Anno XL
25.10.2018
Numero
711
PERIODICO DI ATTUALITÀ DEI COMUNI DI ALANO DI PIAVE, QUERO VAS, SEGUSINO
Ricariche telefoniche
LETTERE AL TORNADO
Auguri, Silvana!
(S.C.) Auguri alla nostra abbonata di Alano Silvana Ceccotto (nella foto a
sinistra) che, lo scorso 15 luglio, ha compiuto la bella età di 80 anni festeg-
giata dai figli Carla e Denis Zancaner, dal genero Gian Mario, dai nipoti Pa-
mela e Nicola, dai pronipoti Elia e Alex.
Alano,
il panificio Errandi
festeggia
i dieci anni di attività
Ricco buffet sabato 29 settembre per festeggiare i
nostri primi 10 anni di attività.
Lo staff del panificio Errandi, anche dalle pagine
del Tornado, ringrazia tutti i clienti per la fiducia.
La famiglia Errandi
6 CRONACA
(s.for.) Nella mattinata di martedì 9 ottobre, a Fener, lungo via Nazionale (quella che dalla rotatoria porta al Tegor-
zo), c’è stata la rottura del tubo dell’acquedotto di Schievenin, che porta l’acqua a numerosi comuni del Trevigiano.
Sul posto sono intervenuti sia i vigili del fuoco che i tecnici dell’ATS, che ha in gestione
l’acquedotto. Già nel pomeriggio il guasto era stato riparato, mentre nei giorni successivi
ci sono stati altri interventi di consolidamento. Negli scatti del nostro abbonato Doimo
Codemo, come si presentava la strada al momento della fuoriuscita dell’acqua e un par-
ticolare della condotta.
COME ERAVAMO
Giacomo Bozzato
cittadino onorario
e Cavaliere di Vittorio Veneto
(s.for.) Nel Centenario della Grande Guerra, proponiamo queste due foto consegnateci dal figlio Bruno. Era l’anno
1968: il fenerese Giacomo Bozzato (che ha combattuto nel primo conflitto mondiale in quanto “ragazzo del ‘99”)
riceve, dalle mani dell’allora sindaco di Alano Dal Molin, la medaglia di Cavaliere di Vittorio Veneto e la pergamena
di cittadino onorario di Vittorio Veneto. Sono riconoscibili anche Cristiano Codemo Menoli, Geremia Durighello e
Silvia Mazzier.
7 ATTUALITÀ
8 ATTUALITÀ
LETTERE AL TORNADO
Nelle due foto: Longarone prima e dopo la tragedia del 9 ottobre 1963
I MORTI DEL BASSO FELTRINO Tra le vittime della tragedia del Vajont ce ne furono anche sei originarie dei no-
stri due comuni del Basso Feltrino: Giovanni Mozzelin (1934-1963) di Alano; Vittorio Zatta (1917-1963) di Fener;
Agostino Mazzocco (1919-1963) di Quero; Ines Rizzotto (1926-1963) di Quero; Enrico Rizzotto (1912-1963) di
Quero; Floriano Solagna (1902-1963) di Marziai di Vas. In precedenza, durante i lavori di costruzione della diga,
perse la vita anche il querese Gino Mazzocco (1923-1958). Nel 55° anniversario del disastro ci è sembrato dove-
roso ricordarli nuovamente su queste pagine.
che la SADE voleva risarcire a dieci lire il metro quadro. Parlamentò con i tecnici arrivati sul posto per le stime; inol-
trò ricorsi e controricorsi. Riuscì, anche, a rialzare le quotazioni che, tuttavia, rimanevano ancora troppo basse. Non
era solo il valore reale del terreno che i contadini pretendevano. Su quella terra avevano giocato, erano cresciuti,
avevano fatto l’amore, erano nati i loro figli. Senza quella terra avrebbero dovuto andarsene dal paese anche i vec-
chi e le donne, come i più giovani già facevano per tradizione secolare, per miseria secolare. E dove si trapiantava-
no con l’elemosina elargita dalla SADE? Questo era il punto. Cedere sì, ma non prostituirsi. Inoltre, la SADE pre-
tendeva d’espropriare nuovi terreni, avendo deciso di rialzare ancora di più il livello d’invaso. La concessione parla-
va, è vero, di una quota massima di 677 metri, ma la società elettrica, dopo aver fatto i suoi conti, intravide la possi-
bilità di altri grandi guadagni, se avesse ottenuto l’autorizzazione a sopraelevare il livello delle acque di altri 45 metri
e mezzo, portandole a quota 722,50. Inoltrò la domanda in tale senso al Ministero dei Lavori Pubblici ed ottenne la
nuova autorizzazione, malgrado l’opposizione del Co-
mune e dei privati cittadini. Con i proprietari il monopo-
lio non intendeva troppo parlamentare. Aveva le carte
scritte in mano e, a tempo debito, le avrebbe fatte vale-
re. Era tanto sicuro di ciò che tirava le cose per le lun-
ghe, apposta, per logorare la resistenza dei singoli.
Aveva tempo davanti a sé. Stava costruendo la diga,
per intanto. I contadini avrebbero ceduto quando si fos-
sero trovati davanti al lavoro compiuto; alla grande e
maestosa diga che doveva essere l’orgoglio di tutti e
alla «pubblica utilità» che ne derivava di invasare la val-
le. Per intanto non bisognava urtarli più del necessario.
Per mantenere l’ordine nel paese c’erano i carabinieri. Il
primo gruppo della Benemerita fu installato ad Erto
qualche anno prima che arrivasse sul posto la SADE.
Si disse che ce n’era bisogno, a causa di risse e di adultèri, cui troppo spesso gli ertani si lasciavano andare. Face-
vano una netta distinzione tra quello che era di Dio e quello che era di Cesare pur essendo, sostanzialmente, reli-
giosi. Anzi, la vita di Gesù aveva tanta attrattiva su di loro, che il venerdì santo quelli di Erto mettevano in scena
all’aperto, tra le vie e sulle colline del paese, una rappresentazione della passione di Cristo, forse tra le più belle
che esistano ancora in Italia. Era, per la verità, di gusto pagano, ma ad essa si preparavano coscienziosamente tut-
to l’anno, parti e costumi, con l’orgoglio di far ben figurare il paese di fronte agli spettatori che convenivano ad Erto
dalla provincia di Belluno e di Udine e da altre città del Veneto. Era una cosa loro, non volevano preti. I parroci suc-
cedutisi ad Erto avevano cercato molte volte di far smettere la tradizione, per oltraggio alla religione. Non vi erano
riusciti.
Un brutto giorno la sindachessa cambiò parere. Si mise a spargere la voce che, contro la SADE, nessuno la avreb-
be spuntata. Tanto valeva cedere, prima che succedesse il peggio. Qualcuno s’impaurì. Se lo diceva il sindaco che
era sempre stato dalla parte dei contadini, voleva dire che ne sapeva qualcosa. Altri non rimasero convinti del nuo-
vo atteggiamento assunto dalla prima cittadina del paese. La SADE, comunque, aveva raggiunto il suo scopo. I cit-
tadini di Erto si trovavano divisi ed era il momento opportuno per approfondire il solco della discordia, per tirarne il
proprio tornaconto. Il monopolio elettrico si mosse sul terreno diplomatico, come fosse entro un ministero. Avvicinò i
dubbiosi e giocò, con loro, al rialzo dei prezzi. Dalla sua aveva già la sindachessa, che aveva dato l’esempio ce-
dendo le terre al monopolio. In capo a qualche mese la SADE aveva portato a termine il disegno che si era prefis-
sa. Si era acquistata, pagando bene, la complicità e l’omertà di alcuni proprietari che, ora, facevano la propaganda
per la società.
La SADE raccolse un magro frutto da questa manovra. I contadini più deboli e ormai senza una guida, si presenta-
rono spontaneamente al monopolio, che pagò la loro terra a 18 lire il metro quadro. Ma la maggioranza si unì attor-
no a un capo, il signor Pietro Carrara, che guidava un comitato di protesta. La voce di questi montanari vessati dalla
SADE arrivò fin dentro il Senato. Il senatore Giacomo Pellegrini, nel riferire il suo interessamento al comitato di Er-
to, espresse il convincimento che a Roma la cosa non interessava. Tutto andava come voleva la SADE, che aveva
ancora l’ultima carta nel mazzo da giocare. E la buttò sulla tavola vincendo il piatto. Fece sapere a quanti ancora
resistevano che dovevano decidersi. O accettare con le buone, oppure sarebbero stati espropriati con la forza e i
denari del risarcimento versati in banca a nome del titolare catastale del fondo. Era una operazione che le veniva
consentita in virtù della concessione che teneva in mano per «pubblica utilità». I lavori, nella valle, li doveva fare e
lo Stato le dava questa facoltà. Era la fine per i montanari di Erto. Resistere ancora voleva dire non vedere forse
mai quei pochi denari. I terreni, in moltissimi casi, erano ancora intestati al primitivo proprietario, morto da tanto
tempo. Gli eredi erano molti e sparsi un po’ ovunque, ad Erto e in altre città italiane e straniere. Per entrarne in pos-
sesso, essi avrebbero dovuto fare lunghe pratiche burocratiche e procure notarili. Spendere molti denari. Alcuni ce-
dettero al ricatto. Altri resistettero, ma si trovano ancora oggi con i soldi vincolati in una banca. La SADE aveva or-
mai mano libera per costruire l’impianto. Ai contadini espropriati fu offerto un posto di lavoro sulla grande diga e
molti di loro morirono nel corso della sua costruzione.
E’ bene spiegare in che modo la SADE ottenne la concessione per lo sfruttamento delle acque del Vajont. Alla luce
della terribile tragedia, il pensiero di come essa riuscì ad averla in mano fa semplicemente rabbrividire. Il decreto
porta la data dell’ottobre 1943. L’Italia era precipitata nel caos. Non esisteva, praticamente, un governo. A Roma, in
quei giorni gli ebrei venivano rastrellati dai tedeschi. Nulla più era efficiente. Le donne italiane rivestivano di abiti
12 PER NON DIMENTICARE
borghesi i soldati fuggiaschi per sottrarli alla cattura. L’unica cosa valida di quei momenti erano i gruppi antifascisti
che si andavano organizzando per la lotta partigiana. Eppure, dentro il Ministero dei Lavori Pubblici di Roma, la
SADE trovò o pagò un funzionario disposto a mettere un timbro e una firma di un ministro fasullo sotto la conces-
sione. Un documento che nessun governo del dopo guerra contestò mai al monopolio elettrico. Mentre il popolo ita-
liano pensava ad organizzarsi e a lottare per la liberazione del paese, moriva per i propri ideali di democrazia e di
giustizia sociale, la SADE maneggiava nei ministeri, imbrogliando le carte, per non perdere quella che credeva
l’ultima partita. Il Vajont aveva avuto un assurdo inizio prima di avere una tragica fine.
La costruzione del lago artificiale e la sopraelevazione delle acque a quota 722,50 creava un altro grosso problema
per i valligiani di Erto. Il centro veniva diviso da alcune sue frazioni, situate sul versante sinistro della valle. In quella
zona sorgevano tre centri abitati: Pinéda, Prada e Lirón. Inoltre molti abitanti di Erto possedevano ancora terreni sul
lato opposto del paese e case, dove si trasferivano con il bestiame dalla primavera all’autunno. I contadini raggiun-
gevano i due versanti in un batter d’occhio, attraverso sentieri che percorrevano veloci quanto gli scoiattoli. Erano
abituati da sempre a quelle primitive vie di comunicazione. Perciò avevano costruito i villaggi dall’altra parte del
paese, dove c’era l’unica buona terra da coltivare. Le donne s’erano allenate fin da piccole a portare la gerla in
spalla carica di fieno, letame e patate. I bambini percorrevano gli stessi sentieri per recarsi alla scuola del paese,
anche con la neve. La SADE era tenuta, secondo quanto era scritto nel disciplinare di concessione, a mettere in
opera tutte le misure necessarie per garantire il normale bisogno delle popolazioni. Ed esse volevano una passerel-
la che attraversasse la valle. La SADE, in un primo tempo, accettò di costruirla. In seguito, probabilmente dopo
l’autorizzazione a sopraelevare il livello dell’acqua, si rifiutò. Disse che avrebbe, invece, costruito una strada di cir-
convallazione, bella e panoramica. Per i contadini la strada significava sette chilometri di percorso per andare e tor-
nare dal paese. A piedi, poiché, a quel tempo, nessuno possedeva neppure una motocicletta. Significava fatica e
perdita di tempo per le donne che dovevano recarsi al paese per le spese, per i bambini che dovevano andare a
scuola. Ed era un grosso inconveniente in caso di urgenti necessità, quali il medico o qualche ammalato grave da
trasportare. Per di più, la strada veniva costruita su un percorso che ad ogni primavera con il disgelo e ad ogni au-
tunno con le piogge, franava.
La gente si oppose. Iniziò la seconda ondata di proteste anti-SADE. La società elettrica corse ai ripari. Capì che
con i contadini di Erto bisognava mettere nero su bianco per convincerli. E il nero che stava scritto sulle sue carte
ufficiali parlava chiaro in favore dei contadini. Bisognava, allora, modificare le carte. La sua mano era abbastanza
lunga per arrivare dappertutto. Un giorno si presentò ad Erto con un nuovo disciplinare di concessione, con il quale
il ministro competente la esonerava dal costruire il ponte perché «la natura del terreno non reggeva all’opera». Il
terreno di Erto era tutto della stessa natura. Secondo le carte dei ministeri e della SADE il ponte non si poteva co-
struire perché era pericoloso, ma la diga e il bacino, invece, si potevano fare. I contadini ricorsero contro il nuovo
disciplinare. Nessuno li ascoltò. La SADE, intanto, segnò il tracciato della strada e cominciò a costruirla. Man mano
che i lavori avanzavano espropriava i contadini, senza nemmeno chiedere il loro permesso. Passava sui loro terre-
ni, rovinandoli; davanti alle loro case; sui loro cortili. «Pubblica utilità», diceva. Gli ertani, umiliati e inferociti, prote-
starono giustamente, verso autorità locali, provinciali e nazionali, il loro diritto ad essere trattati almeno umanamen-
te. Le loro proteste suonarono sempre a vuoto. Ci fu una persona, per la verità, che ritenne giuste le proteste dei
contadini. Fu l’ingegner Desidera, allora ingegnere capo del Genio Civile di Belluno. Questi, di sua iniziativa, fece
fermare i lavori della strada. Il giorno dopo questa sua presa di posizione venne trasferito da Belluno. Una mattina,
un contadino, esasperato, affrontò i tecnici della SADE
brandendo un’accetta. «Se fate ancora un passo sul
mio, vi ammazzo tutti», gridò. I carabinieri lo andarono
a prelevare e lo denunciarono per minaccia a mano
armata.
Cosa dovevano fare gli ertani di fronte alla prepotenza
legalizzata, di fronte a una società privata che dettava
legge, di fronte a uno Stato che proteggeva i forti contro
i deboli? Pensarono di costituire un consorzio di capi
famiglia, che avesse veste giuridica per affrontare i po-
tenti. Indissero una pubblica assemblea, che si tenne
una domenica mattina, con il vento che spazzava via
l’ultima neve. Invitarono, per l’occasione, i parlamentari
della circoscrizione, di ogni partito. Tranne l’on. Giorgio
Bettiol di Belluno, nessuno si fece vivo. La riunione eb-
be luogo il 3 maggio 1959 nella rustica sala da ballo dell’ENAL, alla presenza del notaio dott. Adolfo Soccal di Bel-
luno, che redasse l’atto costitutivo e legalizzò le firme dei 136 capi famiglia, che sottoscrissero il documento. La riu-
nione fu molto più numerosa. Intere famiglie si recarono sul luogo dell’assemblea, anche molte donne con i bambi-
ni, che nel corso della prima messa domenicale avevano sentito le parole di esortazione del parroco don Doro, af-
finché tutti aderissero all’iniziativa «sacrosanta». Quella mattina successe un fatto che turbò un poco i presenti. Un
imponente vecchio, Giovanni Martinelli, era giunto da oltre la valle con due cartelli. «Abbasso la SADE» e «Abbas-
so il governo», c’era scritto. Aveva ragione da vendere, visti i precedenti. I carabinieri si indispettirono e gli ordina-
rono di depositarli in un angolo. Lui si rifiutò fieramente. I carabinieri glieli strapparono con la forza, malgrado che
egli tentasse di trattenerli. «Se non li molla la denuncio per resistenza a pubblico ufficiale», scandì l’uomo in divisa.
Giovanni Martinelli aveva fatto la guerra del ‘15-’18; aveva aiutato i partigiani nell’ultima guerra; aveva avuto la casa
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bruciata dai tedeschi e, dal governo, non aveva ricevuto una lira per i danni subiti. Era uno dei più energici nelle
proteste; uno dei più sicuri che la montagna dovesse franare e provocare una tragedia. Quella terribile notte del Va-
jont, l’acqua gli avrebbe portato via un figlio di 23 anni. L’assemblea si svolse con ordine, ma in un clima di ribellio-
ne che ognuno covava dentro il petto da tempo. Una vecchia disse: «Se i ladri vengono a rubare in casa mio, io ho
ben il diritto di prendere il fucile e difendermi». A presidente del consorzio fu eletta la signora Lina Carrara, moglie
di quel Pietro Carrara, che fu uno dei primi animatori delle proteste anti-SADE. Egli, dopo l’esproprio dei terreni, era
stato costretto ad accettare lavoro dalla società elettrica. Morì in un infortunio occorsogli durante la costruzione del-
la diga. Sua moglie, insegnante elementare a Pordenone, accettò subito l’incarico degli ertani, in nome di una soli-
darietà umana che non si sentiva di tradire, verso i compaesani di suo mari-
to, che avevano offerto il proprio sangue numerosi all’epoca dell’infortunio,
nel generoso tentativo di salvarlo. Molti ertani parlarono quel giorno. Degli
espropri, della strada e del costruendo bacino. Qualche mese prima, nel vici-
no lago artificiale di Forno di Zoldo, era franato un pezzo di montagna. Anche
ad Erto il terreno era di natura franosa, in pendenza dal 40 al 70%. Il paese
era addirittura costruito su terra di riporto alluvionale. I contadini portavano
l’esempio di Forno di Zoldo e di Vallesella di Cadore. In ambedue i casi
l’acqua dei laghi artificiali, col suo continuo movimento ondoso, aveva «man-
giato» il terreno di natura franosa e provocato disastri. A Vallesella tutte le
case si erano spaccate. Gli ertani manifestarono la loro apprensione e si proposero di condurre avanti una lotta or-
ganizzata «per la difesa e la rinascita della valle ertana». Questa fu, appunto, la denominazione data al consorzio.
Una giornalista dell’Unità, presente all’assemblea, riferì sul suo giornale la cronaca dell’avvenimento, registrando le
impressioni della popolazione di Erto in merito all’invaso. Fu denunciata all’autorità giudiziaria, dal brigadiere dei ca-
rabinieri Battistini, per «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». La denuncia aveva il chiaro
scopo di intimorire gli ertani; di stroncare la loro resistenza. Ottenne il risultato opposto, poiché molti contadini si of-
fersero di andare a testimoniare al processo. Tra la denuncia e la celebrazione del processo passò un anno. Nel
frattempo, precisamente il 6 novembre 1960, dal monte Toc franarono alcune centinaia di metri cubi di materiale.
Un appezzamento di bosco, della lunghezza di duecento metri, sprofondò nel lago. L’ondata che si sollevò fu abba-
stanza grande, ma non fece vittime, essendo il livello dell’acqua alquanto basso. Il franamento spazzò via numero-
se case che erano state espropriate per l’invaso e provocò larghe fenditure in tutta la zona del Toc. Chi non aveva
ancora creduto al pericolo si rese conto che il paese era destinato alla rovina.
Il 30 novembre 1960 si celebrò il processo a carico dell’Unità. I giudici di Milano ascoltarono con interesse la depo-
sizione della giornalista e quella dei montanari di Erto. Esaminarono attentamente le fotografie che riproducevano la
zona. Si informarono minuziosamente della situazione di Erto e Casso, facendo un po’ di confusione nel pronuncia-
re i due strambi nomi. Gli ertani si appellarono ai giudici con foga contadina, affinché la loro sentenza fosse un al-
larme che destasse l’attenzione delle autorità sulla sorte della zona. I giudici, alfine, si ritirarono. Rimasero pochis-
simo in camera di consiglio. Quando ritornarono in aula lessero una sentenza di piena assoluzione, ritenendo che,
nell’articolo incriminato, «nulla vi era di falso, di esagerato o di tendenzioso». Ma neppure l’autorevole sentenza di
un tribunale indusse la pubblica autorità ad intervenire in difesa delle popolazioni minacciate. Il consorzio di Erto in-
tensificò la lotta, interessando della sicurezza delle popolazioni prefetti, uffici del Genio Civile, la SADE, la Provin-
cia, il Parlamento. Il consiglio provinciale votò all’unanimità un ordine del giorno in data 13 febbraio 1961 sulla si-
tuazione di pericolo del Vajont, che fu personalmente recato a Roma da una delegazione dello stesso consiglio,
guidata dal presidente dott. Alessandro da Borso. Di ritorno da Roma, nel riferire al consiglio sull’esito della missio-
ne, egli espresse il suo sconforto dichiarando: «la SADE è uno Stato nello Stato».
La solita giornalista dell’Unità scrisse un altro articolo, in data 21 febbraio 1961, denunciando un pericolo
che avrebbe potuto divenire tragedia. In esso, tra l’altro, diceva: «Una enorme massa di 50 milioni di metri
cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando. Non si può sa-
pere se il cedimento sarà lento o se avverrà con terribile schianto. In questo ultimo caso non si possono
prevedere le conseguenze. Può darsi che la famosa diga tecnicamente tanto decantata, e a ragione, resista.
Se si verificasse il contrario e quando il lago fosse pieno, sarebbe un immane disastro per lo stesso paese
di Longarone adagiato in fondovalle». Qualcuno si domanderà: ma la SADE sapeva, era al corrente della situa-
zione di pericolo nel Vajont? La risposta è: sì, la SADE sapeva perfettamente, ma aveva tutto l’interesse a non ren-
derlo pubblico, in vista della nazionalizzazione. L’impianto doveva passare allo Stato in piena efficienza, affinché
venisse ripagato per intero, dopo che era già stato sovvenzionato nel corso della sua costruzione con altissime per-
centuali sulla spesa totale, dal 60 all’80%.
Tuttavia, in segreto, la SADE fece i suoi esperimenti. Incaricò l’Istituto di idraulica dell’Università di Padova, di cui
era ed è titolare il prof. Ghetti, di effettuare una prova su modello per misurare, su scala ridotta, gli effetti della cadu-
ta del Toc e della tracimazione delle acque del lago oltre la diga. L’esperimento venne fatto a Nove di Fadalto. Die-
de risultati sconcertanti, che furono tenuti segreti. In base alla prova effettuata, l’acqua sarebbe tracimata in misura
di 2-3 milioni di metri cubi e il Toc avrebbe franato di 50 milioni di metri cubi di materiale. La notte del 9 ottobre fra-
nò per 200 milioni di metri cubi di materiale e tracimò 60 milioni di metri cubi d’acqua. L’esperimento, condotto con
dovizia di mezzi e da tecnici altamente qualificati, si dimostrò errato. Ma anche se l’acqua del Vajont fosse precipi-
tata nella misura calcolata sull’abitato posto sotto la diga, dove si trovava anche la cartiera di Verona, sarebbero
morte due o trecento persone, nella migliore delle ipotesi.
14 PER NON DIMENTICARE
Per la SADE il problema era quello di poter continuare ad utilizzare il bacino, di non interrompere la produzione,
quando la montagna sarebbe caduta. L’invaso del Vajont era il più importante invaso dei collegati Boite-Maè-Piave-
Vajont. Era un grosso bacino di riserva le cui acque venivano avviate ad alimentare la grossa centrale di Soverzene
in tempo di «magra» del Piave. Era, perciò, il più importante. Interrompere l’attività del bacino, sia pure a causa di
una grossa, minacciosa frana in movimento, voleva dire perdere miliardi di guadagno. Ormai il bacino era fatto e bi-
sognava utilizzarlo al massimo. Si doveva andare avanti fin che si poteva. E prevedere il modo di utilizzare le acque
anche dopo. Per la SADE il rischio valeva la candela. Il monopolio elettrico chiamò dall’estero varie commissioni di
esperti per studiare il problema. Essi consigliarono di costruire un tunnel di scarico sotterraneo, con sbocchi a mon-
te e a valle della diga, nel caso che la montagna, cadendo, formasse due laghi. Erano già in grado di prevedere con
esattezza come la caduta del Toc sarebbe avvenuta. La SADE li ascoltò e costruì l’opera.
Nella primavera del 1963, poco prima del decreto di nazionalizzazione, il lago venne riempito per la prima volta fino
a quota 702 metri. Per «precauzione» ci si tenne al di sotto di 20 metri dal massimo livello consentito. Bisogna dire
che la commissione di collaudo nominata dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici non collaudò mai l’impianto del
Vajont. Tra gli stessi componenti esistevano opinioni opposte sulla validità dell’opera fin dall’autunno 1960,
all’epoca della caduta della prima frana. Proprio per l’esistenza di queste opinioni diverse, la commissione divenne
un organismo permanente, con facoltà di collaudo in corso d’opera. Ciò voleva dire provare, tentare e vedere. Fino
alla primavera del 1963 si erano fatti soltanto tentativi e prove. Il bacino veniva «invasato» di pochi metri alla volta e
poi svuotato per misurare la stabilità del terreno. Nell’estate del 1963 esso appariva colmo d’acqua. Ma anche in
questa occasione il collaudo non ebbe luogo. Il geologo prof. Penta dissentì dagli altri colleghi della commissione,
manifestando seri dubbi sulla stabilità futura della zona. Il ministro dei Lavori Pubblici al quale furono presentate le
due ipotesi contrarie formulate dai membri della commissione, accolse la più ottimista. E diede parere favorevole al
pieno invaso del bacino senza che questo fosse stato mai collaudato dai tecnici.
Dopo qualche mese, la spalla sinistra della diga presentò qualche difficoltà. Forse la pressione dell’acqua era trop-
po forte. Si corse ai ripari, immettendo continuamente «iniezioni» di cemento nei punti ritenuti più vulnerabili.
L’operazione non risultò di grande sollievo. Bisognava ridurre il livello del lago, per salvare la diga. Riducendo
l’acqua era probabile che cadesse il Toc. La SADE si trovò di fronte a un grosso problema tecnico. Venne presa la
decisione di abbassare le acque a ritmo lentissimo, tenendo contemporaneamente d’occhio la montagna. I tecnici
incominciarono a svuotare il lago mentre la frana avanzava, ormai, di 40 centimetri il giorno. Pensavano di poter
terminare lo svaso entro la fine di novembre.
Un mese prima della catastrofe, il vice-sindaco di Erto, Martinelli, scrisse una allarmante lettera all’ENEL-SADE, al-
la Prefettura e al Genio Civile di Udine, esprimendo seri dubbi sulla stabilità delle sponde del lago e chiedendo «di
provvedere a togliere dal Comune di Erto e Casso le cause dello stato di pericolo pubblico prima che succedano,
come in altri paesi, danni riparabili e non riparabili; quindi mettere la popolazione di Erto in uno stato di tranquillità e
di sicurezza e, solo dopo, rimettere in attività il bacino di Erto». L’ENEL-SADE rispondeva dichiarando «piuttosto
azzardate» le previsioni del Comune, e asserendo che l’abitato non correva assolutamente alcun pericolo.
Una settimana prima della tragedia i tecnici in servizio sulla diga manifestano apertamente, ai dirigenti, la loro
preoccupazione. Sordi boati e scosse del terreno sono all’ordine del giorno. I tecnici parlano del pericolo anche con
gli amici, tramite il filo del telefono: «Qui da un momento all’altro si va tutti in barca»; «Sto mangiando e la scodella
balla».
Tre giorni prima del disastro l’ing. Caruso, dell’ENEL, viene delegato a seguire in permanenza l’andamento della
frana. Il geometra Ritmajer che era stato trasferito a Venezia viene bloccato sulla diga. Gli operai addetti ai servizi
non vogliono più andare a lavorare. Il vice-sindaco di Longarone, Terenzio Arduini, telefona al Genio Civile di Bellu-
no per essere rassicurato sulle voci di grave pericolo che circola nella zona.
Viene rassicurato.
Nel pomeriggio del 9, fino alle ultime ore prima della tremenda valanga
d’acqua, partono per Venezia, sede dell’ENEL-SADE, drammatiche telefona-
te dai geometri sulla diga, annunciando l’imminente pericolo. «Mi lasci vedo-
va» grida la moglie del geometra Giannelli, inutilmente tentando di convince-
re il marito a non tornare al suo posto di lavoro. Alle ore 21 si risponde al
geometra Ritmajer, che tempesta di telefonate la direzione di Venezia, di
«dormire con un occhio aperto» ma di stare calmo, che a Venezia non si
prevede tanto pericolo. Sempre alle 21 si mandano due carabinieri a Longa-
rone nei villaggi sotto la diga per avvertire la popolazione di non allarmarsi
«se dalla diga uscirà un po’ d’acqua». Alla stessa ora l’ing. Caruso chiede ai carabinieri di far bloccare il traffico sul-
la statale d’Alemagna, senza preoccuparsi che la strada passa proprio in mezzo al centro abitato di Longarone.
Nessuno pensa di far evacuare i paesi. Probabilmente ci si fidava fin troppo della prova sul modello effettuata dai
grandi professori, equivalente al gioco dei bambini che buttano sassi in un catino d’acqua. Alle 10,45 il Toc frana
nel lago, sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile un centinaio di metri sopra la diga, traci-
ma dalla stessa e piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte
della diga, un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago interi villag-
gi. Oltre 2.500 vittime in tre minuti d’apocalisse. L’assassinio è compiuto.
Le foto sono state tratte dal sito internet del Comitato Sopravvissuti Vajont (www.sopravvissutivajont.org)
15 PER NON DIMENTICARE
COME ERAVAMO
La Terza età
Strumenti patrimoniali, opportunità e tutele
Guida divulgata dal Consiglio Nazionale del Notariato e da 14 Associazioni dei Consumatori.
In Italia, come nei paesi più sviluppati, si registra un progressivo allungamento della vita media; la popolazione italiana
over 65 rappresenta secondo i dati Istat del 2018 il 22,6% della popolazione
totale. Se si vive più a lungo, le istituzioni sono chiamate ad affrontare nuo-
ve necessità e sfide legate alla qualità della vita delle persone anziane che
devono essere annoverate tra i soggetti particolarmente meritevoli di tutela.
L’incertezza del futuro per la possibile sopravvenienza di malattie, o comun-
que di limitazioni e impedimenti fisici o psichici connaturati all’età, fa sorgere
l’esigenza di individuare modi e strumenti che assicurino una anzianità e
vecchiaia serena e dignitosa.
A queste persone il Consiglio Nazionale del Notariato e le Associazioni dei
Consumatori dedicano la 15ª Guida per il Cittadino, per aiutarle a individua-
re soluzioni patrimoniali idonee alle loro esigenze con gli strumenti che la
legge ha messo a loro disposizione. In questa Guida saranno trattati i se-
guenti istituti giuridici:
contratto di rendita vitalizia,
contratto di mantenimento/vitalizio alimentare/vitalizio assistenziale,
contratto di donazione con onere di assistenza,
compravendita della nuda proprietà con riserva d’usufrutto,
compravendita della proprietà con riserva del diritto di abitazione,
e ancora,
prestito vitalizio ipotecario,
trust; brevi cenni saranno riservati al testamento.
Anche questa, come le altre guide, è divulgata dal Consiglio Nazionale del
Notariato e da 14 Associazioni dei Consumatori. É inoltre disponibile nei rispettivi siti web.
Tratto da: https://www.notariato.it/ - ottobre 2018
ASTERISCO
Al Balech
Lassù in Cilladon vi è un grosso castagno;
nessuno sa dire chi l'abbia piantato
o se tutto solo cresciuto lui sia.
1 - Su in Cilladon viveva, tanti tanti anni fa,
un piccolo folletto, tutto verde, orecchi a punta, un naso a patata, e due
occhi come un gatto. Bizzarro e dispettoso, lo chiamavano "Al Balech".
2 - Passava il suo bel tempo a divertirsi e a far dispetti: di giorno gli piaceva
spaventar tutto il bestiame;
la notte a tirar sassi e svegliare tutti quanti;
andava poi negli orti sradicandone gli ortaggi.
****
3 - Ma un giorno gli abitanti, stanchi ormai di questi fatti, si misero d'accordo:
«Catturiamo quel Balech!»
«La forca, su, la forca prendiamo, ed i rastrelli; e i cani,
anche i cani ... Nascosti dietro un rovo aspettiamo qui il
Balech!»
4 - Arriva il folletto col suo solito sorriso
e saltan fu or gli armati: «Catturiamo quel Balech!»
«Acchiappa, dai, acchiappa!» Ma corre quel birbante veloce
dentro il bosco
e infine si nasconde
nel tronco di un castagno...
Lassù in Cilladon vi è un grosso castagno
e dentro il castagno, raccontano i vecchi,
c'è ancora rinchiuso e nascosto il Balech!
Veneto Agricoltura rende l’acqua potabile e usa il fotovoltaico. Quello che fino a qualche anno fa
era un rudere, è oggi agriturismo con allevamento e arte casearia.
La commemorazione in memoria dei caduti sul Monte Cornella e nella stretta di Quero
ASTERISCO
La foto di copertina
(M.M.) Le castagne! Sono proprio il frutto di stagione e la copertina, grazie alla foto avu-
ta dalla nostra lettrice Andreina Zanini, rende omaggio a questo prezioso prodotto della
natura. Sono famose le feste dedicate, nella nostra zona, alla castagna, ai marroni e
non staremo qui a farne l’elenco. Segnaliamo, piuttosto una pubblicazione curata dalla
Pro Loco di Combai, dedicata, come recita il titolo, alla “Civiltà del Castagno”. Pagine
ricche di storia e tradizioni, tutte imperniate sulla coltivazione, raccolta, preparazione
della castagna ed affini. E’ un libro uscito nel 1994, che non ha gli aggiornamenti imposti
dalla continua ricerca nel settore agricolo, ma è un libro comunque prezioso per la cura
con cui sono state raccolte storie e tradizioni legate alla coltura del castagno. Come si
legge a pag. 95: “E’ indubbio che il castagno rappresentava per le popolazioni montane
la risorsa per eccellenza, varia, ricca e capace di soddisfare un complesso articolato di
bisogni primari attorno a cui si struttura nel tempo una densa cultura materiale…”.
19 LETTERE AL TORNADO
Alla Brigata “Como”, 23° e 24° Reg.ti. Il dovere, l’eroismo, l’incrollabile tenacia, il sublime ardimento, l’immane sacri-
ficio, fu il fulgido esempio di gloria dei Fanti. Virtù di amor patrio che non oscura mai. A. C.
Si nota l’intento dell’articolista di elevare senza ombra di dubbio, di incensare pubblicamente la figura di un politico
che nella circostanza non era inserito nella scaletta degli invitati, presentatosi occasionalmente alla cerimonia. Lun-
gi da me l’intento critico verso il politico, poiché è stato accolto con dovuto rispetto istituzionale, ma sottolineare la
discriminante realtà della circostanza mirata al dovuto sentimento di gratitudine verso la Memoria dei Caduti per il
loro sacrifico. Si evidenzia altresì una
nota fuori luogo in cui mai posero piede
i francesi né americani in essere, ma
solo chi per alta dignità al giuramento
fatto si espose con la vita in difesa del
patrio suolo meritando, i due Reggimen-
ti, la Medaglia d’Argento al Valor Milita-
re. Con tale sortita si sono verificati an-
cora una volta la mancata solidarietà e il
dovuto riconoscimento operativo verso i
Fanti, trattandoli come degli ingrati per
aver difeso con il sangue i patri confini e
il popolo italiano. Non posso tacere in-
nanzi a tali viziate ingiustizie e ingratitu-
dini, ancor più il silenzio sullo scopri-
mento della targa da parte del Presiden-
te Provinciale dei Fanti Michele Pislor e
del Presidente dell’ “Alto Onore Del
Grappa Prof. Loris Giuriati, come sulle letture storiche di alto valore patriottico lette da distinte signore quali Orietta
Gallina e Armina Roshiti di Fener, Milva Solagna di Quero Vas, Marisa Della Gasperina di Feltre e la compagine
trombettista della Melissa Berton di Lentiai.
Non posso sottrarmi, infine, dal citare i nomi degli sponsor: Signor Scandiuzzi Gino, titolare della ditta Infoclima di
Montebelluna - Cavaliere Gorza Lionello, titolare del Ristorante Pedavena - Signora Mondin Lenzia, titolare della
ditta M.M. Lampadari di Pederobba - Signor Zatta Paolo, titolare ditta lavorazione marmi funebri di Feltre - Signor
Giusti Luca, titolare ditta Opel e Renaul di Feltre - Signor Povellato Gino, titolare ditta Color Casa di Quero - Si-
gnor Bof Silvano, titolare Ristorante Industria di Feltre - Signor Berra Paolo, titolare Ristorante Pizzeria di Caorera,
Ragioniere Santisarti Gianfranco, agente Vittoria Assicurazione di Feltre - Cav. Solagna Sereno, distinto sponsor di
Caorera - Signora Solagna Carla, titolare Locanda Ristorante di Vas - Ditta Biasiotto Vini di Quero Vas - Signor Bot-
tin Gilberto, titolare Officina di Quero. A tutti costoro pongo il sentito grazie a nome della Sezione Fanti Alano-Quero
Vas e del Comitato “Alto Onore del Grappa” fautori di questa iniziativa intesa a porre un segno tangibile nel Cente-
nario della Grande Guerra.
20 CRONACA
LIBRI
Il codice dell’Inquisitore, di Vania Russo
Un romanzo non solo storico
tra Feltre, Seren e Venezia
All’apice della carriera, e a un passo dal conquistare una fama
internazionale, il giovane medico dentista Ermes Ruggeri accetta di
trasferirsi da un blasonato Centro Medico di Milano all’isolata e
leggendaria Valle dello Stizzon, alle pendici del Monte Grappa,
dove scopre strane incidenze patologiche e l’esistenza di decessi
non chiaramente spiegabili, tra i quali quello del dentista che lo
aveva preceduto. In un vortice crescente di legami che si
intensificano, distruggendo le barriere di freddezza e incapacità di
relazionarsi di Ermes, grazie anche all'incontro travolgente con una
paziente, Emma, l’indagine medico scientifica lo porterà a un
confronto inatteso e decisivo: quello con il Codice dell’Inquisitore,
un trattato di medicina risalente al 1600 redatto da Lazzaro, ebreo
vissuto alle pendici del Grappa e protetto da uno dei più influenti
inquisitori della Serenissima Repubblica: Ruggero Valenti. Ermes
dovrà lottare contro la propria razionalità – e la brama di successo – per poter entrare in un mistero nato nel cuore
della Venezia del Seicento, tra cospirazioni politiche, esoterismo e alta finanza farmaceutica.
Un romanzo a doppia trama storica, un intreccio di vite che partono dal 1600 e
attraversano la linea del tempo per arrivare fino ai giorni nostri. Dall’inquisitore della
Serenissima Repubblica Ruggero Valenti, costretto a lottare contro un gruppo di
relazionarsi di Ermes, grazie anche all'incontro travolgente con una
paziente, Emma, l’indagine medico scientifica lo porterà a un
confronto inatteso e decisivo: quello con il Codice dell’Inquisitore,
un trattato di medicina risalente al 1600 redatto da Lazzaro, ebreo
vissuto21alle pendici del Grappa e protetto da uno dei più influenti
inquisitori della Serenissima Repubblica: Ruggero Valenti. LIBRI
Ermes
dovrà lottare contro la propria razionalità – e la brama di successo – per poter entrare in un mistero nato nel cuore
della Venezia del Seicento, tra cospirazioni politiche, esoterismo e alta finanza farmaceutica.
Un romanzo a doppia trama storica, un intreccio di vite che partono dal 1600 e
attraversano la linea del tempo per arrivare fino ai giorni nostri. Dall’inquisitore della
Serenissima Repubblica Ruggero Valenti, costretto a lottare contro un gruppo di
eretici noti come Fratellanza degli Illuminati, a Ermes Ruggeri, trasferitosi da Milano
a Seren del Grappa per condurre delle indagini mediche, e trovando così molto di
più su cui investigare: la morte sospetta di diversi abitanti del paese, il
coinvolgimento di una grossa holding straniera – interessata alla vendita di
integratori – e il passato che torna, riportando in superficie tracce di una lontana
battaglia, quella dei Valenti e degli Illuminati. Scrive Tatiana Vannini in una sua
recensione: «Il filone di ieri ci parla di eresie, possessioni demoniache e i primi
tentativi della medicina di portare la luce della scienza nel buio della superstizione,
facendoci conoscere personaggi affascinanti come il medico ebreo convertito
Lazzaro e il giovane Inquisitore Valenti, alle prese con la ricerca della verità mentre
gli intrighi sussurrano parole di guerra tra la Roma dei papi e la Venezia dei Dogi, e
un misterioso gruppo di persone si rivela una grande minaccia. Il filone di oggi
porterà Ruggeri a misurarsi con gli interessi dietro le case farmaceutiche, a
scoperchiare un vero vaso di pandora pericoloso quanto profondo. Il codice
dell'Inquisitore si rivela un romanzo articolato, ben strutturato, che suscita genuino
interesse. Collocandosi tra il romanzo storico, per le atmosfere dell'epoca perfettamente ricreate nel rispetto delle fonti,
e il romanzo d'inchiesta, non lesina di denunciare gli interessi che muovono il mondo, alla ricerca del guadagno a tutti i
costi, senza freni nemmeno di fronte alla salute».
Le città del feltrino si svelano nella loro bellezza d’epoca barocca, grazie alla precisa ricostruzione storica, e Venezia
primeggia, per la sua liquida, ammaliante bellezza. Regina della storia e fautrice di inganni e delizie.
Profilo autore. Vania Russo, napoletana di nascita e bellunese di adozione, già freelance per diverse testate
giornalistiche italiane, si interessa fin da subito al romanzo d’inchiesta e al racconto storico antropologico. Nel 2003
fonda il Forum ludico Lux In Tenebra, un laboratorio di scrittura ludico-creativa su
web (menzionato nel Dizionario dei Giochi a cura di Andrea Angiolino e Beniamino
Sidoti, per la Zanichelli), ed è stata coautrice, ed editor, del primo romanzo collettivo
italiano scritto su piattaforma play by forum: L’Erede del Grifo. Nel 2011 cura, con il
drammaturgo Roberto Faoro, la scrittura dell’opera “L’incendio di Feltre”, da un
inedito di Giovan Battista Segato. Tra i lavori dedicati al territorio il racconto “Smara”
nell’antologia Il Cerchio delle streghe (Morganti Editori 2016), il racconto “Il lago delle
fanciulle” nell’antologia Le creature dell’acqua (Morganti Editori 2017). Nel maggio
2018 pubblica il Manuale di scrittura creativa, edito da Panda Edizioni, e a giugno
2018 il giallo storico “La città del jazz” per la Diastema Edizioni, finalista al Premio
Lorenzo da Ponte 2017.
https://www.vaniarusso.it - https://www.facebook.com/vaniarussowriter/
ASTERISCO
22 ATTUALITÀ
Ma che pianta…?
(M.M.) Curiosa questa pianta… se non fosse che si
tratta di un esemplare di acacia che ormai sta consu-
mando le ultime sue energie ospitando anche una di-
versa forma di vegetale, che fa prendere sembianze
all’insieme di un capriccio dell’ingegneristica genetica.
Ormai il ciclo si sta compiendo, ma la natura pare non
voglia arrendersi e rinnova in qualche modo uno slan-
cio vitale, dagli esiti non del tutto chiari. Il giardiniere
dovrà compiere il proprio dovere e intervenire scio-
gliendo questo connubio, che ancora (forse per poco)
si può vedere nella piccola Piazza Mazzini,
all’ingresso del paese di Quero.
La Robinia pseudoacacia L., in italiano robinia o
acacia, è una pianta della famiglia delle Fabaceae,
dette anche Leguminose, originaria dell'America del
Nord e naturalizzata in Europa e in altri continenti. Fu importata in Europa dall'Ame-
rica del Nord nel 1601 da Jean Robin, farmacista e botanico del re di Francia Enrico IV. L'esemplare proveniva dalla
Virginia. Secondo la maggior parte delle fonti, nel 1601 Jean Robin ne piantò un esemplare nell'attuale piazza René
Viviani, sulla Rive gauche, nei pressi della chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre; esso è ancora esistente, anche se dan-
neggiato nella parte più alta della chioma dai bombardamenti della Prima guerra mondiale e sostenuto da tre pilastri in
cemento. Ciononostante continua a fiorire ogni primavera, da oltre quattrocento anni, cosa ancor più notevole essendo
l'acacia una specie poco longeva. (note tratte da Wikipedia)
Caffè
Brasiliano,
Cuore
Italiano!
(M.M.) Il marchio rivela
l’origine di questa famiglia
di imprenditori brasiliani,
venuti a visitare il paese
natio recando in dono un
prodotto tipico del loro
nuovo paese d’adozione:
il caffè. Sorseggiare
questa bevanda è stato
come bere dalla tazza
della storia.
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