Sei sulla pagina 1di 6

Intervista con Dario Cecchini

30 aprile 2010 – Panzano in Chianti


Zachary Nowak: Oggi è il 30 aprile 2010 e siamo qua a Panzano in Chianti a parlare con Dario
Cecchini. Dario, grazie per il tempo oggi, ti voglio fare una decina di domande.

Dario Cecchini: Bene.

Z.N. : Oggi siamo in Toscana, da un macellaio – allora perché non mangiamo la Chianina,
la bovina classica della regione?

D.C. : Tutto il mondo parla di razze, che siano razze vegetali – cioè semi, pomodori, con varie
qualità – o che siano razze animali. Non si parla quasi mai dell’unica razza che io riconosco, che è
quella degli artigiani. Il concetto mio è che spesso chi lavora il cibo, il prodotto alimentare, non è il
soggetto almeno che non sia un cuoco. Anzi, almeno che non sia la celebrazione del cuoco, nel
senso che diventi cucina da stella Michelin o comunque l’elaborazione di un cuoco che prende la
materia prima e la trasforma in una meraviglia. Il concetto dell’artigiano, l’unica razza che io
riconosco, è invece di considerare la grande materia prima la meraviglia, e l’artigiano cerca di
rispettare al massimo la materia prima.
Non è detto che la meraviglia, la materia prima merivigliosa, la grande prima, corrisponda
alla razza. Corrispondere sarebbe troppo facile, basterebbe cioè dire i tedeschi sono tutti belli,
buoni, e generosi e i rumeni tutti brutti, sporchi e cattivi. Come noi, la vita degli animali dipende
da un contesto: dipende da una buona alimentazione, da una buona cura, da avere spazi liberi e
quindi deve passare una buona vita, che à il sogno di tutti noi umani. E di avere una morte pietosa,
cioè di avere una morte – non voglio dire senza dolore – ma più rispettosa possibile, e soprattutto
di avere un artigiano che si prende la responsabilità (come io me la prendo, e parlo di
macellazione, non parlo della raccolta di verdura) di aver ucciso un animale, cioè la responsabilità
di essere carnivoro, e quindi rispetta, in maniera responsabile l’animale che ha ucciso, cioè la carne.
Io questo cerco di fare qua.
Con la mia macelleria storica (da duecentocinquanta anni della famiglia Cecchini), con la mia
testa (storica anche questa perché ormai ho cinquantacinque anni), con la voglia di trovare
soluzione e soprattutto con la voglia di non rimanere ai luoghi comuni – che sono fondamentali,
per l’amor di Dio, è chiaro che il cibo deve essere biologico, deve essere pulito (non credo che
nessuno sia contento se il cibo è inquinato o se l’hai inquinato o se il pianeta è inquinato) ma deve
essere soprattutto buono e deve essere fatto bene, deve essere un animale (io parlo sempre di
carne) che è stato bene. Non solo che ha mangiato verdure pulite, cereali puliti, erba pulita ma è
stato in una gabbia tutta la vita.
Ecco, non è che io non uso la Chianina – io uso anche la Chianina. C’è un allevamento di
Fontodi che ha solo Chianina e io sono il loro macellatore, cioè l’allevamento ha come riferimento
come macellaio solo me. Io macello la loro Chianina, cerco di aiutarli, cerco di consigliarli nel
percorse dando una buona alimentazione all’animale. La carne da quando abbiamo cominciato
questo lavoro è molto migliorata, ma per me non è un valore che è Chianina. Non è un valore! È un
valore che è buona! Se invece di una Chianina fosse stata una Bruna Alpina o un’altra razza – non
era un valore che è Chianina.
Io trovo che si sta andando verso una serie di luoghi comuni che qualche volta sono usati per
nascondere il vero problema: che il mondo deve essere a misura dell’artigiano. Altrimenti può
essere biologica, Chianina e tutto quello che tu vuoi, ma se a misura dell’industria com’è diventata
per esempio in America l’industria del biologico, non è a misura. Qualche volta io dico che fra un
grande chef che ha venti ristoranti e fa il manager e McDonald’s non c’è nessuna differenza. Fanno
tutti i due il loro lavoro, hanno una fascia di mercato diversa – una più povera e una più ricca – ma
il concetto è lo stesso concetto industriale.
Io ho aperto un fast food perché tutti odiano il fast food, parlano male del fast food: il
problema non è il fast food, è cibo buono o cibo cattivo, perché se io voglio mangiare un po’ più
alla fretta, se tu permetti Zach, sono cazzi miei. [risate di entrambi]. Non voglio che il mondo sia
solo slow, può essere anche un po’ rock. Capito? Io non ho sempre voglia di stare tre ore a tavola a
rompermi i coglioni a vedere com’è quel vino fatto in barrique e preparato con Syrah Cabernet o
solo con San Giovese puro fatto dall’ultimo contadino biologico dell’ultima collina del Chianti che
sembra l’ultimo di Mohicani. Ho voglia di stare bene, di avere un buon cibo a un buon prezzo.
Il cibo deve tornare a quello che è: è cibo. Una bistecca è una bistecca, non è Dio.

Z.N. : Voglio cogliere quest’opportunità per andare direttamente ad un’altra domanda: quali sono i
tuoi punti di accordo – e di disaccordo – con Slow Food?

D.C. : Io non ho punti di accordo e nemmeno di disaccordo. Io faccio semplicemente il mio lavoro
d’artigiano. Ho amici dentro lo Slow Food a cui voglio molto bene che fanno un percorso diverso
dal mio, ma io sono solo il macellaio artigiano Dario Cecchini di Panzano in Chianti. Non devo
rivoluzionare il mondo, non ho una missione, non sono religioso, sono laico e non partecipo.
L’artigiano non deve diventare il messia o missionario: l’artigiano deve solo continuare a fare il
proprio lavoro. Una volta ti diranno “Bravo!”, una volta ti diranno che non vali niente, ma tu devi
avere il tuo piacere nel cuore e il tuo equilibrio di fare bene il tuo mestiere, perché quello è il tuo
centro. Il mio centro è di ottenere il meglio da quello che faccio, di cercare di usare al meglio la
materia, cioè la carne, che ho nelle mani. Non devo avere solo un buon filetto, devo avere anche
l’ultimo pezzo del manzo più difficile da renderlo una cosa eccezionale.
Lo Slow Food fa un altro lavoro. Lo Slow Food spiega al mondo quello che è bene e quello
che è male. Io no. Io faccio l’artigiano.

Z.N. : Voglio tornare un attimo all’allevamento, specificamente quello in Catalonia. Perché gli
animali là non mangiano solo erba? Non sarebbe più naturale per un ruminante mangiare solo
erba? E poi spiegaci un attimo dell’allevamento.

D.C. : Negli allevamenti tradizionali in Chianti, gli animali mangiavano erba, orzo e avena. Gli
animali non devono mangiare gran turco, o meglio lo stomaco dei ruminanti è poco adatto al gran
turco che fa tutta un’acidità. Io trovo che la carne più ricca e saporita si mangia anche un po’ di
orzo e un po’ di avena, perché dà proteine e dà arricchimento al sapore. Poi non è che l’erba è
uguale tutto l’anno, va bene che uno può dare il fieno agli animali. Io ho trovato che la carne di un
animale che ha mangiato solo erba è un po’ troppo forte di sapore per il mio gusto.
Anche lì si tratta di trovare un equilibrio. In America negli ultimi sei mesi di vita i manzi
mangiano solo gran turco e non mangiano erba. Tutti pensano che il mondo sia bianco o nero; io
penso che ci siano anche tutti i colori dell’arco baleno, e voglio imparare a vederli tutti – ma non ho
la verità. Non sono uno scienziato. Io ti posso dire che l’orzo e l’avena dà all’animale un po’ più di
grasso, un po’ più di gentilezza alla carne, e un po’ più di gusto: tutto lì.

Z.N. : La carne può essere “sostenibile”?


D.C. : La carne può essere “sostenibile”? Io non lo so se la carne può essere sostenibile anche
perché siamo sei miliardi di umani. Non so che vuol dire un pianeta “sostenibile”. Io faccio solo il
macellaio. Io credo che la risposta è che la carne può essere più sostenibile con questo mio modo di
lavorare. Se si usa tutto, si uccide meno, perché c’è meno bisogno di uccidere, cioè non si fa scarto.
Io penso, nella mia idea molto naïf di sostenibilità, se da una parte del mondo, nell’Occidente, si
spreca molto cibo, da un’altra parte del mondo, probabilmente qualcuno soffre la fame. E non è
solamente un problema di guerre, di economia, di potere: credo che sia proprio un problema di
bilancio. Noi sprechiamo molto cibo e forse con buoni artigiani si può imparare a usare tutto al
meglio e sprecarne di meno. Ma non lo so se la carne è sostenibile.
Io ho un caro amico che ha scritto un libro che tu conosci Zach, Il dilemma dell’onnivoro [n.d.r.
di Michael Pollan] e lui non risolve il problema. Io credo di poter essere un po’ di ispirazione ai
giovani macellai, ai giovani cuochi anche. Io credo che se i giovani cuochi andassero nella vigna a
zappare le viti prima di assaggiare una grande bottiglia di vino, o a lavorare in cantina, oppure
andassero in un allevamento (piccolo anche, come questo di Fontodi di Panzano di Giovanni
Manetti) a spalare la merda delle mucche, forse loro capirebbero un po’ meglio dopo quello che si
trova nella mano quando sono in cucina e devono cucinare. Forse capirebbero un po’ meglio la
sostenibilità, forse cercherebbero più anima nel loro cibo, e basta.

Z.N. : Cosa ha in comune un hamburger con la tradizione culinaria toscana, o italiana? Stiamo
andando verso l’omogeneizzazione culinaria, che adesso mangiamo un hamburger qua, al
MacDario?

D.C. : Mah! Sai che io credo, Zach, che l’omogeneizzazione non è culinaria ma è dei cervelli. Se
tutti guardano gli stessi programmi stupidi alla televisione, se tutti bevono le stesse bibite
industriali o se tutti fanno in un certo modo, possano fare le cose più corrette del mondo, ma è
un’omogeneizzazione. L’hamburger a me risolve un problema in una maniera giocosa. È una cosa
contemporanea al MacDario, perché credo sia questo di che si tratti, una cosa contemporanea,
divertente, apprezzato soprattutto dai più piccini, che spiega come si può mangiare un buon
hamburger con le patate e con le salse senza per forza mangiare cibo industriale.
Il cibo è sempre stato una scoperta: io non vedo i confini. Non appartengo a una chiesa. Io ho
la tradizione culinaria toscana nell’anima, la conosco – ma ho lavorato con tutti i macellai del
mondo. Ho mangiato molto bene in America, ho mangiato molto bene da tutte le parti, senza per
forza “La mia cucina è la migliore.” Se uno è convinto di avere la verità, è molto difficile ascoltare
gli altri. A me interessa a pensare a delle soluzioni nel 2010, non fare la cucina della nonna, o
storicizzare la nostra vita e farla diventare un museo. Ti sembro un toscano convenzionale con le
calzine a righe, le Crocs ai piedi, la bandana. Io pretendo di essere vivo, anche fertile, con le idee.

Z.N. : Sono importanti le denominazioni DOC e IGP o nuociono?

D.C. : Non ho una risposta. Una volta ho chiesto a una delle Regione Toscana che se ne occupava
se potevo avere anch’io un cartellino nell’orecchio come le mucche, perché volevo una
denominazione d’origine come artigiano, ma si sono messi a ridere. Non è previsto per gli umani
artigiani. In questo momento le mucche sono più privilegiate di noi. Credo che per un po’ tutto sia
ancora inconcentrato sul prodotto come soggetto: la zucchina antica ritrovata, tutto sembrava
Indiana Jones, no? “Abbiamo trovato l’ultima zucchina vera!” Senza però pensare che noi siamo
frutto di cambiamenti continui nella storia, e così il cibo viaggia con noi. Io credo di essere nella
razza dei cacciatori primitivi.
Z.N. : Dicono che ci vogliono tanti chili di grano per creare un chilo di carne (possiamo anche dire
*carne+ “industriale”). Non sarebbe meglio seguire le dieta vegetariana?

D.C. : Io sono carnivoro. E me ne assumo tutta la responsabilità. Da carnivoro cerco di usare al


meglio e rispettare al meglio quello che uccido. Cerco di non sprecare, perché credo che quello sia
la mia filosofia. Ma non credo di essere inferiore o peggiore di un vegetariano. Ci sono i
vegetariani che magari mangiano le zucchine di gennaio e le ciliegie per Natale, e ci sono alcuni,
anche amici miei che rispetto tantissimo, che rispettano completamente il percorso delle stagioni.
Ma io sono carnivoro, e non me ne vergogno. Anzi, non me ne faccio nemmeno la bandiera. So
quello che sono e non devo espiare delle colpe. Credo che ci abbiano messo il mondo a
disposizione per godere di quello che abbiamo, con giudizio. Ma che sono carnivoro, guarda: non
devo abbondare troppo o esagerare, ma faccio con orgoglio il mio lavoro e cerco di spiegarlo con
attenzione e quelli che vogliono cominciare a farlo.

Z.N. : Qualche mese fa l’ormai ex-Ministro delle politiche agricole Zaia ha concesso il patrocinio a
un prodotto del McDonald’s, il McItaly. Non so se ha seguito la polemica, ma il McItaly è un
prodotto italiano perché usa prodotti italiani, o no?

D.C. : Non riguarda il mondo degli artigiani. Non ti so rispondere. Riguarda industria con
industria. Non credo che il McItaly abbia mai pensato di rapportarsi con un artigiano, anche se usa
un formaggio italiano e se usa prodotti italiani, non lo so. Non frequento il McDonald’s e non ho
nessun rapporto con la politica di questo livello. Io credo nelle piccole comunità, non mi intendo
delle grandi.

Z.N. : Come si integra questo ristorante con la comunità locale?

D.C. : Bene. Prima di tutto [gli abitanti di Panzano] si divertono molto perché la macelleria,
insieme chiaramente alle aziende di vino, ha aperto le porte di Panzano a tanta gente da tante parti
del mondo, quindi i panzanesi sono molto divertiti. È un paese che trenta, quarant’anni fa non
conosceva nessuno e ora è molto più conosciuto. E poi vengono, vengono per salutare, vengono
per il MacDario, vengono a Solo Ciccia, vengono un po’ meno all’Officina della Bistecca. Ma è
meglio se vengono un po’ meno, perché l’Officina è una celebrazione del rito della bistecca alla
fiorentina, ma è una cosa più costosa per cui si fa una volta ogni tanto.
Sono molto orgogliosi di portare gli amici, i parenti, gli ospiti, di essere fermati per la strada
e chiesti le indicazioni, a rendersi utili, soprattutto nella parte alta del paese, le vecchiette, che sono
le persone che magari sono fuori a chiacchierare. Vengono ogni tanto da me, “T’abbiamo mandato
degli ospiti, dei turisti che venivano dal Giappone, dall’America, e avevano sbagliato strada ma noi
li abbiamo aiutati. Io mi fermo tutti i giorni a parlare con la gente del paese. Sono nato in casa,
nella casa accanto qui. Ho giocato nella strada davanti alla macelleria da piccolo. Sono stato
allevato qua, conosco tutti. Sto bene con loro. È chiaro che ti posso dire che non sono nelle regole
normali, sono considerato un cervello libero ma questo per me è un complimento. La Toscana era
la patria dei cervelli liberi nel Rinascimento.

Z.N. : Hai un prodotto che si chiama “il tonno del Chianti” – perché si chiama così?

D.C. : Si chiama così perché è una vecchia ricetta data da un vecchio norcino figlio di un
norcino, una ricetta tramandata per caso, e io le desse un nome che dà comunicazione al prodotto.
C’era questo caso singolare che il prosciutto di maiale cotto in questo modo aveva un leggero
sapore ma più altro un odore di tonno, del tonno del mare – se tu giochi con un nome, metti un
nome divertente, gioioso, tu rendi il cibo meno serioso. “DOP di Formaggio Pecorino della
Garfagliana allevato dalla Cooperativa della Montagna…” – capito? È un po’ come i ristoranti di
grido che durano mezza pagina per spiegare un piatto. Invece “il tonno del Chianti” è un colpo
d’occhio, no?
È una cosa che piace, il tonno – e piaceva soprattutto a me. Io faccio quello che mi viene in
mente. Se una cosa non piace, o un prodotto piace a più ma non a me, io come artigiano ho il
piacere e dovere morale di dare il meglio di me. Un pittore non può dipingere una cosa che piace
al pubblico ma non gli piace. Dipinge quello che si sente, quello che la sua anima gli dice di fare. Se
io mi metto davanti a un manzo la mia anima mi dice di tagliarlo in quel modo e la mia esperienza
di ricavarci quelle ricette, che poi sono completamente da un altro artigiano, ma è la mia visione. Il
tonno del Chianti è la mia visione del problema. Io ho recuperato quelle ricette quando il mondo
andava verso i salumi: si doveva parlare di salumi, salumi, salumi, prosciutti, prosciutti, prosciutti.
Il mondo andava verso i salumi e tutti dovevano parlare di salumi. E io ho detto “No, no, io con il
prosciutto faccio un’altra cosa, ci faccio il tonno del Chianti.” Ed è buono!

Z.N. : Dalla metà del Settecento mangiamo a tavoli privati – perché ci rimetti insieme al tavolo
unico?

D.C. : Perché la campagna toscana – e non solo la campagna – è conviviale. Per me il cibo non è
solo per nutrirsi, ma è per mangiare con gli altri. Questo diceva anche Brillat-Savarin nella
Fisiologia del gusto, non l’ho inventato io. Qui si condivide il cibo, da umani.

Z.N. : Come interagiscono le persone al tavolo unico?

D.C. : Chi viene qui è già predisposto, conosce le regole, quindi non chiede un tavolo da due. Si
divertono da pazzi, fanno l’amicizia. Non è detto che l’amicizia sia di duratura, ma il fare amicizia
al tavolo vuol dire essere positivi per il tempo che tu stai insieme agli altri. E io trovo che questo è
il condimento e il sapore migliore della tavola della macelleria.

Z.N. : Perché il nome “l’Officina”? Quali valori porta?

D.C. : Perché l’Officina ha il forgia, usa il fuoco, ma nel tempo stesso viene dal latino “ficium”,
offizium, gli offizi: il rito della bistecca in Toscana è la nostra messa laica.
È celebrare una messa al simbolo più importante della condivisione del cibo. La bistecca alla
fiorentina è un cibo prezioso, ce ne sono pochissime in un manzo intero, solo sei. Condividere la
bistecca fiorentina con gli altri, cioè partecipare al rito di dividersi la carne, di spezzarsi il pane, di
versarsi il vino, di dividersi la parte più pregiata della carne del manzo è la nostra messa laica. È il
rito della bistecca alla fiorentina. Io non servirei mai una bistecca alla fiorentina per un tavolo da
due o un tavolo da quattro, diventa offensivo per l’animale ucciso. Non mi torna, ma condividere
la bontà del cibo: io sono convinto, e questo lo dico veramente, di rinascere mucca. Io credo che i
buddhisti abbiano ragione e che siamo una serie di rinascite. Mi sta bene rinascere come mucca –
non ho paura. Ma vorrei una buona vita, una morte pietosa e un bravo macellaio. Il mio incubo è
di finire all’industria.

Z.N. : Dato il fatto che la gente comune mangi la carne è storicamente recente, fa veramente parte
della cultura gastronomica toscana la carne?
D.C. : Certo. Perché probabilmente siamo stati più fortunati degli altri, abbiamo avuto una natura
più benevole, oppure ci sono stati gli etruschi e poi i romani. I romani sono stati l’occupazione,
quando c’erano gli etruschi c’era l’”Etruria felix”, la campagna produceva bene, i paesi si
amministravano ognuno per conto suo, non c’era lo stato centrale, era una forma meravigliosa di
anarchia e tutti vivevano in pace e c’era in abbondanza il cibo. Abbiamo avuto un culo di nascere
qui e di avere una tradizione del genere: godiamocene.

Z.N. : È importante sapere da dove viene questa carne? E se sì, perché?

D.C. : Io allevo carne in Catalonia insieme a una vecchia famiglia di macellai in una zona d’Europa
particolarmente adatta per questo tipo di allevamento perché hanno pascoli verdi e la campagna
non è industrializzata ma sta molto ben tenuta. Ho avuto una piccola intervista anche per un
giornale degli architetti del paesaggio, un giornale italiano, che ha fatto un articolo su questa zona
d’Europa, che è un giardino, e hanno detto “Il posto è così bello che anche Dario Cecchini alleva
qui i suoi animali.”
Io devo dichiarare per legge la provenienza dei miei animali e non spiego a nessuno che tutta
questa parte bella, importante, di qualità, anche un po’ romantica con questa famiglia di vecchi
macellai. Devo dire per legge la provenienza della mia carne se è italiana, spagnola, o da un’altra
parte. Non devo dire se la carne è industriale o artigianale. La legge mi dice che devo dire così e io
scrivo su tutti i miei menù. Dichiaro anche sul mio sito internet dappertutto che la carne viene
dalla Spagna perché io sono il testimone della qualità del mio prodotto, non da dove viene la carne
o che razza è. Quando io macello la Chianina non dico mai che è la Chianina perché per me non è
un punto di vista interessante – quello non è il mio punto di vista sulla qualità. Lo penso in un
altro modo. La legge mi dice di fare così e io lo faccio. Non vedo nulla di strano.
All’inizio molti mi dicevano, “Ahh, ma non è carne italiana, Cecchini, mi meraviglia di Lei!”
E io ho detto “Meravigliatevi.” La meraviglia è sempre una bella cosa. Avete la vostra scelta, non
dovete sposare me. Se io sono un buon artigiano, e do una buona qualità ai miei prodotti, non
capisco molto questo problema dei “chilometri zero”. Perché per me ci vuole molto più CO2 a
nutrire gli animali in certe zone del mondo portando il cibo, magari l’orzo, dalla Canada, che
tenere gli animali dove meglio stanno e spostare poi gli animali macellati in una volta sola. Fanno
una vita migliore.

Z.N. : Non ho altre domande. Grazie per il tempo, Dario.

Wec Creative Commons copyright 2010 by Dario Cecchini and Zachary Nowak.

This following limitations apply:


s Sharing — you may copy, distribute and transmit this work, though there must be
b Attribution — you must attribute the work in the manner specified by the author or licensor
(but not in any way that suggests that they endorse you or your use of the work), and your sharing
must be
nNoncommercial — You may not use this work for commercial purposes.

Potrebbero piacerti anche