente. E allora sapete cosa ha fatto? - La voce di Artemisia si era fatta acuta per l'eccitazione. - Sapete cosa ha fatto? E’ diventato un brigante buono, come quel Robin Hood dei racconti di Bretagna. Torquato non ruba ai ricchi per dare ai poveri, ma rivela ai cittadini gli imbrogli dei mercanti e indica quali sono quelli di cui non bisogna fidarsi. Ha informatori dappertutto e appena viene a sapere che un mercante ha ingannato qualche cliente ingenuo, gli tende un agguato e gli imprime un indelebile marchio di riconoscimento, cioè gli taglia entrambe le orecchie. - Ben fatto! - approvò Sofinisba che aveva molto sviluppato il senso della giustizia. - Ma loro non si difendono? - chiese Scipione. - Vorrebbero. Ma non ci riescono mai. Torquato Cortesi arriva dappertutto, ed è così rapido nel fare le sue vendette, che nessuno è mai riuscito neppure a guardarlo in faccia. Arriva, ZAC!, taglia e scompare. Li sorprende nelle strade solitarie quando viaggiano trasportando le loro merci; se si barricano in casa li raggiunge con i travestimenti più impensati. E' per difendersi da Torquato che i mercanti fanno chiudere le porte della città al tramonto; eppure lui riesce ugualmente ad entrare. I poveri, invece, e la gente onesta, non hanno niente da temere. Anzi, sono contenti che lui faccia le loro vendette. - Ma i mercanti di Ardenza sono tutti degli imbroglioni? - chiese Sofonisba preoccupata. E se la Corporazione non rispettasse i patti stabiliti con maestro Teofilo? - Non tutti. Ed è per questo che i peggiori hanno inventato la storia delle orecchie. Se i cittadini li vedessero circolare alcuni con le orecchie ed altri senza, capirebbero subito di chi si possono fidare e di chi no. Ma se tutti i mercanti nascondono i lati della testa e portano delle orecchie finte, nessuno sarà più in grado di capire se sotto ci sono quelle vere oppure se sono state tagliate da Torquato. Così, onesti e disonesti tornano ad essere tutti uguali. - E tu, com'è che sai tutto questo? - chiese Scipione. - Stavo lavando il pavimento della grande sala delle riunioni quando vidi entrare i capi della Corporazione al gran completo; non so perché, mi nascosi sotto un sedile. Così, li ho visti togliersi le cuffie e mostrarsi a vicenda ciò che restava delle loro orecchie dopo l'incontro con Torquato. E li ho sentiti escogitare questo piano; e poi deliberare la legge di cui parlava vostro padre. Non l'ho detto a nessuno, perché ho paura che mi facciano frustare e imprigionare. Però mi sembrava giusto che voi due sapeste il motivo per cui vostro padre fa un lavoro così strano. Acqua in bocca, mi raccomando! Consapevoli che, a svelare quel segreto, mettevano in pericolo la vita di Artemisia, i due ragazzi non ne parlarono con nessuno, neppure con maestro Teofilo: e tanto meno con i mercanti onesti, i quali continuarono a credere che, come per loro, anche per i colleghi imbroglioni, le orecchie finte fossero solo una decorazione e un'insegna della categoria. L'orafo nel frattempo aveva preso gusto al nuovo lavoro, e aveva fatto delle orecchie così belle che i mercanti più vanitosi (onesti e imbroglioni, non c'era differenza) facevano a gara per sfoggiarne sempre di nuove. Come capita, ben presto indossare orecchie da mercante divenne una moda; e anche chi mercante non era chiese l'autorizzazione di portar in testa quell'ornamento prezioso. - E sia - concesse graziosamente messer Guidubaldo Bisaccioni. - Purché siano più piccole delle nostre, e senza alcuna decorazione di pietre preziose. Nei due giorni della settimana in cui poteva lavorare per la clientela privata maestro Teofilo dovette smettere di fare monili e posate, per dedicarsi esclusivamente alle orecchie da mercante, tanto che a un certo punto il lavoro gli venne a noia. Ma gli scrigni della famiglia erano colmi di fiorini e non era possibile lasciar perdere un'attività tanto redditizia. Maestro Teofilo raddoppiò la sua produzione e i suoi guadagni. Questa macchina però aveva un difetto: era terribilmente rumorosa. Così, monna Lucrezia scrisse a un suo cugino che faceva il meccanico nella bottega di un tal Leonardo da Vinci; e questo cugino - dietro lauta ricompensa - mandò il disegno di una macchina che era capace di fare anche cento orecchie al giorno, tutte uguali (perché tutte fatte con lo stesso stampo). Maestro Teofilo raddoppiò la sua produzione e i suoi guadagni. Questa macchina però aveva un difetto: era terribilmente rumorosa. Quando era in attività, nel laboratorio dell'orafo c'era un baccano infernale, tanto che per proteggere il proprio udito maestro Teofilo aveva dovuto fabbricare anche per sé un paio d'orecchie di metallo, ma senza foro, anzi imbottite d'ovatta. Ora, Scipione e Sofonisba avevano maestri e precettori come i figli dei principi, e belle vesti, e cavalli e tutto quanto potevano desiderare. Però non riuscivano più a parlare col padre. Non riuscivano ad avere con lui quelle interessanti conversazioni in cui loro ponevano mille domande e lui pazientemente rispondeva istruendoli, divertendoli, comunicando loro il suo interesse e il suo alletto. Ogni volta che si affacciavano alla porta della bottega e cominciavano: "Messer padre, sentite...", l'orafo intento alla sua fragorosissima macchina faceva un gesto per dire: "Dopo, dopo"; ma era un "dopo" che non arrivava mai. E dalla casa monna Lucrezia li richiamava: - Figlioli, lasciate in pace vostro padre. Non vi può sentire. Non vedete che sta facendo orecchie da mercante? Col tempo maestro Teofilo divenne sempre più ricco e sempre più famoso; ma il suo carattere bonario e cordiale cambiò dal giorno alla notte. Il povero Gabriellino, che ormai aveva imparato a mettere la erre nei suoi "pecché?", non ottenne mai da lui una risposta cortese. Scipione aveva il dubbio che non sempre fosse il rumore della macchina a impedire al padre di sentire; e che maestro Teofilo qualche volta facesse finta, come per esempio quando gli si diceva qualche cosa poco gradita, tipo: - Messer padre, mi sono innamorato di Artemisia e la voglio sposare... Anche monna Lucrezia era stufa di avere un sordo per marito. Ogni tanto entrava nel laboratorio e vedeva gli arnesi per fare anelli, medaglioni, calici e monili, abbandonati sul banco, pieni di polvere. Dopo aver cercato invano di parlare col padre dei suoi figli, gridava esasperata: - Ma fate qualcosa d'altro, benedetto uomo! Smettetela, almeno per qualche minuto, di fare orecchie da mercante! La frase fece il giro dei conoscenti, poi di tutti i cittadini di Ardenza (quelli che indossavano le orecchie da mercante e quelli che non se le potevano permettere); e col tempo varcò le mura della città e si sparse in tutta la regione. Da allora quando una persona non vuole sentire le richieste o i ragionamenti di un altro, si usa dire che "sta facendo orecchie da mercante". Capitolo 6: I conti senza l'oste.
In un piccolo stato dell'Europa
centrale, nei primi anni dell'Ottocento, c'era un re, un sovrano assoluto, che governava i sudditi con metodi così duri e autoritari da guadagnarsi la fama di uomo crudelissimo. - D'altronde, non c'è altro da fare, se si vuole che obbediscano - cercava di spiegare al suo unico figlio ed erede, il principe Dalindo, il quale invece aveva letto tanti libri di filosofia, aveva viaggiato molto all'estero, e impallidiva quando sentiva parlare di forca, di carcere, di frustate e persino di tasse. - A me non importa affatto dell'obbedienza - soleva dire il principe quando suo padre non lo sentiva. - Quando verrà il mio tempo, io cercherò di fare in modo che i miei sudditi non mi temano, ma mi amino, e siano felici. Quando finalmente il padre morì, Dalindo per prima cosa concesse ai sudditi, che non l'avevano chiesta, una bella costituzione. Poi cercò di riorganizzare il governo del paese in modo da rendere la vita di tutti i suoi abitanti la più facile e la più serena possibile. Aspettò qualche anno, in modo che l'effetto delle sue riforme si facesse sentire, e che la gente si abituasse al benessere, pur senza dimenticare completamente i tempi grami del passato. Poi decise di mettersi in viaggio col fido consigliere Lotario, per visitare tutto il regno fino alle contrade più sperdute e conoscere da vicino i suoi sudditi. Dappertutto li trovava sereni e pacifici, riconoscenti per i benefici ottenuti e desiderosi di fargli festa. Ma un giorno Dalindo e Lotario arrivarono in una regione dove la gente era scontenta, litigiosa, e dove l'economia andava a rotoli. Le strade erano piene di buche, i campi non venivano coltivati, persino le mele e le pesche cresciute spontaneamente venivano lasciate a marcire sui rami. Nella piazza del capoluogo la fontana era asciutta e piena di cartacce polverose. Le case avevano i muri cadenti e le statue i nasi spezzati; i cani erano ringhiosi e pieni di zecche. Quanto agli abitanti, le donne erano spettinate e attaccabrighe, gli uomini fannulloni e amanti della bottiglia. Persino i bambini avevano un'aria selvatica e aggressiva; e quando il re attraversò a cavallo la strada principale, un ragazzino armato di fionda gli scagliò un porcospino vivo sul cappello. Dalindo non riusciva a spiegarsi l'indole malvagia di quella gente. - Eppure hanno beneficiato delle stesse riforme che hanno reso felici gli altri. Eppure la terra mi sembra fertile, il clima mite, le strade numerose, il paesaggio pittoresco, l'architettura solida e di ottimo gusto. Che altro si desidera qui per essere felici? Lo chiese a destra e a manca, ma gli indigeni trovarono mille scuse per non rispondergli. Oppure dicevano, con fare scontroso, che no, non avevano niente di cui lamentarsi, ma non erano mica obbligati a cantare e a ballare tutto il giorno. Di cosa si impicciava il re? Non gli bastava che rispettassero le leggi e pagassero le tasse? - Eppure, Lotario, sono convinto che c'è un tarlo che li rode. Darei metà del mio regno per scoprire cosa c'è che non va e per mettervi rimedio. la risposta gliela dette, e gratis, l'oste di un villaggio presso il quale si erano rifugiati durante un violento acquazzone. - Responsabili del malcontento generale - spiegò - sono alcune famiglie di ricchi commercianti e contadini. Sono loro che spargono voci calunniose sul vostro conto, che si lamentano di tutto, che minimizzano e disprezzano pubblicamente i benefici della nuova amministrazione. E la gente, da queste parti, è molto influenzabile e va dietro a chi grida più forte senza chiedersi tanti perché. - Ma come mai queste famiglie sono così scontente? - chiese Dalindo meravigliato. - Cos'hanno da lamentarsi? Che torti hanno subito? Forse qualche amministratore locale troppo severo?... Ditemelo subito che lo farò trasferire. - Niente di tutto questo - disse l'oste. - Si tratta di una questione di prestigio. Vedete, maestà, vostro padre era avido di denaro e severissimo, ma sapeva apprezzare l'iniziativa personale. Quando uno dei suoi sudditi aveva successo nel suo lavoro, quando raggranellava un bel patrimonio, o si distingueva in una campagna militare, veniva chiamato a corte, dov'era ricevuto con tutti gli onori, e gli veniva conferito un titolo nobiliare. Voi, scusatemi tanto, perso dietro le vostre riforme, avete lasciato cadere quest'ottima abitudine che procurava amici fedeli alla dinastia regnante. Ditemi la verità, da quando siete sul trono scommetto che non avete fatto neppure un nuovo conte o magari un marchese. - E' vero! - rispose Dalindo. - Ma che bisogno c'è di distribuire privilegi, quando tutti stanno bene e conducono un livello di vita più che soddisfacente? - Perdonatemi, maestà. la vostra è una osservazione ingenua che non tiene conto della natura umana. Alcuni dei vostri sudditi sono dei maledetti snob. Buoni lavoratori, gente onesta, niente da dire. Ma si credono meglio degli altri e per dimostrarlo hanno faticato anni e anni. Quando finalmente sono arrivati al traguardo che li avrebbe fatti diventare conti o marchesi, ecco che vostro padre muore e salite al trono voi, con le vostre riforme e la vostra fissazione per l'uguaglianza, la fraternità e la libertà. Lo sapete o no che le vecchie famiglie nobili del posto si stanno estinguendo, e che saranno almeno vent'anni che non abbiamo più un barone, un visconte, un marchese di nuova nomina? Non dovete meravigliarvi se chi ci contava è scontento e istiga la popolazione contro di voi. - Non capisco... - continuava a balbettare Dalindo, che da giovane aveva aderito con entusiasmo agli ideali della Rivoluzione francese e che, se non aveva proclamato la Repubblica, lo aveva fatto solo per rispetto dei suoi antenati. - Non è necessario che capiate - gli disse l'oste. - Ogni testa ragiona a modo suo. Se volete riportare la pace in questa regione non avete che da nominare qualche conte e qualche marchese. In fondo, cosa vi costa? Non saranno un paio di nobili in più che rovineranno il vostro regno. - Questo brav'uomo ha ragione - disse Lotario. - In fondo, cosa ti costa? In effetti Dalindo era solo un riformatore, non un rivoluzionario, e non aveva ritenuto necessario eliminare i titoli nobiliari riducendo tutti gli aristocratici allo stato di cittadini. Si era limitato a lasciare in pace i nobili che c'erano già evitando di crearne dei nuovi, come faceva invece suo padre ogni volta che gliene si presentava l'occasione. Perciò, se adesso avesse fatto qualche nuovo conte o marchese per riportare la calma in quella contrada, non sarebbe cascato il mondo. Fu deciso che, per arrivare più gradita, l'assegnazione dei titoli sarebbe stata una sorpresa. Il sindaco del capoluogo avrebbe dato una grande festa in onore del re. L'oste, di cui ormai Dalindo si fidava ciecamente, gli sarebbe rimasto sempre al fianco e gli avrebbe indicato tra la folla i capi famiglia che erano rimasti più delusi per il mancato riconoscimento. - Nella prima parte della serata vi indicherò quelli che hanno accumulato meriti per diventare marchesi - disse l'oste. - Voi li chiamerete e con gran solennità, come se fosse una vostra iniziativa personale, li insignirete di questo titolo. Dopo cena vi indicherò quelli che meritano di diventare conti. Vedrete che con questo semplice accorgimento le cose torneranno a posto in men che non si dica. Arrivò il giorno della festa. Gli invitati si erano messi in pompa magna; ma quando sfilarono davanti al re per rendergli omaggio, l'espressione dei loro volti non era delle più cordiali. Mangiavano gli squisiti pasticcini e bevevano i vini più raffinati con un'aria di schifo o di degnazione che faceva dire a Lotario: - Altro che patenti di nobiltà! A questi scorfani distribuirei una bella dose di calci nel sedere! Ma quando Dalindo chiamò il primo capofamiglia meritevole e lo insignì del titolo di marchese, un fremito passò tra la folla. Sulle facce corrucciate cominciarono a spianarsi le rughe. Qua e là si poteva cogliere l'accenno di un sorriso, oppure uno sguardo pieno di sorpresa e di aspettativa. Parlandogli all'orecchio, l'oste diceva al re: - Quello là a destra, vicino alla finestra! E quell'altro che parla col sindaco in fondo alla sala. E quello che dà il braccio alla grassona coi boccoli color carota... Seguendo le sue indicazioni, Dalindo nominò una ventina di marchesi ed ebbe la soddisfazione di vedersi in giro almeno metà delle facce degli invitati che da arcigne erano diventate raggianti. Poi i valletti del sindaco vennero ad annunciare che la cena era servita. - Arrivederci - disse l'oste. - Io vado. Tornerò quando la cena sarà finita e allora, come d'accordo, penseremo ai conti. - Ma non mangi con noi? - chiese Lotario. L'oste si mise a ridere. - Col vostro permesso, maestà, il cuoco del municipio è un incapace, un vero assassinaricette, ed io ho lo stomaco delicato. Non preoccupatevi per me. Farò un salto a casa, dove mia moglie mi ha già preparato un pasto come Dio comanda; sarò di ritorno prima che voi arriviate al dessert. A fra poco! Effettivamente la cena offerta dal sindaco non era delle più squisite. Ma il re si fece forza e mangiò tutto fino all'ultimo boccone. "Bisogna capirlo, povero sindaco" pensava, da quella persona tollerante che era. "Con della gente così scorbutica, così restia a dare soddisfazione, è una fatica inutile procurarsi un cuoco più bravo. Speriamo che in futuro le cose migliorino. Quell'oste mi ha dato proprio un ottimo consiglio! Speriamo che si sbrighi a tornare!" Nonostante il cibo insipido e coriaceo, la gente era cambiata d'umore. Quelli che avevano già avuto la loro soddisfazione si dimostravano allegri e contenti; e fra gli altri serpeggiava un mormorio: - Pare che abbia finito con i marchesi e che dopo cena comincerà a fare i conti.- Il che accendeva luci benevole negli sguardi. La cena finì e l'oste non era ancora tornato. Gli ospiti giocherellavano con le posate e guardavano Dalindo pieni di aspettativa. Il re cominciava ad essere nervoso. Per ingannare l'attesa, Lotario andò a parlare col sindaco che fece servire una portata supplementare di dolce. Ma la gente che, spazientita e delusa, adesso tornava ad accorgersi dell'imperizia del cuoco, rifiutava dicendo: - Ma chi ne ha più voglia di continuare a ingozzarsi con queste schifezze? Il tempo passava e Dalindo non sapeva cosa fare. Senza i suggerimenti dell'oste si sentiva perduto. Guardava le facce degli ospiti e gli sembravano tutte uguali (a parte il fatto che stavano rapidamente tornando a corrucciarsi). Come fare a riconoscere tra la folla i quindici aspiranti conti? La gente diventava sempre più nervosa. La tensione era al massimo. E dell'oste neanche l'ombra. - Lotario, cosa dici? Cominciamo senza di lui? - chiese il re sottovoce. Lotario si guardò in giro e sospirò. - Temo che non ci sia altra scelta. D'altronde a pensarci bene, non è poi così grave. Supponiamo anche che sbagliamo persona e che, per primi, facciamo conti due o tre cittadini che non lo meritano... Per loro sarà tanto di guadagnato; e quando finalmente arriverà quel tiratardi dell'oste, ci indicherà quelli giusti e faremo conti anche loro. Chi l'ha stabilito che ne dobbiamo fare solo quindici? Dalindo sorrise riconoscente per il consiglio. - E' vero. Però preferirei azzeccare subito quelli giusti - e si mise a scrutare la folla cercando di leggere sui volti degli ospiti quel desiderio irrefrenabile di nobiltà che li faceva tanto soffrire. - Guarda, Lotario, quel vecchio con la giacca azzurro scuro! Che viso aristocratico, che portamento altero, che sguardo orgoglioso! Secondo me è il primo a desiderare e meritare il titolo. Lotario fu d'accordo; e il re incaricò un valletto di andare a chiamare il vecchio signore. Costui venne, attraversando il salone con passo marziale, e scattò sull'attenti davanti al sovrano. - Leopoldo Zimmer ai vostri ordini, maestà. Sono onoratissimo di fare la vostra conoscenza. Permettetemi di dirvi che ho un'ottima opinione di voi e del vostro operato. Dalindo pensò piacevolmente stupito: "Eccone uno che sa ancora cos'è la buona educazione. Oppure è la certezza che fra un attimo otterrà quello che vuole a renderlo così amabile e cortese?... Comunque, se c'è qualcuno qui dentro che può vantare un’autentica nobiltà d'animo, l'unica che conti davvero, quello è lui". Gli sorrise e gli toccò leggermente la spalla con la spada. - Anch'io ho un'ottima opinione di voi, cittadino; e per dimostrarvela concretamente, vi nomino conte, conte von Zimmer. Ma il vecchio, invece di sorridere beato come avevano fatto tutti i nuovi marchesi, diventò paonazzo dalla rabbia e cominciò a pestare i piedi balbettando: - Quale infamia! Quale oltraggio devono sopportare i miei capelli bianchi! Io conte? Giammai! Meglio morire! Strabuzzò gli occhi, vacillò e dovette tenersi al braccio del re per non cadere. Così facendo, probabilmente si rese conto che era meglio sopravvivere all'oltraggio, e sfogarsi invece con chi glielo aveva inflitto. Per cui, afferrò l’esterrefatto Dalindo per la vita, lo sollevò per aria e fece l’atto di scagliarlo dalla finestra, gridando: - Ah, infamia, infamia, infamia! Tutti impiccati alla lanterna, quei porci di aristocratici! Accorsero le guardie e gli strapparono il re dalle mani. Dalindo era pallido come un morto. - Ma cosa vi ho fatto? - balbettò. - Di che infamia parlate? Io non volevo offendervi... - Ah, no? - gridò con voce terribile il vecchio, cercando di liberarsi a strattoni dalle mani delle guardie. - Mi avete dato del conte. Mi avete fatto nobile. Nobile io, che ero fra i primi all'assalto della Bastiglia! E mi avevano detto che anche voi stavate dalla parte di Robespierre e di Danton! Come mi sono ingannato sul vostro conto! In quell’attimo arrivò l'oste trafelato. - Scusatemi. Il mio cavallo ha perso un ferro e mi sono dovuto fermare dal maniscalco. Dette un'occhiata in giro e capì che c'era qualcosa che non andava. - Cosa succede? - chiese. Poi vide il re pallido, con le vesti scomposte e davanti a lui Leopoldo Zimmer che continuava a dargli del rinnegato traditore. - Avete cominciato senza di me! - esclamò, mettendosi le mani nei capelli. Prese il re da parte e gli spiegò che il povero Zimmer era l'unico in tutta la regione ad aver approvato le sue riforme, l'unico a difendere pubblicamente, contro tutti, la nuova costituzione. - Perché, vedete, lui è un esule. Viene dalla Francia. E' fuggito disgustato quando Napoleone si è fatto incoronare imperatore. Lui sì che ci crede davvero, all'uguaglianza e alla fraternità, e che detesta gli aristocratici. E voi siete andato a farmelo conte! Oh, santo cielo! Perché non mi avete aspettato? Perché avete voluto fare di testa vostra? La situazione adesso era difficile da rimediare. Dopo il rifiuto furibondo del signor Zimmer, anche agli altri i titoli nobiliari non parevano più così importanti. La gente cominciò ad andarsene alla spicciolata. Dalindo aveva un'aria così avvilita che Lotario non riuscì a consolarlo. Il vecchio repubblicano era ancora tanto congestionato che il medico dovette fargli un salasso. Finì che tutti se ne tornarono a casa; e i marchesi nominati prima di cena restarono gli unici nobili della regione. L'indomani Dalindo e Lotario partirono senza dare nell'occhio e tornarono alla capitale. - Temo di essermi giocato per sempre l'affetto di questi sudditi - sospirava il re. - Siete stato imprudente. Non dovevate mettervi a fare i conti senza l'oste - concordava il fido Lotario. Da quel giorno, ogni volta che qualcuno prende una decisione senza conoscere o senza tener conto delle opinioni degli altri che ne sono coinvolti, si usa dire che "sta facendo i conti senza l'oste". Capitolo 7: Piangere a dirotto.
Era già notte quando la carrozza
varcò il cancello del parco e si inoltrò lungo il viale che conduceva alla villa. La piccola Malvina guardava fuori, col naso schiacciato contro il vetro del finestrino, ma non riusciva a vedere altro che le ombre nere degli alberi. Sentiva un nodo alla gola e aveva voglia di piangere; ma si tratteneva, perché lo aveva promesso alla mamma prima di salutarla, e poi perché temeva che Filiberto l'avrebbe presa in giro. - Cosa c'è da frignare? - le avrebbe detto. - Non ci stanno mica portando nella tana dell'orco! Infatti stavano soltanto andando a passare l'estate nella grande casa di campagna del nonno. Il fatto è che questo nonno, vecchio generale a riposo dell'esercito sardo piemontese, loro due non l'avevano mai visto prima, e neppure conoscevano la zia Carolina Margherita, sorella del loro papà, che viveva anche lei alla villa perché non si era mai sposata. Il padre dei due bambini lavorava nell'amministrazione del regno, e loro due quindi erano nati e cresciuti in Sardegna. Fino ad allora i genitori non li avevano mai portati in continente per paura del mare. Troppo spesso le navi a vapore incontravano tempeste spaventose passando per le terribili Bocche di Bonifacio e, a parte il rischio di un naufragio, la loro mamma era così delicata di stomaco! Questa primavera però il dottore, vecchio amico di famiglia, era stato categorico. - O lei, cara madama, si decide a fare la cura delle acque a Baden Baden, o io non garantisco dei suoi nervi per gli anni a venire. Così, all'arrivo dell'estate erano partiti: i genitori per la Germania, e i due bambini per il Piemonte, dove appunto avrebbero finalmente conosciuto la famiglia paterna. Arrivata davanti alla scalinata di marmo della villa, la carrozza si fermò e fu subito circondata da una mezza dozzina di domestici muniti di lanterne. - Il generale e la signorina sono già andati a dormire da un pezzo - disse una graziosissima cameriera, che aveva un fazzoletto di pizzo bianco puntato sui capelli. - Li saluterete domattina. Anche voi sarete stanchi, poverini! Venite con me. L'anziano maggiordomo in livrea prese in braccio Malvina come se fosse una bambina piccola (e invece aveva già sette anni); gli altri s'incaricarono dei bagagli, e in processione raggiunsero la stanza degli ospiti, dove c'erano due letti circondati da cortine di tulle bianco. Dalla finestra aperta arrivava il gracidìo delle rane, e grosse falene volavano in tondo attorno alla lampada a petrolio. Su un tavolo apparecchiato vicino alla finestra li aspettava una cena leggera, formata da latte tiepido, crema alla vaniglia, frutta e biscotti. Malvina si sentì rincuorata, anche se era ancora offesa perché il nonno e la zia erano così poco impazienti di conoscerli da essersi coricati prima del loro arrivo. La cameriera rimase con loro per aiutarli a spogliarsi e a togliersi di dosso la polvere del viaggio. Si chiamava Aurelia; era simpatica, affabile e molto chiacchierona. In pochi minuti si fece raccontare tutto del viaggio e della loro vita precedente; poi li informò delle regole della casa e del carattere dei suoi abitanti. - Il generale vostro nonno sembra burbero, ma è un cuore d'oro. Certo, è attaccato alle sue abitudini, e ci tiene alla disciplina. Ma è facile andarci d'accordo. Madama Carolina Margherita, invece, è un tipo strano. Non si sa mai da che parte prenderla. Ci sono dei giorni in cui è allegra, gentile, e tutto le va bene. Altri giorni invece si alza con la luna storta e se ne va in giro con un muso lungo così. Si fa venire le convulsioni per un granello di polvere o per una porta sbattuta; per un nonnulla piange come se le si spezzasse il cuore... Ha i nervi troppo delicati, povera signorina! - Dovrebbe andare anche lei a fare la cura delle acque a Baden Baden come la nostra mamma - osservò Filiberto. - Dicono che ci sia stata molti anni fa, ma senza ricavarne alcun giovamento - rispose Aurelia. - Anzi, pare che proprio da allora, alle sue altre stranezze si siano aggiunte le terribili crisi di pianto. - Non succederà lo stesso anche alla mamma? - chiese Malvina preoccupata. - No, tesoro, sta' tranquilla. Sono cose che succedono solo alle ragazze. La vostra mamma è sposata e non corre di questi rischi - disse Aurelia. - Adesso però basta con le chiacchiere: è tardissimo. I bagagli, li disferemo domani. Cercate di dormire. Verrò a portarvi l'acqua calda alle sei, perché in questa casa la colazione è alle sette in punto e il generale esige la massima puntualità. Buonanotte! Quindi soffiò sul lume a petrolio e se ne andò. I due fratelli erano così stanchi che si addormentarono immediatamente d'un sonno profondo e senza sogni, a parte la sensazione di essere ancora cullati dal rollìo del vapore. Albeggiava, quando furono svegliati da un leggero bussare alla porta. - Avanti! - disse Filiberto, mettendosi a sedere sul letto, convinto che fosse Aurelia con le brocche dell'acqua calda per lavarsi. Ma l'orologio sul ripiano del caminetto - sorretto da un cavallo d'oro che si impennava sotto una campana di vetro - lo informò che erano appena le cinque. Chi poteva essere, allora? La porta si aprì e nella stanza entrò un vecchio dalla gran barba bianca, magro, secco e dritto come un fuso. Era vestito di tutto punto, con una divisa militare piena di cordoni dorati, stellette e spalline a frangia luccicanti. - Tu sei il nostro nonno! - disse Malvina sbadigliando, ancora piena di sonno, con i capelli arruffati sugli occhi. - E tu sei Malvina. Somigli come una goccia d'acqua a Carolina Margherita quando aveva la tua stessa età - disse il nonno con la voce intenerita. - E' proprio di vostra zia che volevo parlarvi, bambini, prima che i domestici vi raccontino chissà quali sciocchezze. I due fratelli si guardarono in silenzio, ripensando alle chiacchiere di Aurelia. Il nonno continuò: - Speravo di poterlo fare con calma più tardi, ma devo partire immediatamente per Torino. Il re ha bisogno del mio consiglio per un affare urgente e ha mandato una carrozza a prendermi. Starò via qualche giorno. Perciò, almeno all'inizio, con vostra zia dovrete vedervela da soli, e la cosa mi preoccupa. - E' pazza furiosa? - si informò Malvina, messa in allarme da tanti preamboli. Il nonno sospirò. - No. Anzi è una ragazza virtuosa, sensata, intelligente, d'ottima educazione; una figlia devota e una perfetta padrona di casa. Solo, ogni tanto, soffre di tremendi attacchi di malinconia, di cui nessuno è mai riuscito a spiegare l'origine. Perciò vi raccomando: non meravigliatevi se improvvisamente, senza motivo, la vedete scoppiare in lacrime. Non è colpa vostra, e lei non ce l'ha con voi. Però è meglio che le giriate alla larga finché non le passa. Per qualsiasi altra necessità rivolgetevi ad Aurelia. Io cercherò di tornare prima possibile. Arrivederci. Quando il nonno fu uscito, Filiberto guardò Malvina con aria decisa: - Eppure, se piange, una ragione ci deve essere. La gente sensata non piange senza motivo. Cercheremo di scoprirlo, d'accordo? - D'accordo - promise Malvina. L'incontro avvenne nel salottino dov'era apparecchiata la prima colazione. I due bambini si erano lavati, vestiti e pettinati con la massima cura, in modo da fare la migliore impressione possibile. - Presto! - li incitava Aurelia. - La signorina vostra zia è già a tavola che vi aspetta. Si presentarono, Filiberto battendo i tacchi e chinando la testa, Malvina con una piccola riverenza. La zia doveva essere in una delle sue giornate buone, perché li accolse tutta sorridente, si alzò per abbracciarli, si informò del viaggio e della salute dei genitori, commentò la loro somiglianza con questo e con quello dei parenti... Era vestita di grigio, e ad occhio e croce doveva avere la stessa età della mamma, pensò Filiberto, solo che era più magra e aveva un paio di occhialetti rotondi in bilico sul naso. A sentirla chiacchierare così allegramente, fra un panino imburrato e una ciambella, era difficile credere a quanto avevano detto Aurelia e il nonno. - Spero che passerete delle belle vacanze qui da noi. Sono così contenta che siate venuti a portarci un po' di allegria... Una casa senza bambini è molto triste, sapete? "Forse sarà per questo che piange" pensò Malvina, mentre la zia continuava, tutta infervorata: - Ditemi quello che vi piacerebbe fare. Volete invitare i ragazzi delle ville vicine? Volete montare a cavallo? Volete andare a fare il bagno nel fiume? Io non mi intendo di ragazzi, ma sono pronta a organizzare qualsiasi cosa per farvi divertire. Basta che domandiate. Filiberto lanciò un'occhiata alla sorella che in quel momento nascondeva uno sbadiglio dietro la mano grassoccia. - Tanto per cominciare, non potremmo dormire un po' più a lungo al mattino? A casa nostra siamo abituati ad alzarci alle otto. La zia sussultò, come se avesse preso una frustata in pieno viso. Poi si premette il tovagliolo sugli occhi facendo cadere gli occhiali nel vasetto del miele. Si alzò e abbandonò in gran fretta la stanza squassata dai singhiozzi. Filiberto restò a bocca aperta, la mano che reggeva la tazza del cioccolato sospesa a mezzaria. - Non dovevi proporle di cambiare le regole della casa - lo sgridò Malvina. - Siamo appena arrivati e già critichiamo le loro abitudini. Bisogna andare a chiederle scusa. La raggiunsero in giardino, dove singhiozzava ancora vicino al labirinto di bosco. Quando li vide arrivare, la zia si asciugò le lacrime e cercò di calmarsi. - Scusatemi, cari bambini. I miei poveri nervi... cercherò di stare più attenta d'ora in avanti. Ecco... E’ passato. Si soffiò rumorosamente il naso. - Su, andiamo a disfare i vostri bagagli! Poi faremo una bella passeggiata. Nel grande baule, oltre agli abiti e agli oggetti da toeletta, Malvina si era portata dietro tutti i suoi tesori. Libri illustrati dalle pesanti rilegature, giocattoli, il cestino da ricamo, i quaderni di musica, l'occorrente per dipingere all'acquerello... La zia tirava fuori ogni cosa e, prima di riporla nell'armadio, le dedicava qualche parola di ammirazione. Malvina non aveva mai incontrato un adulto così interessato alle sue cose; e desiderava con tutto il cuore mostrare alla zia il suo affetto e la sua gratitudine. Finalmente, dopo una breve lotta interiore, prese il suo giocattolo più caro, l'amatissimo Teddy, e lo porse alla zia esclamando: - Ti regalo il mio orsacchiotto. Tieni! E’ tuo. Ma la zia non lo prese. Indietreggiò inorridita, si coprì il volto con le mani e si accasciò sul letto piangendo e balbettando: - Questo è troppo! Questo è davvero troppo! Malvina ci restò malissimo. Anche Filiberto era sconcertato. D'accordo, un giocattolo di peluche - e usato, per giunta - non è il regalo più adatto per una persona grande. Ma in un dono, come ripeteva sempre la mamma, quello che conta è il pensiero. Che la zia fosse così permalosa da interpretare il gesto di Malvina come: "Sei rimbambita"? Oppure che avesse una tale paura degli orsi da provare orrore anche quando erano giocattoli di finta pelliccia? Ad ogni modo Filiberto prese per mano la sorella e la trascinò fuori: - E' meglio che per oggi giriamo alla larga - disse. - Il nonno aveva ragione. Non piangere anche tu adesso. Non ne hai nessuna colpa se la zia ha i nervi troppo delicati. Non la rividero per tutto il giorno, neppure a tavola. Aurelia li informò che la signorina si era chiusa in camera e si era stesa sul letto, al buio, con una pezzuola bagnata sulla fronte. L'indomani si presentò nel salottino della prima colazione allegra ed affettuosa come se non fosse successo niente. Per quel giorno, tutto filò liscio. La zia li portò a fare una gita in calesse fino al boschetto di noccioli; al ritorno andarono a prendere le uova fresche alla fattoria. I due nipoti chiacchierarono a tutto spiano e non ci fu mai un attimo in cui gli occhi della zia si riempissero di lacrime. Passò la notte e arrivò un'altra giornata. La zia era sempre d'ottimo umore. - Sono così felice che siate qui a farmi compagnia - diceva sforzandosi di organizzare per i nipoti svaghi d'ogni tipo. - Vi piacerebbe invitare per la merenda i due ragazzi della villa accanto? Hanno più o meno la vostra età. Potremmo chiedere ad Aurelia di fare lo zabaione, oppure dei sorbetti di fragole e crema... - Sorbetti di fragole! - esclamò tutto contento Filiberto. - Oh, zia, sei un tesoro! Come hai fatto a capire che sono la mia passione? Ne sono veramente ghiotto. Li preferisco a qualsiasi altro dolce al mondo Ma si bloccò imbarazzatissimo perché gli occhi della zia Carolina si erano improvvisamente riempiti di lacrime. - Che ho detto di sbagliato? Scusami, zietta, ti prego! Non volevo... Ma la zia si precipitò fuori della stanza premendosi il fazzoletto sul viso. Tornò il nonno da Torino> e le cose non cambiarono molto. C'erano dei momenti in cui Carolina Margherita era il ritratto della serenità e dell'allegria, ed altri in cui, senza alcun motivo, si scioglieva in lacrime come un salice piangente. Senza alcun motivo? Filiberto ancora non ne era convinto e prendeva nota sul suo taccuino di tutte le circostanze che avevano preceduto le crisi di pianto della zia. Come quella volta che Aurelia, sbattendo le lenzuola fuori della finestra, aveva osservato: - Guardate: c'è un poliziotto a cavallo sulla strada che va a Racconigi... Come mai a questa semplice frase la zia era scoppiata in singhiozzi? Che avesse commesso qualche crimine segreto e temesse di venire scoperta e arrestata? Oppure quella volta che il nonno aveva proposto ai ragazzi: - E' una mattina stupenda. Perché non andate a fare una gita sul fiume? Potete prendere il canotto dalla rimessa... Che la zia piangesse perché aveva paura che Filiberto e Malvina poco pratici facessero rovesciare l'imbarcazione ed annegassero? Ma lei aveva continuato, anzi aveva raddoppiato i singhiozzi, quando il nonno aveva aggiunto: - E' più prudente che chiediate al figlio del fattore di venire con voi. E' un giovanotto molto esperto di navigazione... Dunque, cosa c'era da piangere, se loro due non correvano alcun rischio? E quell'altra volta che il nonno aveva letto a voce alta sul giornale che era stato scoperto un complotto per assassinare il re d'Inghilterra? Cosa c'era da disperarsi? Non era mica un Savoia! E poi, per quanto monarchica fosse Carolina Margherita, il complotto era stato sventato in tempo e il re inglese era salvo... Filiberto si rompeva la testa sui suoi appunti, ma non riusciva a venire a capo di niente. Fu Malvina, senza volerlo a scoprire il mistero. Una sera che, dopo l'ennesima crisi di pianto, Carolina Margherita si era ritirata nella sua camera, la bambina si era seduta sulle ginocchia del nonno e giocherellando con la sua barba aveva osservato: - Come mai la zia non si è mai sposata? Eppure il papà ci ha detto che era una bellissima ragazza da giovane. Il vecchio si rannuvolò: - Non si è sposata perché è una maledetta testarda. Aveva migliaia di corteggiatori ai suoi piedi: pretendenti ricchi e nobili ottimi partiti! Ma lei niente. Lei si era fissata con quell'ignobile individuo di Baden Baden e non voleva sentir parlare d'altro. - Quale ignobile individuo? - chiese Filiberto drizzando le orecchie. - Un vetturino di piazza, figuriamoci! Un plebeo figlio di una cuoca e d'un maniscalco! E lei s'era messa in testa di sposarlo. Lei mia figlia, che era stata chiamata a corte a fare la damigella della regina! Certo se lo avesse saputo la loro mamma avrebbe detto che non era un racconto adatto a orecchie infantili. Ma il vecchio generale era troppo indignato al pensiero della testardaggine della figlia per trattenersi, ora che aveva cominciato a ricordare. Dunque, a quattordici anni Carolina Margherita era andata con la madre a fare la cura delle acque a Baden Baden, come ogni signorina di buona famiglia. Per andare dall'albergo allo stabilimento termale ogni giorno madre e figlia prendevano una carrozza. Sempre la stessa. La guidava un giovanotto biondo d'origine prussiana, certo Ottone Schlieman, elegante e buon parlatore. In breve, la ragazzina piemontese si era innamorata, e fra i due c'era stato uno scambio di bigliettini. Fortunatamente la madre se n'era accorta in tempo e aveva interrotto la tresca prima che la figlia si compromettesse davanti agli occhi del mondo. Dall'oggi al domani l'aveva riportata in Piemonte, senza darle nemmeno il tempo di salutare l'innamorato. Carolina Margherita piangeva e strepitava prometteva che si sarebbe uccisa, che si sarebbe rinchiusa in convento. Arrivò a rubare del danaro e a fuggire travestita con gli abiti del fratello, il papà di Malvina e Filiberto. Ma quando giunse a Baden Baden trovò ad attenderla un'amara sorpresa. Subito dopo la sua partenza, il giovane Otto aveva sposato la figlia di un ricco birraio e con i soldi della dote aveva organizzato una spedizione archeologica in Asia Minore. "Come mi ha dimenticata in fretta! Era solo per il mio denaro dunque, che diceva d'amarmi" pensò Carolina Margherita e, disgustata per sempre della vita e dell'amore se ne tornò a casa con la coda fra le gambe. Da quel giorno non volle più sentir parlare nè di corteggiatori nè di matrimonio. Rifiutò tutti i pretendenti i quali a poco a poco si stancarono e andarono a sposarsi altrove. Lei diceva d'essere felice così, nella casa paterna, a fare da bastone della vecchiaia al generale. - Sono passati trent'anni e quasi me n'ero dimenticato, di tutta quella storia di Baden Baden - concluse il nonno. Ma Filiberto, tutto eccitato tirò fuori il taccuino. - Come hai detto che si chiamava quel vetturino di piazza? - chiese scorrendo freneticamente le pagine. - Ottone. Otto come si usa per diminutivo da quelle parti. - Ma è tutto chiaro! - esclamò il ragazzo esultante. - Tu, nonno quasi te n'eri dimenticato. Ma la zia Carolina Margherita no. Lei soffre ancora a causa di quel traditore. E’ per lui che piange, e per nessun altro motivo. - Come fai ad esserne così sicuro? - chiese meravigliato il nonno. - Ascolta: orsacchiotto, poliziotto, canotto, giovanotto, complotto... La zia scoppia a piangere ogni volta che, senza pensarci, qualcuno dice il nome del suo antico innamorato. Decisero tutti di farci attenzione. Era proprio così. Non solo la parola "otto" nuda e cruda, ma qualsiasi altra che contenesse quel terribile suono, aveva il potere di scatenare nella povera signorina crisi di pianto disperato. - Vorrei un altro biscotto - diceva Malvina all'ora del tè. E la zia giù a piangere. - Ho un graffio. Dove trovo un cerotto? - chiedeva Filiberto. E quella via a singhiozzare. - Guarda il cappotto com'è ridotto! Hai perso il manicotto? - No. E finito sotto al cuscino. - Buono, questo risotto! E’ cotto a puntino. Ora lo inghiotto... - A ottobre è tornato il dottore dalla sua spedizione in Africa. E’ nero in viso come un ottentotto. Arrivò a rubare del denaro e a agire travestita con gli abiti del fratello... - Cosa c'è in quel fagotto? - Questo cane è un bassotto? - Quel funzionario è corrotto. E la zia Carolina Margherita giù a piangere come una disperata. Allora poiché tutti le volevano bene e non desideravano rattristarla decisero di stare attenti a non dire mai quelle quattro lettere. Ma non era facile. Qualche volta ci riuscivano e qualche volta no. E quelle volte a sentir dire otto la zia piangeva. Così passò l'estate. A settembre una carrozza portò i due bambini a Livorno, dove i genitori li aspettavano per imbarcarsi insieme sul vapore per la Sardegna. - Come ti è sembrato il nonno? - chiese il papà, abbracciando stretta la sua piccola Malvina. - Simpatico. - E la zia Carolina Margherita? - Simpatica anche lei. Solo che piange un po' troppo. - Come piange?! Per quale motivo? E' ammalata? - Oh, no. Sta benissimo. Piange a dir otto. Noi abbiamo cercato di non dirlo ma è difficile sai? Da allora, scherzosamente, nella famiglia dei due ragazzi, quando si voleva indicare una persona con le lacrime facili si diceva: - Quello è un tipo che piange a dir otto! Poi col tempo le due parole finali si unirono e la frase passò a significare qualcuno che piange, a lungo e disperatamente, una grande quantità di lacrime. Capitolo 8: Rompere l'indugio.
Il giovane Cyril Litton Gray non era
nato per diventare un ladro. Erano stati gli imprevedibili casi della vita a fare di lui il più abile scassinatore del Regno Unito. Suo padre era un integerrimo funzionario di sua maestà la regina Vittoria e Cyril era nato in India, dove aveva trascorso i primi sei anni della sua vita. Poi, come tutti i bambini inglesi figli di ufficiali o funzionari dell'Impero Britannico, era dovuto andare in Inghilterra per frequentare la scuola. Ma il soggiorno indiano, per quanto breve, aveva lasciato su di lui un'impronta indelebile. Intirizzito e malinconico tra le nebbie londinesi, il piccolo Cyril rimpiangeva l'India, i suoi colori, i suoi profumi, i suoi templi misteriosi, le statue dall'enigmatico sorriso. A otto anni, studente in una scuola pubblica dove gli insegnanti non gli risparmiavano la frusta, il bambino si consolava col ricordo della dolcissima bambinaia indigena e sognava di tornare laggiù. Sognava di diventare, da grande, un famoso antropologo, oppure uno studioso di religioni orientali. Più tardi un rovescio di fortuna della sua famiglia lo costrinse a rinunciare ai suoi progetti e ad accettare un modesto impiego in una banca della city. Nel tempo libero, però, Cyril continuava a coltivare la sua passione per l'Oriente. Un giorno lesse sul Times che la celebre casa d'aste Sotheby's avrebbe messo in vendita una statua del dio Visnù proveniente da un tempio di Lahore dove lui da bambino era solito andare in scampagnata con i parenti della balia. La ricordava perfettamente: era una statua di piccole dimensioni ma di rara e squisita fattura; e Cyril prima ancora di poggiare il giornale, sentì che doveva averla a tutti i costi. Ma come? Il prezzo base dell'asta era già altissimo, e chissà a quale cifra lo avrebbero fatto salire le offerte degli altri amatori più ricchi di lui! Non ci voleva molto, a quel tempo, ad essere più ricco di Cyril, che con lo stipendio della banca riusciva a malapena a pagare l'affitto di una squallida camera ammobiliata e a comprarsi un secchio di carbone alla settimana per non morire assiderato. (Come gli sembrava lontana, in quei gelidi inverni, l'aria tiepida e profumata di frangipane della terra natale!) Naturalmente non poteva permettersi il lusso di una cuoca, e tanto meno di mangiare tutti i giorni in trattoria. La sua alimentazione, in quei tempi grami, consisteva unicamente di cibo in scatola. Per questo motivo, non è difficile da credersi, Cyril aveva familiarità con l'apriscatole più che con qualsiasi altro arnese da cucina. Fu proprio l'apriscatole a suggerirgli l'idea che lo avrebbe fatto "passare dall'altra parte", al di là di quella invisibile linea di demarcazione che separa i cittadini timorosi e rispettosi della legge da quegli altri ribaldi che non la temono e non la rispettano, e che fanno del crimine la loro occupazione quotidiana. Eh, sì! Siamo dolenti di dover ammettere che il desiderio spasmodico di possedere il piccolo Visnù di bronzo spinse l'impiegato modello a usare l'apriscatole per scassinare la cassaforte della banca. Naturalmente aveva aspettato di essere solo, ed aveva agito con tanta e tale astuzia e circospezione che mai nessuno dei suoi colleghi e dei suoi superiori sospettò di lui. Col denaro rubato, Cyril si comprò degli abiti nuovi e dei baffi finti, andò in un ristorante alla moda e si concesse un lautissimo pasto a base di ostriche e champagne francese. Dopo di che se ne andò all'asta e con le sue offerte, sempre più alte di quelle degli altri collezionisti, riuscì ad aggiudicarsi la statua tanto desiderata. E quello non fu che l'inizio. Incoraggiato dalla facilità dell'impresa, Cyril incominciò a condurre una doppia vita. Di giorno zelante impiegato della city, di notte ladro sempre più spericolato. Ben presto la sua fama di abilissimo scassinatore si sparse nei bassifondi della città, e non passava giorno senza che uno degli altri ladri, anche fra i più esperti, non chiedesse la sua assistenza per portare a termine questa o quell'impresa. La refurtiva naturalmente veniva divisa a metà. Cyril diventò ricco. Poteva comprare tutti gli oggetti d'arte orientale che desiderava e avrebbe potuto vivere di rendita per il resto dei suoi giorni. Ma la febbre dello scassinatore si era impadronita di lui. La tremenda emozione del rischio gli era diventata necessaria come il pane quotidiano. Ogni cassaforte, ogni porta blindata più robusta erano per lui una sfida, un nuovo record da superare. Era solito vantarsi che, se ne avesse avuto voglia, sarebbe riuscito a impadronirsi del tesoro della Corona, custodito nella Torre di Londra, col semplice aiuto di una forcina per capelli. Fu a quel punto che il destino gli presentò un terribile dilemma, un bivio, una drammatica scelta che avrebbe potuto far vacillare una ragione meno salda della sua. Ecco come andarono le cose... C'era un complice col quale Cyril lavorava più volentieri che con gli altri, un giovanotto chiamato Lancelot Plumpudding, che apparteneva alla migliore società. Lancelot frequentava i salotti londinesi più ricchi: era quindi in grado di raccogliere informazioni preziose e di organizzare furti sempre più redditizi. A differenza di Cyril, Lancelot non rubava per sport, ma per necessità, perché doveva mantenere agli studi in costosissimi colleges una nidiata di fratellini orfani, e presentare degnamente in società una nidiata di sorelline, ovviamente orfane anche loro, di cui, come primogenito, era l'unico sostegno. Un giorno Lancelot incontrò Cyril al club che entrambi frequentavano e, fra un sigaro cubano e un bicchierino di porto, gli confidò che c'era la possibilità di fare un colpo stramiliardario. - Si tratta di fare una visitina in casa di lord Headstone - spiegò. Cyril lo guardò meravigliato. - Cosa ci può essere di così prezioso in casa della vecchia mummia? Lord Headstone si era guadagnato questo soprannome, con cui era noto in tutta l'Inghilterra, a causa di alcune sfortunate spedizioni archeologiche in Egitto. - A quanto mi risulta, non solo non ha mai trovato niente di interessante - continuò Cyril - ma non sarebbe neanche in grado di riconoscere un oggetto antico autentico da uno falso. - Questa volta però la sua costanza è stata premiata - disse Lancelot. - Pare che, nella cella più interna della piramide di Olurp, il vecchio abbia trovato la mummia di un faraone col solito corredo funebre... - Ora ricordo. L'ho letto sul giornale il mese scorso... - osservò Cyril. - Però c'era anche scritto che lord Headstone aveva graziosamente donato i reperti al British Museum... - Infatti! Ma non c'era scritto (perché la mummia non l'ha raccontato a nessuno) che sarcofago, oltre ai gioielli, ai vasetti degli unguenti e alle altre solite carabattole, c'era un involto di tela che conteneva cinquanta, dico cinquanta grossi smeraldi purissimi. Pietre sciolte, senza montatura, facili da nascondere, difficili da identificare una volta sul mercato clandestino. Cyril era impallidito per l'emozione. - E tu, come lo sai? - Me l'ha detto un uccellino - rispose Lancelot che era sempre molto reticente a proposito dei suoi informatori. - Cinquanta smeraldi... - riprese Cyril. - E il vecchio se li è fatti scivolare in tasca come se niente fosse... Bel colpo! Dove sono adesso? Li ha venduti? - No. Li ha nascosti in casa, e ha fatto blindare porte e finestre. Per questo ho bisogno del tuo aiuto. Altrimenti, te lo dico francamente, avrei agito da solo. - Eh, già! - riconobbe Cyril. - Cinquanta smeraldi sono meglio di venticinque. - Però anche con venticinque il futuro dei miei fratellini è assicurato - concluse Lancelot Plumpudding, filosoficamente. Decisero di tentare il colpo la sera stessa. Sapevano che l'appartamento era deserto. Proprio quel giorno della settimana la servitù aveva la serata libera, e lord Headstone era andato a teatro a vedere l'"Aida". Grazie all'abilità di Cyril, riuscirono a entrare senza nessuna difficoltà. Lancelot si diresse a colpo sicuro verso lo studio del padrone di casa, Cyril invece indugiò per le altre stanze e per i corridoi, guardandosi attorno pieno di curiosità. L'appartamento sembrava un negozio di rigattiere, tanto era pieno di anticaglie. A un occhio esperto però tutte quelle anfore, statuette, utensili, gioielli barbari, bassorilievi e mosaici apparivano subito come dei falsi grossolani. - Imitazioni che non ingannerebbero neppure un bambino - constatò Cyril; e si chiese stupito: - Mi domando com'è possibile che lord Headstone sia tanto sprovveduto! Era evidente, dal modo in cui erano catalogati e protetti dalla polvere, che il proprietario li considerava autentici. Lancelot intanto lo chiamava sottovoce: - Vieni! Dobbiamo fare presto. Abbiamo solo mezz'ora prima che lord Headstone ritorni da teatro. Cyril lo raggiunse nello studio e lo trovò che armeggiava con la serratura di un armadio. - Secondo il mio informatore gli smeraldi sono qui dentro. La chiave era nella toppa. Un giro, e le due ante dell'armadio si spalancarono. - Il settimo ripiano! - sussurrò Lancelot. Ma Cyril si era bloccato, immobile come una statua, pietrificato dallo stupore. Sui ripiani dell'armadio erano allineate in bell'ordine un centinaio di statuette di terracotta, che il proprietario non aveva esposto in giro per la casa: evidentemente, le riteneva false o di scarso valore. Erano coperte di polvere; alte circa venti centimetri, rappresentavano tutte la stessa figura maschile dalla pelle scura, nuda, ad eccezione di un turbante in testa, e seduta a gambe incrociate nella posizione yoga del loto. - I famosi Indù di terracotta, scomparsi l'estate scorsa dal tempio di Shiva alla periferia di Bombay! - riuscì a balbettare Cyril, con la voce rotta dall'emozione. - Sono proprio loro! Statuette autentiche dal valore inestimabile! Oh, Lance, amico mio! Non potevi farmi scoprire niente di più prezioso! Sono l'uomo più felice del mondo! Lance lo guardò perplesso: - Sono pezzi d'arte, dici? Quanto credi che potremmo ricavarne? - Non molto, temo. Il loro furto ha fatto scalpore, e comprarli sarebbe rischiosissimo per chiunque. La polizia di tutto il mondo possiede le loro fotografie. - Ma cosa significa questo? Non li voglio per venderli. Li terrò per me. Per me valgono più di qualsiasi altra cosa al mondo! - e cominciò a sfiorarli con dita tremanti. - Guarda, sembrano identici, invece ogni gruppo di dodici presenta rispetto agli altri delle leggere differenze nella posizione delle braccia e nel colore del turbante. Alcuni sono addirittura più alti di qualche centimetro. Vedi, hanno ancora i cartellini della catalogazione originale: Indù A, Indù B, Indù C, eccetera. Chissà per quali strade sono arrivati nelle mani di lord Headstone! E pensare che quell'ignorante forse li ha presi per delle imitazioni! - Non "forse". Certamente. - confermò Lancelot. - Tanto che non si è fatto scrupolo di danneggiarli. Ora ti faccio vedere... Scorse con lo sguardo i ripiani dell'armadio e si fermò sul settimo partendo dall'alto, quello contrassegnato con la lettera G. Prese in mano una statuetta, la capovolse e mostrò a Cyril che sul fondo era stato praticato un buco, poi richiuso in modo grossolano con della creta di diverso colore. - Guarda! Queste statuette sono le più grandi... E anche le più belle di tutta la collezione! - ansimò Cyril. - Tutti gli esperti sanno che gli Indù G sono la massima espressione dell'arte indiana. - Tutti gli esperti... Ma la vecchia mummia non è mai stata un esperto. Lui li ha scelti perché sono i più grandi e perché sono cavi. Gli è sembrato che fossero il nascondiglio ideale per gli smeraldi! Cyril era impallidito per lo sdegno. Se avesse avuto Lord Headstone tra le mani lo avrebbe strozzato. - Vecchia mummia imbecille e ignorante! Non si è reso conto che bucandoli poteva romperli in mille pezzi? Lancelot lo guardò freddamente. - Ti prego di controllare le tue emozioni. Questi Indù sono comunque destinati alla rottura... Cyril lo guardò angosciato: - Non ti capisco. Abbiamo trovato delle statue che valgono un tesoro e tu parli di romperle... - Non tutte. Solo quelle del settimo ripiano. Solo gli Indù G. Gli altri, li lasceremo intatti al loro posto. - Sei impazzito? Li porteremo a casa, invece. E tutti! - Sta calmo e cerca di ragionare. Punto primo: non abbiamo portato con noi il sacco, perché pensavamo di metterci gli smeraldi in tasca per dare meno nell'occhio sulla via del ritorno. Punto secondo: se volessimo portare via le tue preziose statuette, di sacchi ce ne vorrebbero almeno quattro. Punto terzo: dovremmo perdere due ore a involgerle una per una nella carta velina per impedire che si fracassino sbattendo l'una contro l'altra. Punto quarto: abbiamo solo un quarto d'ora prima che lord Headstone rincasi dal teatro... L'unica cosa che possiamo fare è rompere gli Indù per così dire ripieni, intascare gli smeraldi e filarcela. Cyril si era accasciato su una poltrona. In un primo momento aveva pensato di strappare la fodera ricamata di un cuscino, gettarci dentro gli Indù G e portarseli a casa. Una volta al sicuro avrebbero potuto studiare con calma il modo di estrarre gli smeraldi dalle statuette senza fare troppo danno. Ma Lancelot aveva ragione. Ammucchiate alla rinfusa senza protezione le fragili terracotte sarebbero comunque andate in frantumi. E un sacco variopinto sulle spalle avrebbe destato i sospetti del portinaio davanti al quale dovevano passare per forza. No. Aveva ragione Lancelot. L'unico modo per impadronirsi degli smeraldi era quello di liberarli subito dai loro involucri, e nel modo più spiccio. Però, all'idea di rompere gli Indù G, i più belli della collezione, Cyril si sentiva morire. - Non posso! Non posso! - ansimava sempre più pallido. - Smettila di fare il sentimentale! - ordinò Lancelot furibondo. - Pensa ad Anthea, che non può andare al ballo delle debuttanti perché non ha uno straccio di vestito bianco. E al piccolo Cedric, che sarà scacciato con ignominia dalla scuola se non pago la retta. E a quel tesoruccio di Rosamond che ha bisogno di biancheria nuova e di una scatola di colori... E al piccolo Oliver... Sai cosa me ne importa delle tue dannate statuette! Afferrato un robusto attizzatoio, lo sollevò sui preziosi Indù. In quel momento, attraverso la nebbia, arrivò la voce del Big Ben che suonava dodici rintocchi. - Fra cinque minuti lord Headstone sarà a casa. Vuoi dunque che ci scopra e che ci mandi in prigione? - gemette Lancelot; e calò con forza il ferro sulla prima statuetta della fila, che andò in mille pezzi liberando un mucchietto di verde splendore. A quella vista anche Cyril fu colto da una frenesia distruggitrice. Prese dal caminetto una molla per le braci e cominciò a colpire selvaggiamente gli Indù G, riducendoli in polvere l'uno dopo l'altro. Lancelot frugava con dita avide tra i cocci, prendeva gli smeraldi e se li infilava nelle tasche... Finirono appena in tempo. Stavano uscendo furtivamente dalla porta di servizio, quando sentirono la chiave del padrone di casa che girava nella serratura dell'ingresso principale. Erano già per strada, quando dalla finestra dello studio uscì il grido lacerante di lord Headstone: - Chi ha rotto gli Indù G? L'indomani i due complici vendettero la preziosa refurtiva a un prezzo ancora più alto di quello che avevano previsto. Il futuro degli orfanelli Plumpudding era assicurato. Nonostante tutti i buoni proponimenti, anche Lancelot continuò a fare il ladro, più per sport, ora, che per bisogno. E continuò a preferire Cyril a tutti gli altri complici. Solo che adesso, ricordando l'esitazione fatale di quella notte, ogni volta che lo vedeva titubante, lo incitava scherzosamente con queste parole. - Su, deciditi! Bisogna rompere gli Indù G. La frase si sparse nell'ambiente della malavita, e poi anche fra le persone oneste. Col tempo le due parole finali si fusero e gli "Indù G" diventarono gli "indugi". Ancora oggi, quando bisogna decidersi a fare qualcosa per la quale si è a lungo esitato, si dice che "si rompono gli indugi". Capitolo 9: Inghiottire il rospo.
Perché mai, quando una persona
deve fare qualcosa controvoglia, si dice che è costretta a "inghiottire il rospo"? Un bel pomeriggio d'estate la bisnipote Nicoletta andò a trovare Van Vera e le raccontò la storia che segue... C'era una volta una principessa che non riusciva a trovare marito. Ossia, di mariti ne avrebbe anche trovati, ma nessuno come lo voleva lei, e cioè principe, figlio di re. La poverina, che si chiamava Priscilla Leopoldina Amedea Sofonisba Carlotta, non era propriamente una bellezza. Aveva i denti storti e sporgenti, le gambe storte, le orecchie a sventola, e per giunta un caratteraccio prepotente e permaloso da mandare in bestia il più bonaccione dei corteggiatori. Era pigra e disordinata, ed essendo principessa trovava naturale essere servita in tutto senza da parte sua alzare un dito per gli altri. Per di più suo padre aveva sperperato il patrimonio giocando a carte con gli amici nell'osteria della piazza di fronte alla reggia. Quindi né bella, né buona, né ricca, né volenterosa... chi volete che fosse disposto a sposare una simile piaga? Nessuno dite? Neanche per sogno. Vi sbagliate. C'erano nel regno almeno una ventina tra conti, marchesi, baronetti e altri nobilucci di poco conto che speravano di elevare il loro rango imparentandosi con un re. C'erano almeno una trentina di giovanotti borghesi molto ricchi che avrebbero sopportato ben altro che i denti storti e il pessimo carattere, pur di versare un po' di sangue reale nelle vene della loro discendenza. E poi c'era Marcello, il figlio del maggiordomo, che, per una di quelle inspiegabili stranezze dell'animo umano, adorava la principessa fin da quando l'aveva vista seduta sul seggiolone, con i dentini da latte ancora a posto; e da allora aveva continuato ad amarla perdutamente, cieco davanti a tutti i guasti che col passare del tempo si erano verificati nella sua Priscilla. Priscilla naturalmente non lo degnava di uno sguardo, né lui né gli altri corteggiatori; e gettava nella spazzatura i mazzi di fiori, i regali, i biglietti di San Valentino che costoro le mandavano senza scoraggiarsi. Lei non intendeva sposarsi al di sotto del suo rango. Voleva un principe di sangue reale o niente. Principi in età da sposarsi però ce n'erano pochi. E quei pochi erano più schizzinosi di lei. - Una principessa consorte deve rivolgersi ai sudditi con un sorriso smagliante - diceva uno - e i denti di Priscilla invece sono proprio un disastro... - E con quelle orecchie a sventola, la corona le andrebbe di traverso - aggiungeva un altro. - E con quel caratteraccio, litigherebbe continuamente col ciambellano e addio pace a corte... - osservava un terzo. Così, ridevano di lei e non la invitavano neppure ai balli di corte, perché non si mettesse delle idee strane in testa. Priscilla aveva ormai quasi trent'anni, e non aveva ancora incontrato l'amore. Era disperata, e la matrigna - che non vedeva l'ora di togliersela dai piedi - temeva che per il gran piangere le sarebbero venuti storti anche gli occhi. Quegli occhi castani sparsi di pagliuzze d'oro che il povero Marcello vedeva in sogno tutte le notti... - Mi sono procurata l'indirizzo di una strega espertissima in magie migliorative. Stregoneria estetica, si chiama - annunciò un giorno a tavola la matrigna. - Priscilla, ti ho già fissato un appuntamento. Forse lei potrà risolvere i tuoi problemi. Priscilla non voleva andare, ma la matrigna tanto disse che la convinse. Marcello, in divisa da autista guidava l'automobile reale. Purtroppo, davanti a tanto disastro, la strega si dichiarò impotente. - Però, forse posso aiutarvi in un altro modo - disse, dopo aver ascoltato la storia della ragazza. - Avrete il vostro principe di sangue reale anche restando come siete! - E in che modo? - chiese scettica Priscilla ricordando tutte le delusioni del passato. - Quindici anni fa - prese a raccontare la strega, - in un impeto di rabbia ho trasformato in un rospo il figlio del re di Monteselvoso, che mi aveva colpito al naso con la sua fionda. Oggi il principe avrà poco meno di trent'anni, un'età proprio giusta per sposarsi... Perché non vi prendete lui e non la fate finita con le vostre lagne? - Adesso non esageriamo! Non posso mica sposare un rospo, anche se di sangue reale - piagnucolò Priscilla risentita. - E chi vi dice di sposare il rospo, scimunita? Non avete mai sentito parlare di controincantesimi? Quel ragazzaccio, Regilberto mi pare si chiamasse, riacquisterà sembianze umane quando una ragazza innamorata lo solleverà sul palmo della mano e gli darà un bacio. Tornerà ad essere un principe, e per la riconoscenza non potrà fare a meno di sposare quella ragazza. - E come mai nessuno lo ha baciato in tutti questi anni? - Perché nessuno sapeva dell'incantesimo. E perché quello screanzato non aveva ancora espiato la sua colpa. Ora i tempi sono maturi. Sarete voi la sua salvatrice; Ma, ricordatevi, dovete dargli un vero bacio, non una di quelle beccatine veloci che si danno alle vecchie zie con la paura di essere punte dai loro baffi... Dopo di che, in cambio di qualche moneta d'oro, la strega spiegò come rintracciare il principe rospo e come riconoscerlo tra i suoi simili senza possibilità di errore. Priscilla infatti aveva dichiarato che non aveva nessuna intenzione di andarsene in giro a baciare tutte le bestiacce schifose che incontrava, in attesa di capitare su quella giusta. Al momento della spedizione, la ragazza era così emozionata che quasi non si reggeva in piedi; e il buon Marcello, benché gli sanguinasse il cuore dalla gelosia, decise di accompagnarla. Secondo le istruzioni ricevute, raggiunsero l'orto di un convento e lì, tra i solchi, sotto una grossa pianta di cavolo, trovarono un rospo color verde pallido maculato di marrone, con un segno giallo a forma di corona sulla schiena. Per il resto, era un rospetto simile a tutti gli altri, con gli occhi sporgenti, la pelle umida e molliccia e la gola palpitante. Al pensiero che qualcuno potesse baciarlo, Marcello sentì un conato di vomito. Ma per fortuna non era lui che doveva rompere l'incantesimo. Priscilla da parte sua non ebbe alcuna esitazione. Già vedeva brillare davanti a sé l'oro di una corona Già sentiva il freddo del metallo prezioso sulle sue orecchie a sventola. - La strega ha detto un bacio di passione, vero? - esclamò e si chinò veloce sulla bestiola, che, spaventata, fece un salto di lato. Ma Priscilla fu lesta ad acchiapparla, la strinse, viscida com'era, e la sollevò all'altezza del viso. - Principe Regilberto - disse. - E' per merito mio che state per recuperare la vostra forma umana. Vi prego di non dimenticarlo, quando sarete tornato come prima. Poi protese le labbra e baciò il rospetto con tanta passione, con tanto trasporto.. che lo inghiottì. Bisogna compatirla, poverina. Era il primo bacio della sua vita e non aveva esperienza. Il rospetto era piccolo, ma le si fermò nella strozza soffocandola. Priscilla tossiva, paonazza, furibonda, chiedendo aiuto a Marcello con gesti muti e disperati. Marcello le dette un colpo violento sulla schiena, Priscilla tossì più forte e finalmente respirò. Ma il rospo, invece di schizzarle fuori dalla bocca, aspirato dal risucchio le era finito nello stomaco: inghiottito, scomparso! - Era la mia ultima occasione! - singhiozzò la poverina. - Su! Non prendetevela! Vi resto sempre io - disse Marcello, fattosi improvvisamente audace. - Provate a baciarmi. Forse anch'io mi trasformerò in un principe... - e non sapeva neanche lui se intendesse soltanto dire una spiritosaggine, o se ci sperasse davvero. - Cretino! - gli rispose Priscilla. - Vattene! Lasciami sola col mio dolore! Marcello però non poteva abbandonare la sua principessa, sola, di notte, nell'orto dei frati e con un rospo sullo stomaco. Così la riaccompagnò a casa, dopo averle pulito col fazzoletto le scarpe sporche di fango. Ma la sua devozione non fu ricompensata, perché qualche tempo dopo Priscilla si rassegnò a sposare il marchese di Frattapà, che aveva solo un quindicesimo di sangue reale, ma in compenso era proprietario di una fiorente manifattura di salumi, avente per insegna un porcello incoronato e seduto sul trono. Dire che fu un matrimonio felice sarebbe esagerato, anche perché comunque Priscilla, con quel caratteraccio che si ritrovava, felice non lo sarebbe stata mai. Da quel giorno, quando una persona deve fare controvoglia qualcosa di molto sgradevole, si dice che è costretta a "inghiottire il rospo". Capitolo 10: Scendere a patti.
Questo racconto etimologico si deve
a Michele Van, bisnipote tredicenne della mitica Van Vera... C'erano una volta due gemelli di otto anni, figli del principe e della principessa di Cefalù, i quali non abitavano con i genitori nel palazzo di città. Fin da quando erano nati abitavano nella villa di campagna con la balia Rosalia, perché il pediatra aveva detto che l'aria di campagna fa bene ai bambini, e perché la loro madre, una signora di nobilissime origini e di squisita educazione, al minimo rumore soffriva di terribili emicranie. Anzi, a voler essere precisi, di cefalee; ed essendo principessa di Cefalù, bisogna ammettere che si era scelta una malattia appropriata. Rosalia era vedova e aveva un bambino della stessa età dei gemelli, Turiddu, che andava in giro vestito con gli abiti smessi dei padroncini e già lavorava col giardiniere nell'aranceto. Alla villa, poi, c'era anche l'amministratore: un signore coi baffi che andava a cavallo e fumava grossi sigari profumati. Per evitare che i due principini gemelli si confondessero e scambiassero questi due adulti per i propri genitori, Rosalia aveva l'incarico di accompagnarli tutti i mesi in città a trovare il principe e la principessa di Cefalù. Questi viaggi si erano sempre fatti sulla carrozza padronale, comoda, ben molleggiata e a prova di polvere. I gemelli partivano con gli abiti di tutti i giorni. Alle porte di Cefalù la carrozza si fermava vicino a una fontana e Rosalia dava una bella strigliata ai suoi pupilli e gli faceva indossare i vestiti della festa. Per Tancredi, un completino di velluto verde scuro con gli alamari d'argento e stivaletti di vernice. Per Agata, una vestina di velluto nero con la sottogonna di mussola a balze e un gran colletto bianco di pizzo francese. - Come sono belli i miei figliuzzi! - sospirava la principessa di Cefalù, baciandoli in fronte dopo averli fatti entrare nel suo salottino personale, sempre in penombra per via dell'emicrania. - Brava, Rosalia! Li tenete come due gioielli. Comprate un torrone a Turiddu vostro - e allungava alla balia una moneta d'argento bella lustra. Purtroppo, qualche tempo dopo il loro ottavo compleanno, i gemelli, da certi discorsi dell'amministratore col giardiniere, scoprirono l'esistenza della ferrovia, e che in città si poteva anche andare in treno. - Il mese prossimo, niente carrozza! - disse il piccolo Tancredi. - Prenderemo la littorina - si degnò di spiegare Agata. Rosalia sospirò. Sapeva per esperienza che se treno volevano, treno avrebbero avuto. Il guaio era che, sul treno, non poteva fermarsi alle porte della città per cambiarli d'abito e ravviarli a dovere. Ed essendo una contadina ignorante e primitiva, non pensava di poter fare questa toeletta su un mezzo di trasporto in movimento. - Non preoccuparti. Partiremo coi vestiti della festa - disse Agata. - Staremo fermi e composti. - Non ci sgualciremo, e non ci toglieremo neppure il cappello - giurò Tancredi. - Eh, no, principuzzo! Un gentiluomo non tiene mai il cappello in testa in un luogo chiuso dove ci sono delle signore - disse severo l'amministratore. - Rosalia non è mica una signora - ribatté il piccolo Tancredi. - Ma donna Agatuzza sì. - Ecco cosa faccio, io, alle signore! - esclamò il bambino, allungando un calcio alla sorella, che per tutta risposta gli sbatté sulla testa la sua bambola di porcellana, arrivata da Norimberga, mandandola in mille pezzi. Rosalia sospirò. Di allungare uno scappellotto ai principuzzi come faceva spesso e volentieri con Turiddu, non c'era neanche da parlarne. Di solito i gemelli litigavano continuamente per la minima inezia, ma quella volta sul treno sembravano filare d'amore e d'accordo. Sedevano tutti composti sui sedili di velluto della prima classe, Agata con i boccoli neri ben accomodati, Tancredi col cappello di paglia poggiato elegantemente sul ginocchio. Zitti e seri, guardavano con interesse la campagna fuori del finestrino. Ormai erano a metà del viaggio. Rosalia tratteneva a stento un sospiro di sollievo. "Forse il movimento del treno calma i nervi" pensava. Passarono la stazione di Patti, e dopo qualche chilometro i gemelli videro una grande roccia in mezzo a un campo di grano, bassa e lunga come un animale acquattato. - Guarda! Sembra un coccodrillo! - strillò Agata. - Ma va! Non vedi che è precisa a un alligatore? - urlò Tancredi. No, coccodrillo! No, alligatore! Dalle parole ai fatti, il tempo d'un attimo, senza che la povera Rosalia arrivasse in tempo a dividerli. E non aveva portato vestiti buoni di ricambio. Quando la principessa di Cefalù si vide davanti i figli pieni di lividi, spettinati, il colletto di pizzo di Agata tutto sghembo e stracciato, il cappello di Tancredi ridotto a una frittata e gli alamari scomparsi, negò il bacio, scosse severa la testa e non dette a Rosalia la solita moneta d'argento. Per colpa loro le era venuta una cefalea ancora più forte del solito. Il mese dopo... - Questa volta andiamo in carrozza. E’ più comodo. Ormai la voglia del treno ve la siete tolta - azzardò timidamente la balia. - Neanche per sogno. Andremo in treno - dissero i gemelli. La poveretta si portò dietro un baule di vestiti di ricambio e trepidò per tutto il percorso. Ma fino alla stazione di Patti, Agata e Tancredi si comportarono come due angeli del paradiso. Sennonché, all'apparire della roccia nel campo: Coccodrillo! Alligatore! E giù botte da orbi! I vestiti si potevano cambiare, ma gli occhi neri, il sangue dal naso, l'orecchio ferito di Agata che aveva perduto un pendente di smeraldo ereditato dalla madrina buonanima... non si potevano nascondere. Perciò anche questa volta niente bacio e niente moneta d'argento. - State crescendo come due selvaggi. Mi farete morire - gemeva la principessa di Cefalù, toccandosi la fronte dolorante. Il mese dopo, stessa storia. E il mese successivo, anche. - Ho capito - disse finalmente Rosalia al giadiniere. - Bisogna eliminare la causa del litigio. - E come si può fare? Mica si può sradicare una roccia dalla terra! Mica si possono accecare i due principuzzi! - Ci penserò io - disse la balia risoluta. - Parlerò al conducente del treno. Il mese successivo i due gemelli e la balia si misero in viaggio come al solito. I due bambini non avevano ancora cominciato a litigare, ma sentivano che l'occasione della disputa si stava avvicinando; e già si guardavano in cagnesco. Quand'ecco, una voce piena d'autorità risuonò nello scompartimento attraverso l'altoparlante: - Per motivi tecnici indipendenti dalla nostra< volontà, ci scusiamo con i signori viaggiatori, ma bisogna scendere a Patti - ordinava il capotreno. I motivi tecnici e l'autorità della divisa colsero di sorpresa i due principuzzi. Svelta Rosalia li prese per mano e li trascinò verso lo sportello d'uscita del treno, che si stava giusto fermando alla stazione di Patti. Dove, guarda il caso fortunato, era pronta ad aspettarli la carrozza principesca. Quella volta ci furono di nuovo i baci, i sospiri di ammirazione e la moneta d'argento. Da allora, ogni volta che i gemelli prendevano il treno diretti a Cefalù, succedeva sempre qualche incidente che li costringeva a scendere a Patti. Così non ebbero più occasione di vedere la famosa roccia a forma di alligatore (o di coccodrillo?) e mancò loro il pretesto per litigare. Per lo meno, non mezz'ora prima di presentarsi alla loro principesca genitrice. Rosalia accumulò un bel mucchio di monete d'argento e sposò il giardiniere. Ebbe un altro bambino, le tornò il latte e poté andare a fare la balia a casa di Agata, che nel frattempo si era sposata e aveva avuto anche lei un figlio; ma era così giovane che non sapeva badargli, e se non ci fosse stata Rosalia, il povero piccino se la sarebbe vista brutta. Anche il marito di Agata era giovanissimo, nobile e viziato, e come carattere non era molto diverso dalla sposina e dal suo bellicoso gemello (che nel frattempo si era arruolato in marina). Così, quando i due sposini cominciavano a litigare tirandosi addosso tutta l'argenteria della casa, la balia, con i due lattanti attaccati alle grosse poppe uno da una parte e uno dall'altra, esclamava: Eh, no, Agatuzza mia! Eh, no, signorino bello, così non va! Qui bisogna immediatamente... scendere a Patti! E il litigio finiva in una risata che faceva venire il singhiozzo ai due poppanti. Da allora, quando due persone o due gruppi in stato di belligeranza trovano qualche soluzione che evita lo scontro diretto, si usa dire che "scendono a patti".