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Le notizie geopolitiche del 17 settembre.

di Federico Petroni

Unione Europea e Regno Unito si stanno avvicinando a un accordo sul


Brexit. In vista dell’uscita di Londra dall’Ue (programmata per il 29 marzo
2019) e per evitare una brusca decadenza di tutta la normativa europea (il
cosiddetto hard Brexit), le due parti devono siglare un trattato per il periodo di
transizione, che terminerà a fine 2020.

Da entrambe le sponde della Manica giungono segnali che ciò potrebbe


avvenire il prossimo novembre. Sia il governo britannico che Bruxelles
sembrano pronte a fare dei passi l’uno verso l’altro. Il presidente della
Commissione Europea Jean-Claude Juncker è venuto incontro a uno dei punti a
cui più tiene il primo ministro Theresa May, parlando di “area di libero
scambio” da negoziare con Londra.

Dal canto suo, Londra ha proposto di dotare il confine fra le due Irlande – il
principale oggetto del contendere – di soluzioni tecnologiche e quello fra la
Gran Bretagna e l’Ulster di agenti britannici per controllare il commercio e
assicurarsi che rispetti gli standard europei. E soprattutto per evitare di
mantenere il solo Ulster nell’unione doganale europea. Come sarebbe avvenuto
in caso di mancato accordo con l’Ue. Bruxelles appare aperta all’idea e sta
cercando di ottenere il consenso di Dublino.

Qualora entrassero in vigore, a contare non sarebbe tanto la reale


efficacia (scarsa) di queste soluzioni, ma la collocazione della sovranità. L’Ue
concerebbe al Regno Unito di credere alla finzione che i prodotti possano
essere controllati da non meglio precisati “gadget high tech” e, più che altro,
che funzionari britannici garantiscano la conformità dei prodotti diretti in
Irlanda del Nord con la normativa continentale.

Il punto è non reintrodurre un limes “duro” fra le due Irlande: la porosità della
frontiera è servita a preservare gli accordi del Venerdì santo del 1998 che hanno
congelato gli scontri nell’isola. Accettare la permanenza di un pezzo del
proprio Stato in un’unione doganale da cui si sta uscendo significherebbe per
Londra staccare ulteriormente l’Irlanda del Nord da sé. Viceversa, ripristinare i
controlli in toto lungo il confine manderebbe in tilt i vigorosi scambi fra le due
entità.

Bruxelles deve essersi convinta ad allentare la presa per consentire a May di


raggiungere il sospirato accordo e sopravvivere alla fronda interna al suo partito
degli euroscettici più oltranzisti, che minacciano di farla cadere.
In ogni caso, le sfide per la premier sono tutt’altro che alle spalle. Nei prossimi
due mesi, il suo governo dovrà redigere un testo con i negoziatori europei che
sia abbastanza vago da permettere di trattare i dettagli del divorzio dall’Ue in
un secondo momento. Senza esagerare, però. Che May si stia presentando
come l’unica persona nel Regno Unito a poter negoziare un Brexit ragionevole
è indubbio. Il rischio è di isolarsi, esponendosi agli strali dei propri rivali
politici. Sia i fautori di un Brexit più netto (l’ex ministro degli Esteri Boris
Johnson per esempio ha attaccato il governo reo di genuflettersi a Bruxelles
sulla questione irlandese) sia i favorevoli a restare nell’Ue (come il sindaco di
L o n d ra S a d i q K h a n , c o n t ra r i o a l l a l i n e a dei colleghi di partito
laburisti e sostenitore di un secondo referendum) intravedono la possibilità di
aumentare la propria popolarità.

Le sfide non sono solo interne. La Spagna reclama un capitolo sul contenzioso
di Gibilterra all’interno dell’accordo di uscita del Regno Unito dall’Ue.
Inoltre, il Brexit sta rimescolando le carte dell’estroversione dell’economia
britannica. Lo dimostrano due notizie recenti. La prima riguarda Deutsche
Bank, che ritireràdalla City di Londra tre quarti del suo portfolio da 600 miliardi
di euro. La seconda la Cina, la cui UnionPay sceglie il Regno Unito come testa
di ponte per fare concorrenza in tutta Europa ai colossi statunitensi Visa e
Mastercard.

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