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Twelve

è diventata forte.
Da quando è un’allieva dell’Accademia dei Ladri, è riuscita
a sopravvivere a tutte le prove. Ha sopportato la diffidenza
degli altri studenti e la crudeltà dei professori, ha resistito
all’isolamento nella Quarantena ed è sfuggita agli Ussari che
hanno imprigionato Arthur. E lo hanno condannato a morte.
Twelve è sempre più decisa a fuggire da quella scuola
terribile, e a portare con sé la piccola Ninon. Per riuscire
nell’impresa, però, avrà bisogno dell’aiuto dei suoi amici,
Sputo e Mathias, e dell’appoggio di Lupo, il tenebroso
capobranco della confraternita degli Spazzacamini.
Ma scappare non è così facile, e mentre elabora il suo piano,
Twelve dovrà affrontare anche una nuova sfida.
I professori infatti stanno organizzando un furto spettacolare
e, per questo, hanno deciso di riunire una squadra di ladri
sceltissimi: l’Ordador.
E Twelve sarà chiamata a farne parte…
Amelia Drake Della vita di Amelia Drake abbiamo pochi
dettagli e nemmeno una foto, anche se l’autrice racconta di
non essere molto alta e di avere i capelli neri e un tatuaggio a
forma di lacrima alla base del collo.
Amelia ama i libri, tanto che nel piccolo appartamento dove
vive ne ha accumulati più di diecimila. Scrive usando una
penna stilografica d’ottone che si è costruita da sola, e
conosce il linguaggio segreto dei ladri. Ha lavorato per molto
tempo come cameriera in un ristorante di lusso, e mentre
preparava i tavoli ha sentito di dover raccontare una storia:
quella di Twelve e dei suoi amici, e della Diciannovesima
Accademia.
Questo è il terzo libro delle avventure di Twelve
all’Accademia dei Ladri.
© 2016 Atlantyca Dreamfarm s.r.l., Italia
Per l’edizione italiana
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli, Milano
Prima edizione Narrativa novembre 2016
Testo di Pierdomenico Baccalario e Davide Morosinotto
Progetto e realizzazione editoriale: Atlantyca Dreamfarm s.r.l., Italia
Collaborazione grafica: Daniela Bordini e Benedetta Galante
Diritti internazionali © Atlantyca S.p.A.,
via Leopardi 8 – 20123 Milano
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eISBN 978-88-58-69172-4
Illustrazione di copertina:
Vincenzo Lamolinara/Nucco Brain Studio Ltd
www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
1
L’USSARO CON IL
CAPPELLO GIALLO
-g-gran bella giornata, eh?» esclamò
lo sconosciuto sedendosi sulla panchina, di fianco al soldato.
Rimasero lì, uno accanto all’altro, nella quiete dei Giardini
Reali.
Seventy Stephen non indossava la sua divisa da Ussaro, il
corpo di guardie scelte del re in cui era stato arruolato,
mentre lo sconosciuto era avvolto in un mantello giallo con il
bavero alzato e portava un cappello a cilindro dello stesso
colore. Quando si era seduto, prima ancora di iniziare a
parlare, Stephen aveva pensato che fosse un qualche
esponente religioso, un Gaudente o un Sacerdote del Sole.
Invece sembrava solo qualcuno in vena di fare conversazione.
Il giovane soldato posò le mani sul pacchetto rosa della
pasticceria Cocotte che teneva in grembo, come per impedire
al profumo di meringhe di volare via.
«A vo-vo-volte sarebbe bello essere invisibili, non pe-
pensi?» riprese lo sconosciuto. «Però ti ri-rimane sempre
questo ca-cattivo o-o-odore.»
«Veramente sono le migliori meringhe della città» sbottò
Seventy Stephen.
«E per chi-chi sono, se po-posso chie-chiedere? Sta-stai
aspettando la tua fi-fidanzatina?»
«Non ce l’ho, una fidanzatina» lo seccò Stephen. Poi
indugiò con lo sguardo sul lungo viale fiancheggiato da
cespugli di mirto, perfettamente tosati in forma di coni e
piramidi, sino alla fontana che zampillava in fondo. L’acqua
disegnava minuscoli arcobaleni sopra i gradini di marmo
bianco. «Non più, almeno.»
«Oooh… Ha-ha sce-scelto un altro cavaliere? O fo-forse sei
stato tu a…»
«Sono stato io a fare cosa?» lo interruppe Stephen, brusco,
stupendosi per primo di tanta foga. Aveva scambiato quella
semplice frase per un’insinuazione che era andata a colpire
dritto nel profondo dei suoi tormenti. Impiegò alcuni istanti
per ricordarsi che nessuno poteva sapere cosa fosse successo
tra lui e Twelve, la ragazza a cui aveva dichiarato il suo
amore per poi tradirla, e che quanto stava accadendo su
quella panchina era frutto di un incontro casuale, per quanto
bizzarro.
«Mi scusi» mormorò subito dopo. «Non volevo essere
sgarbato.»
Pensò che a quel punto si sarebbe alzato, avrebbe salutato
con un inchino marziale il tizio vestito di giallo e sarebbe
tornato in Accademia, e di lì in prigione, per il suo turno di
guardia alla cella numero 67.
Ma lo sconosciuto lo prese in contropiede, quando replicò:
«Non devi scu-scusarti con ne-nessuno: quando ci si po-porta
dietro l’odore degli o-o-orfani ci si sente se-sempre sotto a-a-
attacco…»
Stephen provò un lungo brivido a quelle parole, nonostante
il pallido sole primaverile, dello stesso colore dell’aglio, che
batteva sui giardini e faceva rilucere le stecche di ferro delle
panchine. Perché era tutto vero: Stephen era uno degli orfani
dell’Istituto per Ragazzi Speciali Edgar G. Stanislao Moser.
Ed era al suo primo giorno di libera uscita, l’unico che si
fosse concesso da quando, insieme agli altri orfani della sua
annata, aveva lasciato l’istituto per seguire i precetti
dell’Accademia degli Ussari. Era da quando aveva messo il
naso fuori dal portone – il suo naso lungo e appuntito, che
Twelve aveva spesso preso in giro, dicendo che lo si sarebbe
potuto usare per tagliare il burro o appenderci le luminarie di
fine anno – che si era sempre sentito sotto osservazione,
come uno straniero per le vie della città, come un naufrago
perduto in un mare di gente. Come quel prigioniero sotto la
luce cruda della sala degli interrogatori, nudo e brancolante.
Aveva un solo indirizzo, scritto su un foglietto spiegazzato e
cacciato in fondo alla tasca dei suoi unici pantaloni per la
libera uscita. Pasticceria Cocotte, si leggeva su quel foglietto,
e, più sotto, meringhe. Le meringhe di Cocotte erano la cosa
più buona del mondo, aveva detto il prigioniero mentre
Stephen gli faceva da piantone fuori dalla cella. L’unica che
gli sarebbe davvero mancata, una volta che l’avessero
impiccato in piazza degli Innocenti.
«Chi sei?» domandò Stephen allo sconosciuto,
concedendosi di guardarlo con più attenzione. Il suo cappotto
sgargiante era logoro nelle cuciture e con i bottoni tutti
diversi, mentre dall’orlo rosicchiato dei pantaloni spuntavano
pesanti scarponi militari.
«U-u-no che ha il tu-tuo ste-stesso odore, a-a-amico mio»
rispose lo sconosciuto, sollevando la tuba gialla quel tanto
che bastò a Stephen per riconoscere i suoi occhietti aguzzi.
Il giovane Ussaro credette che la scatola di meringhe gli
sarebbe caduta a terra, ma riuscì a trattenersi dallo scattare in
piedi e afferrare il suo spadino. Anche perché non ce l’aveva,
quel giorno, attaccato alla cintura.
«Non è possibile!» esclamò. «Tu… sei morto! Io… sono
venuto al tuo funerale. Al tuo e a quello di tutti gli altri!»
Non disse il nome di Twelve, né di Rebecca o di Ninon.
L’altro gli appoggiò sul braccio una mano inguainata in un
sudicio guanto da prestigiatore.
«Sono per Arthur, ve-vero? Le me-meringhe?»
«Rispondi alla mia domanda!» lo incalzò Stephen. «Tu sei
morto!»
«So-so-no co-contento che tutti pensino che sia mo-morto…
E i-in un ce-certo se-senso è co-così! So-sono morto, Ste-
Stephen… E p-poi sono to-tornato!»
«Con permesso, signore!» si affrettò ad alzarsi Seventy
Stephen. «Per un attimo l’avevo scambiata per un vecchio
amico, ma evidentemente ho preso un abbaglio…»
Era chiaro che lo stavano ingannando. Che lo sconosciuto
seduto accanto a lui non poteva essere Hugo Eight, il suo
compagno del Moser saltato in aria mentre raggiungeva la
sua Accademia di destinazione, nell’attentato del ponte
Delagrava. Così come non poteva aver detto quel nome,
Arthur, lo stesso nome che il prigioniero della cella numero
67 aveva sputato in una pozza di sangue, dopo che il
Maggiore lo aveva torchiato ore e ore per sapere chi fosse, e
chi si nascondesse dietro al colpo in cui lo avevano arrestato.
Dietro ad Arthur c’erano i Ladri. C’era la Diciannovesima
Accademia, quella di cui nessuno in città conosceva
l’esistenza. E c’era Twelve, che aveva creduto morta. “Ti
aiuterò. Te lo prometto” le aveva detto. E invece l’aveva
tradita.
«No-non fa-fare il so-so-lito zu-zuccone, Ste-Stephen»
continuò lo sconosciuto. «Non a-a-abbiamo molto te-tempo,
e se mi-mi a-agiti ba-ba-balbetto a-ancora di p-più, lo sai
benissimo…»
Stephen si fermò a metà del movimento con cui pensava di
smarcarsi dalla conversazione. Lo sapeva, sì, lo sapevano
tutti che Hugo balbettava di più quando era sotto tensione, e
lo agitavano apposta, quando volevano fargli uno scherzo. O
impedirgli di terminare una delle sue costruzioni, quelle
macchine assurde che non servivano mai a niente. Sì, quello
era senza ombra di dubbio Hugo Eight.
«Hai i-i-incontrato le a-a-altre?»
Il ragazzo fissò la scritta dorata di Cocotte sulla scatola di
cartone rosa, imbarazzato.
«Solo Twelve» rispose. «Ho visto solo Twelve.»
«E co-cosa ti ha detto?»
Stephen si morse il labbro, fino quasi a farlo sanguinare.
«Niente» mentì. «Non mi ha detto niente.»
Lo sconosciuto sospirò. «Sta-sta-stammi be-bene a sentire,
Se-Seventy. So-sono to-tornato per a-aiutarti. Vo-voglio dirti
le co-co-cose che n-non sai…»
«Hugo, devo tornare in Accademia, adesso.»
Nelle mani guantate di Hugo Eight apparve un minuscolo
flaconcino bianco, su cui erano incise due ali dorate. «Vo-
voglio a-aiutare te, Ste-Stephen… e A-Arthur, p-prima che lo
i-im-impicchino. Ti ho po-portato una cosa per lui. Una cosa
pi-piccola. Più pi-piccola di una me-meringa.»
2
LA CASA
DELL’IMPICCATO
vrebbero impiccato Arthur, ed era
tutta colpa sua. Twelve se lo ripeteva notte e giorno, quando
dormiva e quando era sveglia, ancora e ancora, senza riuscire
a pensare ad altro.
Avrebbero impiccato Arthur.
Ed era.
Tutta.
Colpa.
Sua.
Ogni tanto, soprattutto di notte, nei suoi pensieri si
affacciava anche il viso di Stephen e, per qualche istante,
Twelve era tentata di dare la colpa a lui. Al suo vecchio
amico. Al suo vecchio non-chiamiamolo-amore. Ma poi il
martellamento ricominciava esattamente nello stesso punto in
cui si era interrotto. Era stata lei a fidarsi di Stephen. E quindi
era. Tutta. Colpa. Sua.
Arthur non le era mai stato particolarmente simpatico.
Aveva sempre sfoggiato quell’aria da sbruffone, che si era
portato dietro dalle baracche oltre la Dogana e che lo
spingeva ad atteggiarsi a signorotto di campagna, con una
perenne smorfia supponente sul viso, malgrado indossasse
pantaloni di velluto stracciato. E d’altronde, Arthur era uno
dei Lord, e i Lord questo imparavano, se già non ce l’avevano
nel sangue.
Sapeva che Arthur l’aveva sempre presa in giro,
diffondendo pettegolezzi e graffiando insulti sui banchi di
scuola. Ma non meritava di morire. Non così, impiccato in
piazza degli Innocenti insieme ad altri criminali.
E, soprattutto, non meritava di morire per colpa sua.
«FSmettila, Twelve» la rimproverò Sputo, il volto pallido
appoggiato sui polsi ossuti. «Tu non c’entri niente. Arthur fsi
è fatto beccare. È fstata fsolo una gran fsfortuna, e bafsta.»
«Non si è fatto beccare» disse Twelve. «Sono stata io a
decidere il piano per tutti, e il colpo dall’armaiolo di Toledo
in cui l’hanno catturato.»
Si acquattò nella soffitta, al centro della bolla di luce della
lanterna. La tana degli Spazzacamini era immersa nel buio, e
la montagna di scarpe vicino alla grande porta blindata
Moehringer, le travi del tetto con le corde, le reti ingombre di
bigliettini, i mobili fatti con i tubi e le cassette della frutta, i
paraventi di coperte, gli abbaini, i vecchi materassi, insomma
tutto quanto li circondava, sembrava pericolosamente di
passaggio. Pronto a sgretolarsi da un momento all’altro.
Mathias e Sputo non dissero una parola. E nemmeno la
piccola Ninon, che appoggiò la testa alle ginocchia di Twelve
e continuò a dormire.
Anche Twelve era esausta, ma inseguiva il sonno senza
trovarlo. Doveva essere molto tardi, le tre o le quattro del
mattino, e dal grande oblò spalancato sulla soffitta si
insinuava una pennellata di nero che sfocava le luci della città
di Danubia e si udiva mormorare il fiume.
«Non dovresti sentirti in colpa» sbuffò Mathias. «Dopotutto,
questa è l’Accademia dei Ladri, non delle ballerine.»
«Avremmo potuto ballare in mille altri modi. Arthur voleva
rubare al banco dei pegni, vicino alle Periferie, ricordate? E
invece io… ho scelto il colpo più difficile di tutti.»
«Però è quefsto il bello di te» disse Sputo. «Che tu provi
fsempre le cofse più difficili.»
“Sai che soddisfazione” sembrava dire l’espressione di
Twelve mentre carezzava distrattamente il visetto di Ninon
addormentata. Sul suo collo era ancora visibile una piccola
cicatrice, che non sarebbe mai andata via del tutto. Ogni volta
che la guardava, Twelve ricordava la ferita che Luther aveva
inferto alla piccola per iniettarle un potente veleno. Se Ninon
voleva vivere, doveva prendere ogni giorno un antidoto
alchemico chiamato pozione antinomica, che poteva esserle
somministrato solo in Accademia. Era proprio per procurarsi
quell’antidoto che Twelve aveva scelto di derubare il più
famoso armaiolo di Danubia, la cui bottega era a pochi passi
dalla caserma degli Ussari: se ci fosse riuscita, i fratelli Zorba
le avrebbero dato sufficiente pozione da guarire Ninon per
tutta la vita. E allora Twelve, libera di portare con sé la
bambina, finalmente avrebbe potuto ritentare una fuga
dall’Accademia.
«Avete ragione» disse, riscuotendosi dalle sue riflessioni.
«Sapevo benissimo che era il colpo più difficile. Volevo
dimostrare di essere la migliore. E invece ho fallito…»
«Comunque sia, ora è tardi e dovremmo andare a dormire»
suggerì Mathias con uno sbadiglio. Poi guardò Twelve e
aggiunse: «Tu più degli altri. Lasciatelo dire, hai una
faccia…»
«Come una candela fspenta» disse Sputo.
«Voi non pensate ad Arthur?» chiese Twelve.
«Ci pensiamo eccome. Mi sento un nodo in gola…» rispose
Mathias. «Ma cosa possiamo farci? Dovrebbero essere i
professori a intervenire.»
«Luther dice che non si può fare niente» disse Twelve.
«E a te non va giù, vero?» domandò Sputo.
«Oggi è Arthur, ma domani? Potrebbe capitare a chiunque
di noi!» sbottò lei. «Ci insegnano a borseggiare, mendicare,
travestirci e scassinare le serrature per portare loro la
refurtiva, ma se poi veniamo presi? Ci finiamo noi, in piazza
degli Innocenti!»
«Ti è mai stato detto qualcosa di diverso?» si domandò
Mathias, luciferino, allontanandosi dal gruppo senza ascoltare
la risposta.
«No, ma a me non sta bene» gli gridò dietro Twelve. «Non
mi sta bene per niente.»
Rimase sola con Sputo e Ninon, addormentata in mezzo a
loro. Ascoltarono per un po’ la notte e infine il ragazzo senza
due denti ebbe il coraggio di domandare: «Hai qualche idea?»
Alla Diciannovesima Accademia le giornate si susseguivano
seguendo un calendario di lezioni che non ammetteva perdite
di tempo. C’erano giorni in cui bisognava arrampicarsi su
muri e torrette, giorni in cui si stava in aula a studiare, e altri
in cui ci si doveva travestire, liberare da manette e catene,
uscire di nascosto dalla scuola, in barca o a bordo del treno
sotterraneo, e diventare mendicanti, spie o ladruncoli di
strada. C’erano giorni in cui l’Accademia era avvolta nel
silenzio più totale, come da una coltre di nebbia. E altri in cui
si poteva sentire la reggente, Hortensia, allenarsi con i
gorgheggi o intonare un’aria famosa. Aveva una bella voce,
la preside, che echeggiava nel cortile annerito dal fumo, dove
un tempo sorgeva la sua serra, come se l’incendio, anziché
distruggere le sue amate piante, l’avesse liberata da un peso
che le impediva di cantare. Qualunque cosa si facesse, le tre
confraternite dell’Accademia – i Lord, gli Acrobati e gli
Spazzacamini – si ritrovavano ogni mattina nell’ampia stanza
comune, sotto l’immenso scheletro di una balena – o di un
drago, sosteneva Sputo. Tra le colonne che sostenevano la
volta c’erano i loro tre tavoli, abbelliti da tovaglie candide e
posateria d’argento rubata, come alla mensa del re.
Una decina di golem, dalla pelle d’argilla e gli occhi di
zaffiro, si aggiravano per il salone a passi lenti, facendo
ruotare qua e là i volti meccanici senza espressione, reggendo
vassoi pieni di latte caldo e succhi di frutta, cestini di pane
morbido, ciotole di marmellata e miele, uova sode in bilico
nei portauova dorati, frittate, torta di lamponi, aringhe, pesce
affumicato, pancetta e verdure al forno croccanti.
Twelve si accomodò al suo solito posto al tavolo presieduto
da Lupo, il capobranco degli Spazzacamini, e incrociò le
braccia. Osservò i suoi amici servirsi di ogni ben di Dio e non
mosse un muscolo.
«Tutto bene, Twelve?» le domandò Mia, seduta di fronte a
lei.
«Benissimo» rispose la ragazza, e lanciò un’occhiata a
Sputo. L’amico, con aria colpevole, si era servito un panino
all’olio.
«Non mangi?»
«No» rispose. «Sciopero.»
La notizia che Twelve non mangiava si diffuse rapidamente,
ma più come una sciocchezza che come una vera e propria
protesta. Lupo non la degnò della minima attenzione e si
limitò a ficcarsi più a fondo lo stuzzicadenti tra le labbra.
Un paio di golem ondeggiarono alle spalle di Twelve sulle
gambe sottili, si chinarono e le proposero dei dolci invitanti –
focaccia spolverata di zucchero e biscotti di nocciole – ma lei
rifiutò cortesemente.
E alla fine anche Sputo si rifiutò di fare il suo solito secondo
giro.
Fecero lezione come se nulla fosse accaduto: don Giacomo
con la sua conoscenza delle strade, Mister Cheng,
l’insegnante di Linguaggi Segreti, che li tediò due ore con un
laboratorio di crittografia asimmetrica, e infine fu la volta di
Madame Truffaut e del dottor Mugaba, che arrivò in classe
con una lezione sui veleni paralizzanti.
E poi fu l’ora di pranzo. Gli studenti del primo anno
scattarono come molle per precipitarsi alla mensa, e di nuovo
Twelve si sedette a braccia incrociate, senza toccare un
boccone. Le vennero in mente i giorni del Moser e le
bacchettate di Miss Kindheart, quando era vietato avanzare il
cibo e ogni cosa lasciata nel piatto le veniva riproposta il
giorno seguente, e quello dopo ancora.
Ci furono altri sussurri, un paio di gomitate, poi i ragazzi del
terzo anno spinsero la testa di Sputo nel piatto, prendendolo
in giro perché anche lui si rifiutava di mangiare.
Al pomeriggio si ritrovarono in palestra per l’ultimo
allenamento settimanale di palla prigioniera, lo sport ufficiale
dell’Accademia, nel quale Twelve era titolare della Squadra
delle Matricole. L’enigmatico Zefirotti, l’istruttore di
Acrobazie e Destrezze, si muoveva agile sulla punta delle
scarpette nonostante la mole da mongolfiera, e impartiva
ordini ai ragazzi. Solitamente Twelve era un’ottima centrale
d’attacco, ma quel giorno non riuscì ad acchiappare
nemmeno un pallone.
«Ragazzina!» strillò Zefirotti quando Twelve finì addosso al
suo compagno di squadra Igor, mandandolo a terra. «Si può
sapere dove hai la testa oggi?»
Fu Rebecca dei Lord a rispondergli. Rebecca Thirty-five,
anche lei del Moser: «Non ha testa perché non ha mangiato.
Sta facendo lo sciopero della fame.»
«Che sciocchezze!» bofonchiò Zefirotti.
Twelve si rimise faticosamente in posizione, ma Zefirotti le
indicò lo spogliatoio.
«Tu no, vai a cambiarti. Non mi servi a niente conciata
così.» Le lanciò una lunga occhiata e aggiunse: «E vedi
subito di mangiare qualcosa.»
Invece, a cena, Twelve proseguì con la sua protesta
silenziosa. I golem le sfilarono accanto con arrosto, zucchine
ripiene e una montagna di patate fumanti, ma lei rimase a
fissare il fondo del piatto immacolato.
«Ora basta» sbottò Lupo.
Fece alzare Lia e si sedette al suo posto, davanti a Twelve,
fissandola con i suoi inquietanti occhi gialli. La logora
camicia a scacchi era arrotolata fino al gomito, e i capelli,
ormai lunghi, sembravano elettrificati dalla rabbia.
«Parli con me?» domandò Twelve.
«Certo che parlo con te. Cos’è questa storia che non
mangi?»
«Lo faccio per Arthur» replicò Twelve. «Mancano due
giorni all’esecuzione, ma i professori non intendono fare
niente. Sembra che vogliano lasciarlo morire.»
Lupo non disse una parola.
«Potremmo provare a rapirlo, o a farlo evadere. Qualsiasi
cosa sarebbe meglio che starsene qui come se non fosse
successo niente» continuò Twelve.
Lupo stava per risponderle ma fu interrotto dall’avvicinarsi
di Eve, la caposquadra dei Lord, la ragazza più bella
dell’Accademia e probabilmente dell’intera città, con i capelli
raccolti sulla testa in una complicata acconciatura che le
lasciava scoperto il lungo collo da cigno. Il suo vestito senza
spalle color verde ottanio, tutto trine e merletti, metteva in
risalto le sue linee perfette.
«Mi dicono che hai iniziato uno sciopero della fame per
Arthur» disse, incombendo sul tavolo come una tentazione.
«Lascia perdere, Eve» ringhiò Lupo. «Non è una storia che
ti riguardi.»
«Mi riguarda eccome, invece. Arthur è uno dei nostri. È un
Lord. E noi lo vogliamo libero!» continuò Eve, alzando il
tono.
«Sì! Arthur libero!» gridò qualcuno dal suo tavolo.
«Arthur libero! Arthur li-be-ro! Arthur li-be-ro!» ripeterono
altri, battendo le posate sui bicchieri.
Diventò ben presto un coro, guidato dal tavolo dei Lord. E
poco dopo, sbucando da non si sa dove, forse da uno dei
passaggi segreti che si diceva fossero nascosti ovunque nel
salone, arrivò il professor Luther.
«Che succede qui?» sbottò, il volto e i capelli color del ferro
e una cicatrice che gli attraversava una guancia fino al mento.
«Piantatela!»
Ma i ragazzi continuarono a picchiare sui tavoli, a pestare i
piedi e a urlare il loro slogan. «ARTHUR LIBERO!
ARTHUR LIBERO!»
«Capisquadra!» gridò il professore, ed Eve, Lupo e Gobert
degli Acrobati fecero tacere le loro confraternite.
Poi Eve fece un inchino beffardo all’insegnante. «Professor
Luther, grazie di essere venuto. I Lord chiedono che
l’Accademia si organizzi per liberare Arthur prima
dell’esecuzione.»
«Che idiozia è mai questa?» sbottò Luther.
«Non è un’idiozia» disse Twelve. «È uno sciopero della
fame.»
Luther le scoccò un’occhiata di ghiaccio. «Tu… è una tua
idea?»
«È un’ottima idea» rimarcò Eve. «I Lord faranno
altrettanto.»
«Lupo?» bofonchiò Luther.
Il giovane dagli occhi gialli sputò lo stecchino a terra.
«Anche gli Spazzacamini.»
«E gli Acrobati!» esclamò Gobert, facendo cadere il suo
piatto.
In molti li imitarono, sotto lo sguardo indolente dei golem.
«Ragazzi!» tuonò Luther. «Basta con questa pagliacciata!
Arthur è rinchiuso nelle prigioni a fiore e nessuno, nessuno è
mai scappato dalle prigioni a fiore…»
«Dobbiamo almeno tentare!»
«Abbasso piazza degli Innocenti!»
«Libertà, libertà!»
«Ordinate loro di smetterla» sibilò Luther ai tre capi delle
confraternite. «O vi costerà cara…»
«E in che modo, professore? Non ci darete più da
mangiare?» replicò Twelve sottovoce.
«Sgombrate subito la sala» ordinò Luther, ignorandola. «E
presentatevi a lezione!»
«No» rispose Eve, e poi guardò Lupo e Gobert. «Io dico che
rimarremo qui dentro fino a quando non ci direte cosa volete
fare per salvare Arthur.»
«Sta bene» disse Gobert.
Lupo non disse una parola, ma non obiettò.
«Questa è una ribellione, signori» sibilò Luther. «Vi
consiglio di cambiare rapidamente idea, perché sapete quali
sono le conseguenze delle ribellioni.»
«Ci appelliamo alla Giustizia dei Ladri» disse a quel punto
Lupo.
«La Giustizia dei Ladri? Davvero vuoi fare appello al Libro
Nero?» lo schernì Luther. Poi si confrontò con lo sguardo di
Lupo e capì che il ragazzo era serio. Così guardò gli altri due.
«E voi siete d’accordo?»
Non ricevendo risposta, Luther si strinse nelle spalle.
«Come volete» concluse. «Allora attendete qui. E che
nessuno si muova, fino a quando non tornerò.»
3
L’INNAFFIATOIO DI
LATTA

a presenza del professor Luther rimase ad


aleggiare nell’aria anche dopo che se ne fu andato. I ragazzi
delle confraternite si guardavano l’un l’altro, incerti di quello
che sarebbe successo.
Lupo si sedette di nuovo al tavolo degli Spazzacamini, di
fronte a Twelve. «Sei contenta, adesso?» le disse.
«Che cosa hai fatto?» gli domandò Twelve. «Cos’è la
Giustizia dei Ladri?»
Lupo prese un pezzo di pane dal tavolo e lo spezzò in due
parti.
«Non sempre i Ladri vanno d’accordo tra loro, per il
semplice fatto di essere Ladri. Quando scoppia una lite per
una questione di principio, per un piano che non viene
rispettato, per una soffiata o un tradimento, ci sono due
possibilità: la prima è cercare di uccidere l’altro Ladro, e far
terminare subito la lite. La seconda è appellarsi al Libro
Nero… che è quello che ho appena fatto…»
«Cos’è il Libro Nero?»
«È il libro su cui è scritto il Codice dei Ladri» rispose
Gobert, in piedi in mezzo ai tavoli. «Ci si affida a lui quando
occorre dirimere una questione tra Ladri. Il libro decide, e il
suo verdetto è inappellabile.»
«E cosa può decidere, il Libro Nero?» domandò Twelve.
«Tutto ciò che gli si chiede: se i professori dovranno andare
a salvare Arthur, o se devono ucciderci tutti.»
«In ogni caso il professor Luther impiegherà un po’, per
avere una risposta» osservò Gobert.
«E noi cosa facciamo, nel frattempo?»
Eve tirò fuori da chissà dove un ventaglio d’osso, lo aprì e
disse: «Mi pare ovvio. Ci barrichiamo.»
«Grande idea!» esultò Jack degli Acrobati. «Diamoci da
fare, ragazzi! Spostiamo i tavoli!»
«Questa è proprio aria di rivolta!» strillò Orbo, smontando
dal tavolo degli Spazzacamini. «Non vedo l’ora di
cominciare… ah ah ah!»
«Fuori gli intrusi, allora!» esclamò Gobert. Fece un fischio,
e gli Acrobati del quarto e del quinto anno si alzarono di
scatto, raggiunsero il golem più vicino e lo spinsero verso
l’uscita. Quello obbedì, docile, dondolando sulle gambe,
mentre un secondo si bloccò e bofonchiò qualcosa come:
«Non autorizzato, in attesa di istruzioni…»
«Lo stanno riprogrammando!» esclamò Mathias, saltando
giù dal tavolo degli Spazzacamini. «Sbrighiamoci a buttarli
fuori!»
I ragazzi lo sollevarono di peso, tre per le gambe e tre per le
spalle, e lo trasportarono fino all’uscita, poi fecero lo stesso
con gli altri servitori di pietra.
Intanto, i Lord avevano rovesciato per terra tovaglie,
bicchieri e posate, e avevano spinto i tavoli contro le porte di
servizio, per bloccarle.
«Ora la porta principale, presto, presto!»
«Voi sapete dove sono i passaggi segreti? Dobbiamo
bloccare anche quelli!»
«Uno è dietro la quinta colonna, mettete una panca di
traverso!»
«Uno dev’essere sotto le mattonelle del pavimento, forse
questa, o questa…»
«Birnoff, sieditici sopra, grosso come sei non riusciranno
più a passare… ah ah ah ah ah!»
Twelve non riusciva a muoversi: guardava i ragazzi che
correvano da un lato all’altro del salone e sembravano dieci,
venti volte più del solito.
Karl, il ragazzino più forte del primo anno, trasportava due
panche per volta, ammucchiandole in alte cataste. Dall’altro
lato della sala, Orbo e Marcio avevano diviso le posate e
facevano prove di lancio coi coltelli mentre Ondine,
un’Acrobata del quarto, aveva scalato un contrafforte per
raggiungere lo scheletro di balena sul soffitto e cercare altre
botole.
«Vifsto che roba?» disse Sputo, prendendo Twelve per un
braccio. «Direi che il tuo fsciopero ha funfzionato. Non fsei
contenta?»
«Oh sì, contentissima… è solo che mi gira un po’ la
testa…»
«Dovrefsti mangiare qualcofsa, non lo dico a nefssuno!»
«Lo so che non lo diresti, Sputo, non è quello il problema.
Solo che mi domando cosa succederà, adesso.»
«Il Libro Nero ci darà ragione, vedrai.»
«Tu lo sapevi? Ne avevi mai sentito parlare?»
«Forfse» rispose Sputo. «Qui ci fsono molti fsegreti che fsi
fscoprono ogni giorno…»
Ma Twelve, in tutta quella confusione, stava pensando a
un’altra cosa: a come avvertire Ninon, in soffitta, di quello
che stava succedendo.
Ci vollero alcune ore per mettere in sicurezza il salone,
sprangare tutte le porte e gli accessi segreti di cui erano a
conoscenza. Mattana degli Spazzacamini e Lucille degli
Acrobati fecero tre volte il giro per controllare, piastrella
dopo piastrella e mattone dopo mattone, che non ci fossero
altri trabocchetti nascosti. Si pianificò una sortita nelle
cucine, per procurare qualcosa da mangiare e bere per il
passare delle ore. Venne poi attrezzato anche una sorta di
quartier generale, un circolo di sedie al centro del salone dove
presero posto Lupo, Eve, Gobert e i rispettivi bracci destri,
Mia, Abel e Hopper. Twelve si accovacciò sul pavimento,
alle spalle di Lupo, e sentì gli sguardi di Mia che la
punzecchiavano come spilli.
«Niente di nuovo da segnalare, signore» disse Mattana. «La
mensa è sigillata e protetta.»
«Sicuro?»
Mattana chiuse una mano a pugno e se la picchiò in testa,
forte, come per spezzarsi il cranio. Poi disse: «Sicuro,
signore.»
«Bene. Allora aspettiamo» esclamò il capo degli
Spazzacamini.
«Quanto tempo ci vorrà?» domandò Mia.
Non le risposero, perché nessuno sapeva come si usava il
Libro Nero, e cosa avrebbe risposto il Codice dei Ladri.
Quello che aveva fatto Lupo era un rischio, e un autentico
mistero.
«Una volta era già successo» disse Hopper, il melanconico.
«Non che consultassero il Libro Nero, intendo, ma che gli
apprendisti si ribellassero ai professori. Fu quando decisero di
dividerci in tre confraternite.»
«Me l’hanno raccontato. Li divisero per controllarci meglio
e poterci mettere gli uni contro gli altri» disse Lupo. «E
infatti vedremo, quanto durerà tutto questo.»
«E cosa successe, quella volta?» domandò Mia.
«Li massacrarono di botte» rispose Hopper.
«La nostra non è una rivolta, ma una richiesta» disse Eve.
«Perciò vedrete che tra poco qualcuno scenderà a dirci qual è
stato il verdetto del Libro Nero.»
«E Arthur?»
«Chi può dirlo? Magari il Libro Nero ci costringerà ad
andare a liberarlo. È vero che nessuno è mai scappato dalle
prigioni a fiore, ma in piazza degli Innocenti ci sarà una bella
folla e, volendo, non appena lo portano fuori, con un piano
ben congegnato…»
Piovve un silenzio fitto, e Twelve si rese conto che nessuno
aveva idea di cosa avessero scatenato. Lupo aveva ragione
nel sospettare che, svaporata quell’iniziale euforia, con il
passare delle ore e il crescere dell’indecisione sarebbe stato
sempre più difficile tenere i ragazzi lì dentro.
Forse aveva detto bene Eve, pensò Twelve rannicchiandosi
a terra. Nel volgere di qualche ora tutto sarebbe stato
stabilito. Ma sentiva sulle spalle la responsabilità di quanto
era accaduto. E se pensava a Ninon, da sola lassù in soffitta, a
chiedersi perché gli Spazzacamini non si decidessero a salire
dopo cena, lo stomaco le faceva ancora più male.
Aspettarono qualcuno che non arrivò mai. Nessuno bussò
alle porte del salone, nessuno intimò ai ragazzi di
sgomberare.
Trascorse un’ora, poi due, lentissime, come se gli orologi
fossero stati immersi nella cera.
«Forse dovremmo dare un’occhiata?» suggerì Henna, nel
gruppetto di Spazzacamini del primo anno.
«Perché no? È una buona idea» le fece eco la sua amica
Cressida.
«FSì, fsì, una buona idea per farci fregare. FSi fa quello che
ha detto Lupo: fsi afspetta!»
Ma a furia di aspettare, all’interno del salone la tensione si
era prima esasperata, infine spezzata: in un angolo della sala
un gruppetto di ragazzi si passava a calci una palla di stracci.
E dall’altra parte un secondo gruppetto aveva organizzato un
rudimentale gioco della bottiglia, con quelli che uscivano
costretti a baciarsi davanti a tutti. Owen e Antara, del primo
anno, si baciarono in quel modo per tre volte, poi si
appartarono e continuarono in un angolo, sotto lo sguardo
furioso di Gloria, che per qualche tempo era stata la fidanzata
di Owen. Ondine spense le lampade a gas appese al soffitto,
facendo calare sul salone una quieta penombra.
Twelve si sistemò in un angolo, con la schiena contro una
colonna, e chiuse gli occhi, stremata. Il chiacchiericcio la
cullava come il brusio di un alveare. Il tempo di riposarsi un
attimo, si disse, e poi sarebbe andata da Lupo a chiedere il
permesso di salire da Ninon.
Ma quando si svegliò, era iniziata la guerra.
L’attacco arrivò alle cinque del mattino, quando c’erano
solo pochi ragazzi a fare ancora la guardia ai portoni e gli
altri si erano addormentati.
Gli assalitori passarono dalla porta principale. Le due grandi
ante vennero spalancate da una sorta di esplosione, che
mandò all’aria le barricate di tavoli e panche e due fanali ad
alta intensità sciabolarono nella stanza come lance. I golem
marciarono nel salone a passo di carica, spalla contro spalla,
armati di lunghi bastoni metallici.
Lupo fu uno dei primi a reagire, ma un golem lo scaraventò
dal lato opposto della stanza.
Chi non fu abbastanza veloce da alzarsi venne calpestato.
Karl degli Acrobati attaccò il golem più vicino, ma
quell’altro lo intercettò e gli sferrò un pugno allo stomaco che
gli tolse il fiato.
Twelve aveva sempre immaginato che un assalto di quel
tipo dovesse svolgersi in una gran confusione, fra grida,
ordini ed esplosioni. Invece fu un attacco silenzioso, con i
golem che ronzavano intorno mulinando i bastoni e i ragazzi
che venivano prima accecati dai fanali e poi colpiti senza
alcuna possibilità di difendersi.
Gli automi marciarono come una falange compatta, nudi
nella loro pelle di roccia, fino al quartier generale nel centro
del salone. Lo smantellarono con un paio di colpi ben
assestati e poi si disposero a ventaglio. Il golem più grande di
tutti, Odo, ancora abbigliato da maggiordomo, con i pantaloni
a righe bianche e azzurre e la giacca nera con le code che
strisciava a terra, si diresse verso l’angolo del salone dove si
erano appisolati Twelve, Sputo, Mathias, J.J.T., Henna e
Cressida, ovvero gli Spazzacamini del primo anno. Calpestò
J.J.T. senza pietà e spinse via con il bastone Henna e
Cressida. Poi agguantò Twelve e la sollevò da terra con una
morsa di pietra, le fece fare una mezza capriola e se la caricò
sulle spalle.
«Lafsciala andare!» gridò Sputo, tempestandogli di pugni le
ginocchia d’argilla.
«No, Sputo, così no!» cercò di fermarlo Mathias.
Ma Odo piegò il ginocchio, colpì il ragazzo e lo mandò
lungo disteso.
Mathias allora gli si parò davanti, cominciò a fare strani
gesti con le mani e a parlare con voce roca: «ATTENTO-
TI… AUTORIZZA-MI… SPEGNI-TI…»
Il golem lo superò senza prestargli attenzione. In un flash di
fanali, che ruotavano impazziti nella grande sala, Twelve
scorse lo sguardo disperato di Mathias. Poi vide Lupo, che si
era ripreso dal suo primo, spettacolare volo attraverso il
salone, lanciarsi contro uno dei golem che reggevano i
riflettori brandendo una tovaglia come fosse una rete da
gladiatore; Gobert e il gruppo degli Acrobati che tentavano di
replicare all’assalto con una serie di scudi improvvisati;
Rebecca, Zella e Miriam dei Lord che lanciavano coltelli da
dietro una panca; qualcuno che piangeva; qualcuno che
cercava di scappare; e un ragazzo che non riconobbe che si
era arrampicato sullo scheletro di balena e sembrava
intenzionato a farlo crollare sulla testa dei golem. Dopodiché
Twelve non vide più niente, perché Odo attraversò la porta
d’ingresso e scivolò in un corridoio quasi buio, muovendosi a
grandi passi con la testa che quasi raschiava il soffitto.
«Lasciami andare!» gridò. «Lasciami subito!»
Provò a divincolarsi, a picchiargli il petto con calci e
ginocchiate e a graffiargli la schiena, ma il gigante di pietra
non rallentò e non le rispose.
Camminava svelto nel mezzo del corridoio e ben presto la
condusse fuori, oltre le vetrate che davano sul giardino
immerso nel buio. Twelve picchiò la testa sulla spalla di Odo
e contò uno, due, tre gradini, poi vide bagliori confusi,
tremolanti, simili a grosse lucciole arancioni.
Si infilarono lungo un sentiero, costeggiando lo scheletro di
ferro e vetro rotto di quella che, solo qualche settimana
prima, era stata una serra rigogliosa. Le luci e i tremolii
provenivano da lì, e appartenevano a ombre ricoperte di
stracci, con lunghe braccia ossute che spuntavano da
molteplici strati di stoffa sovrapposti, i visi nascosti da
turbanti sbrindellati. Alcuni di loro si aggiravano tra le
macerie come fuochi fatui, altri trasportavano carriole piene
di mattoni, tubi di ferro e radici carbonizzate. Erano i Cenci, i
misteriosi abitanti del sottosuolo dell’Accademia, pensò la
ragazza, mentre Odo li superava senza rallentare.
Oltre la serra c’era la cinta perimetrale alta e grigia che
occupava buona parte dell’isola, proteggendo da sguardi
indiscreti gli edifici al suo interno. Odo la puntò come se
volesse sfondarla, ma all’ultimo momento imboccò una
scaletta praticamente invisibile e, da lì, attraversò le mura in
un angusto passaggio. Twelve sentì rimbombare i passi
pesanti del golem e un’enigmatica musica lirica. La voce
della cantante e il lamento dei violini arrivavano da molto
distante, come se fossero rimasti prigionieri delle pietre
quando quell’edificio era ancora una scuola per musicisti.
Senza preavviso, Odo cominciò a salire una rampa di gradini
e pochi istanti dopo Twelve si trovò di nuovo fuori, sullo
strettissimo camminamento delle mura. Le spalle del golem
erano più larghe del passaggio e Twelve vide, sotto di sé, la
corrente luccicante della Duma.
«Signora?» domandò a un certo punto Odo, interrompendo
la sua cavalcata. «La bambina che mi ha chiesto di portarle.»
Twelve si sentì afferrare dalle mani del golem e si ritrovò in
piedi all’angolo del muraglione. Un soffio di vento calò dal
ponte sul fiume e la fece barcollare, costringendola ad
accucciarsi. Odo rimase alle sue spalle, immobile e
torreggiante, mentre davanti a lei, stagliata contro le luci
lontane della periferia di Danubia, c’era Hortensia, la
reggente dell’Accademia.
In cima alle mura, il canto lirico non si sentiva più.
«La Duma è piena di pesci siluro» disse piano. «Alcuni
sono lunghi anche cinque metri, e possono pesare
quattrocento chili. La gente pensa che sia solo una leggenda,
invece è tutto vero.»
«P-perché mi dice questo?» domandò Twelve con un filo di
voce.
«Perché un pesce siluro si mangia una ragazzina come te in
un boccone, mia cara, e anzi probabilmente gli resta ancora
appetito. Se fosse per me, ti avrei già buttata nel fiume da un
pezzo. E con un bel sasso legato ai piedi.»
Gli occhi della reggente scintillavano sotto la maschera di
porcellana bianca che le nascondeva il viso.
«Luther mi ha detto che l’idea dello sciopero della fame è
partita da te.»
«Non volevo fare niente di male. Solo salvare un amico. È
per questo che ci siamo appellati al Libro Nero.»
«E il libro ha risposto, mia cara. Questo è il motivo per cui
sei ancora qui. Spero solo che ai tuoi amici passi la voglia di
spalleggiarti, dopo che ne avremo spediti la maggior parte in
infermeria.»
«Lei ha dato ordine ai golem di picchiarci?» esclamò
Twelve con un gridolino strozzato.
«No-no-no, mia cara. Tu hai dato l’ordine. Tu e basta.»
«Ma non è vero! Potevate risponderci, trovare un accordo!»
La reggente si voltò, facendo frusciare il vestito di raso viola
nella notte. «Noi non dobbiamo trovare nessun accordo. Io
sono la responsabile di questa Accademia. Non scendo a patti
con dei mocciosi. Se vi ribellate, venite puniti. Se io do un
ordine, voi lo eseguite. E questo è tutto. Vale per le
confraternite, e vale soprattutto per te, signorina. Da questo
momento, dichiaro concluso il tuo stupido sciopero della
fame.»
Twelve si alzò in piedi, sforzandosi di ignorare le vertigini.
Da un lato il fiume, dall’altro il giardino buio
dell’Accademia, con le anime in pena dei Cenci.
«Non può obbligarmi» rispose.
«Oh, sì, invece. Non c’è niente di più facile. Odo!»
Le code della giacca del golem schioccarono e il gigante di
pietra afferrò Twelve per le spalle. Lei cercò di divincolarsi,
ma ogni minimo movimento faceva staccare dal muro
minuscoli calcinacci, che precipitavano nel vuoto.
Hortensia recuperò da terra un innaffiatoio di latta scrostato
con il beccuccio sottile.
«C’è solo un modo per curare e rafforzare tutte le piante,
mia cara, anche quelle più cattive» salmodiò. «Ed è la mia
mistura a base di sangue di porco. Raccolto direttamente
dalla giugulare, fresco e molto nutriente. Mentre aspetto che
la serra venga ricostruita, lo userò per rimetterti in forze.»
«No!» strillò Twelve, inorridita.
«Odo, la bocca!» ordinò la reggente.
Il golem tenne ferma Twelve schiacciandosela con un
braccio sul petto, e con l’altra mano le prese il viso,
stringendo alla base della mascella. La pressione delle dita
obbligò la ragazza ad aprire la bocca.
«Glu glu» disse la reggente, sollevando l’innaffiatoio. «E
buon appetito!»
4
IL PUGNALE DALLA
LAMA SCHEGGIATA

ufficio del professor Luther puzzava di


muffa. Era una stanza non molto grande ma elegante, con
librerie di mogano che arrivavano al soffitto e un enorme
lampadario di cristallo.
La scrivania e la poltrona avevano le rotelle, per poterle
spostare dal tappeto e dalla botola che nascondeva. E, sotto la
botola, c’era la Quarantena.
In quel momento, però, Twelve non vedeva né la scrivania
né la poltrona, ma solo il fondo del secchio che Luther le
aveva misericordiosamente preparato.
Il professore aspettò che Twelve finisse di vomitare, e poi le
porse un fazzoletto con le iniziali: R.L.
«Grazie» disse Twelve.
«Di niente» rispose Luther. «Adesso siediti.»
Le indicò l’unica altra sedia dello studio, e Twelve si
abbandonò contro lo schienale. Davanti a lei c’era una
lampada da banchiere con il fusto d’ottone e il paralume di
alabastro verde. Notò distrattamente su un orologio della
scrivania che erano le sei e mezzo del mattino.
L’ora di alzarsi, se fosse stata una giornata come le altre. E
invece lei aveva solo voglia di crollare a letto e dimenticare
tutto.
«Allora. Da dove cominciamo, Twelve? Ah, sì. Da qui.»
L’insegnante tirò fuori dal cassetto della scrivania un
cucchiaio tutto sporco, graffiato e piegato in due.
«Sai cos’è, vero?» chiese Luther.
Domanda sciocca. Certo che sapeva cos’era. Era il
cucchiaio con cui aveva scavato un passaggio per uscire dalla
cella quando l’avevano rinchiusa. Ecco dov’era finito. Per
colpa di quel cucchiaio, e di un vecchio muro marcio, aveva
liberato Caterina, soprannominata Faccia di Ferro per via
della maschera che le copriva il volto, la studentessa che i
professori avevano tenuto prigioniera per anni sottoterra. La
ragazza che aveva dato fuoco alla serra.
«No» rispose.
«Vedi, ragazzina, anche se ti piacerebbe tanto pensare il
contrario, gli insegnanti di questa scuola non sono per niente
stupidi. Provo a riassumerti i fatti: vieni rinchiusa nella
Quarantena, e poco dopo Caterina riesce a scappare. Nella
sua cella troviamo uno dei cucchiai che di solito diamo ai
prigionieri insieme alla cena. Poi, la notte dell’incendio della
serra, la piccola Ninon scompare per ore, e la ritroviamo al
sicuro dentro una cassaforte. E Ninon è la tua unica amica.»
«Poteva morire soffocata.»
«Certo. Ma c’è un’ultima cosa: le sere prima dell’incendio,
almeno cinque diversi Spazzacamini ci hanno riferito di aver
sentito il suono di un flauto su in soffitta. Un flauto che non
si riesce a trovare, molto simile a quello che Caterina amava
suonare per combattere la solitudine.»
«Musica lirica…» sussurrò Twelve.
«Come hai detto?»
«Ho sentito della musica lirica, mentre salivo in cima alle
mura. Conta anche questa, come testimonianza?» lo schernì
Twelve.
«Quando la smetterai di essere così ostile?»
«Vuole punirmi?»
«Oh, no. Penso che per stanotte tu sia già stata punita
abbastanza. Ed ecco un’altra cosa che ti ostini a non capire.
Da quando sei entrata all’Accademia, sei convinta che
vogliamo solo distruggerti e non ti accorgi di quante persone,
invece, stanno cercando di aiutarti.»
«Aiutarmi?!» sbottò Twelve, e il sussulto le fece salire in
bocca la voglia di vomitare di nuovo. «È per aiutarmi che ha
avvelenato Ninon o mi ha fatto rinchiudere in Quarantena per
quasi due settimane? E che la reggente, poco fa…»
Si premette lo stomaco, incapace di continuare.
«Sei proprio una ragazzina» continuò Luther. «E come tutti
i ragazzini, hai occhi solo per il futuro, e non riesci a
guardare con chiarezza al passato. Pazienza, è una malattia
che guarisce con l’età. Però adesso ascoltami, perché te lo
ripeterò l’ultima volta. Se vuoi sopravvivere a questa
Accademia, dovrai iniziare a capire chi sono i tuoi veri amici,
e chi i nemici. E la risposta potrebbe essere più sorprendente
di quanto pensi.»
«So perfettamente chi sono i miei nemici» rispose Twelve, a
denti stretti.
«Ah, sì? E chi sarebbero? Io?»
«Sì, anche lei, professore.» Nel dirlo, cominciò a tremare.
«Gliel’ho promesso, una volta, che alla fine di tutto questo
l’avrei uccisa.»
Luther sorrise e poi, da una fondina della giacca, sfoderò un
coltello. Lo tenne in bilico sul palmo della mano, con
delicatezza, perché Twelve potesse ammirarlo.
«Sai anche cosa è questo, magari?»
Di nuovo, la risposta era sì. Era il coltello che Twelve aveva
rubato dalla bottega dell’armaiolo Xavier durante la prova
d’esame.
«Sì» disse, e la risposta sembrò piacere al professore.
«Allora prendilo. È tuo.»
«Cos’è, uno scherzo?»
«Per niente.»
«Mi sta chiedendo di ucciderla, professore?»
«Ti sto chiedendo di prendere il coltello che hai rubato e di
tenerlo con te. Perché, credimi, sono sicuro che ti servirà.»
Twelve trattenne il fiato e non mosse un muscolo. «A
cosa?»
«La reggente non scherzava, prima. Ha davvero proposto di
farti finire sul fondo del fiume con un sasso appeso alle
caviglie.»
«E il Libro Nero?» domandò Twelve. «Che cos’ha deciso?»
«Di porre fine al tuo sciopero e di dare una ripassata a tutti
quelli che lo hanno appoggiato. E quindi non credo che i tuoi
compagni saranno molto contenti di rivederti.»
«E perché non dovrebbero? Non è stata colpa mia!»
«Alcuni non la pensano affatto così. Pensano che se quella
stupida matricola degli Spazzacamini avesse mangiato la sua
cena, adesso loro avrebbero qualche livido in meno, e le ossa
ancora intere…»
Twelve guardò Luther. Guardò il pugnale. Guardò di nuovo
Luther. Allungò le mani fino a sfiorare l’impugnatura del
coltello e lo afferrò. Non se ne intendeva molto di armi, ma
sentiva che quella lama era eccezionale. Pesante, solida, ma
così ben bilanciata che il suo polso la reggeva senza sforzo. E
abbastanza affilata da poterci tagliare la criniera a un leone.
Se lo infilò nella cintura e si alzò.
Il colloquio con Luther era finito.
Appoggiò la mano sulla maniglia, fece per spingerla e
uscire, ma poi invece si fermò.
«Professore?»
«Cosa?»
«Lei dice che è mio amico. Allora le potrei chiedere una
cosa da amico?»
«Dipende» rispose Luther.
«Voglio rivedere Arthur un’ultima volta» disse Twelve.
«Anche in piazza degli Innocenti, domani, quando sarà… il
momento. Glielo devo.»
Luther la fissò come se stesse cercando di vedere qualcosa
dentro di lei.
Poi mormorò: «Fatti trovare nel mio ufficio domani mattina,
prima delle sette. Andremo insieme.»
Twelve si sforzò di non ringraziarlo. Aprì la porta, e poi si
incamminò lungo il corridoio vuoto che si trovava dall’altra
parte.
Era sabato, e il sabato non c’erano lezioni. Ma se anche ci
fossero state, quel giorno, non ci sarebbe andato nessuno.
Twelve superò altri corridoi deserti, saltellando solo sulle
mattonelle nere e sfiorando con il piede una mattonella
bianca ogni cinque.
Quindi si arrampicò su per le scale che portavano in soffitta,
salendo i gradini a tre e quattro. All’ultimo piano si fermò
davanti alla gigantesca porta blindata Moehringer che
sigillava il covo degli Spazzacamini.
E lì incontrò Sputo e Mathias.
I due inseparabili amici dovevano essere appena usciti
dall’infermeria del dottor Mugaba, perché Mathias aveva un
gesso che gli partiva dalla spalla e arrivava al polso, mentre
Sputo aveva un occhio nero e la testa bendata.
«FSFCiao, fsfTwelfsfve!» la salutò, e Twelve si accorse che
gli era saltato un altro dente davanti.
«Oddio, cos’è successo, ragazzi?» domandò.
«Oh» rispose Sputo. «Una fsfcofsfsa pafsfzfsfzefsfsca…»
«Forse è meglio che parli io, finché tu non ti rimetti un po’
in sesto» lo interruppe Mathias. «E comunque, non è stato
affatto pazzesco. È stato orribile.»
«Vi hanno picchiati?»
«A sangue, come vedi, nessuno escluso. Gran bella idea,
appellarsi alla Giustizia dei Ladri.»
«Poteva esserlo…» disse Twelve.
«Già. Ma non ha funzionato. Sono stati attenti a farci male
senza lasciarci danni troppo seri, ma se scendi sotto da
Mugaba è come se andassi in guerra. Ci sono ragazzi
ovunque. E una puzza di…» Mathias scosse la testa, senza
aggiungere altro. «A me e Sputo hanno dato tre giorni di
pasticche alchemiche, e dice che torneremo come nuovi, ma
più brutti di prima. Accidenti se fa male…»
«FSFa malifsfsfsfsimo…» confermò Sputo.
«E avete visto Lupo?» domandò Twelve d’istinto. «Sta
bene?»
«Forse» rispose Mathias.
«Che cosa significa “forse”?»
«Quello che ho detto» rispose Mathias, e poi, senza dare
altre spiegazioni, compose il numero della combinazione
della porta blindata. Quando si schiuse con un clic, qualcuno
dall’altra parte la spinse per spalancarla, e Twelve si ritrovò
Ninon tra le braccia.
«Dove sei stata?» strillò la piccola. «Non sei tornata, non
c’era nessuno, e qui in soffitta era tutto buio e io non riuscivo
a uscire e poi nessuno mi ha portato da mangiare, e poi sono
cominciati ad arrivare gli altri ed erano tutti feriti» singhiozzò
con la faccia affondata nel maglione di Twelve. Twelve la
strinse fortissimo, la accarezzò e le mormorò parole gentili,
fino a quando riuscì a ridurre quel fiume di lacrime a un
rivolo sottile.
«Va tutto bene» si sforzò di dire. «Davvero ieri non ti hanno
dato da mangiare? Non è venuto Mister Peele?»
«Non è venuto nessuno!» riprese a singhiozzare la bambina.
«Avevo fame, per fortuna ho trovato due barrette di
cioccolato tra le coperte di quel ragazzo con la faccia
brutta…»
«Marcio?» domandò Mathias.
«Sì, lui! Pensate che si arrabbierà con me?»
A Twelve non interessava di Marcio. Le interessava sapere
se Ninon non aveva mangiato, perché in tal caso non aveva
nemmeno preso il suo antidoto. Perché non le avevano
portato niente?
«Forza, vieni con me» le sussurrò. La tenne in braccio
camminando per la soffitta e poi scesero insieme le scale di
corda che portavano alle camerate. Guardò con la coda
dell’occhio gli altri Spazzacamini feriti: c’erano bende e
fasciature, grandi cerotti e stampelle. E soprattutto c’era quel
mormorio lamentoso che si interrompeva di colpo, quando la
vedevano arrivare.
Non aveva energie per interpretare quelle occhiate, né per
replicare. Ne aveva ancora pochissime per Ninon. Per Ninon
e basta. Strisciò nella camera di legno fino al loro armadietto
personale, un vecchio mobile che Twelve si era riparata da
sola con chiodi e nastri colorati. Appoggiò la bambina sul
materasso e, schivando un paio di pentolini di rame che
raccoglievano la pioggia, si chinò a frugare tra le scatole dei
vestiti. Tirò fuori da quella più in fondo una boccetta di vetro
verde, piena per tre quarti.
«Cos’è?» domandò Ninon.
«Te lo dico dopo, ora però chiudi gli occhi e apri la bocca
per bene.»
«È una medicina? Io non voglio nessuna medicina. Io non
sono malata.»
«No, piccola mia, non lo sei, e infatti questa è una medicina
speciale per ragazze sane. Ti servirà perché… be’, se ieri hai
mangiato il cioccolato, e scommetto che non ti sei lavata i
denti, rischi di farti venire la carie, e la stessa brutta faccia di
Marcio…»
Ninon la guardò sospettosa.
«Non ci credo.»
«Non importa» disse Twelve, e afferrò il visetto della
bambina proprio alla base della mascella, come aveva fatto
Odo con lei. Le fece scivolare sotto la lingua poche gocce
dell’antidoto dei fratelli Zorba, un liquido trasparente che
sembrava quasi acqua.
Poi richiuse la boccetta e la nascose di nuovo tra gli
scatoloni.
«Allora?» disse. «Era disgustosa, la mia medicina?»
«No, non sapeva di niente» osservò Ninon. «Ma perché la
nascondi? Posso vedere la boccetta?»
«No che non puoi!» gridò Twelve, spaventandola senza
volere. Le prese la mano, la accarezzò: «Scusami» disse. «È
una medicina molto preziosa. Perciò devi promettermi di non
toccarla mai senza il mio permesso, hai capito? E di non
parlarne con nessuno. Nemmeno con Mathias e Sputo.
Promesso?»
«Perché?»
«Perché sì, Ninon» esclamò Twelve esasperata. «Tu non
puoi capire tutto, perché è complicato, perché sei piccolina,
ma devi fidarti di me…»
Le pareva di usare le stesse parole del professor Luther,
proprio le stesse.
E mentre sprofondava nel sonno si domandò, per l’ennesima
volta, se avesse sbagliato tutto.
Se fosse colpa sua.
Dei professori.
O del mondo, di quel mondo sterminato di cui non sapeva
niente, e forse mai l’avrebbe saputo.
5
UNA DOMENICA DI
PIOGGIA

acqua bollente le scottava la pelle.


Twelve rimase sotto la doccia il più a lungo possibile, con gli
occhi chiusi, come in cerca di una purificazione, che non
arrivò. Poi si annodò i capelli umidi in una treccia e si vestì
con una maglietta pulita e altri strati di abiti tutti neri. Sul
davanti dell’ultima maglietta era ricamato un cuore bianco
che sembrava un teschio.
Si infilò gli anfibi e tornò in camera, cercando di rimandare
il più possibile l’incontro con i suoi compagni. Li aveva
sentiti gemere e lamentarsi tutta la notte nei suoi sogni,
attraverso le sottili pareti di legno delle camere.
E scoprì di avere paura. Paura che Luther le avesse detto la
verità, che gli altri ce l’avessero con lei, e che la odiassero.
Se ne rimase in stanza fino all’ora della colazione, seduta
per terra a giocare con Ninon alle signore che prendono il tè.
«È un gioco stupido» le disse la piccola a un certo punto.
«Dovremmo farne uno più bello.»
«Tipo?»
«Ad esempio le signore assassine. È divertente: scegliamo
una persona che ci sta antipatica, come Rebecca, e decidiamo
insieme come ucciderla…»
Twelve le mise subito una mano davanti alla bocca. «Sssh»
le ordinò, «non voglio sentirti mai più dire queste cose, hai
capito? Ora gioca un po’ con le bambole, vuoi?»
«No che non voglio» rispose la piccola. Ma Twelve non le
diede spazio. Si sdraiò sul materasso con il suo quaderno, e
ignorò deliberatamente Ninon che fingeva di assassinare le
sue bambole. Il quaderno aveva la copertina azzurra e le
pagine di carta spessa, e l’aveva ricevuto il primo giorno
all’Accademia. Da allora, l’aveva riempito di appunti, frasi e
disegni stupidi, e molte idee che le erano venute in mente.
Buona parte delle pagine erano scarabocchiate con le formule
matematiche di quando aveva tentato per la prima volta di
fuggire dalla scuola, e aveva dovuto decifrare il codice con il
quale i golem, ogni notte, cambiavano i trabocchetti delle
scale e dei corridoi.
A metà esatta del quaderno, poi, c’erano tre colonne
tracciate a matita. La prima conteneva l’elenco delle persone
di cui sentiva di potersi fidare: Ninon, Stephen, Mathias,
Sputo. Nella seconda c’era l’elenco di quelli che non erano né
amici né nemici: Odo, Henna, Arthur, Karl, Mia, il professor
Mugaba. Infine l’elenco dei cattivi: Rebecca, Lupo, Luther, il
Grande Manny, Miss Kindheart, la reggente, Mister Peele.
Nel corso del tempo la pagina era stata scarabocchiata e
corretta molte volte. Mathias si trovava inizialmente tra gli
indifferenti, Odo tra i cattivi (dove Twelve aveva tutta
l’intenzione di riportarlo) e Miss Kindheart era stata
cancellata da quella delle persone di cui poteva fidarsi.
Senza nemmeno un’esitazione, Twelve fece altrettanto con
il nome di Stephen, calcando la matita sul foglio e tracciando
le due linee della croce il più lentamente possibile. Non lo
riportò su nessuna delle altre due colonne.
Fece un circolo attorno al nome del professor Luther e vi
aggiunse un punto interrogativo, poi guardò gli altri nomi.
Lupo, chissà come, era sempre rimasto nella colonna dei
cattivi, anche se Twelve sapeva che non era il posto giusto.
Ma non aveva idea di dove collocarlo. Lupo era
semplicemente Lupo, e forse avrebbe avuto bisogno di una
colonna tutta per sé, speciale. La colonna di Lupo.
La disegnò, accanto alle altre tre, cancellò il nome del suo
capobranco dai cattivi e lo inserì, solitario, nell’ultima
colonna. Poi rimase a studiare le sue liste di nomi fino a
incrociare gli occhi e pensò che Luther aveva ragione: non
aveva idea di chi fossero le persone di cui si poteva fidare.
Forse la verità era che non le conveniva fidarsi di nessuno.
Toc toc, fece qualcuno sulla porta.
«FScendi in fsala menfsa con noi? Vieni a mangiare
qualcofsa?» le domandò la faccia malconcia di Sputo facendo
capolino dalla porta.
«Ehi, va meglio?» gli chiese Twelve.
«Un po’, mi fsto fsgonfiando. Allora, vieni?»
Era ormai pomeriggio, e lo stomaco di Twelve brontolava.
Guardò Ninon. La bimba continuava a giocare e fingeva di
non ascoltare, anche se, in realtà, stava facendo esattamente il
contrario.
«Dipende» rispose Twelve. «Com’è la situazione, là fuori?»
«Un vero caofs» ammise Sputo. «C’è gente che vuole fare
un’altra rivolta, e gente che non riefsce neppure ad alfzarfsi
dal letto… Lupo non è ancora tornato dall’infermeria, e cofsì
Cadmo ha prefso il comando…»
Cadmo. Probabilmente l’unico vero nemico di Lupo tra gli
Spazzacamini. Twelve sentì un brivido correrle sulle braccia
fino alla base del collo.
«E di me non dicono niente?» domandò.
Sputo le sorrise. «Oh, fsì. Vogliono farti una bella fefsta!»
Dunque Luther aveva ragione. Tanto valeva affrontare la
cosa subito. O non affrontarla affatto.
«Forse allora è meglio se non mi faccio vedere nemmeno
io…» disse.
«FSenti, Twelve. Io dico invece che tu dovrefsti venire, e
anche Mathiafs lo penfsa. Gli FSpafzzacamini fsono con te,
ma… fse non fscendi e non ti fai vedere, quelli delle altre
confraternite ci diranno che fsiamo dei cacafsotto e…»
«Che dicano quello che vogliono, non mi importa. Però, se
vedi Mister Peele, gli chiederesti di portare su qualcosa per
Ninon?»
Sputo sospirò.
«Certo» disse. «E magari un panino per te?»
«Saresti molto carino.»
Alle sette meno dieci del mattino successivo, ritemprata dal
sonno e da un po’ di sana solitudine, Twelve si presentò
all’ufficio del professor Luther.
Bussò due volte.
«Avanti.»
Twelve spinse la porta e fece un balzo all’indietro, sorpresa.
Nell’ufficio di Luther non c’era il professore, ma uno dei
Cenci, con le braccia coperte di escoriazioni e un mantello
grigio pieno di buchi e macchie di vernice. Se ne stava
accoccolato sul pavimento a quattro zampe, come facevano
sempre i Cenci, con il viso nascosto da un turbante che gli
lasciava scoperto solo il naso e gli occhi.
Il naso e gli occhi del professor Luther.
«Mi… scusi… Io non…»
Il Cencio si rizzò in piedi e scoprì il suo travestimento.
«Piantala di balbettare e vieni dentro. Non avrai pensato che
saremmo andati in piazza degli Innocenti con lo stemma
dell’Accademia sulla giacca, vero?»
Anche in piedi, Twelve faticava a riconoscere Luther sotto
quell’ammasso di stoffe e trucchi da mendicante.
«Ci sono persone che potrebbero vedermi, in città. E alcune
di loro indossano l’uniforme» continuò il professore. «E
poiché ci saranno molti Ussari, all’esecuzione, è meglio
premunirsi. Spogliati.»
«Qui?» domandò Twelve. «Davanti a lei?»
«Preferisci che mi giri, ragazzina, per piantarmi meglio il
pugnale nella schiena? Forza, levati quei vestiti… e prendi
questi!» continuò Luther, porgendole un involto di mantelli.
Twelve si spogliò, lentamente, e denudò la sua pelle chiara,
coperta di lividi. Si levò ogni cosa e fronteggiò lo sguardo del
professore.
«Ti sei asciugata e hai fatto i muscoli» osservò Luther,
compiaciuto.
Twelve afferrò gli stracci e li indossò. Puzzavano come se
fossero stati strofinati nello sterco, ma erano morbidi e
comodi. Coprì le braccia con una casacca marrone lunga fino
alle ginocchia, e un mantello sbrindellato con un turbante che
le arrivava fin sopra al mento.
«Ci siamo quasi» decise Luther, prendendo un rotolo di
bende dall’aria lurida. «Ora fasciati questo braccio fino al
polso e lascia che il resto penzoli fino a terra.»
Le strappò un brandello della casacca e le gettò una
manciata di polvere abrasiva sul mantello, chiazzandolo di
giallo.
«I Cenci devono essere disgustosi, capisci? È importante. La
gente deve distogliere subito lo sguardo da te, non deve
volerti vedere. È solo questo, il trucco. E il tocco finale…»
Nel palmo del professor Luther comparve un contranello
dorato, un grosso anello alchemico che avrebbe impedito a
Twelve di allontanarsi da lui. «Mettilo al pollice» le ordinò, e
restò ad aspettare che Twelve lo facesse. «E stai molto attenta
a quel che fai e a quello che pensi. Stiamo andando a vedere
un’esecuzione, ragazzina, e il contranello reagisce alle
emozioni, quelle di chi lo indossa e di chi gli sta intorno.
Potrebbe diventare incandescente…»
«Mi farà male?» domandò Twelve, fissandosi il pollice.
«Forse no, se fai quello che ti dico» rispose Luther, brusco.
C’era stato un istante, in quello scambio, in cui il professore
era sembrato contento di lei, e ora ne sembrava pentito.
La afferrò per un braccio e si fece seguire lungo il corridoio
che dava sul giardino. Uscirono fuori sotto una pioggerellina
fitta e appiccicosa, che colava da un cielo color cenere.
Mister Peele, con il sigaro tra i denti e un cappellaccio in
testa, stava trasportando una carriola di materia scura e lucida
fuori dalle rovine della serra.
«Buongiorno Mister P…» stava per dire Twelve, ma Luther
ringhiò per fermarla. Giusto. Lei era un Cencio, adesso. E i
Cenci non parlavano. O almeno, non in quel modo.
«Che noi andiamo» esclamò Luther con un ruggito
gutturale. «Che la barca ci sia?»
«C’è, c’è» disse Mister Peele, concedendosi per una volta il
lusso di rispondere sgarbatamente al suo capo. Abbandonò la
carriola nel mezzo del vialetto e zoppicò fino al cancello di
ferro con i battenti istoriati di note musicali. Le lance delle
sbarre avevano perso buona parte delle picche e il portone si
apriva cigolando, a fatica, come una ferita. Al di là c’era un
pontile di legno, sommerso dalla vegetazione. E alla fine del
pontile li attendevano due barche legate.
La prima era coperta da un grande telo, ma Twelve sapeva
cos’era: un battello a ruota, la versione ridotta di uno dei
traghetti a vapore che facevano su e giù lungo il fiume a ogni
ora del giorno e della notte. Alcuni erano delle sale da ballo
sull’acqua, altri ristoranti. Quello era la copertura dei Ladri,
quando volevano entrare in città.
La seconda barca, invece, era una minuscola scialuppa, con
un motore fuoribordo a orologeria. Luther ci salì sopra,
ordinò a Twelve di sciogliere gli ormeggi (“Che levi le
corde!”), quindi caricò la manovella e un paio di quadranti
del motore presero a oscillare su loro stessi come pendoli.
«Salta!» le ordinò Mister Peele, strattonandole un polso e
facendola balzare sulla scialuppa un attimo prima che questa
partisse.
Procedeva a strattoni, al ritmo regolare del meccanismo, tic-
toc-tic-toc, un balzo a ogni toc e un colpo di singhiozzo al tic.
Si staccarono dall’isola seguendo la corrente, invisibili tra
gli ampi argini di pietra della Duma. Ben presto passarono
sotto al ponte Grigot e alle sue arcate incrociate, e una volta
dall’altra parte Twelve si voltò a guardare le colline e le
prigioni a fiore che si intravedevano appena nella foschia.
Sullo sfondo nero dei rilievi sembravano giganteschi tulipani:
torri sottili che si alzavano per decine di metri per poi aprirsi
in piattaforme circolari simili a boccioli, che contenevano le
celle dei prigionieri.
Twelve non sapeva perché le avessero costruite così belle.
Alcuni dicevano che era un’ulteriore forma di tortura, che i
condannati vedevano Danubia dall’alto e si rendevano conto
di quanto ormai fosse irraggiungibile e perduta. Altri ancora
sostenevano che erano state progettate in quel modo per
motivi di sicurezza, perché evadere da lì era impossibile, a
meno di volersi gettare nel vuoto, c’erano guardie a tutti i
livelli e un’unica scala a chiocciola per entrare e uscire. Altri
ancora, più semplicemente, pensavano che le prigioni a fiore
fossero così in onore della casata del re.
In quale di quei fiori era stato rinchiuso Arthur?
Luther non parlava, fermo a poppa con il timone tra le mani
ustionate. E Twelve tenne per sé le sue domande.
Quando raggiunsero il ponte Delagrava, la ragazza si stupì
di vederlo come nuovo, perfettamente sistemato, come se
niente gli fosse accaduto. Si aggrappò alla barca, cercando di
ricordare il punto esatto in cui era passata la carrozza, dove
era scoppiata la bomba piazzata dai terroristi e dove Luther e
Mister Peele avevano recuperato lei, Rebecca e Ninon. Si
segnò la fronte e mormorò una preghiera, come faceva tutte
le volte che pensava a Hugo Eight, rimasto là sotto.
Dall’altra parte della campata del ponte scendeva una
pioggia più intensa, carica di fuliggine, che macchiava i
vestiti, e la Duma si faceva più grande e lenta avvicinandosi
al mare. Accostarono prima di un ultimo ponte, più piccolo
degli altri, ma elegante e bello, di un marmo bianco scolpito
di motivi floreali.
«Il ponte dei sogni perduti» sussurrò Twelve quando lo
vide.
Luther, al timone, annuì.
«E lo sai perché si chiama così?» domandò.
«No.»
«Perché è l’ultimo che percorrono i condannati a morte.»
E poi tack, ormeggiarono.
Piazza degli Innocenti era un rettangolo spoglio, delimitato
sul lato lungo dal palazzone cupo delle Carceri Vecchie, e da
quello opposto dall’Accademia dei Monaci. Non si sapeva se
il nome derivasse dai criminali che, al momento supremo,
invocavano la grazia, o dalle preghiere costanti dei monaci.
Vi serpeggiava una foschia perenne, indurita dalla vicinanza
al fiume, che esalava dagli scoli e dai tombini.
A quell’ora del mattino era già discretamente affollata: le
persone si infilavano tra alcuni carri che vendevano pretzel
dolci e salati, e altro cibo da strada che fumava in grandi
pentoloni, per raggiungere, curiose, la scala del patibolo che
era stato costruito all’altra estremità della piazza. Era un
palco di legno alto venti piedi, su cui spiccavano i cinque
orrendi alberi per gli impiccati. Non appena Twelve li vide, le
si conficcarono negli occhi come chiodi. Al contrario di lei,
le altre persone nella piazza sembravano allegre, come se si
preparassero a una festa. C’erano i primi nobiluomini in
gorgiere ricamate che sfilavano armati di monocolo verso i
palchi riservati alle autorità, e famiglie di commercianti che
sciamavano con il loro seguito di bambini urlanti. In un
angolo, nella bruma, un caposala in livrea lilla stava istruendo
le matricole dell’Accademia di Servizio, accanto a una
montagna di vassoi d’argento che parevano corazze. C’erano
contadine con il fazzoletto annodato sulla testa e marinai da
poco sbarcati in città, un papà con il figlioletto sulle spalle,
seriosi avvocati e venditori di specchi e di bigliettini della
fortuna. E poi c’erano gli Ussari, ovviamente, a decine, in
divisa, alcuni schierati lungo le transenne, altri di guardia
attorno al basamento di due grandi statue in bronzo.
«Sono il re e la regina?» domandò Twelve sottovoce,
indicandole.
«Quello a sinistra, con bilancia e spada, è il Giustiziere»
bisbigliò Luther. «L’altra è la Pietà. Vedi che l’hanno
bendata?»
«Sì.»
«Lo scultore doveva bendare il Giustiziere, per
simboleggiare l’imparzialità della giustizia, e invece bendò la
Pietà. Quando se ne accorsero lo uccisero» sogghignò Luther.
Poi avanzò nella folla, camminando chino ed emettendo
cupi suoni gutturali; la gente, sentendolo arrivare, si ritraeva
disgustata, con gli occhi che scivolavano lontani da lui come
se non guardare un Cencio fosse in qualche modo un’azione
pietosa. I due raggiunsero un angolo umido delle transenne e
si sedettero per terra, a poca distanza dal palco e dalle forche
di ferro battuto.
«Dove sono i condannati?» mormorò Twelve, con lo
sguardo basso sulle bende.
«Da qualche parte lì dentro» rispose il professor Luther,
indicando la vecchia prigione.
«Soffrirà?»
Gli occhi di Luther brillarono come folgori dietro il
travestimento da Cencio.
«No» rispose poi. «I prigionieri vengono drogati prima di
salire sul patibolo. Così non c’è il rischio di scene
spiacevoli… se capisci cosa intendo. Arthur non si renderà
nemmeno conto di quello che gli sta succedendo e sarà tutto
rapido, per buona pace del pubblico.»
Twelve aveva mille altre domande che le si accalcavano
nella mente, ma preferì starsene zitta, perché ogni risposta le
arrivava come una stilettata nel cuore. La stanchezza degli
ultimi giorni la aiutò a galleggiare nei pensieri, perdendo il
senso del tempo. A un certo punto di quella interminabile
mattinata smise di piovere e nel cielo salì un pallido sole,
simile a una monetina di stagno. La piazza era attraversata da
minuscoli rivoli d’acqua, che scolavano nel fiume, e la bruma
si assottigliò a poco a poco. Un venditore ambulante la colpì
inavvertitamente con il suo carretto di cibo fritto, ma non le
chiese scusa. Il palco delle autorità restava mezzo vuoto,
mentre il numero degli spettatori, in piedi, si ingrossava ora
dopo ora. Altri mendicanti si affiancarono a loro, formando
una cerchia di derelitti. Un artigiano, con lo stemma della sua
bottega idraulica sul bavero della giacca, protestò ad alta
voce con gli Ussari più vicini a lui, sostenendo che era uno
scandalo che Cenci e mendicanti potessero stare vicino alle
persone perbene.
«La chiamate umanità, quella?»
Nessuno dei mendicanti gli rispose, né gli Ussari
accennarono a muoversi. Alcuni di loro voltarono il
pennacchio in direzione del cerchio di mendicanti, come per
controllare che ogni cosa fosse al suo posto, e mentre lo
facevano Twelve si accorse che uno di loro era Stephen.
E le si bloccò il fiato in gola.
Seventy Stephen doveva essere arrivato da poco a dare il
cambio ai suoi colleghi, perché indossava una divisa
impeccabile, con i pantaloni neri e gli scarponi lucidi, la
giacca chiara con gli alamari e i bottoni che scintillavano.
Teneva il cappello d’ordinanza allacciato sotto il mento, con
il pennacchio smorto nell’aria immobile della piazza. Era a
meno di dieci metri da lei, così vicino che le sarebbe bastato
alzarsi in piedi e allungare un braccio per poterlo sfiorare.
“Impossibile” si disse.
Era un’assurda coincidenza.
Oppure era quel filo, magico e impalpabile, che in qualche
modo continuava a legarli. Si sentì bruciare gli occhi, e
asciugò quell’accenno di lacrime prima che il professore se
ne accorgesse.
Era pallido, Seventy Stephen, e sotto la giacca sfolgorante
teneva le spalle ripiegate su se stesse. I suoi occhi erano
cerchiati di scuro, la pelle tirata dalla mancanza di sonno.
L’ultima volta in cui si erano incontrati, le aveva detto che
l’amava. Che l’aveva sempre amata, e che se ne era reso
conto quando aveva creduto che fosse morta.
Stephen. Guardandolo nella divisa che tanto aveva sognato
di indossare, Twelve si sentì assalire da sentimenti
contrastanti. Da una parte l’amore, un gomitolo spinoso di
melanconia, affetto e grandi speranze. Dall’altra la delusione,
un essere cieco e brancolante come la statua della Pietà che li
sovrastava. Negli anni dell’orfanotrofio Stephen era stato il
suo migliore amico, l’unica persona di cui si era fidata senza
riserve. Il ragazzo che Twelve aveva difeso da tutto e da tutti
come la cosa più importante della sua vita.
E poi l’aveva tradita: aveva dato l’allarme durante il furto
dall’armaiolo. Aveva chiamato i suoi nuovi amici, gli Ussari.
Aveva rovinato tutto.
E avevano preso Arthur.
«Sei stato tu!» sibilò Twelve, con voce spezzata.
C’era molta confusione, nella piazza, e pochi fecero caso a
quel rantolo disperato. Tra loro, c’era Stephen. Sembrò
riscuotersi all’improvviso, come per un suono di campana, e
prese a guardare i volti delle persone nella piazza, fino a
posare gli occhi, incredulo, sulla massa di stracci da cui
Twelve lo stava osservando.
Allora accadde una cosa inaspettata. Il volto di Stephen
sembrò sciogliersi in un’espressione stupefatta, felice, che la
lasciò ancora più confusa di prima. Twelve sentì qualcosa,
un’energia, un rimpianto, una possibilità, passare nell’aria in
mezzo a loro.
E poi anche il contranello la sentì, e si incendiò: una fitta di
dolore le attraversò la mano e il braccio, poi tutto il corpo,
facendolo inarcare con una ferocissima frustata.
«Che succede laggiù?» gridò Stephen, portando la mano
allo spadino.
«Sono quelle bestie! Ve l’avevo detto!» ruggì l’artigiano di
poco prima.
Il professor Luther si accorse che qualcosa stava andando
storto e si affrettò a strattonare Twelve e ad allontanarsi. I
mendicanti, senza nemmeno pensarci, si mossero intorno a
loro come una spugna, inghiottendoli e poi facendoli
riapparire in un altro punto della piazza, lontano dallo
sguardo degli Ussari.
«Si può sapere cosa è successo?» le ringhiò, mentre la
trascinava via. Ma Twelve non gli rispose. Le fischiavano le
orecchie e il dolore lungo la spina dorsale era così forte che
ebbe paura di morire.
Si distese a terra, cercando di respirare, e guardò il cielo
color carta da zucchero sopra di lei. Lo stesso colore degli
involti su cui appoggiavano i dolcetti canditi, quando ancora
erano al Moser.
«Stephen…» mormorò.
«Chi è Stephen?» ringhiò il professor Luther. Poi capì.
Aveva fatto un colloquio anche con lui, prima di scegliere
Twelve. L’Ussaro. Il suo amico. Si chinò su Twelve e le sfilò
il contranello, facendo cessare di colpo ogni dolore. La
ragazza spalancò gli occhi per la sorpresa e respirò così
rumorosamente da stapparsi le labbra.
Nello stesso istante una fanfara risuonò nella piazza, e la
folla si acquietò all’improvviso. Rimase solo la musica, note
squillanti di strumenti d’ottone, poi lo schiocco dei cancelli
delle Carceri Vecchie che si aprivano.
Una voce gracchiante uscì dagli altoparlanti e rimbombò
intorno al patibolo: «In nome del re, del fiore e della spada»
disse. «E della città di Danubia.»
La fanfara intonò l’inno cittadino, una maestosa sequenza di
marcia, a cui la folla rispose con un applauso cadenzato. E
intanto dalle prigioni sfilò la scorta reale degli Ussari, armati
di lunghi fucili ricurvi, che si divisero attorno al palco,
creando al loro interno il passaggio per i tamburini,
l’orchestra, e infine i cinque condannati.
Erano stati pettinati e vestiti di tutto punto, di nero, con
camicia e cravatta, e reggevano ognuno un cappello sotto
braccio. Tre di loro erano vecchi, con il viso rugoso e le
barbe bianche, curate e impomatate. Arthur era il quarto e si
guardava intorno come se volesse sfidare la folla che era
intervenuta per lui: ma il suo sguardo era vago, remoto.
Seguiva una donna, vestita come gli altri quattro. Poi i
monaci, uno per ogni condannato, con le uniformi bordate
d’argento e i boccali fumanti che trasudavano incenso. Infine
il boia, nel suo lungo mantello porpora, che strisciava sulle
pozzanghere, tingendole di rosso.
La banda musicale si piazzò dietro alle transenne, nel posto
convenuto, e agli squilli di tromba si sostituirono lugubri
tromboni, cadenzati da una cupa grancassa.
I condannati salirono sul palco, docili e incerti. I monaci li
accompagnarono alle rispettive forche e ai cappi lucidi che
dondolavano sopra le loro teste.
Dal palco delle autorità un nobile con i baffi a punta lesse le
loro imputazioni in un microfono a conchiglia, con tono
asciutto e sbrigativo che fece stridere gli altoparlanti: «In
nome del re, del fiore e della spada! Siamo qui ad assistere
all’esecuzione di cinque criminali che hanno trasgredito le
leggi del regno. L’uomo che ha ucciso, l’uomo che ha tradito
il suo paese, l’uomo che ha usato violenza verso i suoi figli,
l’uomo che ha rubato nelle nostre botteghe e la donna che si è
servita del veleno. Per tutti loro il Giustiziere ha decretato
una condanna senza appello. E la Pietà di impartirla per
impiccagione. Possano le loro anime trovare altri nomi più
meritevoli di questi, e mettersi al servizio di altri re e altre
regine.»
Twelve si era aspettata un discorso molto più lungo, invece
quel tipo non aveva neanche letto il nome dei condannati. Si
abbrancò ai vestiti luridi del professor Luther e si mise in
piedi, per vedere.
Il boia si era sfilato il mantello rosso e invitava i condannati
a indossare il cappello che avevano portato sotto braccio.
Twelve cercò Arthur e vide che teneva la testa sollevata
all’insù, come se volesse godersi le ultime gocce di pioggia.
Sembrava tranquillo, non tremava, a differenza di lei che
aveva brividi così forti da dover stare appoggiata al professor
Luther.
Quando anche Arthur mise il cappello, un grande cappuccio
che gli avvolgeva il collo ma lasciava scoperto il viso, si rese
conto che una parte di lei aveva continuato a sperare che
succedesse qualcosa. Che in realtà i professori avessero
orchestrato un piano, una grande entrata in scena, un attacco
dei Cenci e dei mendicanti, o un arciere che, dall’alto del
palco delle autorità, avrebbe tagliato la corda di Arthur con
una freccia infuocata. Aveva sperato di vedere una squadra di
Ladri attraversare la piazza guidata dalla reggente, oppure
Arthur saltare giù dal palco, impadronirsi della spada di un
Ussaro e aprirsi un varco fino al fiume.
Ma ora si rendeva conto che non era così.
Niente avrebbe salvato Arthur.
E lei l’avrebbe visto morire.
Il boia sistemò la corda al collo dei cinque condannati.
Twelve si nascose la faccia tra le mani e le bagnò subito di
lacrime.
Arthur.
Arthur.
«Arthur!» gridò, scoprendosi gli occhi all’ultimo momento.
La folla gridò: «Ooooh.»
E fu tutto.
6
LA LEGGE DEGLI
SPAZZACAMINI
poi cofs’è fsuccefsso?»
«Indovina, scemo. Cosa vuoi che sia successo? Non ci arrivi
da solo?»
Mathias si accorse di aver ferito Sputo e abbassò la testa.
«Che sono morti» disse piano Twelve. «Arthur è morto. La
gente ha applaudito come se invece di un’esecuzione fosse
uno spettacolo di fuochi d’artificio. E poi se ne sono andati a
mangiare.»
I tre ragazzi erano stretti l’uno all’altro nella camera di
Mathias e Sputo, un bugigattolo pieno di serrature e lucchetti,
la grande passione di Sputo, e di pagine di fumetti, palloni da
palla prigioniera e calzini appesi alle maniglie delle finestre.
Sul lato di Mathias, il muro era interamente ricoperto di fogli
di quaderno scarabocchiati e geroglifici incomprensibili.
Se ne stavano seduti lì, senza riuscire a capire come si
facesse a impiccare un criminale. E come si facesse a volerlo
andare a vedere.
Ma era quello il destino che li aspettava, se si fossero mai
fatti beccare.
«E tu come stai?» le domandò Mathias.
Difficile dirlo. Come si sentiva?
Avrebbe voluto rispondere che era dispiaciuta, triste,
distrutta per la morte di Arthur. Ma la verità era che si sentiva
sollevata. Ora era tutto finito, non ci sarebbero più state
recriminazioni, dubbi, dolore.
Arthur se n’era andato.
In quanti se lo sarebbero ricordato, al termine
dell’Accademia?
«Non lo so» rispose. Ed era la verità. «Credo di aver
bisogno di stare un po’ sola e di provare a pensarci, di trovare
un modo per dargli un significato.»
«Però hai una cofsa da fare, prima.»
«E cioè?»
«Lupo è tornato dall’infermeria e mi ha detto che ti vuole
vedere. È fsu, fsotto il tetto.»
Twelve si arrampicò sulla scaletta di corda fino
all’intercapedine delle capriate del tetto dove si trovava la
stanza di Lupo. Salì senza farsi annunciare e, quando sbucò
dal pavimento del sottotetto, trovò Lupo disteso per terra, con
Mia accanto al materasso e una ghirlanda di candele accese
che rendeva la situazione reverenziale. Sul pavimento c’era
una profusione di bende, vasetti di unguento e flaconi di
medicinali. Mia era affaticata e quando vide Twelve diventò
paonazza.
«Che ci fai tu, qui?» esclamò.
«Sono venuta a vedere come sta il capobranco» rispose
Twelve, senza accennare a scusarsi.
«Come vuoi che stia? Male. Mugaba l’ha appena dimesso. E
tu farai meglio a…»
«Va tutto bene, Mia» disse Lupo.
Parlava piano, con un tono flebile che Twelve non gli aveva
mai sentito.
«No, invece!» ribatté Mia, più nervosa di quanto avrebbe
voluto. «E Mugaba ti ha ordinato espressamente di
riposare…»
«Lo ha ordinato anche a te. Eppure sei qui, a vegliare sulle
mie quattro ossa. Coraggio: riposerò più tardi. Ora sono
sveglio, e ho bisogno di parlare con Twelve. Per favore,
lasciaci soli.»
«Ma certo! Come vuoi, signore dei tetti! Come desidera il
capobranco!» sbuffò la ragazza, esasperata. Raccolse in fretta
i medicinali, li infilò in una borsa di tela e raggiunse a grandi
passi la botola. Spinse Twelve con malagrazia e scese di sotto
senza nemmeno salutare.
«Mi dispiace…» disse Twelve. «Io non volevo… Mathias e
Sputo…»
«Non farci caso» la tranquillizzò Lupo. «Abbiamo avuto
tutti una giornataccia. Allora?»
Il capobranco degli Spazzacamini aveva un brutto taglio che
dalla tempia gli mozzava la parte superiore di un orecchio e i
capelli rasati per metà della testa, là dove Mugaba l’aveva
ricucito. Era disteso sopra le lenzuola, vestito solo di un paio
di pantaloncini, e Twelve si accorse che quelle che pensava
fossero ombre delle candele sulle sue costole e sulle gambe
erano in realtà lividi e tumefazioni.
«Se solo provo a metterci un lenzuolo sopra, urlo…» disse
Lupo, invitandola a sedersi.
«Immagino» disse Twelve, muovendosi con la cautela
riservata ai luoghi sacri. «Mi dispiace per quello che è
successo… Io non pensavo che avrebbero mandato i golem.»
«Non dispiacerti. Non è stata colpa tua.»
Non è stata colpa tua.
Faceva bene, per una volta, sentirselo dire. Twelve fece
scrocchiare il collo, prima su una spalla e poi sull’altra.
«Com’è stato?» le domandò Lupo.
Twelve cercò tra le parole, e poi decise per quella più facile
di tutte: «Orribile.»
«Hai guardato fino alla fine?»
«Sì.»
Lupo annuì, gravemente. Restarono per alcuni istanti ad
ascoltare il crepitio delle candele.
«Le spegneresti?» le domandò. «Fanno un buon odore,
ma… tutta questa luce…»
Twelve si arrampicò sulle travi, spegnendo le candele a una
a una.
«A volte si ha l’impressione di impazzire qui dentro»
mormorava Lupo, intanto. «Ma ci sono forze, in questo
posto, di cui non siamo nemmeno al corrente. Forze che
arrivano da sotto…»
«Vuoi dire i Cenci?»
«Voglio dire che è un posto senza storia. Nessuno può dire
con certezza da quanto esista, né perché, né cosa sia davvero
successo a quelli che sono passati di qui prima di noi. Solo
leggende. Voci e leggende. Quando ero al primo anno, ad
esempio, mi dissero che all’inizio del quarto metà della classe
veniva storpiata dai professori, per diventare mendicanti,
perché sembrava che tutti i ragazzi del quinto fossero
sciancati. E invece anche loro avevano tentato una rivolta. E
gli era andata peggio che a noi, dopotutto…» Lupo tossì. Una
tosse secca, che lo fece gemere di dolore. «Comunque, grazie
per le candele. Va molto meglio, così. Non è questo il motivo
per cui volevo vederti.»
I suoi occhi gialli, dello stesso colore del miele, languivano
nell’ombra.
«Avvicinati, faccio fatica a parlare.»
Twelve si inginocchiò nella stessa posizione che era di Mia.
Protese il viso per ascoltare Lupo e nel farlo sentì odore di
disinfettante, di olio e unguenti, che ne coprivano uno più
pungente e selvatico, che sapeva di bosco. L’odore di Lupo.
Lui disse, semplicemente: «Voglio che tu entri
nell’Ordador.»
«Co-cosa?» balbettò Twelve, sicura di non aver capito bene.
Eppure, mentre lo domandava, qualcosa le risuonò nella
memoria, come se in realtà avesse dovuto capire quello che
Lupo le aveva sussurrato.
Lupo sogghignò, e provò a muoversi sul materasso. Ma di
certo la sua schiena non doveva essere conciata meglio del
torace. «Cosa ti dicevo, riguardo alla storia di questo posto?
Nessuno sa niente. E tutti immaginano quello che vogliono.
O che trovano scritto sui muri…»
Era lì che aveva già letto quel nome, pensò Twelve?
Ordador? Forse durante le notti trascorse a elaborare un piano
per scappare, tra i mille messaggi che generazioni di
Spazzacamini avevano lasciato nel corso degli anni. Accanto
alle cinque regole della confraternita o a quella minuscola
scritta nell’abbaino, con i nomi di Lupo e di Amaryllis, la sua
misteriosa compagna.
«L’Ordador, Twelve, viene riunita solo una volta ogni tanto.
Io ne ho viste due da quando sono qui, ma non conta, perché
la prima fu sbaragliata non appena mise il naso nel Palazzo
dei Girasoli e la seconda quando cercò di vendicare la
prima.» Lupo sollevò una mano in un gesto che significava
“niente da fare”. «E no, non intendo parlarne ora. È un
gruppo di Ladri molto speciale, con un compito molto
speciale, che però viene rivelato solo all’ultimo momento. Un
gruppo composto dai professori e una matricola. È una
tradizione.»
«E io che c’entro?»
«Voglio che tu sia quella matricola.»
Twelve pensò che la stesse prendendo in giro.
«E cosa ti fa pensare che scelgano proprio me?»
«Sssh» disse Lupo. «Smettila di protestare una buona volta!
A partire dalle prossime settimane i professori vi metteranno
sotto pressione per decidere chi sarà il prescelto. Vi
riempiranno la testa di scemenze: tipo che far parte
dell’Ordador è un privilegio unico nella vita, che è un onore e
una tradizione millenaria. Fregatene delle motivazioni, fallo e
basta. Hai buoni voti, sei brava in quasi tutte le materie, e ti
odiano a sufficienza da poter essere un capo, se non ci fossi
io. Un tempo mi hai detto che volevi essere la migliore. Ecco,
questa è la tua occasione. Voglio che entri nell’Ordador e
partecipi al colpo.»
Twelve non riusciva a credere alle proprie orecchie. «E
perché mai dovrei farlo?»
«Per due motivi» le rispose Lupo, appoggiandosi al gomito
per fronteggiarla. «Il primo è perché te lo chiedo per favore.
E il secondo è perché te lo sto ordinando. E uno
Spazzacamino obbedisce sempre agli ordini del suo capo.
Anche se ha il cuore spezzato. Anche se aveva dei sogni e la
pioggia se li è portati via. E l’unica cosa a cui continua a
pensare è scappare da qui.»
7
LA BAMBINA PRODIGIO

ainon si mise a sedere di scatto sul


letto, si guardò intorno, si rimise giù, cercò di riprendere
sonno, non ci riuscì, si rialzò, sospirò, scivolò fuori dalle
coperte e frugò nell’armadio alla ricerca di un libro. Poi tornò
a letto e lo sfogliò pretendendo di saperlo leggere alla
perfezione. Alla quinta risatina, Twelve si rigirò tra le
lenzuola e le chiese: «Ninon! Che ti prende?»
«Oh, niente, niente…»
«Non direi: che ci fai già sveglia? Che ore sono?»
«Non lo so.»
«È ancora buio.»
«Non è vero. C’è già il sole.»
Ninon appoggiò il libro e si avvicinò alla porta della camera.
«Dove vai?»
«In bagno. Perché, non posso andare in bagno?» e le fece
una linguaccia.
Twelve si rigirò nelle coperte, esausta, cercando di
riprendere sonno. Ma ormai era sveglia, quindi si arrese e si
alzò anche lei, e andò nella soffitta comune a fare un po’ di
esercizi.
Quando fu il momento di vestirsi, anche Ninon fece
altrettanto, e scelse il suo vestito più bello, bianco a fiori
rossi, che avevano proprio il colore dei suoi capelli, o almeno
così sosteneva lei. Indossò le scarpe con le stringhe e
supplicò Twelve perché le facesse le treccine.
A quel punto Twelve tornò alla carica.
«Si può sapere che hai oggi?»
«Non ho niente!»
«Invece sì. È da stamattina che sei strana.»
Ninon la guardò arrabbiata. Poi sorrise.
«È perché oggi è un giorno speciale: ci sarà una sorpresa!»
decise finalmente di rivelarle.
«Una sorpresa per chi?»
«Per te! Per tutti!»
«E che cos’è?»
«Non posso dirlo a nessuno. L’ho promesso.»
«L’hai promesso a chi?»
«Non posso dire neanche questo!»
Le fece le treccine.
«Senti…» sospirò, alla fine. «Io oggi ho don Giacomo, e
quindi non ho molto tempo per la colazione. Non so cosa tu
abbia in mente, ma cerca solo di non metterti nei guai,
d’accordo?»
«D’accordissimo!» rispose la piccola.
Twelve le stampò un bacio sulla fronte e poi scese in sala
mensa, due gradini per volta.
La lezione di don Giacomo passò in uno sbuffo di noia, e a
mezzogiorno, subito prima del pranzo, i ragazzi del primo
anno si trasferirono in Sala d’Armi. Era uno stanzone stretto e
lungo, senza finestre, con i muri corazzati. Decine di lance,
alabarde e picche erano appese a X alle pareti, e al di là di un
basso muretto si trovava un piccolo poligono di tiro, con
alcuni manichini malconci e il muro di fondo crivellato di
pallottole.
Di Arthur nemmeno una parola. La notizia del giorno
pareva essere Antara che sfiorava la mano di Owen, e la
povera Gloria che era tornata in camera piangendo.
«Piangeva davvero?» domandò Cressida.
«Come una fontana» disse Katja.
«Secondo me dovrebbe solo essere contenta» esclamò
Rebecca, sostenuta. «Owen è un idiota.»
«No che non lo è!»
«Un idiota.»
«Ma un idiota carino.»
«Sono i peggiori…»
FFFFTTTT!
Un proiettile sibilante delle dimensioni di una grossa vespa
passò attraverso gli orecchini ad anello di Rebecca e centrò la
spalla di Zella, che chiacchierava dietro di lei.
«AHI!» urlò la ragazza. Un minuscolo pungiglione
d’acciaio le sporgeva dalla pelle, sottile come un ago e
leggermente acuminato a un’estremità. «Ma che roba è? Non
toccarlo, fa male!»
I ragazzi si assieparono intorno a lei e poi la professoressa
Akiko sbucò da dietro una rastrelliera. «Chi di voi vuole
ricordarmi la regola numero uno della Sala d’Armi?» Era una
donna minuta, solida e flessuosa come una canna di bambù, e
reggeva in mano una cannula di metallo lunga un metro e
mezzo.
«Coleridge?»
Il giovane Lord si aggiustò il cravattino: «Mai abbassare la
guardia, professoressa.»
«Per l’appunto. E voi, ragazze, che cosa stavate facendo?»
«Io non stavo facendo proprio niente!» protestò Zella.
«Ma non hai neanche schivato il colpo. L’estremità di quel
dardo è avvelenata. E hai ancora pochi secondi di tempo,
prima che faccia effetto. Per levarlo usa questa: appoggiala
alla ferita e inspira, forte, con i denti chiusi, altrimenti te lo
tirerai in gola… se pensi di non riuscirci, fallo fare a
qualcuno di tua fiducia.»
Lanciò la cannula alla povera Zella, che la acchiappò al volo
e poi si guardò intorno in cerca di qualcuno a cui affidarla.
Cressida si allontanò velocemente, e così Katja. Zella passò
la cannula a Rebecca, che aspirò il dardo, e poi lo sputò sul
pavimento.
«Mi ha punto!»
«Denti più stretti, la prossima volta!»
«Ma mi ha punto davvero, professoressa… e ora, il
veleno…»
«Non c’era nessun veleno. Volevo solo vedere come vi
comportavate. Cressida, Katja, cinquanta flessioni al termine
della lezione. E poi scusatevi con la vostra amica: quando si
sbaglia in gruppo, si cerca di riparare tutti insieme, chiaro?
Nessuno indietro, mai. Bene! Come si chiama l’arma di
Rebecca, Mathias?» domandò Akiko.
«Perfidia?» rispose il ragazzo, facendo sorridere tutti, ma
poi subito aggiunse: «È una cerbottana?»
«Precisamente. La Madama Muta. Qualcuno sa dire perché
la chiamiamo così?»
Un paio di altre cerbottane comparvero tra le sue mani, e
Akiko le fece roteare tra le dita come se fossero bastoni da
passeggio.
«J.J.T.?»
Il ragazzo, ancora zoppicante dopo gli scontri del venerdì
sera, improvvisò una risposta qualsiasi: «Ehm… Perché… è
elegante?»
«E…?»
«FSilenfziofsa?» aggiunse Sputo.
«Esatto. È una delle armi più silenziose al mondo, e basta
un bel vestito per nasconderla e superare buona parte dei
controlli. E se poi è costruita con un materiale abbastanza
solido, come questo, può essere usata come bastone da
combattimento corpo a corpo. Ma qual è il suo punto debole?
Rebecca?»
La ragazza sogghignò: «Un fucile d’assalto farebbe più
danni. E io avrei perso il mio orecchino.»
La professoressa di Armi e Combattimento chinò il capo in
un gesto d’assenso, che le fece cadere sulla fronte il caschetto
affilato e poi le lasciò coperto l’occhio destro. «La cerbottana
non è un’arma ad alto potere distruttivo. La sua gittata
dipende dalla forza dei vostri polmoni, e dalle condizioni del
vento. È discreta, ma con il dardo giusto assolutamente
imprevedibile. Immaginatevela usata in movimento su
bersagli particolari in una grande folla. Impossibile
determinare da dove sia partito il colpo. Quello che ha
centrato la vostra amica Zella era un semplice ago
dissuasore… Ma esistono dardi esplosivi, radioguidati,
alchemici. Con il giusto allenamento, una cerbottana può
diventare la migliore amica di un assassino. Da cui il
nomignolo con cui l’ho chiamata. E se adesso volete
dividervi queste e mettervi in fila dietro di me, è il momento
di passare alla pratica…»
L’annuncio dell’Ordador venne dato a pranzo, nell’euforia
generale. La reggente disse che era il caso di mettere una
pietra sopra a quanto era accaduto la settimana prima e si
augurava che la lezione dei golem servisse a rinsaldare il
rapporto tra i ragazzi e i professori. Parlò di una generica
uscita di un gruppo ristretto di professori e aggiunse che, per
l’occasione, sarebbe stata selezionata una matricola del primo
anno. Perché era tradizione, disse, esattamente come Lupo.
Per tutta la durata del discorso, Twelve evitò di incrociare lo
sguardo del suo capobranco, e rimpianse di non avere con sé
la cerbottana caricata a dardi avvelenati. Le parole della
reggente le scivolavano nelle orecchie come uno sciame di
mosche, anche quando parlò del premio riservato a chi
avrebbe partecipato all’uscita: nessun esame di fine anno,
trenta denari da spendere a piacimento e una giornata di
libertà tra le vie di Danubia, senza sorveglianti.
Dai tavoli si levò un “Evviva!” seguito da uno scroscio di
applausi che a Twelve parvero particolarmente fuori luogo.
Ma come? Solo tre giorni prima quella stessa persona
mascherata aveva dato ordine di massacrarli di botte, e ora la
applaudivano? Eppure tutti gli altri sembravano essersene
dimenticati, come se quei lividi e quelle ossa rotte fossero la
giusta punizione per un atto sconsiderato. Avevano
cominciato a parlare tutti insieme: un giorno a Danubia!
Trenta monete! Senza sorveglianti! Potevano uscire da soli o
con un amico?
La sala tornò a essere in fermento, un fermento ben diverso
dalle ingloriose barricate della settimana precedente. I golem
avevano sistemato ogni cosa, e solo un occhio attento poteva
leggere le tracce del recente combattimento nelle colonne
lievemente sbrecciate, nella costola mancante del grande
scheletro di balena, nelle numerose sedie e nei tavoli
azzoppati.
Finirono di mangiare in un lampo, Twelve compresa, e poi i
ragazzi del primo anno si riunirono nel corridoio che
conduceva alle aule di Medicina e Patologia del dottor
Mugaba.
«Voi come li fspenderefste?» esclamò Sputo.
«Io andrei all’Opera, a vedere un concerto dei Danubiani
Regi» rispose Karl, che dietro al suo fisico da Acrobata era
stato un suonatore di arpa millecorde alla Scuola Preparatoria
Ostenshof.
«Puah! L’orchestra!» esclamò Igor dei Lord. «Io spenderei
tutto al Cafè de Lune.»
«Il Cafè de Lune? E cos’è?»
«Uff, ma dove vivete, voialtri? È un locale che apre solo di
notte, ed è sempre buio!»
«E come si fa a vedere?»
«Perché le luci sono le cameriere, no? Sono completamente
nude, con la loro pelle ricoperta da una vernice che si
accende nel buio, come le stelle e la luna! E se hai soldi
abbastanza…»
Tra i ragazzi calò un religioso silenzio, rotto infine da
Rebecca, che ridacchiò cristallina: «Non avrai mai
abbastanza soldi per convincerle, Igor!»
«Vuoi scommetterci?» replicò lui, ma intanto tutti erano
scoppiati in una risata.
Tutti tranne Twelve, che fissava l’aula di Mugaba con un
groppo in gola. Andava d’accordo con il dottore, e le
piacevano le sue lezioni, ma dalla cattura di Arthur si sentiva
a disagio in quella stanza sotterranea e buia, che odorava di
salnitro.
Il medico dell’Accademia dei Ladri li attendeva appoggiato
a un tavolo operatorio di alluminio, nel centro dell’aula a
gradoni. E non era solo. C’era anche il Grande Manny, il
professore di Furto con Scasso. Mugaba, nero come un tronco
di quercia colpito da un fulmine, era più alto del tavolo di un
buon metro e mezzo, mentre il Grande Manny ci era seduto
sopra, con le gambette penzoloni. Il primo indossava un
camice color crema e il secondo una clamorosa camicia a
righe che metteva ancora più in risalto i suoi lunghissimi
capelli impomatati e la schiena curva da nano.
Twelve fece appena in tempo a entrare in aula che venne
investita da una specie di proiettile con le treccine che urlava:
«Tweeeeelve!»
La comparsa di Ninon la colse talmente di sorpresa che
Twelve si ritrovò a ruzzolare per terra, con la bambina a
cavalcioni. Ninon aveva un sorriso che le andava da un
orecchio all’altro e continuava a ripetere a una stupefatta
Twelve: «Sorpresa! Sorpresa!»
Non appena si riprese, Twelve la sollevò per le braccia e la
guardò controluce, domandandole: «E tu che ci fai qui? Chi ti
ha detto di uscire dalla soffitta, eh?»
«Ho avuto il permesso!»
«Io non ti ho dato nessun permesso!»
Twelve sentì arrivare alcuni passetti veloci e si mise in
ginocchio appena in tempo per trovarsi all’altezza degli
occhietti del Grande Manny.
«È tutto a posto, ragazzina. Gliel’ho dato io, il permesso.»
«Che significa?»
«Significa che questa bambina ha il più grande talento con
le serrature che mi sia capitato di vedere negli ultimi
trentaquattro anni» spiegò il professore. «Ovvero da quando
ho avuto modo di utilizzare il mio primo specchio. Proprio
oggi, mentre voi eravate impegnati con le altre lezioni, le ho
portato un Remington-H-4, e lei lo ha aperto senza neanche
bisogno dei grimaldelli.»
«Ma è impofssibile!» sbottò Sputo, che tra gli Spazzacamini
era il numero uno delle serrature. «Tutti fsanno che un R-H-4
è il Cimitero degli fscafssinatori!»
«Forse a lei non glielo hanno ancora spiegato…» ridacchiò
Mathias, al suo fianco.
«Questa è buona, mattacchione» rise con lui il Grande
Manny, e poi continuò: «D’accordo con la reggente e i
colleghi, abbiamo deciso di ammettere Ninon ad alcune
lezioni. Di sicuro le mie.»
«Ma… ma… non potete!» disse Twelve. «È ancora troppo
piccola!»
«Ehi, ragazzina. Vuoi che ti ricordi quante volte lo hanno
detto a me, che ero troppo piccolo?» rispose il Grande
Manny.
«Mi dispiace, professore, ma lei… lei non può stare qui…»
«Ma Twelve!» esclamò Ninon. «Non sei contenta di
vedermi? Possiamo andare a lezione insieme!»
«Ninon, questo non è un posto per te.»
«E qual è, allora? Devo passare la mia vita da sola in
soffitta? Non puoi costringermi! Non sei la mia mamma!»
Quelle parole colpirono Twelve come uno schiaffo. La
bambina le lanciò un’ultima occhiata, che voleva essere
addolorata, ma che risultò solo cattiva, e si mise a sedere in
un posto defilato, incapace di ribattere. Sentì Ninon
singhiozzare ma tenne lo sguardo basso sul quaderno azzurro,
fingendo di leggere. Poi Sputo e Mathias presero la bambina
in mezzo a loro, il Grande Manny si infilò un lungo paio di
guanti di lattice e la lezione iniziò.
«Bene ragazzi, guardate sotto il banco» esordì Mugaba, dal
tavolo operatorio. «Oggi parleremo di acidi e sostanze
alchemiche corrosive. Infilatevi i guanti e cercate di fare
attenzione, perché potreste provocare danni piuttosto
spiacevoli alla vostra pelle. A cosa serve conoscere gli acidi?
Ad esempio, a imparare quali di essi possono essere usati per
sciogliere il metallo…»
Il Grande Manny gli lanciò dalle fila di banchi una boccetta
di profumo e Mugaba la acchiappò al volo, la stappò e poi la
fece gocciolare sul tavolo operatorio. Dal centro del lettino di
metallo si alzò prima una nuvola color argento, poi un vortice
di fumo accompagnato da un sibilo spaventoso, e non appena
terminò il dottore fece passare una mano attraverso il foro
che si era formato.
I ragazzi applaudirono, e Ninon gorgogliò una risatina.
Twelve si impose di ignorarla. Avrebbe voluto trascinarla su
in soffitta, e magari rifilarle uno scapaccione. Possibile che
non capisse cosa le stavano facendo vedere, che cosa
volevano che diventasse? Ma no, certo che non capiva. Era
solo una bambina.
Erano i professori, i responsabili di quell’abominio. Il
Grande Manny stava cercando di portarle via Ninon.
Ma lei non l’avrebbe permesso. Oh, no! Niente da fare.
Ninon resta con me.
8
IL SIGNORE DEI GOLEM

welve?»
«Sì, dottor Mugaba?»
«Posso parlarti un momento?»
I ragazzi stavano sciamando fuori dall’aula, dove il medico
e il Grande Manny avevano mostrato e fatto con loro i primi
esperimenti con gli acidi. Avevano forato il metallo, corroso
un muro di pietra e sciolto alcuni vetri con gocce color
ambra. Twelve lo raggiunse accanto al tavolo dove, con
infinita cautela e l’aiuto di una pipetta, stava versando gli
ultimi resti di acido nitrico in un contenitore.
«Ti tratterrò solo pochi minuti» disse il medico, lasciando il
tempo di rimanere soli.
«Le serve una mano?» domandò Twelve.
«Sì. Bisogna chiudere i coperchi dei vasetti, e metterli tutti
in quella cassetta. Facendo molta attenzione…»
«Ci tengo a rimanere viva.»
«Appunto.»
Mugaba le sorrise in uno scintillio di denti bianchissimi.
Lavorarono alcuni istanti in silenzio, allineando le varie
sostanze in barattoli etichettati con i misteriosi caratteri
alchemici che solo chi studiava farmacopea sapeva
interpretare. Poi, quando ebbero terminato, e dei compagni di
classe di Twelve non rimase che un lontano brusio, la ragazza
domandò: «Immagino che ora voglia parlarmi di Ninon…»
«Anche. Ho visto che se n’è andata via senza salutarti. E
durante la lezione non vi siete nemmeno guardate…»
«È arrabbiata con me. E la capisco, dal suo punto di vista
devo essere una specie di mostro che le impedisce di uscire
da quella soffitta e la lascia sempre sola.»
«Ma non è così. Tu stai solo cercando di proteggerla.»
«Sì.»
«E sei arrabbiata con noi professori.»
«Sì.»
Il dottore caricò la cassa di acidi su un carrello e poi afferrò
il maniglione per spingerlo. «Posso farti una domanda,
Twelve? Da quanto tempo non parli con Ninon?»
Twelve fu colta di sorpresa.
«Cosa intende dire? Le parlo tutti i giorni.»
«Voglio dire una conversazione vera. Una conversazione in
cui vi confrontate sulle cose più importanti per voi.»
«Oh…» prese tempo Twelve. Non ricordava di aver mai
fatto a Ninon un discorso simile, ma era ancora troppo
piccola!
«Vedi» continuò Mugaba, «io oggi pomeriggio le ho parlato
prima che arrivaste voialtri. Era contentissima, e mi ha detto
che giocare con le serrature è la cosa che la rende più felice al
mondo. Tu lo sapevi?»
«Che Ninon è brava con chiavi e lucchetti? Sì che lo
sapevo…»
«Ma che è felice di farlo? E che quando voi siete a lezione,
lei si esercita per conto suo con tutto quello che trova in giro?
Ti ha detto che ha rubato un paio di manette a Mister Peele,
da cui è in grado di liberarsi in quindici secondi netti?»
No, di questo a dire la verità Twelve non aveva idea. Ma
non era quello il punto. Il punto era che Ninon non doveva
imparare a fare quelle cose. Non doveva stare lì.
«Hai ragione, Twelve, Ninon è solo una bambina e ha
bisogno di essere protetta. E i tuoi crucci ti fanno onore. Ma
quando la guardi e vedi una bambina, non significa che non
sia una bambina con sogni, dubbi, passioni. E talento. Ma se
nessuno la fa esprimere, vivere in questa Accademia sarà
difficile per lei quanto lo è per te.»
«È difficile solo per colpa vostra!» sbottò Twelve. «L’avete
condannata a prendere un antidoto ogni giorno e… se non lo
prende…»
Il professor Mugaba fermò il carrello. «Se non lo prende?»
Twelve si morse la lingua. Se il dottore sapeva che Mister
Peele non aveva portato da mangiare a Ninon, allora sapeva
che Twelve nascondeva in camera l’antidoto dei fratelli
Zorba. E se sapeva dell’antidoto…
Si affrettò a cambiare argomento: «È stato bello avere
l’infermeria piena, dottore?»
L’espressione di Mugaba si fece di colpo mortalmente seria.
«No, non lo è stato. E se vuoi saperlo, io ero contrario a
ubbidire all’ordine del Nero… Sono un dottore, cerco di
curare le persone, non di conciarle per le feste. Ma non posso
decidere per gli altri, Twelve. Tutto ciò che posso decidere è
quello che faccio io, e perché lo faccio…»
«È già in una posizione di vantaggio, signore, se posso
permettermi.»
«Forse. O forse no. Comunque sia, io ho scelto di aiutare le
persone. Tutte le persone. Anche quelle cattive. Perché non lo
fai anche tu?»
«Cosa intende dire?»
«Che l’infermeria è sempre aperta, e che un’aiutante
potrebbe farmi comodo. Ogni tanto, nel tempo libero, potresti
venire sotto da me. Se ti va, ovviamente.»
A Twelve andava. Non ci aveva mai pensato prima, ma le
andava eccome. Camminò dietro al camice del dottor
Mugaba, lungo un corridoio che terminò in un vecchio
montacarichi arrugginito.
«Si capisce da come segui le lezioni, che vorresti fare di più.
Ti si illuminano gli occhi. È così anche per Ninon quando
parla con Manny. Forse perché… sono alti uguali…»
Sorrisero entrambi, poi il montacarichi arrivò al piano,
gracchiando orrendamente.
Il dottor Mugaba spinse fuori il carrello. «Permettile di
brillare. Permettile di fare qualcosa che le piace. Dopotutto,
voler bene a qualcuno significa anche lasciarlo libero.»
Il deposito dei medicinali era più che altro uno sgabuzzino,
stretto e lungo, con alti scaffali di metallo protetti da una
porta ferrata e da un lucchetto. Un Remington-H-4,
ovviamente, lo catalogò Twelve, mentre tirava fuori dal
carrello i vasetti di acidi e li allineava sull’unico ripiano che
non era chiuso a chiave, come le aveva ordinato il dottor
Mugaba. Per seguirlo là sotto aveva saltato l’ultima lezione
della giornata con la professoressa Isadora, ma né lei né il
dottore sembravano molto preoccupati. Lui fischiettava
nell’altra stanza. E Twelve si guardava intorno, attenta e
stanchissima al tempo stesso. Pensava a Ninon, ovviamente, e
ai consigli di Mugaba. Sapeva benissimo di non essere la
mamma di Ninon, ma lei una mamma vera non l’aveva mai
avuta. E dunque Twelve poteva andare, come mamma, anche
se aveva solo dodici anni. L’idea, però, la disturbò. Una
sorella maggiore. Ecco, così andava meglio. Che cosa
avrebbe dovuto fare, una buona sorella maggiore? Sistemò
anche l’ultimo dei vasetti, alzandosi in punta di piedi, e nel
farlo spinse il carrellino contro alcuni scatoloni accatastati
nell’angolo più buio del deposito medicinali. Erano pronti per
essere bruciati nella grande caldaia dell’Accademia, ma ad
attirare l’attenzione di Twelve fu il mittente, inciso a fuoco
sul cartone.
Fratelli Zorba – Alchimisti e
Farmacopisti
Strada Stretta – Quartiere Tabàn – Prima Circoscrizione
Nel vedere di nuovo quel nome il cuore di Twelve si fermò
per un momento. In fondo era del tutto normale che, nel
deposito medicinali, ci fossero dei vecchi cartoni di farmaci
da buttar via. Eppure, dopo quello che era successo
all’esame, il loro nome era bastato a farla sussultare. Si chinò,
afferrò uno dei cartoni, ci guardò dentro. Vuoto. Il secondo:
vuoto, e così il terzo.
Erano tutti vuoti, tranne che per un foglio di carico,
ripiegato più volte in un angolo del quarto. Twelve controllò
che il dottore fosse ancora seduto alla sua scrivania e poi lo
recuperò, facendo attenzione a non far rumore. Lo aprì e lo
lisciò tra le mani. Era un elenco di tutto ciò che Mugaba
aveva fatto acquistare per l’infermeria. Alcuni nomi le erano
già noti, altri completamente sconosciuti, come POZIONE
PLACIDIA, di cui il medico aveva ordinato 12 flaconcini, per
un trattamento annuale.
Un trattamento annuale di cosa?, si domandò Twelve.
«Twelve?» la chiamò il dottore, dall’altra sala. «Tutto bene,
con quei flaconi?» Lei si ficcò in fretta il foglietto in tasca ed
esclamò ad alta voce: «Sì, sì. Ho finito.»
«Grazie dell’aiuto, allora. Ci vedremo di nuovo, fuori dalle
lezioni?»
«Forse» rispose Twelve, avvampando, e ficcandosi ancora
più a fondo nella tasca il biglietto ripiegato. «Forse sì, dottor
Mugaba…»
E poi uscì di corsa dal magazzino.
Quando tornò in soffitta, Ninon non era in camera. La
immaginò a giocare con Sputo alle costruzioni, e cercò di non
badarci troppo. Si era preparata centinaia di volte cosa dirle e
cosa risponderle, e aveva voglia di vederla. Si chiuse in
camera ad aspettarla. All’improvviso, le sembrò una stanza
completamente vuota. E in parte lo era: non c’erano né i
vestiti di Ninon, né i suoi giochi. Si sentì mancare il fiato, ma
non fece nemmeno in tempo a uscire nel corridoio che Henna
e Cressida bussarono alla sua porta.
«Dov’è finita?» urlò Twelve.
«Stai calma… Ha spostato tutto da noi» rispose Henna,
appoggiandole una mano sulla spalla.
«È arrabbiatissima, o almeno così dice» aggiunse Cressida,
con un sorriso. «Ma dubito che le durerà molto.»
«Voi non la conoscete…»
«Cressida ha ragione» riprese Henna. «È solo un po’ di
orgoglio. Vedrai che già questa notte tornerà da te.»
Twelve sbirciò sopra la sua spalla, in direzione della loro
camera.
«Posso parlarle?»
«Volentieri, ma… non è da noi.»
«È passato Sputo, con una grande scatola di non so cosa…»
«Costruzioni» indovinò Twelve.
Le tre ragazze confabularono ancora qualche istante tra loro,
prima di dividersi. Twelve le ringraziò dell’appoggio e poi si
buttò sul letto, con una gran voglia di piangere. Non pensava
che litigare con Ninon le avrebbe fatto così male. Era come
un tradimento. Da quando erano all’Accademia avevano
sempre dormito insieme, a parte quando Twelve era stata
rinchiusa in Quarantena. Insieme erano uscite
dall’orfanotrofio, insieme erano scappate e insieme erano
tornate indietro. E Twelve immaginava che allo stesso modo
avrebbero affrontato tutto quello che la vita aveva messo loro
davanti.
Senza nemmeno accorgersene si assopì e, quando si svegliò
era ancora sola. Le luci della soffitta erano già spente, segno
che era passata la mezzanotte, e così Twelve strisciò fuori
dalla sua camera a tentoni, in punta di piedi. Entrò nella
stanza di Mathias e Sputo senza bussare, soprappensiero
com’era.
Sputo dormiva per terra, in una sorta di rifugio buio che si
era costruito tra il materasso e l’angolo della stanza più
lontano, mentre Mathias, in un logoro pigiama che lo faceva
sembrare ancora più magro e ossuto di quanto non fosse, era
seduto al centro del letto chiazzato di luce, in mezzo a una
catasta di fogli e di appunti.
«Ehi! Che ci fai qui?» strillò quando la vide entrare,
cercando di recuperare velocemente i fogli.
«Scusa» disse Twelve. «Cercavo Ninon. Mi avevano detto
che era con Sputo e…»
«Sputo è tornato un’ora fa» rispose Mathias, evidentemente
seccato, come qualcuno che è appena stato interrotto mentre
faceva qualcosa di fondamentale. «E prima ha accompagnato
Ninon da Henna e Cressida. Se la rivuoi, vai a bussare da
loro…»
Una morsa si chiuse intorno alla gola di Twelve. Si
appoggiò alla porta e si abbandonò a un profondo sospiro.
«Ok, scusa di nuovo… Volevo solo essere sicura che stesse
bene…»
Guardò distrattamente i fogli e gli appunti, illuminati dalla
luce delle candele, e immaginò che Sputo si fosse andato a
rifugiare nell’angolo più lontano perché non era la prima
notte che Mathias stava sveglio fino a tardi. «Che stai
facendo?»
Mathias recuperò altri fogli, sottraendoli alla sua vista.
«Niente che ti riguardi. Anzi, per favore, vai via.»
Twelve si sentì di nuovo pugnalata senza una ragione. Prima
Ninon, poi Mathias. Perché? Che cosa aveva fatto, di tanto
terribile, per essere trattata così dalle persone a cui voleva
bene?
Si girò senza dire una parola e si infilò nella porta, con la
gola secca e il cuore pesante.
«Twelve?» la chiamò Mathias. «Scusami, sono stato un
cretino. Davvero… C’è un foglietto vicino alla porta. Ti
andrebbe di passarmelo?»
Era a pochi passi dal piede scalzo di Twelve, tutto
scarabocchiato a inchiostro e a matita: c’era un disegno
squadrato attraversato da fulmini, come una specie di
circuito, e strane parole tratteggiate. AUTORIZZA-MI,
SEGUI-LO, PARLA-MI…
Lo raccolse.
«Io questo me lo ricordo, però» mormorò, porgendolo a
Mathias. «La sera in cui i golem ci hanno attaccato…»
«Parla piano…»
Si sedette sul bordo del materasso, fissando Mathias con gli
occhi spalancati. «Tu ti sei messo a fare dei gesti e a dirgli
quelle parole… che cosa stai facendo?»
«Provo» rispose Mathias.
Twelve aguzzò la vista, per cercare di capire quello che il
suo amico aveva scritto sulle decine di altri disegni e appunti
in mezzo ai quali si era seduto come una chioccia con i suoi
pulcini.
«Sono istruzioni, vero?» decise, alla fine di quella breve
indagine. «Istruzioni per i golem.»
«Dovrebbero esserlo, ma… non funzionano!»
Mathias si infilò le mani tra i capelli e rise, piano,
scompigliando poi anche i suoi appunti e mandandoli a
planare nei quattro angoli della stanza.
«Che cosa stai cercando di fare, Mathias, moccioso che non
sei altro?» gli sibilò Twelve, altrettanto divertita, imitando la
voce del professor Zefirotti.
«Non saprei dirtelo meglio di così, ma… ho scoperto che i
golem…» e ridusse la voce a un sussurro, costringendo
Twelve ad avvicinarsi a meno di un palmo dal suo naso.
«Conoscono due modi di parlare. La parola e… il
Linguaggio.»
«Sembra molto interessante. E cosa significa?»
«Attraverso la parola i golem comunicano con noi. Il
Linguaggio invece funziona a un livello diverso, più
profondo. Si può cambiare, e una volta cambiato il golem lo
registra nei suoi meccanismi più nascosti, ed è costretto a
eseguire tutto ciò che dice…»
«Non credo di aver capito» ammise Twelve.
Mathias sembrò entusiasmarsi della sua attenzione e
continuò: «Allora ti faccio un esempio. Tu hai un cuore, e il
tuo cuore batte, giusto? Lo senti?»
Mathias le appoggiò una mano sul petto e premette, piano.
«Sì. È piuttosto imbarazzante, ma batte proprio lì.»
Il ragazzo staccò la mano, rosso in viso. «Non è che ci
pensi, o che ti devi ricordare di farlo, però. È un movimento
automatico. E anche se decidi di fermarlo, non puoi.»
«Non posso fare molte cose.»
«C’è qualcosa dentro di te che fa battere il cuore anche se
non vuoi, che ti fa respirare anche se non vuoi. E che fa tutte
le cose che tu fai senza pensare. Per i golem è la stessa cosa,
solo che è possibile… leggerlo? Scriverlo? Se gli dai
un’istruzione nel loro Linguaggio, qualcosa tipo BATTI-
CUORE-SEMPRE-TI, loro sono obbligati a eseguirla senza
discutere, perché non possono decidere cosa vogliono e cosa
non vogliono fare, come tu con il tuo cuore. Devono obbedire
agli ordini.»
«Come noi con Lupo…»
«Non esattamente. Noi possiamo disobbedire, sappiamo o
crediamo di sapere cosa sia meglio fare e ci comportiamo di
conseguenza, mentre un golem no. Non ha scelta. Non può
prendere le decisioni complesse che possiamo prendere noi.»
Twelve ci pensò su, continuando a sfogliare gli appunti di
Mathias sparsi dappertutto.
«E tu cosa stavi provando a fare, quando sono entrata?»
«A capire in che modo usare il Linguaggio… e a dare loro
istruzioni.»
«Per farti obbedire dai golem?»
«Non è così semplice. La testa di un golem è come una
cipolla, hai presente? Strato dopo strato di Linguaggio da
modificare, fino a quello più profondo, il nucleo. Ogni strato
della cipolla contiene istruzioni, e più un’istruzione è
profonda, più il golem è costretto a obbedirle senza pensarci.
È il suo stesso pensiero, punto e basta.»
«E in questo nucleo cosa c’è?»
«E chi lo sa? Un’istruzione che impone loro di ubbidire ai
professori, magari.»
«Piuttosto logico» disse Twelve. «E infatti Odo non ti ha
dato retta.»
Mathias ricominciò a radunare le sue cartacce, e Twelve gli
diede una mano, affascinata.
«Posso chiederti solo come hai fatto a scoprire tutte queste
cose?» gli domandò.
«Ti interessa davvero?»
«Tu raccontamelo. Tanto ormai sono completamente
sveglia.»
«Dovremmo uscire di qui, senza che gli altri se ne
accorgano.»
«Ok.»
«Potrebbe essere pericoloso.»
«Ok.»
«E chiaramente contrario alle regole della…»
«Mathias! L’ho capito. Sono io, Twelve. Mi vuoi far vedere
o no?»
Si infilarono le scarpe con la massima cautela, scegliendole
dalla catasta vicino all’ingresso, e aprirono la combinazione
della Moehringer senza farle fare nemmeno un ticchettio. Si
lasciarono alle spalle la soffitta e si fermarono in cima alle
scale. Tendendo le orecchie potevano sentir mormorare il
fiume intorno alla scuola e i passi dei golem che, in altre
scale e in altri corridoi, stavano cambiando la disposizione
delle trappole sui gradini.
«Da questa parte.»
Invece di scendere le scale che portavano di sotto, Mathias
si accostò al muro opposto del pianerottolo e, appoggiandoci
sopra le mani, con una delicata pressione rivelò la scanalatura
di una porta a scomparsa, incastonata nella parete. Premuta
con la dovuta attenzione, la porta cedette con un piccolo clic
e si spostò lentamente su un’invisibile rotaia.
«Cos’è, un magazzino?»
«Una specie» disse Mathias. «Vieni dentro.»
Appesa a un gancio sul muro, subito dopo l’ingresso, c’era
una lanterna che il ragazzo accese con uno sfrigolio. Quindi
agitò la lampada davanti al naso, per permettere a Twelve di
vedere.
Era, appunto, un magazzino ricavato nel sottotetto, molto
lungo ma dal soffitto così basso che si rischiava di battere la
testa contro le travi che sostenevano le capriate. Dentro
c’erano un mucchio di cose, per lo più arredi coperti di
polvere, poltrone sfondate, un manichino vestito da direttore
d’orchestra, ormai mangiato dalle tarme, vecchi banchi di
scuola e pile di sedie, una serie di ottoni a fiato gettati dentro
a luridi scatoloni e un pianoforte a muro a cui mancavano
metà dei tasti. Incastrato contro la parete c’era poi un grande
stemma di gesso dorato, rotto a metà.
«Sono gli arredi della vecchia scuola di musica» sbuffò
Twelve, levando la polvere. «Guarda che roba! E che cos’è,
questo, un violino? E funziona?»
«Sì sì, ma non hai ancora visto niente. Di qua.»
Mathias la guidò in mezzo al ciarpame, seguendo un
sentiero di impronte di scarpe ben visibili nello strato di
sporco del magazzino.
«Vieni spesso qui, eh?»
«Quasi tutte le notti. Ecco. Guarda.»
Twelve guardò.
E vide, davanti a lei, le spalle di un uomo con la testa
scoperchiata, curvo sopra una scrivania ingombra di
macchinari.
«Oddio…» esclamò, prima di accorgersi che l’uomo non era
un uomo, ma un golem, e che faceva parte del mobile a cui
sembrava seduto, come il mezzo busto di una statua. Si
avvicinò, in silenzio, per osservarlo. Illuminata dalla luce
della lanterna, la testa aperta del golem mandò i riflessi di
numerose lamine d’oro, una accanto all’altra. Il resto del
corpo era come quello di un uomo, con il viso lucido e gli
occhi spenti, spalle grandi e braccia che tenevano le mani
posate al piano della scrivania. Solo che non era una
scrivania, ma un piano di lavoro ingombro di indicatori, leve,
bottoni, valvole e manopole. Al posto delle gambe del golem
c’era un blocco unico che si appoggiava a terra e si collegava
poi con un tubo al piano di lavoro.
«Che… cos’è?» domandò Twelve, vagamente intimorita da
quell’esercito di bottoni.
«Non toccare!» esclamò Mathias. «È un golem calcolatore.
Una volta ne ho visto uno in un libro. Venivano usati qualche
tempo fa per i compiti più difficili… Memorizzare dati, fare
calcoli, elaborare progetti, cose di questo tipo.»
«Ora non più?»
Mathias alzò le spalle. «Credo che sia diventato lentissimo,
ormai. E che i nuovi golem possano fare la stessa cosa senza
aver bisogno di tutto questo spazio… Ma ai suoi tempi
doveva essere un vero e proprio gioiellino.»
Picchiettò con affetto la testa metallica del golem.
«Ecco la buccia di cipolla» mormorò Twelve, guardandoci
dentro.
«Bella, eh?»
«E tu stai cercando di capire come funziona?»
«Si può dire che ci sono riuscito! Guarda qua!»
Mathias afferrò una chiave di metallo abbandonata sulla
scrivania, come quelle per caricare i giocattoli a molla. Infilò
il perno in un buco esagonale nel centro della schiena del
golem e iniziò a girare. Una. Due. Tre volte.
«Dovremmo esserci» decise, sfilando la chiave. «Buonasera,
Lorenz!»
«Buonasera, Mathias» rispose il golem con voce metallica.
A Twelve si rizzarono i peli della nuca. «Ehi, ma…parla!»
«Certo che parla! Lorenz, ti presento la mia amica Twelve.»
«Buonasera, signorina Twelve.»
«B-b-buonasera…»
«RISPOSTA-NO» disse il golem.
«Come?»
«Se balbetti, non ti capisce. Riprova.»
«Buonasera, Lorenz!»
«Buonasera, signorina Twelve. Posso esserti utile?»
«Chiedigli che ore sono» bisbigliò Mathias.
«Che ore sono?»
«Mancano dodici minuti all’una» rispose Lorenz.
«Ta-tan!» disse Mathias.
«Cosa, ta-tan? Mi ha solo detto l’ora.»
«Dici così perché non sai com’era conciato Lorenz quando
l’ho trovato qui la prima volta. Non si accendeva nemmeno.
Poi, quando sono riuscito a farlo funzionare, si rifiutava di
obbedire a qualsiasi comando, perché la sua programmazione
di base lo obbligava ad ascoltare solo i professori. Così l’ho
aperto e… be’, sono andato per tentativi…»
Le mostrò alcune lamine dorate, appoggiate su un lenzuolo
macchiato accanto al golem.
«E adesso ti ubbidisce?»
«Più o meno. Ma ci sono dei buchi nel Linguaggio, per cui
ci limitiamo a semplici istruzioni, nell’attesa di capirci
qualcosa di più…»
«E come pensi di riuscirci?» chiese Twelve.
«Avrei bisogno di conoscere tutto il Linguaggio di base. Se
ne esistesse un testo e potessi studiarlo, magari potrei…
disattivarlo, ricomporlo, dargli un Linguaggio diverso e a
quel punto sarebbe completamente al nostro servizio.»
«E non c’è modo di recuperare questo Linguaggio?»
«Come no. È una vera sciocchezza.»
«Vale a dire?»
«Il responsabile dei golem è Luther. Ho fatto qualche
indagine, e sono giunto alla conclusione che se c’è un
manuale di Linguaggio per golem si deve trovare in una
cassaforte segreta del suo ufficio.»
«Sei sicuro, o stai solo immaginando?»
«Suppongo che sia lì dentro, non sono sicuro che la
cassaforte ci sia. Ma è una Zita. Una cassaforte di cui hanno
realizzato solo diciotto versioni, una diversa dall’altra. Un
modello così esclusivo che Sputo non l’aveva neanche mai
sentita nominare. Capisci? Non c’è modo che uno del primo
anno riesca a scassinare una cosa del genere.»
«Neanche Sputo?»
«Gliel’ho già chiesto. Se non può lui, non può nessuno.»
Già, pensò Twelve. Se Sputo diceva che non ci si poteva
riuscire, doveva essere vero.
A meno che, naturalmente…
«A cosa stai pensando?» le domandò Mathias, vedendo che
Twelve aveva cambiato all’improvviso espressione.
«A niente» rispose. «Dico davvero. Torniamo in camera,
prima che se ne accorgano tutti?»
Se Sputo non ci poteva riuscire, forse c’era qualcuno che
avrebbe potuto farlo, pensò Twelve, mentre seguiva Mathias
nella soffitta.
Ma lei non aveva la minima intenzione di chiederglielo.
Nonostante il diversivo di Mathias, Twelve si infilò nel letto
con una sensazione di pesantezza nel cuore che non aveva
mai provato. Aveva sempre pensato che fosse davvero
scomodo dormire di traverso per schivare i calcetti di Ninon,
ma mai che, da sola, fosse impossibile. Si sentiva vuota e
triste. E più che addormentarsi si arrese alla stanchezza,
popolando i suoi sogni di golem, acidi e ragazzini avvelenati.
Si svegliò di soprassalto meno di un’ora dopo, avvertendo
una presenza accanto a lei.
«Che succede?» sussurrò con voce strozzata, senza
muoversi.
«Sono io, Ninon» disse la bambina. E subito dopo le si
strinse contro, raggomitolandosi come un gattino. «Mi sono
svegliata e tu non c’eri e ho avuto paura e sono venuta a
cercarti.»
«Hai fatto bene» sussurrò Twelve, torpida, domandandosi se
fosse ancora addormentata, oppure no. «Io sono qui, qui per
te, e ci sarò sempre.»
«Non sono più arrabbiata.»
«Nemmeno io. E se vuoi seguire le lezioni con me, puoi
farlo. Ci andremo insieme.»
«Davvero?»
«Sì. E non solo. Ho trovato una cassaforte che nessuno è
mai riuscito ad aprire. Se ti va e mantieni il segreto, uno di
questi giorni ti porto lì, e tu provi ad aprirla.»
«Oh sì» esclamò Ninon. «Mi piacerebbe moltissimo.»
Era tiepida, Ninon, profumava di sapone, e mentre parlava
teneva gli occhi chiusi.
«Dormiamo, Twelve?»
«Sì» rispose lei. «Sì, tesoro mio. Adesso dormiamo.»
9
LA POZIONE PLACIDIA

ei tornata.»
Mugaba aprì la porta dell’infermeria. Era dipinta di rosso,
mezza scrostata, e la scritta aveva perso tre lettere: INFER IA.
Twelve sgusciò all’interno e notò che c’era una persona
distesa su un lettino.
«Posso aspettare qui, se…»
«Tanto vale che iniziamo subito. Per prima cosa vai a lavarti
le mani, mettiti un camice e poi raggiungimi là in fondo.»
Le indicò un lavandino d’acciaio e le raccomandò di pulirsi
con cura. Twelve indossò il camice appeso al muro e seguì il
dottore fino al lettino, dove era distesa un’Acrobata del
quinto anno, con gli occhi a mandorla e i capelli neri. Era
piccola, compatta, con braccia e gambe così lunghe che la
facevano assomigliare a un insetto.
«Vi conoscete?» domandò Mugaba.
«Come no» rispose la paziente, guardando Twelve con
sospetto. «Sei la Spazzacamino che ha provato a scappare…»
«Benissimo. Ora è la mia nuova assistente. Twelve, lei è
Spider.»
Twelve cercò di non guardare troppo a lungo il volto pallido
della ragazza, quasi non volesse violare la sua intimità.
«Allora Spider, come ti senti?» le chiese poi il dottor
Mugaba.
«Sono sempre stanca, dormirei tutto il giorno» rispose la
ragazza. «L’altro ieri ho rischiato di cadere giù dalle reti del
covo e di farmi triturare. E oggi da Zefirotti non sono
praticamente riuscita a correre perché mi mancava il fiato.»
«Uh-uhm» mormorò Mugaba. «Twelve, passami lo
stetoscopio.»
La ragazza si affrettò a obbedire. L’imbarazzo iniziale
scemò rapidamente, e così le parve anche per Spider. Il dottor
Mugaba era calmo e freddo al tempo stesso, in un certo senso
rassicurante. Le auscultò il petto e la schiena, le controllò le
unghie e le massaggiò mani e piedi.
«Va bene» concluse. «Il ciclo è regolare?»
«Sì, però… ho una cosa grave?»
«Non direi. Secondo me è solo un po’ di anemia, ma per
esserne sicuro dovrò farti un esame del sangue. Twelve,
portami il carrellino con le siringhe.»
Twelve osservò Mugaba disinfettare il braccio di Spider,
pungerlo con delicatezza con una siringa dal manico di
ciliegio, riempire una fiala di un liquido scuro e denso,
disinfettare di nuovo e poi congedare la paziente,
consigliandole di mangiare carne per cena. Infine si stiracchiò
soddisfatto. «Come ti è sembrato?»
«Interessante» rispose Twelve.
«E non ti ha fatto impressione? Gli aghi, il sangue, le vene?
No? Direi di no. Meglio così. E ora vieni con me.»
Il dottore la accompagnò nella stanzina dei laboratori, a
metà strada tra l’ambulatorio e il deposito dei medicinali. Era
più che altro uno sgabuzzino, dove erano state stivate alcune
grandi apparecchiature di ottone e un paio di magnificatori
d’immagine a vetrini.
«Sai che cosa sono i globuli rossi?» domandò.
Era la prima volta che Twelve sentiva quel nome.
«Sono come delle minuscole frittelle che si trovano dentro il
tuo sangue» spiegò Mugaba. «Sono molto importanti perché
trasportano l’ossigeno. Se ce ne sono pochi, ci si può
ammalare di una malattia che si chiama anemia.»
«Quella che ha Spider?»
«Quella che forse ha Spider. Ma per saperlo con certezza
dobbiamo contare i globuli rossi.»
«E come si fa?»
«Negli ospedali di Danubia ci sono macchinari che lo fanno
in un secondo, ma qui da noi lo faremo a mano, con un
magnificatore d’immagine o, se preferisci, un microscopio.»
Mentre parlava, Mugaba trasferì una goccia del sangue di
Spider sopra un vetrino disegnato a reticolo e lo sistemò sotto
il becco d’ottone del microscopio. Poi indicò a Twelve l’altra
estremità, dove si trovavano due ottiche da regolare.
«Dai un’occhiata qui. Li vedi quei corpuscoli rotondi?»
«Sì!» rispose Twelve, dopo qualche tentativo. «Sono i
globuli rossi?»
«Appunto.»
«E cosa devo fare?»
«Contali» disse Mugaba. «Scegli un quadrato del retino e
conta quanti globuli ci vedi dentro, poi scegli un altro
quadrato e fai la stessa cosa. Man mano che conti, io sarò qui
per scrivere i numeri che mi dici e fare un po’ di calcoli. E
alla fine sapremo se Spider sta bene o no. Tutto chiaro?»
«Credo di sì» rispose Twelve, che non era sicura di aver
capito proprio tutto.
«Provare è il miglior modo per imparare! Forza,
cominciamo.»
Le giornate con il dottor Mugaba fecero all’improvviso
sentire Twelve una scienziata, un’allieva dell’Accademia dei
Soccorritori con il camice e l’aria rispettabile, lontana anni
luce dalla ragazzina che doveva diventare esperta di furti,
truffe e intrighi. A mano a mano che i giorni passavano, non
vedeva l’ora di ricavare una o due ore per scendere
nell’infermeria di Mugaba e, mentre stava là sotto a fare da
assistente, a disinfettare strumenti e arrotolare garze, si rese
conto che quel lavoro le piaceva davvero. Le piaceva la
concentrazione che serviva per contare i globuli al
microscopio, la precisione con cui Mugaba annotava i numeri
e le spiegava i calcoli necessari, lo spirito curioso con cui il
dottore metteva a frutto la propria intelligenza per scovare i
sintomi di una malattia e cercare di guarirla.
Spider aveva davvero l’anemia, e la cura per lei furono
alcune pasticche di ferro e una dieta più bilanciata. Poi
visitarono Antara che temeva di essere incinta (e non lo era),
Birnoff che si era slogato una spalla dopo una caduta di gioco
e Allyster che aveva una brutta infezione al dito di un piede.
Il dottor Mugaba rincuorò la prima, bendò stretto il secondo e
diede un ritrovato alchemico al terzo, dopo aver raccolto un
vetrino di pus da analizzare al microscopio. E fu così che
Twelve vide, per la prima volta, una coltura di batteri.
Qualunque cosa succedesse in infermeria, Twelve era
vincolata a tenere il massimo riserbo, pena il termine del suo
apprendistato. E lei tenne la bocca chiusa, senza fatica: era
brava con i segreti.
Più passavano i giorni, più i professori intensificavano le
lezioni. I ragazzi capivano che c’era qualcosa nell’aria, ma
tutta la concentrazione di Twelve era per il dottor Mugaba e
le cose che le faceva imparare.
Due settimane dopo la sua prima visita, lei e il medico si
attardarono nel laboratorio fino quasi all’ora di cena. Quando
se ne accorse, il dottor Mugaba si scusò con Twelve, le porse
una boccetta alchemica e disse che doveva lasciare subito il
laboratorio, per un impegno che non precisò. La invitò a fare
altrettanto non appena avesse finito le analisi della Pozione
Placidia che le aveva chiesto di preparare. Era molto simile
all’acqua zuccherata, aveva scoperto Twelve con stupore, e il
professor Mugaba non ne era rimasto per niente sorpreso.
Alcuni dei cosiddetti rimedi alchemici, aveva detto, non sono
reali medicine, ma funzionano perché le persone credono che
lo siano.
Poi si era sfilato il camice e, poco prima di uscire, aveva
consegnato a Twelve la boccetta della pozione antinomica di
Ninon. «Questo è il tuo ultimo compito di oggi: dagliene
dieci gocce prima di sera. Oggi Mister Peele non gliel’ha
somministrata con il pasto.»
«Dieci gocce» ripeté Twelve. Poi cercò di ricordarsi quante
gliene avesse date lei, il giorno successivo alla rivolta degli
studenti. Di più, di meno?
«E riporta qui la boccetta, dopo. Mi raccomando.»
Il dottore se ne andò a sbrigare le sue faccende e Twelve
rimase sola nel laboratorio, con la boccetta di antidoto in
mano e un ventilatore che ronzava nell’angolo sopra la sua
testa.
La pozione antinomica.
Aveva fatto tanta fatica per procurarsene un po’, e ora ne
possedeva un’intera boccetta. Quanti giorni poteva significare
senza dipendere dall’antidoto? Trenta? Quaranta? Abbastanza
per scappare e racimolare il denaro sufficiente a comprarne
dell’altro? Twelve non lo sapeva. E non poteva rischiare. Ma
se solo fosse riuscita a garantire a Ninon un anno fuori di lì…
avrebbe cercato nuovamente di andarsene. Ripensò a quanto
si erano appena detti con il dottor Mugaba, e guardò
controluce la pozione antinomica. Era limpida e chiara come
l’acqua. Doveva essere una sostanza molto complicata da
produrre, ma forse poteva riuscirci anche lei. Agì prima
ancora di formulare del tutto quel pensiero: sfilò dal
microscopio la Pozione Placidia, prelevò un po’ della pozione
antinomica con un contagocce e la versò su un vetrino,
allineandolo poi sotto la lente del microscopio.
Accostò gli occhi al visore.
Regolò le levette e le rotelle.
Poi distolse lo sguardo, si stropicciò gli occhi e tornò a
guardare. Controllò di aver posizionato il vetrino giusto.
«Non è possibile» disse.
Riprovò da capo, con un altro vetrino e un altro campione.
«Non è possibile» ripeté.
Rimise sotto le lenti la Pozione Placidia, la miscela
calmante di acqua e zucchero, e fece il confronto.
Le sembrarono assolutamente identiche. Possibile che
l’antidoto al veleno di Ninon fosse un semplice calmante?
Twelve rimise ogni cosa al suo posto, e intanto cominciò a
formulare una serie rapidissima di teorie. Forse il dottore le
aveva dato la boccetta sbagliata? Eppure l’etichetta sulla
boccetta non mentiva: Pozione antinomica. Magari… doveva
avvertirlo? O era stato lui ad avvertire lei? L’aveva lasciata
appositamente da sola nel laboratorio perché scoprisse che il
famoso antidoto… non esisteva?
E quindi non esisteva nemmeno il veleno?
Possibile che Luther non avesse mai avvelenato Ninon, ma
avesse soltanto finto di farlo? E che Twelve fosse cascata nel
più semplice dei tranelli?
Più ci pensava, più si convinceva che fosse probabile. E
c’era un solo modo per scoprirlo: se il sangue di Ninon era
avvelenato, avrebbe dovuto vederlo nel microscopio. E se
non lo era… perché il dottor Mugaba aveva voluto che lei lo
scoprisse? Forse perché era in disaccordo con Luther, così
come lo era stato con la decisione di far caricare lei e i suoi
compagni dai golem?
O più semplicemente voleva che Twelve sapesse che poteva
fuggire?
La ragazza si affannò a sistemare ogni cosa, prese in prestito
una piccola siringa con il tappo di ottone e un batuffolo
imbevuto di disinfettante, e poi corse via, veloce, fino in
soffitta. Il covo degli Spazzacamini era deserto, perché erano
già tutti a cena, naturalmente. Tutti, tranne Ninon. La
bambina le corse incontro, felice che Twelve avesse già
terminato di cenare.
«In realtà non ho ancora iniziato, ma non ho molta fame.
Come stai, Ninon? Mister Peele ti ha già portato la cena?»
«Certo.»
«E l’hai mangiata?»
«Sì.»
«E come ti senti?»
«Benissimo. Perché?»
«Splendido. Ascolta una cosa, però: devo farti un
piccolissimo controllo. È una cosa da niente, pizzica un po’,
ma me l’ha ordinato il dottor Mugaba. Ecco, da brava, dammi
il braccio e girati, non guardare.»
«Mi fai il solletico, Twelve!»
«Occhi chiusi, ho detto… Brava, così. Ora sentirai un po’
male, ma…»
Con il cuore che le batteva a mille per la paura di sbagliare,
Twelve infilò l’ago della siringa nel braccino di Ninon, e
quando la bambina sussultò e gridò “Ahi!” si sentì morire.
Ma non si fermò.
«Twelve!» singhiozzò Ninon.
«Ho quasi finito!» rispose lei, trattenendo il fiato. Vide
arrossarsi l’interno della siringa e subito la sfilò,
massaggiando di nuovo il braccio con il cotone disinfettante.
«Ecco fatto!»
«Posso guardare?»
«Certo!» rispose Twelve, nascondendo la siringa.
«Mi ha fatto malissimo!» protestò Ninon. «E c’è un
buchino, sul braccio! Guarda! Sta diventando tutto viola!»
«Lo so, scusami, ma… è un controllo importante. E tu devi
stare molto attenta, adesso: se per qualsiasi motivo dovessi
sentirti strana, devi dirmelo subito. Qualsiasi cosa: un po’ di
mal di pancia, o alla testa… D’accordo?»
«Mi fa solo male il braccio.»
«Sì, ma il braccio non importa. Se però senti qualcosa di
diverso, anche solo una sciocchezza, avvertimi. Me lo
prometti?»
«Va bene, te lo prometto. E adesso giochiamo?»
«Giochiamo» disse Twelve.
E giocarono. Loro due, nell’immensità vuota della soffitta.
A palla, a rincorrersi, a dondolare dalle funi che penzolavano
dalla trave centrale del soffitto. A disegnare filastrocche sui
muri, infilandole in mezzo al labirinto di scritte che gli altri
Spazzacamini avevano tracciato sulle stesse pareti nel corso
degli anni.
Mentre giocava, Twelve sbirciava Ninon e controllava
l’orologio. Erano più di ventiquattr’ore che non prendeva
l’antidoto. E rideva, correva, era il ritratto della salute.
Twelve ripensò a tutto quello che aveva fatto per procurarsi
una medicina per lei. Un antidoto a un veleno che non era
mai esistito.
L’avevano presa in giro.
L’avevano sempre presa in giro.
E più ci pensava, più era convinta che Mugaba avesse
orchestrato quella scoperta per aiutarla: l’aveva invitata in
infermeria, le aveva insegnato a preparare un vetrino e usare
il microscopio, infine le aveva dato l’incarico di
somministrare l’antidoto a Ninon. Voleva che sapesse.
E adesso che sapeva, però, cosa doveva fare?
«Salta» le disse Lupo, dalla botola che conduceva alla sua
stanza.
Twelve smise di correre e si girò per vedere da dove avesse
parlato. Era in cima alle scale di corda, con i vestiti fradici e,
a giudicare dalla pozza che aveva lasciato sul pavimento,
avrebbe potuto essere stato lì a guardarle da chissà quanto
tempo.
«Che ci fai, lassù?» gli domandò, ansimando per la corsa.
«Sorveglio il mio branco.»
«Non sei andato a mangiare?»
«Tu cosa dici?»
«Dico che non sono affari miei.»
«Vedi? Cominci a imparare anche tu come ci si comporta
tra gli Spazzacamini…»
«Ma dico anche che sei andato sui tetti, o comunque fuori,
perché hai i vestiti tutti bagnati. E sta piovendo» continuò
Twelve.
Lupo scese dalle corde e si scrollò selvaggiamente i capelli.
«Dici che dovrei cambiarmi, prima di scendere?»
«Forse no. Dopotutto, sei il capo.»
«Come sta andando, con l’Ordador? Hanno già cominciato a
farvi fare delle prove?»
«Non ancora.»
«Ma tu sai cosa devi fare, no?» C’era una strana energia,
negli occhi di Lupo. Erano arrossati, come se avesse pianto, o
li avesse irritati in qualche modo, e trasudavano un ardore
malinconico che Twelve aveva già visto in lui qualche volta,
ma che da mesi non scorgeva più. Sembrava scosso e
soddisfatto allo stesso tempo.
«È successo qualcosa?» gli domandò.
«Ho avuto il mio solito problema sentimentale» rispose lui,
del tutto inaspettatamente.
«Mia?» azzardò Twelve.
Lupo rise. «No, povera Mia! Lei non c’entra. Anche se
vorrebbe, ma non c’entra.»
«Non dovresti trattarla così. Ti vuole molto bene.»
«Ah, davvero? E da cosa l’hai capito?»
«Si irrigidisce ogni volta che parli con un’altra ragazza. E
mi odia, quando rimaniamo soli io e te.»
«Ora, ad esempio, siamo soli io e te.»
La pioggia batteva forte sul tetto della soffitta e Lupo
esitava, come se fosse stato sul punto di dire, o di fare,
qualcosa. Twelve non sapeva se augurarselo o averne paura,
ma poi il momento, qualunque momento fosse, passò.
Sentirono urlacchiare Ninon da qualche parte tra i cuscini e
Twelve le fu grata di quell’interruzione. «Non esattamente
soli, direi…»
Anche Lupo sorrise, divertito da quel frugoletto che
sfrecciava per la soffitta.
«Ecco la nostra piccola scassinatrice» disse.
«Oggi sono stata da Mugaba a dargli una mano in
infermeria.»
«Me l’hanno detto. Mi sembra una buona cosa.»
«Sono convinta che Luther non abbia mai avvelenato
Ninon.»
Lupo fece una strana smorfia, come se Twelve se ne fosse
appena uscita con la sciocchezza del secolo. «Che stai
dicendo?»
«Che il famoso antidoto che le diamo tutti i giorni è poco
più che acqua zuccherata. E guarda come salta: non le ho
ancora dato niente.»
«E perché l’avrebbero fatto?»
«È piuttosto semplice, non credi?»
«Sì» ammise Lupo. «Cosa pensi di fare?»
Twelve sorrise, senza guardarlo.
«Essere sicura che sia così. E poi scappare.»
Lupo annuì.
«Ha senso. È quello che hai sempre voluto fare. E porterai
via anche Ninon?»
«Certo che sì» disse Twelve. «E magari anche te, questa
volta.»
«Perché io?»
«Perché odi questo posto. Perché sei già scappato una
volta.»
Lupo gocciolò sul pavimento, zitto e muto, per un tempo
che parve interminabile.
«No.»
«Come?»
«Ho detto no. Io non posso. Se volete andare, benissimo,
cercherò di aiutarvi in ogni modo. Ma non verrò con voi.»
«Posso sapere perché?»
La voce di Twelve era strozzata.
«L’hai appena imparato, ricordi? Ci sono cose che non ti
riguardano.»
«È per via di Amaryllis?» insistette Twelve. Al che Lupo
scattò come una tagliola. «Non pronunciare quel nome. Non
in serate come questa» la minacciò.
Ma Twelve non si fece intimorire, e anche se non sapeva
assolutamente niente di cosa fosse accaduto ad Amaryllis,
replicò con foga: «Io non lo so cosa le abbiano fatto i
professori, Lupo, ma forse c’è una possibilità che non sia
come credi. Forse hanno ingannato anche te, solo per tenerti
qui dentro e… Lupo?… Lupo!»
Lupo l’aveva afferrata per le spalle e l’aveva sollevata da
terra, stringendola fino a farle male. «Non parlare delle cose
che non sai. Non puoi capire cosa significhi amare qualcuno
che vedi ancora e che nonostante tutti i tuoi sforzi rimane
irraggiungibile.»
«Lupo… io… non volevo… mi fai male, ora, mi stai
facendo male!»
«Vuoi andare via, Twelve?» le disse lui, con voce
terribilmente calma. «Allora farò in modo che tu possa
andare via!»
Poi la lasciò scivolare a terra e si allontanò, barcollando,
verso la Moehringer.
«Tu sei pazzo, Lupo» singhiozzò Twelve, massaggiandosi i
polsi. «Tu sei semplicemente pazzo.»
«Ormai credo di sì, Twelve. Per questo fai bene a volertene
andare. L’unica cosa che ti chiedo, però, se ci riuscirai, è di
dimenticarti di me, chiaro? Sparisci. Non voglio vederti mai
più.»
10
PRIGIONIERA!

arole sussurrate nel buio.


«Sputo, ti ricordi la porta del salone? Quella che dà sul
giardino delle Rose Guerriere?»
«FSì.»
«Ho saputo che i professori hanno cambiato la serratura da
poco, e l’hanno sostituita con una più difficile.»
«L’ho vifsta.»
«Pensi di poterla aprire?»
«Certo.»
«Fantastico! E come?»
«Con l’efsplofsivo.»
«No no, niente esplosivo, Sputo, dobbiamo aprirla piano, in
silenzio…»
«Allora ti fserve la chiave meccanica che ha inventato il tuo
amico Hugo.»
La chiave-che-apre-tutte-le-porte di Hugo Eight era rimasta
all’Istituto Moser, durante il suo primo tentativo di fuga.
«Niente da fare, Sputo, non ce l’ho più.»
«Allora non fsi può aprire. Forfse con l’efsplofsivo, o con la
chiave di Hugo. Ma non c’è un altro modo. Non è che non
fsono abbafstanfza bravo, è che proprio non fsi può. Non è
fscafssinabile. La fserratura regifstra la prefssione…»
«Va bene, va bene, mi fido.»
«Twelve?»
«Sì, Sputo?»
«Hai in mente qualcofsa, vero?»
«Forse» ammise Twelve. «Forse.»
«Be’, fse hai bifsogno, io e Mathiafs ti aiuteremo. E
magari… magari potremmo anche venire con te.»
Quella notte Twelve non dormì.
E il giorno dopo, a lezione, passò il tempo con la matita in
bocca, la testa persa in un unico pensiero.
Scappare, scappare, scappare.
Avrebbe analizzato il sangue di Ninon e poi, se dentro non
c’erano strane frittelle di veleno, sarebbe scappata. Certo. Ma
come?
La prima volta in cui Twelve era fuggita dalla scuola con
Ninon, era passata dall’ingresso principale, usando la chiave
di Hugo Eight che apriva tutte le porte. Aveva attraversato il
giardino delle Rose Guerriere fingendo di essere Mister Peele
con i suoi sigari, aveva spalancato il cancello della vecchia
scuola di musica e poi via, su una barca, lungo il fiume. Se
solo non fosse tornata all’orfanotrofio Moser, convinta che
Miss Kindheart le avrebbe aiutate e protette, sarebbero state
ancora là fuori, a Danubia.
Ma quella via di fuga era diventata impraticabile. La
serratura dell’unica porta che dava sul giardino era cambiata,
e il giardino stesso era sorvegliato notte e giorno dai Cenci
che lavoravano alla ristrutturazione della serra. Poteva
costruire un deltaplano e lanciarsi dal tetto? Scendere
sottoterra e provare a raggiungere uno dei treni pneumatici
sotterranei che collegavano le stazioni di Danubia? Ma come
poteva riuscirci senza farsi vedere dai professori e dai Cenci
che abitavano il sottosuolo? Poteva provare a corromperli? A
trattare con loro? Che cosa sapeva, di quelle creature
disgraziate che scivolavano tra le ombre come ratti?
Lupo le aveva promesso di aiutarla. Ma Lupo era Lupo, e se
mai avesse deciso di mantenere la promessa, avrebbe deciso
lui come e quando. Quindi non poteva contare sul
capobranco. Le restavano Sputo e Mathias. E forse il dottor
Mugaba. Ma scartò subito quell’ultima ipotesi. Un conto era
immaginare che avesse voluto metterla sul chi vive, un altro
illudersi che avrebbe potuto aiutarla a scappare. E dunque si
tornava sempre a Sputo e Mathias. Il primo apriva le
serrature, come Ninon, e il secondo stava lavorando da tempo
a una ricerca sui golem.
I golem.
Odo.
E tutti gli altri.
Quello sì che sarebbe stato un aiuto prezioso. I golem erano
ovunque: nelle cucine, nei corridoi, nelle armerie. Erano
l’esercito di servitori dei professori, le loro macchine da
fatica, i loro schiavi muti.
Se solo fossero riusciti a farsi ascoltare. A usare il loro
Linguaggio…
La matita di Twelve si mosse sul quadernino azzurro,
lontano dallo sguardo indiscreto dei compagni, e si fermò
sulla colonna dei suoi grandi nemici, all’altezza del nome del
professor Luther.
Non erano forse lì, i famosi codici di cui Mathias aveva
bisogno? In una cassaforte Zita, dal proverbiale meccanismo
a combinazione?
Meglio una porta con una serratura che non si poteva aprire,
o una cassaforte?, si domandò, con una punta di divertita
amarezza.
Almeno, ora, sapeva da dove cominciare.
Quel pomeriggio, il professor Luther entrò con il Grande
Manny durante la sua lezione. Teneva le mani ficcate nelle
tasche di un completo grigio un po’ stropicciato e sembrava
distratto da qualcosa. Quando lo vide, Ninon si irrigidì sul
banco, ma Twelve cercò di tranquillizzarla.
«Quello è l’uomo cattivo!» sibilò la bambina.
«Sì, è lui. Ma tu non dire niente, per piacere!»
Luther si fermò nel centro della stanza e salutò gli allievi.
«Buongiorno a tutti! Fate silenzio. Malcolm, smetti di dar
fastidio a Hoon. Cressida, basta chiacchierare. Attenti!»
Sembrava una specie di annuncio, si disse Twelve. E non
sbagliava.
«So che un paio di settimane fa la reggente è venuta a
parlarvi, e vi ha spiegato che uno di voi sarà scelto per
partecipare a una missione molto delicata e importante. In
cambio riceverà un bel premio.»
«La promozione!» disse Rebecca.
«E trenta monete da spendere!» le fece eco Karl.
«Vedo che vi ricordate bene i termini della questione»
sorrise Luther. «Quello che Hortensia forse non vi ha detto è
che questa missione ha un nome.»
«Ordador» sussurrò Twelve tra i denti, e Ninon si voltò a
guardarla.
«Come facevi a saperlo?» le domandò. Twelve se la cavò
con un sorrisetto furbo, che fece ridere Ninon. Il professor
Luther, intanto, stava spiegando alla classe che l’Ordador
indicava una squadra di Ladri molto speciale, un misto di
esperti e meno esperti, che per tradizione si portava dietro un
pivellino da svezzare. Era sempre stato così, e poiché la
scaramanzia dei Ladri era seconda solo al loro fiuto, sarebbe
stato così anche quella volta.
«Quello che forse non sapete ancora, però, è come faremo a
scegliere la nostra mascotte» continuò il professore. «Dovrete
superare tre prove.»
«Quali prove?» intervenne Rebecca.
«Lasciami parlare, Rebecca, e lo scoprirai. Tre prove, al
termine delle quali riceverete un punteggio. Chi di voi avrà
conquistato più punti, farà parte dell’Ordador. Tutto chiaro?»
«Chiaro» disse Mathias.
«Ne sono felice. Mister Peele? Prego, entri pure!»
Dal corridoio si udirono orrendi scricchiolii, poi Mister
Peele che imprecava e il Grande Manny che gli
raccomandava di moderare il linguaggio: «Ci sono orecchie
innocenti, qui dentro!» disse, facendo sghignazzare i ragazzi.
«E vada piano!»
«Piano un accidenti!» sbuffò Mister Peele, comparendo con
un grandioso carretto. «Questo aggeggio pesa una
tonnellata!»
«Ma occorre far piano, perché non si rovini. Forza, ci siamo
quasi, avanti…»
Brontolando e imprecando, Mister Peele portò il carretto al
centro dell’aula. Vi era caricato un baule di ferro dall’aria
antica, squadrato e con grosse fasce d’acciaio tutto intorno.
«Magnifico» esclamò il Grande Manny con aria soddisfatta,
quando il professor Luther e Mister Peele scaricarono il tutto
sul pavimento, con un tonfo minaccioso.
«Ora vuole essere così gentile da spiegare ai ragazzi in cosa
consiste la prova, professor Manny?» continuò Luther con un
accenno di fiatone.
«Ma ben volentieri!» disse Manny. «In realtà è un esercizio
molto semplice dell’antica arte dell’escapologia, da fare a
occhi chiusi… ah ah ah. Dovrete per prima cosa infilarvi nel
baule…»
Il professore aprì il coperchio, e vi balzò dentro con un
salto.
«Chiudere il coperchio…»
E lo fece, sigillandosi con una serie inquietante di scatti
metallici.
«E a questo punto sbugurl baburl burl…» continuò la sua
voce ovattata oltre il metallo.
«Come? Non si capisce niente!»
«Dovrete liberarvi!» esclamò il Grande Manny, spalancando
di nuovo il coperchio e saltando fuori con una capriola. «Il
baule ha una serratura a triplo cilindro, non proprio
semplicissima, ma vi ho insegnato come aprirne al buio una
doppia, se non sbaglio. Quindi immagino che non abbiate
problemi. Sì, Karl?»
Il colosso degli Acrobati aveva alzato la mano e sembrava
decisamente seccato.
«Professore» disse. «Io non ci entro, in quel buco. È troppo
piccolo per me.»
La classe esplose in una risata che fece arrossire Karl. Ma
aveva ragione. Era troppo grosso per entrare là dentro.
«Mi dispiace per te» intervenne Luther. «Entrare nel baule
fa parte della prova. Se non riesci a chiudere il coperchio,
dovrò considerare l’esercizio non superato e assegnarti solo
un punto.»
«Non è giusto!» sbottò anche Felix dei Lord, che non era
massiccio come Karl, ma di sicuro era un bello spilungone.
«Anche la vita non lo è» replicò Luther. «Avanti: chi
comincia?»
Cominciò Sputo, ovviamente. In fondo, era il migliore della
classe con i lucchetti. Si ripiegò dentro il baule come un
burattino di legno, pallidissimo e sudato, e prima di
scomparire sotto il coperchio domandò al Grande Manny:
«FSi respira, lì dentro?»
«Poco» ammise il nano. «Ma se stai con la faccia vicino alla
serratura, dovresti riuscire a non svenire. Forza!»
Chiuse il coperchio del baule e tutti, nella classe, trattennero
il fiato, mentre il professor Luther faceva partire il
cronometro di un massiccio orologio a cipolla con la catena
dorata.
Ticchettava furiosamente, ma il tempo sembrava non
passare mai.
«Ce la farà?» domandò Twelve a Mathias.
«Certo che ce la farà» rispose lui.
E… CLAC!
Il coperchio si aprì di scatto, e Sputo saltò letteralmente
all’aria, ansimando come una teiera.
«Tre minuti e diciotto secondi» decretò Luther, fermando il
tempo. «Molto bene. Forza ragazzi, avanti il prossimo. C’è
qualche volontario? No? Allora vieni subito tu, Karl.»
Come previsto, Karl non riuscì a entrare nel baule. Ci provò,
si ripiegò, cercò di annodarsi le braccia sopra la testa, ma
niente da fare. Con lui dentro era impossibile chiudere il
coperchio.
«Spiacente Karl, per ora ti metto in fondo alla classifica. Un
solo punto. J.J.T., vieni tu!»
Il ragazzino tremava dalla testa ai piedi.
«Perché è così spaventato?» domandò Ninon. «Ha paura del
buio?»
«Refspira male, e lì dentro fsi fsoffoca» disse Sputo.
«Ecco, questo non dirmelo, magari, che mi vengono i
brividi.»
J.J.T. rimase rinchiuso nel baule per nove minuti e quaranta
secondi. Alla fine si mise a bussare sul coperchio in lacrime e
implorò che lo facessero uscire. Prova non superata. Venne
messo in fondo alla classifica, e Karl salì a due punti.
Poi toccò a Rebecca Thirty-five, che uscì in tre minuti e
cinquanta secondi.
«Seconda!» annunciò Luther.
Mathias si liberò in cinque minuti e quindici secondi. Gloria
in sei. Coleridge in quattro e ventuno.
«Twelve!» disse infine Luther.
La ragazza si avvicinò titubante, accettò i grimaldelli che le
porgeva il Grande Manny e guardò all’interno del baule.
«Certo che è piccolo…» commentò.
«Anche tu non sei un gigante, ah ah ah! Forza! Prova a far
meglio del Grande Sputo!»
Prima di entrare, Twelve studiò per un momento l’interno
del baule, indecisa su come sistemarsi. Se si fosse sdraiata sul
fondo, avrebbe avuto tutto il corpo come ostacolo per
raggiungere la serratura, che era posizionata piuttosto in
basso. Così decise di entrare gattoni, con la schiena in alto.
«Chiudi il coperchio, devi farlo da sola» la avvertì Luther.
«Uno, due, tre!»
Twelve si tirò la copertura del baule sulla testa, la serratura
scattò.
E lei si ritrovò prigioniera.
Era completamente buio e dalla serratura non entrava
neanche uno spiraglio di luce. E c’era l’odore del sudore e
della paura dei ragazzi che l’avevano preceduta. Impiegò
meno di dieci secondi a sentirsi soffocare.
«L’importante è fare in fretta» si disse Twelve. «Dov’è la
serratura, dov’è…»
Iniziò a tastare alla cieca fino a quando non la trovò, ci
appoggiò le dita di una mano e afferrò i grimaldelli con
l’altra. Caddero. Imprecando, si mise a cercarli, e la sua
schiena sbatté violentemente contro il coperchio chiuso.
Si rese conto di quanto fosse stretta, raggomitolata là dentro,
e sentì il panico morderla alla gola come un serpente.
«No no, stai calma, ce la puoi fare…»
Ritrovò i grimaldelli, li infilò nella serratura, uno in alto e
uno in basso. Era solo uno scattino, come le aveva insegnato
Ninon. Solo uno scattino…
Il caldo montò ancora e Twelve credeva di sentire i rumori
dei compagni e dei professori all’esterno. Ma era solo la sua
immaginazione.
Non doveva pensarci.
Uno scattino…
E poi…
CLAC!
La serratura le esplose nelle orecchie con un rimbombo
secco, e una lama di luce si insinuò dentro al baule. Spinse
con la schiena e sollevò il coperchio.
Si rimise in piedi. Era ricoperta di sudore.
«Tre minuti e ventuno secondi, tre più di Sputo e ventinove
in meno di Rebecca» disse il professor Luther.
«Complimenti, Twelve. Sei seconda.»
Fecero provare tutti, compresa Ninon, anche se la prova non
sarebbe stata valida per l’Ordador. La bambina era così
minuta da poter stare in piedi dentro al baule, e fece saltare la
serratura in quaranta secondi.
«Sei un portento!» esultò il Grande Manny abbracciandola,
non appena la piccola uscì tra gli applausi degli altri ragazzi.
Poi Ninon corse a rifugiarsi fra le braccia di Twelve e le
domandò: «Sono stata brava?»
«Oh, sì» le rispose lei, fissando lo sguardo sul professor
Luther, che prendeva nota anche del suo tempo. «La più
brava di tutte!»
«Evviva!»
Ma, Ninon a parte, la classifica non cambiò di molto: venti
punti a Sputo, diciannove a Twelve e diciotto a Rebecca, che
commentò il risultato con un’alzata di spalle.
Andarono tutti sotto le docce, sudati com’erano, e Twelve
approfittò di quella pausa per passare in infermeria. Raccontò
al dottor Mugaba di voler controllare un’altra volta le analisi
del giorno prima, e non appena si sentì sicura di non essere
scoperta, mise una goccia del sangue di Ninon sul vetrino e
lavò la siringa con cui l’aveva prelevata. Non sapeva se fosse
una procedura corretta – l’aveva tenuto nascosto per tutta la
mattina – ma quando ingrandì l’immagine delle lenti, non
credette di vedere nulla di strano o di troppo diverso da
quanto aveva visto in quello di Spider. Anzi: i globuli rossi di
Ninon, al confronto, erano tre volte più numerosi.
E così, con un sospiro, fugò anche l’ultimo dubbio. Quella
sera mangiò a quattro palmenti, come se si fosse liberata da
un peso, e poco più tardi, quando salì in soffitta, convinse
Ninon ad andare a letto presto.
«Dobbiamo dormire subito e poi svegliarci nel cuore della
notte» le disse. «Perché vivremo un’avventura…»
«Sul serio?»
«Promesso.»
Si distesero a letto, e ben presto Ninon si addormentò, con il
respiro pesante e dolce che hanno i bambini, mentre Twelve
rimaneva sveglia ad ascoltare i rumori nelle altre stanze,
domandandosi se non stesse per fare l’ennesima pazzia. Lame
di luce ondeggiante filtravano sotto la porta della loro
camera, passi di Spazzacamini raggiungevano i loro letti,
voci di ragazzi e ragazze ridevano mentre giocavano a carte.
Poi, pian piano, i rumori cominciarono a calare, le luci si
offuscarono e gli intervalli di silenzio tra le risate divennero
sempre più lunghi. Infine, arrivò il buio.
Twelve rimase ad ascoltare il ticchettio dell’orologio che
aveva infilato sotto il cuscino. Ogni tanto lo tirava fuori e
sbirciava le lancette fluorescenti.
Mezzanotte: l’ora in cui i golem percorrevano i corridoi
della scuola per impostare i trabocchetti del giorno dopo.
L’una di notte: l’ora in cui i golem, di solito, avevano finito
il lavoro.
Le due di notte: l’ora in cui Mister Peele faceva il suo
ultimo giro di ronda.
Le tre di notte: il momento di svegliarsi.
Scosse leggermente il corpicino addormentato contro di lei.
«Ninon, sveglia.»
«Uh?»
«Ninon, svegliati. Dobbiamo andare!»
«Dove?»
«A fare l’avventura che ti ho promesso… Ricordi quando ti
ho parlato di una cassaforte molto, molto difficile? Beh, è il
momento di provare ad aprirla.»
Ninon si stropicciò gli occhi e si girò dall’altra parte. «Non
è vero…» disse.
«Sì che è vero» mormorò Twelve, e per un momento fu in
dubbio se insistere, oppure no. La voce le tremava quando
disse: «Forza, pigrona! La cassaforte ci aspetta!»
Dovette sollevarla di peso e farle indossare le calze di lana
nera con le pezze antiscivolo, prima di svegliarla del tutto.
Twelve controllò di aver portato il coltello, il kit di
grimaldelli e una torcia cieca.
Uscirono dal dormitorio e risalirono la scaletta di corda fino
alla soffitta. In alto, dalla botola che portava alla camera di
Lupo, a Twelve parve di sentire un mormorio, o un gemito
lontano. Un singhiozzo, e poi il silenzio. Attese alcuni
secondi prima di inoltrarsi, gattoni, nel grande spazio aperto
della soffitta. Aiutate dal cielo nuvoloso della notte,
raggiunsero la Moehringer e la aprirono senza far rumore.
Twelve inserì la combinazione del giorno e Ninon la studiò
con grande attenzione.
«Cambia ogni volta» le spiegò. «Quindi questa vale solo per
oggi.»
Ninon sorrise, come per dire che lo sapeva già, e poi la
seguì giù dalle scale, fino al piano terra, dove raggiunsero
con infinite cautele la sala della mensa, e il corridoio che
conduceva agli uffici di Luther e alla Quarantena. Non era la
prima volta che Twelve si intrufolava laggiù, e ormai sapeva
con sicurezza come evitare i passaggi dei golem e le trappole
erranti.
Mentre attraversavano la sala da pranzo, un refolo d’aria
fece oscillare lo scheletro di balena, e le catene che lo
ancoravano al soffitto emisero un cigolio sinistro.
Si acquattarono all’ombra di una colonna e aspettarono che
la corrente passasse, poi ripartirono.
I tavoli delle confraternite erano già apparecchiati per la
colazione, con tazze e tovaglioli accuratamente piegati e i
piattini accumulati in pile ordinate.
I vasi trasparenti dei biscotti erano chiusi da un tappo a
fermaglio. Vinsero la tentazione di rubarne un paio e spinsero
la porta che conduceva all’ufficio di Luther. Ancora buio,
ancora silenzio.
Tutto liscio.
Trovarono l’ultima porta socchiusa, e Twelve controllò che
non fosse stata lasciata così per una ragione. Nessun capello
teso, nessun meccanismo d’allarme. Sembrava
semplicemente che fosse stata dimenticata. Scivolarono
dentro appiattendosi come acciughe, e solo a quel punto
Twelve si arrischiò ad accendere la torcia cieca.
Passò il cerchio lattiginoso sugli scaffali di libri, la
scrivania, il tappeto che nascondeva la botola della
Quarantena. Secondo Mathias doveva esserci anche una
cassaforte, ma dove?
«Ora, Ninon, ci metteremo a cercare la cassaforte, ma
dobbiamo fare pianissimo, d’accordo?»
«Io sono brava a fare piano.»
Con cautela, Twelve cominciò a spostare i libri dagli
scaffali, per vedere se la cassaforte fosse dietro a uno dei
pannelli della libreria. Ogni mossa era un brivido, perché non
aveva idea di quanti sistemi d’allarme ci fossero lì dentro, né
di quanti piccoli segnali Luther avesse disseminato per
rilevare il passaggio di qualche intruso.
«Twelve…»
«Ninon, non disturbarmi adesso, per piacere. Sono
concentrata. Ecco, tieni questi libri e appoggiali sul
pavimento.»
«Ma Twelve…»
«Sssh, non parliamo se non ce n’è bisogno. Potrebbe
arrivare qualcuno. Credo che la cassaforte sia lassù in alto, ho
visto luccicare qualcosa di metallico, ma per arrivarci mi
serve una scala.»
«Twelve!»
«Insomma, Ninon, piantala!»
«Ho trovato la cassaforte! È lì, guarda!»
Ninon le indicò la lampada sulla scrivania. Era incastonata
nel piano del tavolo, e ruotava di tre quarti, rivelando uno
scomparto di metallo che sprofondava nel pavimento. Era una
cassaforte a colonna, con la manopola per la combinazione in
alto, accanto al buco della serratura di sicurezza.
La famosa Zita.
«Bravissima Ninon!» esclamò Twelve, rimettendo subito a
posto i libri. «Ecco qui la tua avventura! Pensi di riuscire ad
aprirla? Sembra molto difficile.»
«Non lo so. Ma sembra anche molto divertente, se mi dai un
mano. Perché vedi? Bisogna girare quell’affarino lì» e indicò
la manopola della combinazione «e contemporaneamente la
serratura. È un po’ complicato se sei da solo.»
«Dimmi cosa devo fare.»
Ninon sorrise, e alla luce della torcia sembrava molto più
grande e sicura della sua età. «È la prima volta che lo dici. Mi
piace! Vieni qui, ti insegno.»
Si misero all’opera. Ninon appoggiò l’orecchio allo
sportello, poi cominciò a girare la manopola più volte,
ascoltando attentamente.
«Vuoi che ti scriva i numeri da qualche parte?» domandò
Twelve, dopo alcuni lunghissimi minuti.
«Quali numeri?» chiese Ninon.
Solo allora Twelve si ricordò che Ninon non sapeva leggere.
Si affidava solo alla memoria! Si zittì, in attesa di altre
istruzioni.
«D’accordo. Adesso prendi i cosi a punta e infilali nella
serratura, uno su e uno giù. Poi quando te lo dico io gira. Ma
piano. Devo sentire lo scattino. È tutto lì, il trucco. C’è una
molla, da qualche parte. Tu la carichi, e poi la molla fa lo
scattino.»
Lo scattino, si disse Twelve.
Le parve piacevolmente assurdo essere là sotto a rischiare la
vita seguendo le istruzioni di una bambina di cinque anni che
nemmeno sapeva leggere. Ma leggere non è tutto nella vita, si
disse.
«Ora cominciamo» annunciò Ninon. «Ma fai attenzione.»
Indicò il filo elettrico della lampada, che avvolgeva la parte
bassa del basamento della Zita. «Credo che sia un allarme. Se
sbagli, suona, oppure ci fulmina.»
«Fantastico» disse Twelve.
Una goccia di sudore le scese lungo il collo. Era la sua
ultima possibilità di tornare indietro, rimettere la lampada a
posto e chiudersi in camera.
Ma Ninon sembrava perfettamente a suo agio. Girò la
manopola con estrema delicatezza, la lingua stretta tra i denti.
«Adesso, primo scattino» disse a Twelve. «Piano, verso
destra… Non così, troppo veloce. Devi essere più delicata.
Come una carezza a un gattino, capisci? Così, ecco. Brava!»
«Grazie» disse Twelve, sollevata.
«E ora dall’altra parte… Questa volta gli scattini sono due.
Ecco il primo, piano con il secondo… Aspetta che giro la
manopola… Quando te lo dico… Ecco. Adesso. Fatto! Ci
siamo riuscite!»
Dalla cassa della Zita si sollevò un debolissimo sospiro, un
rantolo, e Twelve recuperò velocemente i grimaldelli. Poi
abbracciò la bimba e la strinse forte: «Bravissima Ninon,
sei… sei la più brava del mondo!»
«Eh eh» gongolò lei.
«E ora fammi vedere se Mathias ci ha visto giusto» continuò
Twelve, sollevando il coperchio della cassaforte.
Dentro non c’era granché: alcuni fascicoli di diverso colore
e uno, in particolare, più spesso degli altri, protetto da un
nastrino e da una busta gialla. Twelve li illuminò
velocemente con la torcia, fino a trovare quello che faceva al
caso suo. Una lista di istruzioni simile a quella che Mathias le
aveva recitato su in soffitta: PROGRAMMA-TI,
AUTORIZZA-MI, ORDINA-TI…
«Eccoli» sussurrò, emozionata.
Ma se avesse preso la busta, pensò, si sarebbero accorti che
l’avevano rubata. E anche se Twelve non credeva che Luther
si servisse spesso di quei codici, poteva capitargli di aprire la
cassaforte e notare l’assenza della busta gialla. Controllò nel
cestino della carta straccia e fu fortunata: c’era una risma di
fogli. Sfilò i codici per Mathias dalla busta e li soppesò con
cura, poi li sostituì con altrettanti fogli prelevati dal cestino e
si infilò i preziosi codici dentro la cintura.
Infine rimise la busta al suo posto, facendo attenzione a che
ogni cosa sembrasse esattamente come l’aveva trovata,
richiuse lo sportello della Zita e risistemò la lampada sulla
scrivania.
Sembrava tutto perfetto. Nessuno avrebbe potuto dire che
erano state lì.
«E adesso cosa si fa?» le domandò Ninon, quando Twelve la
spinse verso la porta socchiusa.
«Adesso si va a nanna!» rispose Twelve. «E si fanno tanti,
tanti… sogni d’oro.»
11
LA LETTERA D’ORO

veva appena finito di piovere, ma


poteva ricominciare da un momento all’altro. I
maggiociondoli del giardino stillavano lunghe gocce affilate,
e dal pietrisco saliva l’odore dell’ozono, pungente come il
pan pepato. La panchina bagnata del Cortile degli Studenti
aveva lasciato sulla schiena di Twelve una doppia striscia
umida.
«E allora?» domandò a Mathias. «Che ne dici? Sei riuscito a
darci un’occhiata?»
«Sì» rispose Mathias, tranquillo, ma con gli occhi segnati da
almeno un paio di notti insonni. «E be’… è… straordinario.
Anche più di quello che speravo. Ci sono i Linguaggi di base
di tutti i golem, con praticamente tutte le parole, nonché gli
schemi dei cervelli alchemici. In pratica, a essere capaci, con
l’aiuto di quei fogli si potrebbe costruire un golem da zero.»
«Grandioso» disse Twelve. «Quindi adesso Lorenz è al
nostro servizio?»
Mathias scoppiò in una risatina nervosa.
«In quattro giorni? Ah! Tu non hai idea di cosa stiamo
parlando, vero?»
«Forse no. Non sono un’esperta come te.»
«Il Linguaggio è formato da milleuno parole di base. Solo il
glossario che mi hai portato ne utilizza quasi settecento. Poi
ci sono le regole grammaticali, i complementi, gli avverbi… i
piani di progettazione da decifrare…»
«È un modo per dire che è complicato?»
«No. È molto più che complicato. Non a caso, per
riprogrammare un golem serve un Maestro Scriba, aiutato da
un Maestro Alchimista e da un Maestro Orafo. E io, con
rispetto parlando, non sono nessuna di queste cose.»
«Quanto tempo ti ci vorrà?» insistette Twelve.
Mathias fece spallucce. «Non lo so. Un anno? Due?»
Twelve si abbandonò sulla panchina, desolata. Chiuse gli
occhi. «Allora è del tutto inutile.»
Non aveva un piano preciso su come usare i golem per
fuggire dall’Accademia, ma di certo non poteva aspettare
tutto quel tempo.
«Eccoti qui» disse una voce a Twelve, facendola sobbalzare.
Era Mia, i capelli verdi irti come un puntaspilli e gli occhi
cerchiati di eyeliner slavato. Aveva l’espressione di chi ha
appena mangiato una cosa disgustosa.
«Mi cercavi?» le chiese Twelve.
«Non io. Lupo.» La smorfia della ragazza si accentuò. «Mi
ha detto che devi andare da lui. È in officina. Sai dove si
trova?»
«Sì. Dopo il laboratorio al primo piano, sopra le cucine.»
Mia annuì. «Meglio se lo sai, così non dovrò accompagnarti.
Cosa fai ancora qui? Devi andarci subito! È un ordine di
Lupo.»
Twelve e Mathias si scambiarono un’occhiata complice,
dandosi appuntamento a dopo per proseguire la discussione.
Twelve lasciò l’umido tepore del cortile e attraversò l’ala
della scuola dove si trovavano le aule, superò la palestra e
salì le scale a grandi balzi.
La porta dell’officina doveva essere la seconda sul
pianerottolo, dopo quella squadrata e metallica del
montacarichi. Dalle cucine saliva un pungente odore di fritto
e un cartello ammoniva: SOLO AUTORIZZATI E STUDENTI A
PARTIRE DAL TERZO ANNO.
Pazienza, si disse Twelve spingendo la porta. Un ordine era
un ordine. E non era certo la prima volta che non seguiva le
regole.
Appena entrò, le parve che tutti i ragazzi nell’officina si
fossero voltati a guardarla. Erano più grandi di lei e
indossavano tute da meccanico unte d’olio, guanti spessi e
occhiali da saldatore.
C’era molta luce, che in parte proveniva dall’esterno e in
parte da una fila di lampade che pendevano dall’alto. Dal
soffitto scendeva anche una serie di catene, che terminavano
con una quantità di morse e ganci, e la stanza era ingombra di
pezzi di motori, lastre di ferro, banconi da lavoro da cui si
sollevavano sbuffi di scintille, rastrelliere di trapani e
avvitatori con decine di punte, smerigliatrici, pistole
termiche, compressori, martinetti, fresatrici, chiavi inglesi. E
una pattuglia di golem a fare la guardia alle uscite.
Due ragazzi erano sdraiati per terra sotto un grosso cilindro
metallico che sembrava un frammento di caldaia, e saldavano
i bulloni tra spruzzi di fiamma ossidrica. Poco distante, una
ragazza stava grattando via la vernice dalla portiera di una
carrozza.
Twelve attraversò quella ridda di colpi e di motori in
funzione fino a quando non scorse Lupo, chino sopra un
apparecchio a elica che assomigliava vagamente a un
ventilatore.
«Ehi» lo salutò. «Mi hai detto di non volermi vedere mai
più, e mi mandi a chiamare?»
Il capo degli Spazzacamini sogghignò. «Ti ho detto di non
volerti vedere mai più una volta che sarai fuori. Non qui
dentro.»
Finì di avvitare un bullone, aggiustò il tiro con un paio di
colpi di martello e l’aggeggio si avviò con un ticchettio da
orologio.
«Che roba sarebbe?» domandò Twelve.
«Un ventilatore da serra che non funzionava più. Mister
Peele mi ha dato il permesso di provare a ripararlo. Mi piace
aggiustare le cose. Comunque non ti ho convocata qui per
parlare di me. Mi hanno detto che hanno iniziato le prove.»
«È per questo che mi hai fatto chiamare?»
«E che tu sei seconda» continuò Lupo.
«Così pare.»
«Non è quello che ti avevo chiesto.»
Lupo posò gli attrezzi, si pulì la faccia con un fazzoletto
talmente sporco che gli insozzò tutta la barba e infine guidò
Twelve fuori dall’officina. Fece un cenno al golem più vicino
e quello sollevò una mano, per dargli il permesso di uscire.
Una volta in corridoio, le indicò il montacarichi.
«Entra.»
«Stai scherzando?»
«Per niente. È abbastanza grande per tutti e due.»
Aprì lo sportello con uno schiocco. Aveva ragione, osservò
Twelve. Se si sedevano uno accanto all’altra e tenevano la
testa tra le ginocchia, potevano starci quasi comodi. Entrò per
prima e si chinò. Lupo la imitò, schiacciandosi contro di lei.
Era ossuto, duro e puzzava di olio da macchina. Eppure a
Twelve bastò quel contatto per farla avvampare.
«Non mi serve che tu sia seconda, Twelve. Devi arrivare
prima. Ed essere scelta nell’Ordador.»
«Sarebbe il tuo famoso piano per farmi fuggire?» chiese la
ragazza.
«No. Quello lo stiamo organizzando adesso. Farà buio, per
un po’.»
Lupo chiuse lo sportello. Poi il montacarichi si mise in moto
verso l’alto.
TU-TUM TU-TUM.
«Qui possiamo parlare» disse Lupo, nel frastuono intorno a
loro.
«Ne dubito, ma apprezzo il tentativo…»
«Ho pensato a quello che mi hai detto. Alla tua idea di
ritentare la fuga. Ben venga, ma a una condizione.»
TU-TUM TU-TUM.
«Quale?»
TU-TUM TU-TUM.
«Porterai gli altri con te. Il più possibile. Voglio che
organizzi una fuga di massa di Spazzacamini.»
«Sei impazzito? Sarà impossibile!»
TU-TUM TU-TUM.
«Gli Spazzacamini giocano in squadra. Siamo un branco. E
se il branco decide di cambiare territorio, deve farlo unito.»
«Un branco cambia territorio quando glielo dice il suo
capo.»
TU-TUM TU-TUM.
«È quello che sta dicendo.»
TU-TUM TU-TUM.
«Vuoi il mio aiuto, Twelve?» continuò Lupo. «Si trova qui,
alla fine della salita di questo montacarichi. Accetti di portare
gli altri con te?»
«Lupo…»
«Non tutti. Solo quelli che vogliono rischiare.»
«E gli altri? Se sanno che c’è un piano di fuga e decidono di
parlare?»
«Agli altri penso io. Allora?»
TU-TUM TU-TUM!
Il montacarichi si era fermato.
Twelve trattenne la risposta tra le labbra ancora un po’. «E
va bene. Accetto» disse infine.
CLAC.
Danubia si spalancò davanti a loro come una vertigine, con
il fiume, i ponti, i palazzi, le strade, le piazze e i viali alberati,
in ogni direzione e a perdita d’occhio. Da un lato si
scorgevano le colline, dall’altro la lontana linea scura della
Barriera, che divideva la città dal resto del mondo.
Il montacarichi conduceva direttamente al tetto della scuola,
nel mezzo di una foresta di camini larghi e stretti, dritti e
storti, che dalla cucina fumavano sottili colonne di fuliggine,
quasi invisibili a un osservatore distratto. A Twelve mancò il
respiro, e dovette appoggiarsi a un comignolo per non
perdere l’equilibrio: rispetto al tetto della soffitta, su cui
qualche volta si era arrampicata, quell’ala era più ripida e
scoscesa, e la sensazione di vuoto più spaventosa. Rimase a
guardare la città con il cielo color dell’acciaio e il fiume color
del rame, e cercò inutilmente di distinguere il mare. Proprio
di fronte al montacarichi c’era un camino di metallo,
rastremato e più alto degli altri, che terminava con una
minuscola sfera e oscillava nel vento. Lupo ci si avvicinò,
sollevò la manica della sua tuta da meccanico e controllò un
piccolo orologio.
«Questo è il punto di incontro» mormorò. «E questo è il
giorno e l’ora in cui avviene sempre. Memorizzalo bene.»
«Aspettiamo qualcuno?»
«Due persone, se siamo fortunati» disse Lupo. «Ma non
posso essere sicuro che la prima arriverà, perché è da molto
che nessuno la vede.»
«Chi è? La conosco?»
Lupo la guardò come se stesse cercando di leggerle dentro,
poi indicò lo strano comignolo di ferro.
«Ascolta bene: questo è il mio primo aiuto, Twelve» disse,
appoggiandosi. «Si chiama Fumo.»
«Fumo? Non l’ho mai sentito.»
«Non è il suo vero nome» mormorò Lupo. C’erano delle
lettere e dei numeri, ormai scrostati, incisi su quel comignolo.
Le lettere sembravano formare proprio quella parola: FUMO.
E i numeri, sotto, dicevano: 168.1. «È una specie di leggenda
dell’Accademia. Io non l’ho mai incontrato di persona, non
so nemmeno che aspetto abbia. Ma la mia vecchia
capobranco mi ha insegnato come si fa a scrivergli. E io ora
lo insegnerò a te.»
Il ragazzo frugò nelle tasche della sua lurida tuta e ne tirò
fuori tre buste che alla luce del giorno scintillavano d’oro
sgargiante.
«Fumo non vive qui nell’Accademia. E l’unico modo per
mettersi in contatto con lui è scrivergli un messaggio,
infilarlo dentro una di queste, e gettarlo in un fuoco acceso.
Non so di cosa siano fatte le buste, molto probabilmente
d’oro alchemico, ma decollano su dal camino che è una
meraviglia.»
«E lui le legge?»
«Così diceva la mia vecchia capobranco.»
«E cosa ti risponde?»
«Niente» disse Lupo. «Non può rispondere. L’altra sera,
dopo che sei andata via, ho usato una delle ultime buste per
scrivergli che una ragazza della mia confraternita voleva
organizzare una fuga di Spazzacamini e che aveva bisogno
d’aiuto. E poi l’ho gettata nel fuoco.»
«E cosa è successo?»
«È rimasta nelle braci fino a diventare incandescente, poi è
salita nel camino come carta infuocata, ed è sparita.»
Lupo controllò di nuovo l’orologio. «L’accordo è di
aspettarlo qui un quarto d’ora. Non di più. Non è facile
arrivare all’Accademia.»
Twelve scoppiò in una risatina nervosa. Arrivare
all’Accademia? Quel tipo doveva essere molto più di una
leggenda, per tentare una simile impresa. E per cosa, poi? Per
aiutarla a fuggire?
«Purtroppo mi sa che il quarto d’ora è appena passato»
commentò Lupo.
«Quindi non verrà?»
«Non questa settimana. Forse non ha ancora letto il mio
messaggio. Forse non ce l’ha fatta. O qualcosa l’ha fermato.»
Lupo le consegnò tre buste dorate, sottilissime e impalpabili
come il petalo di un fiore. «Queste sono le ultime che
possiedo. Tienile tu. Puoi scrivergli di nuovo, e magari con te
arriverà.»
«Grazie» rispose Twelve, un po’ confusa. Poi vide che Lupo
aggirava il camino dove si era aperto il montacarichi, e gli
domandò: «E adesso che cosa facciamo?»
«Adesso incontriamo la seconda persona. Vieni con me.»
Lupo raggiunse la cima del tetto e camminò tra i comignoli,
a passo svelto. Twelve lo seguì, in equilibrio ben più
precario. Non tirava vento, ma era come se ci fosse, e di tanto
in tanto doveva aggrapparsi a tegole e camini, rischiando di
scivolare nella gola di due abbaini, o contro un frangineve
appuntito. Lupo si spostava come un animale selvatico sulle
tracce di una preda. Non dava spiegazioni. L’Accademia,
vista dall’alto, aveva la forma di un grande ferro di cavallo, e
Lupo e Twelve percorsero per intero il lato più lungo, in
direzione opposta alla soffitta degli Spazzacamini, di cui
Twelve distinse i grandi oblò circolari. E una volta raggiunto
l’altro ramo del ferro di cavallo, si fermarono davanti a
un’enorme ciminiera di mattoni.
«Eccoci arrivati» disse.
«Dove siamo?» domandò Twelve.
«Di fronte a uno degli ingressi superiori e meno frequentati
del covo degli Acrobati» rispose Lupo.
«Ma la loro tana non è sottoterra?»
«Per questo lo chiamano “superiore”. Sai come sono, amano
far fatica» sogghignò Lupo, annusando l’aria. «Non è vero,
amica mia?»
«Ci piace tenerci in esercizio» rispose una voce.
Apparteneva a un’ombra che si muoveva agile tra i camini.
Partì di corsa, fece una capriola e atterrò a pochi centimetri
dalla faccia di Lupo.
Era Spider, la ragazza anemica che Twelve aveva visitato
insieme a Mugaba. Vista lì sopra, sembrava tutt’altro che
deperita, e anzi si era ripresa in fretta.
Si sollevò come una cavalletta davanti a Lupo e gli
domandò, febbrile: «L’hai portato, allora? L’hai portato?»
«L’ho portato» rispose lui. «Ma solo se tu sei disposta a fare
la tua parte.»
«Di lei non avevamo parlato, però» fece notare Spider,
indicando Twelve.
«Ti ho detto che avrei avuto un ospite.»
«Ma non mi avevi detto che era lei» esclamò. «Sta con i
professori. È amica di Mugaba.»
«È pulita. Niente storie.»
Si sfilò la metà superiore della tuta e tirò fuori da una tasca
sulla schiena uno scheletro di metallo che proteggeva un
rettangolo di cartone dipinto. Twelve vide la facciata di un
palazzo giallo oro all’ora del tramonto, e in primo piano un
uomo di tre quarti con un sorriso enigmatico e una giacca a
quadretti.
«La Settima Sinfonia di Shostakovic» mormorò Lupo.
Gli occhi di Spider si illuminarono. «Diretta da
Temirkanov! Suonata dall’orchestra di San Pietroburgo! È
meraviglioso, incantevole, fammi vedere…»
«Non ancora» la fermò Lupo, allontanando il disco. «Prima
la tua parte.»
Spider si morse le labbra, incerta e inviperita. Diede
un’ultima occhiata sospettosa a Twelve e poi disse: «E va
bene. Lo farò. Vi porterò dentro la tana degli Acrobati. Ma tu
sei responsabile per lei, non dovete assolutamente farvi
riconoscere, e se qualcosa si mette male… io sparisco.»
«Chiaro» tagliò corto Lupo. «Fai strada.»
Spider contorse le labbra in un sorriso gelido e si arrampicò
su per la ciminiera, seguita dai due clandestini.
Lungo il muro esterno della ciminiera c’erano piccole
maniglie di ferro, come scaglie sulla schiena di un drago.
«Non toccate quelle con la striscia rossa sul lato» avvertì
Spider. «Indicano che potrebbe esserci una trappola, o un
allarme. Potrebbero esplodere o staccarsi all’improvviso.»
Twelve, che stava per aggrapparsi proprio a una maniglia
rossa, si affrettò a ritrarre la mano e allungarsi fino alla
successiva. Mentre salivano lungo il camino, la sensazione di
essere colpita dalle raffiche di vento si fece ancora più
intensa, e il panorama sulla città più lontano. All’ultima
maniglia Twelve trattenne il fiato, perché dalla sommità del
grande camino poteva distinguere una striscia color oro
zecchino che tremava come una stella filante: il mare.
Lupo dovette sospingerla per farla proseguire, mentre
Spider si era già calata all’interno del camino con la sola
forza delle mani. Accanto a lei, pendevano un paio di funi
d’acciaio agganciate all’imboccatura, che scomparivano nel
vuoto. «Sapete come si scende con la corda?»
«Mi sembra il minimo, per un Ladro» disse Lupo.
Iniziarono la discesa, con la corda tra le mani e i piedi e la
schiena contro la parete interna della ciminiera. Il buio
divenne ben presto impenetrabile e l’odore di fuliggine si
infilava a fondo nelle narici.
«È faticoso» mormorò Twelve. «Voi lo fate spesso, quando
tornate nel vostro covo?»
«Non esattamente» rispose Spider, accendendo una lucina
che portava alla cintura. «Noi di solito facciamo… così!»
Infilò un paio di guanti senza dita, si fece passare la fune in
mezzo alle gambe e intorno alla scarpa destra, si capovolse
con la testa verso il basso e si lasciò scivolare giù con uno
SVUSSSCHHH! che la fece scomparire in meno di un
secondo.
«Che dici?» sogghignò Lupo.
«Facciamolo» rispose Twelve. «Anche se ci bruceremo le
scarpe!»
Si avvolse un lembo del maglione attorno alle mani perché
non bruciassero nell’attrito e imitò Spider, mettendosi a testa
in giù.
«Al mio tre» disse a Lupo. «Uno, due… tre!» Twelve si
lanciò nella cavità del camino, velocissima, trattenendo l’urlo
di gioia di quel brivido inatteso, con gli scarponi che
sembravano prendere fuoco. Poi la corda finì all’improvviso
e Twelve si ritrovò sospesa nel vuoto, ma si appallottolò
nell’aria come un gatto e atterrò su un soffice pavimento di
materassi, atterrando in equilibrio su mani e piedi.
«Però!» commentò Spider. «Ci sai fare.»
Lupo le raggiunse con un ringhio sommesso e una caduta
meno armoniosa, che lo fece sprofondare tra i materassi come
una pietra.
Twelve si guardò intorno. Erano piombati in uno stanzone
con il soffitto crivellato di buchi, collegati ad altrettanti
camini e attraversato da miriadi di corde e scalette che
penzolavano a varie altezze. Come nella soffitta degli
Spazzacamini, anche lì c’erano scritte graffiate con coltelli o
punteruoli, alcune nere di fuliggine, altre bianche come denti.
«Questa è la tana degli Acrobati?» chiese Twelve,
stupefatta.
«È una delle anticamere» spiegò Spider. «E nemmeno la più
conosciuta. Mettetevi qualcosa, adesso. Anche se a quest’ora
non c’è mai nessuno, non vogliamo che i miei fratelli si
accorgano che due Spazzacamini hanno invaso il loro
territorio, dico bene?»
«Benissimo» concordò Lupo.
Spider recuperò da un gancio un paio di felpe con il
cappuccio e due passamontagna, e glieli lanciò. Twelve si
cambiò rapidamente e nascose i capelli, lasciando scoperti
solo gli occhi.
«Da questa parte» disse Spider non appena i due ebbero
finito di vestirsi.
Sollevò quella che sembrava una grata di ventilazione e si
infilò a quattro zampe nel condotto.
«L’ultimo chiude» ordinò.
Lupo e Twelve le andarono dietro.
«Ora fate attenzione. Siamo arrivati» annunciò Spider.
Il condotto si interrompeva bruscamente sul vuoto. Erano
sbucati nella parete verticale di un grande tunnel sotterraneo,
così profondo che non si vedeva il pavimento, ma solo una
luminescenza indistinta. Ovunque era una giungla di corde,
doppie funi, passerelle, travi, ponti tibetani, che
attraversavano lo spazio creando un fitto reticolato.
Alcune corde erano avvolte da fili elettrici e lampadine
colorate che componevano vivaci luminarie. Sembrava di
trovarsi all’interno di un mastodontico circo, disseminato di
travi e trapezi per gli equilibristi.
A ben guardare le pareti, poi, si notava una serie di pomelli,
maniglie e spuntoni, a cui Spider si aggrappò rimanendo
sospesa, in bilico sull’abisso.
«Benvenuti nella nostra tana, signori» disse.
Twelve si affacciò, estasiata.
«Voi… vivete qui?»
«Puoi giurarci. Vedi quei bozzoli lassù? Sono le amache
dove dormiamo. E quella specie di tendone ancorato alla
parete? È un bagno. Abbiamo tutto quello che ci serve, in alto
o in basso, e per raggiungerlo non devi far altro che saltare o
arrampicarti.»
Spider si sporse all’indietro e si lasciò cadere nel vuoto. Poi
spalancò le braccia, fece una capriola e si aggrappò a una
corda elastica che penzolava cinque metri sotto. La tese come
una fionda e si diede lo slancio per spingersi in alto, fino a
una seconda corda e poi a una terza, spostandosi in
quell’enorme cavità sotterranea con guizzi da ragno.
Alla fine si fermò davanti a loro, appesa a testa in giù, con
un grande sorriso.
Twelve non aveva mai visto niente di così eccezionale,
spaventoso ed eccitante insieme.
«Ora ti porterò dove vuole Lupo» disse Spider.
«Tu non vieni?» domandò Twelve al suo capobranco.
«Faccio la guardia all’uscita» rispose lui. «Muoviti, e vai
con lei.»
«Fermati quando ti dico di fermarti e fai molta attenzione»
le raccomandò Spider. «Noi diciamo che chi cade sotto non è
un vero Acrobata. E tu non lo sei.»
Scesero lungo la parete con le corde, e ben presto Twelve
perse il senso del tempo. Si domandò se la partita di palla
prigioniera fosse già iniziata e se qualcuno la stesse cercando,
ma fu questione di pochi istanti, perché spese tutto il resto del
tempo a tentare di rimanere in equilibrio e non precipitare. Si
guardava intorno, meravigliata dalle architetture sospese, e
intanto continuava a scendere, senza sosta. Di tanto in tanto
venivano investite da fiotti di aria fresca, o si dovevano
fermare per evitare di incrociare qualcuno dei compagni di
Spider. Gli Acrobati si lanciavano tra i ponteggi e le
carrucole semoventi con l’eleganza di un angelo, o si
facevano scagliare verso l’alto da corde elastiche senza
alcuno sforzo apparente. Twelve invece sentiva la fatica a
ogni movimento, e temeva che le si sarebbero staccate le dita.
Ma non si lamentò, e continuò a scendere. Proseguirono fin
dove arrivavano le corde e le passerelle, e i muri avevano
appigli. Poi scesero ancora, fino a raggiungere una grande
rete che occupava l’intero fondo della tana e sulla quale erano
disseminate centinaia di oggetti che non erano passati tra le
maglie.
«Non li toccare!» l’ammonì Spider, cercando rifugio su una
sottile piattaforma pochi metri sopra la rete. Ci si sedettero
sopra, con le gambe penzoloni nel vuoto. Sotto la rete non si
vedeva il pavimento, ma le pale di enormi ventilatori, che si
muovevano lentamente.
«I ventilatori sono in funzione notte e giorno» spiegò
Spider.
«Perché me li stai mostrando?» chiese Twelve.
«Perché è da lì che Lupo è scappato» spiegò l’Acrobata.
Twelve guardò istintivamente verso l’alto, dove il suo
capobranco era ormai invisibile, confuso con l’infinità di
grate e ponteggi della tana. «Non lo sapevo… Credevo che
nessuno fosse mai entrato nel covo di un’altra confraternita»
disse.
«In pochi lo sanno» rispose Spider, improvvisamente triste.
«Ma io ero con loro.»
«Loro chi?»
«Lui e la sua ragazza. Amaryllis.»
«Non so praticamente niente di lei. Lui non ne parla mai.»
Spider parve ignorarla e continuò: «Se passi sotto la rete,
puoi arrivare fino ai ventilatori. Devi studiare i tempi con cui
girano le pale per non farti affettare, ma puoi scendere ancora
più in basso, dove ci sono le trappole e la piscina. E poi la
fornace.»
«Quale fornace?»
«Quella che riscalda l’intera Accademia, e il cui calore
viene disperso dai ventilatori» spiegò Spider. «È lì che dovrai
entrare.»
Twelve non capiva.
«Come fai a entrare in una fornace?»
«Pfffuiii» la interruppe Spider. «Devo proprio spiegarti tutto
dall’inizio, ragazzina…»
La giovane Acrobata si sfilò un pezzo di carta dalla tasca e
lo aprì. Era una sezione della tana degli Acrobati divisa in
livelli, dalla ciminiera alla caldaia. Fece scorrere il dito verso
il basso, dove c’era scritto: RETE e poi VENTOLE.
«Una volta superate le ventole, arrivi qui.»
Sulla mappa c’era una sorta di labirinto, con scritto
PAVLOVA.
«Non lo so perché si chiama così, ma dicono che sia il nome
della professoressa che le ha costruite. È un sistema di
tagliole, recinti elettrificati, spuntoni aguzzi, messi giusto per
scoraggiare qualche Acrobata intraprendente. Difficili da
superare, ma non impossibili…»
«Ci sei stata?»
«Ah-a. E se riesci a scendere ancora più in basso e sei
ancora viva, arrivi alla piscina.»
«Lo dici come se fosse un problema.»
«Non puoi immaginare quanto» rispose Spider. «È profonda
sei metri e si trova proprio sopra la fornace. L’hanno costruita
per questo: è una specie di vasca di raffreddamento. Questo
significa che l’acqua è spesso in ebollizione. E ogni tanto, dal
fondo, spuntano delle concrezioni di metallo che noi
chiamiamo Cianee.»
Twelve non capiva, e rimase zitta.
«Le Cianee erano scogli leggendari che si muovevano da
soli sulla superficie del mare» spiegò allora Spider, tirando su
col naso. «Infatti anche questi gusci si muovono, solo che lo
fanno in modo diverso. Ogni sabato, un meccanismo li spinge
a risalire dalla fornace, che si trova più in giù, fino al fondo
della piscina. Lì le Cianee si aprono, raccogliendo acqua, per
poi richiudersi. La domenica i Cenci usano quell’acqua per
lavare la fornace, quando viene spenta qualche ora per le
pulizie.»
Twelve ascoltava, seguendo il dito di Spider sulla mappa.
«Se vuoi fuggire, quindi, una volta arrivata alla piscina
dovrai aspettare che spuntino dal fondo le Cianee… Dovrai
tuffarti e nasconderti all’interno, svuotarne una dall’acqua
con le valvole di sfiato e aspettare. Il giorno dopo la fornace
verrà spenta, e tu potrai entrarci prima che arrivino gli addetti
alle pulizie… e ti troverai nella tana dei Cenci. Da lì, sarai
praticamente fuori, perché ti basterà raggiungere il treno
pneumatico che passa sotto il fiume.»
Twelve scosse la testa, confusa. «Non credo di aver capito
bene…»
«Te la faccio breve: se riesci a startene chiusa e immobile
dentro una Cianea per ventiquattr’ore, come dentro a una
bara, e con il rischio di bollire viva, il giorno dopo puoi
tagliare la corda.»
La pelle di Spider era bianca e le sue vene erano un reticolo
di ragnatele grigio-azzurre.
«Ma perché le Cianee restano lì, ferme, piene d’acqua, per
un giorno intero? Perché i Cenci non lavano la fornace di
sabato? Non sarebbe più… logico?»
«Sì, e infatti una volta era così» disse Spider. «Fino a
quando Lupo e Amaryllis non hanno provato a scappare.»
“Lupo e Amaryllis!” pensò Twelve. Davvero erano fuggiti
in quel modo rocambolesco e pericolosissimo?
«Nessuno sa con precisione cosa sia successo, là sotto»
continuò Spider. «Amaryllis era una Spazzacamino quando
hanno elaborato il piano di fuga… dicono che sia stata lei, a
pensarlo. E per questo motivo lasciò la sua confraternita per
farsi ammettere tra gli Acrobati… dove diventò mia amica.»
«Amaryllis era tua amica?» domandò Twelve. «E com’era?
Voglio dire, io non riesco nemmeno a immaginarmela.»
«Una cascata di capelli biondi» mormorò Spider con un
sorriso melanconico. «E gli occhi talmente blu da sembrare
viola… È stata lei a scendere per prima sotto la rete e a
scoprire quello che ti ho appena raccontato. È con lei che
sono scesa la prima volta.»
«Sei scappata anche tu?»
«No» ammise Spider. «Allora non credevo che fosse
possibile superare la Pavlova, ma… evidentemente mi sono
sbagliata.» Spider prese un profondo sospiro. «Si sono
preparati per settimane, e sembra che quando si sono trovati
nella piscina Amaryllis non sia riuscita a tuffarsi. Il fiato, le
mancava il fiato, come a me…» Spider la fissò: «Anemia:
non posso nemmeno pensare di immergermi fino in fondo a
una piscina come quella. E poi di rimanere tutto quel tempo
al chiuso, senza respirare. Per Amaryllis era uguale e così,
all’ultimo, hanno ideato un piano di emergenza. Si è tuffato
solo Lupo, mentre lei è rimasta ad aspettarlo in superficie. A
mollo nella piscina. L’idea di Lupo era trovare nella fornace
il meccanismo d’emergenza per svuotare la piscina e tornare
a prenderla, ma…»
I ventilatori giravano sotto di loro, immensi e silenziosi.
«Ma?» chiese Twelve.
«Ti ho detto che a volte l’acqua sale di temperatura. A volte
diventa bollente e…»
«No» mormorò Twelve.
«Sì. Lupo riuscì a cavarsela in qualche modo, ma Amaryllis
non fu così fortunata. E quando la fornace si spense e lui uscì
fuori, trovò ad aspettarlo… Luther. Aveva scoperto tutto. Gli
disse che Amaryllis era gravemente ustionata, ma che forse i
professori potevano curarla. Gli lasciarono scegliere cosa
fare: andarsene, poiché tutta la scuola era rimasta ammirata
dall’audacia e dalla genialità del piano di fuga, e meritava un
premio… o restare. Ma se avesse deciso di andare…»
«… L’avrebbero lasciata morire» completò Twelve.
Spider annuì, grave.
Twelve si appoggiò al muro della tana, stremata. Ora
capiva, naturalmente. Capiva perché Lupo non voleva mai
parlare del suo amore perduto. Capiva perché, in fondo, lo
sentiva così affine: il suo tormento era simile a quello di lei,
il ricatto che aveva dovuto subire per salvare Amaryllis era lo
stesso che lei aveva accettato per proteggere Ninon.
«E dunque Amaryllis è ancora qui?» domandò, piano.
«Sì» rispose la ragazza.
«E dove si trova?»
«Nessuno lo sa. Forse nemmeno Lupo. È costretto a
fidarsi.» Spider recuperò la mappa, se la infilò nei pantaloni e
si bilanciò sulle ginocchia, pronta a ripartire. «Comunque la
fornace è l’unica via d’uscita dall’Accademia, ragazza. C’è
anche l’ascensore del salone principale, che scende alla tana
dei Cenci, ma quello è una bomba travestita da ascensore, è
minato di esplosivo ad alto potenziale. Scappare di là
equivale a un suicidio. Ci provò un ragazzo, tre anni fa, un
certo Gunther.»
«E…?»
«L’ascensore era ridotto a un rottame fumante. Hanno
dovuto sostituirlo.»
«E dalla cella di Faccia di Ferro?» domandò Twelve. «Da
dietro la Quarantena c’erano delle grate, da cui si vedevano i
Cenci.»
«Ne abbiamo parlato tutti, di Faccia di Ferro. I golem sono
stati al lavoro per giorni. Ormai è una strada bloccata, a meno
che non pensi di riuscire a sfondare a colpi di piccone quattro
metri di solida parete senza che nessuno se ne accorga.»
Twelve sospirò. «È una fuga impossibile, quindi.»
Spider si strinse nelle spalle. «Io conosco abbastanza bene la
prima parte della Pavlova, e ho annotato la posizione di tutte
le trappole. Restano le ultime due, e le Cianee, dove proprio
non posso entrare.»
Twelve annuì, pensierosa. Era un piano folle, ma era pur
sempre un piano. «Posso chiederti una cosa?»
«Solo se posso decidere di non rispondere.»
«Che cos’è che ti ha dato Lupo?»
«Musica, la mia grande passione. Qui dentro non si trova,
come tutte le cose belle che si scambiano in Accademia. Ho
un vecchio grammofono, nascosto in una delle nicchie. E
l’opera Numero Sette di Shostakovic è quanto di più bello sia
mai stato creato al mondo. Sai come la chiamano?»
Twelve non lo sapeva.
«La Sinfonia della morte. Appropriato, non trovi?»
12
LA GIOCATRICE

welve?» domandò Sputo. «Ma che


cofs’hai?»
«Io? Perché? Niente.»
«Mi fsembri fstrana… FSu un altro pianeta.»
“E lo sono” pensò Twelve. Era sul pianeta dei ventilatori e
delle trappole sotterranee, di piscine oscure dove sbocciavano
fiori di metallo in cui ci si doveva rinchiudere per ore. Cercò
di tornare al presente, alla palestra con le grandi vetrate che
davano sul fiume, ai tre palloni che rimbalzavano intorno a
lei, e alle scarpe che scricchiolavano sul pavimento, quando
uno dei ragazzi cambiava direzione.
La partita della domenica pomeriggio. Quella a cui si era
presentata in ritardo, e con i muscoli doloranti per la discesa e
la risalita nella tana degli Acrobati.
La sua testa era ancora tutta lì, e la sua immaginazione
ripercorreva il racconto di Lupo e Amaryllis. Al ritorno, sola
con Lupo, non ne aveva nemmeno accennato. L’aveva
seguito su per la ciminiera e poi nel montacarichi, al buio,
dove era rimasta ad ascoltare il suo respiro e il battito del suo
cuore.
E poi si erano divisi. Come se nulla fosse accaduto, con
Twelve che correva in palestra sentendosi colpevole di
qualcosa che non aveva ancora fatto. Colpevole di conoscere
un segreto, che Lupo voleva che lei sapesse. E che però non
le aveva raccontato direttamente.
E poi lì, in palestra, ad affannarsi perché nessuno le
chiedesse dov’era stata, cosa aveva fatto, come se quell’ora e
mezza scarsa di fuga con Lupo fosse stata una fuga
romantica, e fossero rimasti chissà dove, a fare chissà cosa.
Come Owen e le sue fidanzate gelose.
“La partita, Twelve, concentrati sulla partita.”
«Quale partita?»
«Twelve, fsei fsicura di fstare bene? Abbiamo il derby con
quelli del quinto anno!»
«Certo, lo so» disse Twelve, e aggiunse: «Stelle Prigioniere
contro Quinto Anno.»
E Lupo giocava nelle Stelle Prigioniere.
Aspettavano solo che uscissero dagli spogliatoi. Le Stelle
Prigioniere erano la selezione dei migliori giocatori della
scuola, a prescindere dall’età, anche se non c’era nessuno più
piccolo del secondo anno. E il Quinto Anno era il Quinto
Anno. Erano i più forti di tutti.
Sputo si infilò tra i ragazzi, andando a sedersi di fianco a
Mathias sugli spalti che i golem avevano montato su un lato
della palestra. C’erano molti ragazzi, divisi in gruppetti, che
confabulavano e si scambiavano febbrilmente piccoli oggetti
del mercato nero dell’Accademia. Un pettine per un
pacchetto di fiammiferi, una carrozza giocattolo per un
fermacarte, una vecchia boccetta di profumo per una moneta
d’argento rimasta schiacciata sulla rotaia di un treno. Ogni
cosa passava di mano rapidamente e trovava il suo nuovo
padrone: relitti pescati dalle reti nella corrente della Duma,
portati dal vento, raccolti nelle poche incursioni in città. Ogni
cosa di Danubia, tra le pareti dell’Accademia, diventava un
tesoro.
«Buongiorno signore e signori!» annunciò a un certo punto
il professor Zefirotti.
L’insegnante di educazione fisica, e allenatore ufficiale di
palla prigioniera dell’intera scuola, portò i suoi
centocinquanta chili di spietata allegria al centro del campo.
«Ora basta con questo baccano! Lasciamo ai nostri
campioni il tempo di concentrarsi… Ho detto basta! Devo
forse uccidervi, per farvi stare in silenzio? Ah, ecco, così va
meglio… Le buone maniere funzionano sempre… Benvenuti
alla sfida della domenica! State per assistere ai quarti di
finale del nostro annuale torneo di palla prigioniera. Una
partita di livello eccezionale, Stelle Prigioniere contro Quinto
Anno… Un bell’applauso, grazie!»
Gli atleti sfilarono sul campo, le sette Stelle con
pantaloncini e maglia nera, e i sette del Quinto con le divise
bianche. Si sistemarono nelle rispettive metà campo, in
formazione, mentre sulla linea centrale erano già posizionati i
tre palloni con cui si sarebbero dati battaglia. Tra questi, solo
uno era la palla avvelenata, capace di trasformare
temporaneamente in pietra chiunque colpisse.
Lupo era l’unico dei suoi a non scaldarsi e a non fare
stretching, come se si trovasse lì controvoglia. E
probabilmente era così. A un tratto si voltò verso il pubblico
e Twelve, d’istinto, agitò le braccia per salutarlo. Ma gli
occhi di Lupo non erano per lei. Erano diretti a Mia. La
ragazza dai capelli verdi se ne accorse, gli sorrise e arrossì.
Anche Lupo sorrise.
Twelve sentì una fitta all’imboccatura della gola, come una
puntura.
«Chi saluti?» le domandò Mathias, seduto accanto a lei.
«Nessuno» rispose Twelve. «Silenzio, che inizia.»
Zefirotti fischiò e le due squadre si lanciarono a recuperare i
palloni. Lupo ne agguantò uno e senza nemmeno fermarsi lo
schiacciò nell’altra metà campo, colpendo Sandeep dritto allo
stomaco.
«Sandeep, in prigione!» gridò Zefirotti.
Il ragazzo del Quinto Anno andò a sistemarsi dietro la metà
campo avversaria, in attesa di essere liberato dai compagni.
E la partita continuò.
«Forza, Lupo!» strillò Mia dagli spalti. E Twelve si accorse
che stava guardando più lei che il gioco.
Gli atleti si muovevano come famelici ballerini, e le palle
schizzavano come proiettili. Una ragazza del Quinto Anno
mirò a Lupo e tirò una palla sibilante cercando di centrarlo
alla schiena, ma Lupo fece una capriola, intercettò il pallone
al volo e lo rispedì indietro. La ragazza venne colpita sul viso
e si paralizzò, immobile, grigia come pietra.
«Oooooh» gridò la folla.
«Un applauso a Lupo!» esultò Zefirotti. Ora che la palla
avvelenata era stata individuata, la partita entrò nel vivo:
ognuna delle squadre cominciò una fitta serie di attacchi e
contrattacchi, mentre gli occhi di tutti erano puntati sul
pallone in grado di eliminare dalla partita gli avversari – e di
lasciarli sul campo, come ostacoli.
Fu un incontro furibondo e rapidissimo: Venia, delle Stelle
Prigioniere, vide la palla avvelenata che saettava verso di lei
e saltò per schivarla, ma calcolò male l’effetto e venne
toccata in pieno volo. Rotolò a terra con un tonfo, facendo
carambolare la palla con un rimbalzo tra i suoi compagni
Rosy e Mattana. Tre pietrificati in un colpo solo.
«Moore del Quinto Anno ha fatto l’attacco del secolo,
signori! Un tre-tre-tre come non si vedeva dai tempi di
Rudolph il Pietrificatore!» ruggì Zefirotti. «E ora la partita si
mette davvero male per le Stelle Prigioniere!»
Jack, Ondine e Allyster erano infatti già stati presi
prigionieri, e l’unica Stella ancora a piede libero era proprio
Lupo.
«Fatelo fuori!» gridò qualcuno dagli spalti, e Twelve si
voltò, riconoscendo la voce di Cadmo, il ragazzo con i capelli
bianchi del quarto anno, con ambizioni di capobranco.
Lupo allargò entrambe le braccia nella sua metà campo e
sfidò gli avversari a colpirlo. La palestra esplose di
entusiasmo vedendo il capobranco degli Spazzacamini
tuffarsi, rotolare, rialzarsi e schivare la palla, servendosi dei
tre compagni pietrificati come di uno scudo da guerra.
«TI AMO, LUPO!» gridò Mia, tra le decine di ovazioni a
suo sostegno. E poi rimase in piedi, ad applaudirlo. Altri
cominciarono a ululare, come un autentico branco di
lupacchiotti. Lupo intercettò al volo un pallone di Gobert, se
lo fece passare dietro la schiena come un prestigiatore e poi
lo scagliò con l’altra mano fino a Jack, in prigione,
liberandolo.
Fu l’inizio di un’incredibile rimonta delle Stelle Prigioniere
che si concluse a un minuto dalla fine della partita, quando
ancora Lupo, conquistata la palla pietrificante, la lanciò con
precisione millimetrica sull’ultima avversaria, bloccandola
sul posto in un’espressione stupefatta.
Fiiiit! fischiò allora Zefirotti. «Incredibile, signori! Davvero
incredibile! Vincono le Stelle Prigioniere!»
Ci fu una vera e propria invasione di campo, con il
professore che spintonava i ragazzi lontano mentre si chinava
a spietrificare i giocatori. «Fermi! Fermi! Fateli respirare!»
Nella confusione, Twelve vide Mia superare tutti gli altri,
prendere la rincorsa e saltare al collo di Lupo. Si diedero un
bacio sulla bocca.
«Ehi» la chiamò allora Sputo. «Tutto appofsto, Twelve?»
«Sì sì, tutto apposto» mentì lei, guardando dall’altra parte.
Stupida, stupida Twelve, si disse.
Che idee si era fatta?
Solo perché aveva trascorso un’ora e mezza da sola con
Lupo. Solo perché lui l’aveva portata in un luogo segreto ora
pensava di aver ottenuto accesso al suo cuore?
Stupida, stupida Twelve.
13
I FUGGITIVI

ussarono alla porta, e Twelve si


svegliò di soprassalto.
Erano passati tre giorni da quando erano scesi fino ai
ventilatori, le cui pale taglienti ronzavano ancora nei suoi
sogni, senza mai smettere di girare. Twelve aveva incrociato
Spider un paio di volte e Lupo meno ancora, in sala da pranzo
o in soffitta, e i loro sguardi si erano sfiorati senza mai
incontrarsi davvero. Che cosa si aspettavano che facesse,
adesso? Che spedisse una lettera a Fumo? O che salisse sul
montacarichi e poi sulla ciminiera, per entrare di nascosto
nella tana degli Acrobati?
Twelve si era scoperta a pensare a Lupo come mai aveva
fatto prima. A volte le veniva voglia di prenderlo a pugni.
Altre di fare come Mia, e di saltargli al collo. E magari sì. Di
baciarlo.
Bussarono una seconda volta e Twelve scivolò mezza nuda
fuori dal letto.
«Chi è?» sussurrò nello spiraglio di buio dall’altra parte.
«Possiamo entrare?» domandò Mathias.
«Presto!» disse qualcun altro.
«Chi siete?» Twelve socchiuse la porta e vide che nel
corridoio c’erano quattro ombre. Troppo sorpresa per
ribattere, le fece entrare. Mathias, Sputo. E poi Gerald e Mia.
Evitò di guardarla negli occhi.
«Che cosa succede?» domandò invece. Cercò alla cieca
qualcosa da indossare e poi rinunciò, sedendosi nell’angolo
più buio della camera, accanto a Ninon. Le sussurrò di stare
tranquilla e le disse, piano: «Abbiamo ospiti.» Poi si girò
verso gli altri e chiese: «Che ore sono?»
«Le cinque» rispose Sputo.
«E che ci fate qui così presto?»
«Veramente dovresti dircelo tu» intervenne Gerald.
«Già, tu» disse Mia.
«Io? E cosa dovrei dirvi?»
«Ci ha mandato qui Lupo.»
«Ha detto che dovevi parlarci.»
Twelve sgranò gli occhi, sorpresa: «Io non ho proprio niente
da dirvi.»
«Lupo ci ha detto che avresti risposto così» disse Gerald.
«Già! E che allora avremmo dovuto dirti che noi fsiamo
quelli che afscoltano la FSinfonia della morte, e che hai
promefsso. Due tu, due lui, ha detto…»
«Proprio così. Due tu e due lui…» aggiunse Gerald. «E che
per tutti gli altri avresti deciso tu. E niente storie…»
«FSì. Che fsei tu che devi decidere la fsquadra.»
«La Sinfonia della morte, che sciocchezza» mormorò Mia.
«Chissà cosa sono scesa a fare, qui sotto con voi: forse farei
meglio a tornare a dormire.»
Twelve, invece, si era svegliata completamente. Due e due. I
due di Twelve e i due di Lupo.
Per organizzare la fuga.
«Oh Dio… allora ci proviamo davvero» mormorò.
«Proviamo cofsa?»
«Prima di spiegarvi perché siete qui, ho bisogno che giuriate
di mantenere il segreto» disse Twelve.
«Lupo ci aveva avvertito anche di questo» mormorò Gerald.
«Ha detto che parlare con te significava fare un Giuramento
del Branco.»
«FSì: la promefssa degli FSpafzzacamini, fse la rompi…»
«Gli altri Spazzacamini si prendono tutto quello che è tuo. E
poi ti buttano nel camino senza fondo» aggiunse Mia.
«Va bene» accettò Twelve. Stese la mano davanti a sé,
chiusa a pugno. «Giuramento del Branco.»
«Giuro» disse subito Ninon, aggiungendo il suo minuscolo
pugnetto.
«Giuro» le fecero eco gli altri.
Seguì un lungo momento di silenzio, prima che i sei
congiurati ritirassero i rispettivi pugni.
«Allora? Cos’è tutta questa segretezza?»
«Un piano di fuga» disse Twelve. «Una fuga di gruppo.»
Si godette quell’istante di sorpresa, i cambi di espressione,
chi l’aveva capito, chi no, chi si diceva che era impossibile,
chi voleva sapere in che modo.
E tutti, però, sapevano che lei c’era già riuscita una volta. E
che quindi poteva farlo di nuovo.
«Vai avanti» disse Gerald, la fronte corrugata.
Twelve si fece dare un foglio e prese uno dei colori di
Ninon per disegnare quello che poi, al termine di quella
prima riunione, avrebbe distrutto e sminuzzato, in modo che
nessun altro potesse vederlo. Raccontò del montacarichi, dei
camini, di Fumo e di Spider e di tutto quello che aveva visto
nella tana degli Acrobati. Raccontò di Lupo e Amaryllis, così
come gliel’aveva raccontato Spider. E Mia si aggrappò alle
sue parole come a un paracadute.
Avrebbe voluto averne di più, di migliori, o non averne
affatto. Ma quando ebbe finito di parlare, i ragazzi attorno a
lei brillavano di una luce magnetica, e la loro pelle era
percorsa da brividi.
«Spider è disposta a insegnarci quello che sa, se la portiamo
con noi… Anche se Lupo dice che non verrà, per via delle
Cianee» continuò Twelve. «E possiamo muoverci solo di
notte, o la domenica, quando la tana è semivuota. Possiamo
salire sul tetto passando dalla nostra soffitta e da lì calarci
fino alla rete. Non faremo un unico viaggio, ma più
spedizioni, e ogni volta torneremo indietro. E solo quando
saremo pronti…»
«Quando saremo pronti, cosa?» domandò Mia. «Ci
chiuderemo dentro a queste… come le hai chiamate? Cianee?
Per farci bollire vivi, come è successo ad Amaryllis?»
«La domanda di Mia è più che legittima» disse Gerald.
«Questo piano ha un sacco di punti oscuri, siamo
d’accordo…»
«Il mio piano è questo. Se vi va bene, ottimo. Altrimenti,
affari vostri.»
«Non è detto che dobbiamo scappare tutti da lì» disse
Gerald. «Pensaci: se anche fuggisse un piccolo gruppetto, qui
dentro scoppierà il caos. Bloccheranno tutti gli impianti,
caldaia compresa… E allora sarà ancora più facile uscire di
lì.»
«Può funzionare» ammise Mathias. «Quindi chi è in
squadra?»
«FSquadra?» domandò Sputo, alzando un sopracciglio. «Io
non lo direi a nefssuno!»
«Io invece voglio dirlo a Henna e Cressida» mormorò
Twelve.
«Pfui, sono poppanti» sbottò Mia.
«E a Mattana.»
«Guarda che quel tipo è completamente sciroccato.»
«Sì, ma è anche svelto, e Lupo si fida di lui.»
«E poi?»
«Che ne dici di Jane del quinto?»
«Non so, non la conosco. È affidabile?»
«Direi di sì» esclamò Gerald con un sogghigno di leopardo.
«Garantisco.»
«E Orbo, Marcio e Lebbra?» suggerì Sputo. «Loro fsono
fsempre infsieme ai Cenci, conofsceranno benifssimo la loro
tana, potrebbero…»
«No, meglio di no» disse Mia, decisa. «Sono le spie dei
professori. Anzi: tenetevi alla larga da quell’orrendo trio.»
Rifecero una rapida lista dei possibili fuggitivi, discutendo
di chi avrebbero potuto avvertire.
«O dentro o fuori, niente ripensamenti, va bene?» disse
Twelve.
«Niente ripensamenti» concluse Mia. «Quando partiamo?»
Don Giacomo, l’insegnante di Conoscenza della Città, entrò
in aula vestito con un paio di calzabraghe nere e certe
scarpette a punta con la fibbia dorata che facevano pari con il
tricorno dello stesso colore. Conciato a quel modo,
assomigliava a un corvaccio, o a un becchino di un funerale
di cattivo gusto.
«Buongiorno, cari del Signore» li salutò. «Spero che tutti
voi vi sentiate in forma smagliante, quest’oggi, perché avrò
l’onore di introdurvi alla seconda prova per scegliere
l’angioletto che parteciperà al prossimo Ordador… Am-e-n!»
Lanciò il tricorno sul tavolo dell’aula e si infilò i pollici nei
taschini del panciotto.
«Dunque dunque… Immaginate di essere già là, per le
strade di Danubia… o addirittura dentro il Palazzo del re di
Danubia! Pensate di essere proprio lì… ci siete, prescelti del
Signore, sì?»
Un silenzio di ghiaccio era sceso nell’aula.
Il professore marciò a grandi passi fino alle mappe delle
case e dei palazzi di Danubia, grandi ognuna metà della
parete dell’aula, e le srotolò fino a quella del Palazzo Reale.
Somigliava a un albero, una grande quercia con un massiccio
nucleo centrale sorretto da colonne, e tutt’intorno un
groviglio di torri a raggiera, con guglie mozzafiato e arditi
camminamenti.
«È grande, vedete? Talmente grande che chiunque ci si può
perdere. Si dice che ai fortunati dell’Accademia di Servizio
che salgono a Corte venga fatto un corso supplementare di
orientamento, e che i maggiordomi reali sappiano muoversi
tra le stanze e i salotti anche bendati… ecco qui che ci
avviciniamo alla nostra prova… la Moscacieca… Am-e-n.»
«È un gioco da bambini!» esclamò Karl dal banco degli
Acrobati. E poi si ritrasse, quando la lunga bacchetta di
bambù con cui don Giacomo stava indicando la mappa del
Palazzo Reale saettò sul suo banco e lo colpì con uno
schiocco.
«Se mi lasci spiegare, lo vedrai da solo, dolcezza, se è un
gioco da bambini…» Indicò una porticina di uscita, sopra la
quale c’era una lanterna spenta. «Al di là di quella porta c’è
una stanza buia, dentro cui sono stati sistemati diversi
ostacoli. Alcuni sono mobili, sedie, cassettiere e cose del
genere. C’è un baule del tesoro, e una cassaforte aperta. Se
riuscite a prendere qualcosa, è tutto vostro. Ma altre cose lì
dentro sono piccole trappole. Sciocchezze: una corda
collegata a uno sparachiodi, una lama a pendolo, e una botola
abbastanza profonda da rompervi una gamba, se ci cadete
dentro. Tanto per dirvi quelle che mi ricordo. Tutto ciò che
dovete fare è entrare da quella porta e uscire dall’altra.
Possibilmente vivi. Am-e-n.»
«E la luce a che serve?» domandò Coleridge.
«Quando è accesa, vuol dire che c’è qualcuno nella stanza
della Moscacieca. Quando si spegne, vuol dire che è uscito.
Se lampeggia, si è rotto qualcosa, ha perso un braccio, e
bisogna mandare un golem a recuperare quello che ne
rimane…»
«Ma è impossibile!» sbottò Rebecca Thirty-five.
«Niente è impossibile quando siamo guidati dalla luce del
cielo» commentò don Giacomo. «E se poi abbiamo anche una
piccola mappa, è meglio ancora…»
Il professore si sfilò dalla cintura una pergamena arrotolata e
la agitò senza aprirla davanti alla classe.
«Ognuno di voi, prima di entrare nella stanza, avrà una
clessidra di tempo per memorizzarla. In questo modo, una
volta dentro, potrà sapere dove sono gli ostacoli. O almeno
provarci, ah ah ah! Allora, chi vuole iniziare? Nessuno?
Allora seguiremo l’ordine della classifica provvisoria. Chi è il
primo in graduatoria?»
«Temo di efssere io» disse Sputo, alzando la mano.
«Ah, mio caro Sputo, sono felice, davvero felice per te.
Vieni qui, presto. E cerca di rimanere vivo, perché lo sai
quanto ti voglio bene!»
«Aspetta, benedetto figliolo, prima di entrare là dentro devo
bendarti! Altrimenti che Moscacieca sarebbe? Hai
memorizzato tutto, sì? Bene. Allora saluta i tuoi compagni…
Ciao ciao, amici, ci vediamo in infermeria…»
«Non è divertente, profefssore!» si lamentò Sputo.
«Su su, sto solo giocando, carino. Non tutti finiscono in
infermeria. Ora bando alle ciance, vieni qui.»
Don Giacomo gli bendò gli occhi e poi aprì la porta. La
lanterna si accese di rosso.
«Buona fortuna, piccolo. Fai del tuo meglio.»
E Sputo entrò.
Rimasero tutti a guardare la luce rossa, terrorizzati dall’idea
che potesse lampeggiare. Il tempo scorreva, non si sentiva
nulla, e nulla accadeva. Don Giacomo fischiettava, e intanto
teneva un grosso cronometro in mano.
Poi si sentì un urlo terrificante.
«Don Giacomo!» esclamò Twelve.
«Sssh! Ho sentito, ho sentito, angioletto! È scattata una
trappola, ma…» disse il professore. «Come vedi la luce non
lampeggia, quindi può ancora proseguire.»
«Ma potrebbe essersi fatto male!»
«Direi che su questo non c’è dubbio, a giudicare dall’urlo.
Aspettiamo fiduciosi!»
Don Giacomo tornò a controllare il cronometro con aria
serena. Seguì un istante di silenzio spettrale, seguito da una
specie di ruggito, un clang metallico, un altro grido, un
rumore di mobili caduti e un terzo lamento di dolore.
E poi la luce si spense.
«È uscito!» esclamarono almeno una decina di ragazzi.
«Molto bene» annotò don Giacomo. «E in soli dodici minuti
e quarantasei secondi!»
Twelve saltellava da un piede all’altro, impaziente. Don
Giacomo le sorrise.
«Vuoi dare un’occhiata alla mappa?» le domandò.
La mappa era un caos di disegni, schemi e parole messe
apposta per confondere l’occhio e distrarre l’osservatore.
C’erano illustrazioni dettagliatissime, macchie e cancellature
e scritte che dicevano: Tagliole, Fiamma ossidrica, Lame a
pendolo, Chiodi e puntine. E poi: Tesoro. Diamanti. Libera
uscita per un giorno.
Possibile? Sembrava una mappa disegnata apposta per
tentarla e spaventarla al tempo stesso. E dopotutto la paura
era un nemico potente: trovarsi nell’oscurità più assoluta, con
il terrore di essere colpiti a ogni passo…
Forse non c’era niente di tutto quello che si vedeva nella
mappa, là dentro. Però Sputo aveva urlato.
«È già passata metà clessidra…» le ricordò don Giacomo.
E con il professore che la distraeva, memorizzare la mappa,
si rese conto Twelve, era impossibile. Doveva cambiare
strategia. Non poteva ricordarsi tutto. E infatti non le serviva
tutta la mappa. Le bastava memorizzare un percorso sicuro
fino all’uscita, ignorando il resto. Si concentrò sul disegno
davanti a sé. Il primo tratto del labirinto era dritto e senza
ostacoli. Poi la mappa indicava: angelo.
A quel punto avrebbe potuto girare a destra, andare avanti
un po’, non troppo perché poi c’erano i… chiodi, girare a
sinistra, continuare…
Twelve arrivò così fino in fondo, contando i passi come
unico punto di riferimento, ripetendosi il percorso nella testa
come una filastrocca, finché don Giacomo esclamò: «E ora
una bella bendatura!»
Twelve lasciò che il professore le coprisse gli occhi con un
nastro nero e poi venne spinta avanti.
Il suono della porta che si apriva, la luce rossa della
lanterna, la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Era dentro.
Espirò, lentamente.
Come sempre quando ci si trova al buio, i sensi erano tesi al
massimo. Sentiva il chiacchiericcio confuso dei compagni e
un ronzio indistinto da qualche parte sulla sinistra. Forse una
delle trappole. Era rumorosa, la stanza. Rumorosa per
distrarla.
Twelve protese le mani a cerchio davanti al viso, fece un
passo, barcollò. Si impose di stare calma. Non c’era pericolo,
non adesso, almeno.
Quanti ne aveva contati? Dieci? Fece un altro passo, e un
altro ancora. All’ottavo, i palmi delle mani sfiorarono
qualcosa di duro e freddo. Si avvicinò con cautela, cercando
di capire cosa fosse quell’oggetto. Sembrava una statua di
marmo, aveva la forma di… quelle erano ali di… un angelo!
Magnifico. Otto passi invece di dieci. Il che significava che
la stanza era un poco più piccola della mappa. E dunque
doveva correggere le distanze di conseguenza. Si ripeté la
filastrocca. Ora a destra, allora.
Due passi e si fermò.
«Qui ci dovrebbero essere i chiodi…»
Si accucciò e allungò una mano, piano, a tentoni. Si punse
un dito con una minuscola punta di ferro. Mai era stata più
contenta di pungersi. Perfetto. Si rialzò, svoltò verso sinistra.
Quattro passi. Sfiorò una corda collegata a una fiamma
ossidrica. Non si fermò a controllare.
Due passi verso destra. Due verso sinistra. Pausa. Quattro a
destra.
Ouch! Una lama di dolore le scavò il polpaccio, e Twelve lo
ritrasse di slancio. Si toccò il punto in cui la stoffa dei
pantaloni era stata tagliata. Sentì qualcosa di umido, che
portò alle labbra. Sangue.
Sangue? Ma non ci doveva essere una lama, lì. Non era la
zona delle lame! La mappa era sbagliata? Era una mappa
falsa come don Giacomo?
Sentì il panico salirle alla gola, fece un passo in avanti e
andò a sbattere contro qualcosa di duro, per fortuna non
tagliente, che la colpì alla spalla. Cadde all’indietro,
tremando, e nel farlo perse definitivamente l’orientamento.
Non sapeva più dove si trovava, destra o sinistra, su o giù…
«No!» si disse. «Calmati!»
La mappa o la memoria l’avevano ingannata, va bene, ma
non c’erano solo quelle a sua disposizione. C’era anche
l’intuito. E la sua capacità di sopravvivenza.
Si rialzò in piedi, si avvicinò all’oggetto che l’aveva colpita,
cercò di capire cosa fosse carezzandolo fra le dita. Era una
colonna. Una colonna di pietra.
Twelve si tolse le scarpe e iniziò ad arrampicarsi. Salì di un
metro, due, fino ad arrivare al capitello. Allungò una mano,
raggiunse una trave di legno.
Ci si aggrappò.
Ormai non ricordava più niente della mappa, tranne che
aveva contato le colonne, e ora sapeva che c’erano travi di
legno.
E la porta d’uscita era quattro passi davanti all’ultima
colonna.
Si mosse rapida, al sicuro dalle trappole, aggrappata alla
trave. Raggiunse la colonna successiva, la trave successiva.
Uno, due, tre. E alla quarta si lasciò scivolare a terra.
Fece un passo.
Ne fece quattro.
Allungò la mano.
Legno.
La porta d’uscita.
La maniglia.
Ce l’aveva fatta.
«Avanti, avanti» disse il dottor Mugaba al di là della porta
dell’infermeria.
Era socchiusa, con un cuneo di legno sotto per tenerla
ferma. Mugaba era seduto al suo tavolino di metallo
nell’anticamera, con la luce accesa.
«Buonasera, dottore…»
«Ah, la mia assistente. Come stai?»
Twelve zoppicò nell’infermeria e gli mostrò il taglio sulla
gamba. «Sai fare da sola?» le domandò Mugaba.
«Credo di sì» rispose lei. «Lavo, disinfetto con il
mercuriale, polvere cicatrizzante e una bendatura leggera, che
lasci passare l’aria…»
«Perfetto» mormorò il dottore, tornando alle sue questioni.
Poi aggiunse: «Com’è andata la seconda prova?»
«Mi dispiace di non essere scesa prima ad aiutarla, ma…»
«Non ce n’era bisogno. Tutto sommato mi pare che vi siate
comportati bene. Otto feriti lievi. Due dita rotte, molte
ammaccature e soprattutto molto spavento» ricapitolò
Mugaba.
«Meglio così» disse Twelve, stringendo i denti quando
passò il disinfettante sul graffio.
«Come ti sei classificata?»
«Credo di essere arrivata prima.»
«E in classifica generale?»
«Be’, sempre prima» disse. «Con Rebecca dietro di un paio
di punti. È uscita dalla Moscacieca sette secondi dopo di
me…»
E si era infuriata niente male, pensò Twelve.
«Quindi ci sono buone possibilità che tu faccia la matricola
all’Ordador.»
«Forse. Dipende dalla prossima prova, e da cosa fanno gli
altri, ma se posso dirle che cosa penso… Non riesco proprio a
capirla, questa faccenda dell’Ordador.»
«È una tradizione dei Ladri. Un modo speciale di fare un
colpo speciale. Un colpo spettacolare. Lo sai cos’era l’Orda
d’oro da cui deriva il nome?»
Twelve scosse il capo.
«Dovresti chiederlo a Falkenhayn, per essere precisi, ma…
era il nome di un esercito imbattibile, che dovunque andasse
vinceva e saccheggiava, portandosi dietro tutte le ricchezze
che trovava. Si dice che a ogni attacco, questo esercito
portasse con sé un ragazzino che non aveva mai combattuto
prima, e che quello fosse il segreto della sua imbattibilità. E
così è rimasto, nei miti dei grandi Ladri… e nelle leggende
della nostra scuola.»
«E lei lo sa, qual è questo colpo così speciale? Parteciperà
anche lei?»
«Forse lo so…» rispose Mugaba. «Ma non parteciperò. E
comunque non è compito mio, parlartene prima del tempo.»
«Peccato» rispose Twelve. «Che non partecipi, voglio dire.»
«Se cerchi le bende le trovi lì, in quel cassetto. Sei sicura di
volerlo fare da sola?»
«Sono capace.»
«Questo lo so, ragazzina… se vai avanti così, tra un paio
d’anni potrai prendere il mio posto.»
Twelve aprì il cassetto nel grande archivio a muro. Dentro
c’erano pacchi di garze e flaconcini scintillanti di
disinfettante. Ma non c’era la polvere cicatrizzante. Aprì un
altro cassetto. Era pieno di robaccia, fogli scarabocchiati,
vecchie matite, gomme da cancellare. Gli occhi di Twelve
caddero su quello che sembrava un vecchio volantino
pubblicitario, tutto spiegazzato. Era nero, e sopra, con lettere
d’argento, c’era scritto: FUMO 168.1.
Twelve impallidì.
«Lei…» balbettò. «Lei, dottore, conosce la leggenda di
Fumo?»
Sul volto del medico accadde qualcosa di insolito. Prima
stupore, poi un movimento di ciglia e di guance, un sorriso
melanconico, come se per un istante il colossale professore
dalla pelle bruna si fosse trasformato in un bambino. Fu
questione di un lampo, ma fu irresistibile.
«Oh, che cosa strana, che tu sappia di Fumo» disse, mentre
quell’espressione si tramutava in un sorriso più disteso,
consapevole. «Io lo sentivo, tanti anni fa!»
«Cosa significa, che lo sentiva?» domandò Twelve,
sorpresa.
«Fumo era una voce che ascoltavamo molto volentieri, tanti
anni fa… trasmetteva una volta alla settimana, la domenica
pomeriggio…»
“Una voce che si trasmetteva ogni domenica pomeriggio?”
si domandò Twelve. E poi ripensò all’orario
dell’appuntamento mancato sul tetto, che Lupo le aveva
rivelato, come una sorta di codice segreto, da capobranco a
capobranco.
Pensò di chiedere a Mugaba qualcosa di più, aprì la bocca
per parlare, ma si morse il labbro per paura di tradirsi, di
lasciarsi sfuggire qualcosa di importante e che, forse, non
aveva ancora capito.
Così ringraziò, si alzò in piedi, e andò via. Zoppicando
appena sulla sua gamba ferita.
Twelve si lambiccò per l’intera cena, pensando all’Ordador,
alla partita di Lupo, a Mia, a Spider, ma soprattutto a quello
che il dottore le aveva raccontato di Fumo. Quando tornò
nella sua camera, tirò fuori da sotto il materasso le tre buste
d’oro che Lupo le aveva lasciato e se le rigirò tra le dita.
Se Fumo era una voce, e non una persona, come faceva a
leggere le lettere che gli erano indirizzate? E soprattutto,
com’era possibile che una busta gettata nel fuoco di un
camino salisse lungo la cappa e arrivasse fino a lui? Se era
una voce di quando il dottor Mugaba era bambino, doveva
essere vecchissimo, o morto da un pezzo.
E scrivergli non sarebbe servito a niente.
Twelve, però, ormai era una professionista delle cose che
non servivano a niente. Aveva studiato come una pazza per
passare un esame che avrebbe dovuto condurla
all’Accademia di Servizio, e invece, complice un attentato al
ponte, si era ritrovata a fare la ladra. Aveva organizzato una
fuga spettacolare, salvo poi gettarsi tra le braccia dei suoi
carcerieri. E aveva rubato là dove nessuno era mai riuscito a
rubare, al prezzo di far impiccare Arthur in piazza degli
Innocenti.
Tanto valeva scrivere a Fumo, si disse. E così fece. Mentre
Ninon era in bagno, strappò una pagina dal suo quadernino
azzurro e scrisse:
Per Fumo
Sono un’allieva dell’Accademia dei Ladri. Dal posto in cui
mi trovo non si può andar via, né uscire vivi. Perciò, anche
se forse non esisti, e forse non puoi leggere le lettere che
volano per i camini, ho una cosa da chiederti: fammi fuggire
da qui. Fammi diventare come te. Di fumo.
Twelve
Senza rileggerla, la chiuse dentro la busta d’oro, che sigillò
sovrapponendo i lembi sottili. Attese che Ninon tornasse in
camera e le domandò: «Ti ricordi dove c’è un camino
acceso?»
L’inverno era finito da un pezzo e molti focolari
dell’Accademia venivano accesi solo di notte. Non faceva più
troppo freddo, e c’erano tubi d’acqua calda che correvano tra
i muri, alimentati dalla grande fornace che i Cenci
manutenevano nel sottosuolo.
Addormentandosi una contro l’altra, le due ragazze
passarono in rassegna le varie bocche di fuoco, quelle delle
sale comuni, delle aule, dell’ala della scuola destinata ai
nuovi, e finalmente si ricordarono di un camino che avevano
sempre trovato acceso, ogni volta che erano passate di lì.
Venne notte, e con la notte ogni rumore si quietò. E poi si
avvicinò la mattina, e la prima luce allungò le sue coltri di
insonnia tra i pensieri di Twelve.
La ragazza restò a struggersi senza alcun apparente motivo
fino all’ora della colazione, quando fu una delle prime a
scendere di sotto.
Fece un giro largo, passando per il corridoio dell’infermeria.
Le luci sul soffitto crepitavano e il pavimento era macchiato
di umidità. Senza nemmeno rendersene conto, sbucò proprio
nel corridoio al termine del quale c’era la stanza con il
camino sempre acceso. La chiamavano la Sala dei Professori,
perché di tanto in tanto capitava che gli insegnanti vi si
rifugiassero a leggere o a scrivere in santa pace. Aveva un
grande portone sempre aperto, da cui si vedevano le braci
perennemente rintuzzate del camino. Sopra la caminiera di
marmo rosso, sostenuta da due pettorute signore seminude,
era appesa una maestosa specchiera d’oro, e sui tappeti che
ricoprivano il pavimento erano disposti divani e poltrone di
pelle screpolata. Twelve si guardò intorno il tempo necessario
a rendersi conto che non c’era nessuno. Si affacciò dal
portoncino della camera dei professori, sotto ai grandi ritratti
incorniciati d’oro appesi alle pareti sanguigne. I soggetti in
posa erano stati dipinti di spalle, in modo che non li si
potesse distinguere in volto. E a ognuna delle cornici era
fissata una targa con il nome del professore o del maestro di
furto che vi era immortalato. Scorrendoli rapidamente,
Twelve si trovò così al cospetto di alcuni dei nomi di cui
aveva sentito parlare nelle lunghe cene dell’Accademia. Ecco
il Balbuziente, con le sue spalle dritte e la pelle abbronzata,
che era stato uno dei più grandi truffatori di Danubia.
Myazawa, la Colomba Nera, che si diceva sapesse uccidere
con una punta di spillo. E poi Pavlova, la Donna Scimmia,
ritratta mentre scalava con apparente facilità un edificio di
specchi. Twelve li superò, avvicinandosi alla fiamma lieve e
crepitante del camino. Non sapeva quale dei golem fosse
incaricato di tenerla sempre accesa, ma immaginò che anche
quel particolare, come molti altri, facesse parte delle
tradizioni dei Ladri. E dunque fu sul punto di desiderare di
spegnerla, magari gettandoci sopra uno dei tappeti della sala.
Poi, invece, si limitò a fare quello per cui era arrivata fin lì:
gettò la busta nel fuoco e rimase a osservarla, mentre
scintillava tra le fiamme.
Non funziona, si disse, mentre misurava il tempo con il
battito del cuore. E poi, invece, la busta guizzò nel fuoco,
scivolò tra le braci e si impennò, come una grande farfalla. E
si involò nel buio della cappa, scomparendo nel fumo.
«Wow!» esclamò Twelve, quando la vide dileguarsi. Fece
per uscire dalla Sala dei Professori, e fu allora che sentì
qualcuno confabulare. Si attardò per cercare di afferrare
qualche parola e riconobbe la voce di Lupo, impegnato in una
discussione con uno dei professori. Luther, forse? O
Falkenhayn, l’insegnante di Storia del Crimine? La cosa
strana, per Twelve, era che la voce di Lupo proveniva da
sopra la grande scala a chiocciola che saliva dall’angolo della
stanza. Che ci faceva, Lupo, lì? Si avvicinò per sentire
meglio, facendo attenzione a non farsi scoprire. I due non
bisbigliavano, ma avevano comunque un che di cospiratorio.
Twelve si nascose in fondo ai gradini e sbirciò in alto. Tutto
ciò che le riuscì di vedere fu un fazzoletto di soffitto
affrescato.
«Puoi andare, allora. Conosci la strada, Lupo…» stava
dicendo il professore. E questa volta Twelve lo riconobbe:
era Mister Cheng, il professore di Linguaggi Segreti.
«Grazie» rispose Lupo.
La scala vibrò impercettibilmente. Il professore si preparava
a scendere. «E… Lupo? Sono contento che Luther ti abbia
dato il permesso.»
«Anch’io.»
«Dico sul serio. Non tanto per te, ma per lei. Il dottor
Mugaba pensa che le possa fare bene vederti ogni tanto.»
La voce di Lupo si incrinò. «Davvero? Capisce chi sono?»
«Non sono la persona migliore per risponderti, ma sono
sicuro di sì. Il dottor Mugaba non parla mai a sproposito. Vai,
forza. Ci vediamo a lezione.»
Twelve si guardò intorno, tuffandosi poi rapidamente dietro
a una poltroncina. Si appiattì nell’ombra e attese che il
professor Cheng scendesse dalla scala a chiocciola,
avviandosi fuori dalla stanza. Allora tornò a guardare su dalla
scala e decise di salire per dare una rapida occhiata.
Salì i gradini due per volta e si affacciò su un’elegante sala
affrescata, da cui si dipartivano numerosi corridoi. Le pareti
erano riquadrate da una decorazione geometrica che
culminava in una balaustra dipinta, con viticci di rampicanti.
Le porte erano bordate di bianco, sormontate da una cuspide
azzurra che sfumava nella grande scena del soffitto: un
paesaggio di nuvole e squarci di luce, attraversati da
cherubini. Dalle varie porte si dovevano raggiungere le stanze
dei professori, decise Twelve, anche se non poteva esserne
sicura. E dunque dove si era dileguato, Lupo?
“Conosci la strada” gli aveva detto Cheng.
Ma lei non la conosceva.
Meglio tornare subito indietro, oppure proseguire? E in
quale direzione? Restò a pensarci un minuto, con il rischio di
essere sorpresa in cima a quelle scale, dove non aveva il
permesso di stare. Poi notò che una delle porte aveva una
prospettiva strana, un’inclinazione sbagliata, che le aveva
fatto piegare il capo nel tentativo di comprenderla meglio.
Solo avvicinandosi al muro ne capì il motivo: non era
l’imbocco di un corridoio, come gli altri che si affacciavano
nella stanza, ma un quadro. Il dipinto a grandezza naturale di
un corridoio. Un trompel’oeil. Un’illusione ottica, che
sarebbe stata perfetta se non fosse stato per una grossa
fessura scura che segnava il margine del quadro. Twelve ci
passò sopra la mano e si accorse che il pannello del dipinto
era appena scostato dal muro. E dall’altra parte era vuoto. Era
una porta segreta.
E Lupo, di sicuro, era entrato lì.
14
IL LUNGO SONNO

all’altra parte del trompe-l’oeil c’era


un corridoio stretto e basso, con una striscia di luci appese a
fili d’ottone. Il pavimento era in leggera pendenza e
attraversato da due insolite rotaie.
A parte le luci accese, non c’era traccia di Lupo.
Twelve si avviò lungo il corridoio, cercando di non fare
rumore. Raggiunse un cancello con le sbarre tutte arrugginite.
Era socchiuso e le rotaie proseguivano dall’altra parte. Ma
non le luci. Dieci passi al di là del cancello il corridoio
svoltava piuttosto bruscamente. E faceva freddo, molto
freddo. Come in una cella frigorifera.
Le pareti vibravano piano. Sembravano percorse da una
costante tensione elettrica. E c’era un ronzio continuo, come
di insetti operosi. Twelve raggiunse una stanza da cui
proveniva una sommessa luce violacea, densa e pastosa e,
con infinita cautela, si sporse al suo interno.
Era una sala cieca, circolare, senza finestre. Era illuminata
da una decina di cilindri di vetro fluorescenti, posati su
altrettanti basamenti di ottone. Erano alti circa tre metri e
terminavano in un groviglio di tubi – alcuni di metallo, altri
trasparenti – che li collegava tra loro e al soffitto in un intrico
opalescente. I cilindri contenevano un liquido denso e
pastoso, come grandi acquari colmi di miele. E all’interno di
quegli acquari galleggiava qualcosa di grande, nudo e
lattiginoso.
Lupo era in piedi accanto a uno dei cilindri, dentro al quale
si trovava il corpo nudo di una ragazza. Una delle ragazze più
belle che Twelve avesse mai visto. Una lunga chioma bionda
si spandeva nel liquido in cui era immersa, fluttuando come
corallo attorno al suo viso. Aveva gli occhi socchiusi, le dita
delle mani aperte, come se stesse nuotando, e dalle sue labbra
saliva una collana di bollicine d’aria, che si perdeva verso la
superficie.
Twelve non ebbe bisogno di chiedersi chi fosse.
Era Amaryllis.
La ragazza che aveva provato a fuggire con Lupo.
Ma cosa ci faceva, lì? E che posto era quello?
Era viva?
Il capobranco degli Spazzacamini era talmente immobile,
accanto al cilindro di cristallo, che sembrava morto anche lui.
Poi cercò di abbracciare il cristallo, ma era troppo grande, e
allora ci appoggiò il viso, con una dolcezza toccante.
Twelve si sentì un’intrusa di fronte a quell’intimità, e
distolse lo sguardo.
Forse non avrebbe dovuto essere lì, si disse. Ma non seppe
resistere, e guardò una seconda volta.
Lupo aveva appoggiato il palmo alla superficie convessa del
cilindro e Amaryllis, dall’altra parte, aveva appoggiato il suo.
Rimasero così per un’infinità, palmo contro palmo, senza dire
una parola, nel gelido ronzio di quella stanza sotterranea.
Twelve si asciugò una lacrima e scivolò via lungo il
corridoio da cui era arrivata, con gli occhi che le pungevano
per l’emozione.
Da quanto tempo proseguivano quegli incontri strazianti? si
domandò.
Da quando i professori gli avevano rivelato che Amaryllis si
trovava là sotto, nella sua prigione di cristallo?
«Devi scappare» si disse Twelve, scendendo nella camera
dei professori. «Scappare, scappare, scappare…»
E continuò a cullare quella parola per tutta la mattina, e poi
durante il pranzo, e persino la sera, incapace di darsi pace,
incapace di pensare a quello che provava per Lupo senza
sentirsi colpevole, fuori luogo.
E infinitamente triste.
15
PAVLOVA

lle due del mattino si ritrovarono


sul tetto dell’Accademia. Twelve, Sputo, Mathias, Mia,
Henna, Cressida, Mattana, Gerald, Jane e un certo Mister
Brown del quinto anno, reclutato da Mia. E Lupo, in disparte.
«Scenderò con voi, nel caso serva una mano» disse a
Twelve. «Ninon?»
«Dorme» rispose Twelve. «Meglio così: è la prima volta che
proviamo la discesa e non siamo sicuri di cosa troveremo, né
di dove riusciremo ad arrivare.»
«Andiamo, allora» disse Lupo. «E state attenti a non fare
rumore.»
Gli Spazzacamini sfilarono uno dopo l’altro sul tetto, Lupo
in testa, Twelve in fondo a chiudere il corteo.
«Tu c’eri mai fstata, qui fsul tetto?» le domandò Sputo.
«Qualche volta.»
«È bellifssimo.»
Era bellissimo davvero. Nelle prime ore del mattino
Danubia era una distesa vacillante punteggiata di riflessi.
Lampade, lampioni, lanterne, candele. In una direzione si
scorgeva lo scintillio elettrico di piazza del Telegrafo e
dall’altra la magica luminescenza del Palazzo Reale. Nel
grande buio intorno a loro, invece, la Duma scorreva
maestosa, una distesa attraversata dalle scie degli ultimi
battelli a ruota che scendevano la corrente e dai primi
pescherecci che la risalivano. Mentre gli Spazzacamini
correvano sul tetto, i comignoli sembravano lische di pesce
pietrificate. Lupo si muoveva sicuro, indovinando i passaggi
più facili tra le tegole e le grondaie.
Raggiunsero la sommità del camino grande e infilarono i
passamontagna, calandosi all’interno lungo le corde. Spider li
aspettava nell’anticamera con le pareti graffiate di incisioni.
Non appena li vide si mise a contarli, nervosa.
«Siete più del previsto» disse, quando arrivò anche Twelve.
«Siamo quelli che siamo» rispose Lupo.
«Allora temo che cambierò idea. Così non posso. Troppa
gente. Troppo pericoloso.»
«Vuoi rimangiarti la parola?»
«Non ho dato la mia parola a nessuno, e voi siete matti, se
pensate di riuscire a scappare tutti insieme.»
«Ma è così che funziona, tra gli Spazzacamini. Ci
muoviamo uniti per essere sicuri che almeno uno riesca a
farcela» disse Gerald.
«Gerald ha ragione. O tutti, o nessuno» disse Lupo.
«Come volete, ma io mi tiro indietro. Siete undici, con me
dodici. Non è possibile.»
Il capo degli Spazzacamini sospirò e tirò fuori dallo zaino
una piccola collezione di dischi, porgendola a Spider.
L’Acrobata ammutolì, riconoscendoli al primo sguardo.
«Io, i patti, li rispetto» disse Lupo. «Prendili, falla finita e
portaci giù.»
Spider prese quella piccola collezione dalle mani di Lupo,
trattandola con la delicatezza di un oggetto molto prezioso.
«Va bene» capitolò. «Vi accompagno. Venite. C’è un modo
per entrare nella tana ancora più in basso, ed evitare gran
parte dei miei compagni…»
Il gruppo la seguì senza fiatare, infilandosi in un
interminabile scivolo di metallo, che li condusse quasi sul
fondo della tana degli Acrobati. A uno a uno, gli
Spazzacamini ammirarono le pareti costellate di appigli e
l’intrico di liane, corde, passerelle e amache in cui gli
Acrobati dormivano, cullati dal vuoto e dalla penombra del
primo mattino.
Si aggrapparono a un paio di corde elastiche che Spider
aveva agganciato pochi metri sopra la rete e da lì scesero
ancora, fino alle enormi ventole dell’impianto di aerazione.
Giravano piano, con un TOFF-TOFF-TOFF sommesso che
così da vicino risultava assordante. Ogni pala era lunga come
uno dei tavoli da pranzo della mensa, ondulata e con i bordi
taglienti. A ciascun passaggio, i ragazzi venivano colpiti da
una folata di vento fischiante.
«Visto?» gridò Spider, per sovrastare il rumore delle
ventole. «Questo è il primo ostacolo. Potrà sembrarvi una
stupidaggine, dato che girano così piano, ma basta un attimo
di disattenzione e ZAC!»
A Twelve non sembrava affatto una stupidaggine. Aveva
tutta l’aria di una trappola mortale.
«Ora vi spiego come fare» continuò l’Acrobata. «Dovete
sentire il momento giusto sulla pelle. Pum, pum, pum, come
una musica. Cercate di calcolarlo come se doveste saltare
sopra alla pala, ok? Se lo fate per bene… pum, pum… pum…
ADESSO! Nel tempo di cadere giù la pala avrà girato e voi vi
sarete infilati nello spazio vuoto in mezzo. Ma se anticipate
troppo, o saltate dopo…»
«Chiaro» disse Twelve.
«Chi va per primo?» domandò Spider ai fuggitivi.
Ma Twelve nemmeno la sentì. Fissava la ventola sotto di lei,
ne memorizzò il ritmo – scappa, scappa, scappa… – il battito
di mani di Spider, gli sguardi di Sputo, il profilo concentrato
di Lupo e di tutti gli altri, sotto i passamontagna.
Poi saltò.
Lo fece all’improvviso, senza pensarci troppo per evitare
che il terrore la paralizzasse. Si infilò nello spazio tra due
pale e ruzzolò su un vecchio materasso che qualcuno aveva
posizionato là sotto. Spider, probabilmente. O Lupo, quando
aveva provato la fuga.
«Tutto bene?» le chiese una voce, dall’alto.
«Tutto bene» rispose lei. «Avanti il prossimo!»
Saltarono giù uno per uno, nel buio, Lupo e Spider per
ultimi. Le ventole, viste da sotto, sembravano le cappelle
ronzanti di grandi funghi meccanici, sostenute da tronchi di
ferro arrugginito.
Spider raggiunse una borsa di stoffa nascosta in un angolo e
ne estrasse una torcia elettrica. La accese e perforò il buio.
«Guardate» disse.
Puntò la torcia sotto di loro e illuminò uno strapiombo di
un’altra decina di metri, sotto il quale baluginava l’acqua.
La vasca. E le Cianee. Erano là sotto, al termine di un tuffo
che sembrava pericoloso, ma non mortale.
Eppure, erano ancora lontanissime.
Spider scostò un pannello della grata e si appese a testa in
giù nell’abisso, tenendosi in equilibrio con i piedi.
«La tana degli Acrobati è stata costruita per permetterci di
allenarci: ci sono appigli, corde e tutto quello che serve per
scalare, salire, scendere e lanciarsi nel vuoto. Ora invece
siamo in un posto diverso. Le ventole, la vasca là sotto e la
fornace servono per il riscaldamento, il ricambio d’aria e
tutto il resto, e non sono fatte perché qualcuno vada a
curiosare. O, meglio, non dovrebbero esserlo, ma in realtà è
come se una mente perversa, quella della Pavlova, la Donna
Scimmia, avesse congegnato una serie di trappole quasi
impossibili da superare. Quasi, ma non del tutto…»
«Lei voleva che qualcuno provasse a passare» intuì Mia.
«Esatto. Chiamatelo come volete: cinismo, formazione
estrema, senso di libertà… fatto sta che da questo punto in
avanti la discesa non è fatta per gli esseri umani.»
La ragazza tolse dalla borsa una serie di funi d’acciaio,
moschettoni, imbragature, ascender e altri strumenti da
scalata.
«Da qui in giù non ci sono appigli, quindi bisogna scendere
con la corda.»
Spider si lanciò nel vuoto di un metro, gelando tutti.
Nessuno si era accorto che aveva già agganciato il
moschettone.
«Da qui all’acqua che vedete in basso» proseguì Spider, «la
Pavlova si è sbizzarrita con la sua follia. E se c’è una cosa
difficile, dell’evitare le trappole, è farlo a testa in giù, appesi
a una corda che oscilla… Guardate me: la prima trappola, a
mezzo metro dall’imboccatura, sono degli occhi di
movimento.»
«Vale a dire?» domandò Cressida.
«Piccoli cannocchiali alchemici posizionati lungo il muro,
che vedono anche di notte. Se qualcosa gli passa davanti per
più di tre secondi, fanno scattare l’allarme.»
«E noi come passiamo?» chiese Mattana.
Spider mostrò uno specchietto da trucco montato sopra
quella che sembrava una pallina di colla.
«Con uno di questi» disse. «Non appena individuate un
sensore, dovete attaccarglielo davanti per rispedire indietro
l’immagine. Prima dell’allarme vero e proprio c’è una sorta
di preallarme che fa ronzare il meccanismo e accende una
minuscola luce. Non appena sentite un ronzio, fermatevi,
guardatevi intorno e individuate l’occhio che sta per
accendersi. Quindi usate lo specchio, oppure risalite a tutta
velocità. Vi faccio vedere come si fa. Sapete usare un
ascender?»
Alcuni dei ragazzi scossero la testa. Erano strane maniglie
d’acciaio, a molla, fatte per scendere e risalire dalle corde
senza fatica.
«Guardate me, forza» disse poi, scivolando verso il basso.
«Uno, due… tre… e…»
Twelve sentì il ronzio, come un motorino che sta per andare
fuori giro, e vide Spider posizionare lo specchietto alla
propria destra. Il ronzio si interruppe. «Ora mi basta oscillare
e, tenendo lo specchietto alla stessa altezza, attaccarlo davanti
al sensore per neutralizzarlo.»
Lo fece, tornò a dondolare nel centro della stanza e poi, con
un colpo di reni, staccò lo specchietto e lo riportò su, agli
altri.
«Chi vuole provare?»
«Perché non l’hai lasciato al suo posto?» domandò Mathias.
«Perché ne ho solo uno. E prima di pensare alle trappole
successive, è meglio che impariate a disattivare un solo
occhio di movimento. Quindi… a voi, forza.»
Provò per primo Sputo, e per poco non fece scattare
l’allarme. Lo tirarono su un attimo prima del disastro.
Ritentò altre due volte.
Poi toccò a Mia, Gerald e agli altri, e tutti scesero e
risalirono fino alla grata sotto le ventole.
«Io non scendo» disse Mathias. «Ma per la prossima volta
cercherò di procurarvi un certo numero di specchietti da
portare con voi.»
«Spider, avanti. Non abbiamo tutta la notte» disse Lupo.
«Inizia a spiegare la seconda trappola.»
La ragazza ragno sorrise: «Oh, certo, molto volentieri. La
seconda trappola è la mia preferita. I dardi avvelenati…»
Alle quattro del mattino, dopo estenuanti allenamenti, Lupo
diede il segnale di ritirarsi, prima che l’Accademia iniziasse a
svegliarsi.
Ritornarono su, fino al condotto e poi al salone con le pareti
graffiate. Spider indicò loro un’altra uscita per raggiungere il
tetto, con una scaletta di corda che penzolava fino quasi a
sfiorare il pavimento. Un’uscita da marmocchietti, la definì,
ma erano tutti stravolti, ormai. Si divisero. Twelve e Lupo
uscirono per ultimi, scegliendo entrambi di arrampicarsi
lungo la ciminiera. Fu una salita lunga, durante la quale
Twelve si fermò più di una volta, per ascoltare il buio. Le
sembrava che ci fosse qualcosa, o qualcuno, che saliva dietro
di loro, ma evidentemente era solo una suggestione.
Sbucarono sul tetto mentre un’alba livida rischiarava
l’orizzonte, e cercarono tracce del passaggio degli altri
Spazzacamini. Ma per fortuna si erano già dileguati. Si
infilarono tra i camini senza parlare, per un po’. Poi Twelve
chiese: «Pensi che verrà con noi?»
«Spider? No. Non ha il fegato. Non ce l’ha mai avuto. Ma è
abbastanza agile e sveglia da aiutarvi, e conosce quel posto
meglio di chiunque altro.»
«Non ne capisco il senso. Voglio dire… perch