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LA CELLULA

E’ noto che gli organismi viventi sono costituiti da cellule e che:


La cellula è l’unità fondamentale dei viventi.
Tuttavia questa asserzione riguarda l’inizio dei ragionamenti che hanno portato alla teoria
cellulare. La cellula è stata intesa per lungo tempo, nel senso classico, provvista di un
nucleo, senza considerare diverse eccezioni che riguardano cellule plurinucleate (fibre
muscolari, elementi dei canali secretori, ife, ecc.) o strutture derivanti da cellule. La teoria
venne pertanto riformulata da Schwann e Schleiden:
Gli organismi viventi sono costituiti da cellule o prodotti di cellule.
Ma anche questa asserzione può non essere appropriata per i microrganismi più semplici
(Virus).
Un’altra affermazione importante che riguarda l’essenza delle cellule venne enunciata da
Wirchow:
Le cellule producono altre cellule in continuità nel tempo.
In base a ciò, si comprende come tutte le cellule derivino da altre cellule.

Attualmente la teoria cellulare mette in evidenza due punti:


1. Cellule o prodotti di cellule sono le unità di struttura e funzione degli organismi
2. Tutte le cellule derivano da cellule preesistenti

Si è accennato in precedenza al fatto che le cellule prive di nucleo non possono avere
introni. Abbiamo dato perciò per scontato che esistano cellule con nucleo e cellule prive di
nucleo. Anzi per la verità dovremmo parlare di organismi con cellule nucleate e organismi
con cellule non dotate di nucleo che corrispondono a due gruppi fondamentali: Eucarioti e
Procarioti.
Le cellule degli Eucarioti hanno una compartimentazione ben definita, con sistemi di
membrane, un nucleo delimitato da membrana e veri e propri cromosomi, i procarioti
mancano di ciò.

CENNI SUI PROCARIOTI


Abbiamo già accennato che i Procarioti non hanno un vero nucleo e nemmeno dei veri
cromosomi. Il DNA non è organizzato in complessi insieme con proteine e non è racchiuso
in un involucro membranoso, ma costituisce un “cromosoma” primitivo centrale, circolare
ed eventuali altre molecole d’informazione, più piccole e circolari (plasmidi). I procarioti
inoltre non hanno organuli specializzati e delimitati da membrane, atti a funzioni
specifiche, seppure possano presentare regioni particolari (centroplasma, flagelli, ecc.). I
movimenti cellulari, in particolare quelli citoplasmatici, sono primitivi, anche se si rilevano
movimenti delle cellule per scivolamento o mediante flagelli.
Tra i procarioti possiamo annoverare batteri e alghe azzurre (cianobatteri), ma vedremo
meglio in seguito quali altre categorie comprendano.
Normalmente la cellula procariotica ha dimensioni minori di quella eucariotica, ma, poiché
l’attività metabolica è inversamente proporzionale alle dimensioni cellulari, la cellula
procariotica è assai più attiva di quella eucariotica. Per esempio, molti batteri presentano
tempi di raddoppiamento inferiori ad un’ora (in condizioni ottimali) e ciò rappresenta un
vantaggio decisivo nella competizione e nella sopravvivenza.
Ad eccezione dei micoplasmi, le cellule dei procarioti sono delimitate da una parete più o
meno rigida, variabile nella composizione.
Tutte le cellule procariotiche possiedono una categoria di sostanze chimiche propria: le
mureine o mucopeptidi, eteropolimeri costituiti da amminoacidi e amminozuccheri. Le
mureine possono essere periferiche o protette da altri costituenti più esterni. Esse sono
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sensibili a due antibatterici: la penicillina che blocca la loro biosintesi nelle cellule giovani e
il lisozima che idrolizza alcuni legami procedendo alla loro demolizione nelle cellule adulte.
Molti organismi procarioti vivono in ambienti ipotonici; se non fossero dotati di una robusta
difesa meccanica come la parete cellulare, le soluzioni esterne tenderebbero ad entrare
nei microrganismi gonfiando irreparabilmente le cellule. Esiste pertanto un meccanismo di
difesa passivo. In molte cellule procariotiche, però, la parete non è lo strato più esterno,
poiché essa è ricoperta da una capsula mucosa (costituita da polisaccaridi o polipeptidi)
che rappresenta una ulteriore barriera nei confronti dei pericoli esterni. La capsula può
mancare in diversi batteri (Gram positivi), ma è quasi sempre presente nelle Alghe
azzurre.
Le cellule procariotiche hanno un numero elevatissimo di ribosomi (20.000-30.000). Essi
sono molto più piccoli ed hanno una velocità di sedimentazione minore (70 Svedberg)
rispetto a quelli delle cellule eucariotiche.

Più volte abbiamo pronunciato il termine “specie”, ma che cosa è una specie? esistono diverse definizioni di
specie, la maggior parte delle quali fa riferimento a complessi di individui interfecondi fra loro (che danno
luogo a prole fertile). Non si ha intenzione di affrontare quest’argomento perché richiederebbe un corso
apposito, tuttavia si nota che questa comune accezione di specie non può essere riferita ad organismi come
i procarioti dove è assente una sessualità definita, quantunque esista uno scambio genico fra individui. Per i
batteri ed altri microrganismi si usa parlare di “ceppi” riferendosi a gruppi che derivano da un unico individuo
ben caratterizzato morfologicamente e fisiologicamente limitando il termine specie a raggruppamenti di ceppi
distinti da un alto grado di analogia fenotipica interna e che differiscono da altri aggruppamenti per un gran
numero di caratteri loro propri.

Anche se l’argomento verrà sviluppato nel corso di Microbiologia è bene anticipare alcune
nozioni sulle principali categorie di procarioti.
Questi comprendono: Micoplasmi, Batteri e Cianobatteri.

I MICOPLASMI vennero scoperti alla fine del XIX secolo e chiamati PPLO (Pleuro-
Pneumoniae Like Organism). Sono tra le più piccole e semplici forme cellulari, con una
dimensione variabile da 0,1 a 0,3 µm; hanno un DNA circolare costituito da 600-1.500 geni
con circa 5.000 paia di basi (per confronto si tenga presente che il batterio Escherichia coli
possiede 3 milioni di paia di basi). Possiedono membrane, ribosomi, molecole proteiche e
lipidiche. Sono eterotrofi parassiti, ma occasionalmente anche saprofiti ed utilizzano come
fonti energetiche esosi, grassi o amminoacidi.
La mancanza di parete cellulare ha come conseguenza una bassa patogenicità, ma
rappresenta anche uno scarso stimolo alla produzione di anticorpi, per cui l’uso di
antibiotici è inefficace.
Hanno affinità coi batteri (soprattutto con quella che viene chiamata fase L dei batteri) e
per molti di essi si ipotizza un’origine dai batteri dei generi Bacillus e Lactobacillus.
Affini ai Micoplasmi sono alcuni microrganismi chiamati MLO (Micoplasm Like Organism)
che sono responsabili di numerose malattie delle piante, spesso evidenziate dal sintomo
dell’ingiallimento, ed altri chiamati Spiroplasmi, lunghi sino a 10 µm ed esistenti solo in
coltura.

Le caratteristiche dei BATTERI sono quelle già elencate per i procarioti in generale. Hanno
una dimensione media di 1 µm, con un’ampia variabilità da 0,1 a 30 µm. Si distinguono
circa 2.500 specie, ma la variabilità è molto alta e in microbiologia si usa parlare
soprattutto di ceppi. Hanno un’origine molto antica: batteri sono stati ritrovati in rocce di
circa 4 miliardi di anni e recentemente pare siano stati rinvenuti anche su Marte.
Possono essere Anaerobi o Aerobi; i primi possono essere facoltativi o obbligati. Sono in
grado di vivere in habitat con caratteristiche molto varie: da -20° a circa 300 °C. In

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condizioni estreme entrano in stato di quiescenza mantenendo le loro potenzialità vitali per
periodi lunghissimi. Sono favoriti dalla alcalinità del mezzo in cui sono immersi, riuscendo
a vivere anche con pH 11-12 ; al contrario sono inibiti dall’acidità (ciò è uno dei motivi per
cui diversi prodotti vengono conservati nell’aceto. Insieme coi funghi svolgono un
importante ruolo di decompositori negli ecosistemi e possono essere utilizzati come
demolitori di sostanze indesiderate (pesticidi, nylon, petrolio, ecc.). I batteri sono utilizzati
per svariate produzioni: per l’estrazione di oli combustibili da materiali rocciosi, per la
produzione di farmaci e di alimenti (aceto, alcuni formaggi, yogurt, crauti, ecc.). Alcuni
batteri svolgono un ruolo importantissimo fissando l’azoto atmosferico.
Le principali forme di batteri sono quelle a bastoncello (bacilli), sferette (cocchi), molla
(spirilli).
Hanno una parete cellulare talora avvolta esternamente da uno strato più periferico di
lipopolisaccaridi. La parete può essere evidenziata con la colorazione di Gram (1880)
utilizzando cristal violetto, soluzione di iodio e lavaggio in etanolo. I batteri gram negativi
non si colorano perché provvisti di una capsula esterna che impedisce la colorazione della
parete e sono pertanto più difficili da combattere in caso di malattie. La capsula può
comunque essere rimossa con diversi procedimenti.
Possiedono una membrana cellulare, possono avere anche flagelli (lunghi, concentrati o
distribuiti su buona parte della superficie esterna) e pili (estroflessioni che intervengono in
scambi di materiale genetico). Mancano i mitocondri e la catena respiratoria è situata sulla
membrana plasmatica della cellula.
La moltiplicazione dei batteri avviene per scissione: una invaginazione della membrana
porta alla strozzatura della cellula e alla sua divisione in due cellule figlie. Il DNA è legato
ad un punto della membrana e si duplica all’atto della divisione. In alcune occasioni si
possono evidenziare forme di resistenza, come endospore e cisti che presentano
ingrossamento cellulare ed ispessimento della parete e possono conservarsi per decine o
centinaia di anni per poi germinare.
Un fenomeno importante che determina la continua variazione dei caratteri è il
trasferimento di segmenti di DNA da una cellula all’altra (ricombinazione del DNA). Il
cromosoma batterico è spesso accompagnato da altri frammenti circolari di DNA chiamati
plasmidi che possono diventare poi parte integrante del cromosoma (episomi). Ciò viene
utilizzato per l’inserimento di geni nel corredo genetico dei batteri a con tecniche
bioingegneristiche. Altri fenomeni che riguardano le modificazioni del materiale genetico
sono la coniugazione, la trasduzione (mediante i batteriofagi), la trasformazione (per
effetto di fattori esterni come calore, radioattività, ecc.), mutazione (nel corso della
duplicazione).
Il metabolismo dei batteri è piuttosto vario e si osservano:
Fotoautotrofismo: attuato da batteri provvisti di batterioclorofilla (4 tipi: a, b, c, d) e
carotenoidi; questi batteri possono avere colore verde o purpureo. Si distinguono
solfobatteri verdi, solfobatteri purpurei e batteri purpurei non sulfurei. I batteri fotoautotrofi
richiedono anaerobiosi e un donatore diverso dall’acqua, per cui vivono in sorgenti
solforose, stagni, laghi stretti e profondi. Assorbono lunghezze d’onda nel rosso lontano e
nell’infrarosso, non utilizzabili da altri organismi; in certi casi sono in grado di utilizzare la
luce azzurra e azzurro-verde.
Chemioautotrofismo: è attuato da batteri aerobi distinguibili, in base alle fonti utilizzate,
Idrogenobatteri (facoltativi)
2H2+O2 → 2H2O + 113.000 cal /mole
alcuni riescono anche a utilizzare CO
2CO+O2 → 2CO2
Nitrificanti nitrosatori: (NH4)2CO3+3O2 → 2HNO2+CO2+3H2O
(= sali d’ammonio → acido nitroso ovvero nitriti di Ca o Mg)

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Nitrificanti nitratatori: Ca(NO2)2+O2 → Ca(NO3)2 (=nitriti → nitrati)
Solfobatteri: 2H2S+O2 → 2H2O + S2 (Thiobacillus nei fondi d’acqua stagnante) (=
acido solfidrico → acqua e zolfo inorganico)
Ferrobatteri: ossidano ioni ferrosi in ioni ferrici (pellicole superficiali argentate o
iridate)
2FeCO3 + 3H2O + ½ O2 → 2Fe (OH)3 + 2CO2 (Fe bivalente → Fe trivalente; lo
stesso tipo di reazione può avvenire col Mn)
Eterotrofi attuano la respirazione utilizzando normalmente zuccheri come substrato,
ma in qualche caso particolare anche metano (metanobatteri):
CH4+2O2 → CO2+H2O
Nella respirazione anaerobia si può citare anche il caso dei batteri denitrificanti che
utilizzano come accettore di elettroni non l’ossigeno, ma un nitrato che si riduce a nitrito;
questo processo prosegue poi sino ad N atmosferico.

I CIANOBATTERI (o Alghe azzurre) hanno una parete pectocellulosica ed una capsula


mucillaginosa che spesso riunisce più individui in colonie. Evidenziano un centroplasma,
piccoli vacuoli, clorofilla a, carotenoidi, ficobiline (ficobiliproteine che sono proteine
coniugate con tetrapirroli lineari, pigmenti biliari) come le ficoeritrine che assorbono la luce
verde 550 nm e le ficocianine che assorbono la luce gialla 625 nm.
Vivono in ambienti con buona disponibilità idrica: acque dolci o salate, stagnanti o correnti,
rocce e terreni umidi, ecc. Alcune specie sono adattate a basse temperature
(colonizzando ghiacci e nevi) altre ad alte temperature (sorgenti termali).
Diverse sono in grado di svolgere la fissazione dell’azoto atmosferico e si presentano in
simbiosi con piante superiori.

La cellula degli eucarioti


FORMA E DIMENSIONI
Forma e dimensioni della cellula sono legate alla funzione che essa deve svolgere. Tra le cellule vegetali, la
forma sferica è assai rara, mentre più frequente è quella poliedrica. Ciò dipende soprattutto dal fatto che la
forma sferica non è conveniente perché unisce il maggior volume alla minore superficie; la superficie di una
cellula è di importanza vitale poiché determina la capacità di scambio tra ambiente esterno ed interno alla
cellula stessa (anche fra cellule adiacenti). Negli organismi pluricellulari la forma delle cellule dipende anche
dalla mutua pressione fra esse. Al microscopio si distinguono cellule a sezione ellittica, quadrangolare,
poligonale, stellata, allungata, ecc.; ognuna di queste forme è determinata dalle modalità di genesi della
cellula e soprattutto dalla funzione a cui questa è deputata.

In una sfera o in un cubo la superficie aumenta con legge quadratica, ma il volume con legge cubica; poiché
le esigenze metaboliche sono proporzionali al volume di una cellula mentre le sue potenzialità di assumere
energia dipendono dalla superficie, si comprende l’importanza del rapporto tra superficie e volume.

Le dimensioni variano per lo più tra 10 e 40 µm, tuttavia vi sono cellule che raggiungono dimensioni notevoli
(le fibre del lino e dell’ortica raggiungono i 6-7 cm e quelle del ramiè 50 cm, e tra gli animali basti pensare
alle dimensioni d’alcune cellule uovo). L’aumento del volume porta, come conseguenza, una maggiore
necessità d’energia e, quasi sempre, ad un certo limite, la cellula si divide o muore. Nel caso dei vegetali
pluricellulari, la morte cellulare non significa necessariamente che viene a mancare lo svolgimento della
funzione; anzi in diversi casi (tessuti di conduzione e meccanici) la morte della cellula è programmata
affinché gli elementi che succedono all’evento possano svolgere meglio le funzioni previste. La presenza del
nucleo nelle cellule è, in parte, motivata dalle maggiori esigenze organizzative che si evidenziano con
l’aumento delle dimensioni cellulari degli eucarioti rispetto ai procarioti. Nelle cellule vegetali la presenza di
un grosso vacuolo contribuisce a risolvere il problema derivante da un rapporto sfavorevole
superficie/volume. La forma stessa di alcune cellule, inoltre, tende a stabilire un rapporto superficie/volume,
laddove sono necessari intensi scambi con l’esterno (cellule del tessuto di trasfusione nelle foglie aghiformi
di conifere; cellule renali, ecc.).

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Componenti della cellula vegetale (* assenti da quella animale)
I. Parete cellulare*
A. Lamella mediana (pectine) spessore 0,1µm
B. Parete primaria (cellulosa) spessore 0,1-3µm
C. Parete secondaria (cellulosa) spessore >4-5µm
D. Plasmodesmi (diametro 20-40nm)
E. Punteggiature
II. Protoplasto
A. Citoplasma (citosol)
1. Membrana plasmatica (plasmalemma) spessore 0,01µm (10 nm)
2. Sistema di endomembrane
a. Reticolo endoplasmatico (ER) spessore 6-7,5nm
b. Apparato di Golgi (dittiosomi) diametro 0,5-2µm spessore membrane 7,5nm
c. Involucro nucleare (vedi sotto)
d. Tonoplasto (membrana del vacuolo, vedi sotto)
e. Microcorpi (perossisomi, gliossiomi) diametro 0,3-1,5µm
f. Sferosomi e corpi proteici (delimitati da mezza unità di membrana) diametro
0,5-2µm
3. Citoscheletro
a. Microtubuli (diametro interno 14nm, esterno 30nm)
b. Microfilamenti (spessore 5-7nm)
c. Filamenti intermedi (spessore 7-11nm)
4. Ribosomi (diametro 15-25nm, costituiti da due subunità)
5. Mitocondri (organuli delimitati da membrana) 0,5-1 x 1-4 µm
6. Plastidi* (organuli delimitati da membrana)
a. Proplastidi (plastidi immaturi)
b. Leucoplasti (plastidi incolori: amiloplasti, proteoplasti, elaioplasti)
c. Cloroplasti (pigmentati fotosintetizzanti, spessore 2-4 x 5-10 µm)
d. Cromoplasti (pigmentati non fotosintetizzanti)
7. Citosol (fluido contenente in sospensione le strutture sopra elencate)
B. Nucleo (diametro 5-15µm – 0,6 mm)
1. Involucro nucleare (due unità di membrana) spessore 25-57µm
2. Nucleoplasma (sostanza granulare e fibrillare)
3. Cromatina (durante la divisione cellulare appaiono i cromosomi)
4. Nucleolo (diametro 0,5-5µm)
C. Vacuoli* (da numerosi e piccoli ad unico con volume sino a 95% del volume cellulare)
1.Tonoplasto (spessore 6-7,5nm)
2. Succo vacuolare (fluido acquoso)
D. Ergastoplasma (inclusione di materiali ± puri spesso in plastidi e vacuoli)*
1. Cristalli (es.: ossalato di calcio)
2. Tannini*
3. Grassi e oli (globuli lipidici o negli elaioplasti)
4. Granuli di amido (negli amiloplasti e nei cloroplasti)*
5. Corpi proteici
F. Flagelli e ciglia (spessore 0,2µm, lunghezza 2-150µm)

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STRUTTURA GENERALE
Se si osserva una cellula eucariotica vegetale al microscopio, si nota immediatamente una struttura
complessa, ben delimitata esternamente: accanto ad organuli evidenti (nucleo, mitocondri, eventuali
cloroplasti), è evidente un sistema di compartimenti realizzato da membrane. Il sistema di membrane
costituisce il reticolo endoplasmatico (ER): esso circonda il nucleo ed è connesso, tramite un flusso di
vescicole, all’apparato di Golgi (dittiosomi); inoltre partecipa alla realizzazione del vacuolo ed è in
comunicazione col ER di cellule adiacenti. Secondo Schnepf le membrane interne (endomembrane)
suddividono la cellula in compartimenti (fasi): ogni membrana separa una fase acquosa da una fase
plasmatica. Le fasi acquose occupano gli spazi tra le membrane del ER e quelli tra le membrane interne ed
esterne dei mitocondri e dei cloroplasti, oltre che lo spazio interno al vacuolo. le fasi plasmatiche sono
rappresentate da citosol e nucleoplasma (fase mista nucleo-citoplasmatica), stroma dei cloroplasti
(plastoplasma) e dei mitocondri (mitoplasma). Il sistema di membrane non è rigido, ma evidenzia continue
variazioni, scissioni e flussi; tutto ciò avviene, però, senza che si assista a fenomeni di fusione tra fase
acquosa e fase plasmatica.
Oltre a queste “fasi”, la cellula è attraversata da un intreccio di strutture filamentose e tubulari che
rappresentano il citoscheletro.
L’origine di tale organizzazione è da ricercarsi, secondo alcuni autori in una ancestrale simbiosi tra cellula
procariotica eterotrofa e cellule procariotiche autotrofe, documentata anche da altri caratteri che vedremo più
avanti.
Uno schema della cellula vegetale è riportato nella Tabella 8. Si distinguono alcuni componenti che sono
proprie della cellula vegetale: parete cellulare, plastidi, vacuoli ed ergastoplasma. Nella cellula animale, vi
sono però alcune strutture particolari come i centrioli, assenti da quella vegetale, ed i lisosomi (in
sostituzione dei vacuoli).

IL CITOSOL
Nella cellula vegetale adulta, il volume tra la membrana plasmatica o plasmalemma e il tonoplasto (che
delimita il vacuolo) viene definito protoplasma esso è costituito da citoplasma o citosol, organuli e sistemi di
membrane.
Il citosol, composto per circa 70% di acqua e 20% di proteine, occupa solo il 10% circa del volume. Al
microscopio ottico appare scarsamente differenziato, tuttavia esso contiene un’elevatissima varietà di
proteine enzimatiche (associate al metabolismo intermedio, ad es.: gli enzimi per la glicolisi), è attraversato
dal citoscheletro e dal sistema di endomembrane (osservabili al microscopio elettronico, ed ospita organuli,
microcorpi e ribosomi.
Il termine citosol è relativamente improprio poiché si possono distinguere stadi più liquidi (sol) e più
consisitenti (gel) talora coesistenti. Con la collaborazione del citoscheletro si realizzano correnti
citoplasmatiche, veri e propri spostamenti di massa citoplasmatica con movimenti circolari che trascinano
mitocondri, cloroplasti, ecc.

LE MEMBRANE CELLULARI. IL PLASMALEMMA


Il plasmalemma delimita il citoplasma separando l’interno citoplasmatico (definito simplasto) dalla fase
acquosa esterna (apoplasto). Poiché il plasmalemma di ogni cellula è in comunicazione con quello delle
cellule adiacenti mediante i plasmodesmi, nei tessuti si realizza un continuum simplastico. Il plasmalemma
non è una membrana “specializzata” come quella di cloroplasti e mitocondri, tuttavia ha una struttura
composita corrispondente alla struttura fondamentale comune a tutte le membrane. Tale struttura non è fissa
e passiva, ma è fluida e assolve a compiti importanti:
a) permeabilità selettiva (ingresso di molecole utili e uscita di molecole di rifiuto o in eccesso)
b) mantenimento dell’omeostasi del pH e della composizione ionica
c) ancoraggio di sistemi enzimatici per il trasporto di ioni e sostanze polari, di e-, sintesi di macromolecole,
cellulosa
d) ancoraggio del citoscheletro
e) riconoscimento e scambio di segnali chimici extracellulari
Le membrane costituiscono per le cellule un “banco di lavoro” sul quale svolgere reazioni biochimiche e
contemporaneamente una superficie di scambio per assumere ed espellere sostanze.
Il modello di membrana attualmente più accreditato è quello di “mosaico fluido” proposto da Singer e
Nicolson: le membrane sono strutture appiattite formate da proteine e lipidi, nelle quali le proteine sono
immerse nel doppio strato lipidico in una o nell’altra faccia (proteine periferiche o estrinseche) o lo
attraversano completamente (proteine integrali o intrinseche). Le proteine presenti sulla superficie esterna,
così come alcuni lipidi, possono presentare brevi catene di carboidrati (oligosaccaridi). Nella membrana si
distingue una parte idrofobica interna, compresa fra due parti idrofiliche. Sia i lipidi sia le proteine possono
muoversi nella porzione idrofobica, lungo il piano della membrana, o compiere occasionalmente migrazioni
trasversali (flip-flop) fra le superfici. Proteine e lipidi sono assemblati grazie a legami covalenti, ma diverse
proteine estrinseche sono trattenute alla superficie idrofilica dei lipidi mediante cariche ioniche.

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In media le membrane plasmatiche sono costituite da 60% di proteine e 40% di lipidi in peso; ciò significa
che, in media, per ogni molecola proteica vi sono circa 25 molecole di lipidi.
La composizione lipidica delle membrane varia da cellula a cellula e da organulo ad organulo. I fosfolipidi
sono i lipidi di membrana più abbondanti in assoluto. Essi esibiscono regioni idrofiliche (teste polari costituite
dal gruppo fosfato con carica negativa e spesso un gruppo amminico positivo) orientate verso le superfici
delle membrane e regioni idrofobiche (code costituite dalle catene di acidi grassi) rivolte all’interno. Altri lipidi
frequenti nelle membrane di cellule vegetali sono i cardiolipidi e i glicolipidi (soprattutto nei cloroplasti) e in
minore misura gli steroli; negli animali sono frequenti anche gli sfingolipidi.
La fluidità del modello dipende in parte dalla possibilità di movimento delle code idrocarburiche dei lipidi;
esse possono: ruotare attorno al proprio asse (salvo in corrispondenza di doppio legame), diffondere
all’interno del proprio strato, flettersi, ma non passare da un monostrato all’altro, se non in casi eccezionali
(flip-flop), spesso indotti artificialmente. La fluidità dipende dai tipi di acidi grassi: catene corte e doppi legami
favoriscono la fluidità; la presenza di grassi saturi o di steroli stabilizza la membrana.
E’ stato dimostrato che la composizione lipidica delle membrane è asimmetrica: i glicolipidi sono
chiaramente rivolti verso i lato esterno a contatto con l’ambiente extracellulare.
Le proteine di membrana contribuiscono maggiormente a conferire specificità alle membrane; esse sono
distinte, come detto, in estrinseche (periferiche), fortemente idrofiliche, legate debolmente alla superficie e
facilmente distaccabili con soluzioni in condizioni chimiche blande, e in intrinseche (integrali), immerse nello
strato idrofobico, separabili dalla membrana solo con detergenti o solventi organici in condizioni chimiche
drastiche. In una proteina intrinseca, la sequenza idrofobica, di contatto con la superficie della membrana
(esterna o interna), è definita dominio: la maggior parte delle proteine intrinseche è bitopica o politopica, cioè
hanno due o più domini, attraversando due o più volte le superfici, mentre solo un numero scarso è
monotopica, con un solo dominio.
Come per i glicolipidi, le glicoproteine si trovano solo sulla superficie esterna della membrana; anzi, in realtà,
la maggior parte delle proteine che si affacciano all’esterno è glicosilata, particolarmente nelle piante, dove
le membrane possono avere circa il 20% in peso di zuccheri (in forma di glicoproteine); questi zuccheri sono
rappresentati da singoli monosaccaridi (galattosio, mannosio) sino a catene di qualche centinaio di unità.
Anche le proteine possono muoversi nel modello fluido, seppure con movimenti più lenti (rispetto a quelli dei
lipidi), soprattutto per rotazione o per diffusione laterale. Inoltre l’asimmetria delle proteine è una delle
principali caratteristiche delle membrane: le proteine sono sistemate nel modello in modo peculiare. Quelle
che sporgono verso l’esterno contengono carboidrati, mentre quelle rivolte all’interno sono spesso collegate
a strutture citoplasmatiche.
Le membrane non sono statiche, ma col tempo vengono rinnovate: i singoli componenti sono degradati e
rimpiazzati con nuove molecole, identiche o diverse da quelle originarie. Alcune membrane sono più stabili
ed altre (per esempio quelle dei mitocondri) hanno un ricambio più veloce. In molti casi si hanno scambi di
fosfolipidi tra membrane o tra membrane e proteine che trasportano lipidi. La variazione della composizione
in acidi grassi del doppio strato lipidico delle membrane può avvenire come risposta rapida a cambiamenti
ambientali.
L’assemblaggio dei componenti lipidici e proteici delle membrane avviene per gran parte nel reticolo
endoplasmatico e nell’apparato di Golgi.

La presenza di una porzione idrofobica (code) rende le membrane virtualmente impermeabili al passaggio di
molecole polari o cariche ed, in generale, quanto più una molecola è piccola ed apolare (solubile in solventi
organici) tanto più velocemente diffonderà nel doppio strato. L’acqua permea molto velocemente per la sua
natura di dipolo e per il basso peso molecolare; inoltre esistono dei veri e propri “pori” (pori acquosi) che
aumentano la velocità di flusso dell’acqua attraverso le membrane.
I movimenti attraverso le membrane possono avvenire secondo tre diverse modalità:
• diffusione
• trasporto facilitato (secondo gradiente di concentrazione)
• trasporto attivo (contro gradiente di concentrazione)
La diffusione è un meccanismo passivo ed avviene nelle zone idrofile (per lo più corrispondenti a proteine
che attraversano la membrana) per le sostanze idrofile e nelle zone lipofile per le sostanze lipofile. Nel primo
caso la permeabilità dipende soprattutto dalle dimensioni delle molecole, nel secondo dalla solubilità nei
lipidi. La diffusione passiva avviene sempre dalla fase ad alta concentrazione verso quella a bassa
concentrazione (o meglio ciò è il risultato dei due flussi in senso opposto); nel caso di molecole
elettricamente neutre la diffusione cessa (ovvero i flussi nelle due direzioni si eguagliano) quando il
gradiente di concentrazione è uguale a zero. Nel caso di ioni il gradiente riguarda anche le cariche elettriche;
lo spostamento è quindi il risultato di un potenziale chimico e di un potenziale elettrico
Il trasporto facilitato e quello attivo avvengono grazie alla presenza di proteine trasportatrici (carrier =
trasportatori) specifiche (per una molecola o una classe di molecole) che aumentano (catalizzano) la velocità
di diffusione di numerose molecole, anche di grosse dimensioni (zuccheri, aminoacidi, nucleotidi). La

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specificità del trasporto è importante perché permette l’assorbimento e l’espulsione selettiva di soluti e
permette di costituire ambienti a concentrazioni ioniche diverse (segregazione di ioni) e, in definitiva, creare
potenziali elettrici transmembrana che rappresentano una forma d’accumulo di energia (pompa H+ nei
vegetali). La cinetica del trasporto facilitato è simile alla cinetica enzimatica (specificità del substrato,
saturazione del substrato, inibizione competitiva, ecc.). Il trasporto facilitato opera con gradiente di
concentrazione favorevole, è bidirezionale e non richiede energia; il trasporto attivo opera contro gradiente di
concentrazione, è unidirezionale e richiede energia.
In molti casi una molecola trasportatrice attua contemporaneamente la diffusione lungo gradiente di una
sostanza al trasporto di un’altra sostanza contro gradiente. Tale accoppiamento (che si ritrova anche per
reazioni di diverso tipo (reazione che rilascia energia + reazione che richiede energia) viene definito
“cotrasporto”. Nelle cellule animali il cotrasporto di diverse molecole (aminoacidi, glucosio, ecc.) coinvolge
soprattutto lo ione Na+, mentre in cellule vegetali sono per lo più coinvolti K+ e H+.
Nel plasmalemma e nel tonoplasto si trovano proteine che scindono l’ATP (ATPasi) trasformando l’energia
dell’ATP in un trasporto di protoni dal citoplasma all’esterno (per il plasmalemma) o nel vacuolo (per il
tonoplasto). Ciò rappresenta una vera e propria “pompa protonica” che stabilisce un gradiente elettrochimico
di protoni ∆µH+ da una parte all’altra delle membrane. Poiché il trasporto di protoni è direttamente accoppiato
al trasporto di energia di ATP, si parla di trasporto attivo primario. E’ probabile che il significato evolutivo
iniziale dell’ATPasi del plasmalemma e del tonoplasto fosse legato alla regolazione del pH. Nelle cellule
vegetali il citosol ha pH 7,5-8, mentre il succo vacuolare e l’ambiente esterno sono nettamente più acidi.
In diversi casi si assiste all’accoppiamento di un cotrasporto derivante dalla pompa protonica dell’ATPasi con
il trasporto di cationi (uniport); un esempio riguarda il cotrasporto H+-glucosio associato all’uscita di K+. Nel
caso del plasmalemma la pompa protonica, promuovendo l’uscita di H+ acidifica la parete e permette
l’allungamento cellulare (crescita acida) indotto da ormoni. Meccanismi simili alla pompa H+ATPasi si hanno
per altri cationi (K+, Na+, Ca++).
Un’altra via di trasporto attraverso le membrane sono i “canali” rappresentati per lo più da proteine integrali
(differenti dai carrier) che si aprono e si chiudono temporaneamente ed, in stato d’apertura, lasciano
diffondere ioni indirizzandoli secondo il potenziale elettrico.
Un altro sistema di attraversamento delle membrane è il trasporto di massa che riguarda soprattutto grandi
molecole o gruppi di molecole. Ciò avviene per mezzo di vescicole: nell’endocitosi, la membrana cellulare si
invagina e si richiude fondendosi attorno ad una sostanza extracellulare che viene così trasferita nel
citoplasma; nell’esocitosi una vescicola intracellulare contenente una sostanza destinata all’esterno si fonde
con il plasmalemma e rilascia la sostanza al di fuori della cellula. Nelle cellule vegetali fenomeni di esocitosi
riguardano il trasporto di materiali elaborati nel reticolo endoplasmatico e riversati all’esterno per formare la
matrice della parete cellulare.

Il plasmalemma ha anche un importante ruolo nelle interazioni tra cellule, sia dirette, sia mediate da
sostanze chimiche come gli ormoni. I meccanismi d’interazione coinvolgono i residui oligosaccaridici presenti
sulle membrane.

Durante la citodieresi, frammenti di reticolo endoplasmatico rimangono intrappolati nella piastra cellulare di
separazione fra le cellule “figlie”: da questi si originano canalicoli citoplasmatici circondati da membrane in
continuità con il plasmalemma e il reticolo endoplasmatico. Essi attraversano la parete e mettono in
comunicazione cellule adiacenti. Sono definiti plasmodesmi ed hanno la configurazione di aperture con
diametro di 20-40nm; all’interno di ciascuno di essi decorre un fascio di reticolo endoplasmatico
(desmotubulo) circondato da citoplasma (annulus). Nel momento di maggior crescita, la cellula possiede un
alto numero di plasmodesmi, al termine della differenziazione la densità dei plasmodesmi diminuisce.

IL SISTEMA DI ENDOMEMBRANE. RETICOLO ENDOPLAMATICO. APPARATO DI GOLGI. MICROCORPI.


Il sistema di endomembrane che distinguono le diverse fasi plasmatiche è costituito da: reticolo
endoplasmatico, apparato di Golgi, involucro nucleare, tonoplasto, membrane dei microcorpi (microsomi),
degli sferosomi e dei corpi proteici; involucro nucleare e tonoplasto saranno trattati rispettivamente col
nucleo e col vacuolo.
Il reticolo endoplasmatico (RE) è il più esteso sistema di membrane della cellula: esso è rappresentato da
tubuli interconnessi, costituiti da membrane che delimitano cisterne; queste hanno un diametro di circa 30
nm, mentre lo spessore delle membrane è di circa 6 nm. Il RE manifesta uno sviluppo molto esteso ed è in
continuità con l’involucro nucleare. In questo modo il lume del RE è in continuità con lo spazio fra le due
membrane nucleari. Si tratta di una struttura dinamica, con tubuli che si allungano e si accorciano e con
disposizioni spaziali che si modificano.
Si distinguono un RE ruvido, caratterizzato da ribosomi ancorati, mediante forze idrofobiche, alla superficie
esterna (citoplasmatica), ed un RE liscio, privo di ribosomi; il primo è più sviluppato nelle cellule
maggiormente impegnate nella sintesi proteica. Il RE liscio, connesso alla porzione ruvida, ha un aspetto più
vescicolare e partecipa alla sintesi dei fosfolipidi e degli steroli che formano le membrane e probabilmente di

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diversi pigmenti (è infatti abbondante nelle cellule dei petali; inoltre, da esso si distaccano le vescicole che
trasportano le proteine (sintetizzate a livello del RE ruvido) all’apparato di Golgi.
In laboratorio, la disgregazione delle cellule porta alla frammentazione del RE in vescicole, dette microsomi,
che possono essere separate dal resto ed analizzate. I due tipi di RE possono essere distinti su base
biochimica, in quanto sulle membrane del RE ruvido, privato dei ribosomi con detergenti, sono presenti
proteine peculiari, le riboforine (implicate nel legame tra ribosomi e membrane) ed una proteina di attracco,
impiegata nel riconoscimento del segnale. La composizione lipidica del RE favorisce i fosfolipidi (per gran
parte con acidi grassi insaturi), mentre scarsi o assenti sono gli steroli; per ogni molecola proteica si contano
circa 35 molecole di lipidi. Tra le oltre trenta proteine isolate dalle membrane e dal lume del RE, la maggior
parte è rappresentata da enzimi ed alcune sono stabilmente localizzate nel RE.
I ribosomi, ancorati al RE ruvido, partecipano alla sintesi di proteine che debbono essere segregate dal
citoplasma; ciò avviene con un meccanismo di “estrusione vettoriale” cotraduzionale che inserisce (“infila”) le
proteine nel lume del RE, dove vengono glicosilate (con l’aggiunta di oligosaccaridi mediante legami
covalenti). Nella maggior parte dei casi, ciò avviene secondo questa sequenza: 1) inizio della sintesi proteica
su ribosomi liberi con aminoacidi iniziali che rappresentano un segnale idrofobico, costituito da circa 20
aminoacidi, 2) interruzione della sintesi e migrazione del complesso ribosoma-mRNA-sequenza segnale
verso il RE, 3) immersione della sequenza segnale nella membrana esterna del RE e ripresa
dell’assemblaggio degli aminoacidi, 4) orientamento della catena polipeptidica con la sequenza segnale
affacciata sul lato citoplasmatico della membrana, 5) distacco della sequenza segnale da parte di enzimi
della membrana, 6) aggiunta delle catene di carboidrati alla catena in costruzione all’interno del lume del RE,
7) completamento della proteina, 8) rilascio del ribosoma e dell’mRNA e ripiegamento della proteina con
costituzione dei ponti solfuro.. In questo processo intervengono una particella di riconoscimento del segnale
(SRP) che blocca la traduzione, mantiene distesa la catena e, dopo aver legato il complesso alla proteina
d’attracco (DP), è rilasciata nel citosol, un recettore (SSR) che legatosi alla sequenza segnale, determina la
ripresa della traduzione ed, infine l’enzima segnalepeptidasi che distacca la sequenza segale dal resto della
catena. Nella parte finale, inoltre, intervengono enzimi disposti sul lato interno della membrana o nel lume
del RE che favoriscono la formazione dei ponti solfuro ed altre modificazioni. Una proteina “maturata”,
secondo le tappe illustrate, è irreversibilmente segregata nella fase acquosa ed assume una configurazione
globulare che impedisce il riattraversamento della membrana. Nel lume avviene peraltro anche la
oligomerizzazione, cioè un corretto assemblaggio delle subunità che

L’apparato di Golgi consta di un complesso di cisterne appiattite di forma discoidale (“dittiosomi” diametro
0,5-2 µm) dai bordi ingrossati, in numero variabile da 6 ad oltre 30 (nelle piante sono in media 20). Esso si
trova associato alle zone di transizione del reticolo endoplasmatico liscio. Presenta una faccia “cis”,
prossima al reticolo ed una faccia “trans” sul lato opposto, rivolto verso il plasmalemma. Le due facce hanno
caratteri diversi così che l’apparato di Golgi è polarizzato. Le cisterne sono fisiologicamente distinguibili in tre
gruppi quelle della zona cis, quelle della zona mediana e quelle della zona trans. La faccia cis riceve le
vescicole contenenti proteine, glicoproteine, polisaccaridi, ecc. sintetizzati e segregati nell’ambito del RE; tali
molecole, all’interno delle cisterne vengono modificate con l’aggiunta di oligosaccaridi, gruppi solfato, gruppi
fosfato, acidi grassi, ecc., con legame covalente. Tali azioni si esplicano in maniera specifica per ciascun
gruppo di cisterne (cis, mediana e trans) e per la destinazione finale delle sostanze modificate (lisosomi,
plasmalemma, ecc). Il trasporto delle sostanze da una cisterna all’altra avviene per mezzo di vescicole che
gemmano dai bordi delle cisterne stesse. Dalla faccia trans gemmano infine le vescicole di secrezione che si
fondono col plasmalemma per poi riversare il secreto all’esterno o che vanno a costituire i lisosomi.
Vescicole del Golgi e del RE possono inoltre unirsi in strutture, definite GERL, responsabili, secondo alcuni
autori, della costituzione del vacuolo. La funzione principale dell’apparato di Golgi è la modifica e lo
smistamento selettivo delle macromolecole sintetizzate a livello del reticolo. Lo smistamento selettivo può
avvenire grazie alla presenza di recettori specifici presenti sulle membrane delle vescicole che riconoscono il
tipo di sostanza da trasportare e la sua destinazione. Nei vegetali, l’apparato di Golgi ha un ruolo importante
nella formazione della parete, in particolare nella sintesi di protopectine, emicellulose e precursori della
cellulosa che, per esocitosi, sono riversate all’esterno del plasmalemma in modo da costituire lamella
mediana e parete primaria.

Nelle cellule vegetali, tra i microcorpi (o microsomi) si possono distinguere perossisomi (soprattutto nelle
foglie) e gliossisomi (nei semi). Nelle cellule animali si riconoscono invece lisosomi e perossisomi. I
lisosomi, pressoché sferici (con diametro di 0,2-0,8µm) e delimitati da membrana (spessore circa 10nm)
provvista di ATPasi, confinano al loro interno, separandoli dal resto della cellula, enzimi idrolitici (demolitori)
impiegati per la degradazione di proteine, polisaccaridi e acidi nucleici. Nelle cellule animali i lisosomi
rivestono un ruolo importante di difesa della cellula da agenti esterni mediante l’eterofagia, ma anche di
rinnovo costante delle componenti molecolari proprie della cellula mediante l’autofagia. Per certi aspetti
anche il vacuolo delle cellule vegetali può essere considerato un compartimento lisosomiale I perossisomi

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sono organuli sferici di piccolissime dimensioni (0,3-1,5µm), delimitati da membrana (spessore circa 7nm) ed
originati dal RE liscio. Sotto il profilo evolutivo, sono forse precursori dei mitocondri, poiché effettuano
reazioni di ossidazione. Queste portano alla formazione di H2O2, che è un potente ossidante e in quanto tale
necessita di essere segregato, ma non alla formazione di ATP. La reazione è catalizzata dalle perossidasi
ed è normalmente seguita dalla liberazione di ossigeno dall’H2O2, catalizzata dalle catalasi:
RH2 + O2 → R + H2O2 perossidasi
2 H2O2 → 2 H2O + O2 catalasi
L’azione dei perossisomi può avvenire come meccanismo di detossificazione (per esempio nei confronti di
etanolo che è ossidato ad acetaldeide negli epatociti) ed appare particolarmente esaltata in condizioni di
stress (per esempio in casi di inquinamento). Inoltre nelle piante è anche associata al fenomeno della
fotorespirazione.
L’attività dei gliossisomi si rileva solo per un breve periodo, soprattutto nei semi in fase di germinazione: essi
sono implicati nel metabolismo dei grassi ed in particolare nel ciclo dell’acido gliossilico, indispensabile tappa
della conversione degli acidi grassi a zuccheri (attraverso la formazione di acetilCoA, succinato, e PEP) da
indirizzare all’embrione.

IL CITOSCHELETRO
All’interno della maggior parte delle cellule vi è un continuo flusso citoplasmatico; questo movimento, è
mediato dal citoscheletro, una complessa struttura che riveste ruoli importanti anche nel determinare e
mantenere la forma della cellula e nell’organizzare il citoplasma. Nel citoscheletro si distinguono microtubuli,
microfilamenti e filamenti intermedi: strutture di tipo polimerico soggette a cicli di polimerizzazione e
depolimerizzazione, che rappresentano altri “banchi di lavoro”, unitamente alle endomembrane, ma anche i
“nastri trasportatori” che collegano diversi “banchi” nella “fabbrica” cellulare. Il citoscheletro appare collegato
fisicamente ad alcuni siti del plasmalemma.
I microtubuli appaiono come lunghi tubicini, che, in sezione, presentano 13 subunità (negli eucarioti). Ogni
subunità è un protofilamento, cioè una serie impilata di dimeri di tubulina (coppie di molecole di α- e β-
tubulina, una proteina del p.m. di 55.000 con caratteri costanti in tutti gli eucarioti). I diametri esterno ed
interno del microtubulo sono rispettivamente 30 e 14 nm; la lunghezza varia enormemente e nelle cellule
vegetali sono state rilevate lunghezze da 0,3 a 3,5µm, ma persino di 1 cm. Nelle cellule animali i microtubuli
si irraggiano da una zona centrale vicino al nucleo, mentre nelle cellule vegetali sono disposti alla periferia
della cellula, in prossimità del plasmalemma. Vi sono diverse sostanze endogene ed esogene capaci di
legarsi alla tubulina: la colchicina (un alcaloide estratto dalle piante di colchico), gli ioni calcio e magnesio, il
glicerolo, il nucleotide GTP, ecc. L’assemblaggio dei microtubuli avviene per aggiunta di dimeri di tubulina
(polimerizzazione) con velocità straordinarie (diversi µm al minuto) che permettono rapidi allungamenti; allo
stesso modo può avvenire il disassemblaggio (smontaggio) tramite la sottrazione di dimeri di tubulina
(depolimerizzazione) che porta all’accorciamento. Si stabilisce pertanto un rapporto:

tubulina libera nel pool solubile ℑ tubulina legata ai microtubuli


La colchicina, legandosi alla tubulina libera in corrispondenza di una delle due estremità di ciascun
microtubulo, blocca l’assemblaggio dei microtubuli e addirittura ne provoca il disassemblaggio. In molti casi
le subunità di tubulina aggiunte ad una estremità provengono soprattutto dalla depolimerizzazione dell’altra
estremità tubulina, così che il microtubulo funziona da “nastro trasportatore”. Sono stati proposti diversi
modelli che spiegano assemblaggio e disassemblaggio dei microtubuli, alcuni dei quali evidenziano il ruolo
del GTP (e del corrispondente GDP), del Ca2+ e del Mg2+; la combinazione di elevate concentrazioni di Mg2+
e basse concentrazioni di Ca2+ o la presenza di policationi, (come la polilisina e gli istoni) promuovono la
formazione dei microtubuli, così come la presenza di taxolo (un alcaloide diterpenico). Il disassemblaggio è
favorito da elevate concentrazioni di Ca2+, basse temperature, e alcaloidi come colchicina, vinblastina,
podofillotossina.
I microtubuli sono importantissimi nel trasporto sia veloce, sia lento di organuli da una zona all’altra della
cellula. Ciò può avvenire per l’esistenza di un “motore microtubulare” (proteico) che stabilisce il legame
temporaneo fra l’organulo ed uno o due microtubuli, processo catalizzato da ATPasi, ma è probabile che
esistano meccanismi diversi. I microtubuli “fissano” anche le direzioni secondo le quali avvengono i trasporti
delle vescicole provenienti dall’apparato di Golgi.
Uno dei ruoli importanti dei microtubuli è nel mantenimento della struttura cellulare; ciò può essere
evidenziato, per esempio, nel processo che porta alla differenziazione degli elementi delle trachee, dove i
microtubuli sono inizialmente disposti in modo casuale, ma finiscono per disporsi in senso perpendicolare
all’asse in corrispondenza delle fibrille di cellulosa (e della lignina) dell’elemento maturo. Nella cellula
vegetale è dimostrato che i microtubuli corticali (periferici) hanno un ruolo fondamentale nella corretta
disposizione della cellulosa nei diversi strati della parete.
Nel periodo interfasico (tra una divisione e l’altra), la cellula vegetale presenta i microtubuli con una
disposizione prevalentemente parallela, come un manicotto periferico, un poco all’interno rispetto al

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plasmalemma; nel corso della divisione essi partecipano alla costituzione del fuso mitotico e,
successivamente del fragmoplasto.
Infine, i microtubuli sono responsabili, in alcune cellule, dei movimenti di ciglia e flagelli.
I microfilamenti (1-2 µm di lunghezza e 5-7 nm di diametro) sono costituiti essenzialmente da polimeri di
actina, una proteina globulare il cui monomero ha peso molecolare di 45.000; essi sono coinvolti in funzioni
strutturali e di movimento dell’intera cellula o di parti interne ad essa (flusso citoplasmatico). Anche per i
microfilamenti si verificano fenomeni di polimerizzazione e depolimerizzazione dipendenti da ioni calcio e da
numerose proteine regolatrici con cui l’actina interagisce. I microfilamenti di actina rivestono particolare
importanza nelle cellule muscolari degli animali, ma anche nelle cellule vegetali hanno un ruolo importante
nella ciclosi, cioè nella movimentazione degli organuli e delle vescicole.
I filamenti intermedi, con diametro compreso di 7-11 nm, possono essere di vario tipo; pur essendo
presenti anche nei vegetali, sono maggiormente conosciuti quelli delle cellule animali
Il citoscheletro è completato da un reticolo microtrabecolare costituito da una rete di filamenti proteici, più
densa in periferia (reticolo citoplasmatico) e nel nucleo (reticolo e lamina nucleare).

I RIBOSOMI
I ribosomi sono particelle ribonucleoproteiche, costituite da acido ribonucleico (rRNA) e proteine, del
diametro di circa 20-25 nm. Quelli del citoplasma degli eucarioti sono più grandi e sedimentano in
centrifugazione analitica a 80 S (Svedberg), mentre quelle dei procarioti, più piccoli, si sedimentano a 70 S,
tuttavia nei mitocondri e nei cloroplasti delle cellule eucariotiche vi sono ribosomi 70S. I ribosomi sono
composti da due subunità diverse (L [large], maggiore, e S [small], minore,) assemblate. tale assemblaggio è
condizionato dalla presenza di ioni Mg2+; con basse concentrazioni di Mg2+ le due subunità si separano.
Negli eucarioti, l’unica molecola di RNA della subunità minore ha un coefficiente di sedimentazione 18S ed
ha dimensioni simili in tutti i vegetali ed animali; nella subunità maggiore ci sono tre molecole di RNA (28S,
5,8S e 5S). Le proteine ribosomiali, globulari, sono fortemente basiche, perché ricche di lisina, e sono
rappresentate in media da 33 molecole nella subunità minore e 49 in quella maggiore. I legami, di tipo
ionico, che si instaurano tra rRNA e proteine ribosomiali non sono sufficienti a neutralizzare la carica
negativa globale. I ribosomi si presentano spesso collegati fra loro, in numero variabile da due a dieci, per
mezzo del filamento di RNA messaggero, che stanno “trascrivendo”; questi ribosomi costituiscono i
poliribosomi o polisomi.
La struttura tridimensionale dei ribosomi è particolare determinante per la loro funzione. Le catene di rRNA
sono fortemente ripiegate e con numerose basi appaiate; le interazioni tra proteine e molecole di rRNA sono
fortemente specifiche (proteine che si uniscono all’rRNA della subunità minore non possono legarsi a quello
della subunità maggiore e viceversa); l’assemblaggio delle proteine e dell’rRNA avviene secondo una
sequenza determinata. La genesi dei ribosomi avviene tramite la sintesi di rRNA e il loro assemblaggio con
proteine in quella zona del nucleo definita nucleolo; i geni che codificano gli rRNA 18, 5,8 e 28 S sono
disposti in sequenza sullo stesso filamento di DNA, mentre il gene 5S è sul DNA di un altro cromosoma; tutti
questi geni sono fortemente ripetuti e costituiscono il DNA ribosomiale. Le proteine ribosomiali sono
sintetizzate nel citoplasma, assunte selettivamente nel nucleo ed indirizzate verso il nucleolo. La sintesi di
rRNA e di proteine ribosomiali avviene in misura tale che non si riscontri eccesso di una delle due categorie.
L’assemblaggio di rRNA e proteine avviene inizialmente nel nucleo; successivamente i ribosomi immaturi
sono esportati nel citoplasma dove vengono completati con l’aggiunta delle ultime proteine. Le cellule
“fabbricano” continuamente ribosomi in grandi quantità, soprattutto in rapproto alle loro esigenze
metaboliche. In qualche caso, quando è prevedibile una sintesi proteica estremamente elevata, il nucleo è in
grado di “prepararsi” amplificando selettivamente i geni ribosomiali (moltiplicando il DNA ribosomiale ed il
numero dei nucleoli).
In base alla localizzazione ed alla funzione, i ribosomi possono essere distinti in:
• ribosomi citoplasmatici che sintetizzano alcune proteine dei plastidi e dei mitocondri (non codificate dal
DNA dell’organello), proteine destinate al nucleo e ai microcorpi, proteine destinate alla superficie
interna del plasmalemma e proteine che resteranno nel citoplasma
• ribosomi legati al RE che sintetizzano proteine destinate alla secrezione, proteine di membrana, proteine
che restano nel RE, nei lisosomi e nell’apparato di Golgi
• ribosomi dei mitocondri e dei plastidi che sintetizzano proteine codificate dal DNA di questi organuli.
La funzione è in definitiva la medesima: facilitare la traduzione dell’RNA messaggero attraverso tre tappe:
inizio, traslocazione e terminazione.
L’inizio avviene con la formazione, sulla subunità minore del ribosoma, del complesso derivante dal tRNA
iniziatore col proprio aminoacido (metionina) e il corrispondente codone (AUG) sull’mRNA; a questo segue
l’associazione della subunità maggiore.
La traslocazione si realizza con il movimento del ribosoma sull’mRNA (in direzione 5’→3’) in modo da
coinvolgere il secondo codone di quest’ultimo, sul quale si dispone il corrispondente tRNA col proprio
aminoacido; segue la formazione del legame peptidico fra gli aminoacidi del primo e del secondo tRNA e il

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rilascio del primo di questi; la traslocazione si ripete con altri scorrimenti e interventi di altri tRNA sino ad un
codone di terminazione (tripletta Stop).
La terminazione avviene con il rilascio delle due subunità ribosomiali, dell’mRNA e della proteina
sintetizzata.
L’intero processo avviene con consumo di ATP e GTP e grazie all’intervento di fattori proteici, alcuni dei
quali localizzati sul ribosoma. Se, durante la traslocazione, il tRNA pervenuto al ribosoma non corrisponde al
codone in lettura al momento e non si possono stabilire legami idrogeno corretti fra le paia di basi, il tRNA
“sbagliato” fuoriesce dal ribosoma; tuttavia sono possibili errori (nei procarioti con una frequenza media di 1
su 2.500 aminoacidi). Sul ribosoma si identificano con sicurezza due siti di legame del tRNA al ribosoma:
uno per ogni tRNA che appaiandosi permettono di trasferire il legame esistente tra tRNA e aminoacido fra i
due aminoacidi della costituenda catena polipetidica. Alcuni autori identificano anche un terzo e/o un quarto
sito, con funzioni non ancora ben definite. In media, la lettura di un filamento di mRNA da parte di un
ribosoma avviene nell’arco di 1-2 minuti, tempo medio corrispondente di sintesi di una proteina.
L’attività dei ribosomi è inibita da diversi antibiotici che possono bloccare uno o più passaggi della sintesi
proteica; molti antibiotici sono specifici per i ribosomi di organismi procariotici.

IL NUCLEO
Il nucleo è considerato il centro di controllo e di organizzazione delle attività cellulari, ma in realtà il controllo
risiede negli acidi nucleici. Esso è presente in tutte le cellule eucariotiche metabolicamente attive (vive),
tranne i casi degli eritrociti maturi (globuli rossi) e degli elementi dei tubi cribrosi (nel floema); questi ultimi,
tuttavia dipendono strettamente per la sopravvivenza da cellule compagne nucleate adiacenti. Negli
eucarioti, il nucleo determina sia la sopravvivenza, sia l’attività del citoplasma specifica della cellula in cui
risiede.
La necessità del nucleo, inteso come compartimento separato dal citosol, deriva dal fatto che numerosi ioni
presenti nel citoplasma potrebbero alterare il DNA, così come diverse proteine citoplasmatiche potrebbero
legarsi al DNA modificandolo in modo irreparabile.
Nella cellula vegetale, il nucleo è localizzato di solito alla periferia, come gli altri organuli, a causa del
particolare sviluppo del vacuolo; nel caso di cellule allungate, come i peli radicali, è disposto all’estremità in
accrescimento, dove vi è maggiore esigenza di sintesi. E’ solitamente uno per cellula, ma vi sono casi di
cellule o derivati cellulari plurinucleati (le ife a dicarion, con due nuclei, dei funghi e gli apocizi e sincizi dei
tessuti laticiferi). Ha un diametro variabile da pochi µm sino a 0,6 mm.
Il nucleo è costituito da: involucro nucleare, carioplasma (nucleoplasma), cromatina, matrice nucleare, uno o
più nucleoli.
L’involucro nucleare è costituito da due membrane (ciascuna con spessore di 6,5nm) separate da uno
spazio di 10-30nm. La superficie dell’involucro rivolta verso il nucleoplasma è rivestita da uno strato proteico
fibroso più o meno denso dello spessore di circa 100nm, la lamina nucleare, probabilmente derivante da
filamenti intermedi del citoscheletro. Si suppone che tale lamina rivesta un ruolo nel “legare” la cromatina
all’involucro. La superficie della membrana esterna rivolta verso il citosol è cosparsa di ribosomi, talora in
intensa attività di sintesi. Lo spazio intermembrana (perinucleare) è in continuità col lume del reticolo
endoplasmatico ruvido; in definitiva l’involucro nucleare potrebbe essere inteso come se fosse costituito dal
RE. La continuità tra involucro nucleare e RE e tra RE di cellule adiacenti, mediante i plasmodesmi,
permette la comunicazione fra nuclei di cellule diverse e la sincronizzazione di alcuni eventi. L’involucro
nucleare è cosparso di numerose aperture, i pori nucleari; essi hanno una densità variabile, ma in media
occupano circa il 5% della superficie. La struttura dei pori è complessa; il bordo (anello) è rialzato e presenta
8 “granuli del complesso del poro”; questi si collegano ad un granulo centrale tramite una spicola o filamento
radiale; i granuli sono costituiti essenzialmente da RNA ed il granulo centrale potrebbe rappresentare RNA o
particelle ribonucleoproteiche nell’atto di uscire dal nucleo. Il diametro esterno di ciascun poro è di circa 100
nm. L’involucro nucleare si dissolve durante la mitosi.
Il nucleoplasma contiene DNA, proteine e RNA in rapporto di massa 1:3:0,5. Il DNA è il principale
costituente della cromatina, la quale deriva il proprio nome dall’intensa colorabilità con coloranti specifici per
gli acidi nucleici. Nella cromatina, il DNA è associato ad istoni, proteine basiche, ricche di lisina o arginina,
con carica positiva, che “tamponano” l’acidità del DNA stesso. Altre proteine non istoniche sono presenti nel
nucleoplasma ed alcune di esse hanno il compito di “compattare” il DNA. Nella maggior parte dei casi, la
lunghezza notevole del DNA porta alla necessità di un suo compattamento all’interno del nucleo: ciò viene
attuato grazie alla particolare configurazione della cromatina. Se isolata e distesa, la cromatina presenta
granuli collegati fra loro da un sottile filo: i granuli, definiti nucleosomi. I nucleosomi costituiscono il primo
stadio di compattamento del DNA: ognuno di essi è costituito da 4 coppie di istoni diversi sulle quali è
avvolto il DNA (come un filo su un rocchetto) ed è collegato, a distanza costante, ad un altro nucleosoma
tramite un tratto di DNA (DNAlinker), offrendo un aspetto simile ad una “collana di perle”. Il DNA è associato
agli istoni elettrostaticamente come un polianione ad un policatione. La configurazione del nucleosoma
ostacola la trascrizione del tratto di DNA interessato, pertanto dal nucleosoma si scioglie di volta in volta, per
un breve momento, quel tratto di DNA interessato alla trascrizione. Lo spessore del filamento o fibrilla di

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cromatina distesa è di circa 11 nm, ma nel ciclo cellulare si susseguono avvenimenti che portano ad un
maggior compattamento della cromatina sino ad arrivare alla formazione dei cromosomi metafasici (che
rappresentano la forma di trasporto della cromatina): i nucleosomi si addensano così che lo spessore
raggiunge i 30 nm, poi i filamenti di DNA ed istoni si ripiegano e si avvolgono più volte passando a stadi di
spessore progressivamente maggiore (300, 700 ed infine 1400 nm). I cromosomi appaiono come strutture a
bastoncello, nelle quali si distinguono i cromatidi appaiati, i bracci, il centromero ed eventuali satelliti.
La matrice nucleare è rappresentata da un reticolo di fibrille, una intelaiatura che mantiene la forma del
nucleo; essa contiene circa il 20% delle proteine nucleari, ma non gli istoni. Alla matrice nucleare è attaccato
gran parte del DNA nucleare, che è normalmente organizzato in anse (loops) durante la trascrizione. La
matrice nucleare ha pertanto un ruolo importante nella regolazione della trascrizione, e della replicazione,
esercitato, forse, attraverso particolari siti di collegamento col DNA (MARS).
Il nucleolo è la massima espressione dell’organizzazione del nucleo; si tratta di un dominio specializzato,
non delimitato da membrana, ma strutturalmente distinto dal resto del nucleo, associato ad una regione
specifica dei cromosomi (organizzatore nucleolare) comprendente le sequenze di DNA che codificano gli
rRNA. Ogni nucleolo ha un diametro di 0,5-4 µm; in ogni nucleo vi possono essere uno o più nucleoli ed il
volume totale dei nucleoli è spesso maggiore nelle cellule con maggiore attività di sintesi proteica. Durante le
fasi della mitosi, il nucleolo non è visibile. Spesso i nucleoli sono disposti in prossimità dell’involucro
nucleare, una posizione strategica per facilitare il passaggio nel citosol delle particelle ribonucleoproteiche.
Nel nucleolo si distingue una componente granulare con particelle di 15-20 nm e una componente fibrillare;
si suppone anche che il nucleolo sia provvisto di uno scheletro d’ancoraggio costituito da proteine residenti
(non ribosomiali). La composizione del nucleolo è fortemente proteica da 75 a 90%. Al microscopio
elettronico si osservano fibre brevi attaccate a fibre lunghe con una disposizione simile a “scovolini” che
rappresentano rispettivamente filamenti di rRNA attaccati al tratto “ribosomiale” del DNA.

GLI ORGANULI
Gli organuli sono compartimenti cellulari delimitati da membrane singole o doppie, che separano le diverse
fasi plasmatiche;
a) essi permettono di confinare reazioni chimiche che avvengono contemporaneamente alle reazioni
(anche antagoniste) svolte nel citosol,
b) aumentano la superficie delle membrane specializzate (per esempio per il trasporto di e- e segregazione
di H+ nei mitocondri e nei cloroplasti) costituendo un indubbio vantaggio (rispetto al rapporto
volume/superficie di scambio).
Gli organuli principali sono mitocondri e plastidi.

I MITOCONDRI
I mitocondri hanno una forma variabile, da allungata a quasi sferica, di 0,5-1 x 1-4 µm, delimitati da due
membrane che evidenziano tra loro uno spazio intermembrana, e circondano una camera interna occupata
dalla matrice mitocondriale. Le due membrane hanno costituzione e permeabilità selettiva differente. Quella
esterna presenta lipidi insaturi ed è relativamente rigida; ha proteine che formano pori acquosi, liberamente
permeabili da piccole molecole (<10kDa), ed enzimi che agiscono su substrati lipidici ricavandone forme da
destinare alla matrice. La membrana interna, particolarmente ricca di cardiolipina, ha una superficie
enormemente sviluppata grazie alla presenza di estroflessioni rivolte verso la matrice, le creste mitocondriali
(in alcune specie tubuli); la presenza di grassi insaturi la rende più fluida e le permette di partecipare a cicli
di espansione e contrazione. Essa è altamente selettiva, è impermeabile alla maggior parte degli ioni più
piccoli e non può essere attraversata da molecole se non grazie a proteine specifiche di trasporto; presenta
le ATPasi, sporgenti verso la matrice, che “pompano ioni H+, ed i trasportatori di elettroni che attuano la
fosforilazione ossidativa (ultima tappa della respirazione). Lo spessore di ogni membrana è 10 nm, quello
dello spazio intermembrana, occupato da fluido simile al citosol, è di 8 nm. Nella matrice mitocondriale si
ritrova una miscela di numerosi enzimi, che effettuano l’ossidazione del piruvato, il ciclo dell’acido citrico,
tappa intermedia della respirazione, partecipano alla degradazione degli acidi grassi; inoltre sono presenti
ribosomi 70S, tRNA, diverse copie di DNA circolare che codifica parte delle proteine utilizzate dai mitocondri.
I mitocondri sono più numerosi nelle cellule con intenso lavoro metabolico; sono parzialmente autonomi ed
in grado di dividersi per scissione. Essi modificano regolarmente la propria forma e si muovono all’interno
della cellula. Durante la riproduzione, nella maggior parte dei casi, essi sono trasmessi alla prole per via
materna.
Alcuni caratteri dei mitocondri (doppia membrana, ribosomi 70S, DNA circolare, duplicazione per scissione)
portano ad un collegamento evolutivo con le cellule procariotiche e depongono a favore di una ipotetica
antica origine simbiontica, tuttavia esistono anche evidenze a sfavore di questa ipotesi (presenza di introni
nel DNA

PLASTIDI

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I plastidi sono organuli esclusivi della cellula vegetale, con una zona centrale (stroma) delimitata da doppia
membrana, specializzati in funzioni differenti, situati nel citoplasma; i plastidi maggiormente specializzati
sono i cloroplasti. Questi hanno caratteri comuni con i mitocondri (doppia membrana, sviluppo eccezionale
della superficie interna di membrana, ribosomi 70S, DNA e RNA, capacità di dividersi per scissione e di
essere trasmessi al momento della divisione) e pure per essi è stata ipotizzata un’origine simbiontica.
Esistono diversi tipi di plastidi per forma e funzioni, tuttavia essi derivano tutti dai proplastidi e in differenti
condizioni possono modificarsi da un tipo all’altro. Essi possono essere classificati nel modo seguente:

• proplastidi (plastidi immaturi)

• plastidi pigmentati
• fotosintetizzanti
• cloroplasti
• rodoplasti
• feoplasti
• non fotosintetizzanti
• cromoplasti
• plastidi non pigmentati (leucoplasti)
• amiloplasti
• elaioplasti
• proteoplasti

• ezioplasti (plastidi anomali)

Esistono rapporti strettissimi fra i diversi tipi di plastidi; tutti possono formare pigmenti ed amido. Le
modificazioni da una classe all’altra sono determinate da fattori genetici, da fattori ambientali (in particolare
presenza o meno di luce, disponibilità di sali), da variazioni interne all’organismo (maturazione dei frutti,
caduta delle foglie, ecc.). Il tipo di plastidio è collegato anche alla localizzazione nell’ambito della pianta: in
parti superficiali esposte alla luce (foglie) prevalgono i cloroplasti, in parti più interne (radici, fusto)
prevalgono gli amiloplasti. L’insieme dei plastidi di una pianta è definito plastidioma.
I proplastidi sono piccoli organuli scarsamente differenziati di 0,5-1 µm, presenti nelle cellule
meristematiche; rappresentano i precursori di tutti i plastidi. Sono già presenti nei gameti, ma in particolare,
nelle piante più evolute con gameti maschili ridotti, sono trasmessi solo dai gameti femminili, che hanno
dimensioni atte a contenerli. Lo stroma è privo di strutture lamellari, contengono protoclorofilla (precursore
della clorofilla), DNA, RNA e ribosomi 70S; sono in grado di svolgere la sintesi proteica necessaria ad
evolvere nei plastidi più evoluti.

I cloroplasti sono specializzati per la fotosintesi; forma, dimensioni e numero sono molto variabili a seconda
del gruppo sistematico. Le alghe verdi ne hanno pochi o addirittura uno solo per cellula, il tessuto a palizzata
delle piante superiori anche un centinaio. Nei vegetali inferiori, quando il cloroplasto è unico, esso è
particolarmente grande (100 µm); nelle piante superiori la media è 2-3 x 4-6 µm. Forma e dimensioni sono
pressoché costanti ed ereditarie; nelle cellule poliploidi i cloroplasti hanno dimensioni maggiori. Il numero dei
cloroplasti in una pianta è notevole; per esempio è stato calcolato che in una foglia di ricino sono presenti
circa 400.000 cloroplasti per mm3. La forma dei cloroplasti nelle alghe può variare da quella a stella, a
coppa, a spirale, a nastro, a reticolo, ecc.; nelle piante superiori è a disco o lenticolare. La localizzazione
all’interno della cellula non è casuale: sono per lo più addossati alla parete nei punti dove vi sono spazi
intercellulari che facilitano scambi gassosi; correnti citoplasmatiche movimentano i cloroplasti che possono
essere orientati rispetto alla fonte di luce, grazie al citoscheletro.
La struttura dei cloroplasti è complessa: la duplice membrana, che forma uno spazio intermembrana di circa
3 nm, circonda lo stroma particolarmente ricco d’enzimi, nel quale si evidenzia un sistema lamellare
costituito da membrane, chiamate tilacoidi. La membrana esterna ha una componente lipidica maggiore ed è
relativamente permeabile, mentre quella interna svolge un particolare ruolo selettivo e presenta proteine di
trasporto; le due membrane sono tra le più ricche di lipidi in assoluto ed in particolare abbondano di
glicolipidi. Questo involucro esterno dei cloroplasti presenta anche enzimi, come la nitrato reduttasi che
partecipazione al metabolismo dell’azoto.
Lo stroma ha aspetto granulare, con granuli di amido primario, plastoglobuli (goccioline lipidiche), enzimi
deputati allo svolgimento della fase oscura della fotosintesi (ma anche per la sintesi di acidi grassi, acidi
nucleici, riduzione del solfato, ecc.), DNA, RNA, ribosomi 70S.
Il sistema lamellare è probabilmente derivato dalla membrana interna per invaginazioni che hanno dato
origine a sacculi o cisterne chiuse appiattite, i tilacoidi, in parte impilate le une sulle altre; le pile di cisterne o
sacculi sono definite grana (ogni pila è un granum), sono formate da tilacoidi granari e collegate fra loro da

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tilacoidi intergrana o stromatici. Ogni granum è costituito da 2 a 200 tilacoidi impilati ed ha un diametro di
0,3-1 µm, ma si tratta di un sistema dinamico con variazioni continue di formazione e disaggregazione dei
grana. Esistono alcune eccezioni (certe piante tropicali C4) nelle quali mancano i grana. Le membrane
tilacoidali amplificano enormemente la superficie di scambio e delimitano uno spazio interno, il lumen
tilacoidale o spazio intratilacoidale. Esse partecipano alla fase luminosa e sono fortemente specializzate,
con il 50% di lipidi (per la maggior parte glicolipidi insaturi) e 50% di proteine. Le membrane tilacoidali sono
configurate in un modo peculiare: le porzioni intergrana presentano ATPasi che esporta H+ dal lumen (con
pH5) allo stroma (con pH 8), pigmenti accessori, il complesso proteico del fotosistema I con clorofilla a e la
catena di trasporto del citocromo b6f, mentre sulle porzioni granari sono localizzati pigmenti accessori e il
complesso proteico del fotosistema II con clorofilla a. La disposizione delle molecole proteiche e dei pigmenti
sulle membrane è visibili con tecniche di criodecappaggio. I pigmenti sono rappresentati prevalentemente da
clorofilla a (75%), clorofilla b (25%), carotenoidi e derivati (xantofille, luteina); nelle alghe rosse i rodoplasti
(corrispondenti dei cloroplasti) hanno clorofilla a, clorofilla d, carotenoidi e ficoeritrina; nelle alghe brune i
feoplasti contengono clorofilla a, clorofilla c e fucoxantina.

Gli amiloplasti sono i leucoplasti più diffusi. Localizzati nei tessuti profondi (soprattutto in parenchimi di
riserva), non presentano pigmenti, ma amido secondario derivante dagli zuccheri solubili allontanati dai
luoghi di fotosintesi verso luoghi di deposito. Hanno l’aspetto di granuli, nei quali l’amido è cristallizzato
attorno ad uno o più punti di accrescimento (ilo). La forma dei granuli è una caratteristica costante per ogni
specie e rappresenta un carattere di importanza merceologica per il riconoscimento di farine o altri derivati
vegetali. Si distinguono amiloplasti semplici e composti (aggregati di granuli più piccoli); alcuni, come quelli
della patata, si presentano con una struttura sferocristallina, con tanti “aghi” d’amido disposti in senso
radiale, in zone concentriche d’accrescimento (discontinuità nelle fasi d’accumulo), attorno all’ilo. Al
microscopio, con luce polarizzata, gli amiloplasti offrono un’immagine con una tipica croce di malta nera. Gli
amiloplasti con il loro contenuto glucidico rappresentano la maggior fonte alimentare dell’uomo.
Un ruolo particolare è rivestito dagli amiloplasti presenti nella cuffia radicale, all’interno di vescicole chiamate
statoliti; questi sedimentando, per il loro peso, alla base delle cellule permettono alla pianta la percezione
della gravità e il conseguente geotropismo positivo della radice.
Gli amiloplasti in condizioni di luce possono modificarsi in cloroplasti; un esempio è l’inverdimento dei tuberi
di patata.

Gli elaioplasti si differenziano per il contenuto lipidico e sono particolarmente abbondanti nei parenchimi dei
frutti di alcune specie oleifere.
I proteoplasti o granuli di aleurone o corpi proteici (protein bodies) sono incolori e contengono proteine per
lo più cristallizzate; essi presentano all’interno o sulla superficie di una massa proteica una o più piccole
masse differenziate di forma poliedrica (cristalloidi) o arrotondata (globoidi). In corrispondenza di questi si
ritrovano sali dell’acido fitico particolarmente ricchi di elementi nutritivi inorganici. Essi sono localizzati
maggiormente nei tessuti di riserva dei semi; la membrana che li riveste deriva dal tonoplasto; in seguito alla
germinazione le loro riserve vengono utilizzate e destinate all’embrione.
I cromoplasti sono plastidi pigmentati ricchi di carotenoidi con funzione prevalentemente vessillifera nei fiori
e nei frutti (per l’attrazione di pronubi atti alla impollinazione e alla dispersione) o con funzioni non del tutto
note in altri organi (per esempio nelle carote). La presenza di cromoplasti nei vegetali di interesse alimentare
ha assunto particolare rilevanza negli ultimi anni per la funzione antiossidante di molti pigmenti. Hanno forma
tendenzialmente sferoidale o allungata o ricalcante la l’aspetto cristallizzato dei pigmenti. Presentano inoltre
uno stroma con vescicole e lamelle o tubuli scarsamente organizzati, che in diversi casi derivano dalla
disgregazione dei tilacoidi dei cloroplasti, dei quali i cromoplasti possono rappresentare lo stadio senescente
(per esempio all’inizio della stagione sfavorevole); anche la componente lipidica è elevata e può derivare
anch’essa dalla disgregazione delle membrane.

Gli ezioplasti sono plastidi anomali che si ritrovano quando la differenziazione da proplastidi a cloroplasti è
interrotta per sopravvenuta mancanza di luce. Si tratta di un processo, definito eziolamento, presnte in
natura in alcuni embrioni, ma che può anche essere indotto artificialmente per vantaggi commerciali, dal
momento che alcune piante eziolate presentano caratteristiche organolettiche pregiate (per esempio nei
cardi, sedani, finocchi, lattughe). Il fenomeno può essere interrotto allorché è disponibile nuovamente la luce;
in questo caso dagli ezioplasti si riprende il differenziamento verso i cloroplasti. Gli ezioplasti sono
caratterizzati da corpi prolamellari, tubuliformi semicristallini ( con celle disposte in reticolo cubico o
esagonale) che originano i tilacoidi alla ripresa della luce. Negli ezioplasti è bloccata la trasformazione da
protoclorofilla a clorofilla (la prima manca di 2 atomi di H nell’anello porifirinico) perché la riduzione con
acquisizione dell’H mancante è l’unica tappa di sintesi della clorofilla che necessita di luce. In alcuni
ezioplasti si ritrovano accumuli di fitoferritina con funzioni di riserva di ferro. In alcune specie gli ezioplasti si
formano nel giro di pochi minuti dall’arresto della disponibilità di luce, mentre in altre occorrono giorni.

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proplastidi
cloroplasti
cromoplasti
buio

ezioplasti amilopasti

LA PARETE
La parete cellulare negli eucarioti è esclusiva di funghi e vegetali; solo alcune alghe flagellate, i mixomiceti
ed i gameti e le zoospore di molte alghe e funghi ne sono privi. I costituenti chimici della parete sono
sintetizzati nel citoplasma e trasferiti all’esterno del plasmalemma: la parete rappresenta perciò un prodotto
del citoplasma e non una parte di esso. Essa viene definita anche come matrice extracellulare, al pari di
strati esterni della cellula animale costituiti da collagene, elastina, fibrillina, proteoglicani, ecc., ma differisce
enormemente da questi nella composizione chimica, nella struttura e nelle funzioni.
Le funzioni della parete sono essenzialmente:
• morfogenetica (strutturale) in quanto costituisce uno scheletro rigido dei vegetali,
• protettiva, come barriera difensiva nei confronti di agenti esterni
• limitazione dell’espansione cellulare e contributo al mantenimento del turgore cellulare (esercitando una
resistenza alla pressione esercitata verso l’esterno dal vacuolo)
• riserva di carboidrati
• assorbimento selettivo e attività enzimatiche (funzioni ancora poco conosciute e non del tutto accertate)
Il modello generale della parete comprende, dall’esterno verso l’interno della cellula diversi strati:
• lamella mediana
• parete primaria
• parete secondaria

La genesi della parete inizia ancora quando una cellula non ha completato la citodieresi (ultima tappa della
divisione); pertanto i costituenti iniziali della parete derivano dalla sintesi o dal riutilizzo di sostanze presenti
nella cellula madre, quando ancora le cellule figlie non sono completamente distinte. queste sostanze,
elaborate dall’apparato del Golgi, vengono convogliate in vescicole, grazie al citoscheletro verso il setto
divisorio del fragmoplasto.
La lamella mediana inizia a formarsi nell’anafase con la costituzione del fragmoplasto ed è costituita
prevalentemente da pectine, cioè da lunghe catene di acido poligalatturonico con corte catene laterali
formate prevalentemente da zucheri quali ramnosio, galattosio, arabinosio. Legami ionici determinano una
configurazione di fitta rete tridimensionale; si tratta di legami deboli che permettono facilmente modificazioni
della struttura, così che la lamella mediana ha un aspetto di gel plastico, amorfo, con forte potere
“cementante”. La lamella mediana è costituita anche da emicellulose e glicoproteine. Tutti i costituenti,
provenendo dall’apparato di Golgi si depositano sul fragmoplasto dalla zona centrale di questo verso la
periferia con direzione centrifuga. Lo spessore della lamella mediana è di 0,1µm (ma varia molto in
dipendenza del suo grado di rigonfiamento); essa costituisce una strato comune fra due cellule adiacenti,
tenendole fortemente unite, ma non rappresenta un isolamento totale per ciascuna cellula poiché presenta
soluzioni d continuità di circa 1µm, attraverso le quali passano i plasmodesmi. Queste discontinuità,
punteggiature, si formano a causa dell’ingabbiamento, nella placca cellulare (derivante dal fragmolasto
ispessito), di microtubuli e tratti del RE. La degradazione della lamella mediana isola le cellule le une dalle
altre, disgregando i tessuti: ciò è quanto avviene durante la maturazione di certi frutti. Negli ultimi anni alla
lamella mediana è stato attribuito anche un ruolo metabolico.
La parete primaria ha uno spessore di 0,1-3µm ed è costituita per 10-15% di cellulosa, 20% di pectine,
emicellulose e glicoproteine, 5% di lipidi ed enzimi; il resto (circa 60%) è acqua. Nei funghi la cellulosa è
sostituita dalla micosina. La costituzione della parete primaria inizia a carico della cellula madre ed è
completata dalle cellule figlie; i suoi componenti, provenendo dall’apparato di Golgi si depositano sulla
placca cellulare dalla periferia verso la zona centrale (direzione centripeta). Le fibrille di cellulosa hanno una
tessitura dispersa e si associano fra loro in modo reversibile legandosi nei siti di incrocio (punti di aderenza)
probabilmente grazie a proteine di parete. L’integrità e la stabilità della parete è mantenuta da ioni calcio e
da un corretto pH. L’aumento dei protoni provoca l’acidificazione della parete e permette la distensione della
parete stessa. Anche la parete primaria presenta soluzioni di continuità, punteggiature, in corrispondenza di
quelle della lamella mediana.

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Lamella mediana e parete primaria sono presenti in tutte le cellule vegetali, la parete secondaria si forma
solo dopo che è cessato l’accrescimento cellulare in cellule differenziate, come strato più interno. La
funzione principale della parete secondaria è soprattutto meccanica ed è particolarmente sviluppata nelle
cellule dei tessuti di sostegno e di conduzione. Essa ha uno spessore >4-5 µm ed è costituita
essenzialmente di cellulosa disposta in modo compatto con tessitura parallela in tre strati (S1, S2, S3);
l’orientamento delle fibrille di cellulosa di ciascun strato è perpendicolare a quello nello strato adiacente. In
tale orientamento sono coinvolti i microtubuli. Soluzioni di continuità della parete secondaria completano le
punteggiature in corrispondenza delle discontinuità degli altri strati della parete. Ogni punteggiatura può
presentare più porocanali, che rappresentano le vie di passaggio dei plasmodesmi e permettono la
continuità del simplasto. Si distinguono punteggiature semplici e punteggiature areolate: in queste ultime la
parete secondaria costituisce un bordo anulare ispessito e rialzato. In queste punteggiature, particolarmente
diffuse nelle tracheidi delle gimnosperme, la porzione centrale dell’apertura (poro) è parzialmente occupata
da un ispessimento lenticolare che può funzionare da valvola.

La parete primaria si accresce per distensione permettendo l’accrescimento della cellula, mentre la parete
secondaria si accresce nel senso dello spessore rinforzando la struttura dell’intera cellula e nel complesso
dell’intero organismo. Ciò si verifica per l’apporto di nuove fibrille di cellulosa; precursori della cellulosa sono
probabilmente sintetizzati nell’apparato di Golgi ed esportati in vescicole all’esterno (per esocitosi), ma il
completamento della molecola avviene nella parete stessa con meccanismi non chiariti.
Il modello comune di parete conferisce elevata resistenza, ma anche flessibilità, tuttavia molte cellule
necessitano di maggiore rigidità o impermeabilità; in questi casi la parete può subire modificazioni. Queste
sono realizzate secondo due meccanismi alternativi: impregnazione (deposito di sostanze negli spazi tra le
fibrille di cellulosa) ed incrostazione (deposito di sostanze tra gli strati di cellulosa).
Le principali modificazioni della parete sono:
• lignificazione (deposito di lignina per impregnazione a partire dalla lamella mediana verso la parete
primaria e secondaria)
• suberificazione (deposito di suberina per incrostazione, soprattutto nella parete secondaria, che
favorisce la difesa e l’impermeabilizzazione)
• cutinizzazione (deposito di cutina, per impregnazione e/o per incrostazione, che favorisce la difesa e
l’impermeabilizzazione)
• cerificazione (deposito di cere, frequentemente associate alla cutina, come nel caso della pruina sugli
acini d’uva o della sporopollenina nel polline)
• mineralizzazione (deposito di silice, carbonato di calcio, ossalato di calcio, o altri minerali per
impregnazione e/o incrostazione)
• gelificazione (deposito per incrostazione di mucillagini e/o gomme, altamente idrofile che possono
facilitare una funzione di adsorbimento e riserva idrica della parete; frequenti in piante adattate ad
ambienti aridi e in semi)
• pigmentazione (deposito di pigmenti diversi).
Le modificazioni interessano soprattutto la parete secondaria nel caso d’incrostazione, ma anche lamella
mediana e parete primaria, soprattutto nel caso di impregnazione.
Molte di queste modificazione, se estese a tutta la parete, portano alla morte della cellula, che tuttavia,
proprio con la parete permanente dopo la morte, continua a svolgere la sua funzione: è il caso del sughero,
del legno, dello sclerenchima.

IL VACUOLO
Il vacuolo non è un vero e proprio organulo, ma un compartimento della cellula vegetale, rappresentato da
una cisterna tondeggiante ripiena di un succo vacuolare e delimitata da una membrana, chiamata
tonoplasto. Nelle cellule giovani i vacuoli sono piccoli e numerosi, mentre nel corso del differenziamento il
numero diminuisce e nella cellula adulta vi è, nella maggior parte dei casi, un unico grosso vacuolo, che
occupa 80-90% del volume cellulare. Il complesso dei vacuoli costituisce il vacuoma.
Le ipotesi sulla genesi del vacuolo sono diverse: dalla semplice idratazione di zone del citoplasma alla
degenerazione di organuli, ad invaginazioni del plasmalemma. Le ipotesi più accreditate attualmente sono
due e consistono (1) nell’ingrandimento e successivo distacco di vescicole del reticolo endoplasmatico o
dell’apparato di Golgi, (2) nella formazione ed evoluzione di strutture particolari, chiamate GERL (Golgi-
Endoplasmic Reticulum Layer), derivanti dalla fusione di RE e apparato di Golgi. Dai GERL deriverebbero
provacuoli che ingabbiandosi, avvolgerebbero porzioni di citoplasma; successivamente si formerebbe un
vacuolo lisosomiale nel quale la membrana interna e il citoplasma ingabbiato sarebbero digeriti; infine i
piccoli vacuoli derivati si fonderebbero fra loro. Nei semi esiste una relazione tra vacuolo e corpi proteici;
pare che la smobilitazione delle riserve proteiche porti all’utilizzo delle membrane dei corpi proteici per la
formazione del vacuolo, mentre, al contrario, durante la formazione del seme, il vacuolo si suddivide in
numerosi corpi proteici.

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Le funzioni del vacuolo sono molteplici:
ridurre il volume metabolicamente attivo rendendo più favorevole alla vita della cellula il rapporto
superficie/volume.
• risolvere il problema della estrusione di metaboliti
• segregare prodotti secondari o di rifiuto
• risolvere problemi meccanici, contribuendo al turgore cellulare
• accantonare sostanze di riserva e nutrienti
Il contributo del vacuolo al turgore cellulare deriva principalmente dalle proprietà osmotiche delle sostanze
contenute nel succo vacuolare che richiamando acqua favoriscono un aumento della pressione rivolta verso
l’esterno, bilanciata dalla resistenza opposta dalla parete. Nel caso in cui la soluzione esterna alla cellula
abbia concentrazioni di soluti maggiori di quelle del vacuolo (ambiente ipertonico), l’acqua, anziché entrare,
esce. Ciò provoca la diminuzione della pressione di turgore esercitata verso l’esterno, il collassamento del
vacuolo e il distacco del citoplasma dalla parete: questo fenomeno si chiama plasmolisi ed entro certi limiti
può essere reversibile (appassimento), ma oltre una soglia è irreversibile (avvizzimento) e porta alla morte
della cellula. La variazione delle condizioni di turgore, determinate dal tenore idrico del vacuolo, è importante
anche in diversi movimenti delle foglie e nella regolazione degli stomi.
La presenza di enzimi idrolitici nel vacuolo permette la decomposizione di macromolecole garantendo il
turnover continuo dei componenti cellulari.
L’accumulo dei prodotti di riserva nel vacuolo è generalmente reversibile e spesso si alternano fasi di
accumulo e fasi di utilizzo.
Il tonoplasto presenta la struttura lipoproteica tipica delle membrane, con una ATPasi che pompa protoni
nella fase acquosa del vacuolo e determina l’abbassamento del pH del succo vacuolare intorno a 4-5.
Il succo vacuolare varia nella sua composizione in modo considerevole, in rapporto alla specie, al tipo di
cellula e della sua localizzazione ed in base allo stadio di sviluppo e al momento rispetto al ritmo circadiano
della pianta.
Le sostanze in esso contenute possono essere suddivise in tre categorie:
a) inclusi idrofili
• acidi organici (es.:, acido citrico, acido malico; che conferiscono il sapore acido)
• sali minerali (per lo più dissociati in ioni; es.: cloruri, solfati, fosfati, nitrati di Na, K, Ca, Mg)
• glucidi (es.: fruttosio in diversi frutti, glucosio nell’uva, saccarosio nella barbabietola e nella canna da
zucchero, ecc.)
• aminoacidi (soprattutto asparagina e glutammina)
• alcaloidi (con funzione di difesa contro erbirvori o parassiti, rifiuto o riserva di azoto; es.: caffeina,
nicotina, atropina, papaverina, ecc.)
• glucosidi (es.: digitossina)
• tannini (derivati dall’acido gallico o della pirocatechina, con funzione antiputrefattiva, di difesa contro
attacchi da microrganismi)
• pigmenti antocianici e flavonici (che conferiscono colore ai fiori e alle foglie)
b) inclusi idrofobi
• lipidi (trigliceridi soprattutto, come in molti semi e frutti)
• oli essenziali (derivati isoprenici, molto volatili, con funzioni diverse)
• resine, balsami e latici (soluzioni oleose varie di prodotti terpenici, soprattutto con funzione
antiputrefattiva e di difesa)
c) inclusi insolubili
• ossalato di calcio (in forma cristallina con cristalli isodiametrici –druse- o aghiformi –rafidi-,
probabilmente rappresentano un mezzo per precipitare l’acido ossalico, inibitore di diversi complessi
enzimatici)
• silice (per esempio in alcune graminacee, in aggiunta alla silice che mineralizza la parete)
• gesso (solfato di calcio idrato, per esempio in alcune alghe)
• aleurone (corpi con matrice proteica e una massa cristallina –cristalloide- ed una o più particelle
globose –globoidi- contenenti fitina, cioè derivato dell’acido fitico salificato contemporaneamente con
fosforo, calcio e magnesio)

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