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L'apprendista

libraio
di Stefano Amato

© 2012 Stefano Amato

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Questa copia dell'opera è soggetta alla licenza Creative Commons


"Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0" (CC
BY-NC-ND 3.0).

Puoi prestare il romanzo a chi ti pare, tutte le volte che ti pare. L'ideale
sarebbe tuttavia che ognuno scaricasse la propria copia o ne regalasse
una nuova. Per sapere come fare, visita il sito L'apprendista libraio.

Questa è opera di fantasia. Tutti i personaggi, gli episodi e i dialoghi di


questo romanzo sono immaginari. Ogni riferimento a fatti o persone
realmente esistenti, quindi, è da considerarsi puramente casuale.
A me stesso.
L'APPRENDISTA LIBRAIO
«Noi commessi ci crediamo chissà chi. Come fossimo meglio di tutti i
clienti. Li guardiamo dall’alto in basso manco fossimo di una razza
superiore. Be’, se davvero lo siamo, come mai lavoriamo qui?»

--dal film Clerks - Commessi.


Capitolo primo
1
Successe mentre andavo al matrimonio di mia sorella.

Era settembre, a Siracusa faceva ancora caldo e io indossavo dei pan-


taloni di flanella, gli unici decenti che possedessi. Avevo le gambe
completamente sudate. Sentivo le gocce di sudore fare lo slalom fra i
peli mentre colavano fino alle caviglie. Mio padre mi aveva prestato
una giacca e una cravatta, ma per le scarpe non c’era stato niente da
fare e quindi portavo le solite Converse di tela.

Stavo cercando di camminare il più possibile all’ombra, quando sentii


una macchina inchiodare e qualcuno dire: «Santo?»

Mi voltai. Era Flavio.

«Ciao.»

Flavio era il proprietario della libreria dove andavo a perdere tempo di


solito. Allora leggevo un sacco di libri ma non ne compravo mai perché
costavano troppo. Preferivo prenderli in prestito in biblioteca. Mi pi-
acevano Philip Roth e John Steinbeck e Ian McEwan e Kurt Vonnegut.
A quasi trent’anni abitavo ancora con i miei, non avevo ambizioni e me
ne stavo quasi sempre per conto mio. Dormivo un sacco. Di sera
suonavo in un gruppo punk; la mattina insegnavo Scienze in una
scuola privata che pagava una miseria. E avevo una mia teoria sulla
vita e tutto quanto, riassumibile in due parole: “non preoccuparti”.
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«Vai al matrimonio di qualcuno?» disse Flavio controllando lo spec-


chietto retrovisore.

«A quello di mia sorella» dissi. Fui contento di sentirgli ingranare la


prima perché pensavo di essere in ritardo.

«Ascolta» disse lui, «puoi passare in libreria uno di questi giorni?


Devo parlarti.»

«Di cosa?»

«Vorrei offrirti un lavoro.»

Una macchina diede un colpo di clacson. Lui la ignorò e restò a fis-


sarmi. «Allora?»

«Ok» dissi, «ci vediamo in libreria.»

«Ottimo. Passa mezz’ora prima dell’apertura.»

Mi salutò e sgommò via.

Quando arrivai, il cortile della chiesa era deserto. Non si era ancora
visto nessuno degli invitati, figuriamoci gli sposi. Entrai e mi sedetti su
una panca. Faceva un bel fresco là dentro. Per un po’ mi guardai in-
torno in attesa di un qualche sentimento religioso, ma fu inutile. Ero
senza speranza. Poi il prete, bardato a festa, si avvicinò e mi chiese
preoccupato dove fossero tutti quanti.

«Staranno arrivando» dissi.

«Avevo chiesto di venire in orario!»


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«Non so che dirle.»

«Lei è un parente dello sposo o della sposa?»

«Della sposa. Sono il testimone.»

Il prete annuì e diede un’occhiata discreta alle mie scarpe di tela. Poi
consultò alcuni fogli che teneva in mano.

«Lei è... Santo D’Amico?»

«Sì.»

Annuì di nuovo, ma non si mosse da lì. C’era dell’altro.

«Santo, lei ha fatto la cresima?»

«No, non l’ho fatta» dissi. Allungai in avanti le gambe e mi accorsi che
per la prima volta quel giorno non mi pizzicavano. «È un problema?»

2
Quando qualche giorno dopo andai in libreria spuntò fuori che Flavio
voleva veramente offrirmi un lavoro. Disse che il suo socio lo aveva
mollato per aprire una parafarmacia e quindi gli serviva una mano. Gli
spiegai subito che al mattino e certe volte anche di pomeriggio ero im-
pegnato con la scuola.

«Fa niente» disse lui, «tanto a me serviresti solo part-time. Diciamo


mercoledì pomeriggio, sabato pomeriggio e la domenica tutto il
giorno. Come ti sembra?»
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Dissi che andava bene. Tanto pensavo che se il lavoro non mi fosse
piaciuto avrei sempre potuto lasciare perdere, come avevo già fatto in
passato.

Flavio mi disse quanto sarebbe stata la paga e ci stringemmo la mano.

«Posso andare adesso?» dissi.

«Certo.»

Non avevo ancora cominciato, e già non vedevo l’ora di uscire all’aria
aperta.

3
In quel periodo mi vedevo con una ragazza. Si chiamava Marina, ed
era venuta a stare a Siracusa dalla Calabria per fare uno stage o qual-
cosa del genere in un’etichetta discografica. Era una fumatrice e
portava sempre i tacchi alti. In più si truccava un po’ troppo per i miei
gusti, ma carina era carina.

Non c’era stato ancora niente fra noi (non avevo visto neanche casa
sua), ma era nell’aria. Si capiva da come ci cercavamo che prima o poi
sarebbe successo qualcosa. Nutrivamo dubbi una sull’altro e la cosa
creava una bella tensione. Quel tipo di tensione che un po’ dispiace
sempre rompere.

La sera del colloquio mi telefonò per chiedermi se volevo andare a tro-


varla a casa sua.

«Va bene» dissi.


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Marina abitava in uno dei vicoli più pericolosi di Ortigia, in un mono-


locale al secondo piano. Quando scese ad aprire disse che sotto di lei
viveva un ragazzo che a ogni ora del giorno e della notte le bussava con
una scusa qualsiasi: il sale, lo zucchero eccetera.

«Ha due occhi che mi mettono i brividi» disse. «Se vuoi lo chiamo e te
lo faccio conoscere, ti va?»

«Magari un’altra volta.»

Appena entrati nel suo monolocale lei accese lo stereo portatile e si


tolse gli stivali col tacco. Senza, era davvero bassa. Poi si mise un paio
di ciabatte, anche quelle col tacco. Non avevo mai visto delle ciabatte
col tacco. Sembravano scomodissime. Quando Marina si spostava da
una parte all’altra della stanza pareva che camminasse sulle uova.

Le raccontai dell’offerta di lavoro di Flavio.

«Una libreria! Che bello» disse. «Ma come farai con la scuola?»

«Di pomeriggio è chiusa.»

Marina si sedette su una sedia, incrociò le gambe e cominciò a fare


dondolare una ciabatta sull’alluce. «Ti piace questo genere di
musica?»

Ascoltai per qualche secondo. Era quel tipo di indie rock che non si
capisce niente di quello che suonano.

«Non si capisce niente di quello che suonano.»

«Appunto» disse lei ruotando gli occhi verso l’alto.


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Io ascoltavo soprattutto punk rock, ma non glielo avevo mai detto per
paura che le facesse schifo o lo considerasse grezzo. Le fissai il piede
che spuntava dalla ciabatta dondolante. Le unghie erano laccate di
rosso scuro. Distolsi gli occhi, mi alzai e versai un po’ di un suo liquore
calabrese dentro due bicchieri. Cominciammo a bere e intanto chiac-
chieravamo del più e del meno. Poi le andai vicino. Mi piegai alla sua
altezza e restai a fissarla, il mio viso a un centimetro dal suo.

Marina sorrise.

«Che fai, Santo? Ci provi?»

Dissi di sì e la baciai. Lei mi lasciò fare. Mi piaceva come baciava Mar-


ina. È difficilissimo trovare una persona che baci in un modo decente.

Dopo un po’ ci spostammo sul letto, ovvero facemmo un passo a


destra. Lo stereo continuava a mandare quella musica incomprens-
ibile. Avevamo appena cominciato a spogliarci quando bussarono alla
porta.

«Chi è?»

«Sono Massimiliano.»

«È quello che abita qui sotto» bisbigliò lei. «Te l’ho detto che viene
continuamente a bussarmi. DIMMI, MASSIMILIANO.»

«Mi presti un po’ di zucchero?»

«Sì... No... Puoi passare più tardi, per favore? Adesso non posso apri-
re» disse Marina trattenendo le risate.

Massimiliano restò in silenzio per qualche secondo. Poi disse: «oh, ok.
A dopo allora.» Ma non lo sentimmo scendere le scale.
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Aspettammo un po’, poi Marina scosse le spalle, mi attirò a sé e


ricominciammo a baciarci con Massimiliano a un metro e mezzo da
noi, solo la porta a separarci da lui.

Lo stereo mandò un’altra di quelle canzoni senza capo né coda.

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Insegnare non mi piaceva. Sia perché ero costretto a svegliarmi presto,
sia perché quella scuola era un incubo. Pareva ci si fossero iscritti tutti
i somari della città. Le storie degli alunni erano tutte simili: avevano
provato con la scuola pubblica, ma dopo la seconda o la terza bocci-
atura i genitori li avevano iscritti in quell’istituto privato, dove per
ottenere il diploma bastava pagare. Molti studenti sapevano a mal-
apena leggere. La loro capacità di concentrarsi sull’insegnante era lim-
itata a trenta, quaranta secondi al massimo. Dopodiché fissavano il
vuoto, giocavano con i telefonini, dormivano, andavano in bagno fino
alla fine della lezione. Se li richiamavo perché non avevano studiato,
non facevano una piega. Sapevano che avrei dovuto dargli comunque
la sufficienza.

In quei giorni arrivò un nuovo studente. Si chiamava Gregorio e aveva


un che di minaccioso. Parlava solo in dialetto. Notai che gli altri
ragazzi se la facevano il più possibile alla larga da lui.

«Da che scuola vieni?» gli chiesi.

«Dal Geometra pubblico.»

«Quante volte sei stato bocciato?»


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«Neanche una.»

«Ah, sì? E allora perché sei qui?»

«Mi hanno espulso.»

«Motivo?»

«Ho rotto una sedia sulla schiena di un professore.»

«Si è fatto molto male?»

«È stato in ospedale per tre mesi. Ora zoppica.»

«Perché gli hai rotto una sedia addosso?»

«Così. Mi aveva detto di fare silenzio.»

«Capisco. Ma poi te ne sei pentito, vero?»

«Me l’ha chiesto anche il giudice, al processo. “Gregorio, almeno ti sei


pentito di quello che hai fatto?” Sa che cosa ho risposto io?»

Scossi la testa.

«“Sì, signor giudice. Sono pentito. Invece di spaccargli una sedia sulla
schiena avrei dovuto ammazzarlo”.»

In quel momento suonò la campanella. Presi il mio giubbetto e me ne


andai guardandomi alle spalle.
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Flavio mi spiegò tutto del lavoro, a cominciare dal criterio con cui
erano sistemati i libri.

«È semplice. Qui ci sono i saggi e là la narrativa. Qui la narrativa eco-


nomica, là le novità.»

M’insegnò come funzionava il registratore di cassa, come si compil-


avano le fatture e un sacco di altre cose che dimenticavo all’istante.
«Mi sono spiegato?» chiedeva alla fine di ogni spiegazione.

Alle quattro e mezza aprimmo.

«Per le prime volte resteremo in negozio insieme, ok?»

«Va bene.»

Entrò una ragazza. Alta, magra. Carina. Sorrise a entrambi, poi disse:
«Flavio, ce l’avete I silenzi degli innocenti?»

Flavio si voltò verso di me e indicò il computer.

«Aspetta un attimo» dissi alla ragazza. «Vuoi dire Il silenzio degli in-
nocenti? Quel thriller col cannibale eccetera?»

«No, no.» La ragazza diede una rapida occhiata a Flavio. «S’intitola


proprio I silenzi degli innocenti.»

«Mmmh.» Controllai al computer. Aveva ragione. Esisteva un saggio


con quel titolo, e noi ce l’avevamo.
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«Ora, Santo, dove li teniamo noi i saggi?» Flavio lo disse come se non
parlassi la sua stessa lingua.

Andai nella zona dei saggi sentendo i loro sguardi sulla schiena.
Quando portai il libro al bancone la ragazza mi sorrise. Era proprio
carina. Forse un po’ goffa, però in modo simpatico.

«Bravo, Santo. Adesso fai lo scontrino. Ti ricordi come si fa?»

Il libro costava dodici euro. Sulla tastiera della cassa digitai “1”, poi
“2”, poi “zero” due volte di fila. Quando premetti il tasto “TOTALE” il
registratore fece ding e il cassetto si aprì. Strappai via lo scontrino e lo
guardai.

«Ops.»

«Che c’è?» disse Flavio.

Avevo premuto troppi zeri. Lo scontrino era venuto di centoventi euro.


Flavio sospirò e liquidò in fretta la ragazza, poi si mise a fissarmi con
quei suoi occhi grigi. Non mi piacevano, quegli occhi. Erano troppo
freddi, troppo severi. Mi ricordavano gli occhi che hanno gli ufficiali
nazisti in certi film americani. Solo dopo qualche minuto riac-
quistarono umanità, e Flavio mi spiegò come si faceva ad annullare
uno scontrino sbagliato.

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Nonostante mi vedessi con Marina, continuavo a corrispondere via
email con una ragazza olandese. L’avevo conosciuta a luglio nel
campeggio dove lavoravo da cinque estati. Il miglior lavoro della mia
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vita. La mattina in spiaggia a leggere romanzi; il pomeriggio in


campeggio ad accogliere clienti; la sera di nuovo in spiaggia a bere
birra.

La ragazza olandese si chiamava Lise Van Cleef. Una sera io, lei, la sua
amica e un mio amico avevamo cenato insieme e poi eravamo finiti in
spiaggia, sdraiati uno accanto all’altra ad ammirare le stelle. Lise
aveva senso dell’umorismo. Era alta un metro e ottanta, poco meno di
me, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Mi piaceva molto. Dopo
un po’ mi ero sporto a baciarla, ma lei si era rifiutata.

«Ho il ragazzo» disse.

Mi voltai verso Pippo, il mio amico. Lui stava pomiciando con l’altra
ragazza senza problemi.

Lise mi raccontò che stava con lo stesso ragazzo da nove anni. Era il
suo primo e unico fidanzato, e anche se le cose fra loro ormai an-
davano male non le sembrava corretto tradirlo.

«Giusto» dissi io.

Tornammo in campeggio e restammo a chiacchierare e a ridere sotto i


pini per non so quanto tempo. Ogni tanto, quando avevo l’impressione
che le cose si mettessero bene, provavo di nuovo a baciarla, ma lei
all’ultimo secondo si voltava sempre dall’altra parte. Lise era la
migliore volta-testa-dell’ultimo-secondo che avessi mai conosciuto.
Ogni volta avevo l’impressione che sarei riuscito a baciarla, solo che
poi senza capire bene come mi ritrovavo con la bocca sulla sua guan-
cia. Alla fine, saranno state le quattro e mezza, decidemmo di sep-
ararci. Qualcuno dalle tende vicine si stava stufando delle nostre chi-
acchiere. Ci dicemmo “buonanotte” e poi come se nulla fosse ci
demmo un piccolo bacio sulle labbra. Una cosa da fidanzati che si
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separano al mattino per andare al lavoro. Trovammo la cosa spassosa,


ma non ci fu un seguito.

Adesso ci scrivevamo ormai da mesi. Nel frattempo Lise si era lasciata


col suo ragazzo storico, e io aspettavo il momento giusto per chiederle
di andarla a trovare.

Mi decisi uno dei primi giorni in cui lavoravo in libreria. Pensai che mi
serviva una vacanza. L’impatto con i clienti e con Flavio era stato più
forte del previsto, cominciavo già ad accarezzare l’idea di licenziarmi.
Non sarebbe stata la prima volta. In passato avevo abbandonato i la-
vori che non mi erano piaciuti, cioè tutti. Non ero di quelli che di
fronte alle difficoltà resistono. Ero di quelli che abbandonano tutto e
amen.

Scrissi a Lise che mi sarebbe piaciuto fare un salto a Rotterdam, dove


abitava. Lei rispose che le sembrava un’ottima idea. Non so quanto
fosse sincera, ma mi assicurò che casa sua era sempre aperta per me.
Quando pensavo di andare?

Ai primi di dicembre?, scrissi.

Perfetto.

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Prima di lavorarci immaginavo le librerie come posti tranquilli, fre-
quentati da gente colta, rilassata, tollerante. Spuntò fuori che non
avrei potuto farmi un’idea più sbagliata. Chissà, forse librerie del
genere esistevano pure, da qualche parte, ma di sicuro non era il mio
caso. Sembrava che chiunque metteva piede nella libreria dove
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lavoravo io avesse come unico scopo quello di creare problemi o met-


termi in difficoltà. I clienti che prendevano un libro, pagavano e se ne
andavano rappresentavano l’eccezione. Il resto era tutta gente aggres-
siva, frustrata, che pareva non vedesse l’ora di attaccare briga.

Entrò una signora sui cinquant’anni, truccata e impellicciata.

«Ha cambiato gestione, la libreria?» disse senza salutare. All’inizio lo


chiedevano di continuo. Avevano paura che non gli facessi lo sconto.

«No, la gestione è la stessa.»

«E quel signore simpatico che c’è sempre, Claudio, non ci lavora più?»

«Flavio» dissi. «Sì, lavora ancora qui. Ma quando ci sono io non c’è lui
e viceversa.»

«Ma lo sconto me lo fa pure lei, vero?»

«Sì. Aveva bisogno di qualcosa?»

«Cercavo quel libro... Purtroppo non ricordo né il nome dell’autore né


il titolo. So solo che la copertina è rossa. Ne parlavano l’altro giorno in
televisione, ce l’ha presente?»

«N-no, mi dispiace.»

«Niente, eh?» disse la signora. «Senta, ma come-si-chiama non c’è


proprio? Lui sì che saprebbe aiutarmi.»

«Se vuole domani c’è tutto il giorno lui.»

«Allora torno domani, va'.»


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Cominciai a capire qual era il trucco: bastava farsi sottovalutare e


quelli avrebbero ammorbato Flavio.

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Un pomeriggio pensai che dovevo cambiare aria, presi l’autobus e an-
dai a Palermo a trovare Nina, una ragazza che avevo conosciuto in
estate.

Nina abitava con altre studentesse in un condominio di via Lincoln. Le


pareti di casa sua erano ricoperte di graffiti a sfondo satanico. Lessi
bestemmie scritte in grassetto, filastrocche anticlericali eccetera. Ap-
pena posai la borsa per terra Nina disse: «vieni con me.»

La seguii in un minimarket, dove andò dritta allo scaffale dei liquori e


prese una bottiglia di whisky.

La guardai.

«È per la cena, no?» disse. Poi si voltò verso il cassiere. «Metticela in


conto, Ture.» Il cassiere prese una matita da sopra l’orecchio e scrisse
qualcosa su un quaderno.

Tornati a casa ci sedemmo sul divano. Eravamo io, Nina e una sua
coinquilina, Sabrina, per gli amici Sabry. Lo stereo mandava ad alto
volume un rock pesante cantato in tedesco che mi metteva paura.

«Ti piace?» disse Sabry.

«Carino.»
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Notai che, a parte gli ovali neri che le circondavano gli occhi come due
lividi, era pallidissima. Attraverso la camicetta sbottonata le si intrave-
devano le tette. Mi sorprese a fissargliele, così spostai lo sguardo nel
vuoto fingendo di riflettere su chissà quale mistero del cosmo.

Nina riempì i bicchieri e cominciammo a bere whisky. Io allungavo il


mio con della coca cola da due soldi perché era ancora pomeriggio e
non reggevo bene l’alcol. Mi faceva stare male.

«Com’è andato il viaggio?» disse Sabry.

«Bene.»

«Sono stata una volta sola a Siracusa. Ma ero piccola, non mi ricordo
niente. Solo un grande teatro antico, bianco. C’è un teatro antico e bi-
anco a Siracusa?»

«Certo. Il teatro greco.»

«Il teatro greco!» disse lei.

Nina cominciò presto a strascicare le parole e ad avere difficoltà a


mettere a fuoco lo sguardo.

«In realtà ci abita un’altra ragazza con noi» disse.

«Ah, sì? E dov’è?»

«Quella stronza. È a casa dai suoi.»

«Perché stronza?»

«Non la sopporto.» Nina si riempì il bicchiere. «Una volta abbiamo lit-


igato come pazze.» Lei e Sabry si misero a ridacchiare.
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«Cos’è successo?» dissi.

«Vuoi sapere cos’è successo? Adesso te lo dico. È successo che una


sera torno a casa e mi sembra che non ci sia nessuno. “Giusy?” dico. Si
chiama Giusy, la stronza. Ma lei non risponde. Allora vado a vedere in
camera sua, apro la porta e la trovo che... che...»

Non riuscì a finire la frase. Scoppiò a ridere spruzzando whisky e


saliva a raggera.

«Che cosa stava facendo Giusy?» dissi.

Nina riuscì a calmarsi. «L’ho beccata nel pieno di una pecora, capisci?
Non solo. Se lo stava facendo mettere da dietro AMMANETTATA AL
LETTO. E il tizio aveva... aveva UNA CHINGHIA IN MANO!»

Scoppiarono di nuovo a ridere come ossesse. Quando finirono, per un


po’ restammo in silenzio ad ascoltare quel rock lugubre. Cominciavo a
pentirmi di essere andato a trovarle, e pensai che forse avrei fatto in
tempo a prendere l’ultimo autobus della sera. Poi Nina all’improvviso
mi prese per mano e mi trascinò in bagno.

«Che stai facendo?»

Non rispose. Chiuse la porta a chiave e cominciò a sbottonarmi i


pantaloni.

«Aspetta un attimo» dissi.

Ma lei con uno strattone mi aveva già calato i pantaloni e le mutande


fino alle ginocchia. Poi la vidi darmi le spalle, tirarsi giù i jeans e gli
slip e inginocchiarsi sul water chiuso.
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Non capivo come eravamo arrivati a quel punto così velocemente. In


mano reggevo ancora il bicchiere di whisky diluito nella coca cola. Non
capivo nemmeno perché non potevamo andare in camera sua e farlo
con calma su un letto normale. Sull’osso sacro di Nina notai il tatuag-
gio di una specie di uccello, forse un fenicottero, e restai a fissarlo in-
deciso sul da farsi.

«Dài, muoviti» disse lei.

Decisi come al solito di non preoccuparmi. Posai il bicchiere di plastica


sul lavandino accanto al sapone liquido per le mani, mi frugai in tasca
e presi un preservativo. Per fortuna il metal tedesco arrivava in bagno
attutito.

Qualche minuto dopo tornammo imbarazzati in soggiorno. Almeno, io


ero imbarazzato. Nina si comportava come se non fosse successo ni-
ente. Sabry ci diede appena un’occhiata. Andai allo stereo e finalmente
abbassai un po’ il volume della musica. Frugai fra i CD, ma non trovai
niente di decente.

Sabry disse: «Nina mi ha detto che lavori in una libreria.»

«Giusto.»

«E che insegni in una scuola.»

«Sì.»

«E ce la fai a fare tutto?»

«Mi organizzo.» In realtà fra tutti e due i lavori arrivavo a malapena a


venti ore a settimana, ma non lo dissi. L’idea che non avessi un minuto
libero sarebbe potuta tornarmi utile in futuro.
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«Meno male che c’è gente come te che lavora» disse Sabry.

«Meno male» dissi. Non aggiunsi altro perché notai che Nina ci stava
fissando con una strana espressione del viso.

Sabry disse: «dev’essere bello lavorare in una libreria.»

«È fantastico.»

Diedi un’occhiata in giro. Mi resi conto che in quella casa non c’era
neanche l’ombra di un libro.

«Voglio dire» azzardò Sabry nonostante lo sguardo omicida di Nina,


«circondato da un sacco di libri. Immerso nella cultura. T’invidio un
casino.»

Per tutta risposta presi un sorso di whisky e coca.

«Nella tua libreria trattate anche saggi sul paranormale? Esoterismo


eccetera?»

«Uhm, no, non credo» dissi.

Sabry smise di fare domande, e Nina si calmò.

Quando dopo cena Nina e io uscimmo a fare un giro, lei era ormai
completamente ubriaca. Mi afferrò quasi subito la mano e prese a tras-
cinarmi per tutta la Vucciria, che di notte, senza bancarelle né vend-
itori, sembrava un posto come un altro.

Mi fece conoscere qualcuno dei suoi amici. Uno si presentò come il


direttore della fotografia di un famoso regista siciliano.
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«Bravo» dissi.

Nina mi tirò in disparte.

«Non fare lo stronzo con i miei amici, ok?» disse. «Perché devi fare
tanto lo stronzo?»

«Timidezza.»

Intanto provavo a lasciarle la mano, ma non c’era verso. La stretta di


Nina era troppo forte. Ormai avevo i polpastrelli viola. Forse si era
perfino dimenticata che mi stava stringendo la mano.

Mi presentò una specie di pittore con i rasta che ci invitò all’inaug-


urazione della sua mostra personale, il mercoledì successivo. Gli dissi
che ero a Palermo solo di passaggio e lui la prese come un’offesa
personale.

A un certo punto non so come riuscii a divincolarmi dalla presa di


Nina. La mano mi faceva male, era di un colore livido. Me la stavo
massaggiando quando sentii Nina urlare: «CHE COSA CAZZO CREDI
DI FARE, EH?»

Mi voltai e vidi che ce l’aveva con me. Sembrava furiosa.

«DAMMI QUELLA CAZZO DI MANO, CAPITO?»

Prima che potessi fare qualunque cosa, Nina mi prese di nuovo per
mano e ricominciò a trascinarmi da un posto all’altro.

«Ormai sei il mio ragazzo» sibilò guardando fisso davanti a sé. «Ti
ammazzo se mi lasci di nuovo la mano. Parola mia, ti ammazzo.»
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Perché finivo sempre con l’avere a che fare con matte del genere?, mi
chiesi. Che cosa le attraeva? Mi vestivo in modo normale, cercando di
essere il meno appariscente possibile. Non ero un tipo stravagante
(non secondo i loro canoni, almeno), né avevo una personalità com-
plicata. I lati più eccentrici del mio carattere saltavano fuori solo dopo
un po’ che mi si frequentava. Mi chiesi se la faccenda non avesse a che
fare con mio padre che, quando ero piccolo, lavorava come infermiere
all’ospedale psichiatrico di Siracusa. Se non avevo scuola, mia madre
per non lasciarmi solo in casa mi portava in quella specie di grande
parco e io per non disturbare mio padre me ne andavo in giro e facevo
amicizia con i matti. Li conoscevo quasi tutti quei poveretti. Quando
mi vedevano arrivare era una festa. A quell’età avevo più amici fra i
pazzi che fra la gente cosiddetta normale. Forse per questo motivo ad-
esso attiravo le ragazze come Nina? Perché avevo trascorso una fetta
non indifferente della mia infanzia in un manicomio?

Cominciai a trovare tutta quella situazione irritante. Era appena


mezzanotte e il giorno dopo avrei dovuto prendere l’autobus delle due
del pomeriggio. Non sapevo se sarei riuscito a resistere per più di
dodici ore. Non da solo con Nina.

«Perché Sabry non è uscita con noi?» dissi.

Nina si voltò lentamente a guardarmi. Gli occhi le mandavano


scintille.

«ALLORA È VERO! TI PIACE SABRY. DILLO CHE TI PIACE SABRY.


AVANTI, DILLO! SE VUOI TORNIAMO A CASA E GLIELO DICIAMO
INSIEME PEZZO DI MERDA!»

«Be’, ha delle belle tette.»

«COOOME?»
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«Niente, niente.»

Nina mi strinse la mano ancora più forte di prima e finalmente mi


trascinò fino a casa sua, dove andammo a dormire senza dire una
parola.

La mattina dopo ci misi un po’ a ricordarmi dov’ero. Ah, sì, pensai,


sono a Palermo a casa di una matta. Ma lei dov’era? Il letto, a parte
me, era vuoto, ma sentivo rumore di piatti e posate venire da un’altra
stanza. Andai in bagno, feci pipì seduto sul water, poi mi lavai la faccia
e i denti, e mi aggiustai i capelli con un po’ di acqua. Le ascelle mi
puzzavano, così presi una bomboletta di deodorante femminile e me
ne spruzzai un po’ sotto le braccia. Poi, in mutande e maglietta, andai
in cucina. Speravo di trovarci Sabry, e invece c’era soltanto Nina, che
sembrava fresca come una rosa e aveva già preparato il caffè. Con un
sorriso dolce mi porse una tazza fumante che accettai volentieri.

«Allora, sentiamo» disse. «Che cosa ho combinato stanotte?»

«Come, non te lo ricordi?»

Si mise a ridere. «No.»

Le feci una cronaca dettagliata della serata. Le urla, la mano eccetera.


E visto che ero ancora arrabbiato e lei non si ricordava niente, ci aggi-
unsi qualcosa di mio che la facesse sentire ancora più in colpa.

«Ti prego, perdonami» disse. «Sono mortificata. Mi comporto in quel


modo solo quando bevo troppo, giuro.»

«Non ti preoccupare, non fa niente» dissi, e guardai l’orologio in alto.


Erano solo le undici.
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Ce ne andammo di nuovo in giro – questa volta senza mano né niente


– dalle parti della stazione dei treni. Per pranzo mangiai un panino
con la meusa che mi fece venire il voltastomaco. Nina non la finiva più
di scusarsi per il modo in cui si era comportata la notte prima. Le dissi
di nuovo di non preoccuparsi, che cose del genere capitavano a tutti
eccetera, ma in realtà avevo già deciso che non l’avrei più rivista.

9
In quel periodo suonavo la chitarra in un gruppo punk. Ci chiamava-
mo i Cellophane e in tutta onestà non eravamo un granché. Cioè, gli al-
tri due, Marco e Gianluca, erano bravi, ma a me era passata un po’ la
voglia e quindi non mi applicavo. Suonavamo pezzi nostri più qualche
cover di Ramones, Queers, Manges eccetera. I concerti erano per lo
più un disastro: si vedeva poca gente, i gestori dei locali non ci vol-
evano pagare e via dicendo.

La sera in cui tornai da Palermo feci appena in tempo a passare da


casa, prendere la chitarra e andare alle prove. Finimmo verso le dieci,
poi io e Gianluca, il bassista, andammo a berci una birra. Dopo un po’
che ce ne stavamo lì a parlare di musica e di ragazze, Gianluca mi
guardò in modo strano.

«Santo, posso chiederti una cosa?»

«Certo.»

«È che non so come dirtelo...»


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«Dillo e basta.»

«Ok. Dunque, hai presente nei film porno? Quando gli uomini
vengono?»

Feci di sì con la testa.

«Ecco, ti sei mai accorto che la maggior parte delle volte vengono sulla
faccia delle ragazze?»

Presi un sorso di birra e ci pensai su. «È vero» dissi. In realtà non ne


sapevo molto. A casa mia ci collegavamo a internet ancora col tele-
fono. Non vedevo un film porno dai tempi del liceo, in pratica. «E
allora?»

«Secondo te qualcuno lo fa anche nella vita reale?»

Alzai le spalle. «Può darsi.»

«Tu l’hai mai fatto?»

«No.»

«Secondo te come dev’essere? Bello?»

«Non ne ho idea» dissi. «Più che altro non penso che le ragazze
approvino.»

«Ma nei film sembra che gli piaccia da impazzire! Come se in quel mo-
mento se ne stiano venendo anche loro.»

«Appunto. Nei film.»

«Minchia» disse Gianluca.


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«Che c’è?»

«Mi piacerebbe provare prima o poi. Ma come si fa a chiederlo a una


ragazza? “Senti, ti secca se ti vengo sulla faccia?” È una cosa tremenda
da dire.»

Avrei voluto chiedergli di parlare più piano, perché una ragazza seduta
al tavolo vicino aveva sentito tutto e sembrava sconvolta. Ma non dissi
niente. Presi solo un altro sorso di birra e cambiai discorso.

10
Marina passò in libreria.

«Com’è andata a Palermo? Ti sei divertito?»

«Un sacco.»

«Bravo. Senti, stasera Thomas mi ha invitato a cena sulla barca. Ti va


di venire?»

«Mmmh.» Chi era Thomas? Avrei dovuto conoscerlo? Il fatto che me


lo chiedessi era un brutto segno. Io ero un tipo solitario, fatto per
vedere un numero limitato di persone alla volta. In quel periodo, in-
vece, fra ragazze e libreria era una giostra di gente. Evidentemente
stavo sbagliando tutto.

«Va bene» dissi. «Devo portare qualcosa?»

«No, non manca niente. Ti aspetto da me alle otto e mezza, ok?»


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«Ok.»

Quando chiusi la libreria passai a prenderla. Marina si era truccata le


palpebre ancora più del solito, sembrava che gli occhi dovessero schiz-
zarle fuori dalle orbite da un momento all’altro. Al porto incontrammo
gli altri. Oltre a Thomas (un tedesco che frequentava lo stesso pub di
Marina, ecco chi era), c’erano Carla, che conoscevo di vista, e un trav-
estito che si faceva chiamare Tania. Salimmo tutti a bordo tranne Mar-
ina, che con quei tacchi non ci riusciva. Thomas avvicinò la barca alla
banchina un paio di volte, la tirava per la cima facendo leva con i piedi,
sudando e imprecando, ma non c’era verso. Marina aveva paura. Ci
volle un quarto d’ora di tentativi e di incoraggiamenti prima che rius-
cisse a raggiungerci sul ponte.

«È tua la barca?» chiesi a Thomas.

«No, io sono solo lo skipper.»

«E i proprietari ti ci lasciano fare le feste?»

«Certo» disse lui, e per la milionesima volta da quando eravamo arriv-


ati si guardò intorno preoccupato.

Scendemmo sottocoperta e ci sedemmo attorno a un piccolo tavolo ap-


parecchiato come si deve. Non ero mai stato su una barca. Gli interni
erano più lussuosi di quanto avessi immaginato. Erano tutti in radica e
ottone. Mi piaceva come ogni centimetro di spazio fosse usato per
qualcosa. Era pieno di cassetti nascosti eccetera.

Thomas disse che aveva cucinato per noi e portò in tavola delle pol-
pette enormi. Me ne misi due sul piatto e le assaggiai. Facevano pena.
Dentro erano troppo crude. In più le aveva farcite con dei peperoni
ancora più crudi della carne. Per mandarle giù cominciai a bere vino
rosso.
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Mi misi a chiacchierare con Tania. Sarebbe sembrata proprio una


ragazza se non fosse stato per la voce, che invece era uguale a quella di
un uomo. Non so se lo facesse apposta, ma mentre parlava si faceva
vento con la gonna mostrandomi le gambe, e ogni tanto non solo
quelle.

«Più tardi dovrebbe arrivare il mio ragazzo» mi disse all’orecchio.


«Mannaggia, io mi ti farei qui, seduta stante. Ma lui è così geloso.»

«Peccato.» Le sorrisi e presi un boccone di polpetta cruda.

Parlammo un po’ di cinema. A Tania piacevano i film di John Waters.


Io dissi che a casa avevo il poster di Flesh, e che se voleva glielo avrei
regalato volentieri. Non era una bugia. Ce l’avevo sul serio quel poster.
Raffigurava un uomo, Joe D’alessandro, completamente nudo. Una
volta mia madre l’aveva trovato ed era scoppiata a piangere. Poi mi
aveva chiesto se fossi gay. Io le avevo detto che se anche lo fossi,
sarebbe stata colpa loro, dato che per tutta la mia infanzia ogni volta
che era comparsa una tetta in TV i miei genitori avevano cambiato
canale alla velocità della luce. Mi avevano fatto venire paura del sesso,
le avevo detto. Lei si era messa di nuovo a piangere, non aveva smesso
nemmeno quando le avevo detto che scherzavo. Forse i miei credevano
ancora che fossi gay. Non m’importava un granché, ma era buffo: mi
vedevo con più ragazze, e loro pensavano mi piacessero gli uomini.
Surreale.

Tania fece i complimenti a Marina per il trucco. Le disse che le


risaltava gli occhi eccetera. Io commentai la cosa bevendo un sorso di
vino. Poi Thomas ci raccontò di quanto gli piacessero le donne
anziane.

«Che cosa intendi con anziane?» chiesi. «Sopra i quaranta?»

«Più sopra i cinquanta, direi.»


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«Cosa sei, un... gerontofilo? Si dice così, no?» Lo chiesi a Tania perché
credevo fosse ferrata su ogni tipo di perversione sessuale. Ma lei
scosse le spalle e disse che non ne aveva idea. Marina mi lanciò
un’occhiataccia.

Arrivò il ragazzo di Tania. Io ero solo un provinciale, quindi non avevo


idea di cosa aspettarmi. Un altro travestito? Un vecchio pervertito? E
invece no, era un ragazzo come tanti. Come me. Gli strinsi la mano.

«Massimo, Santo. Santo, Massimo» disse Tania con quel suo vocione
baritonale. «Santo è un mio nuovo amico cinofilo.»

Non la corressi. Il suo ragazzo la guardò perplesso.

«Gli piace il cinema» chiarì Tania.

Massimo arrossì, fece di sì con la testa e si sedette. Sembrava


timidissimo.

Continuammo a bere e a chiacchierare per un pezzo. Poi il ragazzo di


Tania disse: «mi passi il vino, Tano?»

Sulla tavola piombò un gran silenzio mentre tutti ci voltavamo verso


Tania. Lei arrossì e tenne gli occhi fissi sul vuoto.

«Tano?» disse di nuovo il suo ragazzo. «Mi passi il...»

«Come mi hai chiamata, scusa?» disse Tania continuando a fissare il


vuoto.

«Hai ragione, perdonami» disse Massimo. «Volevo dire Tania.»

«Mi pareva» disse lei passandogli il vino.


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Carla propose un brindisi e noi tutti le andammo dietro. Carla era


carina. Abitava a Parigi, veniva a Siracusa solo ogni tanto per vedere i
genitori. Cominciai a fantasticare su di lei. Pensai che approfittando di
un attimo di distrazione di Marina avrei potuto chiederle il numero,
sentirla, magari andarla a trovare a Parigi. Ma ogni volta che provavo
ad attaccare discorso lei rispondeva a monosillabi o mi ignorava
direttamente. La capivo, dopotutto lei e Marina erano amiche.

A un certo punto mi venne voglia di andarmene. Stavo per alzarmi, ma


proprio allora arrivarono altri due tizi. Il viso di uno dei due s’illuminò
all’istante.

«Tano, ciao!» disse. «Cazzo, a momenti non ti riconoscevo!»

Tania fece un sospiro impercettibile e continuò a sorseggiare il suo


vino come se niente fosse.

«Tano! Tano! Non ti ricordi di me? Eravamo compagni di classe!»

«MI CHIAMO TANIA!» urlò lei scattando in piedi. «“TANIA”,


CAPITO? SI PUÒ SAPERE CHE CAZZO VI PRENDE A TUTTI
QUANTI? È COSÌ DIFFICILE RICORDARSI UN NOME DEL
CAZZO?»

Il suo ragazzo le disse di calmarsi, e piano piano lei tornò a sedere.

Lasciai il mio posto a uno dei nuovi arrivati e dissi a tutti che dovevo
andare perché il giorno dopo mi sarei dovuto svegliare presto. Non era
vero niente, ma mi ero stufato di stare lì. E poi con la testa ero altrove.
Ero già in Olanda, a trovare Lise. Non vedevo l’ora, il giorno prima
avevo fatto i biglietti. Sarei partito il primo finesettimana di dicembre.

Marina si alzò e fece per venire con me.


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«Rimani» dissi. «Non te ne devi andare solo perché me ne vado io.»

«Lo so, non è per quello. È che ho paura di tornare a casa da sola.»

L’accompagnai a casa. Arrivati davanti al portone lei disse: «sali?», poi


restò a fissarmi con quegli occhi cerchiati di nero.

«Va bene.»

Mentre salivamo le scale – in punta di piedi per non farci sentire da


Massimiliano – mi chiesi se mi stessi comportando in modo corretto
con lei. Sapevo che non saremmo arrivati a Natale, lei stessa mi aveva
detto che di solito le sue storie duravano un trimestre, quindi che
senso aveva continuare a vedersi? Decisi che in cima alle scale le avrei
dato un bacio e poi sarei scappato via.

Invece entrai e appena chiusa la porta ci spogliammo alla velocità


della luce e ci lasciammo cadere sul letto.

«Aspetta» dissi, «non ho niente con me.»

«Tranquillo, ho le mie cose. Possiamo fare senza. Cioè, se non ti fa


schifo.»

Ci pensai su. Non è che mi facesse schifo, ma tutto quel sangue...

«Sono all’ultimo giorno di ciclo» tagliò corto lei. «È praticamente


finito.»

«Oh, ok.»
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Tornammo a sdraiarci e cominciammo a farlo. Era la prima volta che


lo facevamo senza preservativo, e tutt’a un tratto mi tornò in mente
quello che aveva detto Gianluca a proposito della sua fantasia da film
porno. Seguì un acceso dibattito in mente mia fra ciò che è accettabile
fare e cosa non; dibattito che si concluse con le solite due parole: “non
preoccuparti”. Marina raggiunse l’orgasmo per prima. Poi quando fu il
mio turno uscii da lei appena in tempo, inarcai la schiena e spinsi il
bacino in avanti. Era buio, non si vedeva niente, non avevo idea di
cosa stessi combinando.

Ma subito dopo Marina mi spinse giù dal letto.

«AAAAAAH» la sentii urlare mentre atterravo col ginocchio sul pavi-


mento di pietra. Fece un male cane.

«MA SEI IMPAZZITO?» disse. «Come ti permetti?»

«Che è successo?» dissi al buio tenendomi il ginocchio.

«È successo che sei un cretino, imbecille! Ma chi ti credi di essere!»

«Scusa, non l’ho fatto apposta.»

Lei accese la lampada sul comodino.

«Vattene, Santo! Vattene subito via!» Era furiosa. Si stava pulendo il


viso con un calzino o un fazzoletto.

Mi rialzai dal pavimento e mi vestii in fretta nonostante il dolore al


ginocchio. Recuperai le scarpe ma decisi che me le sarei messe dopo.

«Scusa Marina» dissi prima di uscire.

«Vai via per favore?»


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Uscii e scesi le scale. Arrivato al primo piano mi sedetti su uno scalino


e mi misi le scarpe.

La porta lì vicino si socchiuse.

«Ehi, Santo» bisbigliò Massimiliano. «Che cosa è successo là sopra?»

«Niente» dissi allacciandomi le scarpe.

«Perché tu e Marina avete litigato?»

«Sono cose private, Massimiliano» dissi, e quando mi voltai a


guardarlo scoprii che mi stava fissando con uno strano sorriso stamp-
ato in faccia.

Aveva sentito tutto.

11
Non ricordo come feci con la scuola, probabilmente mi diedi malato. A
Flavio invece dissi che mi serviva il fine settimana perché si sposava
un mio amico. Salutai tutti e partii per l’Olanda, a trovare Lise.

Viaggiai tutta la notte in treno fino a Roma. Lì presi un volo a poco


prezzo per Eindhoven, e quindi il treno per Rotterdam.

Lise non aveva specificato se avrei dormito con lei o su un divano. De-
cisi che la cosa migliore era non pensarci e restare a vedere cosa succe-
deva. Ma mentre osservavo il piatto paesaggio olandese fuori dal fines-
trino del treno cominciai a sentirmi nervoso, e a chiedermi perché mi
cacciassi continuamente in situazioni come quella. Non conoscevo
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nessun altro che sentisse il bisogno di incasinarsi in quel modo. Pensai


c’entrasse il fatto che la mia vita sentimentale e sessuale era cominci-
ata più tardi degli altri, dopo i vent’anni. Forse sentivo l’urgenza di re-
cuperare il tempo perduto.

Trovai Lise ad aspettarmi alla stazione di Rotterdam. Era ancora più


carina di qualche mese prima. A luglio la sua faccia era scottata dal
sole; adesso aveva un colorito rosa pallido che le donava molto di più.

«Ciao Santo!» disse allargando le braccia.

«Lise!»

Le sorrisi e l’abbracciai. Poi la baciai sulle guance, che erano fredde e


profumate.

«Com’è andato il viaggio?» chiese in inglese.

«Lungo ma bello.»

Appena fuori dalla stazione salimmo su un tram per andare a casa sua.

«Non ho il biglietto» dissi.

«L’ho fatto io per tutti e due» disse lei.

Posammo la mia borsa a casa sua, poi ce ne andammo in giro per la


zona vecchia della città. Siccome Rotterdam era stata rasa al suolo
durante la seconda guerra mondiale, mi spiegò, in realtà la zona vec-
chia era una piccolissima parte superstite vicino a casa sua. Entrammo
in un caffè poco affollato, con luci soffuse e musica a basso volume.
Prendemmo un bicchiere di vino e chiacchierammo a lungo. Era bello
essere lì con lei. Soprattutto considerato che in quel preciso momento
sarei potuto trovarmi in libreria. Era buffo. Lì, a migliaia di chilometri
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di distanza, nessuno poteva immaginare che in una piccola libreria si-


ciliana ogni giorno era una lotta per sopravvivere.

Per cena andammo in un ristorante dall’altra parte di un ponte dalla


forma futuristica. Era il fine settimana e il locale sembrava pieno, ma
spuntò fuori che Lise aveva prenotato. Cominciai a pensare che avesse
programmato tutto nei minimi particolari. Tutto?, mi chiesi. Anche
dove avrei dormito?

Ordinammo, e in attesa che arrivassero i nostri piatti continuammo a


bere e a chiacchierare. Lei mi mostrò un libretto che teneva in borsa,
un manuale di frasi fatte tradotte in olandese e italiano, fortunata-
mente con la trascrizione fonetica.

«Dimmi qualcosa in olandese» disse Lise.

«Va bene. Vediamo...»

Presi il frasario e sbirciai nella sezione chiamata “rapporti interperson-


ali”. Scorsi le frasi alla ricerca di una cosa carina da dirle. “Vuoi venire
a letto con me?” era una delle prime. Lasciamo perdere. Andiamo av-
anti. “Sei favorevole alle storie di una notte?” Diedi un’occhiata alla
copertina di quell’affare. Sembrava un frasario come un altro, non una
cosa per adulti infoiati. Continuai a leggere. “Prendi la pillola?” “Sei
bagnata?” “Posso venire dentro?” Niente da fare. Dovetti scorrerne un
bel po’ prima di trovarne una innocua.

Lessi la versione olandese di “più tardi ti va se stiamo insieme?”

Lise arrossì. Poi con una faccia e una voce buffe disse: «ok».

Il cibo era buono, anche se il fatto di non sapere quanto sarebbe ven-
uto il conto mi angosciava un po’. E poi: avrei dovuto pagare io? O Lise
si sarebbe offesa? L’avrebbe presa per una cosa da troglodita latino?
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I camerieri sembravano tutti appena assunti. Ogni pochi secondi uno


di loro fracassava un piatto o un intero vassoio di portate per terra.
Lise trovava la cosa spassosa. Io no, perché avevo lavorato in un ristor-
ante come aiuto cuoco e lavapiatti, e sapevo cosa voleva dire rompere
qualcosa. Ogni volta che qualcuno dei camerieri sgarrava, dovevo rep-
rimere l’impulso di alzarmi e dargli una mano a pulire.

Alla fine io e Lise dividemmo il conto a metà. Poi tornammo a casa


sua. Quando arrivammo eravamo entrambi leggermente ubriachi.
Trovammo la sua coinquilina, Marthe, che guardava la TV seduta sul
divano. Lise fece le presentazioni e ci stringemmo la mano. Marthe era
carina, peccato per il gran naso aquilino che le sporgeva al centro del
viso. Lise si sedette sul divano accanto a lei, io per terra, sul tappeto.
Marthe stava guardando il DVD di un telefilm americano, Friends, in
lingua originale con sottotitoli in olandese.

«Ce l’avete questo in Italia?» mi chiese.

«Sì.»

«Di dove sei?»

«Siracusa, in Sicilia. Hai presente? L’isola a sud di...»

«Oh, sì. Il mio ragazzo studia a Zurigo.»

Non capivo cosa c’entrasse, ma feci sì con la testa e la chiusi lì.

Guardammo un paio di episodi del telefilm. Poi fra un episodio e l’al-


tro Marthe si stiracchiò.

«Mi sa che vado a dormire.»


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«Ah, sì?» disse Lise.

«Sì, sono stanca.»

«Buonanotte.»

Io mi alzai dal pavimento e mi trasferii sul divano accanto a Lise.

«Mi siedo qui» dissi. «È più comodo.»

Lei sorrise. «Ok.»

Mentre continuavamo a guardare concentrati Friends, poggiai la


mano sul divano accanto a quella di Lise. Lei avvicinò la sua alla mia,
vidi con la coda dell’occhio. Poi, senza rendercene conto, ci stavamo
tenendo per mano. Dopo qualche istante mi voltai e provai a baciarla.
Lei però girò la faccia di lato e io finii contro la sua guancia, proprio
come era successo tante volte in campeggio quella notte di luglio. Oh
no, pensai, di nuovo. Ma fu un falso allarme, perché subito dopo fu lei
a baciarmi.

Restammo a baciarci sul divano per un pezzo, poi salimmo in camera


sua. La stanza era piccola e conteneva un unico mobile: il letto. Non so
dove fosse l’armadio. Sopra la testata del letto erano appese alcuni cor-
nici vuote, una cosa abbastanza inquietante. Ma tutto questo lo vidi
senza vederlo veramente, perché intanto ero impegnato a spogliare
Lise. Quando finii restai a guardarla. Era la ragazza più bella che
avessi mai visto nuda. Tutta quella pelle rosa la avvolgeva senza fare
una piega. Osservai quel viso e quei capelli biondi e lisci. Era semplice-
mente troppo per me.

Scacciai via questi pensieri e feci per chiudere la porta.

«No, lasciala aperta» disse Lise.


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«Sei sicura?»

Glielo chiesi perché la camera di Marthe era proprio lì a due passi e


anche lei teneva la porta aperta. In più Marthe doveva essere ancora
sveglia, perché la stanza era illuminata e in quel momento, mentre
sbirciavo fuori, mi sembrò di sentire qualcuno sfogliare la pagina di
una rivista.

«Sì, sono sicura. Lasciala aperta» disse Lise con uno strano sorriso.

«Ok, come vuoi.»

Tornammo a baciarci, poi ci spostammo sul letto e cominciammo a


farlo. Lise prese a dire ad alta voce certe cose in olandese e in inglese.
Provai a chiuderle la bocca con una mano, ma lei si divincolò. Ero
sicuro che Marthe stesse sentendo tutto. Più avanti andavamo, più la
voce di Lise si faceva alta, fino a quando non finì tutto e tornò il
silenzio.

«God» disse Lise fissando assorta il soffitto.

Nell’altra stanza sentii Marthe voltare pagina.

12
Il giorno dopo ce ne andammo in giro per Rotterdam. Faceva freddo,
ma non quanto avevo immaginato. Lise mi portò a visitare una mostra
dedicata a Magritte. Guardavamo i quadri e intanto chiacchieravamo.
Quando non chiacchieravamo, ci baciavamo. Cominciavo a essere
cotto di lei.
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«Ti piace lavorare in libreria?» disse Lise.

«Non tanto.» Ripensare alla vita che facevo a Siracusa mi procurò un


dolore quasi fisico.

«Ma ti piacciono i libri, giusto?»

«Be’, sì. Ma forse mi piace più leggerli che venderli, capisci?»

«Certo che capisco.» Sembrava arrabbiata per qualcosa. A un tratto si


era creata una strana tensione fra noi. Tutta colpa di quella libreria,
accidenti.

Guardammo in silenzio qualche quadro di Magritte, poi lei disse: «ok,


sentiamo, perché odi vendere libri?» Ci aveva pensato tutto il tempo.

«Non è che lo odio. È che mi costringe ad avere a che fare con le per-
sone, più che altro.»

«Non ti piacciono le persone che frequentano la libreria?»

«Non mi piace la gente in generale. Ma almeno quando non sono in


libreria posso ignorarla, fingere che non esista. In libreria come fai? È
impossibile. Devi darle retta. Devi guardarla in faccia. Ecco qual è il
dramma.»

«Dici sul serio?»

«Sì.»

Parlandone, io per primo capii che il problema era proprio quello. Non
ero fatto per lavorare a contatto col pubblico. Lo diprezzavo troppo, il
cosiddetto pubblico. Non sopportavo quel suo bisogno infantile di
comprare continuamente cose inutili, di assecondare la spinta
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ancestrale ad accaparrare più roba possibile, di piegarsi alle logiche di


mercato, di leggere libri di merda. Chiaramente non ero fatto per la-
vorare in un negozio. Non faceva per me.

«Infatti» dissi, «appena torno a casa mi licenzio. Lascio perdere.»

Anche solo dirlo mi procurò un sollievo immediato. In quel momento


ci trovavamo davanti a una delle pipe di Magritte. Indicai me stesso
col pollice e dissi: «questo non è un commesso di libreria.»

Lise sorrise e mi spinse via.

Io tornai accanto a lei e la baciai a lungo, al centro della sala principale


di quel museo.

13
Tornato a casa ripresi la vita di sempre (non mi licenziai). Qualche
giorno dopo Marina mi chiamò in libreria. Doveva parlarmi, disse.
Sembrava arrabbiata per qualcosa. Le dissi che l’avrei incontrata in un
bar.

«Ma ti sembra il modo di fare?» disse appena mi vide.

Non sapevo a cosa si riferisse. Ero stanco. In libreria era stata una
giornata pesante, la gente cominciava a fare gli acquisti natalizi. Solo
quel giorno avevo confezionato una cinquantina di pacchi regalo. E io
ero negato per i pacchi regalo, anche perché li consideravo superflui,
destinati com’erano a essere ridotti a brandelli. Peccato che i clienti la
pensassero diversamente. Loro volevano confezioni impeccabili.
Ritenevano di fondamentale importanza che il pacco non avesse il
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minimo difetto. Chinati sul bancone controllavano ogni mio movi-


mento, riprendendomi quando pensavano che stessi sbagliando
qualcosa.

«Che ho fatto?» dissi.

«Senti, non fare il finto tonto. Ieri notte mi hai lasciata sola in quel
pub come se niente fosse.»

«E allora? Era tardi. Avevo sonno.» La notte prima, verso l’una e


mezza l’avevo salutata e me n’ero tornato a casa. Odiavo i posti affol-
lati. Per questo la sera non uscivo quasi mai. Mi piaceva stare da solo,
per i fatti miei. La solitudine mi faceva bene. Era la mia condizione
naturale. Più stavo solo, più mi sentivo meglio.

«Tu a che ora sei andata via?»

«Alle quattro. E sono tornata a casa da sola. Col pericolo che qualcuno
mi violentasse.»

«E allora perché non sei tornata prima? Magari quando sono andato
via io?»

«Perché volevo restare in quel pub! A differenza tua a me piace incon-


trare nuove persone, fare amicizia. Io negli altri vedo una fonte di... di
arricchimento, capisci? Se tu ci tenessi a me, resteresti a farmi com-
pagnia e poi mi accompagneresti a casa a qualunque ora. È questo che
significa stare insieme.»

«Be’, se significa questo allora...» cominciai, ma lasciai la frase in


sospeso. Non volevo essere io a dirlo.

«Allora cosa?» Marina si accese un’altra sigaretta.


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Lo dissi: allora non volevo stare insieme a lei. Era vero. Non volevo es-
sere il ragazzo di nessuno. Volevo stare da solo. Solo con Lise.

Marina disse che le andava bene. Poi mi fissò soddisfatta come se mi


avesse appena battuto a braccio di ferro.

Io mi alzai e me ne andai.

Non ci sentimmo più. Venni a sapere poi che si era trasferita a Catania
dove stava con un musicista, il bassista di un gruppo indie rock.

14
Arrivò il Natale e mi trovò impreparato.

Sospettavo che sarebbe stata dura, ma non avrei mai immaginato che
la libreria sarebbe diventata un vero e proprio manicomio. Già la sera
del diciotto dicembre ero distrutto. Incassammo quasi lo stesso che in
una settimana qualunque.

Poi la scuola dove insegnavo chiuse per le feste, e io presi a lavorare in


libreria tutti i giorni, mattina e pomeriggio, fino alla vigilia. Insieme a
Flavio.

Io non facevo mai, né volevo mai ricevere, regali di Natale. La trovavo


un’usanza stupida e umiliante. I clienti invece sembravano prenderla
maledettamente sul serio. La cosa buffa era che nel comprare i regali
nessuno di loro era felice come ci si aspettava che fosse.
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Dicevano: «e anche quest’anno mi sono tolto il pensiero.»

Dicevano: «mannaggia a chi ha inventato le feste.»

Dicevano: «se c’è una cosa che odio è fare i regali di Natale.»

Nemmeno li sfiorava il pensiero che non erano obbligati a farli, che era
una convenzione come un’altra. Solo che a un certo punto della loro
infanzia qualcuno gli aveva insegnato che a Natale si fanno i regali, e
come tutte le cose ficcate nella testa della gente quando è piccola era
impossibile da cancellare. Visti da dietro il bancone della libreria i cli-
enti sembravano tanti membri di una setta. Avevano subito il lavaggio
del cervello, e ora sarebbero andati sul lastrico pur di comprare qual-
cosa e farsela incartare. Per loro provavo un misto di pena e rabbia.

I giorni scorrevano lenti. Mi svegliavo al mattino e pensavo: «oh, no, è


ancora il ventuno?»

I clienti compravano tutti gli stessi libri degli stessi scrittori. Non
avevano un briciolo di individualità, seguivano alla lettera quello che
gli diceva di fare la televisione. Ed erano ossessionati dal prezzo. Chie-
devano una decina di volte se mi ero ricordato di coprirlo. Perfino
dopo che avevano pagato ed erano usciti, tornavano indietro e
dicevano: «è sicuro di avere tolto il prezzo?»

Lasciavano le macchine fuori in seconda fila, e mi stavano col fiato sul


collo perché impacchettassi venti libri alla velocità della luce. Poi in-
colpavano me se prendevano una multa.

I nonni mi chiedevano un consiglio per un regalo da fare ai nipoti, ma


non gli andava bene niente. Impiegavo un sacco di tempo per liberar-
mene. Qualsiasi libro gli proponessi era troppo facile per quel
bambino prodigio del nipote. Volevano qualcosa che il piccolo potesse
conservare per sempre o addirittura regalare a sua volta ai propri figli.
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Quei poveracci volevano sconfiggere la morte, e per farlo davano il tor-


mento a me.

Flavio era contento come una pasqua perché incassavamo un sacco di


soldi. Imparai presto che era il classico tipo che sotto pressione di-
venta aggressivo. A libreria piena mi si rivolgeva in malo modo, mi
dava la colpa di qualunque cosa. Ero il suo capro espiatorio. Poi la sera
cercava di rimettere a posto le cose con qualche battutina e una pacca
sulla spalla.

Arrivato al ventitré stavo talmente a pezzi e giù di morale che giurai a


me stesso che non avrei mai più passato un Natale da apprendista
libraio.

Allora non potevo sapere che avrei pensato la stessa identica cosa alla
vigilia di altri quattro Natali.

15
Qualche giorno dopo capodanno un mio amico dei tempi dei liceo,
Alessandro Mancuso, mi disse che si stava trasferendo a Rotterdam
per lavoro.

Saltai sulla sedia.

«Davvero?» dissi. Lo invidiai all’istante. Io e Lise ci scrivevamo ancora


molto spesso. Ricordavamo i bei giorni trascorsi a Rotterdam e ci
dicevamo quanto sarebbe stato bello rivedersi.

Alessandro, che era architetto, disse che un pezzo grosso di Rotterdam


lo aveva preso nel suo studio o qualcosa del genere.
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«Assurdo» dissi. «Anch’io stavo pensando di trasferirmi a


Rotterdam.»

«Vieni ad abitare con me, no? Risparmiamo sull’affitto.»

«Fammici pensare un paio di giorni.»

Lo feci. Ci pensai, e ne parlai con amici e parenti. Mi dissero tutti le


stesse cose. Che era un’occasione da prendere al volo, ero fortunato a
non avere niente a trattenermi a Siracusa. Non avrei certo interrotto
una folgorante carriera in libreria. E a scuola avrei potuto mettermi in
aspettativa per qualche mese, e al limite lasciare perdere se le cose a
Rotterdam avessero ingranato. In pratica mi consigliavano di non pre-
occuparmi. Mi trovai d’accordo con loro.

Chiamai Alessandro e gli dissi che ci stavo. Avrebbe dovuto cercare


casa per due. Era fatta.

Lo dissi a Lise via email. Lei ci mise più tempo del solito a rispondere.
Non mi sembrò un buon segno. Me la immaginai presa dal panico, in-
decisa su come dirmi che stavo correndo un po’ troppo.

Invece alla fine mi scrisse:

Santo!

Sono felicissima che ti trasferisci a Rotterdam! Non vedo l’ora.


Fammi sapere il giorno esatto, e la sera stessa ci vediamo.

A presto,

Lise.
49/269

«Me ne vado per qualche mese» dissi a Flavio all’inizio di febbraio.

Lui non fece una piega. Ormai Natale era passato, mi aveva sfruttato a
dovere. Allora non lo sapevo, ma i mesi fra gennaio e marzo erano un
vero mortorio in libreria. In pratica gli stavo facendo un favore a togli-
ermi dai piedi. Si sarebbe risparmiato il mio stipendio.

«Quando parti?» disse.

«Fra un paio di settimane.»

«Bene, tienimi aggiornato.»

A scuola andai a parlare con la segretaria.

«Voglio mettermi in aspettativa.»

Lei tamburellò con le dita sulla scrivania per qualche secondo. Poi
disse: «le aspettative si concedono solo per motivi familiari.»

«Allora vuol dire che me la prendo per motivi familiari.»

«E sarebbero?»

«Mi dispiace, sono cose private.»

Tamburellò un altro po’. «Possiamo darti tre mesi.»

«Benissimo.»
50/269

Non mi sentivo minimamente in colpa. Sapevo che avrebbero impie-


gato un attimo a trovare qualcuno che mi sostituisse, la Sicilia era
piena di aspiranti insegnanti di Scienze.

Mi fecero firmare alcune carte e scambiare due parole col preside. Poi
mi lasciarono andare.
Capitolo secondo

1
Il viaggio fu più pesante dell’ultima volta – mi trascinavo dietro una
borsa con tutti i vestiti invernali e uno zaino – e non era ancora finita.
Quando arrivai a Rotterdam, alle sette di sera, non avevo idea di dove
avrei abitato. Dalla stazione dei treni raggiunsi a piedi lo studio dove
lavorava Alessandro Mancuso, lo chiamai al telefono e gli chiesi di
scendere.

«Facciamo presto, sono in riunione col capo» disse lui. «Queste sono
le chiavi e questa è la cartina per raggiungere casa. Ciao, a dopo.»

E mi piantò in asso.

Aveva disegnato lui la cartina. Non si capiva un accidente, nemmeno


in che verso andasse tenuta, alla faccia dell’architetto. Mentre provavo
a decifrarla chiamai Lise e le dissi che ero arrivato. «Che bello!» disse
lei. Si segnò il mio indirizzo, poi disse che doveva chiudere. Era anche
lei in riunione.

In un modo o nell’altro arrivai all’indirizzo mio e di Alessandro. Il nos-


tro appartamento era al terzo piano, l’ultimo. Le scale, ripidissime, di-
ventavano più strette a mano a mano che si saliva, come in un incubo.
L’ultima rampa sarà stata larga trenta centimetri, e io con la borsa e
52/269

tutto riuscivo a malapena a starci. Infilai la chiave nella serratura, ma


non girava. Pensai che la copia fosse stata fatta male, ma poi capii che
era una di quelle serrature che bisogna smanettare un po’ prima di
averla vinta, e alla fine riuscii a entrare.

L’appartamento era un buco formato da un ambiente unico con un


soppalco. La sola altra stanza era il bagno. Io e Alessandro non
avremmo avuto molta privacy. Lasciai cadere la borsa e lo zaino per
terra e mi sdraiai su un letto sfatto che c’era all’angolo, il letto di Aless-
andro. Il mio era sul soppalco. Mi massaggiai la spalla. Ero stanco
morto, ma mi bastò pensare che migliaia di chilometri mi separavano
ormai da Flavio, da quella libreria e dai suoi clienti per sentirmi
meglio. “Venite a cercarmi qua” pensai.

In quel momento suonò il citofono.

Non mi mossi. Di una cosa ero sicuro: non poteva essere per me.

Suonarono di nuovo, e questa volta scattai in piedi. Magari era Lise,


pensai. L’indirizzo ce l’aveva. Non c’era traccia di un citofono nella
stanza, allora spalancai la porta, scesi le scale a due a due e aprii il por-
tone. Ed eccola Lise, lì davanti a me, più bella di quanto ricordassi. In-
dossava un cappellino verde tipo Fidel Castro che le nascondeva parzi-
almente il viso. Dietro intravedevo la cascata di capelli biondi.

«Ciao Santo D’Amico!»

«Lise van Cleef!»

Mi gettò le braccia al collo. Il suo profumo, così familiare, mi diede alla


testa. Ricambiai l’abbraccio e ci baciammo a lungo nell’atrio del
palazzo. Poi salimmo.
53/269

Fingemmo di interessarci al monolocale per un po’, tipo trenta


secondi. Poi finimmo sul letto di Alessandro. Ero a pezzi, ma quel pro-
fumo e quei capelli mi riempirono di energie. Ci baciammo e ci
spogliammo a vicenda alla velocità della luce.

Poi, sul più bello, sentimmo qualcuno salire le scale.

«Chi sarà?» disse Lise.

Restammo immobili. Sarà Alessandro, pensai. Il nostro è l’ultimo ap-


partamento in alto, può essere solo lui. Merda, e se ora entra e ci trova
nudi sul suo letto?

E invece sentimmo i passi allontanarsi.

Riprendemmo a rotolarci sul letto di Alessandro. Decisi che per festeg-


giare il mio arrivo a Rotterdam avrei baciato ogni centimetro quadrato
della pelle rosa e liscia di Lise, mucose comprese. Avevo appena
cominciato a svolgere quel compito quando sentimmo altri passi salire
le scale.

Di nuovo, ci bloccammo.

«Mio Dio, è il tuo amico?» disse Lise.

«No, non credo» dissi, e intanto cercavo con gli occhi un posto dove
avremmo potuto nasconderci se fosse entrato Alessandro. Sotto il ta-
volo? Dietro la stufa?

Per tutto il tempo sentimmo della gente passare davanti alla porta e
poi proseguire. Stavano facendo dei lavori, avrei scoperto dopo,
nell’appartamento disabitato accanto al nostro, e quelli erano i mur-
atori che salivano e scendevano. Ogni volta io e Lise ci fermavamo col
cuore in gola, poi riprendevamo sollevati. Non fu il massimo come
54/269

festa di benvenuto ma era comunque bello essere lì con lei. Non


sapevo che cosa stessi facendo della mia vita, continuavo semplice-
mente a non preoccuparmi, ma intanto ero lontano da tutto e da tutti.
Il resto non contava, credevo.

2
I primi tre giorni dormii da Lise, che ormai abitava da sola in un ap-
partamento a un paio di chilometri dalla stazione dei treni. Lise mi
mostrò Rotterdam e i posti che mi poteva interessare frequentare, fra
cui la libreria più grande della città. Credevo scherzasse e invece
faceva sul serio. Ma reagii meglio di quanto pensassi. Entrare in una
libreria da cliente era diverso. Quella libreria, era diversa. I clienti
sembravano delle persone a posto. I commessi erano rilassati, sereni.
Non c’era traccia in loro della tensione che provavo nella libreria di
Flavio. Li invidiai all’istante.

Lise voleva che una volta ambientato mi muovessi per i fatti miei. Era
contenta che fossi a Rotterdam ma non l’aveva presa poi così bene.
Mentre mi accompagnava in giro leggevo il panico nei suoi occhi, e
non potevo darle torto. Io avrei reagito allo stesso modo.

C’era dell’altro. Lise capì che ero cotto di lei, che avrei voluto trasferi-
rmi a casa sua seduta stante. Ma mise subito in chiaro che non era
possibile. I patti non erano questi. Avrei abitato con Alessandro, e ogni
tanto mi sarei visto con lei.

Quanto fosse quell’“ogni tanto” lo scoprii presto. Dopo l’ubriacatura


iniziale, quando cominciai a dormire nel mio soppalco, Lise prese a
scrivermi delle email il lunedì mattina. Email tipo questa:
55/269

Ciao Santo,

oggi, domani e dopodomani ho da fare, giovedì ho il corso di Yoga,


venerdì, sabato e domenica lavoro. Forse, se non sono troppo stanca,
possiamo vederci venerdì sera.

Baci,

Lise.

Capii che erano in arrivo tempi bui.

3
Ero solo. A parte aspettare di vedere Lise non avevo niente da fare. In
teoria avrei dovuto cercarmi un lavoro ma le prime domande d’assun-
zione erano finite nel vuoto. Avevo intere giornate da riempire, possib-
ilmente spendendo il meno possibile perché dall’Italia avevo portato
pochi soldi in contanti, e servivano più che altro a pagare l’affitto.

Alessandro era quasi sempre al lavoro. I primi giorni non lo vidi mai.
Mi svegliavo al mattino e lui non c’era. Andavo a letto, di notte, e lui
non era ancora tornato. Non c’erano dubbi che gli olandesi lo sfrut-
tavano a dovere. Finalmente una settimana dopo il mio arrivo gli die-
dero una giornata libera, e noi due riuscimmo a fare colazione insieme
nel nostro monolocale

Parlammo del più e del meno, poi Alessandro disse: «Santo, ricordi
che cosa ti ho detto prima che arrivassi, vero?»

«A proposito di cosa?»
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«A proposito di Lalla.»

Lalla era la sua ragazza. Era francese e l’avevo vista una volta sola, a
Siracusa. Ricordo che pensai che era uguale a lui. La versione fem-
minile di Alessandro. Non che fosse un gran complimento, per lei.
Comunque Alessandro mi aveva detto che se Lalla fosse venuta a tro-
varlo a Rotterdam io avrei dovuto sloggiare.

«Tranquillo» dissi, «se viene Lalla vi lascio soli, non ti preoccupare.»

«Tanto dormi da Lise, no?»

«Certo.» In realtà, visto come stavano andando le cose con lei non mi
sembrava un’idea brillante imporle la mia presenza. «Ma mettiamo
che in quei giorni Lise è fuori città» dissi. «Come si fa?»

«No, ehi. Ne abbiamo già parlato, Santo. Se viene Lalla, tu sparisci.»

«Ti ricordo che pago metà affitto di questo buco.»

«Buco che io ho cercato e trovato. E le condizioni erano chiare: se


viene Lalla, tu...»

«Ok, ok.»

Lasciai perdere. Non c’era verso. Finii di fare colazione e uscii a fare i
miei soliti giri senza meta.
57/269

4
Cominciai a vivere giorni strani. Giorni tutti uguali, fatti di nulla. Fatti
di me che me ne andavo in giro per Rotterdam con una bicicletta scas-
sata che mi aveva prestato Lise. Facevo sempre la stessa strada: peda-
lavo fino in centro, lasciavo la bicicletta legata a un palo e andavo a
piedi fino alla biblioteca pubblica. Guardavo le vetrine dei negozi,
prendevo un caffè da qualche parte, cose così. In giro era pieno di belle
ragazze, alcune perfino più carine di Lise. Ma io continuavo a pensare
a lei e a quanto mi mancasse. Passavo il tempo a contare le ore che mi
separavano da Lise.

Ogni tanto succedeva qualcosa.

Un giorno in biblioteca presi l’ascensore fino all’ultimo piano. C’era


una sala lettura lassù, pensavo di leggere un po’. Insieme a me nella
cabina c’era una ragazza. Avrei anche attaccato bottone se non mi fossi
sentito col morale a terra per come stava andando con Lise. In più non
ero mai stato bravo in quelle cose. Ero troppo insicuro. Parlare per
primo con una perfetta sconosciuta mi faceva sentire un molestatore,
col risultato che finivo per comportarmi come tale rovinando tutto.
Probabilmente erano ingombri che mi portavo dietro dall’infanzia.

Fissavo le porte chiuse davanti a me, quando alle mie spalle sentii dire
qualcosa in olandese. Era stata la ragazza. Mi voltai e le dissi che mi
dispiaceva, ma non parlavo olandese.

«Di dove sei?» mi chiese lei in inglese. Aveva i capelli biondi striati di
rosso, occhi azzurri, un sacco di lentiggini. Era bella.

«Italia» dissi.
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«Che cosa sei venuto a fare a Rotterdam?»

«Ricerche» dissi. «Per un documentario che devo girare.»

«Davvero? Su cosa?»

«Sulle aringhe.»

«Sulle aringhe.»

«Sì. Sugli omega-3 eccetera. Una cosa scientifica, per il governo. Molto
noiosa.»

La ragazza annuì, poi disse: «sai se all’ultimo piano ci si può collegare


a internet?»

«Uh, non lo so. Penso di sì. Non sei di Rotterdam?»

«No, dell’Aja. Mi sono trasferita a Rotterdam da poco.»

Tirai fuori la mano dalla tasca del giubbetto per presentarmi, ma in


quel momento l’ascensore arrivò all’ultimo piano, le porte si aprirono
e noi uscimmo.

«Ok» disse la ragazza allungando le vocali (fu più un “occheeeeeeeei”),


e sorrise guardandomi dritto negli occhi.

Sapevo di doverle dire qualcosa, qualunque cosa. Dovevo combinare


un appuntamento per dopo. Un caffè, tipo. E invece fissai quelle len-
tiggini senza dire niente.

«Va bene, ci vediamo» disse lei alla fine.

«Ciao.»
59/269

La guardai allontanarsi. Indossava un paio di jeans attillati che le fas-


ciavano le gambe e il sedere come una seconda pelle. Fantasticai un
po’ di tempo su quella visione, poi me ne andai.

Quando mi sedetti al mio solito tavolo a leggere un romanzo che mi


aveva prestato Alessandro, spuntò fuori che da lì riuscivo a vedere la
ragazza coi capelli rossi dietro a un computer, dall’altra parte del pi-
ano. Provai a leggere qualche capitolo, ma non c’era verso. Ogni trenta
secondi alzavo gli occhi e guardavo verso di lei.

Poi me ne accorsi: anche lei distoglieva spesso gli occhi dal monitor
del computer per guardare me. E un paio di volte mi sorrise.

Era troppo. Perché sfidare il destino che ci aveva fatti incontrare?,


pensai. Noi, due anime gemelle. Due solitudini nel cuore di Rotterdam
che non aspettavano altro che incappare l’uno nell’altra.

Mi alzai, infilai il romanzo nella borsa a tracolla e mi diressi verso la


zona dei computer. Cominciai a girare intorno al vano dell’ascensore
che occupava il centro del piano, e intanto pensavo: Lise, ti pentirai di
avermi trattato così. Feci quel curvone col cuore in gola. Non avevo la
minima idea di che cosa avrei detto alla rossa una volta arrivato al suo
tavolo.

Solo che quando girai l’angolo la ragazza non c’era più. La sedia dav-
anti al suo computer era vuota. Com’era possibile? L’avevo persa di
vista per dieci secondi al massimo. Mi guardai intorno, ma non la vidi
da nessuna parte.

Lì accanto c’era seduto un ragazzino dai tratti orientali.

«C’era una ragazza qui, non è vero?» dissi in inglese. «Fino a qualche
secondo fa.»
60/269

Lui si tolse uno degli auricolari. «Scusa?»

«Capelli rossi, ricci. Alta così. Un fisico da paura.»

«Non so di cosa parli» disse il ragazzo e tornò al suo computer. Stava


giocando con un videogame.

Scesi le scale alla velocità del suono. Controllai ogni piano di quella
biblioteca, poi l’atrio, e infine per strada. Niente da fare. La ragazza era
scomparsa.

Mentre tornavo a casa in bicicletta, più tardi, pensai che non avevo
controllato nell'unico posto plausibile: il bagno. Mi venne anche il
dubbio che me la fossi inventata. Tornai spesso all’ultimo piano della
biblioteca, ma non la vidi mai più.

5
Un pomeriggio ero in giro per il centro a mangiare una porzione maxi
di patatine fritte, felice come non so cosa perché quella sera, dopo una
settimana, avrei rivisto Lise – avremmo cenato e poi dormito insieme
– quando suonò il telefono. Era lei.

«Lise?»

«Ciao Santo.» Aveva la voce stanca.

«Tutto bene?» dissi.

«Sì. Soltanto... Ti seccherebbe molto se stasera non ci vedessimo?»


61/269

«Be’...»

«Sono stanca morta, è stata una giornata davvero pesante. Ho bisogno


di dormire.»

«Ok, ma devi pur cenare, no?»

«Sì, ma non mi va proprio di uscire.»

«Possiamo mangiare qualcosa da te. Cucino io se vuoi.»

«Santo...»

«Va bene. Facciamo domani, allora?»

La sentii sospirare. Un sospiro lungo, insofferente.

«Non so, domani sarà anche peggio. Ti chiamo io caso mai, va bene?»

«Va bene, Lise. Come vuoi.»

«Ciao Santo.»

«Ciao.»

6
Pensavo che le cose non potessero andare peggio di così, ma ovvia-
mente mi sbagliavo. Per esempio poteva venire la ragazza di
Alessandro.
62/269

Alessandro me lo disse una mattina presto, non so se stesse andando o


tornando dallo studio. Non si capiva niente dei turni che faceva.

«Santo, svegliati.»

«Che c’è?» dissi dalla mia cuccia lassù in alto.

«Domani viene Lalla, va bene? Resta un paio di giorni.»

«Oh, merda.» Mi girai dall’altra parte e mi riaddormentai.

Chiesi a Lise via email se per un paio di notti avrei potuto dormire da
lei. Le descrissi la situazione nei minimi particolari. L’aveva visto il
nostro appartamento: in tre non ci si poteva abitare, soprattutto se
due di loro avevano in programma di dormire insieme.

Non rispose.

Il giorno dopo provai a chiamarla. Il telefono squillò tre, quattro,


cinque volte. Alla fine scattò la segreteria telefonica ma non lasciai un
messaggio. Era ormai pomeriggio, e quando Alessandro rientrando mi
trovò in casa, mi fissò terrorizzato come se fossi stato un ladro.

«Che cavolo ci fai ancora qui? Lalla sta arrivando.»

«Tranquillo, me ne stavo andando.»

Presi la bicicletta e vagai senza meta fino a quando non fece buio. A
quel punto chiamai di nuovo Lise. Il telefono squillò a vuoto, poi scattò
la segreteria. Questa volta lasciai un messaggio.

«Ciao Lise, ascolta...» Mi resi conto che era il primo messaggio che
lasciavo in una segreteria telefonica in vita mia. Che tono si usava in
63/269

questi casi? Quanto tempo avevo? Capitava a tutti di sentirsi dei per-
fetti idioti come mi stavo sentendo io?

«Non so se hai ricevuto l’email che ti ho mandato ieri... Credo di no...


Il fatto è che la ragazza di Alessandro è venuta a trovarlo e io vorrei
lasciargli un po’ di privacy, capisci cosa intendo?... E quindi mi chie-
devo se per un paio di notti potevo dormire da te... Chiamami e fammi
sapere, per favore... Grazie... Ciao.»

Si fecero le nove di sera. Poi le dieci. Cenai in un fastfood mediori-


entale controllando il display del telefono ogni cinque secondi. Lise
non chiamò.

7
L’ostello più decente, quello vicino a casa nostra, era al completo. La
ragazza alla reception mi disse che se volevo ce n’era un altro a qual-
che chilometro di distanza. Lo raggiunsi in bici. Era messo malissimo,
puzzava. Al bancone c’erano due ragazze un po’ trascurate che mi
rivolsero un sorriso tirato.

«Ho bisogno di un letto» dissi poggiando il passaporto sul bancone.

Una delle ragazze mi diede un’occhiata.

«Sei senza bagagli.»

«Me li hanno persi in aereo.»

Mi diedero un modulo da compilare, e mentre scrivevo sentii


montarmi dentro una strana rabbia. Rabbia verso Alessandro e la sua
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ragazza gemella per avermi sfrattato. Rabbia verso Lise perché non
rispondeva al telefono, neanche per dirmi di lasciarla in pace. Ma
soprattutto rabbia verso me stesso e la mia capacità di cacciarmi con-
tinuamente in situazioni del genere.

Il letto che mi diedero era in una stanza lercia e triste come il palazzo
che la conteneva. C’erano tre letti a castello ma soltanto uno, in basso,
era libero. Non so dove fossero gli altri occupanti. Vidi la loro roba, ma
i letti erano vuoti. Coprii il mio materasso con le lenzuola che mi
avevano dato le due ragazze e notai che puzzavano di candeggina. Poi
spensi la luce e mi sdraiai. Mi girai e rigirai per non so quanto tempo,
e finalmente riuscii ad addormentarmi.

Qualche ora dopo venni svegliato da alcune voci. Fuori era ancora
buio. Nella penombra contai tre ragazzi, tutti ubriachi fradici, che bar-
collavano e ridacchiavano per qualunque cosa. Parlavano ad alta voce
fra loro in una lingua dell’Europa dell’est.

«Oh» dissi. «Volete fare piano?»

Uno di loro disse qualcosa nella sua lingua che fece scoppiare a ridere
gli altri due. Poi tutti e tre si calmarono e andarono a coricarsi. Uno si
arrampicò sul letto sopra al mio.

Eccomi, pensai, a migliaia di chilometri da casa e con uno sconosciuto


che mi dorme sulla testa nonostante pagassi un affitto. Com’ero finito
là? Ero sicuro che a nessuno di quelli che conoscevo capitasse mai ni-
ente del genere. Cos’avevano loro che a me mancava? Perché non im-
paravo a vivere? Avevo entrambi i genitori, un fratello e una sorella, e
tutti loro se la sapevano cavare. Perché io invece facevo sempre le
scelte sbagliate? Che razza di persona ero? Senza rendermene conto
65/269

ripensai alla libreria e alla vita che facevo in Sicilia. Improvvisamente


non sembrava più tanto male. Anzi.

In quel momento la struttura del letto a castello cominciò a tremare


come durante un terremoto di bassa intensità.

All’inizio pensai che qualcuno stesse scuotendo il letto per scherzo, ma


quando mi voltai non vidi nessuno lì accanto. Forse quello che
dormiva sopra di me si stava grattando? Sì, doveva essere qualcosa del
genere. Dopotutto questi vecchi materassi saranno pieni di pidocchi.
Certo, è un po’ lunga per essere una grattata...

Oh, merda, pensai. Questo stronzo si sta facendo una sega.

Strinsi gli occhi e immaginai di essere altrove. Ma era una parola con
tutto quel movimento. Allora mi spostai il più al centro possibile sul
materasso e aspettai che quel supplizio finisse.

Dopo cinque minuti il ragazzo emise un gemito strozzato e il letto si


fermò.

E a me veniva da piangere.

8
Spuntò fuori che Lise in quei giorni non aveva controllato le email e
aveva dimenticato il telefono al lavoro. Questo, almeno, fu quello che
disse. Non le credetti neanche per un secondo.

*
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Nonostante tutto, ero ancora cotto di lei. Quando uscivamo insieme


facevo un grande sfoggio di soldi. Insistevo sempre per pagare io il
conto, e estraevo banconote su banconote dal rotolo che mi ero
portato dalla Sicilia. In realtà ogni volta voleva dire che per i prossimi
giorni avrei vissuto di pane e formaggio, ma non me ne importava ni-
ente. Pensavo che in quel modo l’avrei conquistata. Ero cieco.

Di solito facevamo così: andavamo a mangiare, bevevamo un po’ di


vino, e poi dormivamo da lei. E l’indomani mattina ci separavamo
senza sapere se, né quando, ci saremmo rivisti, in attesa che lei si fa-
cesse viva.

Ero alla sua mercé.

Poi feci quella stupidaggine.

Dunque, Lise parlava nel sonno. Anzi, strillava. In piena notte saltava
giù dal letto e con gli occhi rivoltati verso l’alto mi urlava non so cosa
in olandese. Dopo, come se nulla fosse tornava a letto e si riad-
dormentava. Ogni volta che succedeva rischiavo l’infarto.

Avevo letto da qualche parte che la gente è incapace di mentire in


sonno. Così una notte che Lise scattò in piedi e si mise a cazziarmi tipo
Hitler, aspettai che si calmasse e provai a farle un interrogatorio in
inglese. Le accarezzavo il viso e intanto dicevo: «Lise... Oh, Lise... Se
mi senti, rispondi... Tu sotto sotto sei innamorata di me, vero? Am-
mettilo... E dài... Che ti costa?»

«Mh mh» disse lei, e si voltò dall’altra parte. Poi attaccò a russare.

Qualche giorno dopo commisi l’errore peggiore della mia vita. Forse
perché si stava avvicinando la primavera, non so; fatto sta che di
67/269

punto in bianco mentre cenavo con Lise in un ristorante dissi: «sai,


penso di essermi innamorato di te.»

Lise smise di masticare giusto il tempo di rivolgermi un sorriso tipo


Gioconda. Ma non disse nulla.

«Lo so che non dovrei dirlo» continuai, «ma è vero. Sono innamorato
di te.»

Giuro che non ho la minima idea del perché mi comportassi in quel


modo. Non avevo mai detto niente del genere a nessuno. Quasi, mai.
Anche perché pensavo che l’amore non esistesse, o che durasse al
massimo cinque minuti. Che fosse un po’ come quelle particelle sub-
atomiche visibili per pochi nanosecondi quando la materia passa da
uno stato all’altro.

«Santo, per favore» disse Lise, «non parlare così.»

«Aspetta, c’è dell’altro» dissi.

Lei restò in attesa.

«L’altra notte durante una delle tue crisi ti ho chiesto se anche tu sei
innamorata di me.»

Lise poggiò le posate sul piatto. «Tu hai fatto cosa?»

«E vuoi sapere cosa mi hai risposto?»

Silenzio.

«Sì. Hai detto di sì. Almeno credo fosse un sì. Ma il punto non è
questo. Il punto è che, nonostante cerchi di negarlo a te stessa, il tuo
subconscio sa benissimo che anche tu sei innamorata di me.»
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Era diventata una questione di principio. Volevo confonderla. Volevo


che le parti s’invertissero. Che fosse lei a cercarmi e io a sfuggirle. Ma
sapevo che non funzionava così. Il mio era solo un patetico tentativo
con zero probabilità di riuscita.

«Il punto, Santo, è un altro» disse infatti Lise a voce più alta del nor-
male. Era la prima volta che usava quel tono con me. Da sveglia, al-
meno. «E cioè che non devi permetterti mai più di fare una cosa del
genere. Parlarmi nel sonno eccetera. Sono stata chiara?»

«Sì, ma...»

«Sono stata chiara, Santo?»

Ci rinunciai. Mi scusai per avere anche solo cominciato quel discorso e


finimmo di cenare in silenzio. Dopo un po’ il cameriere portò il conto,
e io sfilai l’ennesima banconota dal mio rotolo sempre più striminzito.

9
A tempo perso cercavo lavoro.

Un giorno venni a sapere che una società di interviste telefoniche


aveva bisogno di personale. Li contattai, e loro mi dissero quando
presentarmi e dove.

La società si trovava all’ultimo piano di un palazzone che c’era davanti


alla stazione dei treni. In ascensore incontrai un altro ragazzo italiano
interessato al lavoro. Si chiamava Carlo, era pugliese. Mi disse che
viveva a Rotterdam con una ragazza inglese ormai da qualche anno.
Carlo era uno di quei tizi con gli occhi perennemente incollati al culo
69/269

delle ragazze. Gli dava anche i voti. Mentre aspettavamo di essere


ricevuti me ne indicò un paio di passaggio.

«Otto a quello di destra e...» fece una smorfia, «quattro meno a quello
di sinistra. Secondo te?»

Le segretarie ci fecero firmare un sacco di carte, poi una specie di is-


truttore, un australiano con una gran pancia da birra, si chiuse con
una ventina di noi in una stanza per un corso introduttivo.

Ci umiliò facendoci giocare al telefono senza fili. Cioè bisbigliò qual-


cosa in inglese nell’orecchio del secchione del primo banco e aspettò
che la frase facesse il giro della classe. Quando fu il mio turno sussur-
rai a Carlo, seduto accanto a me, la prima cosa che mi venne in mente.
L’altro secchione del primo banco riferì ad alta voce la frase che gli era
arrivata e tutti quei disperati scoppiarono a ridere.

«Vedete?» disse l’australiano stringendo i pugni. «La comunicazione è


qualcosa di ingannevole. Dovete essere sempre chiari. I più chiari
possibile.»

Ci spiegarono come funzionavano i telefoni e i computer, che tipo di


interviste avremmo dovuto fare e quanto ci avrebbero pagato.

Alla fine del corso provarono a tenerci sulle spine, ma era chiaro che
avrebbero assunto tutti quanti. Lì dentro doveva essere un viavai con-
tinuo di gente. Chi avrebbe resistito più di qualche giorno a fare
noiosissime interviste? L’australiano ci raccomandò perfino di non re-
starci male se fossimo stati scartati, un trucco da due soldi per convin-
cerci che valeva la pena lavorare per loro.

Ci fecero aspettare mezz’ora. Poi l’australiano uscì da una stanza e


disse: «complimenti, siete risultati tutti idonei.»
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«Evvai!»

«Sì!»

«Complimenti!»

Erano tutti contenti. Io dovevo essere l’unico a sembrare dispiaciuto.

10
Qualche giorno dopo tornai per fare le mie prime cinque ore. Il re-
sponsabile per l’Italia mi fece sedere a una delle postazioni e mi disse
che l’intervista di quel giorno riguardava l’Iran, Israele eccetera.

«Sei pronto?»

«Altroché.»

«Per qualunque cosa, chiamami.»

Il computer selezionò il primo numero. Rispose una donna con ac-


cento veneto o forse friulano. C’era una lista di frasi fatte che doveva-
mo usare per presentarci, ma io me ne fregai e andai a braccio.

«Salve signora, le va di rispondere a qualche domanda?»

«No, grazie» disse quella. «Non mi serve niente.»

Diedi un’occhiata al foglio con le frasi pronte.

«Le assicuro» lessi, «che non voglio venderle niente. Ci preme solt-
anto conoscere la sua opinione su determinati argomenti.»
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La signora fece un gran sospiro e disse che andava bene. Avrebbe ris-
posto alle mie domande, se questo fosse servito a non farmi perdere il
lavoro.

Tornai a improvvisare. E mentre che c’ero mi stravaccai sulla sedia e


poggiai i piedi sulla scrivania.

«Innanzitutto le farò qualche domanda generica, giusto per capire con


chi abbiamo a che fare. Dunque, quanti anni ha? Meno di venti? Fra
venti e quaranta? Più di quaranta?»

«Che ve ne importa quanti anni ho?»

«È per le statistiche.»

«Mmmh. Più di quaranta.»

«Bene.» Cambiai schermata sul monitor. «Adesso mi dica: quanto


guadagna all’anno? Meno di diecimila euro? Più di...»

«Senta» disse la signora. «Questi non sono affari vostri. Se vuole farmi
qualche domanda in generale, va bene. Altrimenti ho cose più import-
anti da fare.»

Sospirai. Non ce l’avrei mai fatta a resistere cinque ore. Perché con-
tinuavo a trovare lavori a contatto col pubblico? Era chiaro che io e il
resto dell’umanità non riuscivamo a prenderci. Mi chiesi se quella mia
incapacità di stabilire un rapporto normale col prossimo mi poteva es-
sere certificata. Magari ci scappava una piccola pensione. Oppure lo
Stato era obbligato a trovarmi un lavoro in cui non avrei avuto a che
fare con nessuno, ma sarei stato chiuso in una stanzetta, da solo, a lec-
care francobolli o cose del genere. Mi guardai intorno. Gli altri sem-
bravano prenderla bene. Molti di loro sorridevano mentre parlavano
nel microfono. Come facevano? E che cavolo ci trovavano da ridere?
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«Pronto?» disse la signora. «È ancora lì?»

«Sì, sono ancora qui.»

Con qualche sforzo riuscii a trascinarla fino alle domande vere e


proprie.

«Ascolti, signora. Il presidente iraniano ha dichiarato che secondo lui


Israele dovrebbe essere cancellato dalle carte geografiche. Quanto si
sente d’accordo con questa affermazione? Molto d’accordo? Ab-
bastanza? Né d’accordo né...»

«Mah» m’interruppe lei. «Secondo me quello non ci sta tanto con la


testa.»

«Capisco, signora, ma ho bisogno di una risposta precisa. Deve scegli-


erne una fra quelle che le elenco io. Si sente molto d’accordo? Ab-
bastanza? Né...»

«Certo, però ha ragione anche lui ad avercela con gli israeliani. Quelli
ne stanno combinando di cotte e di crude in Palestina. Ma d’altronde
cosa vuole? Sono fatti così. Sono ebrei.»

«Mi serve una risposta, signora.»

«Giovanotto, non è che mi sta prendendo in giro, vero? Cosa siete, la


radio?»

«No, signora, non siamo la radio. Gliel’ho detto che cosa facciamo.
Senta, diciamo che lei è molto in disaccordo con l’affermazione del
presidente iraniano, va bene?»

«Faccia come vuole.»


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«Ok.»

Era vietato mettere in bocca agli intervistati le risposte. Era una delle
poche cose che ricordavo dal corso. Ma almeno sarei andato avanti con
le domande.

Passai alla schermata successiva.

«Il presidente americano George W. Bush ha recentemente... ehm...


dichiarato...»

Mi accorsi che il supervisore era in piedi accanto a me. Prima indicò le


mie Converse sulla scrivania e aspettò fino a quando non le tolsi da lì
sopra. Poi, facendo il gesto di tagliarsi la gola con una sega mi fece ca-
pire che dovevo interrompere l’intervista.

«Mi scusi signora, devo scappare in bagno» dissi e chiusi la chiamata.

«Seguimi» disse il responsabile.

Mi tolsi la cuffia e lo seguii fino al cubo di vetro che c’era al centro di


quello stanzone. Il responsabile mi fece segno di sedermi.

«Ascolta, ve l’abbiamo ripetuto un milione di volte al corso. Non


dovete. Mettere. Le risposte. In bocca. Agli intervistati. Ricordi?»

«Mi stavate spiando?»

«Lo facciamo con tutti all’inizio. Comunque, non fare mai più una cosa
del genere. Se serve, gli ripeti fino alla nausea che devono scegliere
una risposta fra quelle che gli elenchi tu. Chiaro?»

Annuii, sperando che l’espressione del mio viso non tradisse la noia
che provavo in quel momento. Una noia insostenibile. Avrei voluto
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dirgli di non prendersela tanto per un mucchio di domande senza im-


portanza. Ma probabilmente solo così era riuscito a fare carriera e a
togliersi da quei telefoni, e lasciai stare.

«Va bene, ho capito» dissi, e mi alzai.

Il supervisore sorrise e mi diede una pacca sulla spalla, forse per farmi
capire che non ce l’aveva veramente con me. O forse perché aveva
paura che mi licenziassi, e lui non poteva permettersi di perdere
telefonisti.

«Ah, e un’altra cosa» disse. «Se devi interrompere una telefonata dici
gentilmente che richiamerai e chiudi, non che devi scappare in bagno,
ok?»

«Ok.»

«Oh, e a proposito delle scarpe sulla scrivania.»

«Sì?»

«Qui non si usa, d’accordo?»

«D’accordo.»

«Bene. Ora fai dieci minuti di pausa e poi torna di corsa al telefono.»

Andai nell’angolo ristoro dei dipendenti e mi preparai una tazza di


caffè solubile. Me la presi comoda perché non avevo la minima inten-
zione di tornare al telefono.

Carlo mi vide. Posò le cuffie e ne approfittò per fare pausa anche lui.

«Come va?» disse.


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«Lascio perdere.»

«Beato te che puoi.»

Ci raggiunse una ragazza. Aveva i capelli talmente biondi da sembrare


quasi bianchi. Una scandinava, probabilmente. Aprì il frigorifero e si
chinò a prendere qualcosa.

Carlo la guardò a lungo con la testa reclinata.

«Dieci e lode» disse con voce sognante.

11
Poi la ragazza di Carlo, un’inglese di nome Katy o Ketty, non l’ho mai
capito, mi disse che dove lavorava lei cercavano gente.

«Di che si tratta?»

«Oh, è molto interessante. Smistiamo CD vuoti in giro per l’Europa.»

Stavamo bevendo qualcosa tutti e tre insieme. Lei mi aveva preso in


simpatia dopo che le avevo raccontato dei miei problemi con Lise.
Aveva detto che mi avrebbe fatto conoscere qualche sua amica, ma
finora mi aveva presentato solo uomini.

«Aspetta un attimo, perché allora non ti presenti tu?» dissi a Carlo.

«Bello, che c’entro io? Io sono un account manager, non un logistic su-
pervisor.» Disse così o qualcosa del genere. Non ci capivo niente con
tutte quelle qualifiche in inglese. Ma capii che era una scusa. In realtà
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credo che la prospettiva di lavorare a stretto contatto con la sua


ragazza lo terrorizzasse. Avrebbe dovuto smettere di giudicare sederi,
per lui sarebbe stato come morire. Un po’ lo capivo.

Grazie alla raccomandazione di Katy/Ketty la compagnia di CD vergini


m’invitò per un colloquio.

Andai vestito come al solito, in jeans e Converse, ma sotto al maglione


questa volta misi una camicia. Non ne indossavo una dal giorno del
matrimonio di mia sorella. Mi sentivo a disagio. Forse mi sono vestito
troppo elegante, pensai guardandomi allo specchio.

L’azienda si trovava nella periferia est di Rotterdam. Ci andai in met-


ropolitana, e siccome ero in anticipo nell’attesa girellai per i dintorni.
Era un po’ deprimente come posto. C’erano soltanto palazzine di quat-
tro piani dominate dalle insegne delle multinazionali che le posse-
devano. Palazzine, pensai, piene di poveri cristi che sacrificavano il
loro tempo per fare arricchire i consigli di amministrazione. Forse
sarei diventato anch’io uno di loro. Avrei preso la stessa metropolitana
cinque giorni alla settimana per chissà quanti anni. In compenso avrei
avuto il frigo e l’armadio pieni. Ne valeva la pena?

Quando fu ora entrai e mi sedetti in sala d’attesa. Lì con me c’erano al-


tri due ragazzi che dissero in inglese di essere venuti per il mio stesso
colloquio. Indossavano completi nuovi di zecca lavati e stirati.
Portavano tutti e due la cravatta. Ai piedi avevano scarpe di cuoio lu-
cidate a specchio. Anche i loro capelli erano lucidati a specchio.

Dopo un po’ si presentò una donna di colore sui quarant’anni.

«Santo D’Amico?» disse.

«Sono io.»
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«Ti puoi accomodare.»

Le passai davanti mentre entravo nella stanza del colloquio. Sorrideva,


ma con la coda dell’occhio vidi che abbassò gli occhi sulle mie scarpe e
i miei jeans. Disse di chiamarsi Lindsey e mi fece sedere a un tavolo.
Lei si sistemò dall’altra parte. Poi la raggiunse un’altra signora della
stessa età ma dai tratti orientali. Zoppicava e per camminare usava
una stampella. Ci mise una vita a sedersi.

«Allora, Santo» disse Lindsey. «Katy mi ha parlato molto bene di te.»

Sorrisi. «Avrà esagerato.»

«Dal tuo curriculum sembra che tu sia una persona molto creativa.
Non credi che tutta questa creatività andrebbe persa lavorando per la
nostra compagnia? Considera che il tuo lavoro sarebbe tutt’altro che
creativo.»

«Sì, be’, non c’è problema» dissi. «A me piace essere creativo fuori
dall’orario di lavoro, per distendere i nervi eccetera. A dire la verità, un
lavoro più è noioso e più mi piace.»

L’orientale intanto mi scrutava in un modo che non mi piaceva. Come


se si stesse chiedendo qual era il mio problema. Un po’ la capivo. È che
certe volte gesticolo troppo. Certa gente per questo motivo mi trova
strano forte, ma io non so che farci.

Lindsey disse: «un’altra cosa. L’ufficio in cui lavoreresti sarebbe occu-


pato principalmente da ragazze. Anzi, in realtà tu saresti l’unico mas-
chio nella stanza. Per te sarebbe un problema?»

«Assolutamente no.» Cercai di scacciare via l’immagine che avevo in


testa: io circondato da colleghe inglesi, francesi, americane, svedesi
che mi considerano un trofeo. L’orientale strizzò gli occhi e mi fissò
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ancora più perplessa. Poi scrisse qualcosa su un foglio. Forse è telepat-


ica, pensai. Ma certo, la usano per leggere la mente dei candidati e
scoprire i furfanti come me.

«Bene» disse Lindsey. «Ora, ascolta. Lavorando qui da noi spesso po-
tresti affrontare dosi elevate di stress. Vorrei che ci spiegassi come
faresti a gestirle. Sai, i problemi si accavallerebbero, riceveresti re-
clami, telefonate di gente arrabbiata eccetera. Come reagiresti in uno
scenario del genere?»

Finsi di rifletterci su. In realtà stavo pensando alla risposta giusta da


dare. Come reagivo di solito al caos lo sapevo: scappando. Ma era
chiaro che non potevo essere sincero.

«Capisco cosa intende» dissi. «Be’, in quei casi manterrei innanzitutto


la calma. Questo è fondamentale. Poi stabilirei al volo una lista priorit-
aria dei problemi – sa, dal più urgente in giù – e farei in modo di
seguirla fedelmente. Ma questo credo valga per tutto, non solo nel la-
voro.» Sorrisi e annuii come se sapessi di cosa stavo parlando.

Anche Lindsey sorrise. Quel sorriso era pieno di compatimento, per-


ché capì che mi stavo umiliando per ottenere il lavoro. La storia si ri-
peteva. Ero io a fare un favore a loro, ne ero sicuro. Eppure in qualche
modo ti convincevano di essere loro a fare un favore a te. Come ci rius-
civano?, mi chiesi. E il dramma era che le cose stavano ancora peggio
di così. Erano riusciti a metterci uno contro l’altro, perché facessimo a
gara per cedere l’unica cosa che avevamo: il nostro tempo. Quei
ragazzi vestiti come figurini nella sala d’attesa probabilmente
speravano che non ottenessi il lavoro. Era la vecchia storia dell’arena e
dei gladiatori. Ci buttavano nella mischia e si divertivano a vederci
scannare, mentre loro mangiavano chicchi d’uva sdraiati sul divano.
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Lindsey mi fece altre domande, poi si alzò in piedi e disse: «va bene, è
tutto. Abbiamo i tuoi dati. Ti faremo sapere nei prossimi giorni, sia che
avremo deciso in tuo favore, sia nell’altro caso.»

L’orientale semplicemente m’ignorò mentre nauseata scriveva qual-


cosa sul suo bloc-notes.

«Ok, grazie» dissi, mi alzai in piedi e tesi la mano.

Lindsey allungò la sua, ma a metà strada si fermò. «Ehm, hai la zip ab-
bassata» disse.

«Eh?»

Controllai. Era vero.

Sembra una pessima barzelletta, e ogni volta che racconterò questo


episodio non mi crederà mai nessuno, ma andò proprio così.

Chiusi la zip e allungai di nuovo la mano. Questa volta Lindsey la


strinse e mi accompagnò fuori. Poverina, era più imbarazzata di me.
Ma anche divertita, in un certo senso. Quasi grata, perché quella sera
avrebbe avuto qualcosa da raccontare al marito. Diede un’ultima oc-
chiata alle mie Converse di tela, poi chiamò uno dei ragazzi seduti in
sala d’attesa.

Chissà se mi assumeranno?, pensai quando uscii da lì.

12
«SEI ANDATO AL COLLOQUIO IN JEANS?» urlò Katy.
80/269

«Sì, e allora?»

«Ma almeno ti eri messo la cravatta, giusto?» disse Carlo

«No. Però la camicia sì.»

«NON PORTAVI NEMMENO LA CRAVATTA!» strillò Katy. Sembrava


veramente arrabbiata. «MA TU UN LAVORO NON LO MERITI! HAI
IDEA DELLA FIGURA DI MERDA CHE MI HAI FATTO FARE?»

Fui lì lì per dirle anche che ero andato al colloquio con le scarpe da
ginnastica, ma avevo troppa paura che si buttasse sotto la prima mac-
china che passava.

Carlo la consolò come meglio poteva e intanto mi lanciava occhiate


severe.

Finii la mia birra e me ne andai.

Decisi di non rivederli mai più.

13
L’aspettativa dalla scuola stava finendo. E anche i soldi, se è per
questo. Ad aprile cominciai a chiedere lavoro a chiunque: ristoranti
italiani, pub, panifici. Dicevo a tutti di avere un sacco di esperienza in
qualunque campo. Pizzaiolo? Lo ero stato. Cuoco? Anche. Maître? Hai
voglia.

Ma non chiamava mai nessuno.


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Mi scrisse Flavio.

Ciao Santo!

Come sta andando in Olanda? Lavori?

Te lo chiedo perché io qui avrei bisogno di aiuto e se decidi di restare


da quelle parti vorrei saperlo, così mi organizzo.

Flavio.

Senza un lavoro non avrei potuto permettermi di abitare ancora con


Alessandro. E comunque quella casa era troppo piccola per entrambi.
Non ci sopportavamo quasi più.

Un giorno Alessandro rientrò in casa insieme a un ragazzo.

«Lui è Pietro» disse.

Ci stringemmo la mano. Pietro indossava abiti normali ma costosi. Si


vedeva che erano costosi. Certa gente odora di soldi da lontano, anche
se va in giro spettinata e con la barba non fatta.

Era uno di quei giorni in cui mi sentivo terribilmente solo, così dissi:
«sentite, avete da fare? Perché non usciamo a berci una birra tutti
insieme?»

Alessandro mi fulminò con lo sguardo. Pietro non disse nulla ma sem-


brava imbarazzato. Pensai fosse allergico al luppolo o che avesse un
passato da alcolizzato, e allora lasciai perdere. Misi su una moka, e
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mentre aspettavo che uscisse il caffè vidi Alessandro accendere il suo


computer e mostrare a Pietro certi suoi lavori di architettura.

«Guarda questo» disse Alessandro.

«Oh, ma è cattivissimo!» disse Pietro. «Mi piace un sacco.»

«E di questo che te ne pare?»

«Decisamente cattivo, bravo!»

«Questo devo dire che non mi fa impazzire.»

«E invece sbagli, perché secondo me è molto MOLTO cattivo.»

Bevvi il caffè senza offrirglielo e uscii per i fatti miei. Cercai lavoro, ma
sembrava che nessuno in quella città avesse bisogno di una mano.

Quando rientrai in casa trovai solo Alessandro.

«Ma lo sai chi è Pietro?» disse. Sembrava arrabbiato con me.

«No, chi è?»

Disse che era l’architetto che aveva progettato i negozi di non ricordo
quale importante casa di moda.

«E tu gli chiedi di bersi una birra? Ma sei impazzito?»

«Hai ragione, scusa» dissi, e andai a rifugiarmi nel soppalco.


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14
«Santo» disse Lise, «devo dirti una cosa.»

«Sentiamo.»

Eravamo andati a cenare in un posto pieno di gente e di fumo di sigar-


ette (in Olanda non era ancora vietato fumare nei luoghi pubblici). Le
giornate si stavano allungando, fuori era giorno.

Lise si fermò a studiarmi il viso per qualche secondo. Io feci la faccia


più inespressiva che potevo. Una bella faccia da poker.

«Ecco» disse Lise, «se stai pensando di lasciare la scuola e il lavoro in


libreria per... fermarti a Rotterdam più a lungo... Se facessi tutto
questo, diciamo, per me...» Fece una pausa. «Be’, allora è meglio se
non lo fai.»

Aspettai di assorbire il colpo, cercando di apparire il più indifferente


possibile. Ma era una parola. Certe volte mantenere la stessa espres-
sione del viso è più faticoso che spingere un trattore.

«Capisco» dissi dopo un po’. «A questo punto mi sa che torno in


Sicilia.»

«Ok» disse lei. E poi fece una cosa che non le perdonerò mai: arricciò
il labbro inferiore come fanno i bambini quando si stanno per mettere
a piangere. Era un modo divertente per farmi capire che in fondo le
dispiaceva che me ne andassi.

Molto in fondo, pensai.


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Feci i biglietti e i bagagli. Alessandro protestò perché lo avrei lasciato a


pagare l’affitto da solo, ma non me ne importava un granché.

La sera prima di partire Lise mi chiese di passare l’ultima notte con lei.
Valle a capire le ragazze. Andammo a letto insieme e a mezzanotte
spaccata, mentre ci stavamo baciando eccetera, le squillò il telefono.
Quando controllò, mezz’ora dopo, scoprì che era stato il suo ex
ragazzo, quello con cui era stata per nove anni.

«Forse voleva farmi gli auguri. Oggi è il mio compleanno.»

«Auguri» dissi.

Quella notte Lise nel sonno strillò più del solito. A un certo punto ebbi
paura che andasse in cucina a prendere un coltello per ficcarmelo nel
petto, ma fortunatamente non successe niente del genere.

Al mattino chiamai Flavio e gli dissi che ero di ritorno.

«Ottimo» disse lui, «torni giusto in tempo per il primo maggio. Apri
tu, ok?»

Chiamai anche la scuola.

«Va bene, D’Amico, l’aspettiamo» disse la segretaria.

Chiusi il telefono e controllai l’ora. Ero in ritardo. Mi chiesi dove fosse


Lise. Venivano degli strani rumori dal bagno. Mi accostai alla porta e
capii che stava vomitando.
85/269

«Tutto bene?» le chiesi quando uscì.

«No. Dev’essere stato qualcosa che ho mangiato ieri sera.»

Mi vestii in fretta e furia, raccolsi la valigia e me ne stetti là in piedi


come un cretino.

«Allora ciao» dissi.

«Ciao» disse lei dal letto, in preda alla nausea.

Presi la porta e uscii. Scesi le scale di corsa, arrivai al portone e... non
si apriva. Era chiuso a chiave dall’interno. Aspettai qualche minuto,
ma non entrò né uscì nessuno. Risalii le scale e suonai il campanello di
Lise. Attraverso la porta sentii un lamento e rumori di passi
strascicati.

«Chi è?»

«Ehm, Santo» dissi.

Lise aprì e mi fissò con odio. Le spiegai qual era il problema, lei prese
la chiave e mi accompagnò giù. Barcollava e si teneva la pancia con
una mano, ma pensai che era sempre bellissima. Peccato non avesse
funzionato fra noi. Quando finalmente uscii da quel palazzo, alle mie
spalle sentii il portone sbattere con più energia di quanta fosse neces-
saria. Addio anche a te, Lise.
Capitolo terzo
1
Ricominciai con la scuola e con la libreria. Poi la scuola chiuse per l’es-
tate, mi tagliai i capelli cortissimi, e continuai a lavorare soltanto in
libreria, tre giorni a settimana. Il resto del tempo lo trascorrevo per lo
più da solo, andavo al mare a leggere romanzoni ottocenteschi di mille
pagine, oppure suonavo con i Cellophane.

Una sera dopo le prove andai con Gianluca in un pub dove c’era una
barista dai capelli ricci e i lineamenti forti. Il naso, le labbra, gli occhi,
le emergevano dal viso come se avessero voluto scappare. Io la trovavo
carina. In più mi salutava sempre con calore, e in quel periodo di
calore me ne serviva un sacco.

Insieme alla birra Sandra – la barista si chiamava così – mi fece recap-


itare dal cameriere un bigliettino. C’era scritto:

Vuoi sposarmi?

Chiesi al cameriere di aspettare. Mi feci prestare una penna, e sullo


stesso biglietto scrissi:

OK

Non mi venne in mente nient’altro. Ripiegai il pezzo di carta e lo feci


restituire a Sandra.
87/269

Quella sera non arrivarono altri messaggi. Io e Gianluca bevemmo la


nostra birra e parlammo di certi concerti che forse avremmo dovuto
tenere, poi ce ne andammo via.

2
Quell’estate Flavio mi fece firmare un contratto. Prima lavoravo in
nero.

«Così se fanno un controllo stiamo tranquilli» disse.

Era un contratto a tempo determinato, di un anno. Non lo lessi nem-


meno, sapevo cosa c’era scritto. Stessa paga di prima, niente tredices-
ima né quattordicesima, di ferie e malattie pagate neanche a parlarne.
Andai a depositarlo all’ufficio collocamento, poi corsi al mare.

Per un po’ Lise continuò a scrivermi. Voleva sapere come stavo, cosa
facessi. Mi scriveva più adesso di quando ero a Rotterdam. Un giorno
che ero in libreria le risposi così:

Lise,

forse è meglio se non ci sentiamo più. Tanto se non ha funzionato


quando vivevo in Olanda, figuriamoci ora.

Stai bene,

Santo.
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Lei si disse d’accordo e non ci scrivemmo più.

3
Qualche giorno dopo rividi una ragazza che conoscevo da tempo. Si
chiamava Sandra, come la barista. Era alta, aveva grandi occhi azzurri
e lunghi capelli rosso scuro. Eravamo pure usciti insieme, una volta,
ma non era successo niente, non ci eravamo presi.

«Santo!» disse. «Che fine avevi fatto? Non ti vedevo in giro da un


pezzo.»

Le dissi che ero stato in Olanda, ma tralasciai i particolari.

«Lavori ancora in quella libreria?»

«Sì. Perché non vieni a trovarmi qualche volta?»

«Quando?»

«Quando vuoi.»

Venne davvero. Era bello averla in libreria. Sandra si sedeva su quella


poltrona rossa che c’era davanti al bancone e chiacchieravamo. La
conversazione con lei era più facile rispetto all’unica volta in cui erava-
mo usciti insieme. Rendeva più sopportabile il mio dovere stare là
dentro. Anche perché in quel periodo non ci capivo un granché.
Continuavo a non preoccuparmi, ma era come se stessi ricominciando
89/269

qualcosa da capo. Ripensandoci, non era una sensazione malvagia. Mi


era stata data una seconda possibilità; ma senza avere altra scelta.

4
Tornai dalla prima Sandra, la barista. Stava preparando birre e cock-
tail a ciclo continuo, ma quando mi vide s’illuminò in viso.

«Ciao!» disse mentre teneva abbassata la leva della spina di birra.

«Ho pensato di venire a trovare mia moglie.»

Lei mi sorrise e porse la birra a un ragazzo. «Tre euro e cinquanta»


disse.

Aspettai un po’, ma il pub era troppo affollato. Impossibile fare con-


versazione con Sandra, c’era sempre qualcuno che le chiedeva di pre-
parargli da bere. In più tutta quella folla cominciava a disturbarmi. Io
sono nato per stare per conto mio in una stanza. Tre persone per me
sono già troppe, figuriamoci come mi sentissi in un posto pieno di
gente. Non è che in casi del genere vada in crisi. È solo che dopo un po’
non posso fare a meno di ascoltare i discorsi degli altri. E mai che
qualcuno dica niente di interessante. Calcio, Formula uno, cibo, polit-
ica. Tutto quello che hanno da dire le persone mi stufa o mi irrita. Se
entrasse in vigore una legge che imponesse di stare in silenzio nei
luoghi pubblici probabilmente diventerei il più attivo animale not-
turno della città, ma fino ad allora preferisco uscire il minimo
indispensabile.

Raggiunsi i miei amici fuori, ma nemmeno loro avevano qualcosa di


interessante da dire e così dopo un po’ decisi di tornare a casa. Prima
90/269

però feci un’altra puntata al bar. Sandra stava ancora riempiendo boc-
cali e bicchieri.

«Dov’eri finito?» disse.

«Ero qui fuori. Sono venuto a salutarti, me ne vado.»

Feci per andarmene, ma poi ci ripensai e mi sporsi sopra il bancone.

«Senti, me lo dài il tuo numero di telefono?»

Sandra annuì, si pulì le mani con uno strofinaccio e spostò i ricci


castani dietro le orecchie. Quel gesto mi piacque un sacco. Quasi le
chiesi di rifarlo. Poi scrisse su un taccuino il suo numero, strappò il
foglio e me lo porse.

Ripiegai il foglietto e lo infilai nella tasca posteriore dei jeans. Mentre


me andavo, le feci ciao con la mano.

5
Un paio di giorni dopo ero in libreria con l’altra Sandra, quella con i
capelli rossi, e a un certo punto le chiesi che programmi avesse per la
serata.

«Niente di speciale» disse lei fissandomi con quegli occhi enormi.


«Tu?»

«Nemmeno.»

«Magari possiamo fare qualcosa insieme.»


91/269

«Perché no?» dissi, e ci mettemmo d’accordo per vederci dopo cena.

Andammo in un pub – non quello dove lavorava l’altra Sandra – e ci


sedemmo all’aperto. Si stava bene là fuori. Siracusa all’inizio dell’es-
tate è fantastica. Bevemmo birra e chiacchierammo come se fossimo
stati ancora in libreria, ma decisi di non aspettarmi niente dalla serata.
Ricordavo ancora quella volta, mesi prima, che non aveva avuto un se-
guito, allora diedi per scontato che fra noi non sarebbe successo nulla
e mi rilassai.

«Non ti piace proprio lavorare in libreria?» disse Sandra.

«È pieno di scocciatori.»

«Che vuoi dire?»

«I clienti, nel senso. L’hai visto, con loro non ci prendiamo un


granché. Io ce la metto tutta ma non c’è verso. Oggi uno fa: “un mio
amico mi ha consigliato un libro, volevo sapere se ce l’avete.” “Che
libro è?” faccio io. “Il titolo non lo so” fa lui, “ricordo che ha la coper-
tina verde. Ha capito qual è?” E io: “no.” E lui: “se torno domani trovo
di nuovo lei o qualcuno che di libri ne capisce?”»

Sandra sorrise. Era carina quando sorrideva. Aveva gli incisivi superi-
ori piccoli e leggermente distanziati, ma in un modo che le donava.

«Anche il ristorante è pieno di clienti difficili» disse (lavorava nel ris-


torante dei suoi genitori). Pure lei aveva qualche storiella divertente da
raccontare, e mentre l’ascoltavo mi ricordai perché anni prima mi era
piaciuta così tanto.

Dopo un po’ la riaccompagnai a casa.

«Eccoci qua» dissi quando arrivammo.


92/269

«Vuoi vedere casa?» disse lei.

«Certo.»

La seguii dentro provando una sensazione familiare. Veniva dai tempi


del campeggio. Era la sensazione che avevo provato tutte le volte che
una ragazza si era dimostrata interessata a me fuori da ogni ragione-
vole dubbio. Arrivava sempre un momento in cui lo capivi con cer-
tezza. Magari eri con due ragazze in spiaggia, di notte, e a un certo
punto una delle due si stiracchiava e diceva che sarebbe andata a
dormire, mentre l’altra ammetteva di volere restare ancora un po’ da
sola con te. Con gli altri ragazzi chiamavamo quel momento “Gran
premio della montagna”, come nel ciclismo, perché da lì in poi era
tutta discesa.

Casa di Sandra era su due piani e profumava di pulito.

«Vieni, ti mostro di sopra» disse.

«Ok.»

Le andai dietro su per le scale. Sandra mi mostrò la vista dalla finestra,


si lamentò dell’umidità eccetera, il tutto evitando il mio sguardo.

«E lì dove sei tu c’è il ripostiglio» disse venendomi vicino. Ero in piedi


sulla soglia, per entrare si sarebbe dovuta strusciare contro di me. Lo
fece, solo che poi restò lì, appiccicata, a guardarmi negli occhi.

Ci baciammo. Notai che il collo di Sandra profumava di sapone di


Marsiglia. Poi ci spostammo sul letto, quel suo lettone a due piazze. Ci
spogliammo a vicenda senza smettere di baciarci. Ci togliemmo tutti i
vestiti, e alla fine restai a guardarla per qualche secondo. Sandra aveva
la pelle molto chiara, sul suo corpo non c’era traccia di una grinza, di
una smagliatura, niente. La pelle la avvolgeva come una guaina
93/269

elastica fatta su misura per lei. Che ci faceva una ragazza così bella e
intelligente con uno come me?, mi chiesi. Che problema aveva? Non
ero certo un esempio di bellezza. Avevo i denti storti e i piedi piatti,
ero troppo magro per la mia altezza, muscoli manco a parlarne, brac-
cia e gambe nodose. In più non avevo prospettive per il futuro, ero
tutt’altro che un buon partito, la mia famiglia non era ricca, non sop-
portavo la gente, ero sciatto, taciturno e tenevo spesso il muso.

Eppure, pensai, eccomi qua.

6
Recuperai il foglietto con il numero di Sandra la barista e la chiamai.
Le chiesi se le andava di uscire e lei rispose di sì, che le avrebbe fatto
piacere. Decidemmo di vederci sugli scalini del duomo. Mentre as-
pettavo pensai un po’ a Lise, la mia bionda ragazzona olandese. Erano
passati due mesi e mezzo dall’ultima volta che l’avevo vista, ma sem-
brava molto di più.

Sandra arrivò poco dopo. Aveva i capelli ricci e voluminosi, si era truc-
cata leggermente gli occhi e indossava un giubbetto di pelle aderente,
da uomo. Con un balzo mi si sedette accanto e fece una faccia buffa.

«Ciao uomo» disse.

«Ciao donna.»

«Dove si va?»

Visto che eravamo lì vicino e che era un posto tranquillo, andammo


nello stesso pub dov’ero andato con l’altra Sandra. Quando il
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cameriere venne a portarci i menu si fermò a guardarmi per qualche


secondo.

«Bentornato» disse.

«Grazie.»

Tentò un sorriso complice ma lo ignorai.

Io e Sandra parlammo del più e del meno per circa un’ora. Con lei la
conversazione era più informale, giocavamo a comportarci da idioti.
Sandra aveva occhi espressivi e una bella bocca carnosa che assumeva
una forma strana ogni volta che scherzava.

«Allora? Vedi di non farmi annoiare. Raccontami qualcosa» disse.

«Cosa vuoi che ti racconti?»

«Non lo so. Come passi la giornata?»

«Mi piace non fare niente.»

«In che senso?»

«In senso letterale. Tutti sono convinti di dovere continuamente riem-


pire il tempo in qualche modo. Io lo riempio di niente.»

«Cioè che fai?»

«Me ne sto sdraiato sul letto e fisso il vuoto.»

«Ti sembra un modo costruttivo di usare il tempo?»

«Non faccio male a nessuno.»


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«Tranne che a te stesso.»

Solo ora mi rendevo conto che doveva essere molto più giovane di me.

«Si può sapere quanti anni hai?» dissi.

«Si può sapere che te ne frega?»

Risi. «No, sul serio.»

«Ventidue. È un problema?»

Ci incamminammo verso la mia macchina, una vecchia Renault4 del


1982 che da bambino avevo comprato con mio padre. Volevo bene a
quella macchina come se fosse un membro della famiglia. Ogni tanto
nel traffico le parlavo, le chiedevo i consigli. Per strada io e Sandra
continuammo a scherzare e a ridere. Poi ci fermammo davanti a un
locale ormai chiuso che aveva lasciato sedie e tavolini fuori. Sandra si
sedette su una sedia con i braccioli e mi sorrise. Io mi chinai e provai a
baciarla. Lei mi lasciò fare.

Forse erano davvero finiti gli anni bui, pensai. Quando le ragazze
voltavano la testa e mi lasciavano a secco. Gli anni dai dodici ai dician-
nove, in particolare, erano stati duri. Sette anni di rifiuti difficili da di-
gerire. Spesso immaginavo di stare vivendo, a trent’anni, tutte le es-
perienze che non avevo fatto da adolescente, come se volessi recuper-
are il tempo perduto. E il mio corpo sembrava confermare quella teor-
ia. Tutti mi davano al massimo ventiquattro anni. Secondo i miei cal-
coli avrei cominciato a ragionare come un adulto (e ad assomigliargli)
verso i cinquant’anni.
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Sandra aveva le labbra fredde e baciava inclinando la testa da un lato e


tenendo gli occhi chiusi, come le attrici dei film muti. Dopo un po’ l’ac-
compagnai a casa. Non mi chiese di salire, quella volta. Ci augurammo
la buonanotte, presi la macchina e tornai a casa dai miei. Per strada
chiesi alla Renault se il mio comportamento fosse in qualche modo
disprezzabile. Non rispose. Meglio così.

7
Grazie alle due Sandre feci del mio meglio per dimenticare Lise. Stab-
ilii una routine: un giorno vedevo una Sandra, quello dopo l’altra. Ogni
tanto riuscivo a vederle tutte e due nello stesso giorno, grazie al fatto
che abitavano in zone diverse del centro e avevano orari lavorativi che
non coincidevano. Col telefono dovevo stare attento. I loro nomi erano
uno sopra all’altro, nella rubrica, e più di una volta chiamai la Sandra
sbagliata e dovetti inventare una scusa. Quando mi venivano dei dubbi
circa la mia condotta, scuotevo le spalle e mi dicevo che non c’era ni-
ente di cui preoccuparsi.

8
Era estate e la libreria cominciò a riempirsi di turisti. Una marea di
gente che proveniva da tutto il mondo. La maggior parte voleva usare
internet, oppure chiedeva se avevamo libri illustrati sulla Sicilia; lib-
roni massicci, pieni di foto, che si sarebbero dovuti portare in aereo
pagando il bagaglio extra per il gusto di mostrarli agli amici e darsi
delle arie. Alcuni compravano Il gattopardo o i libri di Pirandello per-
ché pensavano fosse fico leggersi un romanzo negli stessi posti in cui è
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ambientato. Magari lo era, ma da dietro il bancone di una libreria


sembrava solo stupido.

Fui sorpreso di scoprire quante persone in piena estate preferivano


rinchiudersi in un negozio invece di andarsene in giro o al mare. Io
non avevo scelta, ero costretto a stare là dentro, ma loro? Avrebbero
potuto fare un mucchio di cose fuori da lì, invece di chiudersi in librer-
ia a darmi il tormento.

«Senta, mi dia un libro sulla Sicilia. Ma non un libro normale, però.


Uno che lasci a bocca aperta» disse un turista.

Presi un volume a caso fra quelli illustrati e glielo feci vedere.

«Ne vendete molti di questi?»

«Sì, è quello che vendiamo di più.»

«Allora non m’interessa, grazie.»

Molti erano fissati con la temperatura che c’era in libreria.

«Senta, può spegnere l’aria condizionata? Qui dentro si gela.»

Due minuti dopo si avvicinava qualcun altro.

«Si può sapere perché tenete l’aria condizionata spenta? Si cuoce.»

«Ho l’influenza» dicevo.

«Oh.» Ma non se ne andavano. La spinta a comprare cose inutili era


troppo forte.
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9
Con i clienti locali andava meglio, ma erano ossessionati dallo sconto.

«Ma come, mi fai il prezzo intero?» dicevano al momento di pagare.


«Flavio me la fa sempre una carezzina.» Chiamavano lo sconto
“carezzina”.

Lavoravo là dentro solo tre giorni a settimana, non potevo distinguere


fra clienti occasionali e clienti fissi.

«Mi scusi, non lo sapevo» dicevo. «Allora invece di diciotto euro fac-
ciamo diciassette.»

Il problema era che in questo modo me li ritrovavo continuamente tra


i piedi. Ci misi un bel po’ a capire una cosa ovvia, e cioè che liberarsi di
quegli scocciatori era più facile di quanto pensassi.

«In totale viene ventitré euro, grazie» dicevo per esempio.

«Sì, ma con lo sconto?» chiedevano loro.

«Mi dispiace, non posso fare sconti. Sa, sono solo un dipendente.»

«Ma a me lo fate sempre uno sconto!»

«Capisco» dicevo. «Allora le conviene tornare quando c’è Flavio. Sono


sicuro che lui gliela farà una, ehm, carezzina.»

«Tornare quando c’è... MA HAI IDEA DI QUANTI LIBRI HO


COMPRATO QUA DENTRO DA QUANDO QUESTO POSTO HA
APERTO?»
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«Senta, io non sono autorizzato a fare sconti.»

Era una bugia colossale e loro lo sapevano. Questo non faceva altro
che aumentare il loro livore. Che poi era il mio scopo.

«Sa che le dico? Teneteveli i vostri libri.» Se ne andavano e non tor-


navano più.

Era così semplice. Mi dispiaceva non averci pensato prima.

10
Nonostante tutto, quello fu un bel periodo. Tre giorni alla settimana al
lavoro, il resto del tempo al mare o ad alternarmi con le due Sandre.

Sapevo che non poteva durare.

Una sera ero a casa di una delle due Sandre, quella con i capelli rossi e
gli occhi azzurri grandi. Stavamo vedendo un film sdraiati sul suo
letto. Non era un bel film, ricordo che preferivo guardare le caviglie e i
polsi di Sandra, che erano sottilissimi e lasciavano intravedere la rag-
natela di vene sotto la pelle.

«Ascolta, Santo» disse lei a un certo punto mettendo in pausa il film.

Aspettai. Niente che cominciasse per «ascolta, Santo» poteva pro-


mettere qualcosa di buono.

«Il fatto è che mi sono rotta di vederti un giorno sì e uno no. Non è
normale. Neanche te l’avesse ordinato il medico.»
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«Se mi comporto così ci sarà un motivo.»

«Ah, sì? E qual è?»

«Ho bisogno di...» Pensai a quello che mi avevano detto le ragazze,


negli anni, per scaricarmi o tenermi alla larga. In questo ero un esper-
to. «Ho bisogno di stare da solo, capisci?»

«No, non lo capisco.» Non era arrabbiata, solo dispiaciuta. Si era pre-
parata il discorso per mezzo film, e ora eccolo qua.

«Senti» dissi, «non posso farci niente, ho veramente bisogno di stare


da solo. È un bisogno quasi fisico. Non è colpa mia se la compagnia
che preferisco più di tutte è quella di me stesso.»

«Grazie, eh» disse Sandra.

«No... Non voglio dire che non mi piaccia stare insieme a te. Mi piace
moltissimo. È solo che...»

«Ascolta» disse lei. «Le cose stanno così: o ci vediamo tutti i giorni
come le persone normali o non ci vediamo affatto, chiaro?»

Provai a farla ragionare, ma non ci fu verso. D’altra parte non aveva


torto.

Uscii da casa sua e m’incamminai con le mani in tasca verso dove


avevo parcheggiato la macchina. Avevo perso una ragazza, ma forse
era meglio così, soprattutto per lei.

Poi, ero appena arrivato in piazza Archimede quando alle mie spalle
sentii qualcuno chiamarmi.

«Santo!»
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Mi voltai. Era Sandra, in sella alla sua bicicletta.

«Aspetta!»

Mi fermai. Lei frenò accanto a me.

«Ci ho ripensato» disse. Aveva il fiatone. «Se è questo che vuoi, allora
mi sta bene. Anche se ci vediamo un giorno sì e uno no, per me va
bene lo stesso.»

Non dissi nulla. Speravo che lei capisse da quel silenzio come la
pensassi. E infatti lo capì.

«Chissà quant’è grande in questo momento il tuo ego, vero Santo?»

«Non dire così.»

«Una bella ragazza che ti rincorre in bicicletta e ti prega di restare con


lei. Non c’è male.»

«Sandra...»

«Va bene, Santo. Come vuoi» disse lei. Voltò la bicicletta e tornò da
dove era venuta.

11
L’altra Sandra, l’unica che mi fosse rimasta, mi telefonò qualche
giorno dopo in libreria.

«Ho un ritardo.»
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«In che senso?»

«Non mi sono venute le mestruazioni.»

Mi si chiuse lo stomaco. Com’era possibile? Lo avevamo fatto sempre


in modo protetto. Soltanto un paio di volte non avevamo usato niente,
ma mi sembrava di essere stato molto attento. E pensai: come no, il
mondo è pieno di gente nata da genitori che giuravano di essere stati
molto attenti.

«Santo? Ci sei?»

«Ma... sei sicura?» dissi.

«Che cazzo di domanda è?»

«Scusa. Di quanti giorni è questo ritardo?»

«Un paio ormai.»

Mi passai una mano fra i capelli. Ebbi la netta, sgradevole sensazione


che la mia vita stava cambiando. Proprio ora, proprio lì, in quella
libreria.

«Ti era mai capitato?» dissi.

«Mai.»

Mi ricordai della volta in cui Sandra si era vantata di non avere mai
avuto un ritardo in vita sua, nemmeno di mezza giornata. “Ci potrei
puntare l’orologio” aveva detto.

«Va bene, ne riparliamo dopo con calma.»


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«Ok, a più tardi» disse Sandra, e riattaccò. Il suo tono non era
spaventato. Era calmo, come quello delle persone pratiche quando
devono affrontare un problema.

Diedi per scontato che Sandra fosse incinta, e trascorsi il resto del po-
meriggio a ideare un piano alternativo. È legale l’aborto in Italia? mi
chiesi. E se lei vuole tenere il bambino? Devo riconoscerlo per forza?
In quali paesi del mondo è più facile sparire per uno che non sa fare
niente e non ha soldi da parte?

Alle otto e un quarto chiusi la libreria e andai a casa di Sandra senza


cenare (non avevo fame). La trovai che guardava la TV infilata a letto
come se avesse avuto l’influenza.

«Come va?»

«Sempre uguale» disse lei fissando lo schermo.

«Dolori premestruali?»

«Nessuno.»

«Hai paura?»

Finalmente si voltò a guardarmi. «Secondo te?»

Ne parlai con qualche amico.

Rita, un’amica di vecchia data, disse che mi stava bene. Secondo lei
Sandra puzzava ed era strana. Mi aveva detto più volte di stare attento.

«Ti avevo avvertito» disse, e se ne lavò le mani.


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Telefonai a Vanni, un mio amico che, come tutti, si era trasferito al


nord. Io ero uno dei pochi a essere rimasto a fossilizzarmi in Sicilia.
Gli raccontai tutto e dissi che nel peggiore dei casi Sandra avrebbe po-
tuto abortire.

«Ehi, vacci piano» disse lui con quell’accento mezzo siculo mezzo lom-
bardo che si ritrovava. «L’aborto è un trauma per una ragazza. Mica
gliene puoi parlare così. Devi avere tatto.»

«Va bene, va bene.»

«In più... be’, abortire è peccato, lo sai.»

«Peccato? Che cavolo dici?»

«Calmati, Santo. Non è colpa mia quello che ti sta capitando.»

«Ma scusa, non eri ateo?»

«Agnostico, caso mai» disse Vanni. «E no, non lo sono più. Da un po’
di tempo ho intrapreso un nuovo cammino spirituale. Ho conosciuto
una ragazza della chiesa evangelista, e ho scoperto che...»

Riattaccai. Poi cominciai a camminare per casa. Andai da camera mia


in cucina non so quante volte.

«Che è successo, Santo?» disse mia madre.

«Niente mamma, è tutto sotto controllo.»

«Seee.»
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12
L’indomani eravamo già a cinque giorni di ritardo. Si avvicinava la
sicurezza matematica che Sandra fosse incinta. Era luglio inoltrato,
fuori facevano trentotto gradi, e un’ora prima di aprire la libreria, alle
tre del pomeriggio, me ne andavo in giro per la città deserta come
ubriaco. Non riuscivo a credere che stesse succedendo proprio a me.
Non volevo un figlio da Sandra. Anzi, non volevo un figlio da nessuno.
Il mondo mi sembrava già fin troppo affollato, qualcuno doveva pur
mettere da parte il proprio egoismo e rinunciare a riprodursi. E ormai
da tempo avevo deciso che quel qualcuno sarei stato io. Il mio DNA si
sarebbe estinto con me, e allora? Tanto meglio.

Invece tutto a un tratto rischiavo di ritrovarmi, da lì a pochi mesi, a


trascorrere notti insonni accanto a un neonato. Per mantenerci avrei
dovuto trovare altri tre, quattro lavori. Ero sicuro che non sarei mai
sopravvissuto.

Poi squillò il telefono. Era Sandra.

«Pronto» disse con un sussurro strozzato.

«Come va?»

«Sto malissimo.»

«Che succede?» dissi, sentendo l’euforia montarmi dentro.

«Mi sono venute le mie cose. Sono più forti del solito. Sto a pezzi.»

«Oh, mi dispiace.»
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«Passeresti in farmacia a comprare delle pillole contro i dolori mestru-


ali? Te lo chiedo per favore.»

«Certo. Arrivo subito.»

Chiusi e corsi nell’unica farmacia aperta a quell’ora. Le pillole cost-


avano più di quanto pensassi, ma chi se ne importava. Le avrei pagate
il triplo in quel momento.

13
Quell’estate si sposò anche mio fratello. Guarda caso, con un’olandese.
Con indosso i miei soliti pantaloni di flanella andai alla cerimonia, e al
ristorante capitai allo stesso tavolo con cinque olandesi. Per un po' li
ascoltai parlare in silenzio mentre mangiavo. Poi non riuscii più a
trattenermi e mi alzai.

Fermai uno dei camerieri.

«Scusa, dov’è il bagno?»

«Lì in fondo, sulla destra.»

«Grazie.»

Entrai in bagno e mi chiusi la porta alle spalle. Mi sedetti sul water


chiuso, e finalmente scoppiai a piangere.

Lise mi mancava ancora molto. Avrei voluto che fosse lì anche lei.
Ormai non la sentivo da un pezzo. Mi chiesi che cosa stesse facendo in
quel momento, con chi fosse.
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Quando tornai nella sala da pranzo uno degli invitati olandesi mi


fermò.

«Su col morale» disse in inglese. «Mica ti sei sposato tu.»

Scrissi a Lise che non era vero niente che non volevo più sentirla.
Volevo che restassimo in contatto, e che magari prima o poi ci
rivedessimo.

Lei non rispose.

Aspettai una settimana, poi le scrissi un’altra volta. Forse non aveva
ricevuto la mia prima email? le chiesi. E comunque: avevo una gran
voglia di rivederla. Era possibile? Voleva fare un viaggio con me? Io e
lei da soli?

Questa volta rispose il giorno dopo.

Caro Santo,

tutta questa attenzione da parte tua mi lusinga. Sei un caro ragazzo,


e sono contenta che ci sia stato quello che c’è stato fra noi, ma quando
è troppo è troppo. Fa’ quello che vuoi, chiedi aiuto a qualcuno, con-
osci qualche altra ragazza, ma lasciami in pace, d’accordo?

Lise.

Quando lessi questa risposta ero in libreria. Non riuscii a togliere gli
occhi dallo schermo per un pezzo. Rilessi quelle frasi una ventina di
volte senza mai trovare uno spiraglio, una speranza, niente. Era
proprio finita. Non riuscivo a crederci. La mia ragazzona olandese, an-
data per sempre.
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14
Questa volta stetti veramente male. Non ero mai stato così male per
una ragazza in vita mia. La sera andavo a letto pensando a Lise e al
fatto che non l’avrei mai più rivista. La mattina mi svegliavo e mal-
edicevo me stesso per essere vivo, se significava dovere attraversare
tutte quelle ore di veglia sull’orlo del pianto. Per fortuna Sandra in
quel periodo era in vacanza dai suoi, a Catania. In compenso parlavo
di Lise con chiunque mi capitasse a tiro, perfino con mia madre.

«Si può sapere che cos’hai, Santo?»

«Niente, mamma.»

«Impossibile. Sei troppo giù. Vieni qua, siediti e raccontami tutto.»

Eravamo in veranda, dove tirava un bel vento fresco. Mi accasciai sulla


sedia accanto alla sua.

«Pensi ancora a quella ragazza olandese?»

«Sì.»

«Ma dài, quella bionda e alta?» Lo disse con una smorfia, come se
avere i capelli biondi ed essere alta fossero due difetti imperdonabili
per una ragazza.

«Sì mamma, lei.»

«Ma smettila! Piuttosto trovati una bella ragazza siciliana. Che cosa
sono queste ragazze straniere?»
109/269

«E Leo allora?» dissi. Leo era mio fratello, quello che si era appena
sposato.

«Appunto, uno basta e avanza. Dài, riprenditi. Lo sai come si dice, no?
“Chiusa una porta, si apre un portone.”»

«Come no.»

Ne parlai perfino con mio padre, per dire come stavo messo.

Lui ascoltò con calma. Poi disse solo: «mogli e buoi dei paesi tuoi.» Ni-
ent’altro.

«In che senso “paesi tuoi”, papà? Mogli e buoi siciliani? Siracusani?
Del nostro quartiere? Del nostro pianerottolo?»

15
Mi sembrava d’impazzire. Dovevo trovare qualcosa per distrarmi.

Così decisi di andare a stare per conto mio.

I miei genitori possedevano un piccolo appartamento vicino alla


stazione dei treni, un affare che avevano fatto anni prima. Almeno,
loro credevano fosse un affare. In realtà si trovava nella zona più
squallida della città, quella degli spacciatori e delle prostitute. Per
questo non erano mai riusciti ad affittarlo a nessuno. Quell’apparta-
mento era disabitato da troppo tempo. Pensai che per me potesse
andare.
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Mi occupai di tutto io. Allaccio dell’energia, dell’acqua eccetera. Com-


prai alcuni secchi di vernice e dipinsi le pareti. La camera da letto la
feci azzurra, perché dicevano che siccome era il colore del cielo e
dell’acqua conciliava il sonno e dava serenità. Il resto lo dipinsi color
panna. Poi me ne andai in giro in cerca di qualche pallet che fungesse
da letto. Ne trovai due gettati via per strada, li posai al centro della
stanza da letto, in mezzo a tutto quel blu, e ci poggiai sopra un mater-
asso sottile che avevo rubato dal divano letto dei miei. Mi trasferii il
giorno stesso, anche se a parte i pallet non c’erano mobili. Ma final-
mente potevo dire addio alla macchina e alla sudata che facevo ogni
volta che la prendevo per andare su e giù per la città. Per raggiungere
il centro avrei usato la vecchia bicicletta che mi aveva regalato mio
padre per la licenza media, così non avrei più avuto il problema del
parcheggio, del traffico e delle multe.

La prima notte non chiusi occhio, la passai a grattarmi. Non so se


fosse colpa del materasso o dei pallet, fatto sta che quella specie di
letto era il paradiso degli acari o qualsiasi cosa fosse a pizzicarmi. Per
non parlare delle zanzare. Quella stanza ne era piena.

Il giorno dopo realizzai che probabilmente quello era l’appartamento


più rumoroso di tutta la Sicilia orientale. L’officina di un vetraio con-
finava con la mia camera da letto. Dalla mia finestra alla loro c’erano
un paio di metri. Quei matti si misero ad affettare vetro e alluminio
alle cinque del mattino facendomi saltare a sedere sul letto. La
stazione attaccò alle cinque e mezza, con i treni che quando frenavano
facevano un rumore tipo il gesso nuovo sulla lavagna. Come se non
bastasse, i macchinisti sembravano divertirsi un mondo a usare le loro
sirene, e i megafoni diffondevano a ciclo continuo una voce di donna
che annoiata a morte informava i viaggiatori sugli orari, i cambi di bin-
ario e soprattutto i ritardi. La sentii dire non so quante volte ci
scusiamo per il disagio, allontanarsi dalla linea gialla e binario uno
piazzale ovest.
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16
La storia con Sandra andava avanti. Ci vedevamo soprattutto di po-
meriggio, perché la sera e la notte lei lavorava. Di giorno invece
dormiva. Si svegliava verso le quattro del pomeriggio, poi mi chiamava
per chiedermi di andarla a trovare. Io prendevo la bici e la raggiun-
gevo. Di solito la trovavo nella sua stanza, al buio, con addosso ancora
il pigiama. Lì dentro c’era puzza di chiuso e di scarpe da ginnastica su-
date. E anche di merda, se è per questo. Sandra aveva un gatto, ma
evidentemente non aveva tempo per pensare a lui, e così il poveretto
aveva la lettiera intasata di cacca. Sul serio, traboccava di fuori.

«Ascolta, non ci vuole molto a pulire una lettiera» dicevo. Aprivo la


finestra e facevo entrare un po’ di luce e soprattutto di aria. «Quel
poveretto sta nuotando nella sua stessa merda.»

Con gli occhi socchiusi per il riverbero, pallida come un vampiro e i


capelli ricci schiacciati su un lato, Sandra si metteva a sedere sul letto
e diceva: «che cazzo dici? Se l’ho pulita ieri.»

«Come no, guarda qua» dicevo mentre con una paletta filtravo la letti-
era. «Si può sapere come fai a dormire vicino a tanta merda?»

«Senti, se sei venuto a rompere i coglioni allora era meglio che non
venivi.»

«Ok, ok. Fai come vuoi. Io lo dicevo per te.»

«Ci penso io a me, va bene?»

*
112/269

Ma spesso Sandra era di buon umore, e quando arrivavo, alle quattro


del pomeriggio, usciva dal letto, mi dava un bacio e andava in bagno.
Io restavo in camera sua a contemplare quel caos di vestiti, scarpe,
custodie di CD, riviste e merda di gatto. Dopo un po’ lei tornava dal
bagno e diceva: «allora, come va?»

«Bene.»

«Che vuoi fare?»

«Non so, tu?»

«Ti va di fare un po’ di sesso?»

«Ok.»

Non avevo mai conosciuto una ragazza che chiedesse lei di farlo. Di
solito aspettavano che fossi io a prendere l’iniziativa, e anche allora
non ero sicuro che si arrivasse a qualcosa. Con Sandra era tutto molto
più semplice. Fu grazie a una serie di pomeriggi del genere che final-
mente riuscii a dimenticare Lise.

17
Ma la situazione in libreria era sempre la stessa. La cosa buffa era che
tutti i clienti erano convinti di capirne più di chiunque altro (soprat-
tutto di me) in fatto di libri. E ognuno credeva di avere gusti letterari
superiori alla media. Anche quelli che leggevano libri stupidi (anzi,
soprattutto loro) la pensavano così. Più erano ignoranti, più si davano
l’aria da intellettuali. E trattavano me di conseguenza. Dovere avere a
che fare col sottoscritto lo consideravano un ulteriore prezzo da pagare
113/269

per leggere i loro libri. Probabilmente si reputavano troppo sensibili e


intelligenti per discutere con un commesso. Solo gli scrittori avrebbero
dovuto avere il privilegio di parlare con loro. Molti si scandalizzavano
se ammettevo di non avere letto mai niente dei loro autori preferiti. Mi
guardavano scioccati, nei loro occhi coglievo un lampo di disprezzo.
Sembravano chiedersi come facessi a lavorare in una libreria – nella
libreria dove si servivano – se non conoscevo a memoria una trilogia
con protagonista un essere mezzo uomo e mezzo topo che loro
avevano letto diverse volte. Qualcuno non aveva problemi a dirmelo in
faccia.

«Ecco qual è il problema dell’Italia. Troppa gente fa un lavoro per cui


non è portato. Senza offesa, s’intende.»

Il bello è che anch’io guardavo loro dall’alto in basso. Come tutti i


commessi, mi sentivo superiore ai clienti. E avevo i miei autori prefer-
iti. Se qualcuno per esempio mi chiedeva cos’avevamo di Philip Roth
mi diventava subito simpatico. Con lui ero più gentile che con gli altri.
Ci scappava pure uno sconto. Al contrario, se un cliente ammetteva di
non averlo mai sentito nominare, con me aveva finito. Fingevo di
avere cose più importanti da fare e lo piantavo in asso.

Mi comportavo esattamente come loro.

Poi c’erano quelli che mi rivolgevano la parola senza neanche guar-


darmi. Chiedevano qualcosa o rispondevano a una mia domanda dan-
domi le spalle. Chiaro che non capivo un accidente di quello che
dicevano.

«Avete qualcosa di mh mh mh mh?»

«Mi scusi, qualcosa di?» chiedevo alle loro nuche.


114/269

«Mh mh mh.»

«Non ho capito.»

Finalmente facevano lo sforzo di voltarsi.

«Cos’è, sordo?»

Avevo una teoria anche su questo. E cioè che si comportavano così


soprattutto gli appartenenti a una fascia d’età: quelli che avevano
quaranta e rotti anni. Ovvero i poveracci che erano stati adolescenti
negli anni Ottanta (gli anni Ottanta a Siracusa avevano fatto un sacco
di danni, devono essere stati terribili). Ti accorgevi subito quando en-
travano loro: dal modo in cui si guardavano intorno, in cui andavano
in giro vestiti, con pantaloni viola e maglioni di cotone appoggiati sulle
spalle, o dal modo in cui appunto mi rivolgevano la parola senza guar-
darmi in faccia. Erano pieni di complessi e in un certo senso mi
facevano anche un po’ pena. Flavio era uno di loro, e questo non
aiutava il nostro rapporto, che rimaneva freddo e basato sul sospetto
reciproco. Quando capitava di trovarci in libreria nello stesso mo-
mento ci scrutavamo guardinghi, a disagio, come se non ci fidassimo
l’uno dell’altro.

18
Passò un altro Natale e un altro inverno.

A scuola quell’anno avevo tre classi. E visto che era in centro, ci an-
davo in bicicletta. Quando i ragazzi mi vedevano arrivare me ne
dicevano di tutti i colori.
115/269

«Quanto fa con un litro, professore?»

«Professore Pantani!»

«Ha le ruote sgonfie, prof!»

Loro venivano con gli scooter. Evidentemente i genitori glieli avevano


comprati come premio per essersi fatti bocciare per tre anni di fila. In-
dossavano abiti firmati e ne andavano fieri. Io vestivo sempre allo
stesso modo, sia che andassi a scuola, in libreria o alle prove con i Cel-
lophane. Avevo da anni gli stessi vestiti comprati di seconda mano o
ereditati da cugini più grandi. Qualcuno mi scambiava per uno stu-
dente. A volte un nuovo professore che non conoscevo mi trovava di-
etro la cattedra e andava su tutte le furie. «Alzati subito da lì!» diceva.
«Dov’è il professore?»

Visto che casa di Sandra si trovava a cinquanta metri dalla scuola,


spesso andavo a trascorrere la ricreazione da lei. Suonavo il citofono
(svegliandola), salivo, e mi accucciavo sul letto accanto a lei. Dieci
minuti dopo, sconvolto, spettinato, con la patta dei pantaloni ancora
aperta, rientravo nel cortile della scuola.

«Cosa fate ancora qua?» dicevo ai ritardatari. «La ricreazione è finita.


Tornate in classe.»

19
Non so perché, ma in quel periodo Flavio si mise ad aggiungere delle
regole.
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Un giorno per esempio se ne uscì con quella cosa sulle luci. Al mattino
dovevo accendere tre file di neon, mentre di pomeriggio quattro,
anche se il risultato era lo stesso.

Poi fu la volta della musica. Di mattina dovevo sintonizzare la radio. Di


pomeriggio invece dovevo mettere un CD di musica Jazz, Lounge, o
Blues (il rock non era ammesso).

A un certo punto anche per telefonargli dovetti seguire determinate


regole. Flavio aveva tre numeri e due telefoni diversi. La mattina
dovevo chiamarlo a un certo numero e il pomeriggio a un altro, ma
solo se era al lavoro. Se invece era libero dovevo usare il terzo numero
della lista. Un giorno gli scrissi un messaggio importante, una storia di
spedizioni e corrieri, al numero sbagliato, e si arrabbiò.

«Te l’ho spiegato come funziona, Santo! Non è difficile.»

«Ok, scusa. Ho capito.»

«Ho letto il tuo messaggio solo a notte fonda, quando ho cambiato


scheda. E se fosse stato urgente?»

«Va bene, va bene.»

Spesso Flavio veniva a trovarmi al lavoro. Fingeva di avere dimentic-


ato qualcosa o di dovere controllare la posta, ma in realtà passava per
controllare me.

«Ciao» diceva, e si fermava sulla soglia per avere una visione d’in-
sieme del negozio. Riusciva sempre a trovare qualcosa che non an-
dava. La musica, per esempio, era sempre a volume troppo alto o
troppo basso. Per prima cosa, quindi, ogni volta si avvicinava allo
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stereo e ruotava la manopola del volume di una frazione di grado in


senso orario o antiorario.

«Tutto bene?» diceva poi. Aveva il vizio di parlarmi con fare annoiato,
come se lo avessi pregato in ginocchio di potere lavorare in quella lib-
reria e lui avesse acconsentito malvolentieri.

«Tutto ok, Flavio.»

«Hai trovato il biglietto che ti ho lasciato?»

«Quello che dice: “Signora Garofalo deve dare dieci euro?” Sì, l’ho
trovato.»

«Hai capito che cosa significa?»

«Certo.»

«Sentiamo.»

«Che la signora Garofalo ci deve dieci euro.»

«Mmmh. Quindi se viene la signora Garofalo e ti dà dieci euro tu che


fai?»

«Li prendo.»

«Mi raccomando.»

Quelle visite erano una seccatura, ma almeno duravano poco.

Al momento di uscire Flavio si fermava sempre davanti a uno scaffale


per spostare un libro fuori posto di mezzo centimetro. Poi si voltava e
mi rimproverava con lo sguardo.
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20
Forse ero troppo concentrato su me stesso, ma davvero non riuscivo a
togliermi dalla testa che certi clienti ce l’avessero con me. Che si com-
portassero da matti e mi dessero fastidio solo per farmi i dispetti.

«Ma che stai dicendo?» disse Sandra quando gliene parlai. Era la fine
dell’estate, un altro Natale in libreria si avvicinava e io avevo già
cominciato a farmela sotto.

«Certuni mi danno proprio questa impressione.»

«Quale impressione?»

«Di quelli che si annoiano e stanno in giro senza niente da fare. Poi
passano davanti alla libreria, danno un’occhiata dentro, vedono me e
pensano: “rompiamo un po’ le scatole a quel poveretto”.»

«Sei paranoico.»

«È la verità. Lo fanno per sentirsi vivi. Sono soli come cani e l’unico
contatto umano che riescono ad avere è con i commessi. Sono sicuro
che anche al pub è così» dissi per coinvolgerla. «Dai, non dirmi che
non è pieno di rompicoglioni anche lì da te.»

Lei sembrò rifletterci sopra.

«Be’, certe volte ci sono quelli che rimandano indietro i cocktail e


chiedono di rifarglieli perché secondo loro hai sbagliato le proporzioni.
Tu glielo prepari uguale a prima, stesse dosi eccetera, e questa volta ti
fanno i complimenti. Ma non credo che lo facciano per dispetto.»
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«Questo lo credi tu. Dammi retta, è pieno di pazzi là fuori, e a farne le


spese siamo noi.»

«Ripeto: sei paranoico.»

Ma io sapevo di cosa parlavo. Troppi clienti trascorrevano ore in lib-


reria allo scopo di risalire al titolo di un libro che in realtà nemmeno
gli interessava. Non era normale. Ero arrivato alla conclusione che
certa gente non ha una vita. Chi ha una vita non resta un pomeriggio
chiuso in un negozio a torturare un commesso. Sta all’aria aperta. Op-
pure a letto con qualcuno. O al mare. Sta in qualunque posto tranne
che in un negozio. Ma evidentemente la gente senza una vita è molto
più numerosa di quella che una vita ce l’ha. Per questo i negozi stanno
aperti sempre più tempo, anche di domenica o nei festivi, perfino il
primo maggio, porca miseria. La gente senza una vita pullula, e ha un
sacco di soldi da spendere.

Bella roba. Un’economia basata sulla solitudine.

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Con Sandra le cose cominciarono a peggiorare. Eravamo entrati in
quella fase in cui una mia parola bastava per farla infuriare. Non era
colpa sua. Non era colpa di nessuno. Va così e basta.

«Senti, Sandra, posso chiederti una cosa?»

Lei non rispose. Si limitò a guardarmi con gli occhi socchiusi.


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«In teoria tu a Siracusa ci saresti venuta per studiare, giusto?»

Sandra non disse niente.

«Ti sei trasferita qui da Catania per fare l’università, no?»

Ancora nessuna reazione.

«Allora com’è che non ti vedo mai andare a lezione? O fare un esame?
O studiare? Ti svegli alle cinque del pomeriggio, giusto in tempo per
andare in quel pub e...»

«HAI FINITO DI ROMPERE O NO?» urlò lei.

«Non ci sono pub anche a Catania? Che bisogno c’è di...»

«SE VADO O NON VADO A LEZIONE SONO CAZZI MIEI. SE DO O


NON DO ESAMI NON SONO CAZZI TUOI, CAPITO?»

«Senti, me ne vado. Ci vediamo.»

La sentivo ancora urlare perfino dalle scale.

«A CHE ORA MI ALZO O NON MI ALZO NON TE NE DEVE


FREGARE UN CAZZO.»

22
Fu allora che conobbi una ragazza americana. Si chiamava Andrea, era
di New York. Io avevo conosciuto diverse ragazze americane in pas-
sato, ma nessuna di loro era nata e cresciuta a Manhattan, in una di
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quelle case con vista su Central Park, il Dakota, il Guggenheim eccet-


era. Allora questa roba faceva ancora colpo su di me.

Andrea era venuta in Sicilia per motivi di studio. Era molto giovane,
ma anche matura in un certo senso. Di lei mi piaceva che a differenza
delle sue amiche aveva un minimo di cultura. Tanto per cominciare
sapeva chi erano Philip Roth o Kurt Vonnegut, per esempio. E poi sua
madre era una scrittrice. Anni prima aveva vinto il pulitzer per certi
editoriali che aveva scritto per il “New York Times”, dopodiché si era
riciclata come romanziera e aveva fatto centro al primo colpo con una
storia strappalacrime da cui avevano tratto un film con Meryl Streep.

Andrea era ricca sfondata, e anche sexy in un modo un po’ mascolino.


Aveva la voce bassa, roca. Era del tipo che capisce al volo se un ragazzo
ci sa fare o meno con le ragazze. E io non ci avevo mai saputo fare. Le
ragazze che mi piacevano sul serio mi mettevano in soggezione e mi
facevano fare tutte le cose sbagliate. In loro presenza m’irrigidivo,
dicevo stupidaggini, balbettavo. Ma a quanto pare ad Andrea piacevo
lo stesso. In realtà non so che cosa ci trovasse in me. Tempo dopo mi
avrebbe confessato che avevo fatto colpo quando, chiacchierando del
più e del meno, avevo buttato lì se sapeva che nel suo stesso college, il
Kenyon, ci aveva studiato anche Paul Newman.

(Questo potrebbe riassumere la storia della mia vita. La gente con-


tinua a scambiare il mio nozionismo per intelligenza. A me sta benis-
simo, anche se certe volte mi fa sentire un impostore.)

Un po’ mi vedevo con Sandra, anche se ormai litigavamo a basta, e un


po’ con Andrea. Non era facile, perché Andrea e le sue amiche, tutte
americane, andavano sempre al pub dove lavorava Sandra, e così
dovevo incontrarla altrove, in posti più periferici.
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«Facciamoci una birra ma poi devo andare all’altro pub» mi diceva


Andrea, «a incontrare le mie amiche. Vieni anche tu?»

Quella sera lavorava Sandra. «No, non mi va. Credo che me ne andrò a
casa.»

«Cosa sei» diceva lei, «uno di quei tizi timidi che odiano i posti
affollati?»

«Un po’ sì.»

23
Andrea era perennemente attaccata al telefono perché lo usava per
scrivere messaggi a tutti, tutto il tempo. Anche mentre parlava con me
aveva gli occhi sul telefono e il pollice sulla tastiera.

Una volta riuscì a trascinarmi al pub di Sandra, che però quella sera
non lavorava, e ci sedemmo allo stesso tavolo con due sue amiche, una
rossa di capelli, l’altra bionda. La rossa era leggermente tracagnotta
ma aveva dei begli occhi. La bionda invece era un po’ troppo cam-
pagnola nel senso americano del termine. Aveva gli occhi annebbiati di
chi è cresciuto con vagonate di stronzate religiose scaricate addosso
quotidianamente. Era un peccato, perché delle tre era quella che aveva
più potenziale di tutte.

«Questo è Santo» disse Andrea.

La bionda e la rossa dissero di chiamarsi Jane e Mary, poi mi


ignorarono.
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La rossa, Mary, si chinò verso Andrea: «non voltarti adesso, ma al ta-


volo accanto al nostro c’è uno preciso sputato a Jared Letho.»

Andrea diede un’occhiata.

«Oh. Mio. Dio» disse. «È lui!»

«Perché non parlate più piano?» disse la bionda, Jane. «Vi sentono
tutti.»

«E chi se ne frega non ce lo metti?» disse la rossa.

«Datevi una calmata voi due» disse Andrea, che credo fosse il capo
della comitiva. Le altre due infatti si zittirono all’istante e andarono in
bagno insieme.

«Sono così naïf» disse Andrea delle amiche. «Hanno un modo di com-
portarsi totalmente naïf. Anche il loro stile di vita, se ci fai caso, è
proprio... come dire?... proprio...»

«Naïf?» dissi.

«Totalmente.»

«Oh. Mio. Dio» disse la rossa quando tornarono. «Sono ubriaca come
la merda.»

«Ragazze, mi sa che vi saluto» dissi. Ne avevo abbastanza. Mi alzai, e


mi ritrovai faccia a faccia con Sandra.

«Ehi come va?» dissi.

«Te la fai con le ragazzine adesso?»


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«Quali ragazzine?»

«Quelle» disse indicando il tavolo con le tre americane.

«Sono soltanto amiche.»

«Bah, crepa» disse, e mi piantò in asso.

Andrea si alzò e disse che mi avrebbe accompagnato alla bicicletta. Le


dissi che mi andava bene, e mentre uscivamo sentii gli occhi di Sandra
su di noi.

«È stato bello uscire insieme» disse Andrea.

«È vero» dissi io mentre slegavo la bici, e per la ventesima volta con-


trollavo che dalla porta del pub non uscisse Sandra.

Andrea restò a fissarmi con quegli occhi intensi, scuri. Aveva gli
zigomi pronunciati, la pelle liscia trattata con prodotti che dovevano
costare centinaia di dollari la boccetta. Mi sporsi a baciarla e fui in-
vestito dal suo profumo. Sicuramente un profumo da altrettante
centinaia di dollari. Tutto pareva costoso addosso ad Andrea. Ma non
era solo questo. Quando la baciavo mi sembrava di baciare tutta Man-
hattan, tutto lo Stato di New York, tutta la costa est degli Stati Uniti.

Senza staccare le labbra dalle sue aprii gli occhi e controllai ancora una
volta l’ingresso del pub. Stava uscendo qualcuno, ma non era Sandra.
Allora richiusi gli occhi.
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Sandra disse di non volermi vedere mai più. Fui d’accordo.

Uscii altre volte con Andrea: andavamo in un pub con le sue amiche
naïf, poi finivamo in mezzo alla strada a baciarci.

«Senti» le dissi un giorno, «non possiamo andare in camera tua?»

Scosse la testa. «Uh uh.»

«Perché?»

«Non ho ancora capito se posso fidarmi di te.»

«Certo che puoi fidarti di me!» dissi. Ma ovviamente era la cosa più
sbagliata che potessi dire. Un tizio più sveglio avrebbe fatto una bat-
tuta, le avrebbe detto che aveva ragione a non fidarsi eccetera. Ma io
ero tutt’altro che sveglio, soprattutto se una ragazza mi piaceva.

«Voglio essere sicura, capisci?»

E se la invitassi a casa mia?, pensai. Macchè, era troppo lontana per


andarci di notte. In più non c’erano ancora i mobili. Il bagno
conteneva gli stessi pezzi di vent’anni prima, incrostati di calcare e
ruggine. In cucina non c’era niente, giusto un fornello a gas da
campeggio. La bombola l’aveva portata con la vespa special un tizio
che, al momento di montarla, si era guardato intorno e aveva detto:
«ancora qualche lavoretto e la casa è pronta per venirci ad abitare.»

Rientrammo nel solito pub, che quella sera scoppiava di gente. Andrea
si mise a ballare in modo sexy una canzone hip hop insieme alle sue
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amiche. Io mi sedetti e restai a rimuginare da solo. Guardavo le per-


sone parlare fra loro, bere, scherzare e sentirsi a proprio agio, e mi
chiedevo: come ci si comporta così? È una cosa innata o si può impar-
are? A un certo punto pensai di provarci, ma più me ne stavo seduto a
rimuginare, meno voglia avevo di alzarmi e attaccare bottone con
qualcuno. Credo che tutto questo succedesse perché me ne stavo
troppo per conto mio. Quando uno se ne sta troppo per conto proprio
perde qualsiasi talento mondano. Anche se io credevo di non averlo
mai avuto, il talento mondano. Andrea e le sue amiche invece erano
talentuosissime da quel punto di vista. Probabilmente glielo inseg-
navano a scuola. Facevano tutte le cose giuste. Sorridevano e fin-
gevano di divertirsi come se avessero avuto una telecamera puntata
addosso. Ogni tanto provavano a coinvolgermi, qualcuna mi tendeva
una mano per convincermi a ballare, ma alla fine mi lasciarono in
pace. Restai a bere birra per un pezzo, cercando di sembrare qualcuno
di cui ci si potesse fidare, poi me ne andai.

25
Non riuscii mai a guadagnarmi la fiducia di Andrea. Solo un po’. E
dopo qualche settimana che uscivamo insieme lei mi chiamò e disse:
«Santo, meglio non vedersi più. Niente di personale, ok?» E così persi
la mia bella e ricca ragazza newyorkese. Avevo perso la ragazza olan-
dese, poi quella siracusana, poi quella catanese e ora la ragazza
newyorkese. Si poteva essere più incapaci? Arrivai al punto di chie-
dermi come facessero gli altri a tenersi le ragazze. Se per strada vedevo
un ragazzo e una ragazza tenersi per mano ero tentato di domandargli
come avessero fatto ad arrivare a tanto, e se potevano insegnare anche
a me qualche trucco.
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Quando Andrea poco prima di Natale tornò a New York lasciò una let-
tera per me in libreria. Scrisse che era pentita che fra noi le cose
fossero andate com’erano andate eccetera. Se capiti a New York,
questo è il mio numero. Chiamami.

Dopo averla letta, accartocciai la lettera e la buttai nel cestino.

Poi la recuperai, la spiegai, e la infilai nella tasca posteriore dei jeans.

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Quel Natale in libreria fu se possibile peggiore degli altri. Di nuovo, mi
svegliavo la mattina giurando a me stesso che sarebbe stato l’ultimo
Natale che avrei passato là dentro. C’era qualcosa, nel lavorare in un
negozio sotto le feste, che mi faceva venire la nausea. Dovere dis-
tribuire merci a gente che sembrava non averne mai abbastanza era
semplicemente orribile.

«Se ordino un libro oggi arriverà entro il ventiquattro?» cominciarono


a chiedere i clienti.

«È un po’ tardi, ma possiamo provare.»

«Come possiamo provare? Ma sono I MIEI REGALI DI NATALE!


Non posso mica darli il ventisei dicembre.»

«Il ventisei siamo chiusi, signora. Riapriamo il ventisette.»

Poi successe. Il distributore ci informò che il nostro ordine, quello con


i regali di Natale, non sarebbe arrivato prima del ventotto. Flavio
provò a protestare ma non ci fu niente da fare. Eravamo una piccola
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libreria, avevamo un giro d’affari minuscolo e quindi nei periodi delic-


ati i nostri bisogni passavano in coda.

«È successo qualcosa?» dissi.

«L’ordine non arriverà in tempo» disse Flavio.

«Oh, no.» Mi sembrava di vederli, quei pazzi scatenati, strapparsi i


capelli perché non sarebbero riusciti a fare i regali in tempo. Evvai.

«E adesso che facciamo?» disse Flavio.

«Be’, lo spieghiamo ai clienti e amen.»

«Ma sei pazzo? Sarebbe la fine.» Non avevo mai visto Flavio ridotto
così, con i capelli arruffati e gli occhiali che gli scivolavano continua-
mente sul naso. «Dobbiamo riuscire a trovare quei libri.»

Flavio impiegò il resto della giornata attaccato al telefono in cerca di


una soluzione, mentre io mi sciroppavo la folla del ventitré dicembre.

«L’ha tolto il prezzo, vero?»

«Certo, signora.»

«Ne è sicuro?»

«Sì.»

«Io non l’ho vista mettere l’adesivo.»

«Peggio per lei.»

«E se non l’ha messo?»


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«Vuol dire che sapranno quanto ha speso.»

«Senta, sia gentile. Riapra il pacchetto e mi faccia vedere.»

Dopo un po’ Flavio disse che forse aveva trovato una soluzione.

«Sta venendo un mio amico. Facciamo così: gli diamo la lista dei libri
che mancano e lui li va a comprare in quella libreria che c’è in corso
Garibaldi. Che ne dici?»

«Geniale.»

Arrivò l’amico di Flavio. Anche lui aveva un negozio, ma sembrava ri-


lassato. Immaginai i suoi dipendenti sudare sette camicie per portarg-
lielo avanti mentre lui se ne andava in giro.

«Ecco la lista» disse Flavio.

Il suo amico tornò un’ora dopo. Parcheggiò il SUV in seconda fila dav-
anti alla libreria e suonò il clacson un paio di volte.

«Santo!» disse Flavio. «Non startene lì impalato. Vai a prendere i


libri.»

L’amico di Flavio aprì il portellone posteriore e m’indicò uno scato-


lone. Sorrideva. Lo trovava divertente. Per lui Natale era un gioco.

Lo scatolone era pesantissimo. Quando lo portai in libreria i clienti si


voltarono a guardarmi. Lo poggiai per terra e lo aprii. Non capivo: era
pieno di pacchi regalo. Guardai Flavio.

«È per non fare capire all’altra libreria che erano per noi» mormorò.

«E ora?» dissi.
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Flavio abbassò ancora di più la voce. «Che vuol dire “e ora”? Sveglia,
Santo. Ora li spacchetti a uno a uno e li metti fra i libri ordinati, no?»

Restai lì a fissare l’interno dello scatolone. Non capivo che senso


avesse tutta quella storia. Ma vidi il lato positivo della faccenda: per
qualche minuto non avrei parlato con i clienti. Avrei spacchettato mille
libri se fosse servito a non guardare le facce bovine dei maniaci da
regalo.

Presi il primo pacchetto – l’adesivo sul nastro era quello dell’altra lib-
reria – e cominciai a strappare la carta.

«Si può sapere che stai facendo?» sibilò Flavio. Il cliente che stava ser-
vendo si voltò a guardarmi.

Sospirai. «Quello che mi hai detto di fare.»

«Non qui! In magazzino!»

«Vuoi che li spacchetti in magazzino?»

«Sssst!»

Portai lo scatolone in magazzino e mi chiusi la porta alle spalle. Là


dentro era bello tranquillo. Nessuno che chiedesse qual era il primo
libro in classifica o un consiglio per una persona che odia leggere. De-
cisi che me la sarei presa comoda. Mi sedetti su una sedia e aprii il
primo pacchetto. Sembrava un bel libro. Lessi tutta la prima pagina,
poi passai al successivo. Anche quello sembrava un bel libro. Me lo ri-
girai fra le mani e lessi un capitolo intero. Se Flavio mi avesse chiesto
perché ci avevo messo così tanto avrei inventato una scusa qualsiasi.
Per un po’ pensai al povero commesso o alla povera commessa che
aveva fatto tutto quel lavoro inutilmente. Poi presi un altro pacchetto e
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col tagliacarte ruppi il nastro. E realizzai che quelli sarebbero stati gli
unici regali che avrei scartato per Natale.
Capitolo quarto
1
Ero seduto dietro il bancone nella libreria deserta. I primi mesi
dell’anno si vedevano pochi clienti perché la gente aveva speso tutto a
Natale. Me ne stavo lì non ricordo a fare cosa, forse a leggere un libro o
più probabilmente a fissare il vuoto come una statua di cera, quando
squillò il telefono.

«Pronto libreria Flaubert.» La libreria si chiamava così non perché


Flavio e il suo ex socio fossero ammiratori dello scrittore e del real-
ismo francese, ma soltanto perché era l’unione dei loro nomi: Flavio +
Uberto.

«Ciao Santo, sono Paola!»

«Ciao, uhm, Paola.» La voce era familiare ma non riuscivo ad asso-


ciarla a un viso.

«Mi chiedevo, ti va di andare al cinema?» disse.

«Stasera?»

«Sì, appena chiudi la libreria.»

«Perché no?»

«Ok, allora ti passo a prendere alla chiusura.»


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«D’accordo, a dopo.»

Alle otto chiusi e mi misi ad aspettare sul marciapiede davanti alla lib-
reria. Ero curioso. Poi, quando arrivò, scoprii chi era Paola. Era una
delle clienti più assidue della libreria, forse la prima che avessi servito
io stesso. Era quella del Silenzio / Silenzi degli innocenti. Fui sorpreso
che mi avesse chiamato; in libreria avevamo scambiato pochissime
chiacchiere in quegli anni. Di Paola sapevo soltanto che non era sicili-
ana ma del Lazio, e che lavorava per una multinazionale. Ordinava
vagonate di libri ogni mese. Era alta e magra, e aveva un bel sorriso.

Quella sera vedemmo un film di Woody Allen che non era un granché,
poi facemmo una passeggiata e alla fine ognuno andò per la sua
strada.

2
Continuammo così per un pezzo, e dopo un po’ che ci vedevamo decisi
che mi piaceva. Paola viveva da sola in centro, non lontano dalla lib-
reria. M’invitava spesso a casa sua per bere un tè, oppure andavamo al
cinema, o semplicemente in giro. Il primo bacio era nell’aria ma tar-
dava ad arrivare, anche perché la ragazza era timida e stava sulle sue.

Un giorno m’invitò per l’ennesima tazza di tè e io uscii di casa deciso a


baciarla.

Seduti sul divano bevemmo il tè, mangiammo alcuni pasticcini e chi-


acchierammo. Parlavamo soprattutto di casa sua.

«E lì mi piacerebbe mettere un secondo scaffale per i libri» disse. «Che


ne pensi?»
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«Penso che andrebbe bene.»

«In quell’angolo invece vorrei sistemarci un altro tavolo. Secondo te è


una buona idea?»

«Credo di sì.»

«Vuoi un pezzo di torta di mele?»

«Perché no?»

Mi chiesi cosa avrebbe detto se avesse visto casa mia, ancora vuota a
parte il letto-pallet e il cucinino da campeggio. E intanto cercavo di
scoprire quale fosse il momento giusto per baciarla. Per me era già ab-
bastanza complicato con le ragazze intraprendenti, quelle che ti fanno
capire che hanno voglia di essere baciate; figuriamoci con una ragazza
che sembrava avere sotterrato qualunque ambizione sessuale sotto
centinaia di romanzi che incombevano su di noi dagli scaffali di una
libreria bianca.

«Perché guardi i libri?» disse Paola.

«Oh, niente. Guardavo più che altro come sono sistemati. Li hai divisi
per casa editrice, eh?»

«Sì, così è più facile trovare quello che cerco.»

«Mmmh.»

«Che c’è?»

«Non lo so... Così mi ricorda la libreria dove lavoro, con le coste uguali
una accanto all’altra. Io li dividerei per autore. Tutto quest’ordine non
è il massimo. Sembra la libreria di Rainman.»
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«Rainman?»

«Senza offesa.»

«A me piace così» disse Paola.

A quel punto mi lanciai. Mi chinai su di lei e cercai le sue labbra con le


mie. Sapevo che chi ci sa fare non si comporta così. E infatti Paola non
ricambiò il bacio. Tutt’altro. Fece una specie di salto all’indietro. Poi
restò a fissarmi terrorizzata dall’altra estremità del divano, neanche le
avessi appena detto che per hobby mi piaceva torturare gli animali.

«Ok» dissi. «Come non detto. Facciamo finta che non è successo
niente.»

«Che cosa volevi fare?»

«Secondo te? Volevo baciarti. Ma è stata una pessima idea. Senti, las-
ciamo perdere. Ti chiedo scusa.»

«Volevi o non volevi?» Paola si reggeva ancora al bracciolo del divano,


e la cosa non aiutava.

«Volevo, è chiaro. Ma, per favore, dimentichiamo la cosa.»

Ci fu questa lunga pausa durante la quale mangiai un pasticcino.


Facevo il disinvolto, e in realtà mi accorsi che lo ero. Fino a qualche
anno prima una cosa del genere mi avrebbe abbattuto. Adesso non mi
faceva né caldo né freddo.

«Va... Va bene» disse lei, lasciando lentamente andare il bracciolo.

«Che cosa, “va bene”?»


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«Quella cosa» disse lei distogliendo lo sguardo. Era diventata


paonazza. «Va... Va bene, credo.»

«Davvero?»

«Sì, be’...» Sembrò pensarci su per qualche secondo. «Credo che si


possa fare.»

«Oh, perfetto» dissi, e questa volta quando mi sporsi a baciarla non si


allontanò. Restò solo un po’ rigida. Dopo qualche secondo le sue lab-
bra si rilassarono e anche lei ricambiò il bacio, ma il resto del suo
corpo sembrava non essere d’accordo. Paola teneva la schiena dritta e
il collo eretto come se fosse in posa per una fototessera.

Allungai le mani per accarezzare varie parti del suo corpo, ma lei in
maniera sistematica, senza smettere di baciami, mi afferrava per i
polsi e si levava le mie zampe di dosso.

«Scusa» disse con un sorriso dispiaciuto. «È che in queste cose sono


un po’ lenta.»

Decisi di tenere le mani a posto e mi limitai a baciarla. Fra un bacio e


l’altro prendevo un pezzo di torta di mele, e quando la torta finì me ne
andai.

3
Ci vollero non so quanti tè perché Paola si sciogliesse. Il suo letto era
al piano di sopra, non l’avevo ancora visto. Un giorno mi portò a dargli
un’occhiata e senza che ce ne accorgessimo eravamo mezzi nudi sul
materasso. Ci baciammo, poi staccai le mie labbra dalle sue e
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cominciai a scendere sul collo, sul petto, sull’ombelico, sul ventre. Mi


fermai un secondo per vedere se per lei fosse un problema. Non lo era.

La baciai laggiù per qualche minuto. Mi piaceva baciare le ragazze là


sotto. Mi faceva sentire di essere bravo in qualcosa. Col tempo il
respiro di Paola si fece sempre più profondo, fino a quando non la sen-
tii gemere e dimenarsi a scatti.

Mi tirai su soddisfatto di me stesso. Aspettai qualche minuto, poi dissi:


«Paola?»

«Sì?» disse lei fissando assorta il soffitto.

Non sapevo come dirglielo.

«Non vuoi fare... ehm... a me, quello che io ho fatto a te?»

La vidi sorridere. Era ancora il sorriso sofferente di quella che è “lenta


in queste cose”.

«Veramente no» disse.

«No?»

«Mi dispiace, Santo.»

«Ma scusa, a te è piaciuto che qualcuno lo facesse a te, giusto? E allora


perché...»

«La verità è che a me questa cosa non piace né farla né riceverla.»

«Non ti piace riceverla?» Qualche minuto prima me la ricordavo


mordersi le labbra per non urlare.
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«Senti, te l’ho detto, sono un po’...»

«Sei un po’ lenta in queste cose, va bene, ho capito.»

4
Un giorno a scuola entrai in classe e dissi: «oggi vi spiegherò l’altern-
anza delle stagioni.»

Gregorio, quello che aveva ridotto un professore in fin di vita, alzò la


testa dal banco.

«Che vuole questo?»

«Ci vuole spiegare le stagioni» disse uno degli altri.

«Le stagioni?» Gregorio si voltò a guardarmi. I suoi occhi mi facevano


tremare i polsi. «E c’è bisogno di spiegarle? Le stagioni sono: estate,
primavera, autunno e... e... Qual è l’altra?»

«Inverno» disse un altro.

«Visto?» fece Gregorio. «Buonanotte.» E tornò ad accasciarsi sul


banco.

A proposito: dato che ormai era primavera, invece di fare lezione in


classe cominciai a portarmi i ragazzi in giro per il centro. L’idea di re-
stare due ore consecutive chiuso in quella classe mi faceva impazzire.
Così sul registro scrivevo “lezione itinerante” o “didattica
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peripatetica”, lasciavo il registro in segreteria e con i ragazzi ce ne an-


davamo a prendere il sole. Io bevevo un caffè al bar o leggevo un
giornale seduto su una panchina, mentre loro ascoltavano le loro can-
zoni napoletane con i telefonini, discutevano su quale fosse a detta
loro il migliore film “di mafia” della storia, parlavano di giubbotti da
cinquecento euro l’uno, o ammiravano i loro occhiali da insetti giganti
con il marchio in bella vista.

Un giorno dissi alla segretaria: «oggi faccio lezione all’aperto, ecco il


registro.» I ragazzi erano già fuori. «Ci vediamo dopo.»

«Professore» sentii qualcuno dire alle mie spalle. Mi voltai. Era il pro-
prietario della scuola. Quello che non voleva scucire un euro anche se
lui prendeva soldi sia dallo Stato che dalle famiglie degli studenti. Era
un ometto in giacca e cravatta dalla testa rettangolare. Il classico sicili-
ano convinto che l’unico modo per tirare avanti nella vita sia fregare
gli altri. Con me ci stava riuscendo benissimo, così come ci stava rius-
cendo Flavio. Col tempo mi ero convinto che fosse colpa del mio co-
dice genetico. Ero programmato per farmi fottere. Non potevo farci ni-
ente. «Dove sta andando?»

«Fuori. Oggi ho pensato di fare lezione all’aperto.»

«Professore, ho notato che ultimamente lei va tutti i giorni fuori.


Questa cosa non mi piace affatto.»

«Senta, l’unico modo per insegnare Scienze in modo decente è portare


i ragazzi sul campo, a guardare di persona quello che gli viene spie-
gato. Non è sufficiente leggerlo su un libro.»

«Professore» disse lui per la terza volta. Lo diceva con lo stesso tono di
voce e l’espressione del viso con cui avrebbe detto “testa di cazzo”. «La
prego solo di non prendermi in giro, d’accordo? A partire da oggi
voglio che i ragazzi al ritorno da queste vostre gite “d’istruzione”» –
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ma sembrava dicesse: “di merda” – presentino una relazione su quello


che hanno imparato. Mi sono spiegato?»

«Certo.»

«Bene. Dove sono gli studenti?»

«Giù che aspettano.»

«Come “giù che aspettano”? Vuole dire che I RAGAZZI SONO FUORI
DALLA SCUOLA SENZA ACCOMPAGNAMENTO? MA LEI È UN...»

Senza ascoltare il resto corsi giù per le scale e raggiunsi i ragazzi. Per
fortuna nessuno di loro si era fatto mettere sotto da una macchina.

Restò tutto come prima, solo che da quel giorno alla fine delle nostre
gite chiudevo il giornale, facevo avvicinare i ragazzi e gli dettavo qual-
cosa da scrivere sui loro quaderni come relazione.

5
Poi le cose con Paola si sbloccarono. Successe tutto all'improvviso,
come in sogno.

6
La domenica successiva in libreria stavo ancora provando quella
sensazione. Come se mi fossi appena svegliato da un bel sogno di cui
ricordavo solo l’atmosfera. Mi sentivo rilassato e appagato. E questo
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era un bene, perché anche se di domenica non arrivavano libri nuovi,


il telefono non squillava di continuo e non ricevevamo fax, per me era
il giorno più duro della settimana. Le due ore e mezza del mattino pas-
savano abbastanza in fretta, l’una ci metteva poco ad arrivare. Erano le
tre ore del pomeriggio a stordirmi. Lavoravo soltanto dalle cinque alle
otto ma mi sembrava di stare lì dentro dieci ore consecutive. Questo
perché la libreria era in pieno centro, sulla via del passeggio domen-
icale, e quindi mi ritrovavo nel cuore di tutto quello che avevo sempre
odiato fin da bambino. Avevo faticato tanto per evitare la gente della
domenica pomeriggio e ora mi ci trovavo in mezzo. Peggio: ero
costretto a parlarci, ad averci a che fare, a servirla.

Quella della domenica era gente vestita a festa, profumata, appena us-
cita dalla messa o diretta a messa, che appena vedeva un negozio
aperto doveva fiondarcisi dentro a tutti i costi. A colpirmi erano
soprattutto quelli della mia età, persone frustrate che si erano create
una famiglia perché pensavano di non avere altra scelta. Le donne
spingevano un passeggino dentro cui piangeva un bambino. A seguire
c’erano gli uomini, tizi sui trenta, quarant’anni, che non capivano
come si erano fatti fottere in quel modo. Li avevano privati della vita e
non se ne capacitavano. Si guardavano attorno spaventati o, peggio,
rassegnati. Quasi non parlavano con le mogli. E se lo facevano non le
guardavano in faccia. Tutti e due parlavano esclusivamente con i figli,
soprattutto le madri. Sceglievano un libro per il pargolo, poi il marito
veniva alla cassa a pagare. Ecco a cosa erano ridotti: a portafogli
ambulanti.

Mi facevano pena, ma neanche tanta. Dopotutto se l’erano cercata. Lo


sapevano che sarebbe finita così. O pensavano di essere speciali? Me li
vedevo, da lì a qualche anno, divorziare, litigare, tradirsi a vicenda,
spartirsi i soldi. Erano pensieri che mi sollevavano il morale. Sarò
anche stato un poveraccio senza futuro, ma almeno mi stavo risparmi-
ando quel calvario. Non era poco.
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7
La domenica era anche il giorno degli autori locali. Entravano in lib-
reria con i loro libri sottobraccio e dicevano: «potete esporre qualche
copia del mio libro?»

«Non sono il titolare» dicevo io.

«Guardi che sono in conto deposito! Non mi dovete niente! Mi pagate


solo se li vendete!»

Dicevano tutti le stesse cose. E sognavano di diventare famosi in quel


modo, piazzando un paio di copie del loro libro in una piccola libreria
di Siracusa.

«Di che si tratta?» chiedevo.

«È un libro bellissimo, e non lo dico perché l’ho scritto io.»

«Ok, ok. Ho capito. Di che cosa parla?»

«È una sorta di autobiografia romanzata. La mia autobiografia. Ma


scritta in versi, un po’ come se fosse la Divina commedia. Anzi, il libro
ricalca proprio la struttura della Divina commedia. È divisa in tre
parti, chiamate “Inferno”, “Paradiso” e “Purgatorio”, e...»

«Mi faccia dare un’occhiata.»

I libri degli autori locali erano stampati male, tutti storti, con una
grafica di copertina che faceva pena. Usavano caratteri particolari, il-
leggibili, pensando forse che così avrebbero attirato l’attenzione del
lettore. La loro era una prosa pomposa e infarcita di aggettivi che
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metteva la nausea alla seconda pagina. Gli autori però erano convinti
di essere dei geni. Pubblicavano a loro spese, ma si credevano tutti il
massimo. Anzi, più i loro libri erano brutti, più pensavano di avere
scritto un capolavoro. Gli altri erano dei raccomandati che avevano
pubblicato con grandi case editrici solo perché amici degli amici, o
perché avevano scritto stupidaggini che erano buoni a scrivere tutti.
Anche loro, a sentirli parlare, avrebbero potuto scrivere un giallo che
avrebbe venduto milioni di copie. E che ci voleva? Se non lo facevano
era solo perché non ci tenevano.

«Senta, me ne lasci un paio di copie, vediamo che cosa dice il


titolare.»

«Però mi raccomando, esponeteli! Non li tenete nascosti! Metteteli in


vetrina e sugli scaffali più in vista!»

Poi mi lasciavano una bolla di consegna scritta a mano sul retro di uno
scontrino. Non si capiva niente.

«Senta, che cosa le costa compilare una ricevuta normale? Un bloc-


chetto costerà un paio di euro.»

Ma loro sollevavano il mento e dicevano: «io sono uno scrittore. Non


ho tempo di compilare ricevute.»

Non era finita. Non finiva mai lì. Gli autori locali erano per la maggior
parte pensionati senza niente da fare, e così ogni domenica pomerig-
gio, sbarbati di fresco e irrorati di dopobarba, passavano in libreria a
vedere come andavano le vendite.

Qualcuno di loro si comportava come se fosse stato un cliente normale


e si avvicinava, con le mani incrociate dietro la schiena, alla zona dove
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sapeva che era esposto il suo libro. Controllava quante copie ne aveva-
mo vendute – di solito nemmeno una – e poi se ne andava, ma solt-
anto dopo avermi guardato con odio puro.

Qualcuno diventava aggressivo.

«No, senta, è impossibile che non abbiate venduto nemmeno una


copia del mio libro!»

«Be’, mi dispiace ma...»

«Sì può sapere perché non lo mettete in vetrina?»

«Della vetrina se ne occupa il titolare.»

«Ma così non venderà mai una copia! Come fa ad arrivare a Roma o al
Premio Strega se non lo esponete come si deve?»

«Senta, è esposto su uno scaffale insieme agli altri autori locali. Più di
questo non possiamo fare.»

«Minchiate! Dovete spingerlo! Dovete consigliarlo! Dovete proporlo!


Non finirà mai in classifica se non riesco a venderlo almeno nella mia
città!»

Una strana maledizione faceva in modo che quando capitavano tizi del
genere non entrasse mai nessuno a interromperli. Sembrava che la
gente entrasse solo quando facevo merenda, dovevo andare in bagno,
o telefonavo a qualcuno.

«La prossima volta che un cliente le chiede un consiglio perché non gli
dà il mio libro? È bello! Non lo dico perché l’ho scritto io.»
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«È una raccolta di poesie in rima baciata e in dialetto sulla storia della


Democrazia Cristiana in Sicilia.»

«E allora? L’ho regalato a tutti i miei amici. Ce ne fosse stato uno che
me l’ha restituito.»

Miracolo, entrò qualcuno. Una ragazzina. Si avvicinò al bancone e


disse: «avete Il ritratto di Dorian Gray?»

Controllai al computer.

«No, al momento no. Se vuoi possiamo ordinarlo.»

«Mmh, no, va be’. Mi serviva per oggi. Lo cerco da qualche altra


parte.»

«Come vuoi.»

L’autore locale disse: «signorina, mi perdoni, ma forse le potrebbe in-


teressare comprare il mio libro?»

«Veramente non...»

«Guardi.» L’autore locale aprì il volume e lo mostrò alla ragazzina. «È


in versi. Con la prefazione di Mario Brugliaro.»

«Chi?» fece lei.

«Come! Mario Brugliaro! L’autore di L’amore è un sentimento molto


bello. Ne ha parlato anche Ninni Conforto in un’intervista su
TeleSiracusa45!»

«Ninni...?»
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«Forza, che ci vuole? Lo prenda! Costa solo trentasette euro.»

«Grazie, ma non m’interessa» disse la ragazzina, e mi lasciò di nuovo


da solo con l’autore locale. Che invece restò lì con i suoi libri in mano,
in attesa che entrasse qualcun altro.

«Senta» dissi, «che cosa vuole fare? Vendere i suoi libri a tutti quelli
che entrano?»

«Visto che non lo fate voi.»

Ma per fortuna dopo un po’ si arrese. Disse qualcosa a proposito dei


clienti che leggevano solo stronzate e ignoravano i libri davvero belli
come il suo, e se ne andò.

«Ci vediamo domenica prossima» disse.

8
In quel periodo dormivo quasi sempre a casa di Paola. La mattina lei
usciva alle cinque per andare in piscina e farsi le sue cento vasche quo-
tidiane prima di timbrare il cartellino al lavoro. Io mi svegliavo verso
le dieci, mi grattavo le ascelle e scendevo in cucina, dove trovavo la
caffettiera già pronta accanto a un biglietto: il caffè è pronto! Buon-
giorno! P.

Buffo, pensai uno di quei giorni mentre accendevo il fornello per la


caffettiera, Paola e Sandra erano l’una il negativo dell’altra. Sandra an-
dava a dormire alle sei del mattino e si svegliava alle quattro del po-
meriggio. Paola si svegliava alle cinque del mattino, e alle nove di sera
era già a letto. Sandra non ne voleva sapere di studiare. Paola si era
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laureata con il massimo dei voti. A Sandra il sesso piaceva, lo consid-


erava un divertimento. Prendeva lei l’iniziativa. Paola da quel punto di
vista era più timida.

9
A giugno tenni gli esami di abilitazione che servivano a far fare il salto
dal secondo al quinto superiore a degli ignoranti che sapevano a mal-
apena leggere. Quegli esami erano una farsa. Dovevamo fare ai ragazzi
giusto un paio di domande e poi mettergli la sufficienza.

«Che mi sai dire della fotosintesi clorofilliana?» chiesi a un lavativo


sui diciannove anni.

«La fotoclo...?»

«Ok, lasciamo perdere. Che cos’è una cellula?»

«Una cellula?»

«Come la definiresti?»

«Una cellula è...» Il ragazzo si mise a ridacchiare. Non aveva nem-


meno paura, sapeva che non lo potevamo bocciare. «Una cellula è una
cellula, professore.»

Gli studenti che aspettavano il proprio turno si misero a ridere.

«E un atomo?» dissi. «Che cos’è un atomo lo sai, almeno?»

Il ragazzo sospirò. Non vedeva l’ora che quella seccatura finisse.


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«Va bene, ecco una domanda facile. Qual è il simbolo dell’idrogeno?»

«...»

«Ti do una mano. A...?»

«Aaaaa...»

«Ac...?»

«Ah, sì, lo so professore! Il simbolo dell’idrogeno è acca-due-ò!»

Qualche settimana dopo firmai gli scrutini promettendo a me stesso


che sarebbe stato l’ultimo anno. Dopotutto ormai ero certo che non
volevo fare l’insegnante a vita. Sarei diventato matto. Sì, pensai,
questo è l’ultimo anno che insegno. Ma non dicevo la stessa cosa anche
in libreria, ogni Natale?

10
Flavio non mi pagava le ferie. Lui però le ferie se le prendeva eccome.
E pagate, per giunta, visto che quando partiva ci teneva me in libreria.

«Senti, ad agosto parto per un paio di settimane, quindi in libreria ci


starai tu.»

Non me lo stava chiedendo. Lo diceva e basta.

«Un paio di settimane?» dissi.


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«Sì.»

«Tutti i giorni? Senza mai chiudere? Nemmeno, che so, la domenica o


il lunedì mattina?»

«Che chiudere e chiudere! Sei matto?»

Lo straordinario non era nemmeno pagato più dell’orario normale,


com’era previsto dalla legge. Anzi, facendo i conti mi pagava di meno.
Per lui era un vero affare.

L’attesa di quelle due settimane fu terribile. Contavo i giorni neanche


dovessi andare al patibolo. Non ci dormivo la notte. Intanto andavo al
mare con Paola. Lei si sdraiava a leggere un libro, mentre io stavo se-
duto sotto l’ombrellone a guardare le altre ragazze in bikini. Ragazze
magre e ragazze in carne. Bionde e brune. Sicure di sé e complessate.
Ragazze col viso carino ma un pessimo fisico, e ragazze dal corpo stu-
pendo e bruttine in faccia. Quante ce n’erano. Milioni. Perché non po-
tevo averle tutte?

«A che pensi?» disse Paola.

«Ad agosto.»

Lei alzò gli occhi al cielo.

«Senti, manca ancora un mese e mezzo. Non rovinarti l’estate per


quelle due settimane.»

«Tu non capisci. È facile parlare così per una che lavora cinquanta ore
a settimana. Io sono abituato a lavorarne dodici, già due giorni di fila
per me sono uno stress insostenibile. Figuriamoci due settimane.»

«Esagerato.»
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«Non avrò più una vita. Vivrò per quel posto. È sempre stato così,
quando gli altri si divertono e vanno in vacanza, io lavoro.»

«Appunto, è un lavoro. Qualcuno deve pur farlo.»

«Sì, ma non ho capito perché il mondo deve dividersi fra quelli che la-
vorano quando gli altri sono in vacanza e viceversa. Non è giusto.»

Mi sdraiai a pancia in su con la testa all’ombra. Doveva esserci un


modo per evitare quelle due settimane di lavoro. Fissai le aste interne
dell’ombrellone, così non pensavo alle altre ragazze, e intanto cercavo
un modo per avere tutto agosto libero. Avrei potuto tagliarmi un dito,
pensai. Il mignolo sinistro. A che serve il mignolo sinistro? In ospedale
mi avrebbero medicato e via, non ci avrei pensato più. Mi vidi
chiamare Flavio negli Stati Uniti – dove sarebbe andato in vacanza a
spese mie – e fargli quella sorpresa. Me lo immaginai fare di corsa le
valigie e tornare in Sicilia. Avrebbe perso i soldi della vacanza e in più
gli sarebbe toccato lavorare. Evvai.

«Che hai da ridere?» disse Paola.

«Niente. Sognavo a occhi aperti.»

11
Prima che mi rendessi conto di quello che stava succedendo arrivò
agosto, e io fui murato vivo in quella libreria per due settimane, brac-
cato dai turisti.

La mattina mi alzavo e bevevo un caffè. Qualche volta facevo anche


una doccia. Poi annusavo le mie magliette in cerca di una decente, me
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la mettevo e andavo in libreria in bicicletta. L’aria era immobile e bol-


lente. A ogni pedalata nuove gocce di sudore mi solcavano la fronte. In
teoria avrei dovuto indossare pantaloni lunghi e scarpe chiuse, ma con
Flavio in vacanza non c’era nessuno a controllarmi, così andavo al la-
voro in bermuda e ciabatte. Sembravo più un bagnino che il commesso
di una libreria.

La domenica mattina stavo già a pezzi. Non ce la facevo più e mancava


ancora più di una settimana. Me ne stavo seduto al bancone con la fac-
cia poggiata su una mano. Ogni tanto sbirciavo un libro di Conrad, La
linea d’ombra. Fuori c’era poca gente – il sabato sera avevano fatto
tutti bisboccia – così potevo respirare un po’. Invece entrò lo stesso
qualcuno. Una signora sui sessantacinque anni. Una di quelle con le
labbra contratte, che odiano il mondo intero. Si trascinava dietro un
marito altrettanto vecchio e con le spalle curve.

La vecchia si avvicinò al bancone e restò lì a fissarmi senza dire niente.

«’Giorno» dissi senza sollevare la faccia dalla mano.

Lei continuò a fissarmi per un pezzo. Poi finalmente si decise a


parlare.

«Non chiedo chissà che, ma almeno un sorriso me lo potrebbe anche


fare.» Aveva un accento tipo Bergamo, forse. Non li distinguevo un
granché gli accenti del nord.

Sollevai la faccia dalla mano. Faceva caldo. Ero stanco e depresso.

«Come, scusi?»
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«Io non capisco» continuò la strega. «È questa l’accoglienza che si


merita un cliente?»

«Di cosa sta parlando?»

«Mia moglie ha ragione» s’intromise il marito.

«Una chiede di essere servita come si deve, non... così.» L’arpia m’in-
dicò. Ero ancora spalmato sul bancone come uno dei miei alunni
quando dormivano in classe.

«Va bene, ma si calmi per favore» dissi.

«Prego?»

«Che bisogno c’è di fare così? È domenica mattina. Fa caldo. Mi dica


che cosa le serve e finiamola qui.»

La vecchia si voltò incredula verso il marito. La odiavo. L’avrei am-


mazzata. Non me ne fregava niente se era vecchia. Sperai che le ven-
isse un infarto e stramazzasse al suolo davanti a me. Non avrei alzato
un dito.

«Io... Io....» disse, «non sono mai stata trattata così in vita mia.»

Ne avevo abbastanza, tanto non c’era verso. Senza dire altro ripresi in
mano La linea d’ombra e mi misi a leggerlo come se il negozio fosse
stato deserto.

«Mi scusi» sentii dire alla vecchia. Le tremava la voce.

Ma non alzai gli occhi dal libro. Finsi di essere immerso nella lettura.
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«Giovanotto» disse il marito, «la smetta di comportarsi come un


maleducato.»

Mi leccai un pollice e voltai lentamente pagina.

«MA CHE MODI SONO?» urlò la vecchia.

Restarono ancora qualche minuto a dirmene di tutti i colori, ma non


sollevai mai gli occhi dalle pagine. Dopo un po’ si stufarono di guar-
darmi leggere un libro e se ne andarono. Io tornai a spalmarmi sul
bancone, sperando che Flavio non venisse a saperne niente. Poi però
pensai: chi se ne frega se lo viene a sapere? La cosa migliore che può
capitarmi è che mi licenzi.

12
Poi in libreria venne a trovarmi Peter, un hippie americano che da
qualche anno viveva a Siracusa. Insieme a lui c’era una ragazza carina
con i capelli a caschetto e un paio di occhiali da vista.

«Ciao Santo, questa è Mary» disse Peter. Io e Mary ci stringemmo la


mano. «Mary è del Kentucky come me. È venuta a passare un paio di
mesi qui a Siracusa.»

«Bello» dissi.

Mary sorrise e abbassò gli occhi.

«Sai» disse Peter, «ho pensato di farle conoscere un po’ di gente del
posto.»
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«Hai fatto bene.»

Parlammo del più e del meno per qualche minuto, poi se ne andarono.

Qualche giorno dopo Mary tornò in libreria, questa volta da sola.


Portava una lunga gonna svolazzante e mi accorsi che sul braccio
aveva il tatuaggio di un fiore.

«E così sei del Kentucky» dissi. «Di quale città?»

«Lexington.»

«Mmmh, scusa un attimo.» Finsi di fare qualcosa al computer per la-


voro. In realtà cercai “Lexington” su Google e cliccai sul primo ri-
sultato, Wikipedia.

«Lexington, eh?» dissi.

«La conosci?»

«Un po’. George Clooney è di Lexington, giusto?»

«Sì!» disse lei. «Come fai a saperlo?»

Mi strinsi nelle spalle e diedi un’altra occhiata discreta al monitor.

«E se non sbaglio ci sono molti allevamenti di cavalli da quelle parti,


vero?»

I suoi occhi mandarono scintille. «Sai più cose tu sul Kentucky di


quante ne sappia io!»

«Non esageriamo» dissi tutto modesto.


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Andammo avanti così per un po’, poi ci scambiammo i numeri e de-


cidemmo di rivederci. Fino a quando non facevo niente di male, Paola
poteva stare tranquilla, mi dissi.

13
Mary cominciò a venire al mare con me. Aveva il vizio di mettersi in
topless. Il suo seno non era grande, ma in compenso aveva i capezzoli
perennemente rizzati e in fuori. Io mi sentivo a disagio non tanto per
gli sguardi dei pervertiti che ci circondavano, quanto perché non ero
sicuro che Paola avrebbe approvato.

Mary mi parlò di sé. Si definiva un’artista. Era una fotografa e aveva


scritto e illustrato un libro per bambini che nessuno gli aveva pubblic-
ato perché “troppo avanti”. Mi disse di avere il ragazzo in Kentucky, un
certo Russ. Con Russ le cose andavano così così, disse. Il sesso, in par-
ticolare, col tempo era diventato una noia.

«Che vuoi dire?»

«È sempre uguale» disse. «Io gli faccio un pompino, poi lui me la lecca
per un po’, poi lo facciamo normale, poi io sopra, poi da dietro, lui
viene e amen. Se sono fortunata, poi fa venire anche me, altrimenti mi
tocca tirare fuori il proiettile d’argento.»

«Che cos’è un proiettile d’argento?»

«Non sai cos’è un proiettile d’argento?»

«No, non lo so.»


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«È una cosa a forma di uovo. Lo accendi e lui si mette a vibrare. Poi te


lo sfreghi contro la figa e vieni.»

«Un vibratore, cioè?»

«Esatto. Ma dalle mie parti preferiamo chiamarlo proiettile


d’argento.»

Non sapevo cosa dire. Mi misi le cuffie e finsi di ascoltare un po’ di


musica, probabilmente qualcosa dei Queers. A forza di sentire parlare
di vibratori e orgasmi nel costume registravo un principio di erezione.
Cercai di non farci caso.

Dopo un po’ decidemmo che faceva troppo caldo, e io e Mary ci


rivestimmo.

«Vieni a pranzo da me?» disse lei.

«Non saprei.»

«Dài, ti offro un’insalata.»

«Va bene.»

Mary abitava in un monolocale del centro. Appena entrati a casa ac-


cese lo stereo.

«Ti piace questa musica?»

Era un rock con un sacco di rumori e suoni dissonanti. Non si capiva


niente. Ricordava la musica che ascoltava Marina, la ragazza calabrese
con cui ero uscito ormai tre anni prima.

«Non male» dissi.


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Mary preparò l’insalata e la mise nei piatti. La accompagnammo con


un bicchiere di vino bianco da cinquanta centesimi al barile che era
caldo, aspro, e sapeva di straccio bagnato.

«Buono il vino, vero?» disse Mary.

«Mh mh.»

Dopo pranzo Mary mi mostrò il libro per bambini che nessuno le


aveva voluto pubblicare. Era la storia di un corvo che incontrava altri
animali e per qualche motivo li beccava nel fegato fino a ucciderli. I
disegni non erano un granché. E anche se era scritto in inglese, credo
di avere notato un paio di errori di ortografia. Intanto continuavamo
ad ascoltare la musica. Quelle canzoni sembravano tutte uguali.

«Senti la prossima» diceva Mary. «Se ti piace il punk deve piacerti


anche questa. Vuoi che ti faccio un CD?»

«Ok.»

Senza rendercene conto ci spostammo nella zona notte, dove c’era un


letto a due piazze. Lei ci si sdraiò sopra.

«Non è tanto comodo questo letto» disse.

«No?»

«È pieno di bitorzoli. Vieni, provalo.»

Mi sedetti sul letto, poi mi ci sdraiai. Lo feci il più lontano possibile da


Mary.

«A me sembra comodo» dissi.


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«È perché lo stai provando nel punto sbagliato. Provalo nel mezzo. Vi-
eni, avvicinati.»

Mi avvicinai, ma di poco.

«Che hai? Sei nervoso?» disse Mary.

«No. Non sono nervoso.»

«Vuoi vedere il proiettile d’argento?»

Prima che riuscissi a rispondere qualunque cosa, lei aprì il cassetto del
comodino e tirò fuori quell’affare. Sembrava un ovetto Kinder, ma di
plastica bianca. Un filo lo collegava a un interrutore. Mi sembrò
sporchissimo.

«Ti piace?»

«È carino» dissi prendendolo in mano. Era più pesante di quanto im-


maginassi. Lo annusai ma non profumava di niente. «E come...?»

«Come funziona?» disse Mary fissandomi negli occhi.

«Eh.»

Mary spinse un interruttore e all’improvviso l’ovetto Kinder cominciò


a emettere un brusio. Me lo poggiò contro un braccio, vibrava tutto.

«E questo è il regolatore» disse indicando sull’interruttore una specie


di manopola del volume alle cui estremità c’era scritto “MIN” e
“MAX”. Quando Mary ruotò la manopola verso “MAX”, l’aggeggio si
mise a vibrare più forte.

«Senti come vibra» dissi.


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«Adesso ti faccio vedere come si usa.»

All’improvviso Mary si abbassò la gonna e il pezzo di sotto del cos-


tume, si sdraiò sul letto e si frugò tra i peli della vagina con il vi-
bratore. In faccia le si dipinse subito un sorriso beato.

«Vedi?» mormorò. «Si fa così. Oh, è bellissimo.»

Tutto questo stava succedendo a meno di un metro da me.

«Caaaaazzo» disse Mary.

Adesso oltre ai peli le si vedevano tutte le labbra della vagina, grandi,


piccole eccetera. L’ovetto divenne presto lucido dei succhi di Mary.

«Ooooh, Santo. Caaaaazzo.»

Non so cosa non mi convincesse di tutto il quadro. Era anche il pen-


siero di Paola (nonostante fossi sicuro che non sarebbe mai venuto a
saperlo), ma non solo. Era soprattutto, credo, l’idea della sporcizia su
quell’affare che Mary si sfregava contro le parti intime. Tutte le
ragazze che avevo conosciuto si preoccupavano continuamente delle
loro parti intime, le lavavano e rilavavano anche venti volte al giorno.
E Mary ci si strofinava quella cosa appena presa da un lurido cassetto.

«Oooh, caaaaaz – ehi! Dove stai andando?»

«Scusa, devo scappare. Tu finisci pure con calma.»

«Dici sul serio?»

«Sì.»

«Come vuoi, Santo. Ci vediamo.»


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«Grazie per l’insalata.»

Presi la mia roba e me ne andai. Dal pianerottolo potevo ancora sen-


tire la voce di Mary. «Caaaaazzo, sììììì.»

14
Qualche giorno dopo la incontrai di nuovo.

«Dove stai andando?» le chiesi.

«In farmacia, a comprare delle medicine» disse Mary.

«Qualcosa non va?»

«Sì, ho una strana infezione alla vagina. Una specie di fungo. Strano,
sto sempre attenta all’igiene intima. Dev'essere qualcosa di congenito.
Mi capita piuttosto spesso, a intervalli regolari.»

«Strano» dissi io.

15
Andai a cena dai miei. Da quando abitavo da solo cenavamo rara-
mente insieme. Quando succedeva, mia madre cucinava fra le cinque e
le dieci portate, convinta che per conto mio osservassi un digiuno
monastico.

«Come si chiama questa ragazza, insomma?» disse mia madre.


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«Quale ragazza?»

«Quella con cui ti vedi. Ogni volta che ti chiamo mi dici che devi uscire
con una ragazza.»

«Si chiama Paola.»

«Paola! Che bel nome. E di dov’è, di qua?»

«No, del centro Italia. Lazio.»

Lei e mio padre si scambiarono un’occhiata.

«E che ci fa a Siracusa? Che lavoro fa?» disse mia madre.

«È una manager. Lavora con la plastica. Sentite, dobbiamo per forza


parlare dei miei...»

«Manager!» urlò mia madre. «Con la plastica! Deve guadagnare un


sacco di soldi.»

«Mettila incinta» disse mio padre. «Dammi retta. Ti sistemi.»

«Quand’è che ce la farai conoscere?» chiese mia madre. «Invitala a


cena qui da noi uno di questi giorni.»

«Seeee» dissi. Ripensai all’unica volta che avevo invitato a cena dai
miei una ragazza. Era stato un disastro. Mio padre non le aveva rivolto
la parola e aveva tenuto gli occhi fissi sul televisore acceso; mia madre
aveva fatto un migliaio di gaffe. La persi quel giorno, quella ragazza.
Da allora mi ero ripromesso che non avrei ripetuto l’esperienza con
nessuna.

*
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Per scherzo ne parlai con Paola.

«Mi piacerebbe molto conoscerli» disse lei.

«Va bene, li conoscerai. In un futuro ipotetico.»

Eravamo seduti sul suo divano. Faceva ancora caldo, eravamo mezzi
nudi e bevevamo vino bianco freddo. Le cose cominciavano a non an-
dare per il verso giusto sul fronte sessuale. Ogni volta che allungavo le
mani dovevo sperare nella buona sorte. Ma quel giorno mi disse bene.
Aveva delle belle gambe, Paola. Liscie, per via che andava spesso
dall’estetista, e sode, grazie a tutte quelle vasche che faceva in piscina
ogni mattina. Di solito quando gliele accarezzavo lei attaccava a
scuotere la testa e a fare «tz tz tz», ma certe volte, come quella, socchi-
udeva gli occhi e mi lasciava fare. In un certo senso così era anche più
bello. Mi sembrava di fare qualcosa di male, il che per il sesso è una
manna. D’altronde non è un mistero che i cattolici da quel punto di
vista hanno capito tutto della vita.

Paola mi salì sopra a cavalcioni. Io spostai in tutta fretta pantaloncini e


mutande, e quando cominciammo a farlo lei prese a fissarmi il viso da
un centimetro di distanza. Lo faceva sempre. Pareva mi cercasse i
punti neri sul naso, tipo. Poi dopo un po’ prendeva a fissarmi in un al-
tro modo, come se mi stesse rigirando un coltello nelle carni, e intanto
studiasse la mia reazione. In viso le compariva l’espressione sadica di
chi pensa: “così impari”. Ogni volta sembrava si stesse vendicando di
un torto che le avevo fatto tempo prima, o in un’altra vita.
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Un commesso è come un animale in gabbia, come un pesce in un
acquario. Non c’è via d’uscita. Sei costretto a stare lì fino alla chiusura.
Non puoi appendere il cartellino “torno subito” e andare a farti un giro
quando le cose girano male. Non puoi fuggire.

Questo lo sapevano bene i disperati che venivano a darmi il tormento.


La libreria era in centro e il corso era un continuo viavai. Ogni tanto
certuni sbirciavano dentro, e se oltre a me non c’era nessuno li vedevo
illuminarsi in viso e entrare. Erano felici come bambini. Soffrivano tal-
mente di solitudine che non gli sembrava vero ci fosse qualcuno
costretto ad ascoltarli. Anch’io stavo sempre da solo, ma a me piaceva.

«Santo! C-c-c-che si dice?»

Era quello che io chiamavo “il professore”. Non sapevo come si


chiamasse, sapevo soltanto che prima di andare in pensione aveva in-
segnato in un Istituto d’Arte. Aveva una balbuzie atroce.

«Salve professore» dissi, poi cercai di apparire il più indaffarato pos-


sibile. Ma era inutile. Non c’era mai niente da fare quando entravano
gli scocciatori. «Come va?»

«Bene, grazie. Sono appena stato nel mio studio. Ho dipinto un


quadro che non ti dico. Magnifico. Bellissimo. Volendo potrei venderlo
per migliaia di euro, ma l’arte co-co-co-commerciale non m’interessa.»

«Ah, no? Come mai?»

Il professore si fece spazio. Come tutti gli artisti falliti, o semplice-


mente scarsi, viveva d’illusioni. Considerava quelle nostre
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chiacchierate le interviste che non aveva (e non avrebbe) mai


rilasciato.

«Perché io ritengo che l’arte dovrebbe nutrire l’io nascosto nel pro-
fondo delle budella dell’uomo. Non male questa, vero? L’ho scritta
stanotte. Prima o poi voglio farti leggere le mie massime. A proposito,
tu non sei mai venuto nel mio studio. Quand’è che vieni?»

«Un giorno ci vengo, promesso. Quando trovo il tempo.»

Sospettavo che il professore fosse gay. Non era mai stato sposato, e
ogni tanto allungava le mani a palparmi il culo. Temevo che se fossi
andato nel suo studio sarebbe successo qualcosa di imbarazzante per
entrambi, quindi inventavo sempre scuse per non farlo.

«Seeee» disse lui. «Ma se non fai un cazzo dalla mattina alla sera.» Mi
diede una pacca sul sedere, poi con le mani sui fianchi si mise a
guardare i libri d’arte. «È arrivato qualcosa di nuovo da queste parti?»

Fingeva sempre d’interessarsi a quei libri, ma non l’avevo mai visto


comprarne uno.

«Dunque, Futurismo... Raffaello... Frida Kahlo. Merda, merda e


merda. Ricorda, è tutta merda l’arte, sia quella antica che quella mod-
erna. Io ritengo che ognuno debba farsi la propria arte e poi pulircisi il
culo. Che te ne pare di quest’altra? L’ho s-s-scritta oggi sull’autobus.
Prima o poi devo portarti tutte le massime che ho scritto.
Ricordamelo.»

E mai che entrasse un cliente in questi casi. Sembravano farlo apposta.


Lasciavano che quella gente mi ammazzasse di chiacchiere come se
nulla fosse. Non gliene fregava niente a nessuno di Santo D’Amico.
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Avevo una teoria. Ero convinto che tutte le persone morte fino ad al-
lora – tutte, dalla preistoria ai giorni nostri – avessero avuto negli ul-
timi istanti di vita lo stesso identico pensiero. Qualcosa del tipo: “se
sapevo che finiva così non mi sarei preoccupato più di tanto.” Ne ero
certo. Per questo non mi preoccupavo mai di niente, soprattutto del
futuro.

E per questo in autunno non tornai a insegnare a scuola.

Ne avevo abbastanza degli alunni delinquenti e di tutto il resto. Per


fortuna l’ennesimo ministro dell’istruzione mi diede una mano. Tagliò
non so quanti posti nella scuola pubblica, e così un sacco di gente con
più anzianità di me si ritrovò dall’oggi al domani senza cattedra né sti-
pendio. Io non avevo speranza. Se ne dicevano di tutti i colori: si par-
lava di gente sul lastrico che non riusciva più a mantenere la famiglia
eccetera. In realtà non riuscivo a dispiacermi sinceramente per quei
poveracci; non li aveva costretti nessuno ad accendere mutui, creare
bocche da sfamare e comprare macchine a cui fare il pieno. E
comunque il punto era un altro. Il mio turno di diventare insegnante
di ruolo era slittato di altri quindici anni minimo. Così a settembre
non mi feci vivo con la scuola. E quando fu chiaro che nemmeno loro
mi avrebbero contattato (c’era la fila per insegnare, quell’anno), decisi
semplicemente di non preoccuparmi. E amen.
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Qualche settimana dopo incontrai Mario, uno degli altri insegnanti.
Mario era sui quaranta e insegnava da più di dieci anni. Prima al nord
Italia, in Lombardia, poi nella mia stessa scuola privata.

«Che fine hai fatto?» mi chiese con quella sua voce strascicata. Mario
aveva la nebbia davanti agli occhi e paaarlaaaava leeentameeente. Era
imbottito di psicofarmaci. Gli uscivano dalle orecchie.

«Ho lasciato perdere» dissi. «Non faceva per me insegnare. E poi ci


sarebbe voluto troppo tempo per diventare di ruolo.»

Mario deglutì. Deglutiva di continuo, soprattutto prima di parlare.


Dieci anni e passa d’insegnamento lo avevano annientato. A quar-
ant’anni aveva le tempie e la barba bianca, le guance cadenti, le borse
sotto gli occhi. Era finito.

«Ma no» disse. «Facevi come me... T’iscrivevi a Bergamo... Insegnavi


una decina d’anni là... Poi facevi il concorso e ti abilitavi... Alla fine
tornavi... E in altri quindici anni diventavi di ruolo.»

Ci mise una vita a spiegarmi tutto questo perché faceva un mare di


pause.

«Quindici anni?» dissi. Non riuscivo a credere che la gente potesse


avere una tale lungimiranza. Io non sapevo che cosa avrei fatto da lì a
una settimana. «Sono troppi.»

«Adesso che farai?» disse Mario.

«Lavoro ancora in quella libreria, ricordi?»


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«Capito... E poi?»

«Poi basta.»

«Vuoi dire che fai solo quello di lavoro?... Il commesso?»

«Sì.»

Vidi l’angoscia squarciare per un istante la nebbia che gli copriva gli
occhi. Poi mi guardò in un modo che non mi piaceva: come se fossi
spacciato; come se si aspettasse di trovarmi a un angolo di strada, da lì
a qualche anno, a fare l’elemosina. Lo salutai, e sperai di non incon-
trarlo più.

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Chissà perché nessuno prendeva sul serio quel lavoro in libreria. Non
lo consideravano nemmeno un lavoro. Venivo pagato in cambio del
mio tempo, ma per qualche strano motivo questo non bastava per con-
siderarlo un impiego.

Ogni tanto in libreria capitava qualcuno che non vedevo dai tempi del
liceo.

«Quindi lavori qui?» diceva.

«Sì.»

«Cavolo, mi dispiace che non sei riuscito a trovare lavoro.»


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Oppure mi presentavano un tizio che dopo un po’ mi chiedeva: «e tu


che lavoro fai?»

«Il commesso in una libreria.»

«Capisco. È difficile trovare lavoro a Siracusa, vero?»

Con i parenti era un continuo.

«Che stai combinando, Santo?» mi chiedeva qualche zio.

«Lavoro ancora in quella libreria.»

«Mmmh» diceva lui. «Perché non ti trasferisci al nord? Lì è più facile


trovare lavoro.»

Ogni volta mi saliva il nervoso. Avrei voluto saltare su e strillare: «CE


L’HO UN LAVORO! FACCIO IL COMMESSO, È UN LAVORO COME
UN ALTRO! QUALCUNO DEVE PUR VENDERE I LIBRI ALLA
GENTE!» Ma non lo facevo mai. Mi limitavo a dargli ragione e amen.

«Prima o poi un lavoro lo trovo» dicevo.

«Sì, ma sbrigati. Cominci a invecchiare. Ricordati che io a trent’anni


avevo già un lavoro sicuro e una famiglia.»

Non c’era verso.


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Dopo un po’ che ci frequentavamo, scoprii che Paola non aveva amiche
della sua età. Conosceva soltanto donne vecchie. Zitelle sopra la cin-
quantina inacidite dalla mancanza cronica di sesso che si lamentavano
di tutto. Fumavano e si truccavano troppo, e quando le incontravi
stavano sempre andando a fare la spesa, oppure c’erano appena state.
Con loro Paola si trasformava, si sentiva a proprio agio. In mezzo ai
suoi coetanei era timida e impacciata, ma appena la mettevi in mezzo a
qualche vecchia s’illuminava e diventava espansiva.

Sapevo di non piacergli, a quelle vecchie zitelle. Me l’aveva detto


Paola. Probabilmente pensavano che fossi troppo giovane per lei, e che
il suo uomo ideale fosse un vecchio divorziato in carriera. Forse
avevano ragione.

Un giorno ne incontrammo una, una certa Manuela, che cercava


sempre di coinvolgere Paola in corsi di tango per single disperati e
cose del genere.

«Senti» dissi quando Manuela se ne andò, «davvero non capisco che


cosa ci trovi in queste vecchie che frequenti.»

«Guarda che Manuela è simpaticissima. E non è vecchia.»

Non dissi niente.

«Non posso farci niente se quelli della mia età mi annoiano, va bene?»
disse lei. «E poi scusa, parli tu. Non ti vedo passare tanto tempo con i
tuoi coetanei. Ma che dico, non ti vedo passare tanto tempo con
nessuno.»
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«Va bene, va bene. Ho capito. Come non detto.»

Un giorno che me ne stavo seduto sul divano con Paola a guardare la


televisione, mi sorpresi a ripensare a Lise, la mia bella ragazzona olan-
dese. Mi tornarono in mente quella pelle liscia a rosa, i suoi capelli
biondi e gli occhi azzurri. Pensai anche a Sandra dai capelli ricci. E ad-
esso eccomi qua, a guardare il telegiornale insieme a una ragazza che
aveva soltanto amiche sopra i cinquant’anni.

Dovevo fare qualcosa.

21
Nel frattempo Flavio mi fece firmare un nuovo contratto. Un contratto
a tempo indeterminato.

«Contento?» disse.

«Cambia qualcosa?»

«Mmmh, no. Rimane tutto come prima. Solo che non dobbiamo più
rinnovarlo ogni anno.»

«Tutto come prima?»

«Stesso orario, stesso stipendio, stesso tutto.»

«Ah.»

Lo firmai e lo depositai all’ufficio di collocamento. Adesso ero fisso,


non ero più un precario. Ma il succo era lo stesso. Non avevo né ferie,
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né malattie pagate. Non sapevo nemmeno se mi toccassero. Qualcuno


diceva di sì. Qualcun altro che facevo troppe poche ore. Forse mi
spettava la tredicesima, ma non era sicuro. Nessuno era sicuro di ni-
ente. Pensai di informarmi, ma non sapevo dove, né con chi, e così las-
ciai perdere.

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Il piano mi sembrava semplice: intanto avrei cominciato a dormire a
casa mia, poi avrei smesso del tutto di fermarmi a casa di Paola per la
notte. In questo modo avrei eliminato completamente il sesso dalla
nostra storia e a quel punto era fatta. Pensavo che il sesso fosse una
componente fondamentale di una storia, e che tolto quello le storie
evaporassero come neve al sole. In modo spontaneo, senza drammi né
lacrime.

«Santo, perché non vuoi dormire più da me?» mi chiese Paola un


giorno.

«Non lo so. Dormo meglio a casa mia.»

«Ma hai sempre detto che il mio letto è comodissimo.»

«Sì, lo è, ma non mi sento tranquillo a lasciare casa mia incustodita,


capisci?»

«Ma se è praticamente vuota.»

«Fa lo stesso.»
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M’imposi di smettere di pensare al sesso. Ogni volta che mi sorpren-


devo a pensarci scuotevo la testa e mi concentravo su qualcos’altro.
Sui libri del negozio. Sui clienti. Sulla musica. Su qualsiasi cosa, ma
non sul sesso.

Adesso, quando Paola allungava una mano ad accarezzarmi ero io ad


allontanargliela.

«Tz tz tz tz tz» dicevo.

«Tutto bene, Santo?»

«Benissimo. Guardiamo la TV, dài.»

Ci volle qualche mese, ma il piano funzionò. Un giorno Paola mi


telefonò.

«Ascolta Santo, forse è meglio se per un po’ non ci vediamo. Capisci


cosa intendo?»

«Credo di sì.»

«Voglio dire, te ne sarai accorto anche tu, no? Le cose non vanno.»

«Hai ragione, Paola.»

«Va bene, Santo. Ci sentiamo.»

«Ciao.»
Capitolo quinto
1
Poi come per magia si rifece viva Lise.

Dopo più di tre anni mi scrisse una lettera in cui chiedeva come stavo e
riassumeva tutto quello che le era successo nel frattempo (per fortuna
tralasciò le questioni sentimentali). Le risposi qualche giorno dopo.
Provai anch’io a riassumere la mia vita, ma mi resi conto che era suc-
cesso ben poco. Quasi quattro anni ed ero rimasto fermo dov’ero.
Quattro anni da apprendista libraio. Fu una sensazione orrenda.

Continuammo a scriverci una settimana sì e una no, fino a quando in


una delle lettere non buttai lì come esca:

Verso gennaio o febbraio pensavo di fare un viaggio.

Funzionò. La volta dopo lei scrisse:

Fai un viaggio? Bello. Dove andiamo? :)

Ci pensai su. L’ideale sarebbe stato un posto dove non facesse troppo
freddo in inverno e a raggiungerlo in aereo non si spendeva un cap-
itale. La Spagna poteva andare bene. Lo scrissi a Lise, e prima che mi
rendessi conto di quello che stava succedendo avevo appuntamento
con lei, con la mia bella ragazzona olandese, a Madrid per metà
febbraio. Non riuscivo a crederci. Anche se mancavano ancora un paio
di mesi, cominciai subito a sentirmi nervoso. Dove avremmo
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dormito?, mi chiedevo. In camere separate o nella stessa? E ci teneva


davvero a rivedermi o si sentiva sola e non aveva nessun altro con cui
viaggiare? Che cosa sarebbe successo fra noi?

2
Ma prima avrei dovuto affrontare un altro Natale in libreria. E anche
se ero di buon umore per la faccenda di Lise, fu lo stesso dura, forse
perché continuavo a pensare alle ferie e alle malattie che Flavio non mi
pagava. In più la gente era la stessa vecchia, intrattabile gente di
sempre.

«Mi fa vedere questo libro?» chiese una signora.

«Quale?»

«Questo.» E indicò un libro che le stava davanti, a non più di quindici


centimetri. Non era grosso, non stava in alto. Era lì e basta. Avrebbe
soltanto dovuto allungare una mano e tirarlo fuori dallo scaffale.

«Senta, signora, in questo momento ho da fare, perché non se lo pren-


de da sola?»

«Ci mancherebbe altro» disse quella con la bocca a culo di gallina, e se


ne andò.

Squillò il telefono.

«Pronto?»

«Ciao, sono Susanna.»


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«Chi?»

«Susanna.»

«Non conosco nessuna Susanna.»

«Be’, Flavio mi conosce. Ho anch’io un negozio e... Va be’, ho capito,


passami Flavio.»

Le passai Flavio e ricominciai a impacchettare libri per i clienti.


Quell’anno li disprezzai ancora di più perché me li immaginavo com-
prare i regali con le loro tredicesime e quattordicesime, approfittando
delle ferie, mentre io non avevo né le une né le altre. Mi sembrava il
massimo dell’ingiustizia.

Flavio chiuse il telefono e mi prese da parte.

«Allora, hai presente Susanna?»

«No.»

«Ma sì, ha un negozio per bambini in fondo a corso Umberto.


Comunque, impacchetta i libri scritti su questo foglietto e portaglieli,
va bene?»

Presi i libri dagli scaffali. Erano i soliti libri che compravano tutti. Mai
nessuno che ti prendesse alla sprovvista e si facesse impacchettare,
che ne so, qualcosa di Philip Roth. E io lavoravo sottopagato per gente
del genere. Com’era possibile? Pensai alla bella Lise che avrei rivisto in
Spagna e mi calmai. Feci i pacchi e li infilai in un sacchetto. Poi andai
a cercare il negozio di Susanna. Almeno, pensai, avrei preso un po’
d’aria e fatto una passeggiata. Pagata, stranamente.
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Fuori faceva freddo e io avevo dimenticato di prendere il giubbetto. Le


strade erano piene di persone cariche di pacchi regalo ma cercai di non
farci caso. Il negozio era difficile da trovare e io tremavo. Indossavo
solo una felpa che lasciava passare il vento e il freddo. Mi venne un
gran mal di testa. E anche un principio di depressione, se è per questo.
Mi vidi dall’esterno e pensai: eccoti qua, degradato a fattorino. Il
ragazzo delle consegne.

Vidi un bar, fuori dal quale alcune brutte facce fumavano e


chiacchieravano.

«Sapete se c’è un negozio di articoli per bambini qui vicino?» dissi con
la voce che mi tremava per il freddo.

«Tz» disse uno di loro.

Mi stavo assiderando. Per riscaldarmi cominciai ad andare al piccolo


trotto, con il sacchetto che mi sbatteva sulle gambe. Alla fine trovai il
negozio. Era strizzato fra una ferramenta e una cartoleria. Da fuori
sembrava più una merceria.

«Susanna?» dissi.

«Sei Santo, quello della libreria?» disse una signora coi capelli bianchi.

«Sì. Ecco i libri.» Poggiai il sacchetto su una sedia e corsi vicino a una
stufa elettrica che c’era in un angolo.

La signora guardò dentro il sacchetto e poi verso di me.

«Questi pacchetti sono tutti uguali. Come faccio a distinguere i libri


che ci sono dentro?»

«Non lo so. Al momento di aprirli sono sicuro che ci riuscirà.»


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«Sì, ma così rischio di darli alla persona sbagliata. Che faccio? Poi gli
dico di scambiarsi i regali?»

«Che cosa vuole che faccia?»

«Ormai niente, dovevi pensarci prima. Adesso farò una figuraccia.


Grazie tante, eh.»

Quattro anni! pensai, intirizzito dal freddo, mentre tornavo in negozio.

3
Subito dopo Natale incontrai una mia amica. Si chiamava Marta.

«Ciao Santo! Che brutta cera.»

«Lo so.»

Chiacchierammo un po’, poi Marta disse: «e se ci vedessimo un film a


casa tua uno di questi giorni?»

«Va bene.»

Casa mia era ancora senza mobilio, ma nel frattempo avevo comprato
un letto e un divano, quindi pensavo potesse accogliere degli ospiti.
Avevo deciso che non avrei preso molti mobili. Mi consideravo di pas-
saggio in quella casa, in quella città, forse anche in questa nazione, e
volevo tenermi pronto ad andarmene in qualsiasi momento senza
dovermi preoccupare di smaltire la roba accumulata fino ad allora.
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Marta si presentò alle nove di sera. Quando l’andai a prendere fuori fui
guidato nel buio dal rumore dei suoi tacchi sull’asfalto. A me i tacchi
non erano mai piaciuti e Marta ne portava di altissimi. Riusciva a cam-
minarci solo facendo passi corti e frequenti. Una sorta di tip tap ral-
lentato. Non sopportavo neanche le ragazze truccate, piene di gioielli o
troppo profumate, e Marta era tutto questo. Non appena la vidi mi
pentii di avere organizzato la serata. Non mi stava neanche tanto sim-
patica, ma almeno era carina e allegra.

Marta aveva portato da mangiare, e mentre attaccammo a masticare


feci partire sul computer un film. Il computer era poggiato su un ta-
volino traballante che avevo fatto io stesso e piazzato davanti al di-
vano. Non ricordo che film fosse. Non ha importanza.

La pizza era di quelle pesanti. Salsiccia, patate, un sacco di formaggio.


Considerato quello che successe dopo, forse sbagliai a mangiarla.
Forse avrei dovuto lasciarla perdere, chissà. Così come forse non avrei
dovuto bere quelle due bottiglie di birra doppio malto che facevano
circa dieci gradi l’una. Ma ero troppo agitato, dovevo berle. Un anno e
mezzo con Paola, un anno e mezzo di caffettiere pronte e di bigliettini
che auguravano il buongiorno, mi avevano arrugginito. Col senno di
poi penso che non avrei dovuto fare un sacco di cose.

Marta non smetteva un attimo di parlare. Era impossibile fermarla. E


quel che è peggio, non diceva niente di interessante. Mi raccontò per
filo e per segno chi aveva visto e dove, chi frequentava i locali dove an-
dava lei, come si era vestita una sua conoscente che non sopportava
eccetera. In più fumava, e tanto. Non è che non sopportassi il fumo,
ma mi dava fastidio il puzzo. Come se non bastasse, Marta scaricava la
cenere e i mozziconi dove capitava: sul tavolino, per terra, nei
bicchieri.

«Com’è finita con quella ragazza?» disse.


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«Quale ragazza?»

«Quella alta e magra. Quella che sembrava tua sorella. Com’è che si
chiamava?»

«Paola. Non ci vediamo più, è finita.»

«Vi ho visti in giro un paio di volte. Non mi sembrava il tuo tipo.»

Risi. Era una risata un po’ triste, devo ammetterlo. «Perché, quale
sarebbe il mio tipo?»

«Boh. Tipo le comuniste.»

Marta attaccò un discorso strampalato sulle “comuniste” che non


sapevano vestirsi. Secondo lei non ci voleva niente a portare jeans e
scarpe da ginnastica o a non depilarsi come facevano loro. La vera
classe stava nel sapere indossare stivali col tacco e abito da sera, nel
truccarsi e profumarsi.

«Da questo si riconosce un vero leader» disse Marta.

Io facevo di sì con la testa, mezzo ubriaco e con la pancia piena di


pizza, e intanto cercavo di decidere quando fare il primo passo. Sapevo
che se non mi fossi sbrigato avrei lasciato perdere.

Lei mi venne incontro.

«Secondo te ho le tette troppo grandi?» disse.

Gliele guardai. Era difficile dirlo, le aveva strizzate dentro un top un


paio di misure più piccole. Emergevano dalla scollatura come se
avessero voluto saltare fuori da un momento all’altro.
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«Mi sembrano normali» biascicai. Ero nervosissimo, neanche mi


trovassi da solo con una ragazza per la prima volta. Era come avere di
nuovo diciotto anni. In realtà era sempre così, con tutte. Mi succedeva
perché da piccolo le ragazze non mi avevano trovato attraente. Mi
portavo ancora dietro quell’insicurezza.

«In realtà» disse Marta, «se togliessi il reggipetto mi cadrebbero giù in


un secondo.» Fece una risatina e mi guardò. «Dài, prova. Tocca. È
tutto merito del reggipetto.»

Gliene tastai una. Aveva ragione. Quella era la coppa imbottita del reg-
gipetto. Feci un po’ più di pressione, ma niente. In compenso sentii
crescere un’erezione nei pantaloni. O almeno credo, accidenti.

Spostai la mano sulla scollatura e toccai la parte di tette che usciva da


lì. Marta aveva la pelle liscia, ma il suo profumo acre mi stava dando
alla testa. O forse era la birra? O la pizza troppo pesante? O il nervoso
per le ferie e le malattie non pagate? Flavio mi stava fottendo. Lo
sapeva lui e lo sapevo io, ma per qualche strano motivo facevamo en-
trambi finta di niente.

Io e Marta cominciammo a baciarci e ad accarezzarci a vicenda, ma


c’era come un muro fra noi. Erano quei tacchi, quel profumo e quelle
chiacchiere senza senso sulle comuniste che non sanno vestirsi. Lei
cominciò a gemere, anche se in realtà non stavamo ancora facendo
niente.

«Non ti dispiace, vero, se parlo ad alta voce mentre lo facciamo? Così


mi eccito di più.»

Pensai alle pareti sottili di casa mia e a come sentissi tutto quello che
dicevano i vicini accanto e di sopra.

«Va bene» dissi.


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«Evvai.»

Ci spostammo in camera da letto. La situazione di per sé era eccitante,


ma io non volevo essere là, vai a sapere perché. A letto ricominciammo
a baciarci e a strusciarci, e intanto ci spogliavamo. Marta saltò giù dal
letto per togliersi gli stivali. Senza, era davvero bassa. Poi si sdraiò e io
le andai vicino.

«Fammelo sentire!» disse.

«Ok, però fai piano» dissi io.

Marta mi annusò il torace in diversi punti.

«Che c’è?» dissi. «Puzzo?»

«No, anzi. È solo che ho il vizio di annusare la gente. Dev’essere per-


ché nella mia vita precedente ero un puma.»

Mi alzai e misi un preservativo. Poi tornai sopra di lei. Feci per penet-
rarla, ma non ci riuscii. Qualcosa me lo impediva.

«Dài, voglio sentirlo!» urlò Marta con una voce strana.

Provai e riprovai, ma niente.

«Vuoi che te lo succhio?» mormorò questa volta lei.

«Eh? Perché?»

Sollevai il bacino e diedi un’occhiata là sotto. Il mio pene era flaccido e


corto. Il preservativo mi stava larghissimo.

Strano, pensai. Me lo tolsi e lo buttai via. Non volevo romperlo.


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Ne presi un altro e lo tenni a portata di mano. Poi ricominciai a ba-


ciare Marta.

«Tutto bene?» chiese lei. Ormai usava la sua voce normale.

«Che vuoi dire?»

Guardai di nuovo giù. Avevo un pene microscopico. Penzolava verso il


basso come un’appendice morta del mio corpo.

«Merda» dissi, e rotolai via. Ero ancora mezzo ubriaco.

«Che succede, Santo?»

«Una bella sorpresa.» Ridacchiai. Cercavo di fare il disinvolto, ma


cominciavo a farmela sotto.

«Tranquillo, càpita» disse Marta.

«A me non era mai successo.»

Lei alzò le spalle. «Si vede che non ti piaccio abbastanza.»

Le squillò il telefono. Era una sua amica che stava passando a pren-
derla. Ci rivestimmo e tornammo in soggiorno. Finsi di essere calmo e
padrone di me. Improvvisai un paio di battute scadenti, sbocconcellai
il cibo che era avanzato e sorseggiai un altro po’ di birra.

In realtà ero terrorizzato. Sentivo un nodo allo stomaco e mi veniva da


piangere. Che storia era quella?

Marta ci mise una vita a raccogliere la sua roba. Aveva disseminato


bracciali, anelli e orecchini per tutto l’appartamento. Il soggiorno
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puzzava di fumo. Un bicchiere era pieno di mozziconi che galleggia-


vano su un dito di birra. Ero contento che se ne andasse.

Finalmente arrivò la sua amica e Marta uscì.

«Tranquillo, ok?» disse voltandosi, e mi diede un bacio su una guan-


cia. «Càpita a tutti ogni tanto.»

Non dovevo perdere la calma. Forse era vero, quella era una cosa che
capitava a chiunque prima o poi. L’importante era non pensarci, e il
giorno dopo sarebbe tornato tutto come prima.

Sicuro.

Matematico.

4
Non dormii per quattro notti di fila. Ogni tanto mi assopivo, ma
durava poco. Subito dopo mi svegliavo di scatto e controllavo se avessi
almeno un’erezione notturna. Macché, niente. Il pene giaceva inerte
nelle mutande. Di notte di solito avevo un’erezione continua, se
dovevo andare in bagno era un problema centrare il water, o almeno
così mi sembrava di ricordare. Adesso quel coso era ridotto a una flac-
cida, inutile appendice vestigiale.

Mi lasciai prendere dal panico. Tutta la mia attenzione era rivolta ai


genitali. Anzi, tutto a un tratto era come se non ce li avessi più, gli or-
gani genitali. Come se non li avessi mai avuti. Al centro del bacino sen-
tivo un buco nero. Uno spazio vuoto. Della pelle estroflessa che serviva
a pisciare e nulla più.
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5
Andai a trovare Marta al lavoro, in un’agenzia finanziaria. Dovevo
avere un aspetto orrendo perché quando mi vide disse: «ohi, Santo,
tutto bene?»

«Perché?»

«Sembra che non dormi da una settimana.»

«È per quello che è successo. Sono preoccupato. Ho paura.»

Marta accese una sigaretta. «Senti, sarò sincera. Non è bello essere la
prima volta di qualcuno, soprattutto in quel senso. Ma se vuoi fare una
prova del nove, chiamiamola così, e toglierti il pensiero, io sono
disponibile.»

«Lo faresti davvero?»

«Certo. Quando vuoi.»

«Merda.»

«Cosa? Che c’è?»

«E se dovesse succedere di nuovo?»

«Tranquillo.» Marta buttò per terra la sigaretta fumata a metà. «Non


succederà. Andrà tutto bene.»

*
185/269

Organizzai la cosa per qualche giorno dopo. Marta arrivò di nuovo in-
torno alle nove, con i tacchi e tutto. Facemmo i disinvolti, come se non
sapessimo perché ci trovavamo lì. Chiacchierammo del più e del meno.
Mangiammo qualcosa di leggero, ma di bere non se ne parlava. Presi
solo dell’acqua.

Finalmente decidemmo che era ora di provare.

«Tranquillo, eh?» disse lei. «Rilàssati.» Non era molto di aiuto.

Andammo in camera da letto, dove ci spogliammo e ci sdraiammo. Ero


tesissimo. Il cuore mi batteva forte.

Marta mi prese in mano il pene. Era piccolissimo. Cominciò a baciarlo


e a maneggiarlo, e piano piano cominciò a gonfiarsi. Lei alzò lo
sguardo e mi fece un occhiolino. Poi attaccò con quei suoi «fammelo
sentire!»

Le salii sopra, questa volta senza preservativo – quello era un esperi-


mento scientifico, non c’era spazio per le variabili impazzite – e provai
a penetrarla. Feci in fretta perché quell’affare stava già perdendo con-
sistenza. Si stava ritraendo alla velocità della luce. No, niente da fare.

Tenni a bada il panico e tornai a sdraiarmi sulla schiena. Marta riprese


a baciarlo e quello si rizzò di nuovo. Ma dovevo restare immobile, per-
ché al minimo movimento minacciava di afflosciarsi come un pallone
forato.

Alla fine raggiunsi l’orgasmo, ma era chiaro che qualcosa non andava.

«Visto?» disse Marta. «Tutto a posto.»

Eravamo in macchina, la stavo riaccompagnando a casa. Lei non aveva


la patente. Abitava dall’altra parte della città, e per me e la mia
186/269

Renault4 era un problema. Se mi avesse fermato, la polizia avrebbe


trovato decine di infrazioni. Ero assicurato, ma la macchina non era
revisionata, non aveva il bollo pagato, né i gas di scarico certificati e
chissà cos’altro.

«Tutto a posto?» dissi con voce rotta. «Ma se appena mi muovevo era
la fine.» Mi veniva da piangere. Una parola cominciò ad affacciarmisi
in mente a intervalli regolari. Era questo che voleva dire essere impot-
ente? Potevo dire addio al sesso? Ero già così vecchio?

«Senti, è andato tutto bene. Sei venuto, beato te. Meglio di questo che
vuoi?»

La poveretta cercava di tirarmi su di morale, ma non servì a granché.


Sapevo come stavano le cose e avevo paura.

6
A casa non avevo il frigorifero, figuriamoci internet. Così quando ero
di turno in libreria passavo il tempo a cercare di capire che cosa mi
stesse succedendo. Sbrigavo al volo i clienti e caricavo i nuovi libri il
più velocemente possibile, poi tornavo al computer e cercavo “impot-
enza + cause”, “non mi si alza più” e via dicendo.

Internet era piena di gente che non aveva un’erezione da anni. Gente
che non ne aveva mai avuta una. Gente che le erezioni ce le aveva, ma
sparivano appena provava a penetrare la partner.

Domanda - Caro dottore, il pene non raggiunge mai un’erezione sod-


disfacente, né in presenza del partner né da solo. Che cosa posso
fare?
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Risposta - Gentile utente, le consiglierei di fare un esame dell'afflusso


di sangue nei corpi cavernosi. È un esame costoso e doloroso, ma al-
meno dimostrerà che il problema non è di natura psicogena.

La mia vita era finita. Ne avevo avuta una, in passato; una vita in cui
un’erezione era data per scontata e avveniva il cento per cento delle
volte in presenza di una ragazza. Ma adesso era finita. Era cominciata
la mia seconda vita. Quella in cui un’erezione è l’eccezione alla regola,
un evento raro quanto l’avvistamento di un animale in via
d'estinzione.

Non pensavo ad altro. Ogni singolo pensiero, ventiquattro ore su


ventiquattro, era rivolto a quel problema. Per quanto mi sforzassi, non
riuscivo a ricordare a che cosa avessi pensato durante la mia prima
vita.

Un giorno incontrai Paola. La cara dolce Paola.

«Che è successo?» chiese preoccupata. In quei giorni ero a dir poco


trasandato. Non mi radevo. Indossavo i vestiti anche se erano sporchi.
I capelli erano più arruffati del solito.

«Qualcosa non va... là sotto» dissi indicando il cavallo dei pantaloni.

«Che vuoi dire?»

Decisi di non raccontarle di Marta. «Non ho più erezioni notturne o


mattutine. Ce l’ho quasi sempre moscio.»

«Che cosa hai sempre...?»

«Il pene.»
188/269

«Oh.» Paola arrossì e distolse lo sguardo. Ne stavo parlando con la


persona sbagliata. Parlare di sesso con Paola era come discutere di in-
gegneria nucleare con uno qualsiasi dei miei ex studenti. «Sei sicuro?»

«Purtroppo sì.»

«Non so che dirti. Vedrai che non è niente. Cerca di distrarti.»

«È una parola.»

«Comprati un cruciverba e fallo da cima a fondo. Vedrai che


funziona.»

Ero talmente disperato che feci come disse. Non avevo niente da per-
dere, male non mi avrebbe fatto. Comprai la “Settimana enigmistica”
all’edicola della stazione. Poi andai a casa, mi sdraiai sul letto e la feci
tutta, anche i cruciverba più difficili. Ma non servì a molto. Ogni tanto
mi portavo una mano al pene e notavo che era flaccido, tanto per
cambiare.

7
Il mio medico era una bella donna sui quarantacinque anni. In sala
d’aspetto mi preparai il discorso da farle mentre sfogliavo una rivista
che trovai su un tavolino. Era piena di belle ragazze della TV in cos-
tume da bagno. Guardai quei corpi perfetti e abbronzati ma non mi
dicevano niente, probabilmente perché pensavo che arrivato al
dunque non avrei potuto farci granché. O forse era il contrario: non ci
avrei fatto un granché perché non mi dicevano niente?

Stavo perdendo la ragione.


189/269

«Si accomodi D’Amico. Come andiamo?» disse la dottoressa quando


entrai nell’ambulatorio. Mi dava sempre del lei. «Qual è il problema,
sentiamo?»

«Ecco, è un po’ imbarazzante. Vede, sono stato con questa ragazza


e...»

«E ha preso un’infezione, giusto?» disse. «Un classico.»

«Magari. No, il problema è un altro. Sono stato con questa ragazza, e


sul più bello...»

«È stato precoce.»

«Mi lasci finire. Il fatto è che non è successo niente, se capisce cosa
intendo.»

Lei si appoggiò allo schienale della poltrona con uno strano sorriso
beffardo stampato in faccia. Era ancora una bella donna, e all’improv-
viso mi venne il dubbio che forse avrebbe risolto la cosa come fanno
nei film porno. Si sarebbe spogliata, mi avrebbe spinto sul lettino e
avrebbe dimostrato al mondo intero (o almeno a me) che stavo benis-
simo. Perché nella vita reale queste cose non succedono mai?

«Era la prima volta?» disse.

«Che mi succedeva? Sì.»

«E questa ragazza le piaceva, D’Amico?»

«Sì... No... Non so. Non credo abbia importanza.»


190/269

«Certo che ne ha. Secondo me c’è poco di cui preoccuparsi. Sono


sicura che se riprova con una ragazza che le piace la cosa si risolve da
sé.»

«A me sembra qualcosa di più serio» dissi. «Non dormo da giorni,


ormai. Non riesco a pensare ad altro. Qui c’è sotto qualcosa, dottor-
essa, lo sento.»

«Ok, le prescrivo una visita dall’andrologo. Ma vedrà che anche lui le


dirà le stesse cose che le ho detto io.»

Prese un’impegnativa e cominciò a scrivere. A un certo punto s’inter-


ruppe e fissò perplessa il vuoto. Sfogliò un libro che teneva lì vicino,
poi finì di scrivere l’impegnativa e la strappò dal blocchetto.

«Non legga quello che ho scritto come sospetta diagnosi. Bisogna pur
metterci qualcosa.»

«Va bene, grazie.»

Appena uscii lessi l’impegnativa. C’era scritto: sospetta disfunzione


erettile.

Mi chiesi perché quella cosa stava succedendo proprio a me.

8
Prenotai la visita dall’andrologo e il giorno stabilito mi presentai alla
mutua. Ero in anticipo di un quarto d’ora, così ammazzai il tempo fa-
cendo due volte il giro dell’edificio a piedi e ripetendo a mente quello
che avrei detto al medico. Non volevo tralasciare nulla. Non volevo che
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mi liquidasse come aveva tentato di fare la dottoressa. Quando fu ora


entrai, salii le scale e mi sedetti ad aspettare fuori dall’ambulatorio
dell’andrologo. Oltre a me c’erano due vecchi sui settant’anni. Che ci
faccio qui?, pensai. Mi veniva da vomitare. Ero debole. Non mangiavo
in modo decente da settimane.

Elencai ancora una volta quelle che immaginavo potessero essere le


cause della sciagura.

C’entra la bicicletta, mi dissi. È troppo vecchia ormai. E a forza di


premere contro il perineo, il sellino avrà danneggiando qualche nervo.
Anche su internet dicevano che i ciclisti hanno una maggiore probabil-
ità di soffrire di disfunzione erettile. Dev’essere quella la causa.

Anzi, no, la colpa è della libreria. Per fare i pacchi regalo usiamo un
macchinario che taglia la carta plastificata, e ogni volta da quell’affare
si alza un filo di fumo puzzolente e sicuramente tossico. Qualche
polimero velenoso. Su internet avevo letto che l’esposizione ad agenti
inquinanti può provocare impotenza.

Per non parlare della tensione, la rabbia e la depressione accumulate


in libreria perché non ho né le ferie né le malattie pagate nonostante
mi spettino. La depressione è una grande causa d’impotenza. L’avevo
letto su un sito.

Ma no, è tutta colpa mia. Prima di lasciare Paola mi ero concentrato


troppo per eliminare il sesso dalla nostra storia. Avevo annullato qua-
lunque impulso sessuale, e ora quelli per vendicarsi non ne volevano
sapere di tornare. Non si scherza con quella roba. Non puoi mica cac-
ciarla via e richiamarla a piacere.

Chissà cosa dice internet a proposito?


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9
«Santo D’Amico?» disse l’infermiere.

«Sono io.»

«Prego.»

Entrai. Il medico era un signore sui cinquant’anni con pochi capelli e


uno sguardo sarcastico.

«Accomodiamoci» disse dopo avermi stretto la mano.

L’infermiere si mise a scrivere i miei dati su un registro. Il medico tirò


fuori una specie di pagella e fece scattare la punta della penna.

«Dunque, dottore» dissi, «è successo questo...»

«Un attimo, D’Amico. Senza correre. Prima dobbiamo compilare la


scheda.»

«Oh.»

«Dunque... Santo D’Amico» disse mentre scriveva. Poi mi riempì di


domande: età, gruppo sanguigno, se avevo avuto malattie gravi eccet-
era. Solo quando finì di compilare la scheda disse: «adesso possiamo
cominciare. Qual è il problema?»

Gli spiegai nel modo più chiaro possibile quello che era successo. Non
tralasciai nessun particolare, neanche i più imbarazzanti. Lui annuiva
nei punti giusti, oppure prendeva un appunto, e qualche volta mi
faceva delle domande. Usava sempre la prima persona plurale.
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«Quindi, ricapitolando: eravamo in compagnia di questa ragazza, e


fino a quando facevamo sesso orale le cose funzionavano a meraviglia.
Ma non appena ci muovevamo, l’erezione tendeva a regredire.»

«Esatto» dissi. Non mi era mai capitato di parlare di certe cose con un
adulto.

Il dottore si appoggiò allo schienale proprio come aveva fatto la


dottoressa.

«Mi dica, dottore. Esiste una cura?»

«Certo» disse lui. «Ma prima dobbiamo scoprire la causa di questi


fenomeni. Se è psicogena o se invece c’è dietro qualcosa di serio. Per-
ciò intanto ci facciamo un bell’esame del sangue e controlliamo che il
livello di ormoni sia nella norma.»

«Ho capito.»

«In generale però direi che possiamo stare tranquilli. Il nostro,


D’Amico, è un caso ampiamente discusso nella letteratura scientifica.
Direi che siamo preda di quella universalmente nota come “sindrome
da spettatore”.»

«Sindrome da spettatore?»

«Esatto. Invece di goderci l’atto sessuale, come sarebbe naturale,


vediamo noi stessi dall’esterno. Come la famosa acqua calda nella
pentola, guardiamo il nostro pene in attesa che avvenga l’erezione. In
questo modo facciamo il pieno di adrenalina – che è un’antagonista
dell’erezione – e inibiamo la stessa. Ma ripeto, prima vediamo come
stiamo messi a ormoni. E poi cominciamo una bella terapia per recu-
perare la tranquillità persa.»
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Prese un’impegnativa e scrisse la richiesta per le analisi del sangue. La


strappò e me la passò.

«Le consiglio il laboratorio che c’è qui di fronte.»

«Perché?»

«Il personale è tutto maschile. Visto il tipo di analisi, capisce,


eviteremo inutili imbarazzi.»

Quando ero già sulla porta il dottore disse: «ah, D’Amico, un’altra
cosa. Per ora evitiamo di avere rapporti sessuali, d’accordo? Nuove de-
lusioni non farebbero altro che peggiorare la situazione.»

10
Al laboratorio analisi doveva esserci stato un cambio di gestione, per-
ché spuntò fuori che lì dentro erano tutte donne. Parlai nell’ordine con
una segretaria, un paio di infermiere e una dottoressa. Fu lei a farmi il
prelievo. Mi chiese se ero a digiuno, poi mi disse di sedermi e di soll-
evare la manica della felpa. Mentre prelevava il sangue non riuscii a
guardarla in faccia. Anche lei era molto bella. Il mondo era pieno di
belle donne, e io potevo solo parlarci o farmi prelevare il sangue. In
quei giorni, in libreria pensai a chi, in letteratura, era successo quello
che stava succedendo a me. C’era il protagonista di Fiesta, il romanzo
di Hemingway, anche lui impotente. C’erano Arturo Bandini e il suo
“desiderio senza passione” in Chiedi alla polvere. E c’era Kafka, che
con Milena aveva fatto cilecca almeno una volta, come si capiva dalle
loro lettere. Se non altro ero in buona compagnia.
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11
Paziente n. 191 del 17/01/11

Nome: D’Amico Santo

Sesso: M

_____

VIDAS Tecnica ELFA

----

BETA hCG: < 2.00 mUl/ml

LH/ORMONE LUTEINIZZANTE: 3.66 mlU/ml

PROLATTINA: 13.51 ng/ml

TESTOSTERONE: 6.18 ng/ml

----

FLUORESCENZA BICROMATICA TOSOH

----

TSH ORMONE TIRESOSTIM.: 2.00 mlU/ml

FT4 TETRAIODOTIRONINA LIB.: 10.20 pg/ml


196/269

12
Gli ormoni erano a posto.

«Visto? Lei è sano come un pesce» disse la dottoressa. «Secondo me


non ci sarebbe bisogno di tornare dall’andrologo.»

Le chiesi lo stesso di scrivermi l’impegnativa. Gli ormoni saranno


anche stati in regola, ma io ne sapevo più di loro. Mi sembrava di non
avere praticamente più impulsi sessuali. Vedevo una bella ragazza per
strada e non mi faceva né caldo né freddo. Non era mai successo.

L’andrologo controllò i risultati.

«Bene, bene» disse. «Mi sembra che possiamo escludere i fattori or-
ganici. Il nostro è un classico caso di natura psicogena.»

Nostro un tubo, pensai.

«Ora per un paio di mesi proviamo con la terapia di routine» disse il


dottore.

«Terapia psicologica, nel senso? Dovrò andare dallo psicologo?»

«No, no. Non ancora, almeno.» L’andrologo si alzò e andò a prendere


da un armadietto una piccola scatola, il campione gratuito di un medi-
cinale. «Tutto quello che dobbiamo fare, per un paio di mesi, è riac-
quistare sicurezza prendendo queste pillole.»

«Una al giorno?»
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Il dottore rise. «No, queste vanno prese al bisogno. Diciamo un’oretta


prima di un probabile rapporto intimo. Mi raccomando prendiamole a
stomaco vuoto. Questo è molto importante. Altrimenti l’assorbimento
non è ottimale.»

«Va bene» dissi e m’intascai la ricetta che aveva scritto.

«L’ideale sarebbe che appena abbiamo un riscontro lei mi chiami. Il


numero è sulla ricetta.»

13
E così eccomi, a poco più di trent’anni, ad avere già a che fare con le
pillole per farlo rizzare.

In libreria erano le settimane in cui non veniva quasi nessuno, me ne


stavo seduto dietro il bancone con la testa poggiata su una mano a
rimuginare su me stesso, o a pensare a Lise. Mancava un mese al nos-
tro incontro. Mi chiedevo come sarebbe andata. Ricordavo i bei tempi,
anni prima, quando in Olanda non potevo starle a un metro di dis-
tanza senza sentirmi tutto scombussolato. Adesso quello che provavo
pensando a lei era solo un vago senso di inadeguatezza.

Organizzai un incontro con Marta.

«Vuoi fare un’altra prova?» disse lei divertita.

Non le raccontai delle pillole e dell’andrologo. La invitai solo a casa


mia per l’ora di cena. Mentre la aspettavo tenni le pillole a portata di
mano. Anche il foglietto illustrativo diceva di prenderle un’ora prima
di un rapporto e a stomaco vuoto. Diceva anche di non preoccuparsi se
198/269

si notava che il cuore pompava più del previsto, o se si sentiva la faccia


avvampare. Sarebbe stato normale.

Quando Marta suonò il citofono presi una pillola e la mandai giù con
un bicchiere d’acqua. Poi andai ad aprire.

Marta aveva portato qualcosa da mangiare. Io rifiutai, non volevo im-


pedire l’assorbimento della pillola. Una birra invece pensavo non mi
avrebbe fatto male. Lei cominciò subito a parlare senza sosta, bravo
chi la fermava. Parlava di gente che non conoscevo come se avessi
dovuto. Mi raccontava cose di cui non m’importava niente. Ogni tanto
si toglieva un braccialetto o un anello e li poggiava dove capitava. At-
taccò anche a fumare e a buttare mozziconi in giro.

«Come fai ad abitare qui dentro?» disse.

«Che vuoi dire?»

«Non ci sono mobili.»

«I mobili servono solo a chi ha così tanta roba che non sa dove
metterla.»

«Se mia madre mi vedesse qui dentro le verrebbe un colpo. Da quant’è


che non passi l’aspirapolvere?»

«Da un po’.»

Marta alzò le spalle, poi disse: «secondo te ho le gambe grosse?»

Gliele guardai. Portava i jeans.

«No, non mi sembra.»


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«Sei sicuro? Toccale, dài.»

Le accarezzai le gambe, e intanto cercai di capire che cosa provavo nel


farlo. Di solito in una situazione del genere mi sarei sentito tutto
agitato. Come attraversare un muro invisibile o entrare in un campo
magnetico. Questa volta non successe. Ero in me. Ero lucido. Ero uno
spettatore di me stesso, l’andrologo ci aveva preso in pieno. Una
sensazione orrenda.

«Ti senti bene?» disse Marta.

«Sì, perché?»

«Sei tutto rosso in faccia. Che c’è, ti vergogni?»

Pensai che la pillola stava cominciando a fare effetto. Sentivo le vam-


pate di calore. E mi accorsi che dietro la patta dei pantaloni il pene si
gonfiava.

Io e Marta ci spostammo in camera da letto. Lei si liberò degli stivali e


li lasciò cadere con un tonfo.

«Lo voglio sentire tutto!»

«Ssst, fai piano però» dissi, preoccupato per i figli dei cinesi che
abitavano sopra di me.

«Non ce la faccio» disse Marta mentre si spogliava. «Ho bisogno di


parlare, te l’ho detto.»

Mi spogliai anch’io e diedi un’occhiata in mezzo alle mie gambe. Avevo


un pene grosso così, che svettava verso l’alto come un tizio orgoglioso.

«Hai avuto più problemi?» disse Marta.


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«No. È tutto a posto ormai.»

«Visto? Che ti avevo detto? Capita a tutti una volta nella vita.»

Lasciai perdere e le andai vicino sul letto. Avevo un’erezione, è vero,


ma non era la stessa cosa. Non sembrava la mia erezione. Non sem-
brava nemmeno il mio pene, ma quello di qualcun altro. Era come se
mi avessero impiantato una protesi che potevo gonfiare a piacimento.

Cominciai a penetrare Marta.

«Oh, è così DURO!» disse.

Non ero nemmeno eccitato. Era né più e né meno che un esperimento


scientifico. Entravo e uscivo da Marta meccanicamente, come se
l’avessi letto su un libro di ricette: penetrare la ragazza per dieci
minuti o comunque fino al raggiungimento dell’orgasmo. Stavo recit-
ando la parte dell’uomo normale, con la speranza di tornare a esserlo.

Ci volle un sacco di tempo. Quando finii, uscii da Marta e mi sdraiai a


pancia in su. Ero completamente sudato.

«Mamma mia» disse lei. «È stato bello. Ma si può sapere tu dov’eri?»

«Vorrei saperlo anch’io.»

14
Chiamai l’andrologo e gli raccontai com’era andata.
201/269

«Perfetto, D’Amico. Adesso abbiamo la certezza matematica. È sicura-


mente un problema di natura psicogena. Dobbiamo solo ritrovare un
po’ di tranquillità e il resto verrà da sé.»

«Ma non c’è pericolo che diventi dipendente dalle pillole?»

«Ma quando mai! Mi richiami fra due mesi, D’Amico» e riattaccò.

15
Per andare in Spagna da Lise chiesi a Flavio il fine settimana libero.

«Ma è quello di San Valentino!» disse lui.

«E allora?»

«Mi servi qui.»

«Senti, ho bisogno di quei giorni. O me li dai o me li prendo lo stesso


di ferie. Tanto nemmeno me le paghi, anche se dovresti.»

Era la prima volta che affrontavo con lui il problema delle ferie non
pagate. Era uno dei vantaggi dei casini che stavo affrontando col sesso:
non m’importava quasi più di niente, anche perché non avevo niente
da perdere.

«E questo che cosa vorrebbe dire?» chiese Flavio riducendo gli occhi a
due fessure.

«Niente, niente» dissi.


202/269

16
Il venerdì mattina feci al volo la valigia, mi assicurai una decina di
volte che ci avessi infilato dentro le pillole e andai alla stazione degli
autobus.

«Un biglietto per l’aeroporto di Catania» dissi all’impiegato allo


sportello.

«Non sul prossimo autobus, vero?»

«Sì, perché?»

«Perché questo va direttamente a Catania, senza passare per l’aero-


porto. All’aeroporto ci va l’autobus delle undici.»

«Delle undici? Ma il volo mi parte alle dieci e mezza! Come faccio?»

Il ragazzo disse che potevo andare a Catania col prossimo autobus e da


lì prendere la navetta per l’aeroporto.

«Ma farò in tempo?»

Alzò le spalle. «Forse.»

Sembrava un complotto. L’autobus impiegò una vita ad arrivare a


Catania; e la navetta un’eternità a raggiungere l’aeroporto, ma in un
modo o nell’altro riuscii a salire a bordo dell’aereo per Roma Fi-
umicino. A Roma corsi fino all’altro terminal (il primo aereo era arriv-
ato in ritardo) appena in tempo per prendere il volo per Madrid.
203/269

Sull’aereo, mentre riprendevo fiato, ripensai all’email che Lise mi


aveva scritto qualche giorno prima:

Ciao Santo,

non so se a Madrid avevi intenzione di dormire nella stessa camera,


ma io ho bisogno dei miei spazi, quindi è meglio prendere due camere
separate.

A presto,

Lise.

Quelle righe mi avevano riportato nella Rotterdam del 2007. In un at-


timo di rabbia avevo accarezzato l’idea di tirare un bidone a Lise e ven-
dicarmi di tutte le piccole coltellate che mi aveva inferto negli anni, ma
la verità era che non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Anche perché
morivo dalla voglia di rivederla.

All’aeroporto di Madrid ero tesissimo. Ci misi un sacco di tempo a tro-


vare l’uscita. Intanto pensavo: senti un po’, non sarebbe ora di divent-
are uno di quei tizi che stanno per anni con la stessa ragazza e non fan-
no mai stronzate del genere?

Trovata l’uscita cominciai a guardarmi intorno. Poi la vidi: eccola Lise,


seduta al tavolo di un caffè con un libro in mano. Posò il libro, si alzò e
mi venne incontro sorridendo.

Era più in carne rispetto all’ultima volta che l’avevo vista. I capelli
biondi, che anni prima le arrivavano alle spalle, adesso le coprivano
metà schiena. Sembrava perfino più alta di quanto ricordassi. Ed era
sempre bellissima. Mentre la vedevo avvicinarsi non potei fare a meno
di chiedermi che ci facesse uno come me con una ragazza così bella.
204/269

Ci abbracciammo e ci baciammo sulle guance.

«È tanto che aspetti?» le chiesi.

«Venti minuti» disse lei con un’alzata di spalle. «È bello rivederti.


Quant’è passato dall’ultima volta? Quattro anni?»

«Esagerata, no!» dissi. «Tre anni e dieci mesi. E venti giorni.»

«Assurdo. Non sembra, è vero?»

«No» dissi. Ma pensai: sì, invece.

Sull’autobus che avrebbe dovuto portarci in centro, Lise tirò fuori una
cartina e cercò di capire dove avremmo dovuto scendere. Quando in-
dicò un punto della mappa mi accorsi che le tremava la mano. Pover-
ina, doveva essere più nervosa di me. Questo un po’ mi tranquillizzò.

Scendemmo in centro e cominciammo a camminare lungo la Gran Via.


Un tizio fuori di testa si avvicinò e cominciò a chiederci a ripetizione se
eravamo australiani. Noi lo ignorammo, dopo un po’ si stufò e ci lasciò
perdere. Poi io e Lise ci separammo per andare ognuno al proprio al-
bergo. Le dissi che sarei passato a prenderla verso le otto e mezzo e mi
diressi verso il mio hotel, che si trovava in una via chiamata Calle de
los libreros. Buffo, avevo pensato al momento di prenotare, “via dei
librai”. Vedrai che sarà solo un nome. Invece spuntò fuori che quella
era davvero la via delle librerie. Ce ne saranno state una dozzina, una
ogni cinque metri da ambo le parti. Per giunta l’albergo si trovava in
cima alla strada, quindi non me ne persi una. Sembrava un incubo fin
troppo realistico. Le librerie si somigliavano tutte, erano per lo più pic-
cole e deserte. Diedi un’occhiata dentro un paio senza entrare. I
205/269

commessi avevano la stessa faccia che dovevo avere io in libreria. Un


misto di noia, insofferenza, e mancanza di fiducia nell’umanità.

17
Alle otto e mezza andai a prendere Lise. Lei scese, fresca come una
rosa, e insieme andammo in cerca di un posto dove cenare. Ce l’avevo
ancora un po’ con lei per la faccenda delle camere separate e del suo
bisogno di spazio, ma mi sembrava comunque incredibile che cam-
minassimo uno accanto all’altra, di sera, in Spagna.

«Insomma che hai fatto in questi quattro anni?» dissi.

«Le solite cose. Lavoro, vacanze eccetera. Tu?»

«Uguale. Ma con meno lavoro e più vacanze.»

Il nostro inglese era fluido. Ero contento di non avere problemi a


comunicare con lei. Ogni tanto le fissavo i capelli, quei capelli che
avevo adorato, perché erano diversi da come li ricordavo. Erano più
crespi. Mossi, anziché lisci. Non ero sicuro che mi piacessero più
tanto. Non ero sicuro che lei mi piacesse più tanto.

Trovammo un posto dove cenare. Ci sedemmo e ordinammo.

«Vado a lavarmi le mani» dissi.

Mi chiusi in bagno e tirai fuori le pillole. Mi guardai allo specchio, ne


presi una e la ingoiai con un po’ di acqua del rubinetto, sperando che
la cena leggera non impedisse l’assorbimento. Mi diedi un’altra occhi-
ata allo specchio e tornai al tavolo.
206/269

«Sai» dissi, «è stata dura quando sono tornato a casa da Rotterdam.


Mi sei mancata molto.»

«Mi dispiace» disse lei.

«Oh, no, non lo dico per quello. Figurati, è acqua passata ormai. Però
in un certo senso è stato bello. Era la prima volta che parlavo con mia
madre di certe cose.»

«Ne hai parlato con tua madre?»

«Sì, be’, mi vedeva girare per casa con quella faccia da funerale. Ho
dovuto dirle qual era il problema.»

«Cosa le hai raccontato?»

«La verità: che la ragazza con cui mi vedevo in Olanda non ne voleva
più sapere di me.»

«E lei?»

«E lei: “non ci pensare più a quella stronza, Santo. Il mare è pieno di


pesci.”»

Lise sorrise e spinse i capelli all’indietro. Poi tornò seria e mi guardò in


modo strano.

«Senti caldo, Santo?»

«No, perché?»

«La faccia ti è diventata tutta rossa.»

«Oh, sarà l’emozione di starti di nuovo così vicino.»


207/269

«Ah ah! Ben detto.»

«È assurdo» dissi. «Pensavo che non ti avrei rivista mai più, e invece
eccoci qua di nuovo insieme.»

«Già. Qua a Madrid» specificò lei.

Il cameriere portò i nostri piatti e cominciammo a mangiare. Ordin-


ammo anche del vino bianco. Il cameriere ogni tanto portava qual-
cos’altro, dell’acqua o del pane, per esempio, e ogni volta prima di an-
darsene restava a guardarmi per qualche secondo. Si stava chiedendo
anche lui che c’entrassi io con una ragazza come quella. Non poteva
sapere che io per primo mi ero chiesto la stessa cosa diverse volte.

Pagammo e ci incamminammo verso l’albergo di Lise. Controllai


quanto tempo era passato dall’assunzione della pillola. Ero ancora in
tempo. Salimmo in camera sua. Io mi sedetti sul letto, lei su una pol-
troncina. Chiacchierammo per un po’, poi mi alzai e le andai vicino. Mi
chinai e la baciai. Ci baciammo a lungo, e intanto sentivo la solita ma-
gia succedermi nelle mutande. Ci spogliammo e ci sdraiammo sul
letto. In mezzo avevo quell’affare non mio, quel pezzo di legno che
qualcuno mi aveva avvitato addosso in un momento di distrazione.
Ricominciammo a baciarci e a toccarci, e a un certo punto lo facemmo,
ma non era la stessa cosa. Fu un po’ triste. Quei quattro anni di sep-
arazione si misero in mezzo. Eravamo due persone completamente di-
verse. Quando finimmo non ci abbracciammo né niente.

Lise disse che se volevo potevo restare per la notte.

«No, no, hai bisogno dei tuoi spazi eccetera» farfugliai e tornai al mio
albergo.

Fuori faceva molto freddo. Pensavo che la Spagna fosse calda come la
Sicilia, non mi ero portato vestiti pesanti. Tremai come un ossesso per
208/269

tutto il tempo che impiegai a raggiungere il mio albergo. Ero felice e


triste allo stesso tempo. Una sensazione stranissima.

18
I successivi due giorni passarono in fretta. Ce ne andammo in giro per
Madrid parlando e ridendo di qualunque cosa.

«Hai avuto molti ragazzi in questi quattro anni?»

«Un po’.»

«Anche storie serie?»

«Una. Con un ragazzo.»

«E cos’è successo?»

«È finita.»

«L’hai lasciato tu?»

«No, no. Io ero innamorata. Ma lui ha detto che non era pronto per
una storia importante e bla bla bla. Lo sai come vanno queste cose.»

«Grazie a te, sì» dissi.

«Oooh, Santo!»

Andammo per mercatini e al parco. Mentre camminavamo non ci toc-


cavamo un granché. Ogni tanto lei faceva scivolare un braccio dietro la
mia schiena, o io le davo un bacio sulla guancia. Ma non era come
209/269

quattro anni prima, quando non riuscivo a fare un metro senza sentire
il bisogno di pomiciare un po’.

«Come va in libreria?» disse Lise.

«Bene.»

Si mise a ridere.

«Cosa?» dissi.

«Ricordi la prima volta che sei venuto a Rotterdam?»

«Certo.»

«Avevi appena iniziato a lavorare in libreria, e hai detto che come


prima cosa appena tornato a casa ti saresti licenziato.»

«E invece ci lavoro ancora.»

«Dio, deve piacerti tantissimo quella libreria.»

«Non sai quanto.»

Anche la seconda sera presi la pillola, ma al momento di accompag-


nare Lise all’albergo lei disse che aveva sonno e che voleva andare a
dormire. Una pillola sprecata. Me ne tornai in camera e guardai un po’
di televisione. La BBC world news. In Egitto stava succedendo la
rivoluzione.

La sera dopo decisi di non prendere la pillola. Avevo il dubbio che as-
sumerla tre giorni di fila non fosse una buona idea. Con Lise andammo
210/269

a cena fuori, poi in camera sua. Ci baciammo e ci strusciammo ma non


successe molto altro di comune accordo. Non so lei, ma io sentivo che
se lo avessimo fatto la tristezza mi avrebbe ucciso.

Alla fine ci baciammo e ci augurammo buona notte. Nessuno dei due


disse «arrivederci».

L’indomani era il 14 febbraio. Mentre all’aeroporto aspettavo il mio


volo ricevetti un messaggio da Lise. Buon San Valentino!, diceva.

Non le risposi.

19
Ricominciai a chiamare Marta a scopo terapeutico. Ci vedemmo un al-
tro paio di volte. La terza volta che le telefonai mi disse che non
poteva.

«Mi sto vedendo con un ragazzo, capisci?»

«Bene. Mi fa piacere» dissi.

«Almeno con lui esco, andiamo in giro. Non ce ne stiamo chiusi in


casa a vedere stupidi film. Almeno con lui è una cosa reale.»

«Va bene, Marta. Ci vediamo.»

Presi a chiedermi che cosa sarebbe successo alla fine della terapia. I
due mesi stavano finendo ma io mi sentivo sessualmente inutile come
prima.
211/269

20
Decisi di andare da un consulente del lavoro e chiarire una volta per
tutte come funzionava con le ferie e le malattie. Un ragazzo che cono-
scevo mi consigliò quello di un sindacato che c’era vicino a casa mia.
Entrai nella sede e dissi a un tizio: «mi scusi, volevo parlare con il con-
sulente del lavoro.»

«Sei sicuro?» disse lui guardandomi in modo buffo.

Feci di sì con la testa.

«In bocca al lupo, allora. È quella porta là.»

Mi sedetti e aspettai. Da dietro la porta sentivo una voce femminile


sbraitare al telefono. Poi la porta si aprì, e una donna con i capelli rossi
tagliati corti si affacciò sul corridoio. Era una bella donna, ma le
troppe sigarette o chissà cosa l’avevano sciupata prima del tempo.

Mi alzai in piedi.

«Che c’è adesso?» mi ruggì contro. A giudicare dalla voce ci avevo


preso: troppe sigarette.

«Volevo parlare con il consulente del lavoro.»

Mi diede un’occhiata da capo a piedi, poi disse: «entra, forza.»

Mi sedetti davanti alla sua scrivania. Lei si sedette dall’altra parte e


prese a massaggiarsi gli occhi con i palmi delle mani.
212/269

«Sentiamo, qual è il problema?» disse senza togliersi le mani dalla


faccia.

Le raccontai di Flavio, delle ferie e delle malattie, della tredicesima e


della quattordicesima, e dello straordinario sottopagato. Avrei voluto
dirle tutto con tono indignato, da lavoratore sfruttato, ma quella
donna mi metteva in soggezione.

«Ecco, volevo solo sapere se è vero che non mi spetta niente di tutto
questo perché lavoro part-time.»

Squillò il telefono. La consulente controllò sul display chi era. «Che


rompicoglioni» disse. Alzò e abbassò la cornetta, poi la lasciò staccata.
«Quelli cosa sono?» disse indicando i fogli che stringevo in mano.

«È il mio contratto.»

«Fammi vedere.»

La consulente prese i fogli e cominciò a leggerli. A ogni rigo l’espres-


sione del viso le diventava sempre più nauseata. Quando arrivò alla
fine, senza alzare gli occhi dai fogli urlò: «CERTO CHE TI SPETTANO
LE FERIE PAGATE, CHE STORIA È QUESTA? FERIE, MALATTIE,
TREDICESIMA, QUATTORDICESIMA. TUTTO TI SPETTA.»

«Va bene.» Mi sentivo come se l’idea di non pagarmi le ferie fosse


stata mia. Quella donna era una tigre. Le guardai la fede al dito e senza
volerlo pensai a suo marito. Chissà se aveva mai avuto problemi di
erezione, mi chiesi.

«E adesso ti dico anche quante ferie di spettano.» La consulente prese


a digitare in modo frenetico su una calcolatrice. Controllava una cifra
sul mio contratto, poi pigiava sui tasti della calcolatrice con tutta la
forza che aveva. Doveva cambiarne un sacco di calcolatrici, pensai.
213/269

Mi disse quante ore all’anno mi toccavano di ferie. Erano molte più di


quanto pensassi.

«C’è altro?» disse la tigre alla fine.

«No. Scusi il disturbo» dissi, e me ne andai.

21
Cominciai ad andare al lavoro giurando a me stesso che alla fine della
giornata mi sarei licenziato. Avrei scritto una lettera di dimissioni e
l’avrei lasciata sul bancone in modo che Flavio il giorno dopo l’avesse
trovata. Ma alla fine della giornata di solito ero troppo stanco per
scrivere una lettera di dimissioni. Allora decidevo che da un giorno
all’altro avrei ripetuto a Flavio quello che mi aveva detto la consulente
del lavoro. Magari senza strillare come aveva fatto lei. Da persona
civile a persona civile. Ci saremmo messi a quattr’occhi e gli avrei
detto come stavano le cose. Domani, dopodomani al massimo lo fac-
cio. Entro l’estate, via.

Che razza di codardo.

22
Allo scadere dei due mesi chiamai l’andrologo.

«Sì, chi parla?»

«D’Amico. Santo D’Amico. Si ricorda di me?»


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«Come no! Come andiamo D’Amico?»

«La chiamo perché oggi scadevano i due mesi della terapia. Ora dovrei
interrompere l’assunzione della pillola, giusto?» In realtà non ne pren-
devo una da settimane, dall’ultima volta cioè che ero stato con Marta,
ma non glielo dissi.

«Esatto, a partire da oggi smettiamo di prendere la pillola e stiamo a


vedere che cosa succede. Al limite prendiamo un tonico a base di muca
andina, ma niente di più. Mi faccia sapere se ci sono problemi.»

Qualche giorno dopo incontrai Paola. Chiacchierammo del più e del


meno, poi andammo a mangiare insieme una pizza.

«Come va là sotto?» disse.

«Così così.»

«Perché?»

«Ho paura che se andassi a letto con una ragazza non succederebbe un
granché. In teoria dovrebbe succedere, ma ormai non sono sicuro di
niente. Scusa se ne parlo con te.»

«Tranquillo» disse lei. «Quante volte t’è capitato di fare cilecca?»

Ci pensai su. «Be’, una volta sola, diciamo.»

«E c’è bisogno di fare così per una volta sola?»

«Be’, è stata una volta molto traumatica.»


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Per un po’ mangiammo in silenzio le nostre pizze.

«Ascolta, Santo» disse a un certo punto Paola.

«Sì?»

«Stavo pensando... Se proprio devi fare una prova, forse è il caso che la
fai con qualcuno che conosci, qualcuno di cui ti fidi.»

«Tu dici?»

«Certo. La cosa più importante in questi casi è stare tranquillo, credo.


E per stare tranquillo ci vuole una persona che non sia una perfetta
sconosciuta. Mi segui?»

«Sì.»

«Quindi» disse Paola, «se vuoi... Ecco, io sarei disponibile a fare una
prova con te in quel senso. Prendiamolo come un esperimento scienti-
fico. Senza strascichi.»

Eccone un’altra che voleva fare gli esperimenti scientifici con me.
Cominciavo a sentirmi una cavia. Forse, pensai, anche Flavio mi stava
usando per un esperimento sociologico: Quanto può resistere una
persona a lavorare a condizioni da galera senza ribellarsi?

Andammo a casa di Paola. Lei disse che siccome l’indomani avrebbe


dovuto lavorare, voleva andare a dormire presto.

«Se vuoi puoi fermarti a dormire qui.»

«Forse è meglio» dissi, recitando la mia parte. «Fuori fa freddo, in bi-


cicletta mi gelerei.»
216/269

«Infatti.»

Ci spogliammo e ci infilammo nel suo letto a due piazze. Lei a un capo,


io all’altro. Non sapevo se quello che stava succedendo fosse etica-
mente corretto o meno. Credevo di sì, ma uno come fa a esserne
sicuro? Provai come al solito a non preoccuparmi, ma ultimamente
quella era una cosa che non mi riusciva bene come prima.

Io e Paola ci davamo le spalle. La stanza era al buio, l’unica luce veniva


da una piccola abatjour. Mi sentivo ridicolo, ma allo stesso tempo
cominciai a eccitarmi. Erano l’odore di Paola e quello delle sue len-
zuola. Provai il famoso scombussolamento come non mi succedeva da
mesi. Ma non mi voltai verso di lei. Mi sembrava tutto così sbagliato.
Non volevo approfittare di Paola.

«Buonanotte» dissi.

Per un paio di minuti restammo in silenzio. Poi la sentii voltare la testa


verso di me.

«Che vuol dire “buonanotte”? Vieni qui, forza.»

Non me lo feci ripetere. Rotolai su un fianco e poggiai il mio petto alla


schiena di Paola, il bacino al sedere di Paola, e la faccia ai capelli di
Paola. Il loro profumo mi fece girare la testa. Potevo quasi sentire il
sangue confluire all’improvviso in un unico punto. Spontaneamente.
Senza pillola.

Per sicurezza poggiai una mano sul cavallo. Poi restai un paio di
secondi a pensare: sono guarito! Evvai, sono guarito!

Paola mi attirò a sé e lo facemmo. Fu il sesso migliore di tutta la mia


vita.
Capitolo sesto
1
In libreria cominciò a farsi vedere un tizio sui sessantacinque, forse
settant’anni. Veniva a usare internet. Si chiamava Matteo Micciulla e
credo avesse un sacco di problemi di salute, poveraccio. Tossiva di
continuo e poi scatarrava in un fazzoletto. La prostata, mi disse un
giorno, ce l’aveva ancora sana, ma non gli funzionava bene e lo
costringeva ad andare continuamente in bagno. Per pisciare impiegava
un quarto d’ora. Puzzava di pipì, mista a sudore e brillantina Linetti.

Qualcuno gli aveva detto che su certi siti internet si rimorchia a qua-
lunque età, e così dall’oggi al domani il signor Micciulla, che era
divorziato, prese a spendere la pensione in libreria per cercare di at-
traccare una donna.

«Ehilà, Santo» diceva quando arrivava. «Che si dice di bello?»

«Niente.»

«Il mio carissimo consulente informatico Santo Amico. Amico o


D’Amico?»

«D’Amico» gli dissi per la centesima volta.

Il signor Micciulla non aveva idea di come si usasse un computer. E al-


lora stava sempre lì a chiamarmi per fare qualunque cosa. A me
218/269

toccava fare il giro del bancone, dargli una mano, e poi tornare dietro
la cassa. Una bella ginnastica.

«Santo?»

«Seee.»

«Potresti venire a darmi una mano?» diceva anche se alla cassa c’era
la fila.

«Eccomi. Qual è il problema?»

«Vorrei spedire un messaggio a questa ragazza, ma non ricordo come


si fa.»

Glielo avevo spiegato solo un migliaio di volte.

Quelle che lui chiamava “ragazze” erano delle vecchie con i capelli
tinti, vestite come ragazzine e in pose da pin-up. Di solito scriveva a
tutte delle poesie. Non erano male, ma troppo pompose per i miei
gusti.

Quando non stava lì a chiedermi di aiutarlo a rimorchiare su internet,


il signor Micciulla amava immischiarsi negli affari della libreria,
soprattutto se il cliente era una donna.

«Mi scusi, mi consiglia un libro per un ragazzo di vent’anni?» chiese


una signora.

«Va bene» dissi, anche se in realtà odiavo dare consigli ai clienti. Li


consideravo qualcosa di troppo personale. Quando ne davo uno mi
sembrava di essere una prostituta. Una volta ne avevo parlato con un
ragazzo che lavorava nella libreria più grande della città, una di quelle
librerie che sembrano supermercati. Gli avevo chiesto come facessero
219/269

loro. «È semplice» mi aveva risposto lui. «Io do per scontato che se


qualcuno mi chiede un consiglio vuol dire che di libri non ne capisce
un cazzo. E allora gli metto in mano il primo libro che mi capita –
magari lo prendo da una di quelle pile enormi che ci sono da noi – e in
dieci secondi ho risolto.»

Dissi alla signora: «se mi segue...»

«Ehi, Santo» disse il signor Micciulla da dietro il monitor del com-


puter. «Perché non le fai vedere qualcosa di Calvino? Anzi, no, qual-
cosa di Buzzati. Da ragazzo mi piaceva un sacco Buzzati. Suo figlio
legge molto, signora?»

«Non è mio figlio» disse quella.

Il signor Micciulla si prese una pausa per scaracchiare nel fazzoletto.


Poi disse: «capisco. Ma lei ha figli, signora? A proposito, signora o
signorina?»

«Senta» mi disse quella, «torno un’altra volta, s’è fatto tardi. Ar-
rivederci.» E scappò via guardandosi alle spalle.

«Perché se n’è andata?» disse Micciulla.

«Secondo lei?»

«Boh. Senti, dove devo cliccare per inviare un’email?»

«Su “invia”.»

«Ah, già. È vero.»


220/269

2
Se c’era una cosa che Flavio non sopportava di me era che, al contrario
di tutti i commessi degli altri negozi del centro, io non volevo mai la-
vorare più del solito. Mi stava benissimo farmi le mie tredici ore setti-
manali. Anche perché da Flavio lo straordinario era sottopagato.

«Santo, si può sapere come fai a vivere con quello stipendio strimin-
zito?» chiedeva mia madre.

«Ma se ogni mese metto da parte un sacco di soldi.»

«Guardati, hai gli stessi quattro vestiti da anni. Come fai con le
ragazze?»

«Boh, si vede che a loro non dà fastidio.»

«Quanto mi piaceva quella Paola, anche se non l'ho mai conosciuta. Si


può sapere perché non vi frequentate più?»

«Ci frequentiamo invece» dissi. Ed era vero. Con Paola eravamo ri-
masti amici e ci vedevamo. E ogni tanto, con la scusa di controllare se
ero veramente, veramente guarito, finivamo a letto insieme. Ogni volta
spuntava fuori che stavo benissimo.

In libreria un giorno Flavio passò con una signora. Era la prima volta
che la vedevo.

«Ciao Santo, lei è mia madre. Prendo una cosa in magazzino e ce ne


andiamo.»
221/269

La madre di Flavio era una di quelle donne sulla settantina che si ve-
stono e si conciano i capelli come ragazzine. Chissà, magari al signor
Micciulla sarebbe piaciuta. Flavio mi aveva detto che abitava dalle
parti di Milano e per questo motivo si vedevano raramente.

«Come va?» dissi quando restammo soli.

«Mh» rispose lei senza neanche guardarmi.

Flavio tornò dal magazzino.

«Ti ho parlato di Santo, mamma. Ricordi? È quello che non vuole mai
lavorare, e si lamenta quando parto e deve fare un po’ di
straordinario.»

La madre di Flavio finalmente si voltò a guardarmi. Sembrava mi odi-


asse. Forse stava dando la colpa a me del perché lei e Flavio si ve-
devano così poco. Restò a fissarmi per un pezzo come se fossi stato un
parassita.

Ressi quello sguardo per un po’, poi dissi: «senta signora, la smetta di
guardarmi in quel modo. Neanche lei sarebbe felice di fare dello
straordinario se glielo pagassero meno del minimo sindacale e non
avesse né ferie né malattie pagate.»

Ecco. L’avevo detto.

Flavio e sua madre mi guardarono come se fossi stato un criminale.


Sapevo che cosa stavano pensando. Che dovevo ringraziare se avevo
quel lavoro. Tutti gli altri commessi del centro erano pagati meno di
me, molti non erano nemmeno assunti, lavoravano in nero. Almeno io
avevo un contratto. Ecco la merda che mi toccava mangiare a quattro
palmenti.
222/269

Dopo un po’ Flavio disse solo: «ci vediamo, Santo.» Sua madre pareva
volesse sputarmi in un occhio. Non mi salutò nemmeno.

Quando uscirono presi un foglio di carta e cominciai a scrivere:

Spettabile libreria Flaubert,

con la seguente presento le mie dimissioni...

Ma mi fermai quasi subito. Accartocciai il foglio e lo gettai nel cestino


della carta straccia.

3
Poi in libreria cominciò a venirmi a trovare una ragazza che conoscevo
da anni. Il suo nome era Sara Michela, ma si faceva chiamare da tutti
Sami. Aveva i capelli scuri, la pelle del viso liscia, e due grandi occhi
verdi che facevano innamorare i ragazzi a prima vista. Qualche anno
prima anch’io le avevo confessato di avere una cotta per lei subito
dopo esserci andato a letto. Ma Sami mi aveva liquidato dicendo: «mi
dispiace per te», ed era tornata a Milano, dove studiava. Ci ero stato
male per qualche giorno ma poi me l’ero tolta dalla testa. Adesso si era
laureata ed era tornata a stare a Siracusa.

«Ciao Santo» sentii dire alle mie spalle un giorno mentre sistemavo al-
cuni libri sugli scaffali.

Mi voltai e mi ritrovai davanti quegli occhi verdi.


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«Ciao Sami» dissi. Quando mi avvicinai scoprii che al guinzaglio


teneva un cane, un jack russell che prese subito a fissarmi con occhi da
pazzo.

«Questo è Mazzu» disse Sami.

«Ciao Mazzu.» Che razza di nome era? Mi piegai sulle ginocchia per
accarezzarlo.

«No, non farlo!» disse Sami. Ma era troppo tardi. Mazzu cominciò a
girare in tondo, abbaiando, scodinzolando e sbavando come se fosse
stato sotto anfetamina. «Adesso ci vorrà un quarto d’ora prima che si
calmi.»

Col cane che la strattonava a destra e a sinistra Sami disse che era tor-
nata a vivere a Siracusa, abitava da sola e lavorava con la sua famiglia,
che aveva una ditta di vendita all’ingrosso di frutti di mare. Io la
ascoltavo facendo di sì con la testa, e intanto me la facevo sotto dalla
paura. Perché Sami era una ragazza pericolosa. Conoscevo almeno al-
tri tre ragazzi che c’erano rimasti sotto. Aveva qualcosa, una specie di
aura che ti faceva sentire speciale anche solo a parlare con lei. Era il
tipo di ragazza che fa diventare matti i ragazzi nel vero senso della
parola.

«Qualche volta devi venire a casa mia» disse a un certo punto.

«Ok.»

«Ti cucino qualcosa, beviamo un po’ di vino e suoniamo insieme la


chitarra. Che ne pensi?»

«Bello.»

«Vieni, Mazzu» disse poi. E uscì.


224/269

4
Sami non m’invitò a casa sua, ma tornò altre volte in libreria con
Mazzu. Arrivava un’ora prima dell’orario di chiusura e si fermava a
fare quattro chiacchiere.

«Qualche volta dobbiamo andare al mare insieme» disse un giorno di


fine primavera.

«Per me va bene.»

«Portiamo le chitarre, qualche birra, e ci divertiamo.»

«Perfetto, Sami.»

In realtà questi programmi non avevano mai un seguito. Ogni volta


che Sami veniva in libreria prospettava qualche serata memorabile, io
e lei da soli a casa sua o da qualche altra parte, ma poi non succedeva
mai niente. La cosa cominciava a essere grottesca.

«Santo, hanno aperto un nuovo locale vicino Noto. Ci andiamo in-


sieme una sera di queste?»

«Come no. Quando?»

«Boh, poi vediamo.»


225/269

5
Miracolo, finalmente una sera mi telefonò e mi chiese se volevo andare
a casa sua con la chitarra.

«Certo che voglio venire» dissi. Mi feci una doccia e mi lavai i denti.
Poi scelsi i vestiti migliori per andarci. Non era facile perché non avevo
un vero e proprio armadio. Più che altro lasciavo i vestiti ammassati su
una sedia, a sgualcirsi e a prendere polvere.

Sami abitava non lontano da casa mia, al primo piano di un vecchio


palazzo di tre piani.

«Come va?» disse. Era vestita con una vecchia tuta e aveva i capelli
legati ma a me piaceva lo stesso.

«Mi sento di nuovo un quindicenne con questa chitarra in spalla.»

Lei rise e mi fece entrare.

«Vuoi fare un giro della casa?»

«Ok» dissi. Ero terrorizzato, e la cosa mi piaceva.

Casa sua somigliava a casa mia. C’erano pochi mobili, e le stanze, che
per giunta avevano i tetti altissimi, sembravano troppo vuote e desol-
ate. Una era verniciata di un arancione fosforescente che faceva venire
il mal di testa solo a guardarlo. Nel soggiorno c’erano due divani e una
poltrona, ma erano coperti di cianfrusaglie.

«Per evitare a Mazzu di saltarci sopra» disse.


226/269

Posai la chitarra per terra. «A proposito, lui dov’è?»

«Eccolo» disse Sami aprendo una porta. Il jack russell slittò sul pavi-
mento e mi corse incontro. Mi morse i jeans e cominciò a tirare come
se avesse voluto strapparmeli di dosso.

«Piano, c’è tempo per questo» dissi.

«Seee» disse Sami. Prese Mazzu per il collare e me lo tolse di dosso.


Poi aprì una bottiglia di vino e riempì due bicchieri.

«Ti piace casa mia?»

«Somiglia alla mia.»

«La sto arredando piano piano.»

«Mi sembra saggio.»

«Ma non voglio affollarla di mobili. Mi piacciono gli spazi vuoti.»

«A chi lo dici.»

Dopo un po’ tirai fuori la chitarra dalla custodia, lei prese la sua e in-
sieme cominciammo a suonare qualcosa dei Velvet Underground,
delle Violent Femmes, dei Pixies e di altri gruppi. Mi sentivo un po’
ridicolo ma stetti al gioco. Era bellissimo trovarsi da soli nella stessa
stanza con Sami. Tuttavia sapevo che quella sera non sarebbe successo
niente. Non era nell’aria. In più io mi sentivo ancora fuori forma e
psicologicamente insicuro, dopo i due mesi di sospetta disfunzione
erettile.

«Ti vedi con qualcuno?» dissi fra una canzone e l’altra.


227/269

«No. Avevo un ragazzo ma è finita. Credo che adesso mi odi.»

«Perché? Che hai combinato? Ahia!» Non era facile fare conversazione
con Mazzu che nel frattempo mi mordeva i jeans (e le caviglie) e tirava.

«Mazzu! NO! Il fatto è che lui stava a Catania e io a Siracusa, e ogni


volta che tornava per il fine settimana voleva vedermi. E siccome cap-
itava che invece io il sabato e la domenica volessi starmene per i fatti
miei, si è arrabbiato e mi ha lasciato.»

«Ma scusa, tu non avevi voglia di vederlo? Visto che vi vedevate così
poco.»

«Sì, ma certe volte voglio stare da sola, capisci? E non ci vedevo niente
di male a vedermi solo due volte al mese con lui. Mazzu!»

Il cane mi aveva agguantato la felpa da dietro. Tirò più forte del solito
e la strappò.

«Oddio, ti chiedo scusa» disse Sami.

«Tranquilla, non fa niente.» Delle tre felpe che possedevo era la mia
preferita.

Continuammo a bere e a suonare per un pezzo, e a un certo punto mi


alzai per andarmene. Quando mi aveva invitato Sami aveva specificato
che non voleva fare tardi.

«Aspetta, resta ancora un po’» disse.

«Non voglio farti fare tardi.»

«Ma io non ho sonno.»


228/269

«Io sì» dissi.

«Va bene, però queste serate dobbiamo organizzarle spesso. Almeno


una volta a settimana. Così poi suoniamo dal vivo in qualche locale.»

M’immaginai frequentare quella casa ogni settimana. Io e lei da soli.


Magnifico. «Allora lascio la chitarra qui da te.»

«Va bene. Cavolo, mi dispiace ancora per la felpa.»

«Tranquilla. Ciao Sami» dissi e me ne andai. Mentre scendevo le scale


notai che mi tremavano le gambe.

6
Nel frattempo corrispondevo con una studentessa di Palermo. Si
chiamava Maria Luisa. Non ricordo chi le avesse dato il mio indirizzo
email. Mi scrisse un paio di lettere in cui diceva che le piaceva l’idea
che lavorassi in una libreria, e che secondo lei dovevo essere un bel
tipo.

Le chiesi di mandarmi delle foto e lei lo fece. Aveva un bel viso e non
sembrava troppo in carne, ma dalle foto non si poteva mai dire. In
una, alle spalle di Maria Luisa si vedeva una collezione di videocas-
sette della Disney che mi depressero. Non so perché, ma pensai spesso
a quelle videocassette. Voglio dire, chi lo usava ancora un
videoregistratore?

Ci raccontammo un po’ di fatti nostri, e dopo un po’ le scrissi: giovedì


e venerdì sono libero. Volendo potrei venire a Palermo per un paio di
giorni.
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Lei rispose soltanto due giorni dopo. Me la immaginai presa dal pan-
ico al pensiero d’incontrare uno sconosciuto. In più, anche se non lo
avevo specificato, si capiva che avrei dormito a casa sua. Scrisse che
per lei andava bene. Per dormire ci saremmo arrangiati in qualche
modo.

E così giovedì pomeriggio presi l’autobus per Palermo. Ci avrebbe im-


piegato due ore e mezza, ma per me non era un problema. Finalmente
sarei stato un po’ da solo. Lo ero anche a casa mia, ma lì avevo sempre
la tentazione di andarmene in giro e mischiarmi coi miei simili, che
non potevo sopportare. L’autobus invece mi avrebbe regalato due ore e
mezza di solitudine piena. Pensai all’ultima volta che avevo preso quel
pullman. Era stato per andare a trovare Nina, la piccola satanista che
non avevo più sentito. Chissà che fine aveva fatto,

Il bus arrivò a Palermo con un quarto d’ora di ritardo. Attraversammo


la città nel traffico e io cominciai a essere nervoso, e a chiedermi
ancora una volta che cosa mi spingesse a fare continuamente cose del
genere. Magari lei era bellissima e mi avrebbe trovato, giustamente,
repellente. Odiavo affrontare esami del genere, eppure continuavo a
organizzarli. Mentre il bus parcheggiava vicino alla stazione dei treni
mi affacciai dai finestrini e la vidi, Maria Luisa, cercarmi con lo
sguardo. Ovviamente era uguale alle foto, ma in un certo senso anche
più carina. Scesi e ci baciammo sulle guance.

«Ciao Santo!» disse lei. Aveva un bel sorriso caloroso. Era anche più
alta di quanto pensassi.

«Che si fa?» dissi.

«Andiamo a vedere gli alberi?»

«Benissimo».
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In un paio di lettere aveva insistito su questi alberi secolari che ci sono


in un parco di Palermo, e aveva detto che se un giorno fossi capitato in
città avrebbe tanto voluto mostrarmeli.

«Aspetta, devo fare pipì da morire. Fermiamoci in un bar» dissi.

Entrammo in un bar. Andai in bagno e pisciai, poi mi diedi un’occhiata


allo specchio. Pensai che Maria Luisa doveva essere pazza. Come
faceva a sapere che non ero un serial killer? Poi però mi ricordai che
era stata lei a scrivermi per prima e mi chiesi: e se fosse lei una mani-
aca omicida? Magari ha il freezer pieno dei miei predecessori.

Tirai lo sciacquone e uscii.

Maria Luisa mi raccontò la storia della sua vita. Non smise un solo
istante di parlare. Credo perché fosse nervosa, comunque meglio così,
a me andava di stare in silenzio.

Disse che era di un paesino in provincia di Trapani. Suo padre era un


dipendente della Provincia quasi in pensione. Aveva due fratelli: uno
studiava Economia, l’altro era nell’esercito. Lei era la più grande. A
ventinove anni studiava ancora, e questa cosa la faceva sentire stupida.
Non vedeva l’ora di lavorare, guadagnare dei soldi e potersene stare
per i fatti suoi. Abitava con altre tre ragazze, due specializzande in
medicina e una più piccola che studiava Farmacia. Lei studiava
Lettere, ma se n’era pentita, e se continuava era solo per finire quello
che aveva cominciato. Non aveva idea di cosa avrebbe finito per fare.
Aveva un professore al liceo con cui si sentiva ancora e del quale forse
era innamorata, non l’aveva ancora capito. Era stata per più di dieci
anni con lo stesso ragazzo, si erano lasciati solo l’anno prima. Quel
bastardo. Non voleva nemmeno sentirlo nominare.
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Intanto camminavamo per chilometri, e mai sul marciapiede. Sempre


sulla carreggiata. Una volta che rischiavo di farmi mettere sotto da una
macchina dissi: «perché non camminiamo sul marciapiedi?»

«Oh, scusa, è l’abitudine» disse lei. «Sul marciapiedi è pieno di cacche


di cane. E poi a Palermo la gente butta dalla finestra un sacco di cose
che possono finirti in testa. Per non parlare del pericolo di venire viol-
entata. Per questo cammino sempre sulla strada.»

Cenammo con pane e panelle seduti in un tavolino fuori da un locale.


Cioè, cenai. Maria Luisa prese solo un bicchiere di vodka liscia. Disse
che non aveva fame. Doveva essere nervosissima.

«Strano, non ho mai bevuto vodka liscia prima d’ora, ah ah.»

«A me piace» dissi. «Sa di legno.»

Quando le portarono il bicchiere, assaggiò la vodka e fece una faccia


buffa.

«È fortissima!»

«Be’, è liscia.»

Chiamò il cameriere.

«Ci puoi fare spremere dentro un po’ di limone?»

Il cameriere mi guardò. Io presi un sorso della mia birra. Una Corona.

«Adesso è più buona» disse dopo avere assaggiato la vodka allungata


col limone. Non le credetti.

Dopo un po’ mi squillò il telefono. Era Sami.


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«Sì?» dissi alzandomi e allontanandomi dal tavolino.

«Come stai? Dove sei?»

«Sono a Palermo, a trovare certi amici. Torno domani.» Ero contento


che mi avesse telefonato. Significava che aveva pensato a me.

«A Palermo? Bello! Mi ci porti qualche volta?»

«Certo.»

«Va bene, ti lascio.»

«Ciao Sami.»

Più tardi andammo a casa di Maria Luisa. Non sapevo ancora come
avremmo risolto la faccenda di dormire per la notte. Chiacchierai un
po’ con due delle coinquiline, le specializzande in chirurgia. Erano en-
trambe in cucina a fumare sigarette su sigarette. Alla faccia delle
chirurghe, pensai. Da come si atteggiavano era evidente che si sen-
tivano superiori a Maria Luisa e questo me le fece odiare. Era un po’
come se si sentissero superiori anche a me. Sapevo che mi stavano stu-
diando e che l’indomani avrebbero parlato di me con Maria Luisa, e al-
lora cercai di sembrare il più normale possibile. Che lavorassi in una
libreria sembrava a entrambe la cosa più bella del mondo. Contente
loro.

Andammo in camera di Maria Luisa. Era grande. C’erano un letto a


una piazza e mezzo e un divano.

«Io posso benissimo dormire sul divano» dissi.


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«No, no. C’è una brandina.»

Recuperammo una brandina da un ripostiglio. La portammo in cam-


era sua, la aprimmo al centro della stanza e ci mettemmo sopra delle
lenzuola.

«Non sentirai freddo solo con le lenzuola?» disse lei.

«Forse sì.»

«Avviciniamo la brandina al mio letto, allora.»

Feci come disse.

«Avvicinala ancora di più.»

Spinsi la brandina fino al suo letto. Insieme formavano un letto


matrimoniale.

«Vedi? Così se senti freddo puoi usare il mio piumone. È grande


abbastanza.»

Maria Luisa si era messa un pigiama che teneva sbottonato in alto. Si


intravedevano le tette, ma cercai di guardare il meno possibile. Io mi
misi in boxer e maglietta e m’infilai nella brandina. Lei si mise a letto.
La lampadina sul comodino era accesa. Chiusi gli occhi e pensai: che ci
faccio qui? A casa di una sconosciuta, praticamente nello stesso letto?
Che cosa cercavo di dimostrare ogni volta che finivo in situazioni del
genere? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui avrei smesso? Perché non
potevo rimettermi con Paola e stare insieme a lei per anni? Era carina,
simpatica, dolce. Che cosa me lo impediva?

Mi voltai a guardare Maria Luisa. Lei stava guardando me. Sapevo di


dovere fare qualcosa, ma in queste situazioni non mi decidevo mai. Mi
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portavo ancora appresso l’insicurezza dell’adolescenza, quando sem-


brava che le ragazze non mi avrebbero baciato per tutto l’oro del
mondo, o almeno così credevo io.

«Senti freddo?» disse Maria Luisa.

«No, perché?»

«Fai sentire» disse, e mi prese una mano come a controllare che fosse
calda, solo che poi continuò ad accarezzarla guardandomi negli occhi.

Con la mano libera spensi la luce. Al buio trovai il coraggio di strisciare


accanto a lei sul letto e baciarla. Lei ricambiò il bacio. Maria Luisa era
in carne, ma solo nei punti giusti, come piaceva a me. Accarezzare
tutte quelle curve mi procurò un’erezione istantanea. Esultai in mente
mia: lontani erano ormai i giorni in cui consideravo un’erezione un
evento improbabile. Dopo un po’ che ci toccavamo le abbassai le
mutande e il pigiama e provai a penetrarla, ma lei disse: «forse
dovremmo usare un preservativo.»

«Ok.»

Mi alzai e recuperai un preservativo dalla borsa. Rientrai nel letto, in-


dossai il preservativo e lo facemmo. Maria Luisa era un po’ legata, non
so se perché ero praticamente uno sconosciuto o perché veniva da una
storia di dieci anni, ma dopo un po’ ci sentimmo a nostro agio e la cosa
fu piacevole.

Dopo ce ne restammo uno accanto all’altra a fissare assorti il soffitto.

«Mi avresti ospitato lo stesso se mi avessi trovato brutto? O antip-


atico? O tutti e due?»
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«Non credo» disse lei. «A un certo punto ti avrei detto “grazie per es-
sere venuto a trovarmi” e sarei tornata a casa da sola.»

«Mi avresti lasciato da solo al freddo?»

«Sì. Ma sapevo che ci saremmo piaciuti. Lo capivo dalle lettere che mi


hai scritto.»

Il giorno dopo presi l’autobus delle due del pomeriggio. Ero indeciso
se baciare Maria Luisa sulle labbra o meno, al momento del saluto.
Alla fine decisi di sì. Mi sporsi e le diedi un bacio leggero.

«Ci rivedremo?» dissi.

«Può darsi» disse lei.

Salii sull’autobus e la salutai con un gesto della mano prima che


l’autista chiudesse la portiera.

7
Uscii con Sami.

«Com’è andata a Palermo?» disse.

«Bene.»

«C’è una ragazza, lì?»

«Forse.»
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«Allora c’è!»

Io e Sami ci vedevamo spesso. Un giorno sì e uno no o qualcosa del


genere. Era lei a cercarmi. Sentivo ancora il senso di pericolo che em-
anava, e allora continuavo a starmene sulle mie. Anche se era difficile
con quegli occhioni verdi che ti fissavano da vicino.

«Noi due dovremmo andare in campeggio insieme» disse. «A passare


un paio di notti da qualche parte.»

«Davvero?»

«Certo. E quand’è che mi farai vedere casa tua?»

«Quando vuoi. Anche domani.»

«Va bene.»

Il giorno dopo la chiamai e la invitai a casa mia.

«No, non mi va» disse lei. «Sono stanca, facciamo un’altra volta.»

Qualche giorno dopo andammo al mare insieme. C’era un tempaccio.


C’eravamo solo noi sulla sabbia, e per giunta vestiti. Peccato, perché
avrei voluto vederla in costume.

Giocammo a palla e parlammo un bel po’.

«Sai cosa dovremmo fare una sera di queste?» disse lei. «Dovremmo
sbronzarci insieme.»

«Ok.»
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In realtà cominciavo a capire com’era fatta Sami. Le piaceva fare, chis-


sà perché, questi inviti che non avevano mai un seguito. Era assurdo,
attiravo solo ragazze instabili. Mai una normale, equilibrata, serena.
Ma d’altronde una ragazza normale, equilibrata e serena non si
sarebbe mica impantanata con uno come me.

Quando ci stufammo di prendere freddo andammo in paese, ad Avola.


Entrammo in una libreria dove Sami chiese qualche libro sul cammino
di Santiago, una specie di pellegrinaggio di cui sapevo poco o niente.

«Davvero vuoi fare un pellegrinaggio?» dissi.

«Certo. Non so come spiegartelo... Dicono tutti che il cammino di San-


tiago a un certo punto della vita ti chiama. E io lo sento, mi sta
chiamando, capisci?»

«Seee.»

Poi, dopo la libreria, spuntò fuori.

«Hai presente Sebastiano?» disse.

«A-ha.» Sebastiano era un tizio che le avevo visto alle calcagna un paio
di volte. Si dava delle arie da fotografo solo perché aveva una macch-
ina fotografica costosa. Aveva lunghi capelli ricci sulle spalle, mentre
quelli di sopra erano corti e radi. Avevo pensato fosse innocuo. Voglio
dire, li avrà visti anche Sami quei capelli. In più aveva un pessimo
modo di esprimersi. Ogni due o tre parole infilava sempre un “capito?”
anche se non c’era niente da capire. L’unica volta che ci avevo parlato
avevo rimediato una ventina di “capito?” in due frasi.

«C’è qualcosa fra noi due.»

«Fra te e Sebastiano?»
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«Sì. È incredibile, è come se ci fossimo ritrovati. Ci piacciono le stesse


cose. La fotografia e tutto quanto. In più mi ha detto che anche lui vor-
rebbe fare il cammino di Santiago, se solo non gli facesse male il
ginocchio.»

Non seppi cosa dire.

«Solo che c’è un problema. Non so se posso parlarne con te.»

«Di che si tratta?»

«Di sesso.»

«Allora sì, puoi parlarne.»

«Be’, ecco. Tutte le volte che a casa mia abbiamo provato a farlo, lui...»

«Avete provato a farlo a casa tua?»

«Sì, perché?»

«Niente, niente. Continua. Che è successo?»

«Lui... Non ne aveva voglia.»

«Non ne aveva voglia?»

«No.»

«Capisco» dissi. «È un bel problema.» E intanto pensavo: ragazzi, c’è


chi ha il pane e chi ha i denti.

«Sai cosa dovremmo fare io e te?» disse poi Sami.


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«No, cosa.»

«Andare in Portogallo insieme.»

«Come no.»

8
Era di nuovo estate. L’ennesima estate da apprendista libraio. Mir-
acolo, il signor Micciulla, il professore e gli altri pazzi mi stavano
dando un po’ di tregua. Flavio non andava mai al mare. Quando aveva
un giorno libero restava a casa e passava il tempo telefonando in
libreria.

«Pronto libreria Flaubert.»

«Sono Flavio.»

«Ciao.»

«Che si dice là dentro?»

«Tutto a posto.»

«C’è un po’ di movimento?»

«Abbastanza.»

«Che ne dici quando hai un momento libero di catalogare per ordine


alfabetico gli opuscoli d’arte?»

«Ok.»
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Gli opuscoli d’arte erano circa seicento sottili monografie di artisti.


Erano in disordine perché i clienti si sarebbero fatti ammazzare piut-
tosto che rimettere un libro dove l’avevano trovato. Decisi di procedere
con metodo. Li tirai giù tutti e seicento, poi cominciai a metterli a
posto. Non fu un lavoro semplice: dovevo dividerli equamente su
cinque scaffali distinti, tenendo conto dell’ordine alfabetico e del nu-
mero progressivo di ognuno. A un certo punto dovetti perfino usare
una calcolatrice. Gli opuscoli erano ricoperti da così tanta polvere che
a metà lavoro avevo le mani nere. Alla fine sembrava avessi spalato
carbone. Ero sudato e avevo tracce nere non solo sulle mani, ma anche
sulla fronte, sulle guance e sugli avambracci. Ci impiegai delle ore, ma
almeno avevo fatto un buon lavoro.

Visto che non c’era nessuno andai in bagno a lavarmi le mani. Quando
tornai, vidi che erano entrati due ragazzi. Fra tutti i libri che avevamo,
stavano frugando proprio fra gli opuscoli d’arte. Facevano come al
solito: ne prendevano uno che cominciava per “A”, lo sfogliavano, e poi
lo ficcavano in mezzo alle “L”. Sembrava lo facessero apposta. In dieci
minuti li misero di nuovo tutti sottosopra.

Alla fine non comprarono niente e se ne andarono proprio mentre


stava entrando Flavio.

«Ciao» disse, al solito come se mi sopportasse a malapena, o si aspet-


tasse di trovare qualcun altro. Era luglio. Fuori c’era il sole. E il suo
giorno libero lui veniva in libreria. Vallo a capire.

Sistemò tutti i libri che secondo lui erano fuori posto (cioè sporgevano
di mezzo centimetro dallo scaffale), e poi, fingendo di pensare ad altro,
andò a dare un’occhiata agli opuscoli d’arte.

«E che cavolo, Santo. Ti avevo detto di rimetterli in ordine. Guarda qui


che casino.»
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«Li avevo messi in ordine» dissi. «Solo che poi due ragazzi...»

«Scuse, sempre scuse. E non dirmi che non hai avuto tempo perché in
giro non c’è nessuno.»

«Ti dico che li avevo sistemati. Ma poi...»

«Sentiamo cosa t’inventi questa volta.»

«Bah, lasciamo stare.»

Che ci facevo ancora là dentro? mi chiesi quasi ad alta voce. Vidi Fla-
vio rimettere a posto gli opuscoli d’arte, e intanto immaginai il giorno
in cui mi sarei licenziato. Da un po’ di tempo il pensiero delle dimis-
sioni era l’unico a darmi speranza. Fino a quando sapevo che me ne
sarei potuto andare, le cose sarebbero state sopportabili. Mi vedevo
uscire da quello stanzone per l’ultima volta, sollevato. Poi sarebbero
venuti tempi difficili, lo sapevo – non avrei mai trovato un altro lavoro
di dodici ore alla settimana – ma al pensiero di essermi lasciato alle
spalle i clienti e Flavio, mi sentivo rinascere. Finalmente sarei tornato
a non preoccuparmi e forse, chissà, sarei riuscito a conquistare Sami.
La settimana prima di Natale avrei trascorso i pomeriggi seduto sul
marciapiede di fronte alla libreria, e da lì avrei visto il caos che di-
ventava il negozio in quei giorni. Non avrei avuto un centesimo in
tasca, ma sarei stato felice. Felice e libero.

9
Una sera che eravamo usciti insieme riaccompagnai Sami a casa.

«Sali per un bicchiere di vino?» disse.


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«Ok.»

Sami prese del vino che aveva aperto tipo due mesi prima e lo versò in
un paio di bicchieri. Poi tirò fuori la chitarra e cominciò a suonare e a
cantare. Ogni tanto si fermava, scuoteva la testa e diceva: «stronzo.»
Non so a chi si riferisse.

«Vado in bagno, ok?» dissi.

Pisciai e mi guardai allo specchio, e mentre che c’ero diedi un’occhiata


in giro. Il bagno era pulito. Guardai dentro la doccia. Notai che c’era
un bicchiere di plastica accanto al flacone del bagnoschiuma. Per un
po’ annusai gli asciugamani e un accappatoio appeso dietro la porta.
Poi mi lavai le mani e uscii.

«A che serve il bicchiere di plastica nella doccia?» dissi.

«Se te lo dico prometti di non pensare che sono strana?»

«Promesso.»

«Lo riempio di miele e olio, e uso la miscela per levigare la pelle.»


Posò la chitarra, si alzò e mi venne vicino. Guardandomi dritto negli
occhi sollevò un braccio e disse: «prova, avanti. Non è liscio?»

Allungai una mano e le accarezzai il braccio, anch’io fissandola negli


occhi. Era vero: aveva la pelle più liscia che avessi mai toccato. Pensai:
che faccio, la bacio? Invece mi voltai e uscii sul balcone.

«Ehi, guarda che luna!» dissi.

Sami mi raggiunse fuori. Mi venne vicino. «È vero. Proprio bella.»


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Mi voltai di nuovo a guardarla. La luna si rifletteva sulle sue iridi come


i fari di una macchina sugli occhi di un gatto in piena notte. Dovevo
baciarla e lo sapevo. Mesi prima l'avrei già fatto. Adesso qualcosa me
lo impediva. Forse cominciavo semplicemente ad essere stanco di
tutto: della giostra di ragazze, di Flavio, della libreria, di me stesso.

Lei sbadigliò.

«Meglio se vai a dormire» dissi.

«Non sono stanca.»

«Sì, invece.»

La salutai e me ne andai il più velocemente possibile. Mentre pedalavo


verso casa cominciai a sentirmi un idiota. Un’occasione del genere non
mi sarebbe capitata mai più. Presi una decisione: non mi sarei lasciato
sfuggire un’altra occasione in vita mia, di qualunque cosa si trattasse.
Ma sapevo che mi ero già ripromesso la stessa cosa chissà quante
volte, e il pensiero mi depresse.

10
Qualche giorno dopo Sami passò a prendermi con la macchina carica
di cibo e bevande per andare a casa di un paio di amici suoi che
abitavano in campagna. Era il suo compleanno, così le feci gli auguri e
le diedi un fagotto.

«Cos’è?»

«Un regalo.»
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Lo aprì. «Una radio! Grazie!» Non sapevo che farmene e così avevo
pensato di darla a lei. Mi aveva detto che le mancava avere una radio a
casa. In più in quel modo non avevo dovuto comprarle un regalo vero,
quindi mi era andata di lusso.

Quel giorno Sami era ancora più carina del solito. Un fermaglio le
teneva scostati i capelli da una parte del viso. Intorno agli occhi si era
truccata più del solito, notai soprattutto un ombretto fucsia sulle
palpebre che s’intonava con le calze viola, ma cercai di non farci caso.

Alessio e Francesca, i suoi amici che abitavano in campagna, avevano


l’aria stanca dopo avere passato la giornata a seminare, piantare, in-
naffiare e raccogliere. Lui parlava con forte accento dell’entroterra si-
culo. Appena arrivammo ci mostrò i cuccioli che la loro cagna aveva
partorito da poco.

«Cavolo» dissi, «e ora come farete?»

«Non lo so» disse Alessio.

«Com’è successo?» disse Sami.

«Lei era in calore, un cane passava da qui e l’ha montata.»

«E non potevate separarli?» dissi io.

«No, quando li abbiamo visti avevano già fatto il... il nodo, capite? E
una volta fatto il nodo è impossibile separarli.»

«Chissà se anche agli uomini può succedere una cosa del genere?»
dissi.

«Certo. La sapete quella storia, no?» disse Alessio. «Della sposa che il
giorno delle nozze ha tradito il marito col cognato? Lui gliel’ha messo
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nel... nel sedere, e poi non riuscivano più a separarsi. Hanno dovuto
chiamare l’ambulanza.»

Sami scoppiò a ridere, anche se ero pronto a scommettere che non


aveva la minima idea di che cosa stavamo parlando. Poi accendemmo
un fuoco sul retro e sistemammo alcuni cuscini su cui sederci. Sami
tirò fuori dalla macchina un paio di chitarre e un libro con gli accordi
di un migliaio di canzoni. Si preannunciava il tipo di serata che non
sopporto, e allora attaccai a bere lattine su lattine di birra. Dopo un po’
cominciò a girarmi la testa, ed era meglio così perché sapevo che
quella sera avrei fatto la mia mossa con Sami. Non volevo essere lu-
cido quando sarebbe successo.

Arrostimmo della carne alla brace, ma venne bruciacchiata e secca e la


lasciai perdere. In generale a me la carne non piace un granché. Anche
guardare la gente mangiare mi fa schifo. Mentre vedevo loro tre masti-
care, ingoiare eccetera, non potevo fare a meno di pensare che dopo-
tutto il cibo non è altro che merda allo stadio primario.

Li ascoltai cantare canzoni di Celentano, Battisti e altra gente del


genere. Io preferivo starmene a distanza e bere birra. Non ero bravo a
mischiarmi con le altre persone, ma in situazioni del genere lo ero
ancora meno. Sapevo che avrei dovuto sforzarmi di partecipare; se
volevo fare colpo su Sami avrei fatto meglio a fingere di divertirmi,
magari cantare un paio di canzoni. Ma non ce la facevo. Era più forte
di me.

«Ti sei divertito?» chiese Sami in macchina mentre tornavamo a


Siracusa.

«Hai voglia» biascicai. Ero ubriaco. Vedevo la strada davanti a noi


come attraverso uno spioncino.

«Non è vero. Ti sei rotto le palle.»


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«Ma no, non mi sono rotto le palle. Alessio e Francesca sono


simpaticissimi.»

«È vero. Io li adoro.»

Arrivati a casa mia dissi: «senti, perché non entri un secondo? Così fi-
nalmente ti faccio vedere dove abito. Dài, ti offro un goccio di vodka.»

Lei ci pensò su per qualche secondo.

«Se vuoi, eh?» dissi. «Non sei obbligata.»

«Mmmh, ok» disse lei, e spense la macchina.

Ci siamo, pensai.

Era tardi, le tre di notte, forse. Dentro casa lei si guardò intorno.
C’erano più mobili rispetto a quando mi ero trasferito, ma agli occhi di
un’ospite dovevano sembrare comunque pochi.

«Carina» disse Sami.

«A me piace. Vieni, prendiamo la vodka.»

Mi erano rimaste quattro dita di vodka Absolute in una bottiglia.


Risciacquai due bicchieri e ce la versai dentro. Poi ci spostammo in
soggiorno.

«Quindi è qui che vivi.»

«Sì» dissi, e mi sedetti accanto a lei sul divano.

«Non so perché, ma è proprio come me la immaginavo. Con le scarpe


sparse per il corridoio, le crepe sul muro eccetera.»
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Nonostante la vodka mi avesse fatto perdere quel poco di lucidità che


mi era rimasta, lo stesso non trovavo il coraggio di baciarla. Quella
ragazza aveva il potere di paralizzarmi. Sapevo che la stavo soprav-
valutando, ingannato da quegli occhi verdi, ma il desiderio di piacerle
era comunque così forte da stordirmi. Il suo era un tipo di bellezza as-
soluto. Quel tipo di bellezza che spinge a concludere, erroneamente,
che chi la possiede sia una persona speciale.

Sami prese un pezzo di carta e una matita e fece uno schizzo della
serata. Un fuoco, una chitarra, noi quattro, i cuccioli di cane. Me lo
mostrò. Sembrava lo avesse fatto un bambino di un anno.

«Bello» dissi.

«Va bene» disse lei alzandosi, «è tardissimo, devo scappare. Grazie


per la vodka.»

Le andai dietro.

«Aspetta, non te ne andare» dissi, e mi misi fra lei e la porta.

«Perché?»

«Be’, perché...» Non dissi nient’altro. Mi chinai e la baciai. Lei sembrò


rispondere, ma solo per un secondo. Subito dopo staccò le labbra dalle
mie.

«Che fai, Santo?»

Non sapevo cosa rispondere. Nel dubbio le diedi un altro bacio. Di


nuovo, sembrò ricambiare, ma poi si ritrasse, disse che doveva proprio
andare, prese la porta e sparì.
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Restai con la fronte poggiata alla porta per un po’, poi andai ad accas-
ciarmi sul divano. Quella casa non mi era mai sembrata così vuota.
Presi il pezzo di carta su cui Sami aveva fatto lo schizzo e restai a
guardarlo per non so quanto tempo. Poi andai a letto con i vestiti ad-
dosso, e il pezzo di carta in mano.

11
Pensavo che Sami non si sarebbe fatta sentire per un pezzo, e invece
mi chiamò il giorno dopo. Era sera. Avevo appena chiuso la libreria e
me ne stavo in giro senza fare niente. Era il primo giorno d’estate,
sembrava non dovesse mai fare buio. Stavo un po’ male per la sbronza
del giorno prima e per come erano andate le cose con Sami. In libreria,
poi, era stato il classico giorno in cui restavo a corto di monetine e
dare il resto ai clienti diventava un problema. In quei casi era tutto un
«ha un euro?» «ha cinque euro?» «ha cinquanta centesimi?» Quel
giorno avevo risolto la questione arrotondando i prezzi per difetto e
amen.

Quando suonò il telefono avevo appena incontrato Paola e mi ero fer-


mato a fare quattro chiacchiere. Ricordo che mi chiesi perché non po-
tevo innamorarmi di lei. Quanti problemi avrei risolto. Probabilmente
in tempo di guerra o carestia avere una ragazza come Paola sarebbe
stato oro colato. Ma purtroppo non eravamo né in guerra né in cares-
tia. Nemmeno una piccola siccità. E così ero costretto a cercare sempre
altre ragazze. Ragazze come Sami, che sanno il fatto loro e maltrattano
i ragazzi.

«Ciao Santo! Che combini?» disse Sami.

«Niente.»
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«Stai bene? Ti sento strano.»

«No, sto bene.»

Il fatto che mi avesse chiamato non mi convinceva. Pensai che doveva


esserci sotto qualcosa, ma era bello lo stesso.

«Ti chiamavo perché al K2 suona Peppe di Canicattì. Ti va di venirci


con me?»

«Altroché» dissi. «Ci vediamo lì fra un’oretta?»

«No, no, no» disse lei. «Andiamo prima che comincia il concerto. An-
diamoci fra un quarto d’ora.»

«Va bene, a dopo.»

Salutai in tutta fretta Paola – la dolce, matura, gentile Paola – e andai


al K2, un pub del centro. Sami sembrava felice di vedermi, ma non così
felice. E allora capii: aveva chiesto a tutti quelli che conosceva di an-
dare al concerto ma nessuno di loro aveva accettato. Io ero stato l’ul-
tima spiaggia.

Sami prese una birra, io un’acqua tonica perché mi girava ancora la


testa e avevo un principio di nausea. Ci sedemmo nel cortile esterno e
facemmo quattro chiacchiere, più che altro sulla sera prima. Poi lei
cominciò a fissare un tizio che se ne stava seduto tutto solo a fumare e
a bere birra. Indossava un cappello floscio e una camicia senza colletto
aperta sul petto. Da lontano sembrava un sosia di Rino Gaetano. Capii
che era Peppe di Canicattì, il ragazzo che avrebbe suonato quella sera.

«Poverino, lì tutto solo» disse Sami.

«Perché non lo inviti a bere qualcosa con noi?»


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«Tu dici?»

«Certo.»

Lei ci pensò su per qualche secondo. «Mmmh, no, dài. Magari vuole
essere lasciato in pace.»

Riprendemmo a chiacchierare del più e del meno, con Sami che ogni
tanto si voltava a guardava Peppe di Canicattì.

«Aspettami qua» disse a un certo punto. «Vado in bagno.»

Finii l’acqua tonica. Era bella fresca, ci voleva. Ero abituato a bere, ma
quando esageravo o mischiavo o provavo forti emozioni, il giorno dopo
stavo male fino a sera.

«Eccoci qua» disse Sami. Mi voltai. Si era portata dietro Peppe di Can-
icattì. «Questo è Santo. Santo, Peppe.»

«Ciao» disse lui e si sedette accanto a me sul muretto.

Sami si sedette su una sedia davanti a noi.

Peppe di Canicattì aveva una barbetta incolta e una faccia che ricor-
dava un incrocio fra un cavallo e un ratto. Stava fumando una sigaretta
fatta a mano.

«Come shtai?» mi chiese.

«Non c’è male.»

Pensai che era davvero di Canicattì, perché parlava come parlano da


quelle parti, senza azzeccare una consonante eccetera.
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«Peppe è il ragazzo che suona stasera» disse Sami come se fosse la


cosa più eccitante del mondo.

Non dissi niente.

«Sei nervoso?» gli chiese Sami.

«No. Ormai ci sono abituato. Suono ogni sera in un poshto diverso.»

Che accento del cazzo, pensai.

«Che figata» disse Sami. «Suonare ogni giorno! Deve essere


bellissimo.»

«Inzomma» disse lui, e scaricò la cenere sulla ghiaia. Quando finì


guardò prima Sami e poi me. Sapevo che cosa si stava chiedendo. Gli
sorrisi.

«Fra quanto cominci a suonare?» dissi. «Ormai è ora, no?»

«Non angora» disse lui. «Di solito comingio quando mi pare.»

«Ah ah, sentilo, parla come se fosse il proprietario di questo posto!»


disse Sami. «Peppe posso prendere un attimo la tua chitarra?»

«Gerto.»

Sami andò a prendere la chitarra di Peppe di Canicattì, tornò a sedersi


e cominciò a strimpellarla.

«Lo sai? Anch’io scrivo canzoni» disse.

«Davvero? Brava» disse Peppe. E tornò a guardarmi.


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«Vuoi sentirne qualcuna?» disse Sami.

«Gerto.»

Sami gli fece sentire quelle due o tre canzoni che aveva scritto.
Avevano il testo in inglese e non erano malaccio. Forse appena troppo
scontate, ma potevano andare.

«Perché canti in inglese?» le chiese Peppe.

«Così. Mi viene meglio.»

«Canta in italiano, no? Io non ci capishco niente con l’inglese.»

Sami passò a suonare le cover che a suo tempo aveva provato anche
con me, Velvet Underground e via dicendo.

«Conosci gli Hüsker Du?» chiesi a Peppe.

«No, non li conoshco» disse lui senza smettere di fissare Sami.

Lei gli disse: «qualche volta vuoi venire al mare con me, a suonare?»

«Si può fare» disse Peppe. Prese una lunga boccata dalla sigaretta, e
mentre esalava il fumo mi guardò con la coda dell’occhio.

Nausea o meno, decisi di andare a prendere una birra. Quando tornai


preferii restare in piedi.

«...abiti a Canicattì, quindi?» Sami stava chiedendo a Peppe.

«Sì, ma in inverno mi sposhto a Siracusa.»

«Davvero! Allora quest'inverno vengo a trovarti!»


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«Quando vuoi» disse Peppe, e questa volta non mi guardò.

«Sei mai stato in Portogallo?» disse Sami.

«No, perché?»

«Qualche volta potremmo andarci insieme.»

A un certo punto i gestori del locale uscirono e dissero a Peppe di darsi


una mossa. Lui con calma spense la sigaretta, andò a sedersi dietro al
microfono e cominciò a suonare.

Il ragazzo copiava in tutto e per tutto Rino Gaetano. All’inizio non fu


male, ma poi si mise a cantare pezzi che parlavano di “pugnette” e
ragazze “che non gliela davano”. Classe pura.

«È bravissimo, vero?» disse Sami.

«Seee.»

Fra una canzone e l’altra Peppe di Canicattì intratteneva il pubblico


con una specie di cabaret, sempre con quel suo accento ridicolo.
Faceva battute su Berlushconi, sulle ragazze eccetera.

«Non capishco perché tutti ce l’hanno con le pugnette. Dopotutto è un


modo per fare sesso con la persona che più si ama.»

Tutti, compresa Sami, scoppiarono a ridere.

«Questa è di Woody Allen» dissi.

«E allora?» disse lei senza distogliere gli occhi da Peppe.


254/269

Dopo un po’, quando capii che il concerto stava per finire, dissi: «senti,
Sami, mi sa che me ne vado.»

«Te ne vai?»

«Sì, sono stanco. In più mi gira ancora la testa per ieri sera.»

«No dài, non te ne andare, Santo!»

«Muoio di sonno.»

La baciai sulle guance e me ne andai. Arrivai a casa a mezzanotte pas-


sata. Mi feci del male pensando al K2 che a mano a mano si sarebbe
svuotato, e a Sami e Peppe che sarebbero rimasti da soli a bere birra e
a suonare la chitarra. Non capivo se questa immagine mi rendesse più
triste o arrabbiato. Nel dubbio mi addormentai.

12
I giorni seguenti me ne stetti in libreria in attesa che suonasse il tele-
fono. Il giorno dopo il concerto Sami mi aveva scritto:

Peccato che sei andato via. Il concerto è stato carino! Io sono andata
a dormire circa un’ora dopo di te...

Quella era l’ultima volta che l’avevo sentita. Sapevo che in un’ora era
potuto succedere di tutto, ma cercai di non pensarci.

Il mercoledì era il giorno libero di Sami. Le scrissi per chiederle se


sarebbe voluta andare al mare con me. Rispose poco dopo.
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Ancora non so che cosa faccio mercoledì. Se non faccio niente ti


chiamo.

Comprai un sacco di lattine e di bottiglie di birra, e la sera appena tor-


navo a casa me ne bevevo di corsa un paio. Non avevo il frigorifero, le
birre erano calde, ma andava bene lo stesso. Bere era l’unico modo che
avevo per non impazzire, chiamare Sami e dirle qualche stupidaggine.
Mentre bevevo prendevo l’unica chitarra che mi era rimasta (l’altra era
ancora a casa sua) e canticchiavo tutte le canzoni d'amore non corris-
posto che conoscevo, pezzi dei Ramones, Who, Queers, soprattutto.

Un giorno le scrissi:

Stasera ci facciamo una birra insieme?

Risposta:

Sono un po’ stanca. Magari un’altra volta...

C’ero cascato di nuovo. Sami occupava il novantanove percento dei


miei pensieri, dovevo letteralmente sforzarmi di pensare ad altro. Mi
torturavo chiedendomi dove avessi sbagliato. Non capivo come
potessero piacerle Sebastiano (il tizio con i ricci cascanti sulle spalle e
le gambe secche), o quella faccia da ratto di Peppe di Canicattì. Sapevo
di non essere proprio un gran partito, ero solo il commesso di una pic-
cola libreria, ero un senzadio, non avevo opinioni su niente, ero privo
di ambizioni e la gente mi trovava strano, ma volevo piacerle a tutti i
costi anch’io. E mi seccava dovere ammettere che avevo perso la capa-
cità di non preoccuparmi.

Di solito dopo due birre la sera mi dicevo che forse era meglio così.
Sami era una ragazza come tante che stavo semplicemente
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sopravvalutando. Non era nemmeno il mio tipo. Era solo l’ennesima


figlia di papà che gioca a fare l’alternativa. Sapevo che la nostra
sarebbe stata una storia piena di problemi. Problemi sessuali, innanzi-
tutto: io ero un satiro col chiodo fisso del sesso; lei, per sua stessa am-
missione, una ragazza che pensava di poterne fare a meno. Saremmo
stati felici per un paio di settimane al massimo, poi sarebbero arrivati i
soliti problemi, le prime liti eccetera. Lei avrebbe smesso di sembrare
così perfetta, e all’improvviso avrei cominciato a notare tutti i suoi
difetti. E lei avrebbe notato i miei. Ci sarebbero stati tradimenti, men-
zogne, ipocrisia, tutto il repertorio, e alla fine uno dei due avrebbe
mandato l’altro a quel paese.

Alla terza birra mi prendeva una strana euforia al pensiero che dopo-
tutto ero stato fortunato; qualche altro scalognato avrebbe dovuto ge-
stire Sami. In bocca al lupo.

Ma poi la notte tornavo a pensare a lei. E la mattina, quando mi sve-


gliavo, era lei che avevo in testa. Credevo che se fossi riuscito a con-
quistarla, molti aspetti della mia vita si sarebbero sistemati. Ac-
cendevo il telefono e speravo ci fosse un suo messaggio. Ma non c’era
mai.

Una di quelle mattine il telefono si mise a squillare appena acceso. Era


mia madre.

«Si può sapere che fine hai fatto? Quand’è che vieni a cena da noi?»

13
«Stai di nuovo male per una ragazza?» mi chiese mia madre.
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«Ma quando mai.»

«Cavolo, Santo, di nuovo?»

Intervenne mio padre.

«Le ragazze vanno trattate male, quante volte devo ripetertelo?»

Non dissi niente.

«Le vedi piangere? Fregatene. Piangono più forte? Sbattile fuori di


casa.»

«Grazie del consiglio» dissi.

«Non starlo a sentire» disse mia madre. «Piuttosto trovati un lavoro


decente. Alle ragazze piacciono i ragazzi sistemati, con un lavoro serio.
Non i... commessi.»

Quella sera uscii a bere qualcosa con certi amici miei che vivevano al
Nord e che tornavano giusto in estate e per le feste comandate. Con
loro c’era un ragazzo che non conoscevo, uno di Pisa.

«E tu che fai?» mi chiese.

«Lavoro in una libreria. Commesso.»

«Ah, bellissimo.»

«Seee.»

«E da quanti anni ci lavori?»

Feci un rapido calcolo.


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«Questo è il quinto.»

«Capisco. Ma che cosa ti piacerebbe fare?»

«Che vuoi dire?»

«Come lavoro, intendo. Se potessi scegliere.»

Feci finta di pensarci su. «Niente» dissi. «Per ora sono contento così,
poi si vedrà.»

«Certo, ma quale sarebbe il tuo lavoro ideale?»

«Spiacente, ma noi persone senza ambizioni non ragioniamo così»


dissi, e intanto pensavo: cinque anni; com’è possibile?

I miei amici passarono a parlare di politica. Di Berlusconi, del Partito


Democratico, degli scandali delle ragazze.

«Il problema è che non c’è un’alternativa a Berlusconi a sinistra» disse


qualcuno.

«Ci rendiamo conto? In un paese normale dopo lo scandalo delle


minorenni il premier si sarebbe dimesso il giorno dopo. In Italia no. In
Italia è ancora al suo posto.»

Dicevano quello che gli mettevano in bocca i quotidiani e i programmi


televisivi di approfondimento. Io non leggevo giornali, tranne uno an-
archico chiamato “Sicilia libertaria”, e non avevo il televisore, così mi
misi a pensare a Sami. Mi chiesi ancora una volta quali qualità mi
mancavano per poterle piacere. Chissà dov’è a quest’ora, mi chiesi.

In quel momento alzai gli occhi e me la vidi davanti. Era con Sebasti-
ano. Quando mi vide, Sami sorrise e si avvicinò. Io le andai incontro.
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«Si può sapere che fine hai fatto?» disse dandomi una pacca sulla
pancia.

«E tu che fine hai fatto?»

Alzò le spalle. «Senti, domani sono libera. Andiamo al mare insieme?»

«Va bene.»

«Scrivimi di mattina, così ci mettiamo d’accordo.»

14
Il giorno dopo ero al settimo cielo. Feci colazione, poi scrissi a Sami:

Si va in spiaggia allora?

Lei ci mise una vita a rispondere. Alla fine, un’ora dopo, mi chiamò.

«Ciao Santo... Senti, non mi va più di andare al mare.»

«Va bene, non c’è problema. Ciao» dissi, e riappesi.

Addio Sami.
Capitolo settimo
1
Chiamai Flavio e dissi: «con quanti giorni di anticipo devo farti sapere
se mi licenzio?»

«Cooosa?»

«Il preavviso. Di quant’è?»

Restò in silenzio per qualche secondo. Sentii il suo respiro abbattersi


sulla cornetta.

«C’è qualcosa che devi dirmi, Santo?»

Sì, c’era.

Decidemmo di vederci l’indomani mezz’ora prima dell’apertura po-


meridiana. Sapevo cosa gli avrei detto. Ci rimuginavo sopra da troppo
tempo per non saperlo.

Quando l’indomani lo raggiunsi in libreria, Flavio indossò subito la


sua classica espressione alla “dopo tutto quello che ho fatto per te”. Ci
sedemmo uno di fronte all’altro, come la volta in cui mi aveva offerto il
lavoro anni prima. I neon erano spenti; l’unica luce veniva dall’esterno
attraverso la porta a vetri.
261/269

«Allora, qual è il problema?» disse Flavio. C’era talmente tanta viol-


enza nel suo sguardo che mi venne il dubbio volesse risolvere la cosa
da uomini, sulle dodici riprese.

«Voglio tutto quello che è previsto dal mio contratto o mi licenzio»


dissi. «Mi sono informato, e anche se lavoro tredici ore alla settimana
mi spettano ferie e malattie pagate, tredicesima e quattordicesima, e
chissà quante altre cose.»

«Guarda che non è vero che ti spettano le ferie pagate. Chi te l’ha
detto?»

«Ho parlato con un consulente del lavoro. Mi ha detto che mi spettano


cinquanta ore all’anno.»

«E allora?» disse lui. «Ti sei sempre preso tutte le ferie che volevi, mi
sembra. O no?»

«Ferie pagate, Flavio. Tu mi fai recuperare dal primo all’ultimo giorno.


Mentre quando ci vai tu, in ferie, guadagni lo stesso perché tanto ci sto
io qui a tenere aperto il negozio. Comodo.»

Non pensavo sarebbe stato così piacevole cantargliene quattro. Per la


prima volta da mesi mi sentivo bene, in pace con me stesso.

Flavio non disse niente per un po’.

«Posso darti dieci ore di ferie all’anno» disse poi. «E solo la


tredicesima.»

Risi. «Ascolta, questa non è mica un’asta. Non stiamo facendo a chi of-
fre di più. Voglio tutto quello che è previsto dal contratto. Niente di
meno. Se per legge mi spettano cinquanta ore di ferie, ne voglio cin-
quanta. Idem per tutto il resto.»
262/269

Quel dialogo cominciava a essere grottesco. Mi toccava chiedere quello


che mi spettava per legge. Solo in Sicilia, pensai; ma non lo dissi.

Flavio si appoggiò allo schienale della sedia e mi guardò come se


avesse voluto scoprire un mio bluff.

«Lo sai quanto guadagnano gli altri commessi del corso? Lo sai che
prendono un quarto di quello che prendi tu? Molti non sono nemmeno
assunti.»

«E un’altra cosa» dissi. «Cos’è ‘sta storia che mi paghi lo straordinario


meno dell’orario normale, quando in realtà andrebbe pagato di più?»

«Non mi...»

«E vogliamo parlare dei festivi? Di solito...»

«Non mi...»

«...la gente è contenta di lavorare nei giorni festivi perché si guadagna


di più. E io guadagno di meno!»

«Non mi piacciono questi discorsi, Santo.»

Oh, ma vaffanculo pensai.

«Ascolta, Flavio» dissi. Ero sereno, anche perché non avevo niente da
perdere. Al massimo mi avrebbe licenziato, e allora? Non era quello
che speravo? Cinque anni da commesso di libreria bastavano e avanza-
vano, dopotutto. «Le cose stanno così. Se non sei d’accordo, sono
sicuro che Siracusa è piena di gente felice di prendere il mio posto.»

Flavio si passò una mano sui capelli e controllò l’ora. Mancavano dieci
minuti all’apertura. Davanti alla porta uno dei soliti lavativi
263/269

controllava, con le mani a coppa sul vetro, che dentro ci fosse qual-
cuno. Nonostante fosse tutto buio provò perfino a girare la maniglia. Il
pensiero che mi stessi liberando di gente del genere mi diede nuova
energia.

«Prenditi del tempo per pensarci, ok?» dissi. «Non devi darmi una ris-
posta oggi.»

Lui si inumidì le labbra.

Ci siamo, pensai. Ora mi dice che non gli serve tempo e mi butta fuori
a calci in culo. Che cosa avrei fatto dopo? Non aveva importanza,
dovevo solo tirarmi fuori da lì. Quel lavoro mi stava riducendo a una
larva umana. Il problema era che non sapevo fare niente, probabil-
mente avrei finito col lavorare come commesso da qualche altra parte
dove avrei faticato sul serio. La libreria al confronto sarebbe sembrata
una passeggiata. E se stessi facendo una stupidaggine? pensai. E se
avessi davvero dovuto ringraziare Flavio per quel posto che, par-
agonato a molti altri, non si poteva nemmeno chiamarlo lavoro? Per-
ché cercavo sempre grane? Nel lavoro, con le ragazze, con le altre
persone?

«Va bene, fammici pensare» disse Flavio, e prima che riuscissi a rib-
attere qualunque cosa mi accompagnò alla porta.

2
Qualche giorno dopo ero da solo in libreria, in attesa che Flavio pas-
sasse per darmi una risposta. Ero sicuro di sapere quale sarebbe stata.
Un commesso part-time con le ferie e le malattie pagate non si era mai
sentito a Siracusa. Flavio non poteva creare un precedente.
264/269

«Ma che farai se ti licenzia?» mi aveva chiesto mia madre.

«Mi prenderò un anno sabbatico o due, poi si vedrà.»

Lei mi aveva guardato come chiunque avrebbe guardato un trentenne


che faccia discorsi del genere.

«Non ti licenzia» aveva detto mio padre. «Non lo trova un altro come
te.»

«Papà, è pieno di gente come me.»

«Non lo trova, fidati. Anzi, avresti dovuto chiedere di più.»

Flavio nemmeno mi salutò. Sembrava depresso.

«Senti, ci ho pensato» disse.

Mi preparai a prendere la mia roba e andarmene.

«Hai vinto. Ti darò le ferie, le malattie, la tredicesima e la


quattordicesima.»

«Eh?»

Sentii un brivido di panico risalirmi la schiena. Vidi il mio anno sab-


batico allontanarsi alla velocità della luce. Non potevo crederci. Non
stava succedendo a me.

«Contento? Ciao ingrato» disse Flavio, e mi piantò in asso.


265/269

Non riuscivo a liberarmi di quel posto. Che cosa dovevo fare di più per
farmi cacciare via? Dargli fuoco? Ero prigioniero lì dentro da cinque
anni, e probabilmente ci sarei rimasto per altri cinque. Potevo quasi
vedere in che cosa mi sarei trasformato. Una specie di ameba. Uno di
quei commessi ossequiosi che accennano un inchino quando entra un
cliente. Anzi, avevo già cominciato a diventarlo. Ultimamente sor-
ridevo ai clienti. Il prossimo passo quale sarebbe stato, avere una
ragazza fissa? Sposarmi?

E perché no? Forse un lato positivo quella faccenda ce l’aveva: avrei


messo la testa a posto; sarei diventato finalmente un adulto. Avrei
smesso con quella mia filosofia da quattro soldi, e avrei cominciato a
preoccuparmi come tutti del futuro. E quello sarebbe stato il mio
mestiere di una vita: il libraio. Che male c’era? Ripensai a Paola. Forse
non era troppo tardi per cominciare a fare sul serio con lei. Con la
dolce e matura Paola. Ma certo. Era la soluzione migliore.

In quel momento entrò una ragazza. Era alta, olivastra, e sfoderava un


gran bel sorriso. Le gambe, che la gonna lasciava scoperte fino al
ginocchio, erano abbronzate e depilate di fresco.

«Ehi, e tu chi sei?» disse.

«Mi chiamo Santo.»

«Io sono Erica, la rappresentante per la Sicilia della Feltrinelli» disse


stringendomi la mano. Il suo accento palermitano era fantastico.
«Forse non ci siamo mai conosciuti perché di solito trovo Flavio.»

«Be’, oggi Flavio non c’è» dissi. «Cosa posso fare per te?»

«Oh, niente, ero passata a salutare. Quando vengo da queste parti mi


annoio in albergo, e così vado a trovare i librai.»
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«Anch’io mi annoio spesso» dissi.

«Allora la prossima volta che capito in città posso chiamarti? Fac-


ciamo un giro eccetera?»

«Ehm, non saprei.»

«Se vuoi, eh?»

«Va bene.»

Le scrissi il numero su un biglietto, lei lo infilò nell’agenda e se ne an-


dò. La seguii con gli occhi per tutto il tempo che impiegò a raggiungere
l’uscita. A ogni passo spostava il bacino a destra e a sinistra in un
modo che ipnotizzava.

Rimasto da solo, guardai gli scaffali illuminati dalle luci al neon. Notai
che nel reparto dei saggi politici ed economici un libro sporgeva
rispetto agli altri. Allora feci il giro del bancone e andai a rimetterlo a
posto, proprio come avrebbe fatto un bravo commesso di libreria.
Ringraziamenti
Grazie ad Annalisa che, nonostante lavori già in due case editrici, la
sera ha trovato il tempo di curare l'editing e le bozze di questo ro-
manzo. Qualsiasi difetto abbia il testo è da imputarsi a me, alla mia
cocciutaggine e alla mia pigrizia. E grazie a Claudia, naturalmente, per
il supporto morale e tecnico.
Info e condivisione
Sull'autore
Stefano Amato è nato e vive a Siracusa. Ha pubblicato diversi racconti
e romanzi, come Le sirene di Rotterdam (Transeuropa, 2009) e Do-
mani gli uccellini canteranno (Nulla die ed., 2011). Per maggiori info e
contatti: stefanoamato.com.

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