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Col cadavere in bocca

Sul quarantennale del '77

Il Lato Cattivo
[ marzo 2017 ]

«Ultimo mohicano / sampietrino in mano


solo qui nella via / e la barricata
dove l'han portata? / Non c'è proprio più.»
(Gianfranco Manfredi)

In questo inizio d'anno punteggiato di commemorazioni molto interessate e poco


interessanti (vedi «C17» et similia) tocca sorbirsi anche il quarantennale del movimento del '77. E
così sia. Allora largo al ricordo su ordinazione, alla parola di chi c'era e vuole raccontare, al
pianto rituale degli offesi e dei caduti. In fondo, perché no? A nulla vale deprecare l'operazione
memorialistica, che è vecchia – se non proprio quanto il mondo – almeno quanto il massacro
dei comunardi, commemorati a scadenza ormai annuale presso il Mur des Fédérés. Le
celebrazioni per l’anniversario del '77 italiano cadono ogni decina d'anni: frequenza tutto
sommato ragionevole. Basta solo non chiedere ciò che è impossibile avere. A quale veglia è
d'uso esprimere critiche o riserve sul morto in onore del quale ci si riunisce? Tutti sanno che
anche l'individuo più mediocre passa per un grand'uomo il giorno del suo funerale, finanche
sulla bocca di chi in vita ne diceva peste e corna. Lo stesso vale, generalmente, per la
commemorazione dell’evento storico. Meglio dunque lasciar correre, e togliersi i sassolini dalla
scarpa in separata sede. Una riflessione vera sul significato della rivolta del '77, sorda per
necessità all'invocazione degli immortali e dei morti, non può che farsi a latere.
Per abbozzare una tale riflessione, non servono d'altronde fiumi di parole né

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concettualizzazioni magniloquenti. Quella manciata d'anni di insubordinazione sociale che va
sotto il nome di «Maggio strisciante» si chiuse, col '77 italiano, all'insegna della medesima
ambivalenza con la quale si era aperta. In Italia, come in Francia e negli Stati Uniti (Berkeley
'64), il Maggio operaio seguì cronologicamente quello studentesco e, checché se ne potesse
pensare all'epoca, i due si incontrarono senza mai confondersi, perché mossi da spinte e
aspirazioni diverse e irriducibili l'una all'altra, ridotte ad unum solo nel cielo dell'ideologia.
Nell'arco storico di un decennio, due classi animarono la turbolenza, lottando ognuna su
obiettivi e con modalità proprie. Da un lato, c'era l’insopportazione dell'operaio dequalificato
per la catena di montaggio fordista, dall'altro la tensione di una (futura) classe media a
reinventare tutto un insieme di sovrastrutture politiche, amministrative, ideologiche, semiotiche,
relazionali, linguistiche etc., rimaste arretrate rispetto alla formidabile modernizzazione della
produzione e del consumo del secondo Dopoguerra, il sistema scolastico in primo luogo 1. Nel
bel mezzo di quell'arco storico, troviamo lo spartiacque del '73: anno dell’«occupazione» di
Mirafiori, apice e canto del cigno dell'operaio-massa (marzo-aprile); ma anche della crisi infine
conclamata dopo un quinquennio di incubazione (inizialmente nella forma di crisi petrolifera,
ottobre) e delle prime misure di austerità (novembre), presagi di una ristrutturazione incipiente
che nessuno vide venire. «Il partito di Mirafiori si forma per mostrare l’impossibilità capitalistica
di uso degli strumenti di repressione e di ristrutturazione». Ultime parole famose, quelle di Pot.
Op. nell'attimo del suo scioglimento, che possono ben suscitare un ghigno amaro oggi, ma che
erano in sintonia con il clima dell'epoca. Cionondimeno, la fine della fase ascendente del
movimento dava già i suoi segnali, quantomeno a livello internazionale, giacché se era stato
possibile e corretto vedere le rivolte di Watts (1965) e Detroit (1967), il Maggio operaio in
Francia (1968), l'Autunno Caldo italiano (1969), le sommosse in Polonia (1970) e in Irlanda del
Nord (1971), gli scioperi di Lordstown (1972), fino ai «fazzoletti rossi» di Mirafiori, come
episodi di una sola sequenza, il cambiamento di fase si manifestava ora innanzitutto
nell'isolamento nazionale, nel formarsi di una «anomalia italiana» senza equivalenti fuori dei
propri confini. Né le transizioni democratiche, più o meno burrascose, in Grecia, Spagna e
Portogallo, né i quasi simultanei troubles newyorkesi (i saccheggi in occasione del black-out del
luglio '77) o i primi IMF riots (Egitto, gennaio '77) cambiano il quadro generale.
Al di là delle nefaste teorizzazioni sull’«operaio sociale» di negriana memoria, ciò che venne
dopo lo spartiacque del '73 non fu mai la ricomposizione intorno a un «nuovo soggetto», ma
semmai una scomposizione di lunga durata e senza possibilità di ritorno. Alcuni segmenti di quelle due
classi – operaia e media – si ritrovarono fuori dai cancelli di Mirafiori (letteralmente e in senso
figurato), sul terreno della metropoli, dell'insubordinazione diffusa e del corpo a corpo con lo
Stato, nelle molteplici forme che si conoscono: autonomia diffusa, Autonomia organizzata,
lottarmatismo, illegalità di massa, marginalismo, riforma della vita quotidiana. Per gli uni, fu il
passaggio obbligato per attaccare le rendite di posizione, farsi spazio tra i «baroni»
nell'accademia, influire in modo «creativo» e sotterraneo nelle pieghe della ristrutturazione
(controculture, media alternativi etc.); lo slancio successivo di certe mirabolanti carriere, nella
Milano da Bere o all'École Normale Supérieure, è solo la punta dell'iceberg. Per gli altri, furono le
molteplici incarnazioni di una sola ed impossibile resistenza alla ristrutturazione capitalistica
sulla base della ristrutturazione stessa, al termine della quale le aspettavano un pugno di mosche ed il
conto salato della repressione. Esse mostrarono, ognuna alla sua maniera, come l'uscita dalla

1 La transizione dalla vecchia «scuola di classe» alla «nuova scuola» dell'ascensore sociale selettivo, sancita giuridicamente
dalla Legge n. 1859 che introduceva la scuola media unica (1962), venne per lungo tempo osteggiata e rallentata da ampie
parti del corpo insegnante, come da altre burocrazie di Stato. La famosa Lettera ad una professoressa della scuola di Barbiana
(1967) era un atto d'accusa contro questo stato di fatto, indirizzato agli insegnanti stessi.

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prigione della fabbrica – condizione necessaria per il passaggio ad una fase propriamente
insurrezionale – possa tradursi nel suo esatto contrario. Perché ad una a tale fase insurrezionale – è
bene dirlo chiaro e tondo – non ci si andò mai nemmeno vicini. Cosicché la rivolta del '77,
circoscritta ad una dimensione nazionale, ma soprattutto cittadina (per l'essenziale Bologna e
Roma), caricaturò – e non poteva essere altrimenti – le insurrezioni proletarie del tempo
passato. Le barricate di Lione del 1831 e del '34, poi quelle del 1848 – tanto nel corso della
«primavera» europea (gennaio-maggio) che durante il giugno proletario e strettamente parigino
– si caratterizzarono per la funzione offensiva; esse affondavano le proprie radici nella
coincidenza fra luogo di lavoro e luogo di vita, considerati e vissuti come bastioni. Ma già nel
1871, di cui pure restarono il simbolo, esse non apparvero che durante l'ultima settimana della
Comune, quando Limoges, Marsiglia e Narbonne erano già cadute, e i Versagliesi riprendevano
Parigi. A Pietrogrado nel 1917, a Berlino nel 1919, a Barcellona nel 1936, era già tutta un altra
storia:
«La barricata tradizionale veniva innalzata in una strada dagli abitanti di quella stessa strada,
uomini, donne e bambini, che vi vivevano, vi lavoravano (quantomeno non lontano) ed erano
pronti a morirvi. Con l'organizzazione capitalistica della vita urbana, questa strada-paese è
scomparsa. Il proletariato è stata costretto a lavorare sempre più lontano dall'abitazione, e la
posta in gioco si è spostata verso la fabbrica, situata in luoghi in cui accatastare dei pavé non
avrebbe più avuto alcun senso.» (Eric Hazan, La barricade. Histoire d'un objet révolutionnaire,
Éditions Autrement, Parigi 2013, p. 157).
Quando, il 10 maggio del 1968, in rue Gay-Lussac, a Parigi, le barricate «tradizionali»
vennero riesumate, fu nuovamente per rivendicare come proprio un luogo popolato giorno e
notte dalle stesse persone, per confermarne la delimitazione tra un «dentro» e un «fuori». Quale
che possa essere stata la loro contingente partecipazione agli scontri che vi ebbero luogo,
l'oggetto del contendere – l’egemonia studentesca nel Quartiere Latino, né più né meno – passava
indifferente sopra le teste dei proletari come un Boeing 737 appena decollato. Qualche
settimana dopo, fu lo sciopero generale, e i bonzi della CGT misero le mani sulle fabbriche
vuote onde evitare che la situazione sfuggisse di mano; presa tra l'incudine e il martello, la base
operaia – meno inquadrata che in Italia – si divise tra i comitati d'azione e i lavoretti di bricolage a
casa propria.
La storia degli anni '70 in Italia è differente, poiché lo scollamento che si andò a determinare
fu non tanto tra la «base» e il «vertice», nel quadro di una composizione di classe stabilizzata
(come ad esempio nell'Autunno Caldo), ma tra questa stessa composizione di classe e i margini
aperti dalla sua erosione.
«Se il '77 ha rappresentato la fine di un “immaginario collettivo” della “Sinistra” spaccando
verticalmente l'Unità delle sinistre – questo gran calderone dell'opportunismo e della
mediazione – esso ha ancor di più messo in luce – con tre anni di ritardo – ciò che è avvenuto
all'interno del tessuto reale della classe.» (Marco Melotti e Franco Lattanzi, Tecnica di una sconfitta.
Il soggetto operaio del dopo Fiat, in «Collegamenti per l'organizzazione diretta di classe», Quaderno
n. 2, Roma 1980, reperibile sul web).
Eppure è evidente, nella centralità del centro storico della città per il movimento bolognese,
e in misura minore nella funzione aggregativa svolta dall'Università a Roma (la cacciata di
Lama), il medesimo estraniarsi di una minoranza proletaria – in questo caso giovane, aggressiva,
prodotto recente della ristrutturazione e quindi lasciata «scoperta» dai meccanismi di
rappresentanza politica e sindacale – nella difesa di bastioni designati come tali da un
Movimento socialmente spurio (cfr. l'Appendice III). Dato l'abisso che la separava dal «settore
“garantito” della produzione», non poteva essere altrimenti. PCI e CGIL non potevano

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occupare le fabbriche – principalmente per ragioni di viabilità del «compromesso storico» –, ma
non ne avevano nemmeno bisogno. Rifluito il movimento del '77, non restava alla borghesia
italiana che lavorare al metodico degrassaggio della grande fabbrica fordista e delle sue
condizioni sociali.
Oggi non si tratta di dire che tutto fu vano, e che meglio sarebbe stato chiudersi nella propria
cameretta: non è così che il problema si poneva allora, e non ha alcun senso restituirlo in questi
termini oggi, salvo ricavarne un qualche squallido tornaconto. Ciò che è letteralmente desolante,
è l'odierno vuoto di critica, l'autocompiacimento celebrativo, la rimasticazione sempre uguale a
se stessa di forme e contenuti propri di una traiettoria complessivamente discendente, la loro
riproposizione banalizzata ed epurata dalle autocritiche interne, che pure vi furono all'epoca
(cfr. le appendici), come da ogni altro questionamento 2. Ogni presente strappa all'immenso
«continente-storia» ciò di cui ha bisogno per comprendere se stesso e affrontare i problemi che
gli stanno dinnanzi. Ma cosa da questo immenso serbatoio venga di volta in volta pescato, e
come venga trattenuto, non è affatto indifferente, e ci dice qualcosa di quegli stessi problemi. Ai
giorni nostri, l'irreggimentazione quasi militare della classe operaia e il famigerato servizio
d'ordine del PCI non esistono più, quello della CGIL non è che una combriccola di pensionati
acciaccati, il «settore “garantito” della produzione» è sempre più scarno... ma il disperso «partito
della sovversione» non sembra aver fatto grandi passi avanti. Finiti i trip allucinogeni suscitati
dall'onda lunga dei movimenti post-crisi, le acque paiono essersi nuovamente calmate. La quiete
prima della tempesta? In virtù di un'analisi non scevra da scommessa e da utopica profezia,
pensiamo di sì3. In tutto questo, la rivolta del '77 fece molto e forse anche di più, ma parla al
nostro presente più per ciò che non fece – che non fece perché banalmente non poteva. Se tra
una commemorazione e l'altra, tra una apologia e l'altra, insomma tra una pasta scotta riscaldata
e l'altra, qualche buon'anima ci pensasse su, sarebbe già abbastanza. Il molto, come diceva
qualcuno, appartiene al futuro.

2 Per averne un'idea, basti gettare un'occhiata ai diversi materiali sul '77 disponibili su quieora.ink
3 Cfr. «Il Lato Cattivo», Elementi di teoria del comunismo, n. 2, giugno 2016. La dimensione utopica e profetica è un
elemento essenziale e irrinunciabile di ogni teoria o ideologia di classe nel proprio movimento avanzante. Bordiga lo aveva
capito: «Facile è tacciare il rivoluzionario che descrive la società per cui lotta come visionario ed illuso; facile, per gli idolatri
di ieri della ragione ragionante e del mondo drizzato sulla testa di Hegel dire, oggi che sono dal lato della forca, che del futuro non si
dà scienza. Siamo più solidi nella scienza del futuro che in quella del passato e del presente […].» (Esploratori nel domani, in
«Battaglia comunista», n. 6, 20 marzo - 3 aprile 1952); «La profetica potenza della teoria rivoluzionaria marxista lega le
sussultorie vicende del corso economico borghese alla riscossa coronante l’ardente ciclo 1848-1871-1919.» (P.C.Int. -
Programma Comunista, Riunione di Firenze, 31 ottobre – 1 novembre 1965). Ai giorni nostri, un Massimo Cacciari
vorrebbe, con propositi riformisti, riaccendere questo spirito in una parte della classe dominante attuale (cfr. Occidente senza
utopie, Il Mulino, Bologna 2016), ciò che equivale a voler rianimare un corpo morto.

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Appendice I

La rivoluzione sta dietro una porta?


Cerchiamo di aprire quella giusta!
Collettivo Politico Alitalia e Aeroporti Romani
Comitato Politico Atac
Comitato Politico Ferrovieri
Nucleo di iniziativa di quartiere Zona-Nord
[ supplemento a «Collegamenti per l'organizzazione diretta di classe», n. 2, settembre 1977; estratto, grassetti nostri ]

«Questo Movimento, [...] in maniera confusa e frantumata, è stata [...] la primissima


forma di organizzazione che quegli strati di classe ristrutturati, espulsi dal settore
“garantito” della produzione, si sono dati per lottare dentro la crisi. Quest'esercito di
lavoratori diffusi, disseminati in mille lavori produttivi nel territorio della metropoli era, per la
sua stessa dimensione strutturale, non organizzabile secondo gli schemi del sindacalismo,
era organicamente esterno, emarginato rispetto al sistema dei partiti e della delega democratica.
Da tale carattere, due conseguenze che già contenevano il germe di una possibile involuzione
nel medio/lungo periodo: 1) la ricerca forzata di una propria dimensione politica di agente
sociale collettivo, di movimento, nella logica della centralizzazione e della scadenza a tutti i
costi; 2) il fatto di non aver mai avuto la capacità di individuare un reale terreno di
programma articolato su richieste parziali che potessero essere soddisfatte in “modo
vincente”, bensì, piuttosto, una capacità di aggregazione e di impatto, con l'avversario
di classe, tutta incentrata su una forza ideologico-politica.
«[...] la pretesa di credere ad una ricomposizione meccanica fra il Movimento e gli
altri strati proletari in lotta, in primo luogo gli operai di fabbrica, ha causato gli
sbandamenti e gli errori più gravi del Movimento stesso. Quando la ribellione tutta
“politica” di questo è esplosa, PCI e DC, Berlinguer e Kossiga l'hanno, ciascuno secondo le sue
competenze, “criminalizzata”: hanno voluto riconfermare con la violenza l'emarginazione
politica di coloro che, appunto per le proprie connotazioni strutturali di classe all'interno della
crisi e della ristrutturazione del ciclo del capitale, non si riconoscevano (né avrebbero
oggettivamente potuto riuscirci) dentro il sistema spettacolare della rappresentanza politica. Di
fronte a tale attacco, il Movimento ha tentato di ricompattare il corpo di classe del proletariato
direttamente sul terreno dello scontro con lo Stato: il suo programma è diventato, quindi, un
insieme di parole d'ordine di agitazione, inadatte a sedimentare una capacità tattica ed una
strutturazione interna reale e funzionante. La teoria dell'“operaio sociale” si è tradotta
spesso in un appiattimento del concetto di composizione di classe, dove si fa strada
l'illusione che strati sociali non direttamente ed organicamente stabilizzati all'interno del ciclo
produttivo possano collocarsi al centro di un processo di ricomposizione politica di classe e
dove l'unica cosa che sembra contare sono i cosiddetti “comportamenti eversivi” delle masse.
«Il Movimento è così vissuto sulle scadenze generali, limitandosi a proporre
l'Università [...] come sede di “aggregazione sociale” nei momenti delle occupazioni o
delle mobilitazioni centrali. Trova qui la sua origine, dunque, la tendenza a fare di ogni

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momento di scontro, quello decisivo, nella prova di forza con lo Stato. Così il percorso del
Movimento ha finito per misurarsi quasi esclusivamente sulla sua capacità di stare in piazza,
incidendo negativamente sia sulla quantità dei compagni che, di fronte all'accelerazione dello
scontro, hanno toccato con mano i limiti dell'iniziativa di massa, sia sulla qualità dei
comportamenti di avanguardia. Dentro il Movimento è emersa gradualmente una vocazione
insurrezionalistica che faceva del confronto di piazza con lo Stato (e non con le sue
articolazioni periferiche) il solo criterio per stabilire i comportamenti e decidere le iniziative.
«[…] Noi pensiamo che la rottura dell'unità di classe, [...] che oggi è presente dentro
tutta una serie di lotte operaie, rimandi ad una divisione più accentuata che affonda le
sue radici dentro il sistema produttivo e dentro il mercato della forza-lavoro. Il tentativo
padronale è oggi quello di spaccare verticalmente la classe operaia lungo una linea fra settori di
lavoro garantito, relativamente stabile e dove il salario viene riagganciato alla produttività, e
settori di lavoro NON garantito, sia a livello di salario che a livello occupazionale, con un alto
grado di mobilità ed interscambiabilità. Attraverso la cassa integrazione e l'intensificazione della
giornata lavorativa non s'intende soltanto, ormai, aumentare la produttività individuale: si vuole
realizzare la divisione interna della fabbrica tra settori ed impianti che tirano, e reparti secondari,
accessori. Su questa base i padroni distribuiscono i nuovi incentivi salariali (superminimi, salario
nero, indennità, straordinari) che premiano i settori più produttivi. Il decentramento di molte
lavorazioni date in appalto, l'estensione del lavoro nero sono l'altra componente di questa
riorganizzazione: servono non solo a diminuire i costi di produzione ma a scomporre e
disseminare la classe sul territorio per poter manovrare meglio sull'occupazione. L'eliminazione
costante di forza-lavoro dalla grande e media fabbrica, con i pensionamenti anticipati, l'aumento
del lavoro stagionale, il blocco del ricambio, realizzano questa fisionomia della fabbrica
caratterizzata ormai totalmente dalla mobilità. Da un lato è una mobilità interna che funziona
come selezione politica degli operai trasferiti, come spaccatura costante dell'operaio collettivo
(squadre, reparti), come tampone ai comportamenti di resistenza e di rifiuto del lavoro salariato
(assenteismo, autoriduzione dei ritmi). Da un altro lato è una mobilità esterna collegata al
decentramento che si avvale sempre più intensamente di fasce di forza-lavoro giovanile
reclutata per canali nuovi, attraverso cui viene istituzionalizzato il lavoro nero. […] Questa
nuova organizzazione del lavoro […] vuole togliere agli operai il terreno della lotta di reparto,
che è stato il percorso delle lotte di resistenza alla ristrutturazione, dal 1973 al '76. Così le
innovazioni tecnologiche di questi ultimi anni, dai computer ai robot, alle isole, alle macchine a
controllo numerico inserite nella produzione diretta, ai transfert, intendono liberare sempre di
più il flusso produttivo dall'ostacolo delle lotte operaie […]»

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Appendice II

Il '77 a Roma
Anonimo
[ in «Maelström», n. 2, novembre 1985, pp. 185-243; estratto, grassetti nostri ]

«[...] A Roma, la mattina del 12 marzo, c'è tanta, troppa gente venuta da tutta Italia. La
manifestazione nazionale degli studenti medi si è trasformata, durante la giornata dell'11, in una
manifestazione nazionale contro la repressione e gli omicidi di stato come quello di Lorusso.
Una massa enorme di compagni si concentra, fin dal primo pomeriggio, in piazza Esedra. Il
sentimento che domina gli animi di quei centomila è qualcosa di apocalittico, un'espressione
finale di rabbia e furore. E questo trova il suo riscontro in una città che si presenta loro in stato
d'assedio: negozi chiusi, nessun passante, reparti di carabinieri e polizia schierati ovunque in
assetto di guerra.
«Il giudizio politico di quella giornata fu dato la sera stessa da tutti quei compagni
che dal movimento non cercavano soltanto fuochi di paglia eclatanti e spettacolari, ma
una azione continua rivolta alla preparazione di una condizione realmente
rivoluzionaria, che, coscientemente, sentivamo ancora molto lontana.
«Quel concentramento di così grandi proporzioni a Roma, privava tutte le altre città d'Italia
delle avanguardie di lotta (mentre vi erano le condizioni che contingentemente potevano
diffondere la ribellione) e creava una situazione di scontro campale contro il braccio armato
delle istituzioni, ben equipaggiato e addestrato anche se stanco per le marce di trasferimento
avvenute nella notte. Di fatto, si concentrava tutto lo sforzo a Roma, piazza militarmente
perdente, perché presidiata in maniera più che agguerrita, e si perdeva l'occasione di
diffondere la lotta in tutta la penisola, dove invece si svolsero manifestazioni in tono minore.
«A Roma si voleva dare una prova di forza e, con tutta probabilità, era il posto giusto per
farlo, sia in quanto centro istituzionale che in quanto sede di un movimento forte e ben
organizzato. Resta però il fatto che affrontare le istituzioni su di un terreno militare, e ancor più
in una battaglia campale, è una tattica inevitabilmente perdente. Non si trattava di prendere un
palazzo d'inverno ormai sguarnito, ma di organizzarsi capillarmente per accerchiare ogni
tentativo di normalizzazione; di far confluire nel movimento tutti quegli strati proletari
che ancora si muovevano nel dubbio dell'accettazione del progetto socialdemocratico.
«Assaltare Montecitorio o Palazzo Chigi era un'ipotesi delirante, non solo perché inattuabile
dal punto di vista militare, ma perché, se questo fosse avvenuto, si sarebbe rimasti esattamente
al punto di prima, cioè alla necessità di elaborare delle ipotesi realmente rivoluzionarie. Lo stato
di incomunicabilità con la classe operaia è un problema realmente sentito dal
movimento, e dopo le giornate di marzo in maniera ancora più accentuata. Scrive «La
Rivoluzione» del 19 marzo '77:
“IL MOVIMENTO È IL POTERE. Di fronte all'attacco padronale alle condizioni di vita e
di lavoro e di organizzazione non c'è altra via.
“Il potere borghese mira a una cosa sola: mettere in ginocchio l'organizzazione operaia,
ridurre il salario, colpire la scala mobile, aumentare lo sfruttamento in modo feroce.
“Se il potere riesce a distruggere il movimento degli studenti e dei disoccupati, se riesce a
distruggere l'insurrezione, dopo tocca agli operai di fabbrica. Per questo occorre scendere il
lotta, raccogliere subito l'indicazione che viene dalle barricate che decine di migliaia di studenti,

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giovani, disoccupati, hanno alzato a Bologna, Milano, Roma, assieme ad operai d'avanguardia.
“Per impedire il massacro del movimento non c'è altra via che portare l'attacco nei quartieri
operai.
“Per sbarrare la strada al fascismo di Cossiga, alle violenze armate delle squadre speciali, al
terrore controrivoluzionario, non c'è altra via che portare la lotta nei quartieri operai.
“Elaboriamo un programma su cui costruire il potere: c'è la forza di imporre l'aumento degli
organici fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere, c'è la forza per abolire gli straordinari e
ridurre l'orario. C'è la forza per occupare centinaia di migliaia di case che sono disoccupate
mentre centinaia di migliaia di proletari non hanno casa. C'è la forza. COMPAGNI OPERAI,
NON C'È ALTRA VIA.
“Compagni operai, dio cane, uniti nella lotta.”
«Noi, con il senno di poi, diciamo che la forza ci sarebbe stata se ci fossero stati i
compagni operai. Ed invece della forza, il 12 marzo a Roma il movimento espresse la sua
emotività, e spontaneamente decise di scontrarsi sul campo. Non fu dunque una decisione
preordinata, ma sancì l'incapacità dei gruppi di compagni che più lucidamente analizzavano la
situazione del momento a creare, nei giorni precedenti la rivolta, una coscienza rivoluzionaria
diffusa, al di là di un ribellismo da scontro di piazza, che non poteva far altro che orientare il
movimento verso un militarismo demente e distruttivo, come già si era delineato nell'assemblea
nazionale di febbraio.
«Così' ci si ritrova in piazza Esedra a Roma in centomila, traboccanti di rabbia, ammassati
contro le palizzate del cantiere della metropolitana a fronteggiare la polizia, schierata in diversi
cordoni per tutta via Nazionale. Roma la bella è deserta, il cielo è scuro, i negozi sono chiusi,
per strada non circola nessuno. Sembra che il campo sia stato sgombrato appositamente per
permettere lo svolgimento della battaglia senza troppi danni. [...]».

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Appendice III

La composizione sociologica
del movimento del '77 a Bologna
In occasione del decennale del movimento del ‘77, un gruppo di «ex settantasettini»
bolognesi pubblicò il volume 1977-1987. Dieci anni cento domande. I segni del ‘77 dieci anni dopo. Una
ricerca sulle idee e le scelte di vita di centinaia di ex militanti del movimento di Bologna (Agalev Edizioni,
Bologna 1988). La ricerca, che si basa sulla distribuzione e compilazione di alcune centinaia di
questionari, contiene tra l’altro alcuni dati riguardanti la composizione sociologica del
movimento stesso. Al di là dei problemi inerenti la rappresentatività, in termini statistici, del
campione utilizzato (per tali considerazioni metodologiche, cfr. pp. 34-36), se ne può ricavare
un quadro che, per quanto impressionistico, risulta comunque significativo. Prendiamo, ad
esempio, la situazione lavorativa degli intervistati nel 1977:

Tab. 1
Situazione lavorativa degli intervistati nel 1977 %
Studente delle medie superiori 15,1
Studente universitario 44,1
Studente lavoratore saltuario 12,6
Studente lavoratore 5,8
Occupato stabile 12,1
Occupato a tempo determinato 2,5
Occupato precario 4,8
Disoccupato 3,0

«Dalla tabella possiamo osservare che sommando gli studenti universitari agli studenti
lavoratori saltuari raggiungiamo quasi il 60% del campione (oltre al 5,8% rappresentato dagli
studenti lavoratori stabili). Abbiamo un 15% di studenti medi, percentuale verosimile, dovuta
ai rapporti che in certi momenti vi furono tra il movimento universitario e quello delle scuole
medie superiori, le quali rimasero però tutto sommato estranee a quanto succedeva dentro le
mura di Porta Zamboni [la zona universitaria, ndr]. La percentuale di tutti gli occupati
ammonta sì e no al 20% […]» (pp. 35-36, grassetto nostro).
Passiamo ora ai dati riguardanti titolo di studio e professione degli intervistati dieci anni più tardi
(non riportiamo la disaggregazione dei dati per sesso, presente nelle tabelle originali, in quanto
esula qui dai nostri scopi):

Tab. 2
Titolo di studio degli intervistati nel 1987 %
Diploma di scuola dell’obbligo o avviamento 7,7
Diploma di scuola media superiore 30,5
Diploma di Laurea * 61,8
* Di tutti i laureati, ben il 75% appartiene alle facoltà umanistiche.

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Tab. 3
Situazione lavorativa degli intervistati nel 1987 %
Operai 3,4
Artigiani e commercianti 8,5
Liberi professionisti 11,4
Impiegati esecutivi 7,7
Impiegati di concetto 13,6
Impiegati direttivi 9,7
Insegnanti 14,8
Alternativi-creativi 9,7
Non occupati e precari 17,3
Altri 3,9

«La distribuzione della situazione lavorativa [tabella 3] mostra – come d’altronde ci si poteva
aspettare data la numerosità delle lauree umanistiche – un’elevata percentuale di insegnanti
(14,8%, la più alta fra quelle relative agli occupati stabili); considerevole è pure il gruppo dei
liberi professionisti (11,4%) e degli impiegati direttivi (9,7%).» (p. 37, grassetti nostri). Se
aggiungiamo a queste tre categorie i cosiddetti «creativi» (9,7 %, in gran parte laureati
provenienti dal DAMS) e gli artigiani-commercianti (8,5%), si raggiunge una quota
abbondantemente superiore alla metà degli intervistati (54,1%). Inoltre, se è vero – come
scrivono gli autori – che confrontando il numero dei laureati (61,8%) e la quota degli impieghi
che richiedono una laurea (45,6%, includendo i «creativi») una percentuale significativa di
laureati risulta «sottoccupata» (16,2%), il fatto di essere sottoccupati, così come quello di essere
disoccupati o precari, non esclude necessariamente l’appartenenza alla classe media 4.
Veniamo infine all’estrazione sociale degli intervistati, per definire la quale gli autori della ricerca
hanno scelto come indicatore la professione paterna:

Tab. 4
Professione paterna degli intervistati %
Operai 19,3
Artigiani e commercianti 19,8
Liberi professionisti 10,7
Impiegati esecutivi 12,1
Impiegati di concetto 11,8
Impiegati direttivi 12,7
Insegnanti 6,4
Imprenditori 3,3
Pensionati 2,8
Altri 1,1

«Osserviamo come le attività meno qualificate (operai e impiegati esecutivi)

4 Abbiamo definito i criteri e le conseguenze politiche della distinzione tra classe media salariata e proletariato, nel

secondo numero de «Il Lato Cattivo» (cit.).

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ammontino complessivamente al 30% circa, altrettanto dicasi per quelle più qualificate (libera
professione, impiego direttivo, insegnamento); considerevole la percentuale di artigiani e/o
commercianti; meno numerosi, anche se non trascurabili, gli impiegati di concetto […]. Diremo
quindi che l’estrazione sociale degli intervistati è di tipo medio, con una forte presenza del
settore impiegatizio.» (p. 39). Notiamo poi, nel passaggio da una generazione all’altra, una netta
diminuzione della quota degli operai e degli impiegati esecutivi (dal 30% all’11,1%),
compensata però dal forte aumento dei non occupati e dei precari (17,3%, pure con la
precisazione di cui sopra), ciò che rimanda, pur senza volere accreditare ideologie post-
industriali et similia, ai caratteri della ristrutturazione capitalistica degli anni ‘70 e ‘80.
Poste dunque tutte le riserve del caso (rappresentatività del campione, capacità delle
categorie statistiche utilizzate di descrivere la reale collocazione all’interno dei rapporti di
produzione etc.) questi dati sembrerebbero confermare la tesi di un movimento spurio,
sostanzialmente transclassista, pure con la precisazione che le sue due componenti
fondamentali ebbero, a seconda delle diverse realtà geografiche, un peso specifico differente.
Così, se a Bologna il movimento ebbe – come si è visto – una connotazione prevalentemente
studentesca e una (futura) classe media – salariata e non – vi ebbe un ruolo preponderante, si
può affermare con buona approssimazione, pure in assenza di dati statistici comparabili, che a
Roma un peso molto maggiore fu esercitato dalla componente salariata e propriamente
proletaria. Il radicamento in molti luoghi di lavoro (soprattutto nel terziario) e quartieri
proletari, fu in effetti ciò che permise al movimento romano di non sciogliersi come neve al
sole dopo la primavera del ‘77, e di mantenere dimensioni di massa e una certa vitalità
(incarnata soprattutto dai comitati autonomi) fino almeno al rapimento-Moro (marzo-maggio
1978).

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