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è diventata forte.
Da quando è un’allieva dell’Accademia dei Ladri, è riuscita
a sopravvivere a tutte le prove. Ha sopportato la diffidenza
degli altri studenti e la crudeltà dei professori, ha resistito
all’isolamento nella Quarantena ed è sfuggita agli Ussari che
hanno imprigionato Arthur. E lo hanno condannato a morte.
Twelve è sempre più decisa a fuggire da quella scuola
terribile, e a portare con sé la piccola Ninon. Per riuscire
nell’impresa, però, avrà bisogno dell’aiuto dei suoi amici,
Sputo e Mathias, e dell’appoggio di Lupo, il tenebroso
capobranco della confraternita degli Spazzacamini.
Ma scappare non è così facile, e mentre elabora il suo piano,
Twelve dovrà affrontare anche una nuova sfida.
I professori infatti stanno organizzando un furto spettacolare
e, per questo, hanno deciso di riunire una squadra di ladri
sceltissimi: l’Ordador.
E Twelve sarà chiamata a farne parte…
Amelia Drake Della vita di Amelia Drake abbiamo pochi
dettagli e nemmeno una foto, anche se l’autrice racconta di
non essere molto alta e di avere i capelli neri e un tatuaggio a
forma di lacrima alla base del collo.
Amelia ama i libri, tanto che nel piccolo appartamento dove
vive ne ha accumulati più di diecimila. Scrive usando una
penna stilografica d’ottone che si è costruita da sola, e
conosce il linguaggio segreto dei ladri. Ha lavorato per molto
tempo come cameriera in un ristorante di lusso, e mentre
preparava i tavoli ha sentito di dover raccontare una storia:
quella di Twelve e dei suoi amici, e della Diciannovesima
Accademia.
Questo è il terzo libro delle avventure di Twelve
all’Accademia dei Ladri.
© 2016 Atlantyca Dreamfarm s.r.l., Italia
Per l’edizione italiana
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli, Milano
Prima edizione Narrativa novembre 2016
Testo di Pierdomenico Baccalario e Davide Morosinotto
Progetto e realizzazione editoriale: Atlantyca Dreamfarm s.r.l., Italia
Collaborazione grafica: Daniela Bordini e Benedetta Galante
Diritti internazionali © Atlantyca S.p.A.,
via Leopardi 8 – 20123 Milano
foreignrights@atlantyca.it www.atlantyca.com
È assolutamente vietata la riproduzione parziale o totale di questo libro, così
come l’inserimento in circuiti informatici, la trasmissione sotto qualsiasi
forma e con qualunque mezzo elettronico, meccanico, attraverso fotocopie,
registrazione e altri metodi senza il permesso scritto dei titolari del copyright.
eISBN 978-88-58-69172-4
Illustrazione di copertina:
Vincenzo Lamolinara/Nucco Brain Studio Ltd
www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
1
L’USSARO CON IL
CAPPELLO GIALLO
-g-gran bella giornata, eh?» esclamò
lo sconosciuto sedendosi sulla panchina, di fianco al soldato.
Rimasero lì, uno accanto all’altro, nella quiete dei Giardini
Reali.
Seventy Stephen non indossava la sua divisa da Ussaro, il
corpo di guardie scelte del re in cui era stato arruolato,
mentre lo sconosciuto era avvolto in un mantello giallo con il
bavero alzato e portava un cappello a cilindro dello stesso
colore. Quando si era seduto, prima ancora di iniziare a
parlare, Stephen aveva pensato che fosse un qualche
esponente religioso, un Gaudente o un Sacerdote del Sole.
Invece sembrava solo qualcuno in vena di fare conversazione.
Il giovane soldato posò le mani sul pacchetto rosa della
pasticceria Cocotte che teneva in grembo, come per impedire
al profumo di meringhe di volare via.
«A vo-vo-volte sarebbe bello essere invisibili, non pe-
pensi?» riprese lo sconosciuto. «Però ti ri-rimane sempre
questo ca-cattivo o-o-odore.»
«Veramente sono le migliori meringhe della città» sbottò
Seventy Stephen.
«E per chi-chi sono, se po-posso chie-chiedere? Sta-stai
aspettando la tua fi-fidanzatina?»
«Non ce l’ho, una fidanzatina» lo seccò Stephen. Poi
indugiò con lo sguardo sul lungo viale fiancheggiato da
cespugli di mirto, perfettamente tosati in forma di coni e
piramidi, sino alla fontana che zampillava in fondo. L’acqua
disegnava minuscoli arcobaleni sopra i gradini di marmo
bianco. «Non più, almeno.»
«Oooh… Ha-ha sce-scelto un altro cavaliere? O fo-forse sei
stato tu a…»
«Sono stato io a fare cosa?» lo interruppe Stephen, brusco,
stupendosi per primo di tanta foga. Aveva scambiato quella
semplice frase per un’insinuazione che era andata a colpire
dritto nel profondo dei suoi tormenti. Impiegò alcuni istanti
per ricordarsi che nessuno poteva sapere cosa fosse successo
tra lui e Twelve, la ragazza a cui aveva dichiarato il suo
amore per poi tradirla, e che quanto stava accadendo su
quella panchina era frutto di un incontro casuale, per quanto
bizzarro.
«Mi scusi» mormorò subito dopo. «Non volevo essere
sgarbato.»
Pensò che a quel punto si sarebbe alzato, avrebbe salutato
con un inchino marziale il tizio vestito di giallo e sarebbe
tornato in Accademia, e di lì in prigione, per il suo turno di
guardia alla cella numero 67.
Ma lo sconosciuto lo prese in contropiede, quando replicò:
«Non devi scu-scusarti con ne-nessuno: quando ci si po-porta
dietro l’odore degli o-o-orfani ci si sente se-sempre sotto a-a-
attacco…»
Stephen provò un lungo brivido a quelle parole, nonostante
il pallido sole primaverile, dello stesso colore dell’aglio, che
batteva sui giardini e faceva rilucere le stecche di ferro delle
panchine. Perché era tutto vero: Stephen era uno degli orfani
dell’Istituto per Ragazzi Speciali Edgar G. Stanislao Moser.
Ed era al suo primo giorno di libera uscita, l’unico che si
fosse concesso da quando, insieme agli altri orfani della sua
annata, aveva lasciato l’istituto per seguire i precetti
dell’Accademia degli Ussari. Era da quando aveva messo il
naso fuori dal portone – il suo naso lungo e appuntito, che
Twelve aveva spesso preso in giro, dicendo che lo si sarebbe
potuto usare per tagliare il burro o appenderci le luminarie di
fine anno – che si era sempre sentito sotto osservazione,
come uno straniero per le vie della città, come un naufrago
perduto in un mare di gente. Come quel prigioniero sotto la
luce cruda della sala degli interrogatori, nudo e brancolante.
Aveva un solo indirizzo, scritto su un foglietto spiegazzato e
cacciato in fondo alla tasca dei suoi unici pantaloni per la
libera uscita. Pasticceria Cocotte, si leggeva su quel foglietto,
e, più sotto, meringhe. Le meringhe di Cocotte erano la cosa
più buona del mondo, aveva detto il prigioniero mentre
Stephen gli faceva da piantone fuori dalla cella. L’unica che
gli sarebbe davvero mancata, una volta che l’avessero
impiccato in piazza degli Innocenti.
«Chi sei?» domandò Stephen allo sconosciuto,
concedendosi di guardarlo con più attenzione. Il suo cappotto
sgargiante era logoro nelle cuciture e con i bottoni tutti
diversi, mentre dall’orlo rosicchiato dei pantaloni spuntavano
pesanti scarponi militari.
«U-u-no che ha il tu-tuo ste-stesso odore, a-a-amico mio»
rispose lo sconosciuto, sollevando la tuba gialla quel tanto
che bastò a Stephen per riconoscere i suoi occhietti aguzzi.
Il giovane Ussaro credette che la scatola di meringhe gli
sarebbe caduta a terra, ma riuscì a trattenersi dallo scattare in
piedi e afferrare il suo spadino. Anche perché non ce l’aveva,
quel giorno, attaccato alla cintura.
«Non è possibile!» esclamò. «Tu… sei morto! Io… sono
venuto al tuo funerale. Al tuo e a quello di tutti gli altri!»
Non disse il nome di Twelve, né di Rebecca o di Ninon.
L’altro gli appoggiò sul braccio una mano inguainata in un
sudicio guanto da prestigiatore.
«Sono per Arthur, ve-vero? Le me-meringhe?»
«Rispondi alla mia domanda!» lo incalzò Stephen. «Tu sei
morto!»
«So-so-no co-contento che tutti pensino che sia mo-morto…
E i-in un ce-certo se-senso è co-così! So-sono morto, Ste-
Stephen… E p-poi sono to-tornato!»
«Con permesso, signore!» si affrettò ad alzarsi Seventy
Stephen. «Per un attimo l’avevo scambiata per un vecchio
amico, ma evidentemente ho preso un abbaglio…»
Era chiaro che lo stavano ingannando. Che lo sconosciuto
seduto accanto a lui non poteva essere Hugo Eight, il suo
compagno del Moser saltato in aria mentre raggiungeva la
sua Accademia di destinazione, nell’attentato del ponte
Delagrava. Così come non poteva aver detto quel nome,
Arthur, lo stesso nome che il prigioniero della cella numero
67 aveva sputato in una pozza di sangue, dopo che il
Maggiore lo aveva torchiato ore e ore per sapere chi fosse, e
chi si nascondesse dietro al colpo in cui lo avevano arrestato.
Dietro ad Arthur c’erano i Ladri. C’era la Diciannovesima
Accademia, quella di cui nessuno in città conosceva
l’esistenza. E c’era Twelve, che aveva creduto morta. “Ti
aiuterò. Te lo prometto” le aveva detto. E invece l’aveva
tradita.
«No-non fa-fare il so-so-lito zu-zuccone, Ste-Stephen»
continuò lo sconosciuto. «Non a-a-abbiamo molto te-tempo,
e se mi-mi a-agiti ba-ba-balbetto a-ancora di p-più, lo sai
benissimo…»
Stephen si fermò a metà del movimento con cui pensava di
smarcarsi dalla conversazione. Lo sapeva, sì, lo sapevano
tutti che Hugo balbettava di più quando era sotto tensione, e
lo agitavano apposta, quando volevano fargli uno scherzo. O
impedirgli di terminare una delle sue costruzioni, quelle
macchine assurde che non servivano mai a niente. Sì, quello
era senza ombra di dubbio Hugo Eight.
«Hai i-i-incontrato le a-a-altre?»
Il ragazzo fissò la scritta dorata di Cocotte sulla scatola di
cartone rosa, imbarazzato.
«Solo Twelve» rispose. «Ho visto solo Twelve.»
«E co-cosa ti ha detto?»
Stephen si morse il labbro, fino quasi a farlo sanguinare.
«Niente» mentì. «Non mi ha detto niente.»
Lo sconosciuto sospirò. «Sta-sta-stammi be-bene a sentire,
Se-Seventy. So-sono to-tornato per a-aiutarti. Vo-voglio dirti
le co-co-cose che n-non sai…»
«Hugo, devo tornare in Accademia, adesso.»
Nelle mani guantate di Hugo Eight apparve un minuscolo
flaconcino bianco, su cui erano incise due ali dorate. «Vo-
voglio a-aiutare te, Ste-Stephen… e A-Arthur, p-prima che lo
i-im-impicchino. Ti ho po-portato una cosa per lui. Una cosa
pi-piccola. Più pi-piccola di una me-meringa.»
2
LA CASA
DELL’IMPICCATO
vrebbero impiccato Arthur, ed era
tutta colpa sua. Twelve se lo ripeteva notte e giorno, quando
dormiva e quando era sveglia, ancora e ancora, senza riuscire
a pensare ad altro.
Avrebbero impiccato Arthur.
Ed era.
Tutta.
Colpa.
Sua.
Ogni tanto, soprattutto di notte, nei suoi pensieri si
affacciava anche il viso di Stephen e, per qualche istante,
Twelve era tentata di dare la colpa a lui. Al suo vecchio
amico. Al suo vecchio non-chiamiamolo-amore. Ma poi il
martellamento ricominciava esattamente nello stesso punto in
cui si era interrotto. Era stata lei a fidarsi di Stephen. E quindi
era. Tutta. Colpa. Sua.
Arthur non le era mai stato particolarmente simpatico.
Aveva sempre sfoggiato quell’aria da sbruffone, che si era
portato dietro dalle baracche oltre la Dogana e che lo
spingeva ad atteggiarsi a signorotto di campagna, con una
perenne smorfia supponente sul viso, malgrado indossasse
pantaloni di velluto stracciato. E d’altronde, Arthur era uno
dei Lord, e i Lord questo imparavano, se già non ce l’avevano
nel sangue.
Sapeva che Arthur l’aveva sempre presa in giro,
diffondendo pettegolezzi e graffiando insulti sui banchi di
scuola. Ma non meritava di morire. Non così, impiccato in
piazza degli Innocenti insieme ad altri criminali.
E, soprattutto, non meritava di morire per colpa sua.
«FSmettila, Twelve» la rimproverò Sputo, il volto pallido
appoggiato sui polsi ossuti. «Tu non c’entri niente. Arthur fsi
è fatto beccare. È fstata fsolo una gran fsfortuna, e bafsta.»
«Non si è fatto beccare» disse Twelve. «Sono stata io a
decidere il piano per tutti, e il colpo dall’armaiolo di Toledo
in cui l’hanno catturato.»
Si acquattò nella soffitta, al centro della bolla di luce della
lanterna. La tana degli Spazzacamini era immersa nel buio, e
la montagna di scarpe vicino alla grande porta blindata
Moehringer, le travi del tetto con le corde, le reti ingombre di
bigliettini, i mobili fatti con i tubi e le cassette della frutta, i
paraventi di coperte, gli abbaini, i vecchi materassi, insomma
tutto quanto li circondava, sembrava pericolosamente di
passaggio. Pronto a sgretolarsi da un momento all’altro.
Mathias e Sputo non dissero una parola. E nemmeno la
piccola Ninon, che appoggiò la testa alle ginocchia di Twelve
e continuò a dormire.
Anche Twelve era esausta, ma inseguiva il sonno senza
trovarlo. Doveva essere molto tardi, le tre o le quattro del
mattino, e dal grande oblò spalancato sulla soffitta si
insinuava una pennellata di nero che sfocava le luci della città
di Danubia e si udiva mormorare il fiume.
«Non dovresti sentirti in colpa» sbuffò Mathias. «Dopotutto,
questa è l’Accademia dei Ladri, non delle ballerine.»
«Avremmo potuto ballare in mille altri modi. Arthur voleva
rubare al banco dei pegni, vicino alle Periferie, ricordate? E
invece io… ho scelto il colpo più difficile di tutti.»
«Però è quefsto il bello di te» disse Sputo. «Che tu provi
fsempre le cofse più difficili.»
“Sai che soddisfazione” sembrava dire l’espressione di
Twelve mentre carezzava distrattamente il visetto di Ninon
addormentata. Sul suo collo era ancora visibile una piccola
cicatrice, che non sarebbe mai andata via del tutto. Ogni volta
che la guardava, Twelve ricordava la ferita che Luther aveva
inferto alla piccola per iniettarle un potente veleno. Se Ninon
voleva vivere, doveva prendere ogni giorno un antidoto
alchemico chiamato pozione antinomica, che poteva esserle
somministrato solo in Accademia. Era proprio per procurarsi
quell’antidoto che Twelve aveva scelto di derubare il più
famoso armaiolo di Danubia, la cui bottega era a pochi passi
dalla caserma degli Ussari: se ci fosse riuscita, i fratelli Zorba
le avrebbero dato sufficiente pozione da guarire Ninon per
tutta la vita. E allora Twelve, libera di portare con sé la
bambina, finalmente avrebbe potuto ritentare una fuga
dall’Accademia.
«Avete ragione» disse, riscuotendosi dalle sue riflessioni.
«Sapevo benissimo che era il colpo più difficile. Volevo
dimostrare di essere la migliore. E invece ho fallito…»
«Comunque sia, ora è tardi e dovremmo andare a dormire»
suggerì Mathias con uno sbadiglio. Poi guardò Twelve e
aggiunse: «Tu più degli altri. Lasciatelo dire, hai una
faccia…»
«Come una candela fspenta» disse Sputo.
«Voi non pensate ad Arthur?» chiese Twelve.
«Ci pensiamo eccome. Mi sento un nodo in gola…» rispose
Mathias. «Ma cosa possiamo farci? Dovrebbero essere i
professori a intervenire.»
«Luther dice che non si può fare niente» disse Twelve.
«E a te non va giù, vero?» domandò Sputo.
«Oggi è Arthur, ma domani? Potrebbe capitare a chiunque
di noi!» sbottò lei. «Ci insegnano a borseggiare, mendicare,
travestirci e scassinare le serrature per portare loro la
refurtiva, ma se poi veniamo presi? Ci finiamo noi, in piazza
degli Innocenti!»
«Ti è mai stato detto qualcosa di diverso?» si domandò
Mathias, luciferino, allontanandosi dal gruppo senza ascoltare
la risposta.
«No, ma a me non sta bene» gli gridò dietro Twelve. «Non
mi sta bene per niente.»
Rimase sola con Sputo e Ninon, addormentata in mezzo a
loro. Ascoltarono per un po’ la notte e infine il ragazzo senza
due denti ebbe il coraggio di domandare: «Hai qualche idea?»
Alla Diciannovesima Accademia le giornate si susseguivano
seguendo un calendario di lezioni che non ammetteva perdite
di tempo. C’erano giorni in cui bisognava arrampicarsi su
muri e torrette, giorni in cui si stava in aula a studiare, e altri
in cui ci si doveva travestire, liberare da manette e catene,
uscire di nascosto dalla scuola, in barca o a bordo del treno
sotterraneo, e diventare mendicanti, spie o ladruncoli di
strada. C’erano giorni in cui l’Accademia era avvolta nel
silenzio più totale, come da una coltre di nebbia. E altri in cui
si poteva sentire la reggente, Hortensia, allenarsi con i
gorgheggi o intonare un’aria famosa. Aveva una bella voce,
la preside, che echeggiava nel cortile annerito dal fumo, dove
un tempo sorgeva la sua serra, come se l’incendio, anziché
distruggere le sue amate piante, l’avesse liberata da un peso
che le impediva di cantare. Qualunque cosa si facesse, le tre
confraternite dell’Accademia – i Lord, gli Acrobati e gli
Spazzacamini – si ritrovavano ogni mattina nell’ampia stanza
comune, sotto l’immenso scheletro di una balena – o di un
drago, sosteneva Sputo. Tra le colonne che sostenevano la
volta c’erano i loro tre tavoli, abbelliti da tovaglie candide e
posateria d’argento rubata, come alla mensa del re.
Una decina di golem, dalla pelle d’argilla e gli occhi di
zaffiro, si aggiravano per il salone a passi lenti, facendo
ruotare qua e là i volti meccanici senza espressione, reggendo
vassoi pieni di latte caldo e succhi di frutta, cestini di pane
morbido, ciotole di marmellata e miele, uova sode in bilico
nei portauova dorati, frittate, torta di lamponi, aringhe, pesce
affumicato, pancetta e verdure al forno croccanti.
Twelve si accomodò al suo solito posto al tavolo presieduto
da Lupo, il capobranco degli Spazzacamini, e incrociò le
braccia. Osservò i suoi amici servirsi di ogni ben di Dio e non
mosse un muscolo.
«Tutto bene, Twelve?» le domandò Mia, seduta di fronte a
lei.
«Benissimo» rispose la ragazza, e lanciò un’occhiata a
Sputo. L’amico, con aria colpevole, si era servito un panino
all’olio.
«Non mangi?»
«No» rispose. «Sciopero.»
La notizia che Twelve non mangiava si diffuse rapidamente,
ma più come una sciocchezza che come una vera e propria
protesta. Lupo non la degnò della minima attenzione e si
limitò a ficcarsi più a fondo lo stuzzicadenti tra le labbra.
Un paio di golem ondeggiarono alle spalle di Twelve sulle
gambe sottili, si chinarono e le proposero dei dolci invitanti –
focaccia spolverata di zucchero e biscotti di nocciole – ma lei
rifiutò cortesemente.
E alla fine anche Sputo si rifiutò di fare il suo solito secondo
giro.
Fecero lezione come se nulla fosse accaduto: don Giacomo
con la sua conoscenza delle strade, Mister Cheng,
l’insegnante di Linguaggi Segreti, che li tediò due ore con un
laboratorio di crittografia asimmetrica, e infine fu la volta di
Madame Truffaut e del dottor Mugaba, che arrivò in classe
con una lezione sui veleni paralizzanti.
E poi fu l’ora di pranzo. Gli studenti del primo anno
scattarono come molle per precipitarsi alla mensa, e di nuovo
Twelve si sedette a braccia incrociate, senza toccare un
boccone. Le vennero in mente i giorni del Moser e le
bacchettate di Miss Kindheart, quando era vietato avanzare il
cibo e ogni cosa lasciata nel piatto le veniva riproposta il
giorno seguente, e quello dopo ancora.
Ci furono altri sussurri, un paio di gomitate, poi i ragazzi del
terzo anno spinsero la testa di Sputo nel piatto, prendendolo
in giro perché anche lui si rifiutava di mangiare.
Al pomeriggio si ritrovarono in palestra per l’ultimo
allenamento settimanale di palla prigioniera, lo sport ufficiale
dell’Accademia, nel quale Twelve era titolare della Squadra
delle Matricole. L’enigmatico Zefirotti, l’istruttore di
Acrobazie e Destrezze, si muoveva agile sulla punta delle
scarpette nonostante la mole da mongolfiera, e impartiva
ordini ai ragazzi. Solitamente Twelve era un’ottima centrale
d’attacco, ma quel giorno non riuscì ad acchiappare
nemmeno un pallone.
«Ragazzina!» strillò Zefirotti quando Twelve finì addosso al
suo compagno di squadra Igor, mandandolo a terra. «Si può
sapere dove hai la testa oggi?»
Fu Rebecca dei Lord a rispondergli. Rebecca Thirty-five,
anche lei del Moser: «Non ha testa perché non ha mangiato.
Sta facendo lo sciopero della fame.»
«Che sciocchezze!» bofonchiò Zefirotti.
Twelve si rimise faticosamente in posizione, ma Zefirotti le
indicò lo spogliatoio.
«Tu no, vai a cambiarti. Non mi servi a niente conciata
così.» Le lanciò una lunga occhiata e aggiunse: «E vedi
subito di mangiare qualcosa.»
Invece, a cena, Twelve proseguì con la sua protesta
silenziosa. I golem le sfilarono accanto con arrosto, zucchine
ripiene e una montagna di patate fumanti, ma lei rimase a
fissare il fondo del piatto immacolato.
«Ora basta» sbottò Lupo.
Fece alzare Lia e si sedette al suo posto, davanti a Twelve,
fissandola con i suoi inquietanti occhi gialli. La logora
camicia a scacchi era arrotolata fino al gomito, e i capelli,
ormai lunghi, sembravano elettrificati dalla rabbia.
«Parli con me?» domandò Twelve.
«Certo che parlo con te. Cos’è questa storia che non
mangi?»
«Lo faccio per Arthur» replicò Twelve. «Mancano due
giorni all’esecuzione, ma i professori non intendono fare
niente. Sembra che vogliano lasciarlo morire.»
Lupo non disse una parola.
«Potremmo provare a rapirlo, o a farlo evadere. Qualsiasi
cosa sarebbe meglio che starsene qui come se non fosse
successo niente» continuò Twelve.
Lupo stava per risponderle ma fu interrotto dall’avvicinarsi
di Eve, la caposquadra dei Lord, la ragazza più bella
dell’Accademia e probabilmente dell’intera città, con i capelli
raccolti sulla testa in una complicata acconciatura che le
lasciava scoperto il lungo collo da cigno. Il suo vestito senza
spalle color verde ottanio, tutto trine e merletti, metteva in
risalto le sue linee perfette.
«Mi dicono che hai iniziato uno sciopero della fame per
Arthur» disse, incombendo sul tavolo come una tentazione.
«Lascia perdere, Eve» ringhiò Lupo. «Non è una storia che
ti riguardi.»
«Mi riguarda eccome, invece. Arthur è uno dei nostri. È un
Lord. E noi lo vogliamo libero!» continuò Eve, alzando il
tono.
«Sì! Arthur libero!» gridò qualcuno dal suo tavolo.
«Arthur libero! Arthur li-be-ro! Arthur li-be-ro!» ripeterono
altri, battendo le posate sui bicchieri.
Diventò ben presto un coro, guidato dal tavolo dei Lord. E
poco dopo, sbucando da non si sa dove, forse da uno dei
passaggi segreti che si diceva fossero nascosti ovunque nel
salone, arrivò il professor Luther.
«Che succede qui?» sbottò, il volto e i capelli color del ferro
e una cicatrice che gli attraversava una guancia fino al mento.
«Piantatela!»
Ma i ragazzi continuarono a picchiare sui tavoli, a pestare i
piedi e a urlare il loro slogan. «ARTHUR LIBERO!
ARTHUR LIBERO!»
«Capisquadra!» gridò il professore, ed Eve, Lupo e Gobert
degli Acrobati fecero tacere le loro confraternite.
Poi Eve fece un inchino beffardo all’insegnante. «Professor
Luther, grazie di essere venuto. I Lord chiedono che
l’Accademia si organizzi per liberare Arthur prima
dell’esecuzione.»
«Che idiozia è mai questa?» sbottò Luther.
«Non è un’idiozia» disse Twelve. «È uno sciopero della
fame.»
Luther le scoccò un’occhiata di ghiaccio. «Tu… è una tua
idea?»
«È un’ottima idea» rimarcò Eve. «I Lord faranno
altrettanto.»
«Lupo?» bofonchiò Luther.
Il giovane dagli occhi gialli sputò lo stecchino a terra.
«Anche gli Spazzacamini.»
«E gli Acrobati!» esclamò Gobert, facendo cadere il suo
piatto.
In molti li imitarono, sotto lo sguardo indolente dei golem.
«Ragazzi!» tuonò Luther. «Basta con questa pagliacciata!
Arthur è rinchiuso nelle prigioni a fiore e nessuno, nessuno è
mai scappato dalle prigioni a fiore…»
«Dobbiamo almeno tentare!»
«Abbasso piazza degli Innocenti!»
«Libertà, libertà!»
«Ordinate loro di smetterla» sibilò Luther ai tre capi delle
confraternite. «O vi costerà cara…»
«E in che modo, professore? Non ci darete più da
mangiare?» replicò Twelve sottovoce.
«Sgombrate subito la sala» ordinò Luther, ignorandola. «E
presentatevi a lezione!»
«No» rispose Eve, e poi guardò Lupo e Gobert. «Io dico che
rimarremo qui dentro fino a quando non ci direte cosa volete
fare per salvare Arthur.»
«Sta bene» disse Gobert.
Lupo non disse una parola, ma non obiettò.
«Questa è una ribellione, signori» sibilò Luther. «Vi
consiglio di cambiare rapidamente idea, perché sapete quali
sono le conseguenze delle ribellioni.»
«Ci appelliamo alla Giustizia dei Ladri» disse a quel punto
Lupo.
«La Giustizia dei Ladri? Davvero vuoi fare appello al Libro
Nero?» lo schernì Luther. Poi si confrontò con lo sguardo di
Lupo e capì che il ragazzo era serio. Così guardò gli altri due.
«E voi siete d’accordo?»
Non ricevendo risposta, Luther si strinse nelle spalle.
«Come volete» concluse. «Allora attendete qui. E che
nessuno si muova, fino a quando non tornerò.»
3
L’INNAFFIATOIO DI
LATTA
welve?»
«Sì, dottor Mugaba?»
«Posso parlarti un momento?»
I ragazzi stavano sciamando fuori dall’aula, dove il medico
e il Grande Manny avevano mostrato e fatto con loro i primi
esperimenti con gli acidi. Avevano forato il metallo, corroso
un muro di pietra e sciolto alcuni vetri con gocce color
ambra. Twelve lo raggiunse accanto al tavolo dove, con
infinita cautela e l’aiuto di una pipetta, stava versando gli
ultimi resti di acido nitrico in un contenitore.
«Ti tratterrò solo pochi minuti» disse il medico, lasciando il
tempo di rimanere soli.
«Le serve una mano?» domandò Twelve.
«Sì. Bisogna chiudere i coperchi dei vasetti, e metterli tutti
in quella cassetta. Facendo molta attenzione…»
«Ci tengo a rimanere viva.»
«Appunto.»
Mugaba le sorrise in uno scintillio di denti bianchissimi.
Lavorarono alcuni istanti in silenzio, allineando le varie
sostanze in barattoli etichettati con i misteriosi caratteri
alchemici che solo chi studiava farmacopea sapeva
interpretare. Poi, quando ebbero terminato, e dei compagni di
classe di Twelve non rimase che un lontano brusio, la ragazza
domandò: «Immagino che ora voglia parlarmi di Ninon…»
«Anche. Ho visto che se n’è andata via senza salutarti. E
durante la lezione non vi siete nemmeno guardate…»
«È arrabbiata con me. E la capisco, dal suo punto di vista
devo essere una specie di mostro che le impedisce di uscire
da quella soffitta e la lascia sempre sola.»
«Ma non è così. Tu stai solo cercando di proteggerla.»
«Sì.»
«E sei arrabbiata con noi professori.»
«Sì.»
Il dottore caricò la cassa di acidi su un carrello e poi afferrò
il maniglione per spingerlo. «Posso farti una domanda,
Twelve? Da quanto tempo non parli con Ninon?»
Twelve fu colta di sorpresa.
«Cosa intende dire? Le parlo tutti i giorni.»
«Voglio dire una conversazione vera. Una conversazione in
cui vi confrontate sulle cose più importanti per voi.»
«Oh…» prese tempo Twelve. Non ricordava di aver mai
fatto a Ninon un discorso simile, ma era ancora troppo
piccola!
«Vedi» continuò Mugaba, «io oggi pomeriggio le ho parlato
prima che arrivaste voialtri. Era contentissima, e mi ha detto
che giocare con le serrature è la cosa che la rende più felice al
mondo. Tu lo sapevi?»
«Che Ninon è brava con chiavi e lucchetti? Sì che lo
sapevo…»
«Ma che è felice di farlo? E che quando voi siete a lezione,
lei si esercita per conto suo con tutto quello che trova in giro?
Ti ha detto che ha rubato un paio di manette a Mister Peele,
da cui è in grado di liberarsi in quindici secondi netti?»
No, di questo a dire la verità Twelve non aveva idea. Ma
non era quello il punto. Il punto era che Ninon non doveva
imparare a fare quelle cose. Non doveva stare lì.
«Hai ragione, Twelve, Ninon è solo una bambina e ha
bisogno di essere protetta. E i tuoi crucci ti fanno onore. Ma
quando la guardi e vedi una bambina, non significa che non
sia una bambina con sogni, dubbi, passioni. E talento. Ma se
nessuno la fa esprimere, vivere in questa Accademia sarà
difficile per lei quanto lo è per te.»
«È difficile solo per colpa vostra!» sbottò Twelve. «L’avete
condannata a prendere un antidoto ogni giorno e… se non lo
prende…»
Il professor Mugaba fermò il carrello. «Se non lo prende?»
Twelve si morse la lingua. Se il dottore sapeva che Mister
Peele non aveva portato da mangiare a Ninon, allora sapeva
che Twelve nascondeva in camera l’antidoto dei fratelli
Zorba. E se sapeva dell’antidoto…
Si affrettò a cambiare argomento: «È stato bello avere
l’infermeria piena, dottore?»
L’espressione di Mugaba si fece di colpo mortalmente seria.
«No, non lo è stato. E se vuoi saperlo, io ero contrario a
ubbidire all’ordine del Nero… Sono un dottore, cerco di
curare le persone, non di conciarle per le feste. Ma non posso
decidere per gli altri, Twelve. Tutto ciò che posso decidere è
quello che faccio io, e perché lo faccio…»
«È già in una posizione di vantaggio, signore, se posso
permettermi.»
«Forse. O forse no. Comunque sia, io ho scelto di aiutare le
persone. Tutte le persone. Anche quelle cattive. Perché non lo
fai anche tu?»
«Cosa intende dire?»
«Che l’infermeria è sempre aperta, e che un’aiutante
potrebbe farmi comodo. Ogni tanto, nel tempo libero, potresti
venire sotto da me. Se ti va, ovviamente.»
A Twelve andava. Non ci aveva mai pensato prima, ma le
andava eccome. Camminò dietro al camice del dottor
Mugaba, lungo un corridoio che terminò in un vecchio
montacarichi arrugginito.
«Si capisce da come segui le lezioni, che vorresti fare di più.
Ti si illuminano gli occhi. È così anche per Ninon quando
parla con Manny. Forse perché… sono alti uguali…»
Sorrisero entrambi, poi il montacarichi arrivò al piano,
gracchiando orrendamente.
Il dottor Mugaba spinse fuori il carrello. «Permettile di
brillare. Permettile di fare qualcosa che le piace. Dopotutto,
voler bene a qualcuno significa anche lasciarlo libero.»
Il deposito dei medicinali era più che altro uno sgabuzzino,
stretto e lungo, con alti scaffali di metallo protetti da una
porta ferrata e da un lucchetto. Un Remington-H-4,
ovviamente, lo catalogò Twelve, mentre tirava fuori dal
carrello i vasetti di acidi e li allineava sull’unico ripiano che
non era chiuso a chiave, come le aveva ordinato il dottor
Mugaba. Per seguirlo là sotto aveva saltato l’ultima lezione
della giornata con la professoressa Isadora, ma né lei né il
dottore sembravano molto preoccupati. Lui fischiettava
nell’altra stanza. E Twelve si guardava intorno, attenta e
stanchissima al tempo stesso. Pensava a Ninon, ovviamente, e
ai consigli di Mugaba. Sapeva benissimo di non essere la
mamma di Ninon, ma lei una mamma vera non l’aveva mai
avuta. E dunque Twelve poteva andare, come mamma, anche
se aveva solo dodici anni. L’idea, però, la disturbò. Una
sorella maggiore. Ecco, così andava meglio. Che cosa
avrebbe dovuto fare, una buona sorella maggiore? Sistemò
anche l’ultimo dei vasetti, alzandosi in punta di piedi, e nel
farlo spinse il carrellino contro alcuni scatoloni accatastati
nell’angolo più buio del deposito medicinali. Erano pronti per
essere bruciati nella grande caldaia dell’Accademia, ma ad
attirare l’attenzione di Twelve fu il mittente, inciso a fuoco
sul cartone.
Fratelli Zorba – Alchimisti e
Farmacopisti
Strada Stretta – Quartiere Tabàn – Prima Circoscrizione
Nel vedere di nuovo quel nome il cuore di Twelve si fermò
per un momento. In fondo era del tutto normale che, nel
deposito medicinali, ci fossero dei vecchi cartoni di farmaci
da buttar via. Eppure, dopo quello che era successo
all’esame, il loro nome era bastato a farla sussultare. Si chinò,
afferrò uno dei cartoni, ci guardò dentro. Vuoto. Il secondo:
vuoto, e così il terzo.
Erano tutti vuoti, tranne che per un foglio di carico,
ripiegato più volte in un angolo del quarto. Twelve controllò
che il dottore fosse ancora seduto alla sua scrivania e poi lo
recuperò, facendo attenzione a non far rumore. Lo aprì e lo
lisciò tra le mani. Era un elenco di tutto ciò che Mugaba
aveva fatto acquistare per l’infermeria. Alcuni nomi le erano
già noti, altri completamente sconosciuti, come POZIONE
PLACIDIA, di cui il medico aveva ordinato 12 flaconcini, per
un trattamento annuale.
Un trattamento annuale di cosa?, si domandò Twelve.
«Twelve?» la chiamò il dottore, dall’altra sala. «Tutto bene,
con quei flaconi?» Lei si ficcò in fretta il foglietto in tasca ed
esclamò ad alta voce: «Sì, sì. Ho finito.»
«Grazie dell’aiuto, allora. Ci vedremo di nuovo, fuori dalle
lezioni?»
«Forse» rispose Twelve, avvampando, e ficcandosi ancora
più a fondo nella tasca il biglietto ripiegato. «Forse sì, dottor
Mugaba…»
E poi uscì di corsa dal magazzino.
Quando tornò in soffitta, Ninon non era in camera. La
immaginò a giocare con Sputo alle costruzioni, e cercò di non
badarci troppo. Si era preparata centinaia di volte cosa dirle e
cosa risponderle, e aveva voglia di vederla. Si chiuse in
camera ad aspettarla. All’improvviso, le sembrò una stanza
completamente vuota. E in parte lo era: non c’erano né i
vestiti di Ninon, né i suoi giochi. Si sentì mancare il fiato, ma
non fece nemmeno in tempo a uscire nel corridoio che Henna
e Cressida bussarono alla sua porta.
«Dov’è finita?» urlò Twelve.
«Stai calma… Ha spostato tutto da noi» rispose Henna,
appoggiandole una mano sulla spalla.
«È arrabbiatissima, o almeno così dice» aggiunse Cressida,
con un sorriso. «Ma dubito che le durerà molto.»
«Voi non la conoscete…»
«Cressida ha ragione» riprese Henna. «È solo un po’ di
orgoglio. Vedrai che già questa notte tornerà da te.»
Twelve sbirciò sopra la sua spalla, in direzione della loro
camera.
«Posso parlarle?»
«Volentieri, ma… non è da noi.»
«È passato Sputo, con una grande scatola di non so cosa…»
«Costruzioni» indovinò Twelve.
Le tre ragazze confabularono ancora qualche istante tra loro,
prima di dividersi. Twelve le ringraziò dell’appoggio e poi si
buttò sul letto, con una gran voglia di piangere. Non pensava
che litigare con Ninon le avrebbe fatto così male. Era come
un tradimento. Da quando erano all’Accademia avevano
sempre dormito insieme, a parte quando Twelve era stata
rinchiusa in Quarantena. Insieme erano uscite
dall’orfanotrofio, insieme erano scappate e insieme erano
tornate indietro. E Twelve immaginava che allo stesso modo
avrebbero affrontato tutto quello che la vita aveva messo loro
davanti.
Senza nemmeno accorgersene si assopì e, quando si svegliò
era ancora sola. Le luci della soffitta erano già spente, segno
che era passata la mezzanotte, e così Twelve strisciò fuori
dalla sua camera a tentoni, in punta di piedi. Entrò nella
stanza di Mathias e Sputo senza bussare, soprappensiero
com’era.
Sputo dormiva per terra, in una sorta di rifugio buio che si
era costruito tra il materasso e l’angolo della stanza più
lontano, mentre Mathias, in un logoro pigiama che lo faceva
sembrare ancora più magro e ossuto di quanto non fosse, era
seduto al centro del letto chiazzato di luce, in mezzo a una
catasta di fogli e di appunti.
«Ehi! Che ci fai qui?» strillò quando la vide entrare,
cercando di recuperare velocemente i fogli.
«Scusa» disse Twelve. «Cercavo Ninon. Mi avevano detto
che era con Sputo e…»
«Sputo è tornato un’ora fa» rispose Mathias, evidentemente
seccato, come qualcuno che è appena stato interrotto mentre
faceva qualcosa di fondamentale. «E prima ha accompagnato
Ninon da Henna e Cressida. Se la rivuoi, vai a bussare da
loro…»
Una morsa si chiuse intorno alla gola di Twelve. Si
appoggiò alla porta e si abbandonò a un profondo sospiro.
«Ok, scusa di nuovo… Volevo solo essere sicura che stesse
bene…»
Guardò distrattamente i fogli e gli appunti, illuminati dalla
luce delle candele, e immaginò che Sputo si fosse andato a
rifugiare nell’angolo più lontano perché non era la prima
notte che Mathias stava sveglio fino a tardi. «Che stai
facendo?»
Mathias recuperò altri fogli, sottraendoli alla sua vista.
«Niente che ti riguardi. Anzi, per favore, vai via.»
Twelve si sentì di nuovo pugnalata senza una ragione. Prima
Ninon, poi Mathias. Perché? Che cosa aveva fatto, di tanto
terribile, per essere trattata così dalle persone a cui voleva
bene?
Si girò senza dire una parola e si infilò nella porta, con la
gola secca e il cuore pesante.
«Twelve?» la chiamò Mathias. «Scusami, sono stato un
cretino. Davvero… C’è un foglietto vicino alla porta. Ti
andrebbe di passarmelo?»
Era a pochi passi dal piede scalzo di Twelve, tutto
scarabocchiato a inchiostro e a matita: c’era un disegno
squadrato attraversato da fulmini, come una specie di
circuito, e strane parole tratteggiate. AUTORIZZA-MI,
SEGUI-LO, PARLA-MI…
Lo raccolse.
«Io questo me lo ricordo, però» mormorò, porgendolo a
Mathias. «La sera in cui i golem ci hanno attaccato…»
«Parla piano…»
Si sedette sul bordo del materasso, fissando Mathias con gli
occhi spalancati. «Tu ti sei messo a fare dei gesti e a dirgli
quelle parole… che cosa stai facendo?»
«Provo» rispose Mathias.
Twelve aguzzò la vista, per cercare di capire quello che il
suo amico aveva scritto sulle decine di altri disegni e appunti
in mezzo ai quali si era seduto come una chioccia con i suoi
pulcini.
«Sono istruzioni, vero?» decise, alla fine di quella breve
indagine. «Istruzioni per i golem.»
«Dovrebbero esserlo, ma… non funzionano!»
Mathias si infilò le mani tra i capelli e rise, piano,
scompigliando poi anche i suoi appunti e mandandoli a
planare nei quattro angoli della stanza.
«Che cosa stai cercando di fare, Mathias, moccioso che non
sei altro?» gli sibilò Twelve, altrettanto divertita, imitando la
voce del professor Zefirotti.
«Non saprei dirtelo meglio di così, ma… ho scoperto che i
golem…» e ridusse la voce a un sussurro, costringendo
Twelve ad avvicinarsi a meno di un palmo dal suo naso.
«Conoscono due modi di parlare. La parola e… il
Linguaggio.»
«Sembra molto interessante. E cosa significa?»
«Attraverso la parola i golem comunicano con noi. Il
Linguaggio invece funziona a un livello diverso, più
profondo. Si può cambiare, e una volta cambiato il golem lo
registra nei suoi meccanismi più nascosti, ed è costretto a
eseguire tutto ciò che dice…»
«Non credo di aver capito» ammise Twelve.
Mathias sembrò entusiasmarsi della sua attenzione e
continuò: «Allora ti faccio un esempio. Tu hai un cuore, e il
tuo cuore batte, giusto? Lo senti?»
Mathias le appoggiò una mano sul petto e premette, piano.
«Sì. È piuttosto imbarazzante, ma batte proprio lì.»
Il ragazzo staccò la mano, rosso in viso. «Non è che ci
pensi, o che ti devi ricordare di farlo, però. È un movimento
automatico. E anche se decidi di fermarlo, non puoi.»
«Non posso fare molte cose.»
«C’è qualcosa dentro di te che fa battere il cuore anche se
non vuoi, che ti fa respirare anche se non vuoi. E che fa tutte
le cose che tu fai senza pensare. Per i golem è la stessa cosa,
solo che è possibile… leggerlo? Scriverlo? Se gli dai
un’istruzione nel loro Linguaggio, qualcosa tipo BATTI-
CUORE-SEMPRE-TI, loro sono obbligati a eseguirla senza
discutere, perché non possono decidere cosa vogliono e cosa
non vogliono fare, come tu con il tuo cuore. Devono obbedire
agli ordini.»
«Come noi con Lupo…»
«Non esattamente. Noi possiamo disobbedire, sappiamo o
crediamo di sapere cosa sia meglio fare e ci comportiamo di
conseguenza, mentre un golem no. Non ha scelta. Non può
prendere le decisioni complesse che possiamo prendere noi.»
Twelve ci pensò su, continuando a sfogliare gli appunti di
Mathias sparsi dappertutto.
«E tu cosa stavi provando a fare, quando sono entrata?»
«A capire in che modo usare il Linguaggio… e a dare loro
istruzioni.»
«Per farti obbedire dai golem?»
«Non è così semplice. La testa di un golem è come una
cipolla, hai presente? Strato dopo strato di Linguaggio da
modificare, fino a quello più profondo, il nucleo. Ogni strato
della cipolla contiene istruzioni, e più un’istruzione è
profonda, più il golem è costretto a obbedirle senza pensarci.
È il suo stesso pensiero, punto e basta.»
«E in questo nucleo cosa c’è?»
«E chi lo sa? Un’istruzione che impone loro di ubbidire ai
professori, magari.»
«Piuttosto logico» disse Twelve. «E infatti Odo non ti ha
dato retta.»
Mathias ricominciò a radunare le sue cartacce, e Twelve gli
diede una mano, affascinata.
«Posso chiederti solo come hai fatto a scoprire tutte queste
cose?» gli domandò.
«Ti interessa davvero?»
«Tu raccontamelo. Tanto ormai sono completamente
sveglia.»
«Dovremmo uscire di qui, senza che gli altri se ne
accorgano.»
«Ok.»
«Potrebbe essere pericoloso.»
«Ok.»
«E chiaramente contrario alle regole della…»
«Mathias! L’ho capito. Sono io, Twelve. Mi vuoi far vedere
o no?»
Si infilarono le scarpe con la massima cautela, scegliendole
dalla catasta vicino all’ingresso, e aprirono la combinazione
della Moehringer senza farle fare nemmeno un ticchettio. Si
lasciarono alle spalle la soffitta e si fermarono in cima alle
scale. Tendendo le orecchie potevano sentir mormorare il
fiume intorno alla scuola e i passi dei golem che, in altre
scale e in altri corridoi, stavano cambiando la disposizione
delle trappole sui gradini.
«Da questa parte.»
Invece di scendere le scale che portavano di sotto, Mathias
si accostò al muro opposto del pianerottolo e, appoggiandoci
sopra le mani, con una delicata pressione rivelò la scanalatura
di una porta a scomparsa, incastonata nella parete. Premuta
con la dovuta attenzione, la porta cedette con un piccolo clic
e si spostò lentamente su un’invisibile rotaia.
«Cos’è, un magazzino?»
«Una specie» disse Mathias. «Vieni dentro.»
Appesa a un gancio sul muro, subito dopo l’ingresso, c’era
una lanterna che il ragazzo accese con uno sfrigolio. Quindi
agitò la lampada davanti al naso, per permettere a Twelve di
vedere.
Era, appunto, un magazzino ricavato nel sottotetto, molto
lungo ma dal soffitto così basso che si rischiava di battere la
testa contro le travi che sostenevano le capriate. Dentro
c’erano un mucchio di cose, per lo più arredi coperti di
polvere, poltrone sfondate, un manichino vestito da direttore
d’orchestra, ormai mangiato dalle tarme, vecchi banchi di
scuola e pile di sedie, una serie di ottoni a fiato gettati dentro
a luridi scatoloni e un pianoforte a muro a cui mancavano
metà dei tasti. Incastrato contro la parete c’era poi un grande
stemma di gesso dorato, rotto a metà.
«Sono gli arredi della vecchia scuola di musica» sbuffò
Twelve, levando la polvere. «Guarda che roba! E che cos’è,
questo, un violino? E funziona?»
«Sì sì, ma non hai ancora visto niente. Di qua.»
Mathias la guidò in mezzo al ciarpame, seguendo un
sentiero di impronte di scarpe ben visibili nello strato di
sporco del magazzino.
«Vieni spesso qui, eh?»
«Quasi tutte le notti. Ecco. Guarda.»
Twelve guardò.
E vide, davanti a lei, le spalle di un uomo con la testa
scoperchiata, curvo sopra una scrivania ingombra di
macchinari.
«Oddio…» esclamò, prima di accorgersi che l’uomo non era
un uomo, ma un golem, e che faceva parte del mobile a cui
sembrava seduto, come il mezzo busto di una statua. Si
avvicinò, in silenzio, per osservarlo. Illuminata dalla luce
della lanterna, la testa aperta del golem mandò i riflessi di
numerose lamine d’oro, una accanto all’altra. Il resto del
corpo era come quello di un uomo, con il viso lucido e gli
occhi spenti, spalle grandi e braccia che tenevano le mani
posate al piano della scrivania. Solo che non era una
scrivania, ma un piano di lavoro ingombro di indicatori, leve,
bottoni, valvole e manopole. Al posto delle gambe del golem
c’era un blocco unico che si appoggiava a terra e si collegava
poi con un tubo al piano di lavoro.
«Che… cos’è?» domandò Twelve, vagamente intimorita da
quell’esercito di bottoni.
«Non toccare!» esclamò Mathias. «È un golem calcolatore.
Una volta ne ho visto uno in un libro. Venivano usati qualche
tempo fa per i compiti più difficili… Memorizzare dati, fare
calcoli, elaborare progetti, cose di questo tipo.»
«Ora non più?»
Mathias alzò le spalle. «Credo che sia diventato lentissimo,
ormai. E che i nuovi golem possano fare la stessa cosa senza
aver bisogno di tutto questo spazio… Ma ai suoi tempi
doveva essere un vero e proprio gioiellino.»
Picchiettò con affetto la testa metallica del golem.
«Ecco la buccia di cipolla» mormorò Twelve, guardandoci
dentro.
«Bella, eh?»
«E tu stai cercando di capire come funziona?»
«Si può dire che ci sono riuscito! Guarda qua!»
Mathias afferrò una chiave di metallo abbandonata sulla
scrivania, come quelle per caricare i giocattoli a molla. Infilò
il perno in un buco esagonale nel centro della schiena del
golem e iniziò a girare. Una. Due. Tre volte.
«Dovremmo esserci» decise, sfilando la chiave. «Buonasera,
Lorenz!»
«Buonasera, Mathias» rispose il golem con voce metallica.
A Twelve si rizzarono i peli della nuca. «Ehi, ma…parla!»
«Certo che parla! Lorenz, ti presento la mia amica Twelve.»
«Buonasera, signorina Twelve.»
«B-b-buonasera…»
«RISPOSTA-NO» disse il golem.
«Come?»
«Se balbetti, non ti capisce. Riprova.»
«Buonasera, Lorenz!»
«Buonasera, signorina Twelve. Posso esserti utile?»
«Chiedigli che ore sono» bisbigliò Mathias.
«Che ore sono?»
«Mancano dodici minuti all’una» rispose Lorenz.
«Ta-tan!» disse Mathias.
«Cosa, ta-tan? Mi ha solo detto l’ora.»
«Dici così perché non sai com’era conciato Lorenz quando
l’ho trovato qui la prima volta. Non si accendeva nemmeno.
Poi, quando sono riuscito a farlo funzionare, si rifiutava di
obbedire a qualsiasi comando, perché la sua programmazione
di base lo obbligava ad ascoltare solo i professori. Così l’ho
aperto e… be’, sono andato per tentativi…»
Le mostrò alcune lamine dorate, appoggiate su un lenzuolo
macchiato accanto al golem.
«E adesso ti ubbidisce?»
«Più o meno. Ma ci sono dei buchi nel Linguaggio, per cui
ci limitiamo a semplici istruzioni, nell’attesa di capirci
qualcosa di più…»
«E come pensi di riuscirci?» chiese Twelve.
«Avrei bisogno di conoscere tutto il Linguaggio di base. Se
ne esistesse un testo e potessi studiarlo, magari potrei…
disattivarlo, ricomporlo, dargli un Linguaggio diverso e a
quel punto sarebbe completamente al nostro servizio.»
«E non c’è modo di recuperare questo Linguaggio?»
«Come no. È una vera sciocchezza.»
«Vale a dire?»
«Il responsabile dei golem è Luther. Ho fatto qualche
indagine, e sono giunto alla conclusione che se c’è un
manuale di Linguaggio per golem si deve trovare in una
cassaforte segreta del suo ufficio.»
«Sei sicuro, o stai solo immaginando?»
«Suppongo che sia lì dentro, non sono sicuro che la
cassaforte ci sia. Ma è una Zita. Una cassaforte di cui hanno
realizzato solo diciotto versioni, una diversa dall’altra. Un
modello così esclusivo che Sputo non l’aveva neanche mai
sentita nominare. Capisci? Non c’è modo che uno del primo
anno riesca a scassinare una cosa del genere.»
«Neanche Sputo?»
«Gliel’ho già chiesto. Se non può lui, non può nessuno.»
Già, pensò Twelve. Se Sputo diceva che non ci si poteva
riuscire, doveva essere vero.
A meno che, naturalmente…
«A cosa stai pensando?» le domandò Mathias, vedendo che
Twelve aveva cambiato all’improvviso espressione.
«A niente» rispose. «Dico davvero. Torniamo in camera,
prima che se ne accorgano tutti?»
Se Sputo non ci poteva riuscire, forse c’era qualcuno che
avrebbe potuto farlo, pensò Twelve, mentre seguiva Mathias
nella soffitta.
Ma lei non aveva la minima intenzione di chiederglielo.
Nonostante il diversivo di Mathias, Twelve si infilò nel letto
con una sensazione di pesantezza nel cuore che non aveva
mai provato. Aveva sempre pensato che fosse davvero
scomodo dormire di traverso per schivare i calcetti di Ninon,
ma mai che, da sola, fosse impossibile. Si sentiva vuota e
triste. E più che addormentarsi si arrese alla stanchezza,
popolando i suoi sogni di golem, acidi e ragazzini avvelenati.
Si svegliò di soprassalto meno di un’ora dopo, avvertendo
una presenza accanto a lei.
«Che succede?» sussurrò con voce strozzata, senza
muoversi.
«Sono io, Ninon» disse la bambina. E subito dopo le si
strinse contro, raggomitolandosi come un gattino. «Mi sono
svegliata e tu non c’eri e ho avuto paura e sono venuta a
cercarti.»
«Hai fatto bene» sussurrò Twelve, torpida, domandandosi se
fosse ancora addormentata, oppure no. «Io sono qui, qui per
te, e ci sarò sempre.»
«Non sono più arrabbiata.»
«Nemmeno io. E se vuoi seguire le lezioni con me, puoi
farlo. Ci andremo insieme.»
«Davvero?»
«Sì. E non solo. Ho trovato una cassaforte che nessuno è
mai riuscito ad aprire. Se ti va e mantieni il segreto, uno di
questi giorni ti porto lì, e tu provi ad aprirla.»
«Oh sì» esclamò Ninon. «Mi piacerebbe moltissimo.»
Era tiepida, Ninon, profumava di sapone, e mentre parlava
teneva gli occhi chiusi.
«Dormiamo, Twelve?»
«Sì» rispose lei. «Sì, tesoro mio. Adesso dormiamo.»
9
LA POZIONE PLACIDIA
ei tornata.»
Mugaba aprì la porta dell’infermeria. Era dipinta di rosso,
mezza scrostata, e la scritta aveva perso tre lettere: INFER IA.
Twelve sgusciò all’interno e notò che c’era una persona
distesa su un lettino.
«Posso aspettare qui, se…»
«Tanto vale che iniziamo subito. Per prima cosa vai a lavarti
le mani, mettiti un camice e poi raggiungimi là in fondo.»
Le indicò un lavandino d’acciaio e le raccomandò di pulirsi
con cura. Twelve indossò il camice appeso al muro e seguì il
dottore fino al lettino, dove era distesa un’Acrobata del
quinto anno, con gli occhi a mandorla e i capelli neri. Era
piccola, compatta, con braccia e gambe così lunghe che la
facevano assomigliare a un insetto.
«Vi conoscete?» domandò Mugaba.
«Come no» rispose la paziente, guardando Twelve con
sospetto. «Sei la Spazzacamino che ha provato a scappare…»
«Benissimo. Ora è la mia nuova assistente. Twelve, lei è
Spider.»
Twelve cercò di non guardare troppo a lungo il volto pallido
della ragazza, quasi non volesse violare la sua intimità.
«Allora Spider, come ti senti?» le chiese poi il dottor
Mugaba.
«Sono sempre stanca, dormirei tutto il giorno» rispose la
ragazza. «L’altro ieri ho rischiato di cadere giù dalle reti del
covo e di farmi triturare. E oggi da Zefirotti non sono
praticamente riuscita a correre perché mi mancava il fiato.»
«Uh-uhm» mormorò Mugaba. «Twelve, passami lo
stetoscopio.»
La ragazza si affrettò a obbedire. L’imbarazzo iniziale
scemò rapidamente, e così le parve anche per Spider. Il dottor
Mugaba era calmo e freddo al tempo stesso, in un certo senso
rassicurante. Le auscultò il petto e la schiena, le controllò le
unghie e le massaggiò mani e piedi.
«Va bene» concluse. «Il ciclo è regolare?»
«Sì, però… ho una cosa grave?»
«Non direi. Secondo me è solo un po’ di anemia, ma per
esserne sicuro dovrò farti un esame del sangue. Twelve,
portami il carrellino con le siringhe.»
Twelve osservò Mugaba disinfettare il braccio di Spider,
pungerlo con delicatezza con una siringa dal manico di
ciliegio, riempire una fiala di un liquido scuro e denso,
disinfettare di nuovo e poi congedare la paziente,
consigliandole di mangiare carne per cena. Infine si stiracchiò
soddisfatto. «Come ti è sembrato?»
«Interessante» rispose Twelve.
«E non ti ha fatto impressione? Gli aghi, il sangue, le vene?
No? Direi di no. Meglio così. E ora vieni con me.»
Il dottore la accompagnò nella stanzina dei laboratori, a
metà strada tra l’ambulatorio e il deposito dei medicinali. Era
più che altro uno sgabuzzino, dove erano state stivate alcune
grandi apparecchiature di ottone e un paio di magnificatori
d’immagine a vetrini.
«Sai che cosa sono i globuli rossi?» domandò.
Era la prima volta che Twelve sentiva quel nome.
«Sono come delle minuscole frittelle che si trovano dentro il
tuo sangue» spiegò Mugaba. «Sono molto importanti perché
trasportano l’ossigeno. Se ce ne sono pochi, ci si può
ammalare di una malattia che si chiama anemia.»
«Quella che ha Spider?»
«Quella che forse ha Spider. Ma per saperlo con certezza
dobbiamo contare i globuli rossi.»
«E come si fa?»
«Negli ospedali di Danubia ci sono macchinari che lo fanno
in un secondo, ma qui da noi lo faremo a mano, con un
magnificatore d’immagine o, se preferisci, un microscopio.»
Mentre parlava, Mugaba trasferì una goccia del sangue di
Spider sopra un vetrino disegnato a reticolo e lo sistemò sotto
il becco d’ottone del microscopio. Poi indicò a Twelve l’altra
estremità, dove si trovavano due ottiche da regolare.
«Dai un’occhiata qui. Li vedi quei corpuscoli rotondi?»
«Sì!» rispose Twelve, dopo qualche tentativo. «Sono i
globuli rossi?»
«Appunto.»
«E cosa devo fare?»
«Contali» disse Mugaba. «Scegli un quadrato del retino e
conta quanti globuli ci vedi dentro, poi scegli un altro
quadrato e fai la stessa cosa. Man mano che conti, io sarò qui
per scrivere i numeri che mi dici e fare un po’ di calcoli. E
alla fine sapremo se Spider sta bene o no. Tutto chiaro?»
«Credo di sì» rispose Twelve, che non era sicura di aver
capito proprio tutto.
«Provare è il miglior modo per imparare! Forza,
cominciamo.»
Le giornate con il dottor Mugaba fecero all’improvviso
sentire Twelve una scienziata, un’allieva dell’Accademia dei
Soccorritori con il camice e l’aria rispettabile, lontana anni
luce dalla ragazzina che doveva diventare esperta di furti,
truffe e intrighi. A mano a mano che i giorni passavano, non
vedeva l’ora di ricavare una o due ore per scendere
nell’infermeria di Mugaba e, mentre stava là sotto a fare da
assistente, a disinfettare strumenti e arrotolare garze, si rese
conto che quel lavoro le piaceva davvero. Le piaceva la
concentrazione che serviva per contare i globuli al
microscopio, la precisione con cui Mugaba annotava i numeri
e le spiegava i calcoli necessari, lo spirito curioso con cui il
dottore metteva a frutto la propria intelligenza per scovare i
sintomi di una malattia e cercare di guarirla.
Spider aveva davvero l’anemia, e la cura per lei furono
alcune pasticche di ferro e una dieta più bilanciata. Poi
visitarono Antara che temeva di essere incinta (e non lo era),
Birnoff che si era slogato una spalla dopo una caduta di gioco
e Allyster che aveva una brutta infezione al dito di un piede.
Il dottor Mugaba rincuorò la prima, bendò stretto il secondo e
diede un ritrovato alchemico al terzo, dopo aver raccolto un
vetrino di pus da analizzare al microscopio. E fu così che
Twelve vide, per la prima volta, una coltura di batteri.
Qualunque cosa succedesse in infermeria, Twelve era
vincolata a tenere il massimo riserbo, pena il termine del suo
apprendistato. E lei tenne la bocca chiusa, senza fatica: era
brava con i segreti.
Più passavano i giorni, più i professori intensificavano le
lezioni. I ragazzi capivano che c’era qualcosa nell’aria, ma
tutta la concentrazione di Twelve era per il dottor Mugaba e
le cose che le faceva imparare.
Due settimane dopo la sua prima visita, lei e il medico si
attardarono nel laboratorio fino quasi all’ora di cena. Quando
se ne accorse, il dottor Mugaba si scusò con Twelve, le porse
una boccetta alchemica e disse che doveva lasciare subito il
laboratorio, per un impegno che non precisò. La invitò a fare
altrettanto non appena avesse finito le analisi della Pozione
Placidia che le aveva chiesto di preparare. Era molto simile
all’acqua zuccherata, aveva scoperto Twelve con stupore, e il
professor Mugaba non ne era rimasto per niente sorpreso.
Alcuni dei cosiddetti rimedi alchemici, aveva detto, non sono
reali medicine, ma funzionano perché le persone credono che
lo siano.
Poi si era sfilato il camice e, poco prima di uscire, aveva
consegnato a Twelve la boccetta della pozione antinomica di
Ninon. «Questo è il tuo ultimo compito di oggi: dagliene
dieci gocce prima di sera. Oggi Mister Peele non gliel’ha
somministrata con il pasto.»
«Dieci gocce» ripeté Twelve. Poi cercò di ricordarsi quante
gliene avesse date lei, il giorno successivo alla rivolta degli
studenti. Di più, di meno?
«E riporta qui la boccetta, dopo. Mi raccomando.»
Il dottore se ne andò a sbrigare le sue faccende e Twelve
rimase sola nel laboratorio, con la boccetta di antidoto in
mano e un ventilatore che ronzava nell’angolo sopra la sua
testa.
La pozione antinomica.
Aveva fatto tanta fatica per procurarsene un po’, e ora ne
possedeva un’intera boccetta. Quanti giorni poteva significare
senza dipendere dall’antidoto? Trenta? Quaranta? Abbastanza
per scappare e racimolare il denaro sufficiente a comprarne
dell’altro? Twelve non lo sapeva. E non poteva rischiare. Ma
se solo fosse riuscita a garantire a Ninon un anno fuori di lì…
avrebbe cercato nuovamente di andarsene. Ripensò a quanto
si erano appena detti con il dottor Mugaba, e guardò
controluce la pozione antinomica. Era limpida e chiara come
l’acqua. Doveva essere una sostanza molto complicata da
produrre, ma forse poteva riuscirci anche lei. Agì prima
ancora di formulare del tutto quel pensiero: sfilò dal
microscopio la Pozione Placidia, prelevò un po’ della pozione
antinomica con un contagocce e la versò su un vetrino,
allineandolo poi sotto la lente del microscopio.
Accostò gli occhi al visore.
Regolò le levette e le rotelle.
Poi distolse lo sguardo, si stropicciò gli occhi e tornò a
guardare. Controllò di aver posizionato il vetrino giusto.
«Non è possibile» disse.
Riprovò da capo, con un altro vetrino e un altro campione.
«Non è possibile» ripeté.
Rimise sotto le lenti la Pozione Placidia, la miscela
calmante di acqua e zucchero, e fece il confronto.
Le sembrarono assolutamente identiche. Possibile che
l’antidoto al veleno di Ninon fosse un semplice calmante?
Twelve rimise ogni cosa al suo posto, e intanto cominciò a
formulare una serie rapidissima di teorie. Forse il dottore le
aveva dato la boccetta sbagliata? Eppure l’etichetta sulla
boccetta non mentiva: Pozione antinomica. Magari… doveva
avvertirlo? O era stato lui ad avvertire lei? L’aveva lasciata
appositamente da sola nel laboratorio perché scoprisse che il
famoso antidoto… non esisteva?
E quindi non esisteva nemmeno il veleno?
Possibile che Luther non avesse mai avvelenato Ninon, ma
avesse soltanto finto di farlo? E che Twelve fosse cascata nel
più semplice dei tranelli?
Più ci pensava, più si convinceva che fosse probabile. E
c’era un solo modo per scoprirlo: se il sangue di Ninon era
avvelenato, avrebbe dovuto vederlo nel microscopio. E se
non lo era… perché il dottor Mugaba aveva voluto che lei lo
scoprisse? Forse perché era in disaccordo con Luther, così
come lo era stato con la decisione di far caricare lei e i suoi
compagni dai golem?
O più semplicemente voleva che Twelve sapesse che poteva
fuggire?
La ragazza si affannò a sistemare ogni cosa, prese in prestito
una piccola siringa con il tappo di ottone e un batuffolo
imbevuto di disinfettante, e poi corse via, veloce, fino in
soffitta. Il covo degli Spazzacamini era deserto, perché erano
già tutti a cena, naturalmente. Tutti, tranne Ninon. La
bambina le corse incontro, felice che Twelve avesse già
terminato di cenare.
«In realtà non ho ancora iniziato, ma non ho molta fame.
Come stai, Ninon? Mister Peele ti ha già portato la cena?»
«Certo.»
«E l’hai mangiata?»
«Sì.»
«E come ti senti?»
«Benissimo. Perché?»
«Splendido. Ascolta una cosa, però: devo farti un
piccolissimo controllo. È una cosa da niente, pizzica un po’,
ma me l’ha ordinato il dottor Mugaba. Ecco, da brava, dammi
il braccio e girati, non guardare.»
«Mi fai il solletico, Twelve!»
«Occhi chiusi, ho detto… Brava, così. Ora sentirai un po’
male, ma…»
Con il cuore che le batteva a mille per la paura di sbagliare,
Twelve infilò l’ago della siringa nel braccino di Ninon, e
quando la bambina sussultò e gridò “Ahi!” si sentì morire.
Ma non si fermò.
«Twelve!» singhiozzò Ninon.
«Ho quasi finito!» rispose lei, trattenendo il fiato. Vide
arrossarsi l’interno della siringa e subito la sfilò,
massaggiando di nuovo il braccio con il cotone disinfettante.
«Ecco fatto!»
«Posso guardare?»
«Certo!» rispose Twelve, nascondendo la siringa.
«Mi ha fatto malissimo!» protestò Ninon. «E c’è un
buchino, sul braccio! Guarda! Sta diventando tutto viola!»
«Lo so, scusami, ma… è un controllo importante. E tu devi
stare molto attenta, adesso: se per qualsiasi motivo dovessi
sentirti strana, devi dirmelo subito. Qualsiasi cosa: un po’ di
mal di pancia, o alla testa… D’accordo?»
«Mi fa solo male il braccio.»
«Sì, ma il braccio non importa. Se però senti qualcosa di
diverso, anche solo una sciocchezza, avvertimi. Me lo
prometti?»
«Va bene, te lo prometto. E adesso giochiamo?»
«Giochiamo» disse Twelve.
E giocarono. Loro due, nell’immensità vuota della soffitta.
A palla, a rincorrersi, a dondolare dalle funi che penzolavano
dalla trave centrale del soffitto. A disegnare filastrocche sui
muri, infilandole in mezzo al labirinto di scritte che gli altri
Spazzacamini avevano tracciato sulle stesse pareti nel corso
degli anni.
Mentre giocava, Twelve sbirciava Ninon e controllava
l’orologio. Erano più di ventiquattr’ore che non prendeva
l’antidoto. E rideva, correva, era il ritratto della salute.
Twelve ripensò a tutto quello che aveva fatto per procurarsi
una medicina per lei. Un antidoto a un veleno che non era
mai esistito.
L’avevano presa in giro.
L’avevano sempre presa in giro.
E più ci pensava, più era convinta che Mugaba avesse
orchestrato quella scoperta per aiutarla: l’aveva invitata in
infermeria, le aveva insegnato a preparare un vetrino e usare
il microscopio, infine le aveva dato l’incarico di
somministrare l’antidoto a Ninon. Voleva che sapesse.
E adesso che sapeva, però, cosa doveva fare?
«Salta» le disse Lupo, dalla botola che conduceva alla sua
stanza.
Twelve smise di correre e si girò per vedere da dove avesse
parlato. Era in cima alle scale di corda, con i vestiti fradici e,
a giudicare dalla pozza che aveva lasciato sul pavimento,
avrebbe potuto essere stato lì a guardarle da chissà quanto
tempo.
«Che ci fai, lassù?» gli domandò, ansimando per la corsa.
«Sorveglio il mio branco.»
«Non sei andato a mangiare?»
«Tu cosa dici?»
«Dico che non sono affari miei.»
«Vedi? Cominci a imparare anche tu come ci si comporta
tra gli Spazzacamini…»
«Ma dico anche che sei andato sui tetti, o comunque fuori,
perché hai i vestiti tutti bagnati. E sta piovendo» continuò
Twelve.
Lupo scese dalle corde e si scrollò selvaggiamente i capelli.
«Dici che dovrei cambiarmi, prima di scendere?»
«Forse no. Dopotutto, sei il capo.»
«Come sta andando, con l’Ordador? Hanno già cominciato a
farvi fare delle prove?»
«Non ancora.»
«Ma tu sai cosa devi fare, no?» C’era una strana energia,
negli occhi di Lupo. Erano arrossati, come se avesse pianto, o
li avesse irritati in qualche modo, e trasudavano un ardore
malinconico che Twelve aveva già visto in lui qualche volta,
ma che da mesi non scorgeva più. Sembrava scosso e
soddisfatto allo stesso tempo.
«È successo qualcosa?» gli domandò.
«Ho avuto il mio solito problema sentimentale» rispose lui,
del tutto inaspettatamente.
«Mia?» azzardò Twelve.
Lupo rise. «No, povera Mia! Lei non c’entra. Anche se
vorrebbe, ma non c’entra.»
«Non dovresti trattarla così. Ti vuole molto bene.»
«Ah, davvero? E da cosa l’hai capito?»
«Si irrigidisce ogni volta che parli con un’altra ragazza. E
mi odia, quando rimaniamo soli io e te.»
«Ora, ad esempio, siamo soli io e te.»
La pioggia batteva forte sul tetto della soffitta e Lupo
esitava, come se fosse stato sul punto di dire, o di fare,
qualcosa. Twelve non sapeva se augurarselo o averne paura,
ma poi il momento, qualunque momento fosse, passò.
Sentirono urlacchiare Ninon da qualche parte tra i cuscini e
Twelve le fu grata di quell’interruzione. «Non esattamente
soli, direi…»
Anche Lupo sorrise, divertito da quel frugoletto che
sfrecciava per la soffitta.
«Ecco la nostra piccola scassinatrice» disse.
«Oggi sono stata da Mugaba a dargli una mano in
infermeria.»
«Me l’hanno detto. Mi sembra una buona cosa.»
«Sono convinta che Luther non abbia mai avvelenato
Ninon.»
Lupo fece una strana smorfia, come se Twelve se ne fosse
appena uscita con la sciocchezza del secolo. «Che stai
dicendo?»
«Che il famoso antidoto che le diamo tutti i giorni è poco
più che acqua zuccherata. E guarda come salta: non le ho
ancora dato niente.»
«E perché l’avrebbero fatto?»
«È piuttosto semplice, non credi?»
«Sì» ammise Lupo. «Cosa pensi di fare?»
Twelve sorrise, senza guardarlo.
«Essere sicura che sia così. E poi scappare.»
Lupo annuì.
«Ha senso. È quello che hai sempre voluto fare. E porterai
via anche Ninon?»
«Certo che sì» disse Twelve. «E magari anche te, questa
volta.»
«Perché io?»
«Perché odi questo posto. Perché sei già scappato una
volta.»
Lupo gocciolò sul pavimento, zitto e muto, per un tempo
che parve interminabile.
«No.»
«Come?»
«Ho detto no. Io non posso. Se volete andare, benissimo,
cercherò di aiutarvi in ogni modo. Ma non verrò con voi.»
«Posso sapere perché?»
La voce di Twelve era strozzata.
«L’hai appena imparato, ricordi? Ci sono cose che non ti
riguardano.»
«È per via di Amaryllis?» insistette Twelve. Al che Lupo
scattò come una tagliola. «Non pronunciare quel nome. Non
in serate come questa» la minacciò.
Ma Twelve non si fece intimorire, e anche se non sapeva
assolutamente niente di cosa fosse accaduto ad Amaryllis,
replicò con foga: «Io non lo so cosa le abbiano fatto i
professori, Lupo, ma forse c’è una possibilità che non sia
come credi. Forse hanno ingannato anche te, solo per tenerti
qui dentro e… Lupo?… Lupo!»
Lupo l’aveva afferrata per le spalle e l’aveva sollevata da
terra, stringendola fino a farle male. «Non parlare delle cose
che non sai. Non puoi capire cosa significhi amare qualcuno
che vedi ancora e che nonostante tutti i tuoi sforzi rimane
irraggiungibile.»
«Lupo… io… non volevo… mi fai male, ora, mi stai
facendo male!»
«Vuoi andare via, Twelve?» le disse lui, con voce
terribilmente calma. «Allora farò in modo che tu possa
andare via!»
Poi la lasciò scivolare a terra e si allontanò, barcollando,
verso la Moehringer.
«Tu sei pazzo, Lupo» singhiozzò Twelve, massaggiandosi i
polsi. «Tu sei semplicemente pazzo.»
«Ormai credo di sì, Twelve. Per questo fai bene a volertene
andare. L’unica cosa che ti chiedo, però, se ci riuscirai, è di
dimenticarti di me, chiaro? Sparisci. Non voglio vederti mai
più.»
10
PRIGIONIERA!