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JEAN PIERRE VERNANT. SENZA FRONTIERA.

MEMORIA, MITO E POLITICA,


RAFFAELLO CORTINA, 2005

Attraversare le frontiere, valicare i confini che la storia traccia fra le sue epoche, sfilarli via per
ricucire, con il filo della memoria, il tempo e ciò che esso con sé porta, è in questa prospettiva che
deve porsi e che concretamente si pone l’io: esso è un ponte gettato fra tempi lontani, fra luoghi
diversi e diversi contesti storici.

L’io è sintesi, si staglia in un sistema continuo, non discreto, come superficialmente si tenderebbe a
credere; esso è figlio del passato, padre del futuro. Esso è presente.

Ce lo ricorda Jean Pierre Vernant nella sua ultima opera, Senza frontiere. Memoria, mito e politica:
le frontiere appunto, come accennato, quelle che separano ciò che è stato da ciò che è; quelle che
vanno oltrepassate, come suggerisce il titolo, ma mai cancellate.

Potrebbe sembrare una contraddizione in termini (viaggiare senza frontiere per rimarcare i vari
confini), ma in realtà è la condizione imprescindibile per il lavoro dello storico: “Lo storico prende
quindi le distanze, si allontana dal suo argomento, tra il presente in cui vive e il passato che studia,
ammette che ci sia una frattura, uno stacco, un confine. […] Nel suo lavoro di ricerca
deve necessariamente [corsivo mio] varcare i confini in entrambi i sensi, in un continuo andirivieni
che egli si sforza di controllare, dal presente al passato, dal passato al presente, per rendere ognuno
dei due più comprensibile per mezzo dell’altro, nei loro contrasti e nelle loro affinità. Questo
attraversamento delle frontiere non pretende di cancellarle; al contrario, le rafforza, in quanto
riconosce in esse la condizione principale, per lo storico, del suo indispensabile distacco.” (pag. 47)

E’ chiaro, in questo passo, il riferimento alla “prospettiva storica”, all’importanza che essa riveste
nell’ambito di una ricerca che voglia definirsi scientifica, la quale si muove sul terreno minato della
memoria: una memoria che viene da Vernant problematizzata, classificata nelle sue diverse
tipologie, analizzata nel suo rapporto con la questione dell’identità, nel suo ruolo culturale
all’interno della società greca, interrogata nel tentativo di chiarire la natura del legame tra ricordi
personali e lavoro di ricerca, quanto i primi abbiano influenzato gli indirizzi del secondo.

In Vernant piano della ricerca e piano della partecipazione personale, come sottolinea puntualmente
Guido Guidorizzi nella prefazione all’edizione italiana, non sono separati, “il mito è vissuto nella
pelle e nella carne e non fruito solo intellettualmente” (pag. XVI): Vernant, quindi, non sceglie a
caso il proprio ambito di ricerca, la Grecia antica; non a caso per comprenderne meglio valori e
significati “ha cercato di farsi greco interiormente, nei suoi modi di pensare e nella sua sensibilità.”:
ci sono, a monte, ragioni profonde, e personali, e sociali, e politiche: è in Grecia che nasce il
pensiero razionale occidentale, è in Grecia che si origina il sentiero che ancora oggi noi battiamo, e
il nostro patrimonio culturale (nonché politico).

Ecco perché il mito: questo offre una testimonianza di quali fossero i luoghi dell’immaginario
collettivo che dalla Grecia arcaica accompagnarono la società ellenica nella sua evoluzione. Mito
che inoltre ci permette di capire i lineamenti, i valori, in una parola il costume del popolo d’Acaia.

E infatti non manca in quest’opera (che più che un saggio andrebbe definita una raccolta di saggi
brevi, ricordi e considerazioni) un essai sulla “bella morte”, la kalos thanatos del pelìde Achille, che
a una vita tranquilla, priva di pericoli, ma destinata a perdersi nell’oblìo, preferisce una morte
violenta, prematura, e un’esistenza segnata dall’eroismo portato al limite, la quale però lo renderà,
paradossalmente, immortale, perché lo collocherà nella memoria collettiva, nei canti dei poeti, nel
mito: “E’ la continuità nella civiltà del canto e dei poeti, della Grecia di Achille e di Ulisse; è questa
la vera posta in gioco nella morte eroica e non, come tendiamo a pensare e a sperare, l’entrata in un
altro mondo, in un’aldilà, la ricompensa di una sorta di paradiso dove saremmo ancora noi stessi,
ma sotto forma di anime di un’individualità che non avrebbe nessun rapporto con quello che
eravamo da vivi.”

Non è perciò solo Achille, nella tradizione greco-arcaica, a proporci questa particolare concezione
della morte.

V’è un’altra figura attorno a cui s’addensa la carica significante del mito: il rappresentante per
eccellenza dellametis umana, colui il quale sfidò la sorte azzardando la rotta della sua nave verso
l’orlo delle colonne d’Ercole, Ulisse.

Egli è sempre Ulisse, ma solo “perché lo è stato e lo ridiventerà.”

Sotto le sembianze di un mendicante fa ritorno in patria e questa trasfigurazione non è solo


apparente, bensì sostanziale: la sua identità dipende dal riconoscimento degli altri, dalla memoria
che gli altri hanno di lui. Ecco perché il vero Ulisse, anche se con altri panni addosso, permane,
seppur in latenza: egli è sempre se stesso perché è stato e perché tornerà ad essere. Ed ecco perché
rivestono tanta importanza i semata, i segni di riconoscimento: essi permettono all’eroe del poema
omerico di riappropriarsi della sua identità, che a questo punto si configura come un’identità
fondamentalmente sociale (perché “non esiste l’idea che il vero essere sia per l'appunto quello che
non si vede; no, si deve vedere.” - pag. 85).

E’ a questo punto che si aggancia al problema del sé la questione del rapporto tra essere e apparire.
E’ chiaro che tra i due concetti non c’è contrapposizione, anzi, si compenetrano, l’uno dipende
dall’altro. Solo così è possibile spiegare quella che potrebbe essere definita in prima istanza una
contraddizione, ovvero la possibilità di una metamorfosi autentica e la permanenza del “prima” a
trasfigurazione compiuta.

E’ la memoria ancora una volta il perno della riflessione di Vernant.

Perché è la memoria collettiva, sociale, lo specchio che riflette e proietta nel futuro delle
generazioni a venire, il ricordo dell’eroe, ergo la sua esistenza, amplificandola tramite il mito.

Ma la funzione e il ruolo della memoria non sono rimasti nel tempo gli stessi: l’evoluzione
dell’uomo ha coinvolto anch’essi.

Nella Grecia arcaica erano divinizzati in Mnemosune, la dea che ispirava gli aedi, e svelava
l’invisibile anche a quei poeti che come Omero non potevano vedere, ma che avevano appunto il
compito di conservare il patrimonio del proprio popolo, la memoria sociale. Il poeta era “la
memoria vivente della collettività” (pag. 20).

Con il tempo e il progresso sociale dell’uomo si assiste ad un graduale cambiamento che è possibile
stigmatizzare in due tappe fondamentali.

La prima è quella che vede la Grecia, nel VII secolo, ad un giro di boa importantissimo: la nascita
della città e la diffusione della scrittura con conseguenti a) costruzioni di luoghi appositamente
adibiti alla conservazione della memoria comune (archivi, biblioteche – tipo quella di Alessandria
d’Egitto – ecc.) e b) creazione di procedimenti per l’apprendimento di mnemotecnica fruibili da
chiunque.

La memoria perde così la sua valenza mistico-religiosa e diventa abilità: dal sofista Ippia del V
secolo a Giordano Bruno con i suoi trattati di mnemotecnica, passando per padre Matteo Ricci (che
riuscì a sdoganare la Cina a vantaggio dei Gesuiti, offrendo ai mandarini raffinate tecniche di
potenziamento della memoria in cambio di terre dove compiere opera di evangelizzazione), l’arte di
stipare nozioni e ricordi nella propria testa si manterrà fino al raggiungimento della seconda tappa
fondamentale: l’invenzione della stampa, che rivoluzionerà il modo di maneggiare il sapere e
l’accessibilità di questo sapere stesso.

Inutile ribadire poi quanto proprio il nostro tempo abbia ulteriormente scosso, rimesso in un certo
qual modo in discussione la memoria, con l’invenzione di quel potente mezzo di comunicazione
chiamato Internet.

Esiste però anche, intrecciata a quella collettiva, una memoria individuale, intima, la memoria del
sé: la prima importante opera che ci accompagna nei meandri oscuri di questa facoltà essenziale e
solo umana è di Agostino.

Nelle sue “Confessioni” egli concentra l’attenzione sull’aspetto più personale della memoria, apre
la strada dell’“indagine sul proprio passato, nella sua unicità” (pag. 123).
Perciò ecco che, tirando le somme, ci troviamo di fronte ad una memoria poliforme: una memoria
dello storico che vaglia l’attendibilità di documenti, fatti e testimonianze, le quali appartengono alla
memoria singola dell’individuo; memoria che però a sua volta è legata a doppio filo con il contesto
sociale e culturale a cui si riferisce e quindi con il sapere collettivo condiviso (la memoria sociale
appunto).

“La memoria non è dentro di noi come un organo destinato a svolgere una funzione precisa e
circoscritta (pag. 119). La memoria, secondo me, non è né unitaria né costante. Le operazioni
mentali che ci permettono di rendere presente alla coscienza un oggetto del pensiero che non c’è,
che non è disponibile per i nostri sensi ma viene ricostruito dallo spirito in quanto rappresentazione
di un’assenza, sono molteplici. Essi utilizzano dei procedimenti che non di rado sono stati acquisiti
mediante un difficile apprendistato e sono mutati a seconda dei momenti e delle civiltà.” (pag. 6).

Maria Silvia Marini

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