Iraq, gennaio 1991. Durante la guerra del Golfo, una pattuglia composta da otto
uomini dello Special Air Service - il reparto d'elite dell'esercito britannico, l'unità
d'assalto più temuta al mondo - viene trasportata in elicottero dietro le linee
irachene, in pieno deserto. Il suo nome in codice: Bravo Two Zero; la sua
missione: tagliare alcune linee telefoniche e, soprattutto, distruggere le rampe di
lancio mobili degli Scud di Saddam Hussein...
Cronaca fedele di un fatto d'armi tra i più drammatici della storia recente, questo
libro descrive minuto per minuto, con la forza e la semplicità del vero, senza
retorica e senza finzioni, le imprese, le emozioni, le paure, il coraggio sovrumano
e le inimmaginabili sofferenze di un gruppo di uomini addestrati a compiere
l'impossibile.
Andy McNab, pseudonimo dietro il quale l'autore si nasconde per motivi di
sicurezza, dal 1984 al 1993 ha fatto parte del SAS e durante la guerra del Golfo
era al comando di Bravo Two Zero. Alla sua esperienza nel SAS ha dedicato
anche Azione immediata, già pubblicato dalla TEA. Successivamente è passato
alla narrativa con Controllo a distanza (già in TEA) e Crisi quattro (Longanesi).
Nota per questa versione elettronica: alla fine del testo originale sono presenti
alcune carte geografiche che aiutano a rendersi conto della collocazione dei
luoghi di cui si parla in questo libro.
All'interno del testo originale, poi, si trovano anche degli schemi che descrivono
alcuni edifici (o parti di essi)... naturalmente, qui non troverete né le cartine, né gli
schemi! :-))
POCHE ore dopo che le truppe e i blindati iracheni avevano varcato il confine con
il Kuwait - alle 02.00 ora locale del 2 agosto 1990 - il Reggimento cominciò i
preparativi per effettuare operazioni nel deserto.
In quanto membri della squadra antiterrorismo di stanza a Hereford, il mio gruppo
e io non eravamo coinvolti. Restammo a guardare con occhi un po' gelosi i
ragazzi della prima squadra che prendevano il loro equipaggiamento da deserto e
partivano.
Il nostro turno di nove mesi stava per terminare e aspettavamo il cambio con
ansia; ma con il passare delle settimane cominciarono a circolare voci di un
rinvio, se non addirittura di un annullamento dell'operazione. Mangiai il tacchino
natalizio con rabbia e preoccupazione. Non volevo perdere quell'opportunità.
Poi, il 10 gennaio 1991, a metà dello squadrone fu dato un preavviso di tre giorni
prima della partenza per l'Arabia Saudita.
Con nostro grande sollievo, il gruppo cui appartenevo era compreso tra i prescelti.
Ci demmo un gran daffare a preparare l'equipaggiamento, a provare le armi e a
correre in città per comprarci nuove scarpe da deserto e ogni tipo di creme solari a
fattore protettivo 20 « schermo totale » per il naso.
Dovevamo partire nelle prime ore di domenica mattina. Passai la notte in città con
Jilly, la mia ragazza, ma lei era troppo turbata per divertirsi. Fu una serata di falsa
allegria, dominata dal nervosismo di entrambi.
«Andiamo a fare una passeggiata?» le proposi quando arrivammo a casa,
sperando di allentare la tensione della serata.
Facemmo qualche giro dell'isolato, e quando rientrammo a casa accesi la
televisione. C'era Apocalypse Now. Non eravamo dell'umore adatto per
chiacchierare, così ci sedemmo a guardarlo. Due ore di carneficina e mutilazioni
non erano esattamente quanto di più opportuno da mostrare a Jilly. Scoppiò in
lacrime.
Lei stava sempre bene, finché non era consapevole dei rischi che Correvo.
Conosceva molto poco del mio lavoro e non aveva mai fatto molte domande...
perché, mi spiegava, non voleva sapere le risposte.
«Ah, parti... e quando ritorni?» era in sostanza quello che si limitava regolarmente
a chiedermi. Ma adesso era diverso. Per una Volta, sapeva dove stavo andando.
Nel buio dell'auto, mentre mi accompagnava alla base, le suggerii: «Perché non ti
prendi quel cane che volevi? Potrebbe tenerti compagnia».
Avevo le migliori intenzioni del mondo, ma lei scoppiò di nuovo a piangere. Le
chiesi di farmi scendere a una certa distanza dal cancello principale.
«Ora continuo a piedi, bella», le dissi con un sorriso teso.
« Ho bisogno di fare un po' di moto. »
Né lei né io amavamo gli addii prolungati.
La prima cosa che colpisce quando si entra nelle linee dello squadrone (l'area
degli alloggi del campo) è il rumore: veicoli che fanno manovra, uomini che
urlano per farsi restituire pezzi di equipaggiamento, e da tutti gli alloggi degli
scapoli un tipo di musica diverso... ma sempre al massimo del volume. Questa
volta la musica era ancora più forte perché molti di noi stavano per partire.
Incontrai Dinger, Mark il Kiwi (cioè il neozelandese) e Stan, gli altri membri del
mio gruppo. Alcuni sfortunati che non sarebbero partiti per il Golfo entravano
comunque negli alloggi e si univano agli sfottò e ai piccoli scherzi.
Caricammo sulle macchine il nostro equipaggiamento e ci dirigemmo verso il
limite della base, dove i mezzi di trasporto ci aspettavano per trasferirci a Brize
Norton. Come al solito, mi portai sull'aereo il sacco a pelo, oltre al mio walkman,
al necessario per lavarmi e radermi e al fornellino per gli infusi. Dinger portò
duecento sigarette Benson & Hedges. Se ci fossimo trovati impastoiati nel bel
mezzo del nulla o avessimo dovuto trascinarci su una pista deserta per lunghi,
interminabili giorni, non sarebbe stata la prima volta.
Volammo su un VC-10 della RAF. Fumai in modo passivo le venti e più sigarette
che Dinger si fece fuori durante le sette ore di volo, pittandogli dietro tutto il
tempo; ma, come al solito, le mie lamentele non sortirono effetto. Bisogna dire
che lui era sempre una compagnia eccellente, nonostante quella disgustosa
abitudine. Originariamente inquadrato nel Reggimento dei paracadutisti, Dinger
era un veterano delle Falkland. Incarnava bene il tipo: rude e tosto, con una voce
che metteva paura e due occhi che ne mettevano ancora di più. Ma dietro la sua
faccia da hooligan c'era un cervello acuto e analitico. Dinger era in grado di
spazzare via il cruciverba del Daily Telegraph in un baleno... con mio grande
rammarico. Da civile, era anche un eccellente giocatore di cricket e di rugby,
mentre a ballare faceva assolutamente schifo. Dinger ballava come camminava
Virgil Tracy. Quando però si trattava di gestire una crisi, era tetragono e
imperturbabile.
Quando atterrammo a Riyad fummo salutati dal clima piacevole tipico di quel
periodo dell'anno in Medio Oriente: ma non ci fu tempo per prendere il sole.
Sull'asfalto ci stavano aspettando dei camion coperti, e fummo dirottati in una
base isolata dalle altre truppe della coalizione.
Il gruppo che ci aveva preceduto aveva fatto le cose in modo da saper rispondere
alle prime tre domande che si pongono sempre quando si arriva in un posto
nuovo: dove dormo, dove mangio e dov'è il cesso.
Scoprimmo che l'alloggio riservato al nostro mezzo squadrone era un hangar
lungo circa cento metri e largo cinquanta. All'interno erano ammassati quaranta
uomini e ogni tipo di provviste ed equipaggiamento, inclusi i veicoli, le armi e le
munizioni. C'erano cataste di materiale ovunque: di tutto, dal repellente per gli
insetti alle razioni di cibo, fino ai tracciatori laser per i bersagli e alle casse di
esplosivo ad alto potenziale. Era solo questione di districarsi fra tutto e cercare di
crearsi il proprio piccolo mondo quanto meglio possibile. Il mio era costituito da
parecchie grandi casse contenenti motori fuoribordo, sistemate in modo da
garantirmi uno spazio a parte che ricoprii con una tela cerata per ripararmi dalle
potenti luci sopra la mia testa.
C'erano varie isole separate di attività, ognuna con il proprio rumore specifico:
radio sintonizzate sul Servizio Internazionale della BBC, walkman con gli
auricolari da cui rimbombavano musica folk, rap e heavy metal. Si sentiva un
odore pungente di gasolio, benzina e gas di scarico. I veicoli andavano avanti e
indietro tutto il tempo, mentre i ragazzi uscivano per andare a esplorare altre parti
della base e vedere cosa riuscivano ad arraffare. E naturalmente, mentre erano
assenti, il loro equipaggiamento veniva a sua volta rovistato da altri. « Chi dorme,
non piglia pesci »: è così che funziona. Il possesso equivale alla proprietà. Lascia
il tuo spazio incustodito troppo a lungo e, quando tornerai, scoprirai che ti manca
una sedia... a volte perfino il letto!
Nell'hangar le tisane si sprecavano. Stan aveva portato un pacchetto di tè
all'arancia e Dinger e io, dopo avere vagato un po', andammo a sederci sul suo
letto con le nostre tazze vuote.
« Tè, ragazzo », ordinò Dinger porgendogli la tazza.
«Sì, buana», rispose Stan.
Nato in Sudafrica da madre svedese e padre scozzese, Stan si era trasferito in
Rhodesia poco prima della dichiarazione unilaterale d'indipendenza dalla Gran
Bretagna. Restò subito coinvolto nella guerra che ne seguì, e quando più tardi la
sua famiglia si trasferì in Australia si arruolò nell'esercito. Superò gli esami di
ammissione alla facoltà di medicina, ma amava troppo la vita all'aperto, e
abbandonò quasi subito la facoltà. Il suo sogno era andare in Gran Bretagna e
arruolarsi nel Reggimento, quindi passò un anno nel Galles a prepararsi per la
selezione. Naturalmente fu tra i prescelti.
Qualunque genere di attività fisica era una bazzecola per Stan, sesso compreso.
Era alto un metro e novanta, di corporatura imponente e di bell'aspetto: insomma,
le faceva attizzare tutte. Jilly mi disse che a Hereford il suo soprannome era
Dottor Sesso, e che quel nomignolo compariva piuttosto di frequente sulle pareti
dei bagni delle donne. Per sua stessa ammissione, la donna ideale di Stan era una
che non mangiasse troppo - per cui portarla fuori non costasse granché - e avesse
auto e casa proprie, cioè fosse un tipo indipendente che non gli si sarebbe
attaccata troppo. In qualunque parte del mondo si trovasse, le donne se lo
mangiavano con gli occhi e sbavavano per lui. Nella veste di seduttore era
affascinante e soave come Roger Moore nella parte di James Bond.
A parte il successo con le donne, la cosa più notevole e sorprendente di Stan era il
suo senso dell'abbigliamento: ne era del tutto privo. Fino a quando lo squadrone
non aveva messo le mani su di lui, andava sempre in giro con sahariane di acrilico
antipiega e pantaloni che non gli arrivavano alla caviglia. Una volta si presentò a
una festa elegante con una giacca a quadri che debordava da tutte le parti e
pantaloni modello acqua alta.
Aveva viaggiato molto, e ovviamente si era fatto molte amicizie femminili. Gli
arrivavano proposte di matrimonio da tutte le parti del mondo, ma le lettere non
ricevevano mai risposta. Stan non svuotava nemmeno la cassetta postale. Per
essere uno di trentacinque anni, aveva un carattere molto spensierato, oltre che
amichevole: non c'era niente che non avrebbe preso alla leggera. Se non fosse
stato nel Reggimento, avrebbe fatto lo yuppie o la spia... anche se naturalmente in
completo di acrilico.
Per insaporire le razioni, la maggior parte dei ragazzi si porta senape o pasta al
curry, perciò dalle zone in cui si stavano preparando pasti supplementari
giungevano penetranti aromi speziati.
Io feci un giro e assaggiai qua e là. Tutti si portano sempre dietro un cucchiaio da
viaggio. La regola non scritta è che chi ha la lattina o sta cucinando ha il diritto di
assaggiare per primo, e divide il resto con gli altri. Si immerge il proprio
cucchiaio da viaggio in verticale e ci si serve. Se il cucchiaio è grosso, si può
prendere di più dalla lattina, ma se è troppo grosso - per esempio un cucchiaio di
legno con il manico rotto - non si riesce nemmeno a infilarlo. Insomma, la caccia
al cucchiaio da viaggio di dimensioni ideali è sempre aperta.
C'era un casino bestiale. Se non ti piaceva la musica che qualcuno stava
ascoltando, lui assente gli sostituivi le pile con dei sassi. Quando aprì lo zaino,
Mark scoprì di essersi portato da Hereford una pietra di dieci chili. Sospettando a
torto che fossi stato io, mi sostituì il dentifricio con la crema solare Uvistat.
Quando feci per usarlo mi incazzai.
Avevo incontrato Mark per la prima volta a Brisbane nel 1989, allorché alcuni di
noi furono ospitati dai SAS (Special Air Service) australiani. Giocò contro di noi
in una partita di rugby e fu proprio l'uomo del match, con quelle gambe
muscolose che gli permisero di segnare tutte le mete della sua squadra. Era la
prima volta che perdevamo, e lo odiai: odiai quel bastardo in tutto il suo metro e
sessantasei. L'anno seguente ci rincontrammo. Stava passando la selezione, e il
giorno che lo vidi era appena ritornato alla base dopo una corsa di quindici
chilometri con tutto l'equipaggiamento.
« Metti una buona parola per me », ridacchiò quando mi riconobbe. « Vi sarebbe
molto utile un cazzutissimo buon mediano di mischia! »
Mark superò la selezione e si unì al nostro squadrone appena prima di partire per
il Golfo.
« E' una cazzutissima goduria essere qui, amico », dichiarò entrando nella mia
stanza per stringermi la mano.
Mi ero scordato che esisteva un solo aggettivo nel vocabolario del Kiwi, e
cominciava per « e ».
Nel nostro hangar l'atmosfera era gioviale e movimentata. Il Reggimento non era
più stato a ranghi completi dai tempi della seconda guerra mondiale. Era
meraviglioso essere così in tanti e tutti assieme. Generalmente operiamo a piccoli
gruppi e in condizioni di massima segretezza: qui invece c'era la possibilità di
andare allo scoperto in gran numero. Non avevamo ancora ricevuto istruzioni, ma
in cuor nostro sapevamo che la guerra avrebbe fornito a ciascuno di noi una
grande occasione di fare del « lavoro vero », cioè le operazioni militari classiche
dei SAS dietro le linee nemiche. Era questo lo scopo per cui inizialmente David
Stirling aveva creato il Reggimento, e adesso, a quasi cinquant'anni di distanza, ci
ritrovavamo al punto di partenza. A quanto intuivo, in Iraq le maggiori difficoltà
probabilmente sarebbero state determinate dal nemico e dalla logistica:
esaurimento delle scorte di munizioni e di acqua. Mi sentivo come un muratore
che aveva passato la vita a costruire bungalow, e adesso qualcuno mi dava la
possibilità di costruire un grattacielo. Speravo solo che la guerra non finisse prima
che riuscissi a posare il mio primo mattone.
Non avevamo ancora la più pallida idea di quello che avremmo dovuto fare, così
passammo i giorni successivi a prepararci per tutto e niente, dagli attacchi contro
bersagli alla costituzione di posti di osservazione. E' sempre una gran
soddisfazione fare le cose più emozionanti - arrampicate, ascensioni in cordata,
salti negli edifici -, ma essenzialmente essere nelle Forze Speciali significa
meticolosità e precisione. Il vero motto dei SAS non dovrebbe essere «Chi osa
vince», ma «Controlla e verifica, controlla e verifica ».
Alcuni di noi avevano bisogno di rinfrescare a spron battuto le proprie
competenze in fatto di esplosivi, movimento con i veicoli e lettura delle carte in
un deserto. Ci portammo dietro anche le armi pesanti. Alcune di esse, come la
mitragliatrice pesante da 12.7 mm, non le usavo da due anni. Seguimmo corsi di
aggiornamento tenuti da chiunque fosse il più esperto in un particolare settore;
poteva essere il sergente maggiore come l'ultimo arrivato dello squadrone.
C'erano gli allarmi Scud, quindi tutti erano comprensibilmente ansiosi di
impadronirsi delle nuove tecniche NBC (nuclear, biological, chemical, «nucleari,
biologiche, chimiche») che non avevano più utilizzato dai tempi in cui erano nelle
loro vecchie unità. L'unico problema era che Pete, l'istruttore proveniente dalle
nostre truppe di montagna, aveva un accento di Newcastle più impenetrabile della
nebbia sul Tyne, e parlava a raffica senza mai mettere la sicura alle parole.
Sembrava Gazza Gascoigne nei suoi momenti peggiori.
Cercammo con grande sforzo di capire di cosa stesse parlando, ma dopo un quarto
d'ora la fatica ci vinse. Qualcuno gli fece una domanda semplicissima, e lui finì
per mettersi a parlare ancora più in fretta. Gli furono poste altre domande, e si
innestò un circolo vizioso. Alla fine decidemmo tra noi che, se il kit doveva
funzionare, avrebbe funzionato. Non ci preoccupammo di imparare le tecniche per
procurarci acqua e cibo che Pete stava spiegando e dimostrando, perché così non
avremmo poi dovuto imparare le tecniche per pisciare e cagare; era roba troppo
complicata per gente come noi. Nel complesso, concluse Pete, mentre la riunione
si scioglieva nel caos, non era stata la sua giornata più costruttiva; o, almeno,
questo era il senso delle sue parole. ,
2.
NON ho mai conosciuto la mia vera madre, sebbene abbia sempre immaginato
che, chiunque fosse, per me aveva desiderato il meglio: la borsa della spesa di
plastica in cui mi trovarono quando mi lasciò sui gradini del Guy's Hospital era di
Harrods.
Fin dall'età di due anni sono stato allevato da una coppia della zona sud di Londra
che aveva fatto domanda per adottarmi. Man mano che mi vedevano crescere,
probabilmente hanno rimpianto di essersi presi cura di me. A quindici anni e
mezzo ho lasciato la scuola per andare a lavorare in una ditta di trasporti di
Brixton.
Già nell'ultimo anno di scuola avevo cominciato a bigiare due o tre giorni alla
settimana. Invece di studiare per prendere il diploma, in inverno consegnavo
carbone e in estate bevevo fetidi intrugli nei pub. Lavorando a tempo pieno
guadagnavo otto sterline al giorno, che nel 1975 erano dei bei soldi. Con quaranta
carte in tasca, al venerdì sera eri un drago.
Mio padre aveva fatto il militare nella Sussistenza, e adesso faceva il tassista. Mio
fratello maggiore si era arruolato nei Royal Fusiliers quando io ero piccolo e
aveva prestato servizio per cinque anni, finché non si era sposato. Ricordavo con
eccitazione quando tornava da posti lontanissimi con il marsupio pieno di regali.
La mia infanzia, però, fu normalissima. Non c'era nulla in cui io fossi
particolarmente bravo, e sicuramente non avevo alcun interesse per la carriera
militare. La mia massima ambizione era quella di affittare un appartamento con i
miei amici per fare quello che volevo.
Ho trascorso i primi anni della mia adolescenza a scappare di casa. A volte
andavo in Francia per il week-end con un amico: spedizioni finanziate da lui, che
fregava sul contatore del gas di sua zia. Presto mi misi nei guai con la polizia,
essenzialmente per atti vandalici su treni e macchinette distributrici. Sono stato
processato in diversi tribunali minorili, beccandomi alcune multe che hanno
procurato molto dispiacere ai miei sfortunati genitori.
A sedici anni cambiai lavoro, finendo a servire dietro un banco del McDonald's a
Catford. Tutto andò bene più o meno fino a Natale, quando venni arrestato con
altri due ragazzi al Dulwich Village mentre uscivo da un appartamento che non
era il nostro.
Mi misero in un riformatorio per tre giorni, in attesa di comparire di fronte al
giudice. Odiavo stare rinchiuso e giurai a me stesso che, se me la fossi cavata, non
avrei permesso che accadesse mai più. In cuor mio sapevo di dover fare qualcosa
di veramente decisivo, altrimenti avrei finito col passare il resto della mia vita a
Peckham, a far cazzate e a lasciarmi fregare. L'esercito mi sembrò una buona via
d'uscita. A mio fratello era piaciuto: e allora perché non avrebbe dovuto andare
bene anche a me?
In seguito al processo, gli altri due furono spediti al carcere minorile di Borstal. Io
venni rilasciato su cauzione e il giorno dopo mi presentai all'ufficio di
reclutamento dell'esercito. Mi sottoposero a un semplice test accademico, che
peraltro non superai.
Mi dissero di ritornare il mese seguente e questa volta, dato che era esattamente lo
stesso test, riuscii a superarlo per due miseri punti.
Dissi che volevo diventare pilota di elicotteri, come si fa quando non si vanta
nessun genere di qualifiche e non si ha la più pallida idea di che cosa voglia dire.
« E' assolutamente impossibile che tu diventi pilota di elicotteri », mi spiegò il
sergente selettore. « Comunque, se vuoi, puoi arruolarti nell'aviazione. Potresti
diventare addetto ai rifornimenti degli elicotteri. »
«Benissimo», risposi. «E' il mio mestiere.»
A questo punto ti mandano per tre giorni a un centro di selezione, dove fai altri
test, corri un po' e ti sottopongono a qualche esame medico. Se li superi e hanno
posto, ti permettono di arruolarti nel reggimento o nell'arma che preferisci.
Mi presentai al colloquio finale e l'ufficiale mi disse: « McNab, tu hai più
probabilità di essere incenerito da un fulmine sui due piedi che di diventare un
caporale dell'aviazione. Penso che sia più adatto alla fanteria. Ti arruolerò nei
Royal Green Jackets. E' il mio reggimento».
Non avevo la minima idea di chi fossero e cosa facessero i Royal Green Jackets.
Per quanto ne sapevo, potevano benissimo essere una squadra di football
americano.
Se avessi aspettato ancora tre mesi, fino al compimento dei diciassette anni, avrei
potuto arruolarmi nei Green Jackets come recluta adulta, ma da autentico fesso
volli entrare subito. Arrivai a Shorncliffe, al battaglione dei caporali della fanteria,
nel settembre 1976, e odiai subito quel posto. La baracca era diretta da guardie
reali, e il corso era un'accozzaglia di stronzate e addestramento formale. Non si
potevano portare i jeans e si doveva girare con i capelli rasati a zero. Non ci
davano nemmeno il week-end libero, il che rendeva le visite ai miei vecchi a
Peckham una vera tortura. Una volta mi misi nei guai perché persi la corriera a
Folkestone arrivando in ritardo di dieci minuti.
Shorncliffe era un incubo, ma fu lì che imparai a stare al gioco.
Dovevo: non potevo fare altro. La parata conclusiva era in maggio. Avevo
detestato ogni minuto passato in quel posto, ma avevo anche imparato a sfruttare
il sistema e, chissà come, fui promosso sergente delle reclute e mi aggiudicai la
spada della divisione leggera come soldato più promettente.
Dopo di che passai un periodo al deposito fucilieri di Winchester, dove i giovani
soldati inquadrati in plotoni trascorrevano le ultime sei settimane di
addestramento per imparare le tecniche della divisione leggera. Rispetto a
Shorncliffe ci trattavano molto più da adulti e c'era meno tensione.
Nel luglio 1977 fui mandato al secondo battaglione dei Royal Green Jackets,
all'epoca di stanza a Gibilterra. Per me quello era il massimo che l'esercito potesse
offrire: clima temperato, commilitoni simpatici, donne esotiche e malattie veneree
ancora più esotiche. Sfortunatamente il battaglione rientrò in Gran Bretagna dopo
soli quattro mesi.
Nel dicembre 1977 feci il mio primo giro nell'Irlanda del Nord. Nei primi anni
dell'emergenza nell'Ulster era stato ucciso un così gran numero di giovani soldati
che per andarci bisognava avere compiuto diciott'anni. Benché il battaglione fosse
partito il 6 dicembre, prima di raggiungere gli altri dovetti aspettare il mio
compleanno alla fine del mese.
Doveva esserci un fatto personale tra l'IRA e i novellini, perché ebbi presto il mio
battesimo del fuoco. Un blindato Saracen si era impantanato nella campagna
vicino a Crossmaglen, e il mio compagno e io fummo messi a fargli la sentinella.
Nelle prime ore del mattino, mentre scrutavo i dintorni col cannocchiale a
infrarossi del mio fucile, scorsi due tizi venire verso di noi, costeggiando una
siepe. Si avvicinarono e vidi distintamente che uno dei due portava il fucile. Non
avevamo la radio, per cui non potevamo chiamare soccorsi. Non c'era molto che
io potessi fare se non intimare un alt. I due se la diedero a gambe e noi sparammo
una mezza dozzina di colpi. Sfortunatamente, all'epoca i fucili con mirino a
infrarossi erano pochi, quindi la stessa arma veniva passata da una sentinella
all'altra alla fine di ogni turno di guardia. Il mirino che stavo usando io era stato
tarato per l'occhio di qualcun altro, e solo uno dei miei colpi andò a bersaglio. Ci
fu un inseguimento con i cani, ma non trovarono nulla. Due giorni dopo, però, un
ben noto membro dell'iRA si presentò all'ospedale appena al di là del confine con
un proiettile di calibro 7.62 in una gamba. Era stato il primo contatto per la nostra
compagnia, e tutti erano eccitatissimi. Il mio compagno e io ci sentivamo piccoli
eroi e rivendicammo entrambi la paternità del colpo sparato.
Il resto del tempo che passammo in Manda fu meno impegnativo,, ma più triste. Il
battaglione subì alcune perdite in un assalto a una postazione a Forkhill, e uno dei
ragazzi del mio plotone fu ucciso da una trappola esplosiva nascosta a
Crossmaglen. In seguito morì il nostro colonnello, per l'abbattimento
dell'elicottero Gazelle su cui stava volando. Quindi ritornammo a fare la solita
vitaccia di battaglione a Tidworth, e il solo evento degno di essere ricordato
dell'anno successivo fu che a diciotto anni mi sposai.
L'anno dopo rientrammo a South Armagh. A quel punto ero caporale e
comandavo una pattuglia di quattro uomini. Un sabato notte la nostra compagnia
era di pattuglia nella città di confine di Keady. Come sempre di sabato sera, le
strade erano piene di gente del posto. Andavano sempre con il bus di là dal
confine a Castlebayney, a vedere un po' di cabaret e a giocare a bingo, poi
tornavano e si sbronzavano per tutta la notte. Il mio reparto stava operando nella
zona meridionale della città, nei pressi di un quartiere residenziale. Ci eravamo
portati su una zona incolta e ci trovammo in un avvallamento. Quando
riapparimmo in cima al crinale, scorgemmo una ventina di persone assiepate
attorno a un carro agricolo nel mezzo della strada. Sei tizi con fucili Armalite
stavano per salire sul carro. Li sorprendemmo davanti alla gente, mascherati e
pronti ad agire, mentre agitavano i fucili e i pugni guantati. In seguito scoprimmo
che erano stati trasportati dal sud e il loro piano prevedeva di superare la pattuglia
e attaccarci rapidamente.
Quando intimai l'alt, due di loro stavano scavalcando la staccionata. Quattro erano
ancora sulla strada. Un tizio sul retro del carro puntò il fucile e io lo feci fuori al
primo colpo. Gli altri risposero al fuoco, e ci fu uno scontro serio. Uno di loro si
beccò sette colpi in corpo e finì su una sedia a rotelle. Un altro, che rimase ferito,
era allora agli inizi della sua carriera criminale: si chiamava Dessie O'Hara.
Fui di nuovo il superfìgo del mese, e non solo per l'esercito britannico. Durante lo
scontro a fuoco, uno dei negozianti si era beccato un paio di colpi attraverso la
finestra, e il parabrezza della sua auto era andato in frantumi. Circa un mese più
tardi tornai di pattuglia in quel posto e lui era là, dietro il nuovo bancone, nel
negozio completamente riarredato, con una macchina nuova fiammante
parcheggiata fuori. Aveva un sorriso smagliante che gli andava da un orecchio
all'altro.
Quando tornammo a Tidworth, nell'estate del 1979, ero completamente
innamorato dell'esercito. Per buttarmi fuori ci sarebbero voluti piccone e
piccozza. In settembre fui inserito nel quadro interno dei sottufficiali. Passai con i
massimi voti e quella stessa notte fui promosso caporalmaggiore. Diventai così il
più giovane caporalmaggiore di fanteria dell'epoca, avendo solo diciannove anni.
Nel 1980 seguii un corso per comandanti di sezione. Lo superai con una
menzione d'onore e il mio premio fu un biglietto di sola andata per ritornare a
Tidworth.
La sede della guarnigione del Wiltshire era - e lo è ancora - un posto davvero
deprimente. C'erano otto battaglioni di fanteria, un reggimento carri, uno da
ricognizione, tre pub, una bottega di patatine fritte e un lavasecco. Non c'è da
meravigliarsi che la mia giovane moglie ne fosse esasperata: era una rottura anche
per i soldati. Non eravamo altro che pantofolai un po' nobilitati.
Una domenica fui perfino chiamato a guidare i battitori di galli cedroni, anche
loro soldati, per la battuta di caccia di un generale di brigata. L'incentivo erano
due lattine di birra: e poi si chiedevano come mai ci fosse un ricambio di ragazzi
così inarrestabile!
A settembre mia moglie ne aveva abbastanza. Mi pose un ultimatum: o portarla a
Londra o concederle il divorzio. Io rimasi, lei se ne andò.
Alla fine del 1980 mi rispedirono al deposito fucilieri per due anni, come
caporalmaggiore istruttore. Fu veramente un periodo stupendo. Mi piaceva
insegnare alle reclute, anche se con molte di loro significava ritornare all'abc,
cominciando dalle più elementari norme igieniche, come l'uso dello spazzolino da
denti.
Fu anche alll'incirca in quel periodo che cominciai a sentir parlare dei SAS.
Incontrai Debby, una ex ausiliaria della RAF, e nell'agosto 1982 ci sposammo. Lo
feci perché stavo per essere inviato al battaglione, che in quel momento era di
stanza a Paderborn, in Germania, e non volevamo separarci. Tutti i miei peggiori
timori sulla vita in Germania furono puntualmente confermati. Era uguale a
Tidworth, ma senza la bottega delle patatine fritte. Passavamo più tempo a far
manutenzione ai mezzi che a usarli, con gli uomini che si consumavano le dita
fino all'osso per niente. Prendevamo parte a imponenti esercitazioni in cui non si
sapeva che cosa in realtà stesse succedendo e, dopo un po', non gliene fregava più
niente a nessuno.
Mi sentivo buggerato perché i Green Jackets non erano stati inviati alle Falkland.
Ogni volta che c'era un po' d'azione, mi sembrava che chiamassero in causa i
SAS. Anch'io volevo il mio pezzo di torta: altrimenti, perché mi ero arruolato in
fanteria?
Inoltre, Hereford aveva l'aria di un bel posto, visto che non era una città di
guarnigione. A quel tempo, se vivevi in un posto come Aldershot o Catterick, ti
facevano sentire un cittadino di seconda categoria; come soldato semplice, non
potevi comprare nemmeno un televisore a rate se un ufficiale non firmava la
richiesta per te.
Quattro di noi Green Jackets firmarono per la selezione dell'autunno 1983, e tutti
per lo stesso motivo: lasciare il battaglione. Nei due anni precedenti un paio dei
nostri ce l'avevano fatta.
Uno era un capitano, che con un sotterfugio ci fece programmare una fila di
esercitazioni nel Galles, così potevamo ritornare in Gran Bretagna per addestrarci.
Ci portò personalmente a Brecon Beacons e ci fece fare un sacco di
addestramento sulle colline.
Ma, meglio ancora, ci diede consigli e incoraggiamenti. Devo molto a quell'uomo.
Fummo fortunati a conoscerlo; alcuni reggimenti, specialmente i corpi speciali,
non sono contenti se i loro uomini li lasciano, perché hanno competenze difficili
da rimpiazzare. Non concedono loro tempo libero, o buttano la domanda nel
«Dossier 13 », cioè il cestino della carta straccia. Oppure consentono al loro uomo
di andare, ma lo fanno lavorare fino al venerdì prima di partire.
Nessuno di noi fu ammesso. Io, poco prima della prova di resistenza, fallii la
marcia di trenta chilometri con la cartina muta.
Ero incazzato con me stesso, ma almeno mi incoraggiarono a riprovarci.
Ritornai in Germania e subii tutti gli sberleffi che toccano a chi ha fatto un buco
nell'acqua. Normalmente ti vengono rifilati da froci che non oserebbero mai
provarci. Non mi importava niente.
Ero un giovane ambizioso, e la scelta più facile sarebbe stata quella di restare
nell'ambiente del battaglione e diventare il pesce grosso nello stagno piccolo, ma
avevo perso ogni entusiasmo per la cosa. Mi iscrissi alla selezione invernale del
1984 e mi allenai nel Galles per tutte le vacanze di Natale. A Debby non
importava molto.
La selezione invernale è tremenda. La maggioranza si arrende entro la prima delle
quattro settimane della fase di resistenza, Sono quelli che non si sono preparati
abbastanza o si fanno male.
Alcuni di coloro che si presentano sono autentici duri. Credono che i SAS siano
come James Bond e il loro lavoro sia liberare le ambasciate. Non capiscono che
sei comunque un soldato, e quando scoprono come si svolge la selezione
rimangono scioccati.
L'unico aspetto positivo della selezione invernale è il tempo. I podisti, che in
estate si spostano sul terreno come indemoniati, vengono rallentati dalla neve e
dalla nebbia. Gli uomini immersi fino alla cintola nella neve vanno tutti alla stessa
velocità.
Passai la prova.
Dopo questa prima fase ti inviano a un periodo di addestramento di quattro mesi
che comprende una dura prova nella giungla, in Asia. L'ultimo test importante è il
corso di sopravvivenza al combattimento. Per due settimane ti insegnano le
tecniche di sopravvivenza, dopodiché ti mandano dal dottore, il quale ti infila un
dito nel culo per controllare che tu non abbia dentro qualche barretta di cioccolato
Mars. Poi ti sguinzagliano sulle Black Mountains vestito in uniforme della
seconda guerra mondiale, con pantaloni, camicia, cappotto senza bottoni e
scarponi senza stringhe. I cacciatori erano una compagnia delle Guardie in
elicottero. A ogni guardia veniva dato l'incentivo di due settimane di licenza se
avesse effettuato una cattura.
Andai in fuga per due giorni in compagnia di tre vecchi bacucchi, due piloti della
marina e un capo velivolo della RAF. Bisognava restare in gruppo, e non mi
sarebbe potuto capitare un trio peggiore di pesi morti. A loro non importava
niente, il corso era solo una rottura di palle di tre settimane, dopo di che sarebbero
tornati a casa con le loro medaglie a bersi il tè. Ma se i candidati ai SAS non
superano il corso di sopravvivenza non vengono premiati.
Stavamo aspettando in un particolare punto d'incontro quando i due di sentinella
si addormentarono. Arrivò un elicottero pieno di guardie e fummo sorpresi. Dopo
una breve caccia ci catturarono e ci condussero in una zona di detenzione.
Alcune ore più tardi, mentre ero in ginocchio, mi tolsero la benda dagli occhi e mi
trovai a guardare in faccia il sergente maggiore addetto all'addestramento.
« Sono finito? » uggiolai.
«No, scemo. Torna sull'elicottero e non farti più fregare.»
Lo avevo trovato di buon umore. Da ex guardia della Household Division,
gongolava vedendo che i suoi vecchi commilitoni se la cavavano così bene.
Nella fase successiva fui solo, il che mi andò benissimo. 1 nostri spostamenti tra i
punti d'incontro erano studiati in modo tale che alla fine della fase di fuga ed
evasione tutti venissimo catturati e sottoposti a interrogatorio. Ti insegnano a
essere - e tu cerchi sempre di essere - l'uomo che non conta niente. L'ultima cosa
che si desidera è venire selezionati fra i meritevoli di ulteriore interrogatorio. Io
non trovavo questo stadio particolarmente duro, perché nonostante le minacce
verbali nessuno ci avrebbe riempito di botte, e lo sapevamo. Hai freddo, hai fame,
sei bagnato, stai scomodissimo: ma è soltanto questione di resistere, fisicamente
più che mentalmente. Non riuscivo a credere che qualcuno potesse davvero
gettare la spugna in quelle ultime ore.
Alla fine, durante uno degli interrogatori, entrò un tale che mi diede una tazza di
minestra e mi annunciò che era finita. Ci fu un rapporto completo, perché quelli
che ti interrogano possono apprendere da te e tu da loro. In realtà la mente subisce
dei contraccolpi: fui sorpreso nello scoprire che avevo sbagliato la mia
valutazione del tempo di circa sei ore.
Seguirono due settimane di addestramento alle armi a Hereford. Gli istruttori
studiavano il tuo curriculum e si aspettavano da te determinate prestazioni. Se
provenivi dalla Sussistenza cominciavano pazientemente da capo, se eri sergente
di fanteria si aspettavano l'eccellenza. Poi fu la volta dell'addestramento di
paracadutismo a Brize Norton, che dopo i rigori della selezione fu come passare
un mese in villeggiatura.
Di ritorno a Hereford dopo sei lunghi e pesantissimi mesi, fummo condotti uno
per uno nell'ufficio del comandante. Mentre mi veniva consegnato il famoso
berretto color sabbia con il pugnale alato, il comandante mi disse: « Ricordati solo
che è più duro da mantenere che da conquistare ».
In realtà non afferrai bene il concetto. Ero troppo impegnato a trattenermi dal
mettermi a ballare.
Come al solito, il grosso dei nuovi arrivi era composto da uomini provenienti
dalla fanteria, più un paio di tecnici e trasmettitori.
Dei centosessanta candidati che avevano cominciato ne erano passati solo otto: un
ufficiale e sette soldati.
Gli ufficiali prestano servizio nei SAS solo per un periodo di tre anni, anche se
poi possono tornare per un secondo turno. Appartenendo alla truppa, dovevo
ultimare la mia ferma completa nell'esercito, che era di ventidue anni: altri
quindici, dunque.
Ci mandarono ai nostri squadroni. E' possibile indicare se si preferisce uno
squadrone da montagna, motorizzato, di incursori subacquei o di paracadutisti e
se possono ti accontentano. Altrimenti tutto dipende dai vuoti nell'organico e dalle
reali capacità delle reclute. Io fui assegnato ai paracadutisti.
I quattro squadroni hanno caratteristiche molto diverse. Una volta dicevano che se
si andava in un night quelli dello squadrone A sarebbero rimasti lungo il muro
senza dire una parola, nemmeno tra loro, lanciando semplicemente sguardi cattivi
a tutti. Quelli dello squadrone C si sarebbero messi a parlare, ma solo tra loro.
Quelli del D sarebbero stati sul bordo della pista da ballo a guardare le donne e
quelli del B - il mio - si sarebbero lanciati sulla pista da ballo, a fare un casino da
matti e a comportarsi proprio da teste di cazzo.
Debby ritornò dalla Germania per raggiungermi a Hereford.
Da gennaio, quando avevo cominciato la selezione, non mi aveva visto molto e
non fu troppo contenta quando seppe che all'indomani del suo arrivo mi avrebbero
rispedito nella giungla per un ulteriore addestramento di due mesi. Quando tornai,
la casa era vuota. Aveva fatto le valigie ed era tornata a Liverpool.
Nel dicembre dell'anno successivo cominciai a uscire con Fiona, la mia vicina
della porta accanto. Nel 1987 è nata nostra figlia Kate, e nell'ottobre dello stesso
anno ci siamo sposati. Il mio regalo di nozze da parte del Reggimento fu un
lavoro oltremare di due anni. Tornai da quel viaggio nel 1990, ma in agosto, circa
due mesi dopo il mio ritorno, il matrimonio fu sciolto.
Nell'ottobre del 1990 incontrai Jilly. E' stato un amore a prima vista, o per lo
meno così mi ha detto lei.
3.
ALLE 07.50 ci radunammo intorno al tavolo del comandante per dirigerci nella
sala dove si sarebbe tenuto il briefing. Eravamo tutti di buonumore: ciascuno di
noi aveva una borraccia d'acciaio inossidabile e una maxiscorta di cioccolato. La
giornata sarebbe stata lunga, e risparmiare il tempo del rinfresco ci avrebbe
permesso di approfondire questioni della massima importanza., Mi sentivo ancora
eccitatissimo: a) perché ero stato nominato comandante di pattuglia e b) perché
avrei lavorato con Vince.
Vince, che stava per iniziare gli ultimi due anni di servizio nel Reggimento, aveva
trentasette anni ed era un vecchio pirata straordinariamente forte. Era un provetto
alpinista, sommozzatore e sciatore, e camminava ovunque, anche in salita, come
se avesse un barile di birra sotto le braccia. Per Vince tutto era « fottutissima
merda», e lo diceva con il peggior accento di Swindon; ma amava il Reggimento,
e lo avrebbe difeso anche quando quelli degli altri squadroni si fossero lamentati.
Il solo rimpianto della sua vita era che si stava avvicinando alla fine dei suoi
ventidue anni di servizio. Era arrivato dall'artiglieria e aveva un'aria rude, come ci
si aspetta da un membro del Reggimento, i capelli crespi e ispidi e un gran paio di
baffi. Dato che era nel Reggimento da più tempo di me, al momento di
programmare le azioni mi sarebbe stato molto utile.
Scoprimmo che la zona del briefing era in un altro hangar. Ci scortarono
attraverso una porta con la scritta VIETATO L'INGRESSO AL PERSONALE
NON AUTORIZZATO. Già tutto il Reggimento era isolato, ma la zona del
briefing era un isolamento nell'isolamento. La sicurezza delle operazioni è
fondamentale. Nessuno di noi avrebbe mai chiesto a un altro commilitone cosa
stesse facendo. Come tutte le regole non scritte, questa è scritta con l'inchiostro
rosso, a lettere maiuscole e sottolineate. Su entrambi i lati delle porte
campeggiavano: PIANIFICAZIONE AVIAZIONE, SQUADRONE D, INT
CORP, MAGAZZINO MAPPE. Erano disadorne, senza nessun ornamento,
semplici fogli battuti a macchina e appuntati alle porte.
In quell'edificio regnava un'atmosfera decisamente particolare: c'era un'aria di
asepsi e di efficienza, con i classici sibili e fruscii delle radio in sottofondo. I
membri del servizio informazioni, noti come spooks (« spettri ») o green slime («
melma verde »), si spostavano da una stanza all'altra con pile di carte geografiche
sulle braccia, chiudendosi meticolosamente le porte alle spalle.
Tutti parlavano sottovoce. Erano un esempio impressionante di
ultraprofessionalità.
Conoscevamo molti spook di nome, avendo lavorato con loro in Gran Bretagna.
« Buongiorno, slime », dissi a un volto familiare. « Come va? »
In risposta ottenni solo una parola biascicata accompagnata da un movimento del
polso.
Il posto non aveva finestre, e sembrava fosse rimasto abbandonato per molto
tempo. In sottofondo si sentiva odore di muffa e marciume, sovrastato dai tipici
aromi da ufficio che si trovano ovunque: carta, caffè, sigarette. Ma poiché questo
era uno di quegli edifici che noi definivamo remf (rear echelon mother-fucker,
letteralmente «rotti in culo delle retrovie ») ed era mattina presto, si sentiva anche
un intenso profumo di sapone, schiuma da barba, dentifricio e dopobarba.
« Salve, remf! » li salutò Vince con il suo accento di Swindon e un radioso
sorriso. « Siete delle fottute merde, ecco che cosa siete!»
« Una fottuta merda sarai tu », ribattè uno spook. « Credi che saresti capace di
fare il nostro lavoro? »
« Manco per sogno », ammise Vince. « Ma tu rimani sempre un remf! »
La stanza dello squadrone B misurava più o meno cinque metri quadrati. Il
soffitto era molto alto, con una specie di apertura in cima che garantiva l'unica
aerazione. Avevano accostato quattro tavoli al centro, disponendovi sopra carte
geografiche di fuga in seta e bussole.
« Sono gratis, prendiamole », disse Dinger.
«Non badate alla qualità, guardate le dimensioni», intervenne Bob, uno del
gruppo di Vince.
Bob, alto la bellezza di un metro e cinquantasette, era di origine svizzero-italiana
ed era noto come Moscerino Brontolone.
Era stato nei Royal Marines ma voleva migliorarsi, quindi se n'era andato e aveva
scommesso di passare la selezione. Nonostante la bassa statura era forte come un
toro, fisicamente e di carattere.
Insisteva sempre per portare lo stesso carico di tutti gli altri, il che a volte poteva
essere divertente: si vedeva solo l'immenso zaino con sotto due gambette che
andavano su e giù come pistoni.
A casa era un fanatico delle vecchie commedie in bianco e nero, e ne possedeva
una vasta collezione in video. Quando era in giro, i suoi hobby favoriti erano il
ballo e la conversazione intima con donne alte trenta centimetri più di lui. Il
giorno che partimmo per il Golfo, avevamo dovuto prelevarlo al circolo della base
alle ore piccole.
Guardammo le carte, che risalivano agli anni '50. Da un lato c'erano Baghdad e
dintorni, dall'altro Bassora.
« Dove pensate che ci mandino, ragazzi? » domandò Chris, un altro del gruppo di
Vince con un forte accento del Nord. « Baghdad o Bassora? »
Entrò Bert, uno spook. Conoscevo Bert perché faceva parte della nostra
organizzazione di controspionaggio a Hereford.
« Ce ne sono altre di queste? » domandò Mark. « Sono fighissime. »
Tipica mentalità del Reggimento: se una cosa luccica, la voglio. A volte non sai
nemmeno che funzione abbia un pezzo di equipaggiamento, ma se ha un
bell'aspetto te lo prendi. Non si sa mai se ti possa servire.
Nella stanza non c'erano sedie, per cui ci accomodammo con la schiena contro il
muro. Chris estrasse la sua borraccia e la offrì a tutti. Chris era di bell'aspetto e
aveva una voce profonda: era stato coinvolto nei SAS territoriali da civile, e aveva
deciso che il suo desiderio era esattamente quello di arruolarsi nel Reggimento.
Per Chris, se si doveva fare un lavoro, bisognava farlo nel migliore dei modi, così
prima firmò per i parà, perché voleva avere alle spalle un solido addestramento in
fanteria. Fu trasferito a Hereford da Aldershot non appena promosso caporale, e
naturalmente passò la selezione.
Se Chris aveva in mente un progetto, faceva in modo di realizzarlo. Era uno degli
uomini più determinati e decisi che abbia mai incontrato. Forte nel fisico e nella
mente, era un fanatico del body building, della bici e dello sci. Sul campo gli
piaceva indossare un vecchio berretto con visiera dell'Afrikakorps. Fuori servizio
era facile preda di un qualsiasi ultimo ritrovato della tecnologia ciclistica o
sciistica, e indossava soltanto vestiti firmati Gucci. Quando si era arruolato nel
Reggimento era molto taciturno, ma dopo circa tre mesi la sua forza di carattere
cominciò a emergere. Chris era l'uomo che faceva sentire la voce della ragione.
Era sempre pronto a intervenire per dirimere una controversia, e quello che diceva
sembrava sempre giusto anche quando era una stronzata.
« Mettiamoci al lavoro », disse il comandante. « Bert vi illustrerà la situazione. »
Bert si appollaiò sul bordo di un tavolo. Era un bravo spook perché era conciso, e
quanto più uno è conciso tanto più è facile capire e ricordare quello che ti dice.
« Come sapete, Saddam Hussein ha attaccato Israele sparando alcuni Scud
modificati su Tel Aviv e Haifa. Il danno reale arrecato è molto limitato, ma
migliaia di abitanti stanno scappando dalle città per rifugiarsi in zone più sicure. Il
Paese ha mantenuto la calma. Il loro primo ministro non è preoccupato.
« I beduini, invece, sono molto soddisfatti. Per loro, Saddam ha colpito Tel Aviv,
la capitale riconosciuta di Israele, dimostrando che il cuore dello Stato ebraico
non è invulnerabile.
« Ovviamente Saddam vuole che Israele reagisca, a qualunque costo, perché
questo, quasi sicuramente, spezzerebbe la coalizione anti-Iraq e probabilmente
trascinerebbe perfino l'Iran in guerra al fianco dell'Iraq per combattere l'odiata
Israele.
« Sapevamo che esisteva questo pericolo, e fin dal primo giorno abbiamo cercato
di localizzare e distruggere le rampe di lancio degli Scud. I bombardieri Stealth
hanno attaccato i sei ponti nel centro di Baghdad che attraversano il fiume Tigri.
Questi ponti uniscono le due parti della città, e su di essi corrono anche le linee
telefoniche mediante le quali Baghdad comunica con il resto del Paese, con il suo
esercito nel Kuwait e con le unità Scud che lanciano i missili contro Israele.
Poiché le trasmittenti a microonde dell'Iraq sono già state bombardate e fatte a
pezzi, e le sue trasmissioni radio vengono intercettate dal controspionaggio
alleato, le linee telefoniche sono l'ultima via di comunicazione di Saddam. Per i
piloti sono diventate il bersaglio principale.
« Sfortunatamente, Londra e Washington vogliono che gli attacchi cessino.
Ritengono che l'accanimento dei mass media nel mostrare i bambini che giocano
vicino ai ponti distrutti sia una cattiva pubblicità. Ma, signori, a Saddam deve
essere negato l'accesso a quei cavi. E se vogliamo tenere fuori dalla guerra l'Iran e
Israele, gli Scud devono essere neutralizzati. »
Bert si alzò dal tavolo e si avvicinò a una parete con una carta in grande scala di
Iraq, Iran, Arabia Saudita, Turchia, Siria, Giordania e Kuwait. Puntò il dito
sull'Iraq nord-occidentale.
« Qui », indicò, « ci sono gli Scud. »
Tutti sapevano cosa avrebbe detto a quel punto.
« Da Baghdad ci sono tre strade principali di rifornimento che vanno da ovest a
est», proseguì, «essenzialmente in direzione della Giordania. Queste strade
vengono utilizzate per il trasporto di carburante e quant'altro, e anche per spostare
gli Scud. Adesso, sembra che gli iracheni lancino gli Scud in due modi: da rampe
di lancio fisse, che sono tenute sempre sotto sorveglianza, e da rampe mobili, per
cui si devono fermare e fare il punto della zona prima del lancio. Queste ultime
sono più tattiche. Abbiamo fatto fuori la maggior parte delle rampe fisse. Ma
quelle mobili... »
A quel punto ci eravamo fatti molto più che un'idea.
« Le linee telefoniche forniscono informazioni a queste rampe di lancio mobili
perché tutti gli altri sistemi di comunicazione sono fuori uso. E dubito che siano
rimaste molte persone in grado di riparare quegli aggeggi. La situazione, grosso
modo, è questa. »
« Il vostro compito si divide in due parti », intervenne il capo.
«Uno, localizzare e distruggere le linee telefoniche nell'area della strada
principale a nord. Due, trovare e distruggere gli Scud. »
Ripetè due volte qual era il nostro compito, secondo il protocollo previsto per
l'assegnazione di una missione.
« Non ci interessa molto in che modo lo fate, purché sia fatto », proseguì. « La
vostra zona operativa si stende lungo duecentocinquanta chilometri di questa
strada. La durata della missione è quattordici giorni prima dei nuovi rifornimenti.
Qualcuno ha qualche domanda da fare? »
A quello stadio non ne avevamo.
« Bene... Bert vi fornirà qualunque cosa desideriate. In ogni caso, io sarò di
ritorno in giornata, ma se avete qualsiasi problema venite a cercarci. Andy... una
volta che avete elaborato il piano, fammelo sapere che gli darò un'occhiata. »
Invece di gettarci a capofitto nel lavoro, ci prendemmo una pausa per bere
qualcosa. Se desideri qualcosa da bere, attingi alla prima fonte disponibile.
Svuotammo la borraccia di Mark, poi demmo un'occhiata alla carta.
« Abbiamo bisogno di tutte le carte di cui disponete », dissi a Bert. « Tutte le
informazioni topografiche. E qualsiasi fotografia, comprese quelle fatte dal
satellite. »
« La sola cosa utile che posso darvi sono le carte per la navigazione aerea, in scala
uno a mezzo milione. Tutto il resto sono merdate. »
« Che cosa ci sai dire delle condizioni del tempo e simili? » domandò Chris.
« Sto cercando di far stendere una previsione. Vado a vedere se è pronta. »
« Abbiamo anche bisogno di sapere molto di più sulle fibre ottiche, su come
funzionano veramente », osservò Legs. « E anche sugli Scud. »
Legs mi piaceva. Stava ancora consolidando la sua posizione al Reggimento, visto
che era arrivato solo sei mesi prima dai parà. Ancora un po' silenzioso, come tutti
i nuovi arrivati, era diventato molto amico di Dinger. Aveva molta fiducia in se
stesso e nella sua capacità di trasmettitore della pattuglia e, avendo cominciato la
sua carriera nell'esercito tra i tecnici, era anche un eccellente meccanico. Si era
procurato quel nomignolo (Gambe) perché sul terreno andava come una vera
biscia.
Bert uscì dalla stanza e cominciammo a discutere tra noi. Ci sentivamo rilassati.
Sembrava che avessimo moltissimo tempo - il che è raro per le operazioni del
Reggimento - e ci trovavamo in un bell'ambiente sterile: non dovevamo elaborare
i nostri piani in situazione tattica sotto una pioggia scrosciante e a casa del
diavolo. In fanteria c'è un principio che viene definito delle Sette P: una Perfetta
Pianificazione e Preparazione Previene una Prestazione da Poveri Piscioni. Noi
avevamo condizioni di pianificazione perfette. Non avremmo avuto nessuna scusa
per una prestazione da piscioni.
Mentre aspettavamo il ritorno di Bert, i ragazzi si aggiravano per riempire le
borracce o usare i bagni dei rotti in culo.
« Ho le cartine per voi », annunciò Bert attraversando la porta un quarto d'ora più
tardi. « Ho anche le informazioni sul terreno, ma non sono molte. Cercherò di
procurarmene altre. Stanno per arrivare altre mappe di fuga, migliori. Ve le darò
prima che ve ne andiate. »
Per non sapere né leggere né scrivere, ci eravamo già intascati le altre come
souvenir.
Adesso avevamo il tempo di riflettere un po' meglio sui dettagli e bombardammo
Bert di richieste d'informazioni sulle posizioni del nemico, le zone abitate dalle
popolazioni locali e la natura del confine con la Siria, perché stavamo subito
pensando a un piano di fuga, e quella era la frontiera più vicina; quali tipi di
truppe erano stanziate nei pressi della nostra area operativa e in che
concentrazioni, perché se ci fossero state concentrazioni massicce ci sarebbe stato
molto movimento sulla strada principale, il che avrebbe reso il compito più
difficile; che tipo di traffico si spostava lungo la strada e in quale intensità; oltre a
tutto quello che fossimo riusciti a reperire sul funzionamento delle linee
telefoniche: che aspetto avevano, con quanta facilità era possibile individuarle e
se, una volta trovate, potevano essere distrutte con cinque chili di esplosivo al
plastico o con una semplice martellata.
Bert ci lasciò con la nostra nuova lista della spesa.
Guardando la carta sul muro, notai un oleodotto interrato in disuso. «Mi domando
se l'avranno posato parallelo alla strada», osservai, « e se ci sono dei cavi. »
« Nello squadrone c'è un ragazzo che un tempo posava cavi interrati per la
Mercury», osservò Stan. «Vedrò di chiedergli se lo sa.»
Bert ritornò con una pila di carte geografiche. Mentre alcuni di noi univano i fogli
separati con lo scotch per ricavarne una più grande, due uscirono a prendere
alcune sedie.
A questo punto l'atmosfera si era fatta molto più seria. Rimuginammo le cose per
un'altra mezz'ora, prima di metterci a fare dei veri e propri piani. Chris studiò le
carte e trasse alcune considerazioni utili; Legs scribacchiò qualche appunto
sull'attrezzatura radio. Dinger aprì un altro pacchetto di Benson & Hedges.
La prima cosa che dovevamo esaminare era il posto dove eravamo diretti.
Dovevamo sapere tutto del terreno e delle zone abitate dalla popolazione civile e
militare. Le informazioni disponibili erano molto sommarie.
« La vera e propria strada principale non è asfaltata, ma è un sistema di sentieri
messi assieme», osservò Bert. «Il punto di massima larghezza è circa due
chilometri e mezzo, e il punto più stretto circa seicento metri. Ogni diciassette
chilometri su entrambi i lati della strada ci sono soltanto cinquanta metri di
dislivello: è terreno molto piatto e ondulato, roccioso, niente sabbia.
Procedendo a nord verso l'Eufrate, ovviamente il terreno comincia ad abbassarsi.
A sud è terra piatta fin quasi all'Arabia, ma poi si profila il tipico paesaggio con
gli uadi che vanno benissimo per muoversi e nascondersi; quindi diventa di nuovo
piatto. »
Le carte tattiche aeree non avevano curve di livello, ma sfumature per le quote, un
po' come gli atlanti scolastici. L'intera area della strada principale era di un unico
colore minaccioso.
« Questo Paese è una fottuta merda! » esclamò Vince.
Scoppiammo a ridere, un po' nervosi. Vedevamo benissimo che non era un
terreno dove ci si potesse nascondere con facilità.
Nelle regioni semidesertiche, praticamente tutto si trova vicino a una strada o a un
fiume. La strada correva attraverso zone edificate e abitate, tre o quattro piste
d'atterraggio e parecchie pompe per l'acqua che, potevamo presumere, sarebbero
state difese dall'esercito. Era anche facile ritenere che lungo tutta la strada ci
sarebbero state piccole comunità locali: sia stanziali, in casupole di fango, sia
beduini nomadi; e coltivazioni sparse in tutta la zona per approfittare della
disponibilità di trasporti e d'acqua.
A nord-ovest la strada principale incrociava l'Eufrate nell'importante città di
Banidahir, poi scendeva a sud-ovest fino alla Giordania. Il traffico si sarebbe
presentato sotto forma di movimenti da e verso la Giordania, di trasporti militari
fino alle piste di atterraggio e di milizie locali nelle zone abitate. Era improbabile
che fossero in stato di allerta, perché non si aspettavano truppe alleate in una zona
così remota. Per quanto li riguardava, lassù non c'era nulla di grande importanza
strategica.
Allora, a quale altezza della strada avremmo operato? Non nel punto più largo,
quello era certo, perché se avessimo dovuto richiedere un intervento aereo
volevamo restringere l'area del potenziale bersaglio. Ciò di cui avevamo
veramente bisogno era un punto in cui la strada fosse meno larga, e buon senso
voleva che questo si trovasse in corrispondenza di una curva stretta: in qualunque
parte del mondo, gli automobilisti cercano sempre di tagliare le curve. Cercammo
un punto a imbuto che fosse il più lontano possibile dalle abitazioni e dalle
installazioni militari.
La cosa non era semplice, perché le carte aeree mostrano solo le città e le
caratteristiche principali del territorio. Tuttavia, Legs individuò una buona curva a
metà strada tra una pista aerea e la città di Banidahir, a circa trentacinque
chilometri da entrambe.
Per di più, l'oleodotto sotterraneo incrociava la strada nello stesso punto, il che ci
avrebbe fornito un buon ragguaglio per la navigazione.
Il tempo, ci informò Bert, sarebbe stato frescolino, ma non troppo freddo. Come
la primavera in Gran Bretagna: potevamo aspettarci che facesse freddo durante la
notte e alla mattina presto, e un po' più caldo nel pomeriggio. Le piogge erano
scarse.
Questa era una buona notizia, perché non c'è niente di peggio che avere freddo ed
essere bagnati, specialmente se hai anche fame. Tieni a mente questi parametri, e
vedrai che la tua vita filerà davvero liscia.
Sapevamo dove andare: a questo punto dovevamo decidere come arrivarci.
« Le opzioni sono: arrivarci a piedi, con un automezzo oppure farci calare da un
elicottero », disse Vince.
« Andarci a piedi non ha senso », osservò Chris. « A una tale distanza non
saremmo in grado di portare con noi abbastanza rifornimenti, e dovrebbero
comunque riapprovvigionarci con un elicottero... ma allora tanto vale che ci
portino! »
Concordammo che i veicoli avrebbero potuto toglierci d'impaccio alla svelta,
permettendoci inoltre di spostarci sulla strada o in un'altra zona per ricevere nuovi
ordini. Le Land Rover a passo lungo ci avrebbero inoltre garantito la potenza di
fuoco delle mitragliatrici bivalenti e dei lanciabombe portatili M19 da 40 mm... o
di qualunque altra arma avessimo voluto. Avremmo anche potuto portare più
munizioni, esplosivi e attrezzatura, e in generale essere molto più autosufficienti
per un periodo di tempo maggiore. Ma gli automezzi avevano due importanti
svantaggi.
« Saremmo limitati dalla quantità di carburante che potremmo portare », osservò
Dinger, tirando una boccata dalla sua sigaretta, « e inoltre le possibilità di
nasconderci nell'area attorno alla strada sono praticamente inesistenti. »
Poiché la missione richiedeva di restare nella stessa zona per un lungo periodo, la
nostra miglior difesa sarebbe stata la possibilità di nasconderci, e in questo senso
gli automezzi non ci avrebbero aiutato per niente. In quella zona sono visibili
come le palle dei cani. Ogni volta che fossimo usciti in pattuglia, avremmo
dovuto lasciare delle sentinelle presso i mezzi. Altrimenti non ci saremmo accorti
se qualcuno ci metteva una bomba o se stavamo cadendo in un'imboscata, o se
eravamo stati scoperti dalla popolazione locale ed era circolata la voce. Inoltre,
per otto uomini avremmo avuto bisogno di due mezzi, e due mezzi equivalevano
a due possibilità di compromettere il risultato.
Con un'unica pattuglia a piedi la probabilità di essere scoperti era una sola. D'altra
parte, era possibile che i viveri e le altre attrezzature per due settimane fossero un
peso eccessivo da trasportare, e quindi - nonostante gli svantaggi - dovessimo
utilizzare gli automezzi per forza. Bisognava pensare ai dettagli
dell'equipaggiamento.
Stabilimmo che ci occorrevano esplosivo e munizioni, cibo e acqua per due
settimane, indumenti anti-NBC e - ma solo se fosse avanzato posto - effetti
personali. Vince fece i calcoli e stabilì che dovevamo portarci appresso solo noi
stessi.
«Perciò andremo a piedi», concluse. «Ma ci sarà qualcuno che ci accompagna fin
là su quattro ruote, o è meglio che prendiamo un elicottero che ci scarichi sul
posto? »
« Con i mezzi ci sono maggiori rischi di fallimento », osservò Mark. « E' anche
possibile che non arriviamo fino all'obiettivo senza un rifornimento di benzina. »
« Se abbiamo bisogno di un rifornimento, andiamo in elicottero e basta, » tagliò
corto Legs.
Alla fine tutti furono d'accordo per scendere in elicottero.
« Non possiamo prendere un aereo? » chiesi a Bert.
Lui andò nella sala operativa a controllare.
Detti uno sguardo alla carta: tutti dovevano essersi resi conto di quanto saremmo
stati isolati. Se ci fossimo trovati nei guai, non sarebbe arrivato nessuno a tirarci
fuori.
« Almeno, se finiamo nella merda, non avremo troppe colline da salire e scendere
», commentò Bob.
«Mmm... buona questa», sbuffò Dinger.
Ricomparve Bert: « Si può avere un aereo, non c'è problema».
Fui io a riaprire il dibattito. « Allora... dove è meglio che ci lascino? »
Il vantaggio degli elicotteri è che ti trasportano sul posto velocemente, lo
svantaggio che fanno un gran casino e possono attirare la contraerea. Anche
l'atterraggio è piuttosto delicato. Noi non volevamo che capissero qual era la
nostra missione, quindi bisognava scegliere una località che fosse ad almeno venti
chilometri dalla strada principale. Non volevamo atterrare né a est né a ovest della
curva della strada, perché sarebbe stato più difficile arrivarci. La navigazione non
è una scienza, ma una tecnica.
Che cosa avrebbe reso più difficile attuare una tecnica se non l'aggiungervi
problemi supplementari? L'obiettivo era raggiungere il punto di sosta il più presto
possibile.
«Dovremmo volare a nord sopra la strada per poi marciare verso sud, o viceversa
avvicinarci da sud? » domandai.
Nessuno riscontrava vantaggi nell'attraversare la strada in aereo; quindi
scegliemmo di scendere a sud del punto stabilito.
Giunti là, non dovevamo fare altro che navigare verso nord per incrociare la
strada.
Avremmo marciato con una bussola e misurato la distanza empiricamente. Tutti
conoscono il proprio passo ed è pratica comune portarsi in tasca un pezzo di
spago con dei nodi per tenere il conto. Io, per esempio, sapevo che centododici
dei miei passi equivalevano a cento metri. Avrei fatto dieci nodi sulla mia corda
plasticata e l'avrei toccata attraverso un buco nella tasca. Ogni centododici passi
avrei tirato fuori un nodo. Una volta estratti dieci nodi avrei saputo di avere
percorso un chilometro, e a quel punto avrei verificato con il « controllore dei
passi ». Se la sua distanza fosse stata diversa dalla mia, avremmo fatto la media.
Oltre a questo espediente avremmo usato il Magellan, un sistema di navigazione
satellitare portatile. Il SatNav è utile, ma non ci si può fidare completamente: può
rompersi, o le pile possono scaricarsi.
Non riuscivamo ancora a stabilire dove volevamo scendere; avremmo valutato il
tempo e la distanza in seguito, a seconda di quello che ci dicevano i piloti. Era
compito loro valutare il problema delle installazioni antiaeree e delle
concentrazioni delle truppe, oltre alla questione di piazzarci in un buco che non
fosse incompatibile con gli altri voli giornalieri - un fattore noto come
esfiltrazione.
A questo punto della pianificazione sapevamo dove dovevamo andare, come ci
saremmo arrivati e - più o meno - dove ci sarebbe piaciuto che ci lasciassero.
Qualcuno bussò alla porta.
«C'è qui il pilota, se volete parlargli», annunciò uno spook.
Il capitano pilota era più basso di Mark, aveva i capelli rossi e le lentiggini.
« Puoi portarci in questo punto? » gli domandai mostrandogli la carta.
«Quando?» chiese con la cadenza piatta e monotona delle Midlands.
« Non lo so ancora. Fra un paio di giorni. »
«Così, di botto, mi sembra di sì. Tuttavia, dovrò fare i miei piani di esfiltrazione e
via dicendo. In quanti siete? »
« Otto. »
« Automezzi? » ' « Solo equipaggiamento. »
«Non c'è problema. »
Sentivo che nella sua mente stava già calcolando i carichi di carburante,
visualizzando i profili terrestri, pensando alle batterie contraeree.
« Avete altre informazioni, a livello topografico? »
« Stavo per farti la stessa domanda », ribattei.
«No, soltanto una bella merda. Se non riusciamo a lasciarvi proprio in quel posto
lì, dove vorreste andare? »
« Dipende da dove sei in grado di portarci. »
Il pilota ci avrebbe mostrato tutti i possibili punti dove farci scendere e
raccoglierci, anche se non aveva la minima idea della missione che dovevamo
compiere. Noi ci saremmo fidati ciecamente della sua capacità di giudizio:
saremmo stati semplici passeggeri.
Se ne andò e noi ci prendemmo un'altra pausa prima di affrontare la parte più
spinosa: come attaccare le linee di terra e gli Scud.
Volevamo mettere a punto un sistema per infliggere il massimo danno con il
minimo sforzo. Con un po' di fortuna, i cavi sarebbero stati disposti lungo la
strada e ogni dieci chilometri circa ci sarebbero state botole di ispezione. Non
sapevamo se all'interno delle botole avremmo trovato un sistema di segnalazione
ausiliaria o cos'altro. Ma Stan ipotizzò che, per una questione di economia nella
posa dei cavi, era anche possibile che esistesse una linea interna telefonica
terrestre.
Altre domande per Bert. I coperchi delle botole avrebbero avuto lucchetti?
Avrebbero avuto sistemi di protezione e, in tal caso, saremmo stati in grado di
eliminarli? E, in caso contrario, avremmo dovuto cominciare a scavare per cercare
la linea telefonica vera e propria? Era possibile che fossero inseriti nel cemento,
nell'acciaio o in altri sistemi di protezione? In tal caso, avremmo dovuto portarci
una carica cava per forare l'acciaio. Forse le botole erano inondate d'acqua per
impedire un attacco? Paradossalmente questo sarebbe stato un vantaggio, perché
l'acqua fa da tampone, aumentando la forza della detonazione.
Stabilimmo che, a seconda del tipo di terreno, avremmo praticato una serie di
quattro, cinque o sei tagli lungo il cavo, e ciascuno sarebbe stato programmato per
saltare in aria in momenti diversi nell'arco di alcuni giorni. Avremmo posato tutte
le cariche in una notte e ne avremmo fatta partire una, diciamo, la sera presto del
giorno successivo. Questo ci avrebbe lasciato un'intera notte durante la quale,
nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato impossibile ripararla, o quanto meno le
riparazioni sarebbero state rallentate: gli addetti alla riparazione sarebbero arrivati
alle prime luci dell'alba. Alla fine avrebbero scoperto dove erano stati fatti i tagli e
avrebbero mandato una squadra a ripararli. A questo punto, potendo, ci conveniva
provocare un incidente ai tecnici, riducendo in tal modo le possibilità degli
iracheni di eseguire le riparazioni. Mark se ne uscì con l'idea di mettere delle
Elsie, piccole mine antiuomo che funzionano a pressione. Quando ci posi il piede
sopra esplodono.
Se tutto fosse andato secondo i piani, la prima carica avrebbe aperto il taglio e
quando fossero arrivati per ripararlo, presumibilmente alle prime luci dell'alba, un
tecnico o una guardia avrebbe perso un piede su una Elsie. La sera successiva
sarebbe saltata la numero due, ma stavolta avremmo messo la carica senza Elsie.
Tuttavia, chi fosse arrivato sarebbe stato molto cauto, avrebbe impiegato molto
tempo o magari avrebbe anche rifiutato di fare il lavoro. Il giorno seguente ne
sarebbe saltata un'altra, e stavolta avremmo messo le Elsie. Forse sarebbero stati
più fiduciosi e sarebbero stati colpiti di nuovo. Il solo problema era che non
potevamo nascondere le Elsie troppo vicino al punto che facevamo saltare,
altrimenti l'esplosione avrebbe potuto spostarle o renderle visibili.
Nella peggiore delle ipotesi, avremmo reso inservibile il cavo in sei giorni. Nella
migliore, avremmo potuto distruggerlo definitivamente dopo il primo giorno. La
pensata di Mark era brillante, per cui aggiungemmo alla lista
dell'equipaggiamento due scatole di Elsie, ventiquattro mine in tutto.
Nel complesso avremmo fatto il maggior numero possibile di tagli con il
materiale e il tempo a nostra disposizione. Era verosimile che dovessimo fare dei
tagli anche a venti chilometri di distanza l'uno dall'altro, e in questo caso ci
sarebbero volute due notti. Speravo che non avremmo dovuto far saltare le botole
per accedere ai cavi, perché se gli iracheni avessero controllato gli altri coperchi
sicuramente avrebbero trovato le altre bombe.
Per prevenire questo pericolo, avremmo piazzato su tutti i timer un sistema
antimanomissione: un interruttore o un dispositivo a molla che, se sollevato,
sarebbe saltato con la carica.
Cominciavo a sentirmi stanco. Era ora di fare una pausa, altrimenti avremmo
iniziato a commettere errori. Se lo elabori troppo in fretta, il piano diventa
raffazzonato.
Bevemmo qualcosa e stendemmo le gambe prima di pensare a come distruggere
gli Scud.
Lungo circa undici metri e largo novanta centimetri, lo Scud di fabbricazione
sovietica B SS-1C ha una portata di 160-240 chilometri. Viene trasportato e
sparato da una rampa di lancio mobile montata su otto ruote. Gli equipaggi sono
addestrati a operare da punti di massima copertura. Gli Scud non sono molto
precisi: sono stati progettati per colpire i luoghi di grande accantonamento, le
stazioni di smistamento e gli aeroporti. In definitiva, sono stati concepiti come
armi psicologiche. Oltre a testate convenzionali ad alto potenziale, possono
portare testate chimiche, nucleari e biologiche.
Quando le nostre divisioni corazzate furono mandate in Arabia, circolò la voce
che la signora Thatcher aveva dato istruzioni ai generali di ricorrere all'atomica se
Saddam Hussein avesse usato contro le forze britanniche le armi chimiche. Nella
mia vita non avevo mai pensato che mi sarei potuto trovare di fronte a esse.
Nessuno sano di mente le utilizzerebbe, ma c'era un uomo che lo aveva fatto
contro l'Iran e contro la propria gente e, qualora se ne fosse presentata la
necessità, lo avrebbe certamente rifatto in questa guerra. ,' « Ci sono forse da
quindici a venti rampe di lancio mobili, ma molti più missili », ci informò Bert. «
Vi potete aspettare che una rampa di lancio mobile sia accompagnata da un
veicolo di comando come un Land Cruiser con il comandante e/o il topografo a
bordo. Nella stessa rampa di lancio mobile ci sarà l'equipaggio: due davanti, e gli
altri operatori dietro. Il posto di comando della rampa di lancio è al centro del
veicolo, l'entrata è una porta sul fianco sinistro. Può esserci un'unità di fanteria di
supporto, ma non sappiamo di quanti uomini sia composta, né se è possibile che
ci siano parecchie rampe di lancio incolonnate insieme oppure se operino
individualmente. »
Fu subito chiaro che il topografo era la figura più importante per il lancio di uno
Scud. Quando il veicolo di trasporto arrivava in un luogo deciso all'ultimo
momento, c'era un intervallo di circa un'ora prima che lo Scud potesse essere
lanciato. Il tempo trascorreva in un accurato sopralluogo del posto, con la ricerca
radar di palloni sonda nell'atmosfera, calcolandoli come fattori dell'angolo di
deflessione e infine immettendo il propellente.
C'erano anche un paio di aiutanti tecnici, il comandante della batteria e gli
operatori del centro di controllo che registravano le coordinate. Questo significava
che per rendere il lancio totalmente impossibile era necessario uccidere almeno
tre persone. Tuttavia, il personale poteva essere rimpiazzato: quindi dovevamo «
lavorarci » anche lo Scud.
Come lo avremmo distrutto? Gli attacchi aerei vanno benissimo, ma sapevamo
che gli iracheni avevano un'eccellente capacità di rilevamento radio e dovevamo
presupporre l'ipotesi peggiore, cioè che le loro attrezzature di rilevamento radio
fossero intatte. Esse funzionavano tramite una serie di ecogoniometri sparsi nel
Paese che trasmettevano un rilevamento alla fonte di un segnale radio. Bastavano
due soli rilevamenti per indicare una posizione; a quel punto, per loro, prenderci
sarebbe stato molto facile, specialmente se eravamo appiedati. E richiedere un
attacco aereo avrebbe significato per noi uscire allo scoperto.
Avremmo chiamato gli aerei solo se gli iracheni ci avessero fatto un'offerta che
non potevamo rifiutare, per esempio un convoglio di tutti gli Scud esistenti al
mondo. A quel punto avremmo chiamato via radio rischiando di farci localizzare
dal rilevamento con ecogoniometri. Dovevamo comunque presumere che loro
conoscessero la nostra posizione già dal fatto che l'attacco aereo era stato guidato.
Se avessimo attaccato direttamente il missile, c'erano pericoli dipendenti dalla
testata. Non avremmo saputo se era chimica, biologica, nucleare o convenzionale,
e non volevamo dover prendere la precauzione di attaccare con le tute anti-NBC,
perché per indossarle ci vuole tempo e rallentano enormemente l'operazione.
Anche il carburante era un problema, in quanto altamente tossico.
La rampa di lancio mobile stessa sarebbe stata un obiettivo migliore, perché senza
di essa il missile non si poteva lanciare.
« Possiamo sabotarla? » chiese Bob.
«Probabilmente sì, ma non sappiamo quanto facilmente si possa riparare »,
rispose Dinger. « E comunque è troppo vicina al missile. »
« Che cosa ne dite del sistema di guida che deve essere installato sui razzi? » disse
Chris.
Più ci pensavamo, più ci pareva sensato compiere un attacco diretto per
distruggere la stazione di controllo al centro del veicolo.
« Potremmo piazzarci una carica che manderebbe tutto a farsi fottere eliminando
tutti i nostri problemi», suggerì Vince. «La rampa di lancio mobile deve essere
protetta contro lo scoppio dei razzi... abbastanza da impedire alla nostra carica di
mettere fuori uso il missile. »
Sapevamo che cosa attaccare, ma come farlo? Alla fine decidemmo che quando
avessimo visto lanciare uno Scud - il che non sarebbe stato difficile, dato che il
terreno era piatto come un biliardo - avremmo fatto un rilevamento e lo avremmo
trovato.
Speravamo che, distruggendo le linee telefoniche, i lanci non sarebbero comunque
avvenuti.
Conoscevamo i punti vulnerabili. Sapevamo che non avremmo avuto problemi a
trovare gli Scud. Ci saremmo portati nella zona, avremmo individuato la zona di
lancio e organizzato un sopralluogo vicino all'obiettivo per scoprire quante truppe
c'erano, quante rampe di lancio rimanevano e dov'erano le sentinelle.
Con un classico sopralluogo avremmo probabilmente trovato lo Scud, quindi
saremmo ritornati indietro e ci saremmo fermati a un punto d'incontro finale
distante circa millecinquecento metri, in ogni modo tenendo conto del terreno. Da
lì quattro ragazzi sarebbero partiti per una ricognizione a 360 gradi intorno alla
posizione stessa, alla ricerca dei punti vulnerabili. Successivamente due di noi
sarebbero tornati indietro per completare l'informazione. Infine ci saremmo ritirati
al punto d'incontro finale. Avrei dovuto impartire rapide istruzioni riguardo al
sopralluogo vicino all'obiettivo: come lo avremmo effettuato, come ci saremmo
arrivati, da quale direzione saremmo tornati indietro, qual era il segnale di
riconoscimento mentre rientravamo al punto d'incontro finale.
Per evitare confusioni, si rientra sempre seguendo la stessa direttrice percorsa
all'andata. Il mio segnale normale di riconoscimento era camminare con le braccia
allargate come un crocifisso, l'arma nella mano destra. Altre pattuglie usano segni
diversi.
Lo scopo è duplice: evitare rumori e poter essere facilmente identificati. I punti
d'incontro finale devono trovarsi in una zona facilmente identifìcabile e
difendibile, perché tornarci nel buio pesto non è facile come sembra. Di ritorno al
punto d'incontro finale avrei preparato mentalmente un rapido elenco di ordini per
l'attacco e quindi comunicato a tutti qual era il bersaglio.
Finché non ci fossimo effettivamente trovati sul posto, dovevamo lavorare
sull'ipotesi che avremmo avuto almeno tre « contatti », cioè ucciso il topografo, il
comandante del centro di controllo e gli operatori con armi munite di silenziatore.
Un uomo cade sempre se gli piazzi una pallottola nella sua T corporea (quella
composta dalla linea che va da una tempia all'altra lungo le sopracciglia e dalla
linea che scende al centro della faccia, dall'attaccatura del naso alla base dello
sterno). Spara un colpo in qualsiasi punto della T e il tuo uomo andrà sempre giù.
Deve essere fatto da vicino, devi praticamente stargli addosso. Si attacca da una
linea di partenza e si continua a procedere fino a che lui si volta: quindi si deve
essere molto rapidi. Non si può esitare. E' tutta una questione di velocità pura,
aggressione e sorpresa. '! ' "' ' Questo in teoria. Vince si era portato dalla Gran
Bretagna una pistola con il silenziatore, ma poi erano venuti quelli di un'altra
squadra a supplicarlo di prestargliela per una missione, e non ne avevamo più. Lo
squadrone D era arrivato in Arabia prima di noi, e nei negozi era scoppiata la «
sindrome del kit scintillante ». Si erano accaparrati tutto quello che sembrava
avere un minimo interesse, e gli altri quattro si sarebbero infiltrati nell'area dello
Scud. Avremmo fatto fuori anzitutto il topografo, poi i tizi seduti o addormentati
sulla rampa di lancio mobile; poi avremmo piazzato una carica di esplosivo al
plastico PE4. Prevedevo che sarebbe stato necessario circa un chilo di esplosivo
con un timer a due ore all'interno della rampa di lancio. Avremmo chiuso bene la
porta e la carica sarebbe scoppiata quando noi saremmo stati già lontani.
Dovevamo collocare un dispositivo antimanomissione anche sul plastico,
cosicché se lo avessero scoperto e avessero tentato di neutralizzarlo sarebbe
scoppiato.
Avremmo installato un dispositivo di sicurezza anche sulla carica: un interruttore
a maniglia, che avrebbe attivato una miccia con spoletta di sicurezza, la quale a
sua volta dopo circa sessanta secondi avrebbe innescato il detonatore. Così, se i
cazzi si fossero fatti acidi, potevamo solo piazzare la carica e scappare. Ci
sarebbero state tre diverse attivazioni della carica, sufficienti - si sperava - per
tutte le eventualità: il dispositivo a tempo, il sistema antimanomissione e
l'interruttore a scatto, a pulsante o a strappo - il migliore -, più un dispositivo di
sicurezza.
Erano le 16.00. Intorno a me una o due facce cominciavano a sembrarmi stanche,
e probabilmente nemmeno io ero fresco come una rosa. Avevamo davvero
galoppato. Adesso sapevamo come avremmo compiuto la missione, fin nei
dettagli operativi. In caso di contatto, i quattro uomini di appoggio avrebbero
dovuto garantire il fuoco di copertura per permettere al gruppo d'attacco, [se
possibile, di completare l'azione e disimpegnarsi. I quattro uomini del gruppo
d'attacco avevano il compito di aiutarsi a vicenda e tentare di completare la
neutralizzazione del bersaglio usando il dispositivo di danneggiamento. In un
modo o nell'altro avrebbero poi dovuto raggiungere il punto d'incontro di
emergenza e riunirsi, per spostarsi infine al punto d'incontro della pattuglia e
ricongiungersi alla squadra di appoggio.
Naturalmente non avremmo saputo se questi piani erano realizzabili finché non li
avessimo effettivamente messi in pratica sul terreno. Potevano anche esserci
quattro rampe di lancio mobili, il che avrebbe creato problemi di sicurezza, in
quanto ci sarebbero stati molti più obiettivi. O magari poteva essercene una sola,
ma impossibile da attaccare, nel qual caso avremmo dovuto colpirla da lontano,
ma senza sacrificare la pattuglia per un unico obiettivo. Se fossimo stati coinvolti
in uno scontro a fuoco non avremmo potuto agire direttamente, ma per cercare di
distruggere l'obiettivo avremmo usato i 66. Un attacco del genere deve essere
breve e violento, ma compierlo o no era una decisione che poteva essere presa
soltanto sul posto. Solo quando si è di fronte a un problema reale si possono fare
le scelte e agire di conseguenza.
Se fosse stato possibile, avremmo sempre cercato di attaccare sotto copertura.
La terza opzione era un attacco aereo. Decidere tra lo scontro diretto e l'attacco
aereo era una questione molto delicata, che dipendeva sostanzialmente dal
numero degli obiettivi e dei difensori. Entrambe le opzioni comunque avrebbero
segnalato la nostra presenza nella zona. Sarebbe stato accettabile venire scoperti
se i numeri fossero stati abbastanza alti, ma se fossimo riusciti a tagliare le linee
telefoniche non ci sarebbe stato bisogno di nulla di tutto ciò.
A questo punto il posto puzzava di sudore, scoregge e sigarette. C'erano pezzi di
carta dappertutto, con sagome di Scud, omini disegnati col fiammifero e schemi
dei movimenti del gruppo di appoggio. La pianificazione è sempre esauriente, ma
solo perché noi vogliamo studiare tutto fin nei minimi particolari. Quando
fossimo arrivati alla porta della rampa di lancio mobile e avessimo trovato la
porta chiusa, dove stava la maniglia? Come funzionava? Da che parte si apriva la
porta, verso l'interno o verso l'esterno? Era una porta a soffietto? Aveva i cardini
in alto? Sarebbe stata chiusa con un lucchetto come nella maggioranza dei mezzi
corazzati? Che cosa avremmo fatto allora? Non lo sapevamo, quindi studiavamo
le varie possibilità, cercando di risolvere i pròblemi. Particolari, particolari,
particolari. Sono determinanti. Magari spingi una porta quando invece dovresti
tirarla. Trascurare i dettagli secondari significa far si che la missione vada a farsi
fottere.
Ci accingemmo a pensare all'equipaggiamento necessario per portare a
compimento i nostri piani.
Si può distruggere una centrale elettrica con una carica cava di un chilo di
esplosivo, se la si colloca nel posto giusto; non è necessario far saltare in aria tutto
l'impianto. Si può ottenere il risultato con una carica piccola e studiata
espressamente, perché si conosce il punto vulnerabile. Nel caso degli Scud
conoscevamo i punti vulnerabili, ma non eravamo certi di come raggiungerli. Io
ero propenso a portare solo cariche di plastico - ciascuna di un chilo circa -
piuttosto che ordigni speciali, perché magari avremmo dovuto usare l'esplosivo
altrimenti, e allora le cariche speciali sarebbero state inutili. Ancora una volta,
avremmo avuto i ragguagli indispensabili solo sul posto.
Avremmo usato l'esplosivo PE4, miccia a lenta combustione, accenditori a
dinamo, detonatori elettrici e semplici, timer e micce detonanti. Non si mette il
detonatore direttamente nell'esplosivo al plastico come si vede nei film. Tra il
detonatore e l'esplosivo bisogna piazzare la miccia detonante. Avremmo preparato
queste cariche in anticipo e appena prima dell'attacco le avremmo collegate ai
detonatori e ai timer.
Vince e Bob scomparvero per andare a preparare questi aggeggi, e ritornarono un
quarto d'ora dopo.
« E' tutto sistemato », annunciò Vince. « Sta tutto sotto il tuo letto. »
A questo punto tutti gli elementi principali erano stati esaminati.
Saremmo andati a piedi, portandoci dietro tutto quanto: quindi avevamo bisogno
di una zona per nasconderci, che sarebbe stata il nostro punto di sosta. In teoria
quest'ultimo avrebbe fornito copertura contro gli spari e gli avvistamenti, perché
l'avremmo sempre sorvegliato. E' molto pericoloso lasciare l'equipaggiamento e
poi tornare indietro - anche se a volte è necessario - perché, se scoperto, potrebbe
servire per un'imboscata o per nasconderci una bomba. Avremmo operato da una
base di pattuglia. Muovendoci nell'area, avremmo anche potuto trovare un posto
migliore per il punto di sosta, nel qual caso avremmo spostato l'attrezzatura con il
favore delle tenebre.
A quel punto passammo a studiare il piano di fuga. Saremmo stati a trecento
chilometri dall'Arabia Saudita, ma solo a centoventi dai paesi confinanti. Alcuni
facevano parte della coalizione, quindi in teoria sarebbero state destinazioni
perfette.
« Come sono i confini? » domandò Vince a Bert.
«Non ne sono del tutto certo. Potrebbero essere come il confine con l'Arabia, una
strettoia per carri armati e basta. Però potrebbero anche essere superdifesi. In tutti
i modi, se passate un confine per qualunque ragione, assicuratevi che loro non
pensino che siete israeliani; Israele non è poi cosi lontana. »
« Giusto, Bert », osservò Stan, accennando in direzione di Bob con un sorriso. «
Ma non ho intenzione di passare nessun confine in compagnia di questo tizio con
la faccia da marocchino. »
Certamente Bob aveva un'aria molto nordafricana, con i capelli neri e ricci e un
bel nasone.
« Si, perché invece c'è qualcuno che vorrebbe passare di là con Zorro? » Bob
indicò il grande naso di Mark.
Tutto stava andando a meraviglia. E' quando le persone smettono di scherzare e
cominciano a scambiarsi gentilezze che è il caso di preoccuparsi.
« Come sarà il terreno lassù? » chiese Mark.
« Molto uniforme. Essenzialmente piatto, ma i pianori ci sono soprattutto verso la
zona di Krabilah e il confine. Quanto più si va a ovest, tanto più il terreno sale. »
«E l'Eufrate, com'è?» domandò Dinger. «Ci si può nuotare?»
« In certi punti è largo un chilometro, con delle isolette in mezzo. In questo
periodo dell'anno l'acqua sarà molto alta. Tutto attorno c'è vegetazione, e dove c'è
vegetazione, c'è acqua; e dove c'è acqua, c'è gente. Quindi ci saranno sempre
insediamenti attorno al fiume. E' piuttosto verde e lussureggiante... in effetti, se vi
ricordate la Bibbia, era il paese di Adamo ed E'va. »
Verificammo le varie possibilità. Se fossimo stati bruciati, ci saremmo diretti
verso sud o verso nord-ovest? Avremmo avuto molti problemi ad attraversare
qualsiasi confine, ma anche andando verso sud non sarebbe stata una passeggiata.
Avrebbero immaginato che saremmo andati in quella direzione, e c'era un fottio di
strada da fare.
Dinger innescò la sua migliore voce da vecchietto western.
« Va' a ovest, ragazzo, va' a ovest. »
« No, che stronzata », obiettò Chris, « di là è pieno di beduini.
Se dobbiamo scappare, andiamo in qualche posto che sia un po' carino. Che so, in
Turchia. Ci sono stato una volta in vacanza. E' mica male. Se arriviamo a Istanbul
c'è un posto che si chiama Pudding Club, dove si incontrano tutti i viaggiatori
internazionali e si lasciano messaggi. Potremmo lasciare un messaggio per la
squadra di ricerca e salvataggio, e poi, mentre aspettiamo che ci vengano a
recuperare, andare in giro a far casino. Non mi sembra una cattiva idea. »
«Bert, che genere di comitato di accoglienza troveremmo se andassimo da altre
parti? » domandò Legs. « Non avete ancora informazioni dai piloti abbattuti? »
« Verificherò. »
«A meno che non ce lo ordinino, noi non andremo a sud, Bert», dissi io.
Finché si può si cerca sempre di restare uniti in squadra: perché è meglio per il
morale e per il potenziale offensivo, e le possibilità di fuga sono maggiori che da
soli. Ma se la pattuglia fosse stata divisa, il vantaggio di scegliere di andare a nord
era che potevi essere il peggior navigatore del mondo e riuscivi comunque a
trovare la strada giusta. Vai verso nord finché incontri il fiume, poi gira a sinistra
verso ovest. Ma anche se fossimo riusciti ad attraversare il confine, non potevamo
giurare di trovarci su terreno sicuro. Non c'erano informazioni che ce ne dessero
la certezza.
La cosa di cui avevamo terrore era essere catturati. Per quanto ne sapevo io, gli
iracheni non erano firmatari né della convenzione di Ginevra né di quella dell'Aia.
Tutti avevamo letto i rapporti sulle atrocità che avevano commesso negli
interrogatori durante la guerra contro l'Iran. I loro prigionieri erano stati frustati,
sottoposti a scariche elettriche e parzialmente squartati. Temevo molto che, se
fossimo stati catturati e avessimo dato solo le quattro generalità - matricola,
grado, nome e data di nascita -, gli iracheni non si sarebbero accontentati e ci
avrebbero chiesto di più, magari con i metodi terrificanti già usati in precedenza.
Quindi decisi (senza dirlo ai miei superiori) che, contrariamente alle convenzioni
militari, la pattuglia avrebbe dovuto inventarsi una storia di copertura. Ma quale?
Che fossimo una forza d'attacco era evidente. Saremmo stati mollati nella parte
nord-occidentale dell'Iraq con una quantità impressionante di munizioni,
esplosivi, acqua e cibo. Non ci voleva un cervello raffinato per capire che non
facevamo parte della Croce Rossa.
La sola idea che riuscimmo a tirar fuori era che eravamo una squadra di
salvataggio e ricerca. Queste squadre arrivavano a frotte, specialmente quando gli
americani stavano cercando uno dei loro piloti abbattuti. I piloti avevano il
TACBE (tactìcal beacon), un radiofaro tattico che trasmetteva sulla frequenza
internazionale di richiesta di aiuto che gli AWACS (Airborne Warning And
Contral System, «aereo-radar») ascoltavano continuamente e registravano.
Naturalmente ascoltavano anche tutti gli altri, compresi gli iracheni. Gli AWACS
avrebbero individuato il pilota dal suo radiofaro e avrebbero riferito il messaggio.
A quel punto veniva allestita una squadra di ricerca e soccorso, che si imbarcava
su un elicottero insieme a un gruppo di otto-dieci uomini pronti a fornire
copertura dall'aria con mitragliatrici. La squadra poteva essere raggiunta anche da
un paio di elicotteri d'attacco Apache che garantivano la copertura in modo che
l'elicottero più grande potesse scendere e caricare il pilota. In caso di necessità era
inoltre possibile avere la copertura aerea, cioè un paio di cacciabombardieri A-10
per aumentare la potenza di fuoco dal cielo. Si attribuiva la massima importanza
alla capacità di andare a prendere i ragazzi, bisognava riuscirci a tutti i costi.
Perciò, tu sapevi che, se fossi finito nella merda, avrebbero fatto di tutto per
venire a salvarti: specialmente se eri un pilota. Questa è un'ottima cosa per il
morale e per l'efficienza in volo... e, a parte il resto, c'è un aspetto puramente
finanziario: ogni singolo pilota è costato milioni di sterline in addestramento.
Gli iracheni sapevano di queste squadre di ricerca e soccorso, e sapevano anche
che all'interno dell'elicottero di salvataggio c'è una squadra di medici che deve
occuparsi di eventuali feriti.
Noi eravamo nel numero giusto ed eravamo vestiti più o meno allo stesso modo.
Contrariamente a quanto di solito si crede, non andiamo in giro come ci pare e
piace. Qualche forma di riconoscimento, in modo che le nostre truppe ci possano
identificare, è necessaria. Nessuno vuole essere ammazzato dai suoi: sarebbe
molto poco professionale. Così, per questo tipo di operazioni, ci si veste più o
meno da soldati.
Dato che trasportavamo del normale PE4, avremmo potuto dichiarare che era per
proteggere noi stessi, e che qualche volta dovevamo allestire un punto d'incontro,
mentre gli AWACS ci spiegavano dove si trovava il pilota abbattuto. In un caso
del genere dovevamo garantirci una protezione locale. « Ci hanno dato tutta
questa roba », avremmo spiegato, « ma in realtà non abbiamo la più pallida idea
di come usarla. »
Tutti avevamo una certa esperienza medica. Gli appartenenti al Reggimento
vengono addestrati ad alti livelli. Chris era il sanitario della pattuglia, e perciò era
stato parzialmente addestrato nel servizio sanitario nazionale. Poi Stan,
naturalmente, aveva la laurea in medicina e un anno di esperienza clinica. Le
squadre di ricerca e soccorso generalmente hanno a che fare con feriti, e gente
come noi poteva tranquillamente farne parte.
Il radiofaro tattico sarebbe stato un elemento della storia che avremmo raccontato,
ma sotto sotto sapevamo che non avrebbe retto a lungo, specialmente se fossimo
stati catturati con l'attrezzatura nascosta. Sapevamo che, mentendo, avremmo
guadagnato non più di due o tre giorni, ma sarebbero stati sufficienti perché le
superiori autorità valutassero il danno che potevamo arrecare alla sicurezza delle
operazioni. Che cosa sanno? avrebbe chiesto il nostro comando. E come possono
compromettere le operazioni future? Avrebbero dovuto presumere che avremmo
rivelato tutto ciò che sapevamo. Ecco perché ci viene sempre detto solo ciò che
dobbiamo sapere, per il bene di noi stessi e di tutti gli altri.
Erano quasi le sei, l'ora di fare un'altra pausa. Ormai la stanza puzzava da far
senso, e sui nostri volti leggevamo i segni della tensione. Uscimmo, ci facemmo
una risata e, tanto per cambiare, ci sedemmo tutti assieme. Normalmente uno
sarebbe andato in giro con gli amici a farsi gli affari suoi.
« Ero depresso perché la sera prima di partire ho guardato Apocalypse Now alla
televisione», osservò Vince mescolando il caffè.
«Anch'io», disse Mark. «Ma non c'era altro da fare. I pub erano tutti chiusi. »
La maggior parte di noi aveva sperimentato la stessa depressione nelle prime ore
del mattino, ed eravamo semplicemente rimasti seduti ad aspettare l'ora. Jilly e io
avevamo passato la giornata e la notte precedenti in un silenzio carico di tensione.
Solo Bob aveva trascorso la vigilia in modo del tutto diverso, a dimenarsi tutta la
notte al club: malamente come al solito, c'era da scommetterci.
Parlammo della qualità della missione e di quanto eravamo ansiosi di arrivare sul
posto, ma l'entusiasmo era un po' rovinato dal pensiero di quanto saremmo stati
isolati. Sapevamo che era rischioso, ma non era la prima volta, e nemmeno
l'ultima: dopo tutto, ci pagavano per questo.
Riempimmo le nostre borracce per la sessione seguente.
Mentre riassumevo le dodici ore di pianificazione, l'umore generale era più
sollevato.
«Bene. Arriviamo sul posto con un Chinook in un punto di sbarco situato venti
chilometri a sud della strada principale, poi marciamo una notte, forse due (a
seconda del terreno e della popolazione), fino al punto di sosta. Da lì faremo una
ricognizione per localizzare la linea di terra. Questa ricerca potrebbe richiedere
due o tre notti, lo sapremo soltanto sul posto. All'inizio ci preoccuperemo di
trovare le linee telefoniche, ma contemporaneamente appronteremo un punto di
osservazione sulla strada principale per sorvegliare i movimenti degli Scud. Se
vediamo tutti gli Scud possibili e immaginabili transitare sulla strada, ci fermiamo
e chiediamo un attacco aereo. Se vediamo il lancio di uno Scud, facciamo un
rilevamento, lo localizziamo, facciamo una ricognizione e poi organizziamo
l'attacco strategico. Quindi si rientra al punto di sosta e continuiamo la missione.
Tutto questo è molto flessibile finché arriveremo sul posto. Potremmo vedere il
lancio di uno Scud fin dalla prima notte che arriviamo.
Ma non faremo niente finché non ci troveremo nel punto di sosta.
Non serve un cazzo mettersi a gridare « banzai » e farci pigliare a calci nel culo
solo per un po' di spavalderia e un unico Scud.
Meglio prendere tempo e fare più danno. Così decideremo con calma: poi si va, e
allora daremo il massimo. Dopo quattordici giorni ce ne andremo verso un punto
di raccolta prefissato con l'equipaggio dell'aereo nel momento in cui ci lasciano a
terra, oppure daremo un punto d'incontro con il nostro rapporto sulla situazione.
Arriveranno a rifornirci e a rispedirci indietro, oppure ci riporteranno a casa per
affidarci un'altra missione. Tutto molto semplice, davvero. »
Tutto qui. Si devono spiegare le cose più semplici nel modo più semplice, così c'è
meno roba da scordare e meno roba che può andare storta. Se un piano ha molte
sfaccettature e dipende da un'organizzazione precisa al secondo - cosa che a volte
succede -, è molto più probabile che salti. Molti piani, naturalmente, sono ben
poco elastici, ma comunque si deve sempre cercare di mantenerli semplici.
Mantienilo semplice e lo mantieni sicuro.
Avevamo una radio per comunicare con la base aerea avanzata in Arabia Saudita.
Era improbabile che ci fosse posto per i pezzi di ricambio, a causa del peso.
Averne una sola non sarebbe stato un problema, perché avremmo lavorato in
un'unica pattuglia.
Avevamo anche quattro radiofari tattici; l'ideale sarebbe stato averne uno a testa,
ma non erano disponibili. Sono dispositivi a doppio uso. Permettono di stabilire la
posizione e trasmettono un segnale che può essere raccolto da qualsiasi aereo.
«Ricordo un'unità nel Belize», dissi. «Non erano del Reggimento, ma si stavano
addestrando nella giungla, ed erano appunto dotati di radiofaro tattico. Un
ufficiale ripose il suo nel proprio armadietto, poi lo mise in funzione e partì.
Alcuni aerei da trasporto stavano ascoltando alla radio, e si misero tutti a correre.
Ci vollero due giorni prima che scoprissero il radiofaro nell'armadietto. »
« Testa di cazzo. »
Lo piazzi su un'altra frequenza e lo puoi usare come una radio normale, parlando
entro un raggio limitato con un aereo. Puoi anche usarlo per comunicare a terra
con un'altra squadra, ma il collegamento deve essere a vista, e ha una portata
limitata. La sua funzione principale, tuttavia, sarebbe stata di parlare con gli
AWACS se fossimo finiti nei guai. Fummo informati che gli AWACS ci
avrebbero garantito ventiquattro ore di copertura e avrebbero risposto a una
chiamata entro quindici secondi. Era confortante sapere che qualcuno ci avrebbe
risposto subito, con quella bella voce tranquilla e gentile che usano sempre gli
AWACS con i piloti che mandano richieste di aiuto. Il problema era che il
radiofaro tattico era molto facilmente individuabile. Lo avremmo usato solo in
emergenza, o se tutto fosse andato a puttane nell'attacco aereo.
Avevamo anche un'altra radio che trasmetteva col metodo Simplex, lo stesso
principio del radiofaro tattico ma su una frequenza diversa, e con una portata di
circa un chilometro. Così avremmo potuto parlare con l'elicottero se avessimo
avuto un problema importantissimo, oppure per chiamarlo o dirigerlo verso di noi.
Inoltre la potenza della trasmissione era minima, intercettarla quasi impossibile, e
avremmo potuto usarla con relativa sicurezza.
I principali accessori nella nostra cintura sarebbero stati munizioni, acqua, cibo di
emergenza, kit di sopravvivenza, bende, un coltello e una bussola prismatica
come ricambio della bussola Silva e per fare i rilevamenti sul terreno. Acqua e
munizioni: queste sono sempre le prime cose cui pensare. Tutto il resto
dell'attrezzatura è secondario, quindi i generi di conforto personali sarebbero stati
gli ultimi a essere caricati, e solo se avanzava posto. Il kit di sopravvivenza deve
sempre adattarsi alla scena della missione, quindi togliemmo le lenze da pesca,
ma tenemmo l'eliografo, la minisega e la lente di ingrandimento per accendere il
fuoco. Portavamo anche un kit di pronto soccorso che consisteva in fili da sutura,
analgesici, reidratanti, antibiotici, bisturi, flebo e strumenti per somministrarli. La
procedura operativa standard prevede di portare le due fialette di morfina intorno
al collo, così tutti sanno dove sono. Se devi somministrare morfina, dovrai usare
sempre quella del ferito, non la tua: potresti averne bisogno dopo pochi minuti.
Avremmo lasciato a casa i sacchi a pelo, a causa dell'ingombro e del peso, e poi il
tempo non sarebbe stato troppo terribile. Io portai un completo leggero di Gore-
Tex, tutti gli altri optarono per un poncho o una coperta. Presi anche il mio
vecchio berretto di lana, perché dalla testa si perde molto calore corporeo. Quando
dormo me lo tiro sopra la faccia, il che ha l'ulteriore vantaggio di darti la
piacevole sensazione di stare sotto le coperte.
Nei nostri zaini trasportavamo esplosivi, batterie di ricambio per la radio di
pattuglia, altri preparati per endovenose e set di idratazione, acqua e cibo. Bob fu
scelto per trasportare il bugliolo, un contenitore di plastica da circa quattro litri.
Quando fosse stato pieno, uno di noi lo avrebbe portato fra i cespugli a un paio di
chilometri di distanza mentre eravamo in pattuglia; avrebbe spostato una pietra o
scavato una buca, e lo avrebbe svuotato risistemando la pietra o il terriccio.
Questo avrebbe evitato che ci scoprissero per l'odore, che si avvicinassero animali
o fossimo perseguitati dagli insetti.
Assegnai varie altre mansioni.
« Chris, tu ti occupi del kit di pronto soccorso. » . , ' Questo significava
procurare articoli sanitari per le ferite, compreso un set completo per endovenose
e indumenti da campo per tutti.
« Legs si occuperà della radio. »
Sapevo che Legs, fra l'altro, si sarebbe assicurato che avessimo antenne di
ricambio per la radio di pattuglia, in modo che, se fossimo stati visti mentre
l'antenna era fuori, l'avremmo semplicemente abbandonata e ce ne saremmo
andati. Tanto saremmo stati in grado di comunicare usando l'antenna di ricambio.
Avrebbe anche controllato che tutto fosse dotato di una batteria nuova, che
avessimo le batterie di ricambio e che ogni cosa funzionasse alla perfezione.
«Vince e Bob... voi potete occuparvi degli esplosivi?»
Avrebbero tolto il plastico dal suo involucro e lo avrebbero avvolto nel nastro
mimetico per mantenerlo in forma. Questo avrebbe evitato il rumore dello
spacchettamento sul posto o il rischio di farci scoprire lasciandone i resti alle
spalle. « Se il nemico vede anche un solo fiammifero consumato sul terreno
davanti a lui, sa dove ti trovi», ci aveva spiegato l'istruttore del mio corso di
sopravvivenza e combattimento. « E quando se lo trova alle spalle, sa che sei delle
Forze Speciali. »
« Mark, tu puoi occuparti del cibo e dei bidoni. »
Il neozelandese avrebbe ritirato dai magazzini razioni per otto uomini per
quattordici giorni. Le apri e prendi una dose da metterti nella cintura per farti
l'infuso. Io la carta igienica la butto via, perché in azione cago accovacciato e
quindi non ne ho bisogno. Ma tutti tengono il sacchetto di plastica per cagarci
dentro.
Dopo l'uso si fa un semplice nodo e si ficca ogni cosa nello zaino. Tutto deve
restare con te, non puoi lasciare niente, potrebbe rivelare la tua posizione, vecchia
e nuova. Se uno si limita a seppellire la merda, può risvegliare l'interesse degli
animali, e se la scoprono potrebbero analizzarla. Per esempio, se nelle feci
trovano del riso, è facile che si tratti di iracheni; ma i lamponi o il chili indicano
una presenza di occidentali.
Si faceva sempre un gran casino per cambiare i menù. La regola non scritta è che
quello che non ti va lo butti in un bidone e gli altri ragazzi possono scegliere. A
Stan non piaceva lo stufato del Lancashire, ma adorava la bistecca con verdure:
cosi gli cambiammo il contenuto senza che se ne accorgesse. Avremmo
attraversato il confine con una scorta per quattordici giorni del cibo che più
detestava. Era solo uno scherzo: una volta sul posto, avremmo rifatto il cambio.
Avevamo bisogno anche di reti mimetiche per nascondere noi stessi e
l'equipaggiamento.
« Lo farò io », si offrì volontario Dinger.
Avrebbe tagliato dei rotoli di canapa in quadrati da un metro e ottanta. La canapa
nuova di zecca deve essere trattata con olio da motore: la si mette in una pozza
d'olio e si sfrega bene con una spazzola. Poi si rivolta, la si mette nel fango e si
sfrega. Si da una scrollata, si lascia asciugare, ed ecco che sei un pascià, con la tua
rete mimetica personale.
«Tutto deve essere pronto per domani mattina alle 10.00», conclusi.
Dovevamo controllare e verificare, verifìcare e controllare.
Questo non avrebbe impedito che qualcosa andasse male o non funzionasse, ma
almeno diminuiva le probabilità.
Erano quasi le 22.30, e Dinger annunciò che aveva finito le sigarette. ' Presi la
palla al balzo. Avevamo esaminato tutto, e continuare sarebbe stato solo una
perdita di tempo. Mentre se ne andavano, i ragazzi misero tutti i pezzi di carta in
un sacco da bruciare che sarebbe stato distrutto.
Vince e io ci trattenemmo ancora. Dovevamo esaminare le Fasi (il piano di
massima) con il comandante dello squadrone e il maresciallo. Ci avrebbero
bersagliato con una raffica di domande che cominciavano con « e se...? » e il loro
modo diverso di vedere le cose avrebbe potuto farci apparire il tutto sotto una
nuova luce.
Se tutto ci andava di culo, magari ci approvavano anche il piano.
4.
Per tutta la giornata del 20 ciondolammo in attesa che accadesse qualcosa, nella
speranza che si aprisse uno spiraglio.
Controllammo le attrezzature un altro paio di volte e cercammo di metterci un po'
più a nostro agio, nel caso avessimo dovuto aspettare a lungo. Usammo un po' di
rete mimetica: non per questioni tattiche, dato che la base aerea era un posto
sicuro, ma per proteggerci dal vento e avere un po' di ombra durante il giorno.
Ripararsi sotto qualcosa da sempre l'illusione di essere protetti.
Dopo esserci messi comodi, setacciammo l'area con i veicoli leggeri d'assalto e le
Land Rover alla ricerca di qualcosa da prendere. Quel posto era il sogno di un
cleptomane.
Facemmo buoni scambi con gli yankee. Le nostre razioni sono molto superiori a
quelle degli americani, ma anche loro hanno cosucce molto gradevoli, come
bustine di condimento e bottigliette di tabasco, per aggiungere un certo non so che
al manzo e agli ' gnocchi. Un'altra buona cosa della razione degli yankee è il
cucchiaio di plastica resistente. Si può bruciare e fare un forellino sul manico,
metterci uno spago e tenerlo in tasca; un cucchiaio da corsa eccellente, quasi
perfetto.
Visto che i nostri materassi di gommapiuma erano passati a miglior vita durante il
volo abortito, cercammo di impadronirci di alcune comode giacche in dotazione
all'esercito degli Stati Uniti. Gli americani avevano un equipaggiamento che la
metà bastava e, il Padreterno li benedica, erano felici di darti un tettuccio in
cambio di un paio di razioni.
Little America era dall'altra parte della base. Avevano tutto, |dai forni a
microonde alle macchine per fare i bomboloni, ai video di Bart Simpson che
ululavano ventiquattro ore al giorno. E perché no, del resto? Sicuramente gli
yankee sanno combattere una guerra in grande stile. Negli Stati Uniti i ragazzini
delle scuole mandavano ai soldati grandi scatole di mercanzie: disegni fatti da
ragazzini di sei anni con un bravo cristo con la bandiera americana e uno cattivo
con quella irachena e quantità inverosimili di sapone, dentifricio, materiale per
scrivere, pettini e deodoranti. Li lasciavano semplicemente aperti sui tavoli della
mensa, in modo che i militari prendessero tutto quello che volevano. Gli yankee
non avrebbero potuto accoglierci meglio, e noi ci lanciammo dritti a bere un buon
cappuccino schiumoso e fare una festicciola.
Inutile dire che ci portammo via quasi tutto.
Alcuni personaggi erano pazzeschi e divertentissimi, specialmente certi piloti
americani che io scambiai per appartenenti alla Guardia Nazionale. Nella vita
civile erano tutti avvocati e manager di segherie, ragazzoni sui quaranta,
cinquant'anni, coperti di decorazioni, che fumavano sigari enormi e guidavano i
loro Thunderbolt urlando « Ehi, ragazzi » per tutto il cielo. Per alcuni di loro era
la terza guerra. Erano uomini di prim'ordine, e avevano storie incredibili da
raccontare. Ascoltarli era molto istruttivo.
Nei due giorni successivi ripassammo di nuovo il piano. Adesso che avevamo più
tempo, potevamo migliorare qualcosa? Discutemmo, discutemmo, ma alla fine
non cambiammo niente.
Fu un periodo snervante, di pura attesa, come se fossimo corridori e lo starter
fosse andato in trance. Aspettavo con ansia il sollievo di trovarmi sul terreno.
Chiacchierammo con il pilota di un Jaguar il cui aereo era bloccato alla base da
diversi giorni. Nella sua prima uscita, aveva dovuto rientrare per problemi con un
generatore.
« Voglio passare il resto della guerra qui », ci disse, « perché quando tornerò mi
piglieranno per il culo in una maniera da far piangere. »
Ci sentimmo solidali con lui: sapevamo bene di che cosa stava parlando.
Finalmente, il 21, ricevemmo l'okay per partire la notte seguente.
La mattina del 22 ci svegliammo alle prime luci dell'alba. Dinger fumò subito una
sigaretta.
Stan, Dinger, Mark e io eravamo tutti sotto un'unica rete mimetica, circondati da
razioni di ogni tipo e vari generi di scatolame e sacchetti di plastica. In mezzo
c'era il fornelletto per cucinare.
Stan preparò qualcosa di caldo senza avventurarsi fuori del suo sacco a pelo.
Nessuno voleva alzarsi, perché faceva un freddo ca-' ne. Rimanemmo sdraiati a
bere il tè, a sputacchiare e a mangiare un po' di cioccolato delle razioni. Durante
la notte il nostro sonno da belli addormentati era stato rovinato da altri due allarmi
Scud.
Anche se dormivamo sempre con addosso gran parte della nostra attrezzatura, era
una vera rottura di coglioni mettersi gli stivali, il giubbotto da aviatori e l'elmetto
e precipitarci nelle buche. Entrambe le volte dovemmo aspettare solo dieci minuti
dal cessato allarme.
Dinger aprì alcune scatolette di salsicce e fagioli e le fece passare. Tre o quattro
tazze di tè e - nel caso di Dinger - tre sigarette dopo, ci sintonizzammo sulla BBC.
Dovunque ti trovi nel mondo, da loro saprai quello che succede prima che te lo
dica qualsiasi altro stronzo. In tutte le operazioni ed esercitazioni ci portiamo
dietro delle piccole radio a onde corte, perché se sei bloccato nel bel mezzo della
giungla l'unico legame con il mondo esterno è il Servizio Internazionale.
Dovunque tu vada, la gente è sempre china sulle radio a sintonizzarle, perché le
frequenze cambiano a seconda dell'ora del giorno. Anche in questa missione
avremmo portato con noi le radio, perché era probabile che quelli della BBC
fossero i primi a sapere che la guerra era finita. Nessuno sarebbe stato in grado di
dircelo finché non avessimo stabilito dei contatti, e questo sarebbe potuto
avvenire anche il giorno dopo la resa di Saddam. Ci incazzammo con la radio di
Dinger perché era tenuta assieme con lo scotch e lo spago. Tutti gli altri ne
avevano una digitale, mentre Dinger ne aveva una ancora a vapore, che per
sintonizzarla ci volevano secoli.
Girava voce che quel giorno sarebbe arrivata la posta: il primo sacco da quando
eravamo giunti in Arabia. Sarebbe stato carino avere notizie da casa prima di
partire. Io stavo per comprare una casa con Jilly e dovevo firmare un documento
per darle la procura. Speravo che arrivasse; altrimenti, se ci fossi rimasto secco,
avrebbe avuto i suoi bei casini.
Arrivarono il pilota e il copilota e discutemmo un'ultima volta sullo stivaggio
dell'attrezzatura. Rilessi di nuovo le operazioni da compiere in mancanza di
comunicazioni e le azioni sul contatto al punto di sbarco per essere doppiamente
sicuro di averli ben chiari in mente Parlammo ai due mitraglieri, ragazzi sui
vent'anni che erano evidentemente grandi ammiratori di Apocalypse Now, perché
il Chinook aveva mitragliatrici che gli uscivano da tutti i fori. Mancavano Solo gli
stemmi con la testa di tigre sugli elmetti e la Cavalcata delle Valchirie di Wagner
che suonava negli altoparlanti dell interfono. Per loro attraversare la frontiera era
il momento magico di tutta una vita. Non stavano più nella pelle.
I piloti conoscevano altre postazioni dei Roland e avevano studiato una rotta per
aggirarle, ma dal modo in cui parlavano i mitraglieri veniva da pensare che
sognassero davvero di essere attaccati. Pensai che sarebbe stata un'atroce
delusione per loro se ci avessero lasciati a terra e fossero rientrati tutti interi.
Controllaj i miei ordini a un tavolo al capo opposto della base aerea, senza
distrazioni. Visto che il mio primo tentativo di infiltrazione era abortito, quel
pomeriggio avrei dovuto dare un'altra serie di ordini finali, non così nel dettaglio,
ma almeno riguardo ai punti principali.
Ecco la fantomatica corrispondenza. Alla fine si sparse la voce che, ammesso che
arrivasse, sarebbe arrivata dall'altra parte della base a circa settecentocinquanta
metri di distanza. Erano le 1.30, e mancava solo mezz'ora prima di salire
sull'elicottero.
Vince e io salimmo su un veicolo leggero d'assalto e corremmo per afferrare la
borsa destinata allo squadrone B.
Uno dei ragazzi ricevette il modulo delle tasse. Un altro fu il felice destinatario di
un invito a partecipare a un concorso del Reader's Digest. Io fui più fortunato:
ricevetti due lettere. Una era di mia madre, forse la prima lettera che avessi mai
ricevuto dai miei genitori da quando avevo diciassette anni. Non sapevano che ero
nel Golfo, ma doveva essere ovvio. Non avevo tempo di leggerla e di fretta, la
sola cosa che puoi fare è aprire le buste in modo che sembri che tu le abbia lette,
per non ferire i sentimenti di nessuno, se non ritorni. Riconobbi una busta dal
formato: era di Jilly. Dentro c'erano le mie caramelle preferite. Stranamente erano
otto, una per ciascun membro della pattuglia. C'era anche la lettera di procura.
L'Ultima Cena prima di partire per una missione è un'occasione mica da ridere.
Tutti partecipano e sfottono.
« La prossima volta che ti vedrò sarà dall'alto al basso, mentre ti copro », disse
qualcuno, facendo il gesto di riempirmi la fossa di terra.
« E' un piacere conoscerti, segaiolo », disse un altro. « Che modello di bici hai a
casa? C'è qui qualcuno pronto a testimoniare che lui, se lo fanno fuori, mi regala
la bici? »
Era un'atmosfera molto gioiosa, e tutti, se potevano, erano disposti ad aiutarti nei
preparativi. Contemporaneamente comparvero molti cibi freschi. Il maresciallo
addetto al vettovagliamento del Reggimento aveva messo le mani su una partita di
bistecche e funghi, salsicce e tutti gli ingredienti per una buona frittura. Fu una
mangiata fantastica, ma con il difetto che, dopo tanto tempo che ci alimentavamo
con le razioni, fece venire a tutti l'urgente bisogno di fare una maxicagata.
5.
Partii con il mio gruppo alle 21.00. Il nostro tempo limite erano le 05.00. Se per
quell'ora non fossimo stati di ritorno, sarebbe stato perché avevamo avuto un
incidente, ci eravamo persi, avevamo un ferito o avevamo avuto un contatto a
fuoco che Vince avrebbe dovuto sentire. Se non avesse sentito niente, dovevano
aspettare al punto di sosta fino alle 21.00 della sera successiva.
Se non fossimo stati di ritorno per quell'ora, dovevano portarsi al punto d'incontro
con l'elicottero. Se ci fosse stato un contatto, dovevano portarsi al punto
d'incontro quella notte stessa e noi avremmo tentato di arrivare lì in tempo per il
prossimo prelievo delle 04.00.
Stan, Dinger, Mark e io salimmo sul limitare dello uadi nella più completa
oscurità. Il compito era confermare la posizione della strada principale di
rifornimento e localizzare la linea telefonica. Non è giusto restare fermo davanti a
quello che ritieni sia il tuo obiettivo senza avere controllato. A quanto ne
sapevamo, un chilometro più in là poteva esserci la vera strada principale, quindi
dovevamo compiere un rilevamento visivo. Avremmo marciato in direzione
antioraria, dirigendoci generalmente verso nord e usando la conformazione del
terreno, per vedere se avvistavamo qualcos'altro che assomigliasse alla strada.
Prima di tutto dovevamo individuare un segno che ci avrebbe guidato di ritorno al
punto di sosta se ci fossimo persi. Avremmo fatto una ricognizione verso nord
fino a raggiungere l'altro lato della strada, dove avremmo cercato una roccia o un
altro segno.
Quindi, se proprio ci fossimo persi, sapevamo che dovevamo solo fare il giro
dell'altopiano, trovare il segno e spostarci in direzione sud per ritrovare lo
spartiacque.
Era difficile leggere le carte, perché non c'erano segni particolari. Nella maggior
parte dei casi si può usare come riferimento un rilievo, ci sono strade o altre
indicazioni ed è tutto piuttosto facile. Anche nella giungla è facile, perché ci sono
molti fiumi e si possono usare le curve di livello. Ma qui, in pieno deserto, non
c'era assolutamente un cazzo, quindi tutto si basava sui rilevamenti e sui passi,
con l'aiuto del Magellan.
Trovammo un riferimento evidente, una grande roccia,- e cominciammo a
dirigerci a ovest per il nostro giro antiorario. Pochi minuti dopo avvistammo il
nostro primo insediamento sulla destra e sentimmo immediatamente un cane. Di
notte i beduini si ritirano; vanno a dormire al calar del sole. Così, se un cane
abbaia, sanno che ci deve essere qualcosa. Dopo pochi secondi, il primo cane fu
raggiunto da altri due.
Ero stato il primo a sentire quel ringhio basso. Mi ricordava quando ero di
pattuglia nell'Irlanda del Nord. Ci si ferma e si cerca di stabilire cosa sta
succedendo. Nove volte su dieci hai invaso il territorio di un cane e se indietreggi,
ti siedi e aspetti che tutto si calmi, si calmerà. Il nostro problema era che
dovevamo perlustrare attentamente la zona. Per quanto ne sapevamo, i cani
potevano far parte di una base di Scud.
Ci sedemmo estraendo dal fodero i coltelli da combattimento.
Sarebbero stati necessari se i cani fossero venuti a indagare e avessero deciso di
abbaiare forte o di attaccarci. In ogni caso li avremmo uccisi, poi ci saremmo
portati dietro le carcasse, in modo che il mattino dopo i proprietari avrebbero
pensato che erano scappati o stavano vagabondando. Certo, l'avrebbero trovato
strano, ma nella circostanza non potevamo fare di meglio.
Rimanemmo in ascolto, convinti che fra poco avremmo visto accendersi delle luci
e qualcuno sarebbe venuto a controllare.
Non accadde nulla. Incominciammo a girare intorno al posto, per vedere se
trovavamo un altro modo per stabilire di cosa si trattava. Arrivammo all'altro capo
e trovammo solo segni di popolazione locale. C'erano tende, capanne di fango,
Land Cruiser e una serie di altri veicoli, ma nessuna presenza militare. Facemmo
il punto della posizione con il Magellan, in modo che rientrando al punto di sosta
avremmo potuto informare gli altri, poi ci dirigemmo verso nord-ovest usando il
terreno. Per il momento volevamo evitare la piantagione, che sapevamo essere a
nord.
Stavo guidando il gruppo quando vidi qualcosa davanti a me.
Mi fermai, guardai, ascoltai, quindi mi avvicinai lentamente.
Quattro tende e altrettanti veicoli erano parcheggiati accanto a due cannoni
antiaerei S60 da 57 mm: doveva trattarsi di un'unità corrispondente all'incirca a
una sezione. Tutto era tranquillo e non sembrava che ci fossero sentinelle. Mark e
io ci avvicinammo lentamente. Ci fermammo di nuovo, guardammo e
ascoltammo. Non volevamo andare fin sopra la postazione. Solo abbastanza
vicino da raccogliere più dati possibile. Certo nessuno stava dormendo, né
accanto ai pezzi né sui veicoli. L'intera sezione del plotone doveva trovarsi nelle
tende. Sentimmo dei colpi di tosse. Quella postazione non rappresentava un
pericolo immediato per noi, ma mi preoccupava il fatto che i cannoni contraerei
erano sicuramente stati collocati per proteggere qualcosa. Se fosse stata solo la
strada, nessun problema. Il pericolo era che potevano far parte di un battaglione
corazzato o di qualcosa del genere. Mark fissò la posizione con il Magellan e ci
dirigemmo a nord.
Proseguimmo per quattro chilometri senza incontrare nulla e giungemmo alla
conclusione che quella che avevamo attraversato doveva sicuramente essere la
strada. Il Magellan ci confermò che la nostra posizione punto di sosta era un
chilometro a nord del punto in cui la carta indicava la strada, il che non era
preoccupante. La carta precisava che le indicazioni di strade, tralicci e oleodotti si
dovevano ritenere approssimative.
Adesso sapevamo per certo che avevamo trovato la curva giusta della strada, ma
sfortunatamente sapevamo anche che la zona era densamente popolata; avevamo
piantagioni a nord e a sud della nostra postazione, ancora civili più avanti sulla
strada e una postazione contraerea a nord-ovest del nostro punto di sosta.
Da un punto di vista tattico era la stessa cosa che se avessimo deciso di
accamparci al centro di Piccadilly Circus. Comunque, nessuno ci aveva mai detto
che sarebbe stato facile.
Tornammo indietro per dare un'occhiata agli edifìci nella piantagione a nord del
punto di sosta. Avevo programmato di osservarli per ultimi perché questo era
l'insediamento più pericoloso di cui fossimo a conoscenza prima della
perlustrazione.
Sbirciammo un po' attorno alla piantagione e scoprimmo che consisteva
unicamente di un serbatoio per l'acqua e di un edificio vuoto che sembrava
alloggiasse una pompa per l'irrigazione.
Non c'erano veicoli, né luci, né segni di vita, il che ci fece piuttosto piacere. Era
chiaramente un luogo che veniva usato, molto più che abitato.
Mentre ritornavamo al punto di sosta, fummo testimoni di un altro lancio di Scud,
circa cinque chilometri a nord-ovest. Sembrava proprio che ci trovassimo nel
paradiso degli Scud. Ce la saremmo passata bene. Fissammo un'altra volta la
posizione.
Marciammo verso il punto di sosta, trovammo il segno e andammo a sud verso lo
uadi. Mi avvicinai con le braccia allargate nella posizione del crocifisso mentre
salivo sul limitare dello spartiacque.
Era di sentinella Bob. Mi fermai e aspettai che si alzasse. Mi sorrise, e tornai a
prendere il resto dei ragazzi. Controllai l'orologio: il giro era durato cinque ore.
Non valeva la pena fare un resoconto ai ragazzi in quel momento, perché quelli
che non erano di guardia dormivano e informare la gente di notte fa solo rumore.
Tuttavia era importante che tutti sapessero cosa avevamo fatto e visto. Decisi di
aspettare le prime luci dell'alba.
La sentinella ci svegliò e per prima cosa ci disponemmo ad arco.
Dopo di che, e prima che io dessi le informazioni, volevo controllare di nuovo la
zona morta, anche se l'avevamo coperta la notte precedente. Sapevo che eravamo
veramente sulla strada, ma volevo cercare qualche mezzo di identificazione che ci
indicasse dov'erano le linee telefoniche. Era anche una questione personale;
volevo verificare che sopra di noi non ci fossero stati cambiamenti. Con le pareti
della caverna che ci isolavano dai rumori, avremmo benissimo potuto starcene lì
mentre i Genesis davano un concerto all'aperto senza sentire una sola nota.
Chris mi coprì mentre mi arrampicavo sulle rocce per sbirciare oltre il bordo. Era
l'ultima volta che avrei rischiato una cosa del genere alla luce del sole.
Guardai verso nord-est e proprio lì, sul ciglio della strada, c'erano altri due S60.
Dovevano essere arrivati durante la notte.
Riuscivo a vedere i camion, le tende e gli uomini che si stiracchiavano e
tossivano. E tutto questo, a soli trecento metri dalla nostra postazione. Non potevo
crederci: la faccenda stava diventando surreale. La nostra pattuglia in
perlustrazione doveva averli schivati di soli cinquanta metri. Scesi e lo riferii a
Chris, quindi andai a informare il resto della pattuglia. Mark salì e gettò una
rapida occhiata per assicurarsi che non avevo avuto le allucinazioni.
Non è che questo sviluppo della situazione mi facesse impazzire di gioia. Era
abbastanza pericoloso, perché quei tizi erano proprio sopra di noi. Ci avrebbero
limitato pesantemente.
Aprii la carta geografica e mostrai tutti gli insediamenti che avevamo individuato,
incluse le due nuove postazioni degli S60. Passammo il resto della giornata a
cercare di trasmettere di nuovo il rapporto sulla situazione. Evidentemente i nuovi
S60 erano lì per proteggere la strada: peraltro non avevano motivi ragionevoli per
mandare pattuglie in perlustrazione. Erano nel loro territorio e avevano tutto il
sostegno che gli serviva. Insomma, potevamo essere visti solo dal limitare
opposto dello uadi, e anche in quel caso soltanto se uno ci fosse andato
letteralmente sopra e avesse guardato verso il basso.
Provammo tutti un'altra volta con la radio: niente da fare. A quel punto sarebbe
scattata la procedura prevista per la mancanza di collegamenti, e l'elicottero
avrebbe ricevuto l'ordine di incontrarci la mattina seguente alle 04.00.
Tutto sommato, stavamo tranquilli. Stavamo al coperto ed eravamo una pattuglia
d'assalto di otto uomini. All'incontro con l'elicottero ci saremmo messi
direttamente in comunicazione o saremmo saliti a bordo e ripartiti per altra
destinazione.
Ripassai nella mia mente la procedura del punto d'incontro con l'elicottero. Il
pilota sarebbe arrivato con i visori notturni in attesa di un segnale con la mia
torcia a infrarossi. Avrei lampeggiato la parola Bravo come segnale. Lui sarebbe
atterrato cinque metri alla mia destra, usando la luce come punto di riferimento.
La porta del capo mitragliere era appena dietro il pilota e io avrei dovuto
dirigermi verso di essa, consegnare la vecchia radio e ricevere quella nuova. Se ci
fosse stato qualche messaggio per noi, mi avrebbero stretto il braccio e me lo
avrebbero dato. Se il messaggio fosse stato lungo, sarebbe scesa la rampa con il
mitragliere che mi avrebbe accompagnato in coda. Il resto della pattuglia si
sarebbe attestato a difesa in cerchio. Se avessi dovuto andare a chiamarli,
conoscevano la procedura. Se volevo che ci portassero da un'altra parte, avrei
tenuto per un braccio il mitragliere e indicato dietro la rampa. A quel punto la
rampa sarebbe scesa e noi saremmo saliti tutti a bordo.
Questo era il piano. Niente di drammatico. Quella notte saremmo tornati indietro
e ci saremmo spostati altrove.
6.
7.
LA notte doveva essere la nostra copertura, e presto avrebbe fatto buio. Adesso il
mezzo corazzato che si era ritirato stava avanzando di nuovo. Gli uomini
seguivano a piedi, sparando all'impazzata. Ci issammo in spalla gli zaini. Andare
verso sud era un suicidio, perché sicuramente immaginavano che quella sarebbe
stata la nostra direzione di marcia. Perciò l'obiettivo era distanziarli il più
possibile, e a tale scopo dovevamo obbligatoriamente dirigerci verso ovest, il che
significava rischiare di essere avvistati dalla postazione degli S60.
Non avremmo marciato secondo le regole della pattuglia. Per quanto ce lo
permettevano gli zaini, dovevamo allontanarci in tutta fretta dall'area del contatto.
Era una famosa manovra della fanteria, nota in codice come « levarsi dalle palle
».
A est comparvero due camion carichi di fanteria, che superarono il limitare
dell'avvallamento e ci individuarono. Si fermarono immediatamente, e gli uomini
scesero dai cassoni cominciando a sparare. Saranno stati una quarantina, il che
significava un incredibile volume di fuoco contro di noi.
Cominciarono ad avanzare. Ci dirigemmo verso est, tirammo qualche colpo, poi
indietreggiammo verso ovest, sparando come forsennati. Fuoco e manovra, fuoco
e manovra, ma questa volta lontano da loro: due uomini si ritiravano di corsa,
quindi si voltavano per coprire gli altri due.
Stavamo salendo un leggero pendio. Non appena giungemmo sul crinale, ci
trovammo esposti ai cannoni contraerei della postazione di nord-ovest.
Cominciarono a sparare con un cupo fragore di tuono. I proiettili da 57 mm, tutti
traccianti, sibilavano attorno a noi. Le granate esplodevano sul terreno circostante.
Chris e io facemmo simultaneamente dietrofront per buttarci a terra. Lui stava
correndo due o tre metri alla mia destra quando sentii qualcosa di simile al rumore
che può fare il pugno di un gigante.
Guardai di lato e vidi Chris che cadeva. Era stato colpito da una granata
contraerea. Gli corsi accanto, pronto a iniettargli una fiala di morfina, sempre che
non fosse già morto.
Si dimenava, e per un attimo credetti che fossero gli spasimi dell'agonia. Errore:
era vivo e vegeto, e cercava semplicemente di liberarsi dalle cinghie dello zaino.
Appena ci riuscì, si rialzò barcollando.
«Vaffanculo! » esclamò. Nel punto in cui era penetrato il colpo, il suo zaino si era
praticamente disintegrato.
Corremmo per qualche metro, poi si fermò di colpo. « Ho dimenticato una cosa. »
Tornò di corsa verso la carcassa dello zaino e la frugò, estraendo una fiaschetta
d'argento.
« E' un regalo di Natale di mia moglie », ridacchiò mentre mi raggiungeva. «Non
potevo lasciarla lì. Mi avrebbe ucciso.»
Anche gli altri ragazzi stavano gettando via gli zaini. Sperai che Legs fosse
riuscito a recuperare dal suo la radio di pattuglia.
Il mezzo corazzato avanzava piuttosto minacciosamente, facendo un fuoco
sostenuto e preciso. Anche due Land Cruiser piene di uomini si erano unite al
pandemonio.
Ci fermammo e sparammo un po' di colpi con i 203.I veicoli frenarono
bruscamente, mentre i proiettili da 40 mm esplodevano davanti a loro. Gli uomini
scesero e si misero a sparare.
Gli S60 avevano inchiodato alla posizione Mark e Dinger, che perciò lanciarono
le bombe al fosforo, e attorno a loro volteggiò un fumo biancastro. Il problema
dei fumogeni isolati è che attirano immediatamente il fuoco nemico, ma non
avevamo altra scelta. Gli iracheni sapevano che i ragazzi si stavano coprendo la
ritirata, quindi svuotarono i caricatori nella nuvola. Un paio di colpi di 203
rallentarono il ritmo del loro assalto. Mark e Dinger balzarono in piedi e si misero
a correre.
« Cazzo, carino qui, eh? » disse Dinger con una voce veramente incazzata, mentre
mi passava vicino.
Continuammo a retrocedere. Era quasi buio, e alla fine, nel crepuscolo, persero
contatto con noi. Eravamo molto sparpagliati, e man mano che scendeva l'oscurità
c'era il pericolo che il gruppo si dividesse. Correndo, studiavamo il terreno alla
ricerca di un punto adatto per riunirci. Lo poteva scegliere chiunque.
Cinquanta metri alla mia destra, echeggiò un grido: « Riunitevi, riunitevi,
riunitevi! »
Chiunque fosse, aveva trovato una copertura utile per raggrupparci. Fu una gran
cosa, perché in quel momento eravamo divisi, ognuno di noi combatteva la sua
piccola battaglia personale per sganciarsi. Un punto di raduno è molto simile a un
punto d'incontro di emergenza, a parte il fatto che viene stabilito al momento e
non in anticipo. Il suo scopo è radunare tutti, il più presto possibile, prima di
riprendere la marcia. Se qualcuno mancava all'appello, avremmo dovuto
confermare che era morto, ammesso che non lo si fosse già fatto. Altrimenti
avremmo dovuto tornare a prendere l'uomo colpito.
Corsi e trovai Chris e Bob che aspettavano nell'avvallamento.
Infilai subito un nuovo caricatore e preparai la mia arma per riprendere il fuoco.
Ci attestammo a difesa in cerchio, coprendo tutte le angolazioni, in attesa che
arrivassero gli altri.
Contai le teste man mano che mi superavano e prendevano posizione per sparare.
Ci vollero cinque o sei minuti prima che arrivasse l'ultimo uomo. Se mancava
qualcuno avrei dovuto chiedere: «Chi è stato l'ultimo a vederlo? Dove l'hai visto?
Era solo a terra o era morto? » In caso di risposta negativa, lo si andava a cercare.
I fari dei veicoli cingolati corazzati si incrociavano freneticamente a non più di
trecento metri da noi. Di tanto in tanto, in lontananza si udiva una detonazione
seguita da grida. Probabilmente avevano sparato contro le rocce o contro i loro
compagni. C'era una confusione totale, il che non ci piaceva affatto.
Eravamo ammassati tutti e otto in un fazzoletto di un paio di metri quadrati. Ci
sistemammo rapidamente, togliendoci i maglioni e infilandoli nel cinturone o
nella casacca. Sapevamo che le possibilità erano due: saremmo andati
all'elicottero o ci saremmo diretti verso la Siria. In ogni caso, ci aspettava una
marcia da incubo.
« Ce l'hai la radio? » domandai a Legs.
«Non c'era modo di prenderla», rispose. «Facevano un fuoco dell'accidente. Penso
comunque che fosse danneggiata perché il mio zaino è stato colpito ed è saltato. »
Sapevo che se avesse potuto l'avrebbe presa. Ma comunque, non importava molto.
Avevamo quattro radiofari tattici, e avremmo potuto metterci in contatto con gli
AWACS in quindici secondi.
Ero ancora senza fiato e avevo una gran sete, per cui bevvi qualche sorsata dalla
mia borraccia. Tirai fuori un paio di caramelle all'orzo e me le ficcai in bocca.
«L'avevo appena accesa quella sigaretta», commentò tristemente Dinger. «Se l'ha
raccolta uno di quei bastardi, spero che si soffochi.»
Bob ridacchiò e all'improvviso ci ritrovammo tutti a ridere come matti. Mica per
quello che aveva detto Dinger... eravamo solo sollevati per essere ancora tutti
interi e insieme dopo uno scontro così disperato. In quel momento non poteva
fregarcene niente di tutto il resto. Era bellissimo essere vivi.
Avevamo usato un quarto delle nostre munizioni. Le mettemmo insieme,
dividendole tra noi e infilando caricatori pieni nelle armi. Avevo ancora il mio 66,
l'ultimo rimasto perché, da brava testa di cazzo, lo avevo lasciato vicino allo
zaino.
Mi sistemai i vestiti, tirandomi su ben bene i pantaloni per evitare piaghe alle
gambe, e mi strinsi di nuovo il cinturone per essere certo di stare comodo.
Cominciavo ad avere freddo. Avevo sudato moltissimo e tremavo nella casacca
bagnata. Dovevamo muoverci.
« Cerchiamo di chiamare, adesso », disse Legs. « Loro lo sanno che siamo qui.
Possiamo benissimo usare i radiofari tattici. »
«Sì», convenne Vince, «facciamo venire giù uno di quegli stronzi. »
Aveva ragione. Tirai fuori il mio radiofaro tattico, estesi l'antenna e sentii il
fruscio. Premetti il pulsante di trasmissione e parlai.
«Pronto AWACS, qui Bravo Two Zero, chiamiamo da terra e siamo nella merda.
»
Nessuna risposta.
Ripetei il messaggio.
Niente.
« Pronto, qualunque codice », dissi. « Qui Bravo Two Zero. »
Niente.
Continuai a provare per trenta secondi, senza successo.
La nostra sola speranza a quel punto era di essere sorvolati da un jet, in modo che
potessimo contattarli con il radiofaro tattico sulla frequenza d'emergenza. Tuttavia
questa eventualità era altamente improbabile, a meno che durante la fase di
compromissione uno dei segnali di Legs fosse arrivato, e la base aerea avanzata
avesse avvisato qualche aereo di supporto. Di certo non c'era stato nessun
riconoscimento automatico. Forse sapevano che eravamo nella merda, forse no.
Non potevano far niente.
Esaminai rapidamente la situazione. Avremmo potuto marciare per trecento
chilometri verso sud in direzione dell'Arabia Saudita, oppure andare a nord verso
la Turchia - il che significava attraversare l'Eufrate - o, ancora, prendere verso
ovest per centoventi chilometri fino alla Siria. Avevamo fanteria e mezzi corazzati
nelle immediate vicinanze. Eravamo bruciati e ci stavano cercando. Naturalmente
avrebbero pensato che ci saremmo diretti verso l'Arabia. Anche se fossimo
arrivati al punto d'incontro con l'elicottero, c'era la possibilità che ci seguissero, e
questo avrebbe potuto significare attività nemica nella zona dove sarebbe atterrato
il Chinook.
Decisi che non avevamo altra possibilità che andare in Siria.
Inizialmente ci saremmo mossi verso sud per creare una diversione, dato che
quella era la via che il nemico avrebbe ritenuto più probabile; poi ci saremmo
diretti a ovest, puntando infine genericamente verso nord-ovest. Avremmo cercato
di arrivare dall'altra parte della strada prima delle prime luci dell'alba, perché
probabilmente quello sarebbe stato il perimetro psicologico della loro zona di
ricerca a sud. A quel punto ci saremmo diretti decisamente verso la frontiera.
«Tutti pronti?» chiesi.
Ci avviammo verso sud in fila indiana. A circa un chilometro di distanza, i mezzi
correvano avanti e indietro intorno a noi.
Avevamo percorso solo qualche centinaio di metri quando uno di essi, una Land
Cruiser, avanzò dritto contro di noi, puntandoci con i fari. Ci buttammo a terra,
ma eravamo allo scoperto. Distogliemmo lo sguardo per evitare il riflesso e
continuare a vedere nella notte. Il veicolo era a duecento metri di distanza e si
stava avvicinando. Se fosse avanzato ancora, ci avrebbero visto. Mi preparai a un
altro scontro. Si alzò un grido. Sollevai la testa di scatto e vidi i fari di un altro
veicolo, circa trecento metri alla nostra sinistra. La Land Cruiser cambiò direzione
e si allontanò in fretta.
Proseguimmo a passo rapido. Transitavano continuamente veicoli, per cui
dovemmo fermarci e buttarci a terra diverse volte.
Era un tormento: non solo volevamo allontanarci rapidamente dalla zona, ma
avevamo anche bisogno di continuare a camminare per tenerci caldi. Avevamo
soltanto le casacche sulle camicie perché non volevamo sudare troppo, ma adesso
sembrava che la temperatura continuasse a scendere.
Il fatto che gli AWACS non rispondessero ai nostri segnali mi faceva veramente
incazzare, e neanche il pensiero di dover fare ancora centoventi chilometri per
raggiungere la Siria mi metteva troppa allegria.
Dopo avere marciato per quella che mi sembrò una vita, ci guardammo alle spalle
e vedemmo che i fari erano concentrati in lontananza. Eravamo fuori della zona di
pericolo immediato, e con un minimo di copertura garantita da un avvallamento
del terreno. Se volevamo riprovare con il radiofaro tattico, dovevamo farlo su
quella rotta meridionale. Bob e Dinger si spostarono immediatamente sul ciglio
della depressione con le loro Minimi per coprirci le spalle nel caso fossimo stati
seguiti. Tutti gli altri si erano schierati in cerchio a difesa. Riprovai con il mio
radiofaro tattico, ma senza successo.
Tutti quelli che avevano un radiofaro tattico fecero un tentativo. Era incredibile
che tutte e quattro le radio fossero scassate, ma sembrava proprio così.
Mark fece un controllo di posizione con il Magellan e stabilì che avevamo
marciato per venticinque chilometri. Li avevamo fatti così rapidamente che, con
un po' di fortuna, gli iracheni non lo avrebbero creduto possibile e sarebbero stati
depistati.
« Adesso ci dirigeremo verso ovest per uscire da questa zona », dissi. «Poi
cominceremo ad andare verso nord per superare la strada prima della luce. »
Sentii una serie di improperi diretti ai fabbricanti del radiofaro tattico. Non lo
avremmo più usato, a meno che un aviogetto non ci avesse sorvolato. Non
sapevamo se gli iracheni avessero velivoli in cielo, ma dovevamo correre il
rischio. Eravamo nella merda, ed era pure fredda.
Richiamammo Bob e Dinger, gli comunicammo le buone notizie e ci mettemmo
in marcia. Eravamo rimàsti fermi solo un minuto o due, ma conveniva rimettersi
di nuovo in cammino. Faceva un freddo terribile, un vento micidiale ci gelava le
ossa. Il cielo era molto nuvoloso e buio come la pece. Non riuscivamo a vedere
bene le nostre impronte: il solo lato positivo era che anche per loro sarebbe stato
molto più difficile trovarci. Si vedeva ancora il veicolo isolato, ma molto lontano.
Li avevamo distanziati, e mi sentivo quasi fiducioso.
Ci spingemmo a ovest per quindici chilometri, muovendoci rapidamente con la
bussola. Il terreno era così piatto che ci saremmo accorti con grande anticipo di
qualsiasi presenza irachena.
Ogni ora ci fermavamo cinque minuti per riposare, secondo la procedura
operativa standard della marcia in pattuglia. Se continui senza fermarti, finisci per
esaurirti e non sei più in grado di rispettare i programmi. Così ci si ferma, ci si
butta a terra, ci si riposa un attimo, si beve un po' d'acqua, ci si sistema, ci si
rimette comodi e si riparte. Insisto che faceva un freddo boia, e quando ci
fermavamo tremavo come una foglia.
Dopo quindici chilometri facemmo una sosta di cinque minuti e un controllo con
il Magellan. Decisi che, per via del fattore tempo, avremmo dovuto dirigerci a
nord e oltrepassare la strada prima dell'alba.
« Superiamo quella strada », spiegai, « poi filiamo a nord-ovest fino in Siria. »
Avevamo coperto altri dieci chilometri, quando notai che nella fila si aprivano dei
varchi. Stavamo marciando assai più lentamente di prima. C'era un problema:
fermai la pattuglia e ci raggruppammo.
Vince zoppicava.
« Tutto bene, socio? » gli chiesi.
« Sì, mi sono fatto male alla gamba sganciandomi da quel contatto e, porca
puttana, comincia proprio a farmi vedere le stelle. »
Il nostro scopo era far arrivare tutti quanti oltre la frontiera.
Vince era chiaramente ferito e avremmo dovuto rifare i programmi e le
valutazioni in base al fatto che stava nei casini. Niente stronzate del tipo: «No, va
tutto bene, vecchio mio... posso andare avanti strisciando sui coglioni! » perché se
uno cerca di fare il duro e non informa gli altri dei suoi guai, mette in pericolo
tutti.
Se invece informi i tuoi compagni che sei ferito, si possono fare dei piani.
« Che tipo di problema hai? » domandò Dinger.
« Mi fa solo un male pazzesco. Non penso che sia rotta e non sanguina, o roba del
genere... ma è gonfia. Mi rallenterà. »
« Bene », conclusi. « Ci fermiamo qui e ci sistemiamo. »
Estrassi dalla giacca il mio berretto da baseball di lana e me lo misi in testa.
Osservai Vince che si massaggiava la gamba. Era infuriato con se stesso per
essersi fatto male.
« Stan è in uno stato pietoso », mi informò Bob.
Dinger e Mark gli avevano dato una mano, l'avevano disteso sul terreno: era in
brutte condizioni. Lui lo sapeva ed era incazzato nero.
« Che cazzo c'è? » gli domandai ficcandogli in testa il mio berretto.
« Sono a fine corsa, amico. Morirò qui. »
Chris era quello con maggiore esperienza medica. Esaminò Stan e vide subito che
era pericolosamente disidratato.
« Tenteremo di reidratarlo rapidamente. »
Strappò dalla cintura di Stan due buste di elettroliti, che sciolse nella borraccia.
Stan bevve come un cammello.
« Senti, Stan », dissi, « ti rendi conto che noi dobbiamo proseguire? »
« Sì, lo so. Dammi solo un minuto, manderò giù ancora un po' di questa merda in
gola. E' colpa di questa fottuta biancheria. Stavo dormendo con quella, quando
siamo stati scoperti. »
La disidratazione non rispetta il clima. Ci si può disidratare durante l'inverno
artico esattamente come di giorno nel Sahara.
Lo sforzo fisico produce sudore, anche se fa freddo. E le nuvolette di vapore che
si vedono quando espiriamo sono liquidi ancora più preziosi che fuggono dal
nostro corpo. Fra l'altro, quando si parla di disidratazione, la sete è un indice
inaffidabile. Il problema è che qualche sorsata di liquido può alleviare la sete
senza migliorare il deficit idrico interno. E' anche possibile non accorgersi della
sete perché la nostra attenzione è assorbita da troppe altre cose. Dopo aver perso il
5 per cento del peso corporeo, si viene colti da accessi di nausea. Se si vomita, si
perdono altri liquidi preziosi. I movimenti rallentano decisamente, la bocca si
impasta e non si riesce più a parlare. Stan aveva portato i suoi indumenti termici
da quando avevamo lasciato il punto di sosta. Doveva avere perso litri di sudore.
Cominciai a rabbrividire.
«Che cosa facciamo, gli togliamo l'equipaggiamento?» domandai a Chris.
« No, è tutto quello che ha addosso, a parte i pantaloni, la camicia e la casacca. Se
glielo togliamo starà peggio. »
Stan si alzò in piedi e cominciò a girare intorno. Gli concedemmo altri dieci
minuti perché si organizzasse, ma poi cominciavamo ad avere troppo freddo e
dovemmo rimetterci in moto.
Dovevamo marciare al ritmo dei due più lenti; perciò misi Chris per primo, con
Stan e Vince dietro di lui. Seguivo io con gli altri alle mie spalle.
In quanto capofila, Chris si muoveva in base al rilevamento della bussola per
essere sicuro che non incappassimo in brutte sorprese. Anziché ogni ora, ci
fermavamo ogni mezz'ora. A tutte le soste dovevamo far bere Stan. La situazione
non era disperata, ma sembrava peggiorare.
Il tempo era diventato un vero schifo. Non marciavamo con la lena di prima anche
perché il freddo stava minando la nostra resistenza. Il vento ci soffiava in faccia e
avanzavamo tutti con la testa girata di tre quarti per cercare di proteggerci. Poi, a
una sosta, Vince si sedette e si afferrò la gamba.
« Sta peggiorando, amici », disse. Era uno che non si lamentava mai... doveva
proprio fargli un male tremendo. Si scusò per il casino in cui ci aveva messo.
Adesso avevamo due nemici: il tempo e le condizioni fisiche dei ragazzi più lenti.
A questo punto anche noialtri cominciavamo a risentire della massacrante marcia
notturna. A me facevano male i piedi e le gambe, e dovevo continuare a ripetermi
che era per questo che venivo pagato.
Il cielo era coperto. Nero come l'inchiostro. Controllai la navigazione, mentre il
resto della pattuglia mi copriva. Chris aveva problemi con i visori notturni perché
non c'era luce ambiente. Questo adesso ci stava rallentando più dei due in
difficoltà.
Il vento mordeva ogni centimetro di pelle esposta. Tenevo le braccia strette lungo
i fianchi per conservare il calore, la testa bassa, le spalle sollevate. Se dovevo
girare la testa, muovevo tutto il corpo. Non volevo assolutamente che il vento mi
soffiasse nel collo.
Cominciammo a sentire alcuni aerei da nord. Non riuscivo a vedere un tubo per
via delle nuvole sopra di noi, ma dovevo prendere una decisione. Avrei tirato
fuori il radiofaro tattico solo per scoprire che erano iracheni?
« Sì, cazzo », disse Mark, leggendomi nel pensiero. « Proviamo. »
Appoggiai la mano sulla spalla di Vince e dissi: «Ci fermiamo e proviamo il
radiofaro tattico ».
Lui annuì. « Sì, okay, sì. »
Cercai di aprire il mio tascapane: facile a dirsi... Avevo le mani congelate e così
rattrappite che non riuscivo a muovere le dita.
Mark cominciò a frugarmi nel cinturone, ma neanche lui riusciva a stendere le
dita abbastanza per aprire il tascapane. Alla fine, in qualche modo, qualcuno mi
mise il radiofaro tattico in mano.
L'ultima coppia di jet stava ancora volando sopra di noi.
« Pronto, chiunque siate, qui Bravo Two Zero, Bravo Two Zero. Chiamiamo da
terra e siamo nella merda. Stop. »
Niente. Richiamai. Richiamai ancora.
« Pronto, Bravo Two Zero. Chiamiamo da terra e siamo nella merda. Dobbiamo
darvi la posizione. Stop. »
Se non avessero fatto altro che informare qualcuno della nostra posizione,
avremmo riso a crepapelle. Mark tirò fuori ilMagellan e premette il pulsante che
ci diede la longitudine e la latitudine.
Fu allora che udii il suono celestiale di una voce americana e capii che quelli
erano jet provenienti dalla Turchia che andavano a fare un'incursione dalle parti di
Baghdad.
« Bravo Two Zero, Bravo Two Zero, ripeti! Sei molto debole.
Prova di nuovo. »
Il segnale era debole perché lui stava gridando fuori banda.
« Ritorna a nord », gli dissi, « ritorna a nord. Stop. »
Nessuna risposta.
« Pronto, chiunque siate, qui Bravo Two Zero. Stop. »
Niente.
Se n'erano andati. Non sarebbero tornati. Bastardi!
Cinque minuti dopo, l'orizzonte fu rischiarato dalle bombe illuminanti e dai
traccianti. Evidentemente i jet stavano scaricando qualcosa vicino a Baghdad. Le
loro incursioni sono fondamentali, programmate per spaccare il secondo. Non
avrebbero potuto ritornare verso di noi neanche se avessero voluto. Almeno lui
aveva ripetuto il nostro codice di identificazione. Presumibilmente questo sarebbe
stato filtrato attraverso il sistema e la base aerea avanzata avrebbe saputo che
eravamo ancora sul posto, ma nella merda, o almeno che lo era quello di noi con il
radiofaro tattico.
In venti o trenta secondi terminò tutto. Voltai la schiena controvento mentre
infilavo il radiofaro tattico nel tascapane. Guardai Legs, che scrollò le spalle.
Aveva ragione: in fin dei conti, avevamo stabilito un contatto.
« Forse ritorneranno sulla stessa rotta e ci sentiranno », dissi a Bob.
« Speriamo. » ' Mi voltai verso il vento per dire a Chris che era meglio che ci
muovessimo.
« Oh, cazzo », sussurrai, « e dove sono finiti tutti gli altri? »
Avevo detto a Vince che avremmo tentato con il radiofaro tattico.
La prassi corretta è passare il messaggio lungo la fila, ma il suo cervello
annebbiato non lo registrò nemmeno. Doveva aver semplicemente continuato a
camminare senza dirlo a Chris e Stan.
Quando si è in fila ciascuno ha la responsabilità di assicurarsi che i messaggi
passino avanti o indietro; e, se ti fermi, devi accertarti che l'uomo davanti a te lo
sappia. Dovresti sempre sapere chi hai davanti a te e chi hai dietro. Sta a te
accertartene. Perciò, se non si erano fermati, era colpa mia e di Vince. Entrambi
eravamo venuti meno alle nostre responsabilità: Vince per non aver trasmesso il
messaggio, io per non essermi assicurato che si fermasse.
Non potevamo più fare nulla. Non potevamo effettuare una ricerca visiva perché
Chris era l'unica persona con il dispositivo per la visione notturna. E non
potevamo usare la luce bianca: nemmeno a parlarne. Quindi potevamo solo
attenerci al rilevamento e sperare che a un certo punto loro si sarebbero fermati
per aspettarci. C'erano buone possibilità che ci rincontrassimo.
Mi sentivo di merda. Avevamo più o meno fallito nel contatto con l'aereo. E
adesso, cosa ben peggiore, avevamo perso tre membri della pattuglia, due dei
quali in cattive condizioni fisiche.
Ero incazzato con me stesso e per la situazione. Come potevo essere stato così
idiota?
Bob doveva avermi letto nel pensiero, perché disse: « Adesso è fatta, ormai,
andiamo avanti. Speriamo di trovarci al punto d'incontro ».
Le sue parole mi aiutarono molto. Aveva ragione. In fondo erano adulti e
vaccinati e se la sarebbero cavata.
Ci dirigemmo a nord secondo la bussola. Il vento gelido trapassava le nostre
leggere tenute da deserto. Dopo due ore di dura marcia arrivammo alla strada e la
attraversammo. L'obiettivo seguente era una strada asfaltata più a nord.
Incontrammo un paio di zone abitate, ma le aggirammo senza difficoltà. Appena
dopo la mezzanotte sentimmo un rumore in lontananza. Cominciammo il nostro
aggiramento di routine attorno a qualunque cosa fosse e ci imbattemmo in un
accampamento di blindati con una selva di antenne. Un soldato si accese una
sigaretta, illuminando brevemente il proprio volto. Probabilmente avrebbe dovuto
stare di sentinella, ma stava sonnecchiando nell'abitacolo di un camion. Poteva
trattarsi di una installazione militare come di una postazione temporanea.
Qualunque cosa fosse, dovevamo aggirarla.
Chris e gli altri non dovevano essere entrati in contatto con il nemico, altrimenti
lo avremmo sentito.
Proseguimmo per un'altra ventina di minuti. Eravamo tutti al limite della
resistenza. Avevamo riposato otto ore, e poi via. Lo sforzo delle gambe era stato
immane. I piedi mi facevano male.
Mi sentivo a pezzi.
Ripensai all'aereo. Ormai erano passate alcune ore, quindi a questo punto i piloti
dovevano essere tornati ai loro hotel a bersi un caffè e a mangiarsi un bombolone,
mentre i tecnici controllavano i motori. Proprio un modo carino di fare la guerra.
Si issano dentro le loro belle carlinghe e volano sui bersagli. Giù a terra, per
quanto li riguarda, c'è il nulla. Poi cosa sentono? Una vecchia voce britannica che
blatera lamentandosi di essere nella merda.
Doveva essere stata una bella sorpresa. Sperai con tutte le forze che si fossero
preoccupati per noi e stessero facendo qualcosa.
Chissà se avevano riferito del contatto via radio subito o al loro ritorno alla base.
Probabilmente, la seconda ipotesi. Erano passate ore senza che fossimo sorvolati
da nessun jet. Non sapevo che cosa ci volesse nel sistema americano per dare il
via a un'operazione di ricerca e soccorso. Speravo solo che sapessero che era
davvero importante.
Pensavo che la divisione del gruppo era stata colpa mia. Mi sentivo un vero
stronzo, e mi chiedevo se tutti gli altri la pensassero allo stesso modo. Mi
ricordavo di un discorso del feldmaresciallo Slim che avevo letto. A proposito
della leadership, diceva press'a poco così: « Quando sei in comando, c'è battaglia
e tutto sta andando bene - secondo i piani - e, insomma, stai vincendo, sei un
grande condottiero, proprio un bravo ragazzo. Ma è solo quando tutto va a puttane
e tu ne sei il responsabile che scopri se hai attitudine al comando o no». Adesso
mi trovavo esattamente nella situazione descritta. Avrei potuto prendermi a calci
per non aver controllato che Vince avesse capito che ci stavamo fermando.
Mentre marciavamo verso nord continuai a pensare: dove diavolo ho sbagliato?
Ma era indispensabile che da allora in avanti il piano di evasione e fuga
funzionasse. Non dovevo commettere altri errori. -(
Era ora di trovare un posto in cui nasconderci. Avevamo superato una zona di
pietrisco e roccia e adesso camminavamo su un lieve strato di sabbia. I nostri
stivali quasi non lasciavano impronte. Da una parte era un vantaggio, ma il
terreno era così duro che non potevamo scavarci un nascondiglio. Stava già
arrivando l'alba e noi eravamo ancora allo scoperto. Le cose si stavano mettendo
un po' maluccio quando Legs individuò delle dune di sabbia un chilometro a
ovest. Ci trovavamo in una zona in cui i venti costanti corrugavano il terreno e
formavano cumuli di terra alti dai cinque ai dieci metri. Cercammo quello più
alto: volevamo trovarci sopra il livello degli occhi.
Facemmo ciò che non avremmo mai dovuto fare, nascondendoci in un luogo ben
delimitato. Ma quello era l'unico rialzo su un terreno più piatto di una tavola. In
cima c'era un cumulo di sassi: forse c'era sepolto qualcuno.
Attorno al cumulo sorgeva un muricciolo di pietra alto una trentina di centimetri.
Lo rincalzammo leggermente e ci sdraiammo all'interno. Faceva un freddo gelido
e il vento soffiava attraverso le fessure tra le pietre, ma avere smesso di marciare
era comunque un sollievo. Nelle ultime dodici ore, completamente al buio e in
condizioni meteorologiche atroci, avevamo percorso ottantacinque chilometri, la
lunghezza di due maratone. Mi facevano male le gambe. Stare sdraiati era
meraviglioso, ma poi sarebbero cominciati i crampi. Come ti muovevi, esponevi
al freddo altre parti del corpo. Era incredibilmente scomodo.
A sud, vedemmo dei tralicci correre in direzione est-ovest. Li utilizzammo per
stabilire la nostra posizione sulla carta. Se li avessimo seguiti, alla fine ci
saremmo imbattuti nel confine.
Ma se avessimo usato i tralicci della luce per la navigazione, chi avrebbe potuto
dire che non lo avrebbero fatto anche i beduini?
Rimanemmo fermi per mezz'ora, sempre più a disagio. A est, a circa due
chilometri, c'era un edificio di lamiera ondulata, probabilmente una stazione per
lo scavo di pozzi idrici. Appariva molto invitante, ma ancora più isolato. A nord
non c'era nulla.
Non avevamo alternativa, bisognava restare lì.
Dovevamo tenerci veramente bassi; ci raggomitolammo cercando di trasmetterci
il calore dei nostri corpi. Nuvole nere solcavano il cielo. Il vento sibilava tra le
pietre; sentivo i suoi morsi.
Avevo già provato il freddo, nell'Artico: ma mai niente di simile.
Qui era come stare sdraiati in un freezer sentendo il corpo scivolare via piano
piano. E avremmo dovuto restare lì per il resto della giornata, muovendoci
sempre, per quanto possibile, al di sotto del muretto. Quando avevamo un crampo
- un problema molto comune dopo una marcia così faticosa -, dovevamo aiutarci
l'un l'altro.
Legs estrasse dalla tasca della mappa le informazioni sui segnali e distrusse tutti i
codici e gli altri scarabocchi. Incendiammo i fogli dei codici e li facemmo
bruciare tutti assieme per essere certi che tutto venisse polverizzato; poi
schiacciammo le ceneri, spargendole sul terreno.
« Mentre voi fate il falò, mi fumerò una sigaretta », disse Dinger. «Devo farmi
una paglia prima che ricominci il ballo.»
Controllammo di nuovo, frugando in tutte le tasche per essere doppiamente sicuri
di non aver trascurato nulla che potesse compromettere la missione, noi stessi o
qualcun altro. Si può sempre avere addosso qualcosa che per la controparte - a
meno che non glielo spieghi tu - non significa nulla, ma che loro potrebbero
utilizzare come punto di partenza per un interrogatorio. « Che cos'è questo? A
cosa serve? » Magari si passano un sacco di guai per una sciocchezza. , In
lontananza si sentivano dei veicoli. C'erano due mezzi corazzati circa un
chilometro a sud, troppo lontani per costituire un pericolo immediato. Sperai che
non si mettessero in mente di cominciare a cercare in tutti i posti che potevano
garantire una copertura.
Verso le 07.00 cominciò a piovere: non potevamo crederci.
Eravamo in mezzo al deserto. L'ultima volta che avevo visto la pioggia nel
deserto era stato in Oman, nel 1985. In un attimo eravamo fradici, e dopo dieci
minuti la pioggia si era trasformata in nevischio: ci guardammo a bocca aperta.
Poi cominciò a nevicare.
Bob intonò: «I'm dreaming ofa white Christmas».
Era esattamente come se ci trovassimo su una montagna in pieno inverno: cazzi
acidi. Ci rannicchiammo ulteriormente: non potevamo più permetterci di perdere
una sola linea di temperatura corporea. Estraemmo le fodere delle carte
geografiche e cercammo di improvvisare un riparo. La nostra principale
preoccupazione era preservare il calore nella parte centrale del corpo, il torace.
L'uomo è « omeotermico », vale a dire che il corpo cerca di mantenere costante la
temperatura interna indipendentemente da quella esterna. Il corpo consiste di un
centro interno caldo circondato da un rivestimento esterno più freddo. Il centro è
costituito dal cervello e dagli altri organi vitali contenuti nel cranio, nel petto e
nell'addome. Il rivestimento è ciò che rimane: la pelle, il grasso, i muscoli e gli
arti. In effetti è una zona cuscinetto tra il nucleo e il mondo esterno a proteggere
gli organi dai catastrofici cambi di temperatura. > ' Il mantenimento di una
corretta temperatura interna è il fattore più importante per la sopravvivenza.
Persino al freddo o al caldo più estremi, la temperatura interna varierà al massimo
di due gradi in più o in meno rispetto a 36,8 °C, mentre quella esterna sarà
inferiore solo di qualche grado. Se la temperatura interna sale oltre i 42,7 °C o
scende sotto i 28,8 °C, si muore.
Il corpo genera energia e calore bruciando combustibile. Quando si comincia a
tremare, il corpo ti sta dicendo che sta perdendo calore più in fretta di quanto non
sia in grado di generarne. Il riflesso del tremore mette in azione molti muscoli,
aumentando la produzione di calore e bruciando altro combustibile. Se la
temperatura all'interno del tuo corpo scende anche solo di qualche grado, sei nei
guai. Per scaldarti di nuovo, tremare non sarà sufficiente.
Il corpo ha un termostato, situato in un piccolo lembo di tessuto nervoso alla base
del cervello, che controlla la produzione o la dispersione di calore nell'intero
organismo per mantenere una temperatura costante. Quando il corpo comincia ad
andare in ipotermia, il termostato reagisce ordinando di sottrarre calore alle
estremità per convogliarlo verso il centro. Le mani e i piedi cominciano a
irrigidirsi. Mentre la temperatura interna scende, il centro sottrae calore anche alla
testa. Quando ciò avviene, la circolazione rallenta e la vittima non riceve
l'ossigeno o lo zucchero di cui il cervello ha bisogno: lo zucchero di cui
normalmente il cervello si nutre viene bruciato per produrre calore. Man mano
che il cervello comincia a rallentare, il corpo smette di tremare e inizia un
comportamento irrazionale. Questo è un chiaro segno di pericolo, ma è diffìcile da
riconoscere in se stessi, perché uno dei primi effetti dell'ipotermia è la perdita di
volontà. Si smette di tremare e di preoccuparsi. In effetti si sta morendo, ma la
cosa non potrebbe interessarci di meno. A quel punto il corpo perde la capacità di
riscaldamento e, anche se ci si infila in un sacco a pelo, continua a raffreddarsi. Il
battito cardiaco diventa irregolare, lo stordimento si trasforma in semincoscienza
che degenererà poi in una perdita totale di coscienza. La sola speranza è
aggiungere calore da una fonte esterna: un fuoco, bevande calde, un altro corpo.
In effetti, uno dei metodi più efficaci per riscaldare una vittima dell'ipotermia è
metterla in un sacco a pelo con un'altra persona la cui temperatura corporea è
ancora normale.
Mi sentivo abbastanza sicuro, il che era sciocco perché la nostra situazione non lo
era affatto. Ci trovavamo su un terreno desertico e occupavamo uno dei due
possibili nascondigli evidenti nel raggio di molti chilometri. Ero felice che ci
fossimo fermati perché potevamo riposare, ma anche a disagio perché i nostri
corpi volevano continuare a muoversi per restare caldi. Tuttavia non c'era altro da
fare se non restare sdraiati là, scambiarci il calore corporeo e aspettare il buio.
La sabbia compatta era come fango rappreso. Se prima ci era apparsa poco
familiare, adesso con la neve ci sembrava di essere sulla luna. La nevicata si
trasformò in tormenta. Cercai di considerare il lato positivo della faccenda:
almeno la visibilità era ridotta a non più di cinquanta metri.
I veicoli andarono su e giù per tutta la giornata, spostandosi da est verso ovest
lungo la fila dei tralicci elettrici: autocarri civili, autocisterne, Land Cruiser e
veicoli corazzati su ruote. Gli ultimi due mezzi ci fecero sussultare perché si
avvicinarono a circa duecento metri dalla nostra postazione. Stavano venendo
verso di noi? Non che potessimo fare granché; anche se fossimo scappati di corsa,
non avevamo nessun posto dove andare.
C'erano molti più veicoli di quanto non ci aspettassimo, molta più attività militare:
ma in quel momento non era la cosa più importante. Accucciati nella neve,
sferzati da un vento maligno, eravamo molto più preoccupati di restare caldi e
vivi. Eravamo esausti ed esposti al vento. C'erano tutti gli ingredienti per fare una
brutta fine. L'aria già fredda, combinata con un vento forte, può produrre una
temperatura a effetto vento capace di uccidere. Se si espone della carne a un vento
che corre a cinquanta chilometri all'ora, essa congela in un minuto anche se ci
sono appena 9 °C. Molto tempo dopo ci avrebbero detto che quelle erano le
peggiori condizioni climatiche che la regione avesse conosciuto da trent'anni. La
nafta congelava nei serbatoi dei veicoli.
Passai dalla fiducia a una forte preoccupazione. Avevo visto della gente morire in
quelle condizioni. Che fine ingloriosa per dei SAS, pensai: morire di freddo
invece di essere uccisi dal nemico. Non avrei mai sopportato quella presa per il
culo.
Non potevamo metterci a sedere perché saremmo stati visibili a distanza. La
sicurezza del nostro nascondiglio dipendeva dall'angolo di visuale: poiché per
vederci avrebbero dovuto guardare verso l'alto, la nostra speranza era che il
muricciolo ci offrisse copertura sufficiente. Ma era indispensabile che ce ne
stessimo tranquilli e coricati.
Alle 11.00, la situazione stava diventando incontrollabile. Eravamo raggomitolati,
rannicchiati l'uno contro l'altro e tremavamo convulsamente, mormorandoci
paroline di incoraggiamento e raccontandoci stupide barzellette. Avevo le mani
gelate, inutilizzabili, e molto dolenti. Eravamo coperti da una notevole coltre di
neve. Bisognava per forza mandare al diavolo la tattica e cercare di sopravvivere.
Decisi che dovevamo infrangere le procedure operative e prepararci una tisana
calda.
Scavai una piccola buca e accesi una mattonella di combustibile solido. Riempii
una tazza d'acqua e la tenni sopra la fiamma.
Il calore sulle mani e sulla faccia era meraviglio'so. Agitai una mano per
disperdere il vapore. Aggiunsi all'acqua calda granuli di caffè, zucchero e latte e
la feci circolare, mettendomi immediatamente a preparare una cioccolata.
« A questo punto, con tutto quel maledetto vapore », disse Dinger, « potrei anche
farmi una fumatina. »
Era patetico mentre cercava di accendersi una sigaretta. Le mani gli tremavano
così violentemente che non riusciva a portarsela alla bocca, e quando ci riuscì era
tutta bagnata. Ma lui insistette, e nel giro di cinque minuti sfumazzava felice,
espirando il fumo dentro la giacca per nasconderlo.
Quando la cioccolata fu pronta, tutti quanti stavamo già tremando e borbottando
di nuovo. La bevanda calda non ci rialzò molto la temperatura, ma era meglio che
una pedata nei coglioni.
Senza dubbio fece la differenza tra la vita e la morte.
A mezzogiorno, c'era ancora passaggio di veicoli. Non riuscivamo sempre a
vederli, ma non importava. Li avremmo sentiti se si fossero fermati. Cercammo di
cambiare posizione in modo che i più esposti al vento e alla neve avessero almeno
la possibilità di essere circondati dagli altri e trarne un po' di calore corporeo.
Mentre la temperatura interna del nostro corpo continuava a scendere, mi resi
conto di avere la voce impastata e la testa leggera: i primi sintomi dell'ipotermia.
Verso le 14.00, Mark capì di essere proprio nei guai. « Dobbiamo metterci in
marcia fra un minuto », esplose. « Io qui sto crepando. »
Era il meno vestito di tutti. Aveva solo la casacca, la camicia e il maglione, e tutti
fradici. Ci disponemmo intorno a lui cercando di scaldarlo un po'. Bisognava
decidersi, e dovevamo farlo tutti insieme: ci saremmo mossi alla luce del giorno
per salvare Mark rischiando di essere compromessi? C'erano ancora molte ore di
luce e non sapevamo a cosa saremmo andati incontro fuori del nascondiglio.
Oppure avremmo aspettato fino all'ultimo minuto, quando ci avrebbe detto che
proprio non ce la faceva più?
Cercai di incoraggiarlo a tenere duro. « Okay, se è indispensabile possiamo anche
partire tra mezz'ora, ma cerchiamo di star qui fino all'ultimo. »
Se avesse scrollato la testa spiegando che doveva muoversi a tutti i costi, mi sarei
alzato senza battere ciglio; ma lui annuì.
Dopo altre due ore, non era soltanto Mark ad avere bisogno di aiuto. Eravamo in
una situazione disperata. Se fossimo rimasti lì, saremmo morti tutti prima di sera.
Sbirciai oltre il muretto. Rimaneva solo un'altra ora e mezzo di luce; le nuvole e la
neve avrebbero fatto calare il buio prima.
Stava ancora nevicando forte. Non vedevo né sentivo nulla, a parte l'incredibile
scenario del deserto arido coperto da una spessa coltre di neve. , «Andiamo»,
dissi.
Dato che avremmo lasciato un sacco di impronte nella neve - anche se speravamo
che nella notte continuasse a nevicare o a piovere cancellando le tracce -, ci
dirigemmo prima verso est, convergendo poi per puntare a nord-ovest. Il
diversivo si dimostrò una buona mossa perché non ci eravamo allontanati più di
un chilometro dalla postazione quando sentimmo gridare e schiamazzare dietro di
noi. Ci voltammo e vedemmo alcune luci. Un gruppo di veicoli aveva circondato
il nostro nascondiglio.
«Merda! » esclamò Legs. «Adesso devono solo seguire le nostre impronte. »
Ma stava cominciando a calare il buio, e le tracce degli iracheni dovevano essersi
confuse con le nostre, disorientandoli.
Il piano prevedeva di dirigerei verso nord-ovest dopo avere attraversato la strada
asfaltata, per prendere poi la via più breve verso il confine con la Siria. Se
avessimo cominciato ad andare a nordovest da quel lato della strada, infatti,
c'erano probabilità che ci intercettassero, con tutti i movimenti che avevamo
osservato durante la giornata.
Ma adesso il piano andava modificato. Ben presto avremmo avuto problemi
d'acqua. Riempimmo le nostre borracce di neve, ma anche nelle migliori
condizioni atmosferiche ci vuole molto tempo per sciogliere la neve e produrre
comunque pochissima acqua. Nel nostro caso, il tempo era così freddo che neve e
ghiaccio restavano compatti. Non si può mangiare la neve. Non solo sciogliendosi
in bocca brucia calore corporeo, ma ti raffredda dall'interno, gelando gli organi
vitali. D'altra parte, non sapevamo dove e quando saremmo stati in grado di
procurarci altra acqua. Perciò avevamo una fretta del diavolo. ' La seconda e più
importante considerazione che determinò il nostro cambiamento di programma
era il tempo. Ci trovavamo su un altopiano a circa trecento metri sul livello del
mare, e quanto più ci spingevamo a nord-ovest tanto più l'altitudine aumentava. In
quelle condizioni l'effetto vento era micidiale. Dovevamo sottrarci al vento e alla
neve che continuava a cadere. Tuttavia, le possibilità di ripararci erano scarse
perché il terreno non offriva alcun riparo.
Come tutti i sistemi idrografici, l'Eufrate segue il fondovalle.
Il fiume scorreva circa duecento metri più in basso rispetto a noi, quindi se ci
fossimo diretti a nord verso di esso non solo ci saremmo allontanati dal fronte
nevoso, ma con un po' di fortuna avremmo anche trovato riparo dal vento.
Puntammo verso nord. Ci saremmo potuti dirigere a ovest un po' più tardi: in quel
momento era vitale per la nostra sopravvivenza che ci allontanassimo da
quell'altopiano.
Tre chilometri dopo il nostro punto di sosta del muretto uscimmo dal fronte
nevoso. Ero incazzato come una iena. Se quella mattina fossimo riusciti a coprire
quella piccola distanza in più, non avremmo passato l'intera giornata sdraiati nella
neve.
Avevamo ancora il grosso problema dell'effetto vento. Mi avvolsi la sciarpa a rete
attorno alla testa e disposi la bussola davanti a me per la navigazione strumentale.
Tenevo il pollice della mano destra sopra la parte luminosa della bussola, e la
giacca tesa sulla mano il più possibile per difenderla dal freddo. Sul braccio destro
bilanciavo l'arma. Abbassai lo sguardo e vidi che la casacca si era ghiacciata.
Sembrava uno stagno gelato. Volevo sistemarla, ma era più rigida di un'asse.
Anche la sciarpa si era congelata intorno alla mia faccia. Cercai di muoverla, ma
era dura come un baccalà.
Non osavo muovere le mani perché avrei fatto penetrare il freddo. Dovevamo
spostarci a tutta velocità per generare calore corporeo. La scena era desolante:
nessuna luce naturale, solo il rumore del vento. Era come se fossimo soli in un
pianeta disabitato.
Aumentammo la velocità verso nord, a testa in giù, la faccia livida per il freddo. I
fari dei veicoli si spostavano di tanto in tanto in lontananza indicando la strada
asfaltata. Il terreno cominciò a variare di nuovo, da sabbia dura a roccia con
pietrisco. Tutto intorno, nella zona, c'erano posti di blocco dove i bulldozer
avevano scavato trincee perché i carri armati si mettessero in posizione « a scafo
sotto ». Erano pieni di ghiaccio e neve: dovevano essere lì già da un po'.
Ci abbassammo di circa settanta metri di altitudine, soffrendo come cani. Guardai
da dietro la sciarpa e pensai: qui, se il tempo non migliora in fretta, siamo morti.
Avevamo superato la strada di tre chilometri, quando decisi che bisognava tornare
indietro. L'effetto vento ci stava uccidendo. Inciampavamo, eravamo scossi da
violenti brividi e, peggio ancora, cominciavamo a spegnerci, le nostre menti
vagavano.
Lo stadio successivo era il coma. Avremmo riattraversato la strada e ci saremmo
ritirati per altri due chilometri fino al letto asciutto di un torrente che correva più o
meno parallelo all'asfalto. Era il solo posto riparato dal vento che avessimo
trovato quella notte. Se non avessimo ripreso un po' di energie là, non le avremmo
riprese mai più.
Così tornammo, gettando letteralmente al vento ogni tattica. A quel punto
l'invisibilità era irrilevante. Volevamo solo salvarci la vita. Scendemmo
barcollando nell'avvallamento e ci rannicchiammo l'uno contro l'altro. Mark era
quello in condizioni peggiori, ma avevamo tutti bisogno di aiuto. Bob e io gli
saltammo addosso per trasmettergli calore. Dinger e Legs ci imitarono, poi
preparammo un tè caldo... di notte sarebbe assolutamente vietato, ma chi se ne
frega? Quando sei morto, non ci sei più. Meglio rischiare e sopravvivere per
combattere un altro giorno. Forse, se non ci avessero scoperti, avremmo
cominciato a riprenderci. In questo caso, o ce l'avremmo fatta o saremmo morti.
Diversamente, saremmo morti comunque.
Preparammo due tè e li facemmo passare. Facemmo trangugiare a Mark del cibo
caldo. Diceva cose insensate, era decisamente fuori di testa.
Dopo avere passato un paio d'ore ammucchiati l'uno sopra l'altro per cercare di
scaldarci, le nostre condizioni migliorarono un po'.
Personalmente avrei preferito non muovermi perché eravamo ancora congelati e
bagnati. Ma sapevamo di doverci mettere in marcia, altrimenti non ce l'avremmo
mai fatta. Dopo tutto, lo scopo era evitare la cattura.
Avevamo tre fattori di cui preoccuparci: il tempo, le nostre condizioni fisiche e il
nemico. A causa del terreno, era molto difficile evitare il vento. Dovunque
fossimo andati e qualunque cosa avessimo fatto, ci sarebbe stato in ogni caso. Le
nostre condizioni fisiche avrebbero potuto essere peggiori, ma non di molto.
L'ideale sarebbe stato tenerci al riparo dal vento finché il tempo non fosse
migliorato. Ma quanto ci sarebbe voluto? Di questo passo, anche la mancanza
d'acqua poteva diventare un grave motivo di preoccupazione.
In quella zona c'erano molti più nemici di quanto ci avessero detto. Se fossimo
stati scoperti, l'azione avrebbe potuto essere molto più rapida perché c'erano già le
truppe sul posto. E se avevano scoperto il nostro punto di sosta, sapevano che
eravamo nella zona.
Dovevamo muoverci, ma in quale direzione? A favore dell'ipotesi «nord, poi
ovest» c'era il fatto che ci saremmo mantenuti al di fuori del fronte nevoso. Di
contro, saremmo stati esposti al vento per un periodo maggiore e saremmo stati
più vicini al fiume e agli abitati, per cui nascondersi diventava più difficile.
Dirigerci a nord-ovest ci avrebbe riportato nel fronte nevoso, ma sarebbe stato più
rapido, garantendoci inoltre maggiori opportunità di nasconderci. La quota era di
circa quattrocento metri, ma una volta in cima avremmo dovuto scendere di
duecento metri fino al confine. Se le nostre condizioni fisiche non fossero
peggiorate, avremmo anche potuto farcela in una notte.
In qualunque direzione fossimo andati, avremmo avuto il problema del vento.
Quindi era meglio non perdere tempo. Se non ce l'avessimo fatta, avremmo solo
dovuto ridiscendere e rifare i conti; ma se non ci fossimo mossi subito, non
avremmo avuto abbastanza tempo. Più tardi fossimo partiti, meno oscurità
avremmo avuto sull'altopiano. Avremmo dovuto coprire all'incirca venti-
venticinque chilometri, quindi dovevamo muovere il culo e andar via.
Il letto del fiume correva verso nord-ovest e decidemmo di approfittarne per due
ragioni. Prima di tutto, ci garantiva una copertura tattica; secondariamente, ci
proteggeva dal vento. Il solo svantaggio era la possibilità di avvicinarsi a qualche
installazione militare. Il fossato era un'ottima via per chiunque avesse intenzione
di attaccare, quindi c'erano possibilità che fosse presidiato da armi e sentinelle.
Tuttavia, avremmo corso quel rischio.
Era quasi mezzanotte e ci stavamo muovendo da circa due ore, marciavamo in
ordine tattico per via del gran numero di veicoli che avevamo visto arrivare in
quella direzione. Muoversi così lentamente è una pessima cosa, perché non si
riesce a mantenersi caldi come si vorrebbe; tuttavia, se ci si imbatte in qualcosa di
spiacevole, è più facile sganciarsi.
Legs era avanti a fare da battistrada. Io ero dietro di lui, quindi venivano Bob,
Mark e Dinger. Mentre ci spostavamo lungo il letto del fiume, controllavo la
nostra navigazione con la bussola per essere certo che il fossato ci conducesse più
o meno nella giusta direzione. Gli altri coprivano i lati. Faceva ancora un freddo
bestiale, ma dato che ci muovevamo in modo tattico avevamo altro cui pensare.
Il terreno cominciò a diventare di nuovo roccioso, con pietrisco, il che procurava
l'ulteriore rottura di cazzo del rumore, ma per una volta l'ululato del vento ci
favoriva. Il cielo era chiaro, con tre quarti di luna a occidente: un vantaggio per la
navigazione, ma non per nascondersi. Le nuvole se n'erano andate, ma col
risultato che faceva ancora più freddo.
Il paesaggio cominciava a variare. La zona in gran parte era piatta, ma di tanto in
tanto il terreno saliva dolcemente lungo un pendio di tre o quattrocento metri. Il
terreno ondulato è ottimo per nascondersi e cominciammo a sentirci più ottimisti.
Finalmente arrivavano le colline.
La distanza tra i membri del gruppo era imposta dalla luce. In teoria sarebbe
meglio una certa distanza, in modo che se si è sorpresi dal fuoco nemico non tutti
vengono avvistati e presi di mira contemporaneamente; ma poi bisogna stabilire
un compromesso tra questa esigenza e quella di riuscire a vedere cosa sta
succedendo all'uomo che ti precede. Noi stavamo marciando a circa quattro metri
l'uno dall'altro.
Nessuno parlava. Comunicavamo con le mani, o ripetendo i movimenti del
battistrada. Se il battistrada si ferma, il ragazzo dietro di lui fa lo stesso e così via
fino all'ultimo della fila. Se il battistrada si inginocchia, tutti si inginocchiano.
Queste azioni vanno eseguite con lentezza e con determinazione, altrimenti si
provocano movimento e rumore.
Legs si bloccò all'improvviso.
Dietro di lui ci bloccammo tutti. Coprimmo i lati e ci guardammo intorno,
aspettando di vedere quello che aveva visto lui. Alla nostra destra c'era una
piantagione; vedevamo soltanto le punte degli alberi. Non c'erano né luci né
movimenti. Sulla sinistra, a non più di cento metri, un altopiano. A poco a poco,
sopra la cima della collina apparvero alla vista le sagome di due uomini.
Entrambi avevano delle armi lunghe, cioè fucili o mitragliatori.
Legs cominciò molto lentamente a inginocchiarsi per scendere oltre il ciglio del
letto del fiume. Avevamo la copertura del vento e di quei due uomini, che
facevano rumore. Ma dietro di loro potevano essercene altri duecento: non lo
sapevamo. Con lentezza e precisione cominciammo a metterci al coperto.
Era possibile che fossero due dei nostri che si erano persi? Il vento trasportava
frammenti di parole, e mi sforzai di riconoscere una voce. Ma sicuramente né
Vince, né Stan, né Chris si sarebbero mai stagliati all'orizzonte a quel modo, e
men che meno sarebbero andati a spasso chiacchierando. Era frustrante.
Continuavo a sperare con tutte le forze che fossero loro e che in qualche modo
saremmo riusciti a raggiungerli.
Si fermarono guardandosi in giro. Sperai che non avessero apparecchi per la
visione notturna. In caso affermativo, se ci avessero visti a una così grande
distanza, beccarli diventava una faccenda da fuoriclasse. Poi mi attraversò la
mente un pensiero folle... Chris aveva il nostro visore notturno: se ci fossimo
mossi, ci avrebbe visti. No, non avrei davvero fatto una cosa del genere.
Avrebbe guardato, ma avrebbe visto solo dei corpi e non sarebbe stato in grado di
identificarci. In realtà le probabilità di riunirci erano diventate irrilevanti.
Erano ancora troppo lontani per identificarli. Ripresero a camminare e li osservai
scendere dall'altopiano e passare proprio davanti a noi. Ci abbassammo: anche se
uno dei ragazzi in coda non aveva visto le due sagome, avrebbe capito che era una
situazione di pericolo. Spiegargli cosa stava succedendo sarebbe stato
tatticamente imprudente, perché avrebbe comportato movimenti e parole.
Rimanemmo per un'eternità a fissare quei due tizi che si guardavano in giro per
vedere se c'era qualcuno. Arrivarono al letto del fiume e vennero nella nostra
direzione. La situazione era di estrema gravità. Saremmo stati scoperti da quelle
teste di cazzo.
Avremmo dovuto restare nascosti il più a lungo possibile per poi saltare fuori
quando ci avessero visto. Tutti avevano fatto la stessa valutazione. Vidi Legs
appoggiare delicatamente a terra il suo 203 e piano, molto piano, allungare la
mano verso il fodero di pelle del suo pugnale da combattimento. L'arma è infilata
in modo da non fare nessun rumore quando si estrae. Dietro di me Bob si stava
togliendo dalla spalla la cinghia della Minimi. Lui non aveva pugnale: aveva la
baionetta dell'M-16 infilata in un fodero di plastica e metallo. La baionetta
scricchiola quando viene estratta, quindi Bob si limitò a mettere la mano
sull'impugnatura e a sfilarla leggermente. L'avrebbe estratta completamente solo
all'ultimo momento.
Non potevamo correre il rischio di lasciargli dare l'allarme.
Dovevamo ucciderli appena a portata di mano. Nei film, l'assalitore mette la mano
sulla bocca dell'assalito e con un movimento rapido affonda il coltello nel cuore o
nel collo, e il tizio cade. Sfortunatamente non funziona proprio così. Le
probabilità di infilare una coltellata dritta nel cuore sono molto remote e non
valgono nemmeno lo sforzo. La vittima può avere un cappotto pesante e sotto un
giubbotto antiproiettile. Magari provi a dargli una coltellata e lui si volta a
chiederti pietà. Se sei alto un metro e settantacinque e lui è due metri e pesa cento
chili, sei nella merda. Anche se recidi la giugulare urlerà e strillerà per almeno un
minuto. In realtà, gli devi afferrare la testa, tirargliela indietro come se fosse una
pecora e continuare a tagliare finché gli tranci l'esofago e la testa si è quasi
staccata nelle tue mani.
In quel modo non respirerà più e non avrà modo di mettersi a urlare.
Legs e Bob erano pronti. Noi li avremmo aiutati coprendo la bocca agli iracheni e
impedendo che strillassero. Loro sarebbero dovuti uscire come fulmini dal letto
del fiume e balzare loro addosso, controllare che non fossero due dei nostri e
sistemare la cosa. L'ideale sarebbe stato identificarli prima che riuscissero a
vederci, ma tutto sarebbe successo contemporaneamente. Se i due fossero stati dei
nostri, c'era la possibilità che ci scambiassero per iracheni e ci sarebbe stato un
terribile scontro fratricida.
Era successo alle Falkland, quando una pattuglia del Reggimento ne aveva
intercettata una dello Special Boat Squadron.
Erano a venti metri da noi. Mi accovacciai presso la riva del fiume e sollevai lo
sguardo. Altri dieci o quindici passi, pensai, e ci sarebbe stata un'improvvisa
esplosione di movimento dietro e davanti a me seguita o dal ricongiungimento
con i nostri compagni perduti o da altri due morti per le statistiche.
Trattenni il fiato. Il freddo e gli stenti erano spariti. La mia mente era concentrata
al cento per cento su ogni movimento che vedevo. E quei tizi non avevano il
minimo sospetto che qualcuno stesse per tagliare loro la gola.
Si fermarono.
Avevano visto qualcosa? Erano abbastanza vicini perché riuscissi a vedere che le
loro armi erano Kalashnikov. Scesero nel letto del fiume a non più di sei-otto
metri da noi e si diressero verso l'altra sponda: poi risalirono e si avviarono verso
la piantagione... erano i due uomini più fortunati dell'Iraq. Per poco non scoppiai a
ridere. Mi sarebbe piaciuto vedere Bob saltare su e fare il lavoro, quel furetto
indemoniato che non era altro.
Rimanemmo dove ci trovavamo per circa un quarto d'ora, controllando tutto più
volte. Stavamo bene, eravamo al coperto e non stavamo facendo rumore.
Dovevamo solo prendere tempo e assicurarci di non imbatterci in qualcos'altro.
Ci stringemmo.
Non sapevamo che cosa ci fosse dall'altra parte dell'altopiano da cui erano giunti i
due iracheni. Potevano essere semplicemente due tizi che vivevano nella
piantagione, o forse invece stavamo per trovarci in un grosso casino. Meglio
fermarsi, prendere tempo, usare il nascondiglio.
« Ci dirigiamo verso sud e lo aggiriamo », sussurrai all'orecchio di Bob, che
trasmise il messaggio lungo la fila.
Marciammo come prima, con Legs come guida. Avevamo percorso due
chilometri quando ci trovammo davanti un rilievo. Scegliemmo di scollinare, ma
a un certo punto Legs si fermò. Si inginocchiò e si sdraiò. Eravamo proprio allo
scoperto.
Mi coricai di fianco a lui. Indicò verso l'alto. A circa cinquanta metri, sul crinale,
si vedeva una testa. La osservammo andare avanti e indietro, ma non individuai
nessun altro. Feci cenno al gruppo con dei segni che dovevamo aggirare quella
postazione da est. Circumnavigammo l'altopiano per circa quattrocento metri e ci
dirigemmo a ovest.
Dall'altra parte dell'altopiano vedemmo le luci interne di veicoli fermi. Ci
eravamo imbattuti in un gruppo di mezzi parcheggiati per la notte. Dovemmo di
nuovo tornare indietro, dirigerci verso sud, poi riprovare ancora a ovest.
Incontrammo altre truppe e altre tende. Svoltammo di nuovo a sud per un
chilometro, poi a ovest, e finalmente fummo salvi. Ma quegli incontri ci erano
costati due ore, e non avevamo tempo da perdere.
Marciammo a passo sostenuto lungo l'altopiano verso la Siria.
Adesso ci trovavamo a un'altitudine di oltre trecento metri e faceva più freddo di
quanto avremmo potuto immaginare. L'area sembrava una fotografia della luna,
bianca e squallida, con sparsi rilievi. Le colline incanalavano il vento verso di noi.
Dovevamo chinarci molto per passare tra i varchi. Giungemmo in una zona di
terra sconnessa interrotta da crateri e carcasse di carri armati.
Avrebbe potuto essere una vecchia base di lancio, o un campo di battaglia. I
crateri erano pieni d'acqua, neve e ghiaccio: mi ricordavano le vecchie fotografie
della battaglia della Somme.
Ci eravamo accordati che se qualcuno avesse cominciato a soffrire il freddo,
avrebbe dovuto comunicarlo subito senza mettersi a fare il duro. A richiesta di
chiunque, ci saremmo sdraiati subito o avremmo trovato una zona riparata dal
vento. Se avessimo dovuto restare lì fino al giorno dopo, l'avremmo fatto.
Eravamo ancora intirizziti e bagnati.
Nelle primissime ore del mattino, Mark cominciò a cedere.
«Dobbiamo scendere dall'altopiano perché qui sto malissimo.»
Ci fermammo e cercai di riflettere. Non era facile concentrarsi... la pioggia gelida
mi batteva diritta sulla faccia. La mia mente era un magma indistinto di freddo e
bagnato, ed era difficile scacciare la sofferenza abbastanza a lungo per pensare.
Dovevamo procedere ancora verso ovest e cercare di superare l'altopiano,
sperando di trovare qualche copertura, o piuttosto tornare indietro, dove sapevamo
che saremmo stati protetti dal vento? Decisi che dovevamo scendere
dall'altopiano, per dare a Mark qualche possibilità di sopravvivenza.
Il solo posto di cui eravamo sicuri che fosse riparato dal vento era indietro, nella
zona del letto del fiume accanto alla strada asfaltata. Scendemmo più o meno
paralleli alla strada, ma circa duecento metri lontani da essa per evitare di essere
illuminati da possibili fari. Non ci potevamo permettere il lusso della navigazione:
non c'era tempo sufficiente, dovevamo tornare indietro e recuperare forze; inoltre
non volevamo trovarci allo scoperto in piena luce. Impiegammo due terribili ore
per tornare. Marciammo il più rapidamente possibile, e poco prima dell'alba
trovammo una posizione, una depressione nel terreno, un compromesso tra un
nascondiglio e un riparo dalla furia degli elementi. Avremmo riprovato
l'indomani.
Era un fossato profondo non più di novanta centimetri. Entrammo e ci
accovacciammo. Era sconfortante. Avevamo marciato per un numero spaventoso
di chilometri solo per farne meno di dieci in direzione nord-ovest. Ma è meglio
perdere la distanza percorribile in una notte che perdere un uomo. Riuscivamo a
vedere la strada asfaltata circa due chilometri a nord. La depressione correva
lungo la linea del vento, ma eravamo fuori dal peggio.
Ci rannicchiammo tenendo gli occhi aperti.
Alle prime luci del 26, controllammo di non trovarci in cima a una postazione
nemica. C'era solo una parte di terreno che ci sovrastava e, dato che eravamo
rannicchiati contro un bordo della depressione, le probabilità di essere visti
diminuivano.
Il tempo era cambiato. Non c'era una sola nuvola in cielo e quando uscì il sole fu
un conforto, anche se solo psicologico, perché faceva ancora molto freddo. Il
vento continuava a imperversare e noi eravamo bagnati fradici.
Io avevo un binocolo, un bel giocattolino che avevo comprato da un gioielliere a
Hereford. Guardai verso nord, alla strada, che arrivava a una pompa di benzina.
C'era un flusso regolare di veicoli, uno ogni pochi minuti; autocisterne di petrolio
e d'acqua, Land Cruiser civili con il marito che guidava e la moglie tutta vestita di
nero seduta sul sedile posteriore. Di solito i veicoli arrivavano a gruppi di tre o
quattro. C'erano anche molti convogli militari, con blindati e camion.
Guardando a sud, vidi a un paio di chilometri alcuni tralicci dell'elettricità che
correvano da sud-est a nord-ovest, paralleli alla strada. Tre o quattro mezzi li
costeggiavano in direzione sudest, come se li prendessero come riferimento per la
navigazione.
Eravamo tra due fuochi.
Ci rannicchiammo gli uni contro gli altri, tentando di tenere gli occhi aperti, ma
addormentandoci frequentemente e svegliandoci di soprassalto. Eravamo
sopravvissuti alla notte e adesso speravo solo che avremmo retto di nuovo fino al
tramonto.
Ci esaminammo i piedi. Secondo la prassi ci si deve togliere solo uno stivale alla
volta. Eravamo ben abituati alle dure marce nelle peggiori condizioni, ma gli
sforzi dell'ultima notte ci avevano prostrati. Avevamo marciato per dodici ore,
coprendo più di cinquanta chilometri, nelle peggiori condizioni climatiche che
avessimo visto da molto tempo. Avevamo i piedi gonfi e tumefatti.
Dinger si ricordò che Chris indossava un paio di stivaletti che gli erano costati un
centinaio di sterline. « Se è ancora in giro che corre, scommetto che avrà i piedi a
posto, con le sue scarpe di Gucci », disse massaggiandosi le dita dolenti.
Mangiammo roba fredda. Non ci fidammo a cucinare perché eravamo su un
terreno troppo scoperto. Avevamo abbastanza sacchetti di cibo per qualche
giorno, ma la preoccupazione per l'acqua stava diventando urgente.
Ci riposammo e riflettemmo. Il grande piano a quel punto era salire l'altopiano
quella notte, superarlo e poi scendere sul terreno - una pianura, secondo la mappa
- che ci avrebbe condotto al confine. In teoria, mettendocela tutta avremmo potuto
passare la frontiera quella notte. Ci volevano ancora soltanto dodici ore di marcia
serrata. La cosa positiva era che non trasportavamo più molto peso, solo il
cinturone e l'arma. E avevamo l'incentivo: uscire dall'Iraq per entrare in Siria. Non
avevamo idea di com'era la situazione al confine: lo avremmo scoperto quando ci
fossimo arrivati.
Ristudiammo la carta per assicurarci di sapere tutti dove ci trovavamo, dove
stavamo andando e cosa avremmo visto lungo la strada: senza molta precisione,
perché stavamo sempre usando la carta aerea. Su questo tipo di carte
l'allineamento dei tralicci e anche il resto è molto approssimativo, ma sapevamo
comunque che c'era un importante abitato circa tre ore a nord, cioè alla nostra
destra. Quello sembrava il solo ostacolo fisso.
Ci stavamo riprendendo tutti abbastanza bene. In marcia sussurrammo barzellette
sconce, cercando di tenere alto il morale.
Avevamo ancora freddo, ma adesso la situazione era sotto controllo. Almeno, non
pioveva e non nevicava più. Ero fiducioso che saremmo riusciti a farcela con un
ultimo grande sforzo.
Erano le 15.30 quando lo sentimmo. ' Din, din... beee, beee...
Questa proprio non ci voleva, mi dissi.
Diedi una rapida occhiata, ma non vidi nulla. Ci appiattammo sul terreno. A
differenza della volta in cui eravamo stati scoperti, non si sentivano né grida né
urla, solo il tintinnio di una campanella solitària. Si avvicinava sempre di più.
Sollevai lo sguardo e vidi il montone con una campanella attorno al collo.
Sembrava che le altre capre lo seguissero dovunque, perché in breve ce ne furono
dieci che brucavano sull'orlo del fossato. Ci guardarono, e noi le guardammo.
Tirai un paio di sassi al montone per allontanarlo.
Quello, per tutta risposta, si avvicinò ancora di più, seguito da tutte le altre.
Quando abbassarono la testa e cominciarono a masticare, si sentirono cinque
sospiri di sollievo. Furono un po' prematuri. Pochi secondi dopo comparve la testa
del vecchio pastore. A occhio e croce doveva avere settant'anni. Aveva un ampio
caffetano di lana, con un maglione largo di lana sopra. La testa era avvolta in un
turbante. Sulle spalle portava uno sdrucito sacchetto di pelle. Aveva in mano delle
palline e mormorava « Allah » facendosele scorrere tra le dita.
Ci guardò e non battè ciglio. Nessuna sorpresa, nessuna paura, niente di niente.
Gli sorrisi tanto per fare il disinvolto.
Con totale noncuranza, come se fosse ordinaria amministrazione scoprire cinque
forestieri rannicchiati in un fossato in mezzo al nulla, si accovacciò accanto a noi
e cominciò a blaterare. Non avevo idea di cosa stesse dicendo.
Lo salutammo: « As salaam alaìkum ».
Rispose: « Wa alaikum as salaam ».
Ci stringemmo la mano. Sembrava assurdo: lui era veramente cordialissimo. Mi
chiesi se sapeva che c'era in corso una guerra.
In pochi secondi diventammo amiconi.
Volevo continuare a fare conversazione, ma il mio arabo non era all'altezza. Così
gli feci una domanda che mi suonò spropositata già mentre aprivo bocca.
« Wayn al suk? » chiesi.
Eravamo in pieno deserto e io gli chiedevo la strada per il mercato.
Lui non battè ciglio e si limitò a indicare a sud.
«Perfetto, ottima domanda», osservò Dinger. «Almeno la prossima volta che
verremo qui sapremo la strada per andare da Sainsbury's. »
Bob individuò una bottiglia nella sacca del vecchio. « Halib? » domandò.
Il guardiano di capre annuì: sì, era latte; e ci passò la bottiglia.
Poi estrasse dalla borsa dei datteri profumati e dolci e un pezzo di pane vecchio, e
ci sedemmo a recitare la parte degli uomini bianchi.
Mark si alzò in piedi e con noncuranza dette un'occhiata intorno. « E' da solo »,
sentenziò tutto sorridente.
Il guardiano di capre indicò verso sud e agitò la mano.
«Jaysh», disse, «jaysh.»
Inarcai perplesso un sopracciglio verso Bob.
« Esercito », tradusse, « milizie. »
Bob domandò: « Wayn? Wayn jaysh?»
Il vecchio indicò la direzione dalla quale eravamo arrivati.
Non riuscimmo a capire che cosa intendesse: ci sono molti soldati laggiù; o ci
sono molti soldati laggiù che vi cercano; o siete voi i soldati di quelle truppe
laggiù? Nessuno si ricordava come si dice distanza in arabo. Cercammo di fare
segni per indicare vicino e lontano.
Nel complesso fu piuttosto divertente. Eravamo là seduti a fare una chiacchierata
amichevole in mezzo al deserto con un tempo così proibitivo che per poco non ci
aveva ucciso.
Continuammo per circa mezz'ora, ma stavamo arrivando al momento in cui
dovevamo prendere una decisione. Lo avremmo ucciso? Lo avremmo legato e
tenuto lì finché non ce ne fossimo andati? O lo avremmo lasciato andare per i fatti
suoi? Il solo vantaggio di ucciderlo era che nessuno avrebbe saputo cosa stava
succedendo. Ma se fossimo stati catturati - cosa che dovevamo ritenere probabile
- dopo avere disseminato la regione di cadaveri di vecchi beduini, difficilmente
poi avremmo potuto aspettarci che gli iracheni ci stendessero un tappeto rosso. Se
lo avessimo legato per metterlo fuori gioco, sarebbe comunque morto di freddo
prima dell'alba. Non c'era dubbio che il suo corpo sarebbe stato scoperto.
Sembrava che ogni metro quadrato fosse presidiato da capre e pastori. ' Chi
avrebbe potuto prevedere che danno ci avrebbe procurato se lo avessimo lasciato
andare? Lui non aveva mezzi di trasporto e, a quanto poteva vedere Mark, era
solo. Erano quasi le 16.00, e presto avrebbe fatto buio. Anche se avesse lanciato
l'allarme, quando ci fosse stata una reazione sarebbe già stata notte e noi saremmo
stati in marcia verso il confine. Potevamo benissimo lasciarlo vivere. Eravamo
soldati dei SAS, non delle ss.
Decidemmo che, quando avesse deciso di andarsene, noi saremmo rimasti a
osservarlo, avremmo aspettato che sparisse alla nostra vista e poi avremmo attuato
il piano di diversione a sud.
Cinque minuti dopo ci salutò e si avviò con le capre, come se del mondo non gli
importasse nulla. Lo lasciammo andare per un chilometro circa, finché
scomparve; poi ce ne andammo anche noi. Proseguimmo per qualche chilometro
verso sud, e quindi svoltammo a ovest.
Giungemmo a un piccolo avvallamento e ci fermammo per fare il punto della
situazione. C'erano diversi fattori da discutere.
Prima di tutto, il nostro rifornimento idrico. Ci restava abbastanza cibo per
resistere un paio di giorni, ma avevamo quasi finito l'acqua. In secondo luogo,
dovevamo presumere che il nemico conoscesse il nostro ultimo punto di sosta
della notte precedente, e quindi conoscesse anche la direzione nella quale stavamo
marciando. Terzo, eravamo stati scoperti un'altra volta; io stavo già
rammaricandomi che avremmo dovuto tenere il vecchio con noi fino al tramonto.
Eravamo ancora in cattive condizioni fisiche e il tempo sull'altopiano sarebbe
stato pessimo. La notte prima l'avevamo scampata per miracolo, e non intendevo
più correre un simile rischio, anche perché fra l'altro avevamo perso una notte di
marcia. Nel complesso, la situazione non era molto rosea e probabilmente lasciar
andare il vecchio era stato un errore. Ma quel che era fatto era fatto.
Valutammo le alternative che ci restavano come pattuglia.
Uno: continuare verso ovest, sperando di trovare acqua per la strada:
sull'altopiano le possibilità erano buone, per via della neve e del ghiaccio. Due:
dirigerci a nord fino al fiume e poi a ovest... ma eravamo un gruppo numeroso e
nasconderci sarebbe stato un problema, perché quanto più ci saremmo avvicinati
al confine, tanto maggiore sarebbe stata la densità abitativa. Tre, dirottare un
veicolo e guidare fino al confine quella notte stessa.
Erano le 17.15, e cominciava a fare buio. Date la grande attività nemica e le
nostre condizioni fisiche, decidemmo per il dirottamento di un veicolo appena
fosse scesa la sera. Prima ci riuscivamo, meglio sarebbe stato.
Quella notte la nostra situazione avrebbe subito una svolta, in un senso o
nell'altro. Prima di spostarci fino alla strada, controllammo le armi. Una alla volta,
smontammo le parti meccaniche, dando loro una bella oliata e assicurandoci che
tutto fosse pronto.
Scrutai la strada con il mio binocolo. Volevamo trovare un nascondiglio da cui
uscire e bloccare l'automezzo in modo che gli occupanti non potessero vederci
arrivare. Individuai una montagnetta su un punto dell'altopiano che avrebbe fatto
al caso nostro.
Il piano era che Bob avrebbe fatto la parte dello storpio, appoggiandosi alla mia
spalla, e io avrei fatto un patetico gesto con la mano al buon samaritano di turno.
Per farci apparire ancora più innocui avremmo lasciato le armi e le casacche agli
altri.
Loro sarebbero saltati fuori, si sarebbero impadroniti del veicolo e... via, saremmo
partiti. Nelle ultime sei ore non avevamo visto altro che camion e Land Cruiser. A
seconda del tipo di mezzo, avremmo fatto un po' di fuoristrada - dirigendoci verso
sud finché non ci fossimo imbattuti nei tralicci per poi seguirli in direzione ovest -
o avremmo rischiato di percorrere la strada.
La strada era a un'ora di marcia. Arrivammo sul terreno sopraelevato proprio al
tramonto. Legs trovò un fossato che faceva al caso nostro nella zona alla destra
della strada, e ci infilammo tutti dentro. A sud-est avevamo una buona visuale,
perché la strada era lunga e diritta per parecchi chilometri e noi eravamo su un
punto elevato. A nord-ovest, tuttavia, lungo la strada c'era un rilievo alto circa
trecento metri. Se il veicolo fosse giunto da quella direzione non avremmo avuto
molto tempo per reagire.
Bob e io avremmo cercato di fermarlo proprio di fronte al fossato, in modo che i
ragazzi potessero balzare fuori per fargli la bella sorpresa.
Ci sedemmo rivolti verso est con i binocoli pronti. Due camion si spostarono
lungo la strada, quindi svoltarono nella direzione del nostro ultimo punto di sosta.
La scarsità di luce mi impedì di vedere se scendevano delle persone, ma sembrava
che ci fosse una generica attività a entrambi i lati della strada. Evidentemente
stavano cercando qualcosa, e immaginai si trattasse di noi. Dopo un po' i veicoli
tornarono indietro sulla strada e si diressero verso la nostra posizione.
Cazzo! Ci stavano inseguendo dalla notte prima? Delle due l'una: o eravamo stati
fortunati a spostarci, o sfortunati a non avere trattenuto il vecchio... ma lui si era
avviato nella direzione diametralmente opposta rispetto a quella da cui
provenivano queste truppe. Non aveva senso.
Osservammo i fari avvicinarsi, quindi udimmo il motore arrancare in salita.
Abbassammo la testa, sperando che l'altezza del camion non desse a nessuno dei
tizi seduti nel cassone la possibilità di guardare giù nel fossato.
Aspettammo. Appena avessimo udito i camion fermarsi di fronte a noi, ci
saremmo alzati e avremmo iniziato a sparare: non avevamo nulla da perdere.
Passarono oltre. Le nostre facce erano tutte sorrisi a trentadue denti.
Bob e io ci spostammo sulla strada e ci sedemmo, guardando in entrambe le
direzioni. Dopo circa venti minuti, sul piccolo rilievo comparvero dei fari che si
diressero verso di noi. Soddisfatti che non fosse un camion militare, ci alzammo
in piedi. Il veicolo ci inquadrò con gli abbaglianti e rallentò fino a fermarsi a
pochi metri da noi. Tenni la testa bassa per proteggermi gli occhi e nascondere il
volto al guidatore. Bob e io avanzammo incerti verso la macchina. ' ' « Oh,
merda! » mormorai all'orecchio di Bob.
Tra tutti i veicoli iracheni che avrebbero potuto venirci incontro quella notte,
quello che avevamo scelto di dirottare per accelerare la nostra corsa verso la
libertà era un taxi giallo di New York degli anni '50. Non potevo crederci.
Parafanghi cromati, pneumatici a fascia bianca, tutto quanto.
Ormai eravamo bruciati. Bob era tra le mie braccia che recitava la parte del
soldato ferito. I ragazzi erano emersi dal fossato.
« Che cazzo è questo trabiccolo? » urlò Mark incredulo. « Qui si tratta della
nostra vita! Non poteva essere una fottutissima jeep? »
Il conducente cadde nel panico e fermò il motore. Lui e i due passeggeri rimasero
fermi a bocca aperta a fissare le canne delle Minimi e dei 203.
Il taxi era una vecchia carretta arrugginita con i tipici ornamenti arabi: nappe,
pompon e pacchiani simboli religiosi che pendevano da ogni posto disponibile.
Un paio di coperte gettate sui sedili a mo' di fodere. Il guidatore era isterico. I due
uomini sul retro erano uno spettacolo, vestiti entrambi con i pantaloni mimetici
della milizia e relativi berretti, e in grembo dei cestini da week-end. Mentre il più
giovane dei due spiegava che erano padre e figlio, frugammo rapidamente tra i
loro effetti personali per vedere se c'era qualcosa che valesse la pena di essere
preso.
Dovevamo agire rapidamente perché non potevamo essere certi che non ci fossero
altri veicoli in arrivo. Cercammo di guidarli sul bordo della strada, ma il padre era
in ginocchio: credeva che lo avremmo sgozzato.
«Cristiani! Cristiani!» gridò, frugandosi nelle tasche da cui estrasse un portachiavi
con attaccata una statuetta della Madonna.
« Musulmano! » disse indicando il tassista nel tentativo di scaricare il barile.
Adesso anche il tassista era in ginocchio, e si prosternava pregando. Dovemmo
pungolarlo con il fucile per farlo muovere.
« Sigarette? » domandò Dinger.
Il figlio lo omaggio di un paio di pacchetti.
Il padre si alzò in piedi e cominciò a baciare Mark, evidentemente per ringraziarlo
di non averlo ucciso. Il tassista continuava a gridare e pregare: era una farsa.
" , « Qual è il problema? » chiesi.
« Questa macchina è il suo lavoro », disse il figlio in buon inglese. « Deve dar da
mangiare ai suoi bambini. »
Bob arrivò come un fulmine. « Ne ho piene le palle di questa stronzata. »
Infilando la punta della sua baionetta in una delle narici del tassista, lo condusse
fino al fossato.
Li lasciammo là. Non avevamo tempo di legarli, volevamo solo andar via.
Avevamo bisogno di mettere dei chilometri tra noi e loro.
«Guido io», dissi. «Ho visto Robert De Niro in Taxi Driver. »
Era un vecchio cambio al volante, e non faticavo a usarlo. Dopo una serie di
stridii e molte prese per il culo, con sei manovre riuscii a voltare l'auto verso ovest
e partimmo. Legs era davanti con la bussola, gli altri tre erano ammassati sul
sedile posteriore.
Vista la fortuna che avevamo, mi aspettavo che la bussola si scassasse da un
momento all'altro, e che il prossimo cartello stradale dicesse: BENVENUTI A
BAGHDAD. GUIDATE CON PRUDENZA.
Non avevamo pistole, ma solo armi lunghe, e se fossimo stati scoperti puntarli
sarebbe stato quasi impossibile. Tuttavia eravamo felici come bambini. Questa
volta, o ce la facevamo o eravamo fritti. O stanotte o la morte.
Era una sfortuna che fossimo obbligati ad andare sulla strada, ma dovevamo
guardare alla metà piena del bicchiere. Avevamo quasi mezzo serbatoio di
benzina, che per la distanza che dovevamo coprire era più che sufficiente.
Saremmo comunque andati a una velocità contenuta perché non volevamo dare
nell'occhio o essere coinvolti nel minimo incidente. Avremmo guidato il più
velocemente possibile, abbandonato il veicolo e quindi attraversato la frontiera a
piedi.
Cercammo scherzosamente di fare un piano per l'eventualità che fossimo fermati
a un posto di blocco. Non sapevamo cosa avremmo fatto. Non potevamo cercare
di sfondare la barriera.
Questo succede nei film, ma sono fesserie; i posti di controllo permanenti sono
fatti apposta per evitare gli sfondamenti. Un veicolo è fatto apposta per essere un
bersaglio, e noi saremmo finiti forati come colabrodi. Probabilmente avrei dovuto
frenare il più in fretta possibile, poi ci saremmo radunati e messi a correre.
Sfortunatamente non stavamo leggendo un atlante autostradale, ma una carta
aerea. Le strade erano molto confuse. Legs mi indicava di prendere strade che
andavano genericamente a ovest e io controllavo sempre il contachilometri per
vedere quanto mancava.
Il primo punto significativo che incontrammo fu la zona della pompa di benzina.
Tutt'attorno c'erano veicoli militari e soldati, ma nessun posto di blocco. Nessuno
ci notò e il taxi proseguì.
Dovevamo sembrare gente che sa con sicurezza dove sta andando. Se avessimo
avuto l'aria persa, avremmo destato sospetti e qualcuno avrebbe anche potuto
avvicinarsi per offrire aiuto.
Giungemmo a un altro incrocio. Non c'era nessuna strada che andava a ovest e la
cosa migliore era svoltare a nord. Era una strada a due corsie, non a una sola come
quelle su cui avevamo proceduto fino allora, Era piena di convogli e autocisterne
di petrolio. Accelerammo per sorpassare, ma dall'altra parte stavano giungendo
veicoli militari. Nessun altro effettuava sorpassi, così dovemmo stare al gioco per
confonderci. Almeno ci stavamo muovendo, e il riscaldamento funzionava a
meraviglia. Faceva un caldo delizioso.
Il convoglio si fermò.
Non riuscivamo a capire perché. Semafori? Un veicolo in panne? Un posto di
blocco?
Legs scese e diede una rapida occhiata, ma nel buio non riuscì a vedere nulla.
Cominciammo a procedere a passo di lumaca. Ci fermammo di nuovo e Legs
scese.
«Veicoli militari davanti al convoglio», mormorò. «Uno di loro si è schiantato o
ha un guasto. »
Alcuni militari si aggiravano a piedi e in jeep, e i camion stavano facendo
manovra attorno a loro. Ci avviammo per superarli e io trattenni il fiato. Uno dei
tizi che dirigeva il traffico ci individuò e cominciò a farci segni. Mark, Bob e
Dinger finsero di essere addormentati; Legs e io sorridemmo come idioti dietro le
nostre sciarpe e rispondemmo al saluto. Mentre sparivano nello specchietto
retrovisore scoppiammo a ridere come matti.
Passammo per un centro abitato. Davanti agli edifici pubblici torreggiavano statue
di Saddam, e le sue foto erano incollate su ogni superficie disponibile. Passammo
accanto ai bar con sfaccendati dentro e fuori. Superammo mezzi civili, autoblindo
e mezzi corazzati. Nessuno fece una piega. ' A volte le strade e gli incroci ci
portavano in una direzione completamente sbagliata. Prendemmo un po' verso
nord, poi un po' a est, quindi a sud e poi a ovest, ma sempre assicurandoci che la
direzione generale fosse ovest. Mark aveva in grembo il Magellan sul sedile
posteriore e faceva tentativi per stabilire la posizione, così se tutto fosse andato a
puttane almeno ognuno di noi avrebbe avuto l'informazione di cui aveva bisogno
per passare il confine.
Dinger stava fumando come il condannato che si gode l'ultimo desiderio. Valutai
l'ipotesi di fargli compagnia. In vita mia non avevo mai fumato una sigaretta, e
pensai: stanotte potrei morire, e allora perché non provarne una, visto che ne ho la
possibilità?
« Come si fa con queste sigarette? » chiesi a Dinger. « Si manda giù il fumo o che
altro? »
« Possibile che non hai mai fumato? »
«No, amico, non ho mai fumato in tutta la mia vita.»
«Be', allora non vorrai cominciare proprio adesso, stronzo!...
Ti ritroveresti a sputare i polmoni e faresti subito un incidente. E poi, ce l'hai
un'idea di quante persone muoiono ogni anno di cancro ai polmoni? Non ti posso
assolutamente esporre a questo rischio. Una cosa però te la concedo... un po' di
fumo passivo.»
Sbuffò una nuvola di fumo nella mia direzione. Lo odiai, come lui si aspettava.
Quando eravamo insieme nella squadra antiterrorismo, Dinger guidava la nostra
Range Rover. Lui sapeva che odiavo le sigarette, quindi fumava con i vetri del
finestrino alzati.
Io mi incazzavo e li tiravo giù tutti, e lui sghignazzava come un vero coglione. Poi
alzava i finestrini e ricominciava. Aveva una cassetta intitolata qualcosa come
Elvis -I primi vent'anni. Sapeva che la odiavo, e per questo la metteva su a ogni
occasione.
Una volta stavamo percorrendo la M4 e avevo abbassato il finestrino perché lui
stava fumando. Dinger inserì la cassetta e sghignazzò. Io schiacciai l'eject, afferrai
la cassetta e la lanciai fuori del finestrino. La guerra fu dichiarata.
Avevo le mie cassette che portavo con noi nei lunghi viaggi, ma la differenza era
che si trattava di buona musica, generalmente i Madness o The Jam. Una notte,
molte settimane più tardi, ne scelsi una e chiusi gli occhi, lamentandomi che lui
fumava e scoreggiava. Prima che mi rendessi conto di cosa stesse facendo, lui
estrasse la cassetta e le fece fare la stessa fine di Elvis.
Allontanai con la mano il fumo della sigaretta irachena.
« Ti odio quando fai così », dissi. « Sai che per ogni nove sigarette che fumi io ne
fumo tre? »
« Non dovresti lamentarti », ribattè. « E' fumo a buon mercato.
Mica lo paghi tu, lo pago io. »
I segnali stradali erano in inglese oltre che in arabo, e i ragazzi sul sedile
posteriore avevano una carta stesa sulle ginocchia e cercavano di capire dove ci
trovavamo. In effetti non c'era segnato niente. La zona abitata si stendeva lungo
tutto l'Eufrate, ma mancavano i nomi degli insediamenti.
Tutto considerato, ce la stavamo cavando abbastanza bene.
L'umore era tranquillo e fiducioso, anche se l'apprensione non era sparita.
Dovevano aver trovato le persone cui avevamo rubato l'auto, e sicuramente
stavano cercando un taxi giallo. Rispetto a quello che avevamo passato negli
ultimi giorni, però, era quasi divertente, e almeno eravamo al caldo. L'automobile
era piena d'aria viziata e i nostri abiti cominciarono ad asciugarsi.
Passavano altri convogli di circa venti veicoli alla volta. Procedevamo in coda.
C'erano automobili civili ovunque. Mancava l'illuminazione sulle strade, il che era
un bene. Cercammo di nascondere le nostre armi meglio che potevamo, sempre
partendo dal compromesso tra la necessità di nasconderle e quella di essere in
grado di impugnarle subito in caso di scontro.
Svoltammo su una strada aperta, ritrovandoci in un altro ingorgo. Alcune auto
erano sopraggiunte dietro di noi, ed eravamo bloccati. Questa volta Legs non
poteva scendere, altrimenti quelli dietro lo avrebbero visto. Dovevamo fingere di
essere tranquilli.
Un soldato con l'arma a tracolla stava scorrendo la fila sul lato del conducente,
quindi alla nostra sinistra. La gente gli parlava dalle auto e dai camion. C'erano
altri due soldati sul lato destro.
Avanzavano più lentamente del loro compagno, come se bighellonassero con le
armi in spalla: fumavano e chiacchieravano.
Sapevamo che stavamo per essere scoperti. Nell'attimo in cui il tizio avesse
infilato dentro la testa e ci avesse guardato, avrebbe visto che avevamo la pelle
chiara. C'era meno dell' 1 per cento di probabilità di cavarcela.
Grande decisione: che cosa dovevamo fare a quel punto? Buttarci subito a pesce o
aspettare?
«Aspettiamo», dissi. «Non si sa mai.»
Lentamente, cercammo di portarci le armi sotto mano. Se ci fosse stato un
incidente, dovevamo scendere dall'auto. Su tutte le maniglie era appoggiata una
mano pronta ad aprirle.
Mark disse tranquillo: «Ci vediamo in Siria».
Avremmo cercato di rimanere uniti il più possibile, ma era probabile che ci
dovessimo separare. Ognuno avrebbe fatto per sé.
Aspettammo e aspettammo, guardando queste persone che scendevano lentamente
lungo la fila. Non sembravano particolarmente attenti, stavano solo ammazzando
il tempo. Mark cercò di stabilire la posizione con il Magellan per scoprire a che
distanza eravamo dal confine, ma non ebbe il tempo di farlo.
« Andiamo a sud, poi a ovest », dissi.
Questo significava balzare sul lato sinistro della strada, sparando qualche colpo
per far loro abbassare la testa e correre come matti. Per quanto mi riguardava,
questo era il momento più pericoloso da quando avevamo lasciato l'Arabia.
I ragazzi dietro avevano preso le armi. Legs aveva il suo 203 sulle gambe, con la
canna appoggiata sulle mie.
« Se viene qui e mette la testa dentro, non appena ci identifica, lo faccio fuori»,
annunciò.
Io dovevo solo togliere di mezzo la mia testa. Legs avrebbe alzato la canna del
fucile ed eseguito l'operazione.
«Noi ci occuperemo degli altri due», disse Bob.
Mi chinai in avanti per coprire l'arma di Legs.
Il tizio arrivò al veicolo davanti al nostro. Si chinò per parlare al conducente,
ridendo e blaterando, senza preoccuparsi di niente.
Parlando agitava le mani, probabilmente stava lamentandosi del tempo. Avremmo
avuto ben poco da dire con il nostro arabo quando sarebbe arrivato alla nostra
auto. Potevo chiedergli la strada per il mercato, poi era finita lì.
Salutò il veicolo davanti a noi e si avvicinò baldanzoso al nostro taxi. Mi chinai in
avanti fingendo di occuparmi dei comandi sul cruscotto. ' Lui diede un colpetto
sul finestrino. Tirai indietro la testa e con lo stesso movimento spinsi in avanti le
gambe e mi appoggiai allo schienale. La faccia del soldato era appoggiata in
attesa contro il finestrino. Legs sollevò la canna del 203. Bastò un solo colpo. Ci
fu un'esplosione di schegge di vetro e le portiere della macchina si spalancarono.
Prima che il corpo cadesse a terra stavamo già correndo.
Gli altri due soldati corsero a cercare riparo, ma le Minimi li abbatterono prima
che riuscissero a fare quattro passi. I civili si accucciavano nelle loro automobili,
e non a torto.
Corremmo ad angolo retto rispetto alla colonna di macchine finché giungemmo
proprio di fronte al posto di blocco e fummo illuminati dai fari. Aprirono il fuoco,
ma noi rispondemmo con un'impressionante grandinata di proiettili. Sicuramente
si stavano chiedendo che cosa diavolo succedeva. Avevano sentito solo uno sparo,
quindi un paio di brevi esplosioni seguite dalla vista di cinque pazzi con le sciarpe
che scappavano nel deserto.
I primi di noi ad arrivare sulla strada aprirono un fuoco di copertura sul posto di
blocco finché gli altri non ebbero attraversato. Dopo di che ci spostammo tutti
quanti. L'intero contatto non durò più di trenta secondi.
Corremmo verso sud per alcuni minuti, poi mi fermai, gridando: « Verso di me!
Verso di me! »
Le teste mi passarono vicine e io ci misi le mani sopra e contai: uno, due, tre,
quattro.
«Ci siamo tutti. Okay. Andiamo! » , , -, Corremmo come matti,
cercando di trarre il massimo vantaggio dalla confusione che ci eravamo creati
alle spalle. Alla mia destra sentii Dinger che rideva, e poco dopo ci riunimmo
tutti.
Fu un sollievo da perdere la testa. Nessuno di noi riusciva a credere che ce
l'avevamo fatta tutti quanti.
Ci dirigemmo a ovest. Dall'ultimo rilevamento di Mark con il Magellan
stimammo di trovarci a circa tredici chilometri dalla frontiera. Tredici chilometri
in più di nove ore di buio: una bazzecola. Dovevamo solo prendere tempo e
assicurarci di arrivare quella notte. Non c'era speranza che un gruppo così
numeroso potesse restare nascosto tutto il giorno dopo.
Giungemmo a una zona abitata. C'erano pali della luce, vecchie auto, bidoni della
spazzatura, cani uggiolanti, le luci di una casa. A volte dovemmo scavalcare
qualche staccionata. Fari di automezzi sulle strade. Da dietro, nella zona del posto
di blocco, si sentiva ancora un caos incredibile. La gente stava urlando e si
sentivano sporadici colpi di armi leggere. I cingolati stridevano su e giù per la
strada. A quel punto era solo una corsa, la lepre che non doveva farsi raggiungere
dai segugi.
A ovest cominciò a spuntare la luna: era piena, peggio di così non poteva andare.
L'unica consolazione era che anche noi vedevamo meglio e potevamo muoverci
più rapidamente.
Finimmo per procedere paralleli a un'altra strada: non potevamo evitarla.
Avevamo un abitato sulla sinistra e la strada sulla destra. Non c'era tempo per fare
il giro. Dovevamo scappare a rotta di collo, per arrivare alla frontiera prima che il
casino iniziale si placasse e arrivassero i rinforzi.
Ogni volta che arrivava una macchina dovevamo coprirci. Superavamo ostacoli,
evitavamo cani ed edifìci. C'erano case dappertutto adesso, luci accese, generatori
in funzione. Passammo senza incidenti.
Lungo la strada cominciarono a muoversi veicoli a fari spenti, presumibilmente
nella speranza di sorprenderci. In lontananza si sentiva ancora sparare. Con la
nostra tenuta mimetica da deserto, su uno sfondo quasi europeo di piantagioni e
verdeggianti terreni arati, splendevamo al chiaro di luna come fantasmi.
Fummo individuati dalla strada: arrivarono sgommando tre o quattro veicoli e gli
uomini saltarono giù e iniziarono a sparare.
A questo punto ci erano rimasti pochi caricatori, e prima che la notte terminasse
era probabile che ci fossero altri scontri. Potevamo solo metterci a correre. Non
c'erano ripari. Loro continuarono a sparare e noi a schizzare via nell'abitato,
mentre i proiettili ci sibilavano intorno.
Corremmo per quattrocento metri. Passammo attraverso gruppetti di case,
aspettando da un momento all'altro di venire sgozzati da qualcuno che usciva: ma
la popolazione locale, che Dio la benedica, restò nel tepore domestico. Sudavo a
litri, respiravo affannosamente. Quando l'adrenalina ti scorre nelle vene, riesci a
stabilire dei record olimpici, ma non puoi reggere a lungo. Poi riprendono a
spararti e ritrovi altra energia.
Ci trovammo a procedere su un crinale. Guardammo in basso verso Abu Kemal e
Krabilah, i due abitati a cavallo del confine.
Era proprio un mare di luce, sembrava che corressimo sul set di Incontri
ravvicinati del terzo tipo. E c'erano i pennoni delle bandiere, quello più alto dalla
parte irachena. I nostri inseguitori continuavano a sparare.
«Cazzo», urlò Bob, «guardate... questa sì che è una bella notizia! Ci siamo quasi!
»
Da vero cretino, dissi: « Chiudi quella cazzo di boccaccia! » come se lui fosse
stato uno scolaretto monello. Mi pentii subito di averlo detto, perché anch'io stavo
pensando esattamente la stessa cosa. Quelle luci, la città di Abu Kemal e la torre
non erano in Iraq, erano in Siria. Mi sembrava di sentirne l'odore, ed ero eccitato
quanto Bob.
Correvamo in cresta. Ma nell'attimo in cui iniziammo la discesa, ci stagliammo
perfettamente contro il cielo alla vista di alcuni simpatici amici appostati più in
basso. Scoprimmo che erano una batteria contraerea. Ci dettero il benvenuto con
le armi leggere, poi ci scaricarono addosso i cannoni.
Ci dirigemmo a nord per superare la strada, il che ci obbligava a passare
attraverso la zona abitata posta tra noi e il fiume. Alcuni mezzi si stavano
avvicinando alla batteria contraerea e, per migliorare la situazione, alcuni
aviogetti cominciarono a rombarci sopra le teste. Dovevano essere dei nostri,
perché gli S60 spararono nella loro direzione. Nel caos, riuscimmo a filarcela.
Sparavano a destra, a sinistra e alle nostre spalle, ma noi continuavamo a correre a
testa bassa. Un tracciante salì in verticale, poi proseguì orizzontalmente
illuminando la zona dove gli iracheni stavano sparando a qualsiasi cosa si
muovesse. Era un'indecenza, perché tutto intorno c'erano abitazioni civili.
Eravamo assordati dal fuoco dei cannoni contraerei. Dovevamo scambiarci le
istruzioni e gli avvertimenti urlando come ossessi.
Arrivammo a una strada. Dopo averla controllata rapidamente la attraversammo;
poi ci fermammo per tirare un bel respiro lungo. Passare per una zona abitata è un
azzardo assoluto, ma non avevamo scelta. Alla nostra destra c'era una
piantagione, ma circondata da una recinzione troppo alta.
Dovevamo attraversare tre-quattrocento metri di abitato, un grosso agglomerato di
case circondate da muri perimetrali. Lungo il terreno che separava le case dalla
piantagione, correvano dei tubi di plastica per l'irrigazione. Ci avviammo,
cercando di sfruttare il più possibile le ombre, camminando con le armi spianate,
senza sicura, le dita sul grilletto. Ci stavamo muovendo verso nord e la luna era a
ovest. Ero il primo della fila. Se fosse comparso qualcuno, gli avrei sparato con il
mio 203, Mark sarebbe avanzato di due o tre passi e gli avrebbe tirato una
sventagliata con la Minimi. Poi ci saremmo radunati dietro il primo angolo per
riorganizzarci o avanzare, a seconda dell'entità contro cui avevamo sparato.
Nelle case, gli abitanti strillavano come pazzi, spegnevano le luci e sbattevano le
porte. Noi camminavamo: non potevamo metterci a correre. Se fosse successo
qualcosa, correre era molto peggio.
Dal limitare dell'abitato partivano sentieri e grossi condotti che arrivavano fino
all'Eufrate, circa centocinquanta metri più in là. Le pompe diesel scatarravano.
C'erano fango e merda dappertutto, in gran parte coperti di ghiaccio. Ci
fermammo in un angolo riparato per fare il punto della situazione.
Prima di tutto dovevamo riempire le nostre borracce. Due dei ragazzi scesero fino
al bordo del fiume, mentre Mark rilevava la posizione con il Magellan. «
Esattamente dieci chilometri al confine», sussurrò.
Tutto il caos era dall'altra parte della strada. I cingolati facevano manovra e
sparavano, e la contraerea sputava fuoco. In lontananza si udivano colpi di armi
leggere. Probabilmente stavano tirando ai cani e a qualunque altra cosa si
muovesse, compresi i loro compagni. Ormai non ci importava più niente. Davanti
a noi c'erano ancora dieci chilometri da percorrere e avremmo dovuto lottare
metro dopo metro.
Ci sedemmo con la schiena contro gli alberi a osservare due dei nostri che
riempivano le borracce.
«Dieci chilometri», osservò Dinger. «Cazzo, correndo potremmo farcela in
mezz'ora. »
« Peccato che ci sia la luna piena », ribattè Bob.
« E la mimetica da deserto », soggiunse Dinger. « E il piccolo particolare che tutti
ci stanno cercando. »
Quando Mark e Legs ritornarono con le borracce esaminammo le alternative,
stabilendo che ce n'erano quattro. Avremmo potuto attraversare il fiume; spostarci
a est per evitare la frontiera e tentare di attraversare la notte seguente; continuare
verso ovest; o dividerci e tentare singolarmente una delle tre soluzioni.
Il fiume faceva paura. Doveva essere largo almeno cinquecento metri, e dopo le
piogge torrenziali era in piena e scorreva veloce e rabbioso. L'acqua sarebbe stata
freddissima. Noi eravamo indeboliti dalla lunga marcia e dalla mancanza di
sonno, cibo e acqua. Non riuscivamo a vedere barche, ma, se ne avessimo trovata
una, sarebbe stata una possibilità. Certo... si poteva anche attraversarlo a nuoto,
ma dubitavo che avremmo resistito più di dieci minuti. E poi, chi ci diceva che
non ci sarebbero state truppe ad aspettarci dall'altra parte?
Scartammo la possibilità di prendere verso est perché c'erano troppi abitati per
nasconderci di giorno. Andare a ovest sembrava l'alternativa migliore: visto che
loro sapevano che ci trovavamo nell'area, perché non proseguire? Ma avremmo
dovuto farlo in gruppo o da soli? Andare da soli avrebbe sicuramente creato ai
nostri inseguitori cinque casini diversi, ma in fin dei conti noi eravamo una
pattuglia.
«Andremo a ovest in gruppo e attraverseremo il confine stanotte », dissi. «
Domani mattina arriveranno altri inseguitori. »
Erano quasi le 22.00 e faceva un freddo boia. Tremavamo tutti.
Avevamo sudato e l'adrenalina ci era corsa nelle vene. In queste condizioni,
appena ti riposi un attimo il corpo ha delle convulsioni.
Guardando verso ovest, lungo l'Eufrate, vedemmo dei fari attraversare un ponte a
pochi chilometri da noi. Bella fregatura.
Non potevamo perdere tempo ad aggirarlo: era troppo tardi per una manovra cosi
raffinata. Avremmo rischiato.
« Muoviamoci al passo e tatticamente », propose Bob. « Abbiamo tempo a
sufficienza. »
I corsi d'acqua naturali si gettavano nell'Eufrate. In condizioni normali ci
saremmo tenuti su terreno elevato. Così è più facile seguirli, il che fa risparmiare
tempo e crea meno rumore e movimento. Noi invece li costeggiammo per restare
paralleli al fiume, ma non così vicino all'acqua da lasciare impronte nel fango.
Il terreno era in parte gelato e in parte acquitrinoso. C'erano appezzamenti cinti
dal filo spinato. Incontrammo piccoli capanni traballanti, montarozzi, alberi e
vecchie bottiglie che scalciammo via, pezzi di plastica gelata che scricchiolava
rumorosamente sotto le scarpe. Il tutto somigliava a una discarica dell'Irlanda del
Nord.
Il vento era cessato, e il minimo rumore viaggiava per centinaia di metri.
Camminavamo sotto la luna, e il nostro fiato formava nuvolette nell'aria gelida.
Ce la prendemmo comoda, fermandoci e ripartendo ogni cinque minuti. I cani
abbaiavano. Quando arrivavamo a un edificio, qualcuno andava avanti a
controllare, poi lo aggiravamo. Se incontravamo una recinzione, il primo
verificava anzitutto di non fare troppo rumore, poi ci metteva sopra l'arma per
abbassare il filo, e ce la teneva finché non erano passati tutti.
A un certo punto dovemmo aggirare una capanna a base triangolare. Il
proprietario stava russando davanti alle braci di un fuoco, ma non si mosse mentre
passavamo in punta di piedi. Davanti a noi c'era una strada: a sinistra ne correva
un'altra, quella che arrivava alla città di frontiera di Krabilah. Negli edifici le luci
si accendevano e si spegnevano. Continuava il viavai di cingolati, ma erano
troppo lontani per preoccuparci. Ancora spari dietro di noi. Avevamo percorso
circa tre chilometri: ne mancavano sette.
Non era ancora mezzanotte, e avevamo molte ore di oscurità davanti a noi. Mi
sentivo abbastanza bene.
Seguimmo una siepe, poi attraversammo un fossato naturale di scolo: scorreva
entro un ripido uadi, il quale a sua volta sembrava gettarsi nell'Eufrate. Lo uadi
era largo circa cinquanta metri e profondo venticinque. Entrambe le rive erano più
o meno a picco. Il fondo era praticamente piatto, con un rivolo d'acqua.
Non potevamo aggirarlo perché non sapevamo quanto fosse lungo. Poteva correre
verso sud: e a sud c'erano strade che volevamo evitare. Poi però riuscii a vedere
che curvava verso ovest, il che era perfetto. Avremmo potuto tenerci al riparo
della sua ombra per un po'.
Quando arrivai sul bordo dello uadi, strisciai fino al ciglio per darci un'occhiata.
Mark era dietro di me. Cominciai a scendere, e man mano che scendevo
l'orizzonte sul lato opposto si stagliava sempre più netto. La prima cosa che vidi
contro il cielo fu la sagoma di una sentinella.
Stava camminando avanti e indietro, sbattendo i piedi e soffiandosi nelle mani che
teneva a coppa per scaldarsele. Guardai attorno a lui e non riuscii a credere ai miei
occhi. Era un presidio importante: tende, edifici, mezzi, antenne radio. Mettendo
bene a fuoco, cominciai a notare persone che uscivano dalle tende. Colsi spezzoni
di conversazione. Avevano la schiena alla luna e guardavano nella nostra
direzione. Non mi mossi.
Ci vollero quindici minuti prima che riuscissi a tornare fino a Mark. Sapevo che
aveva visto quello che avevo visto io, perché non mi aveva raggiunto. Anche lui
era immobile come un sasso. C'era da farsi accapponare la pelle: eravamo
terribilmente esposti.
Ritornai al livello di Mark. « Hai visto? » ' « Sì, è un vero schifo », disse. «
Dobbiamo tornare indietro e uscire da questa merda. »
«Niente di grave.» ' Saremmo indietreggiati silenziosamente raggruppandoci. Poi
bisognava tornare alla recinzione, fare il punto e trovare un'altra via d'uscita.
Avevamo percorso trenta metri per uscire dalla zona immediata di pericolo,
quando ci alzammo in posizione semiaccovacciata nel fossato.
In quello stesso istante udimmo simultaneamente gridare e sparare. Si scatenò
l'inferno. Mark era a terra con la Minimi e sparò lungo la siepe, dovunque vedesse
luccicare la canna di un fucile. La postazione dall'altra parte dello uadi aprì il
fuoco.
Ero molto preoccupato perché loro si trovavano più in alto.
Usai le mie ultime granate del 203, poi arrivò il momento di filarcela
elegantemente. Volevo tornare alla riva del fiume perché ci avrebbe fornito un
riparo. Mentre scappavamo, sentivo sparare e gridare dappertutto. Il resto della
pattuglia stava combattendo.
Intorno alla siepe c'era il massimo del casino. Immaginai che Bob e gli altri
fossero in un gruppo di tre.
Gli iracheni dall'altra parte dello uadi stavano sparando in tutte le direzioni. Sentii
alcune granate del 203 che dovevano essere di Legs perché sia Dinger sia Bob
avevano la Minimi. C'era un rumore assordante. Ognuno era concentrato nella sua
piccola battaglia. Mi resi conto con una fitta al cuore che non c'era più possibilità
di riunirci. Adesso eravamo divisi in altri due gruppi, con solo pochi chilometri da
percorrere. Che stronzo. Avevo creduto davvero che ce l'avremmo fatta.
Mark e io eravamo sulla riva dell'Eufrate e ci sforzavamo di capire quello che
stava accadendo. A dieci-quindici metri sotto il limitare della zona arata che
avevamo appena attraversato c'era l'acqua, e tra l'arativo e la terra arata c'era un
sistema di piccoli terrazzamenti. Noi eravamo sull'arativo, tra i cespugli.
Sentivamo dalla riva opposta gli inseguitori che venivano verso di noi con le
torce, gridandosi indicazioni. Fuoco nemico intermittente e nervoso dal nostro
lato dello uadi, seguito da scontri alla nostra sinistra, con i 203 e le Minimi. I
traccianti partivano orizzontali, poi si impennavano rimbalzando su rocce e
costruzioni.
Abbassammo la testa come una coppia di furetti e ci guardammo in giro. Era
difficile capire da che parte andare, se passare il fiume oppure attraversare le
posizioni col rischio di essere catturati o uccisi.
« Il fiume assolutamente no », bisbigliai all'orecchio di Mark.
Non avevo abbastanza coraggio per provarci, quindi decidemmo di attraversare le
posizioni nemiche. Ma quando? C'era una tale confusione che era difficile
stabilire il momento propizio.
«Cazzo», mormorò Mark, «siamo nella merda, quindi che c'importa?»
Se ce l'avessimo fatta, alla grande; se andava male, pazienza.
Speravo solo che tutto fosse rapido e indolore. Mi sentivo piuttosto distaccato da
tutto quanto.
Controllammo le nostre riserve di munizioni. Io avevo circa un caricatore e
mezzo, Mark aveva un centinaio di cartucce per la Minimi. Era una situazione
così ridicola, quella in cui ci trovavamo, con scontri a fuoco e traccianti a destra e
a sinistra, e noi seduti in un cespuglio che cercavamo di organizzarci senza
smettere di guardare dall'altra parte del fiume. Avevo le mani semicongelate.
L'erba e le foglie erano fragili per il ghiaccio. Il fiume era avvolto nella foschia.
Guardai Mark, e per poco non scoppiai a ridere. Come copricapo indossava una
lunga sciarpa di lana che si può avvolgere diventando una specie di berretto dei
commando della seconda guerra mondiale. Mark però non aveva avvolto
l'estremità e sembrava un fesso. Era lì che guardava attraverso i cespugli con
un'espressione serissima che lo rendeva ancora più comico.
«O adesso o mai più», disse.
Annuii.
Sempre guardando fuori, si infilò una mano in tasca alla ricerca di una caramella
d'orzo e se la cacciò in bocca.
« E' la sola che mi è rimasta... tanto vale che me la mangi adesso. Potrebbe essere
l'ultima della mia vita. »
Io avevo finito le mie e lo guardai con invidia.
« Tu non ne hai più, vero? » ammiccò.
« No », risposi, guardandolo come un cagnolino.
Si tolse la caramella di bocca e me ne diede metà.
Restammo lì a goderci quel momento e a caricarci psicologicamente prima di
andare.
Alla fine la decisione ce la fecero prendere gli altri. Lungo la riva si avvicinarono
quattro iracheni: sembravano ben addestrati e svegli. Non urlavano, e si
sparpagliarono a regola d'arte. Però avevano l'aria nervosa di chi sa che c'è in giro
qualcuno che ti potrebbe sparare addosso. Se ci fossimo mossi, ci avrebbero visti.
Feci segno a Mark: se non ci vedono, lasciamoli andare avanti; se ci vedono,
spariamo. Ma si avvicinarono a tal punto che non c'era modo di evitarli: perciò li
abbattemmo.
Adesso dovevamo scappare, fosse il momento buono o no.
Marciammo verso il campo arato, parallelo al fiume. Più in su, sulla destra,
cominciammo a salire un leggero pendio dove il terreno finiva nell'acqua. Ma
c'era movimento, per cui ci buttammo a terra.
I solchi correvano da nord a sud, e noi ci nascondemmo negli avvallamenti.
Cominciammo a strisciare sul ventre avanzando fino alla siepe. Si sentiva urlare
ordini e i soldati correvano da tutte le parti nella massima confusione, a non più di
venticinque metri da noi. Strisciammo per venti minuti. Il terreno era gelato, e
faceva male appoggiare le mani sul fango. Avevo i vestiti inzuppati. Piccole
pozzanghere d'acqua gelata si spezzavano sotto di noi.
Nella mia testa il rumore veniva amplificato migliaia di volte.
Perfino il mio respiro mi pareva spaventosamente forte. Volevo solo uscire da
quella merda per arrivare agli alberi, e poi sarebbe stato un mondo totalmente
nuovo.
Si sparava ancora, si continuava a gridare, regnava il caos.
Non avevo idea di come ce la saremmo cavata. In situazioni simili, devi solo
continuare ad andare avanti per vedere cosa succede. Provai la forte tentazione di
alzarmi e farla finita.
Gli iracheni erano ancora laggiù in fondo al campo. Forse, sperai, credevano che
noi avessimo proseguito lungo il fiume, dirigendoci a est per raggiungere gli altri.
In effetti non mi importava molto di cosa pensavano loro, purché restassero a una
distanza ragionevole. Il solo pensiero che avevo in testa era che dovevamo
passare il confine quella sera.
Arrivammo alla siepe. Era un divisorio costruito appositamente tra due campi:
arbusti che crescevano da un terrapieno alto sessanta centimetri. Il nostro piano
iniziale era attraversare la siepe che correva da est a ovest, unicamente per non
doverne attraversare un'altra che andava da nord a sud. Sentimmo dei rumori a
destra. Mark dette un'occhiata: altri nemici, appena oltre la siepe.
E dietro di loro, più a sud, si sentivano altre grida e una sarabanda di luci. Mark
mi fece segno di restare di là dalla siepe e spostarmi a sinistra.
Strisciammo per arrivare alla siepe che andava da nord a sud.
Cercammo un punto in cui attraversarla senza fare rumore. Cominciai a farmi
strada. La mia testa emerse dall'altra parte e qualcuno mi diede immediatamente
l'altolà.
Non appena il ragazzo gridò, Mark lo salutò calorosamente: il suo corpo si
disintegrò davanti ai miei occhi. Mark continuò a sparare senza remissione per
tutto il tratto di strada in direzione ovest. Uscii dalla siepe e continuai il fuoco
iniziato da Mark, mentre lui attraversava. Puntammo verso est, ci fermammo,
sparammo rapidamente qualche colpo, corremmo, sparammo ancora e poi ci
mettemmo a correre e correre.
Davanti a noi c'era un rialzo del terreno. Sotto, edifici con luci accese e
movimento. Non volevamo attraversare un terreno aperto, quindi non avevamo
altra scelta che utilizzare l'ovvio riparo rappresentato dal fossato. Non avevo idea
di cosa ci fosse davanti a noi.
Le recinzioni erano sopra di noi. Poiché i campi erano irrigati, le strade e le
costruzioni si trovavano su terrapieni per tenerli sopra il livello dell'acqua.
Entrammo in un fossato sotto la recinzione e ci avviammo verso sud.
Cominciammo a rallentare, perché non ci trovavamo più in una situazione di
pericolo immediato. Pensammo che una barriera di rete metallica alta un metro e
ottanta fosse il perimetro di un'installazione militare. La seguimmo per un po', poi
ci fermammo: avevamo avvistato una strada che correva da est a ovest. C'era un
intenso traffico di mezzi, alcuni con i fari accesi, altri spenti.
A est rispetto a noi doveva esserci un nodo stradale vero e proprio. Vedevamo i
veicoli con i fari accesi dirigersi laggiù e cambiare direzione. C'era un'attività
frenetica. Sembravano tutti in stato di allarme. Probabilmente pensavano che
fossero entrati in guerra gli israeliani, o che i siriani li stessero invadendo. Io
speravo solo che in tutta quella confusione un gruppetto di due persone e un altro
di tre potessero passare inosservati.
Dall'altra parte della recinzione ci trovammo di fronte a una grande moschea. Ci
fermammo a osservare la strada. Più da vicino, riuscimmo a scorgere alcuni
veicoli parcheggiati lungo il ciglio, mentre i fari passavano. Camion, jeep, mezzi
corazzati. Dove ci sono mezzi, ci sono uomini. Sentivamo le voci e il ronzio delle
radio. Non riuscivo a vedere fin dove arrivasse la colonna d'auto, né in una
direzione né nell'altra. Dal primo scontro sul limitare dello uadi erano passate tre
ore. Tremavo all'idea che ci restassero solo due ore e mezzo di buio. Dovevamo
rischiare, non avevamo tempo per compiere l'aggiramento.
Eravamo sdraiati nel fossato, bagnati e infreddoliti, cercando di capire dove
avremmo attraversato la barriera. Eravamo quasi senza munizioni. Aspettammo
che passassero dei fari per farci un'idea più precisa della posizione dei veicoli.
Avremmo attraversato nel varco più ampio.
Due camion distavano quindici metri l'uno dall'altro. Se fossimo riusciti a passare
indenni, il confine era davanti a noi. Avremmo solo dovuto avere la faccia tosta di
tentare. Cominciammo ad attraversare il campo, con calma. Ogni volta che
passava un veicolo, ci buttavamo a terra. Prima di scattare era importante
avvicinarsi il più possibile al convoglio fermo. Sapevamo soltanto che dovevamo
passare li in mezzo. Nessuno di noi due aveva la più pallida idea di cosa ci fosse
dall'altra parte: l'avremmo scoperto solo arrivandoci.
I veicoli stavano un metro più in alto di noi, sulla strada rialzata. Vedemmo che
sul ciglio c'erano tre giri di filo spinato alto novanta centimetri. Avremmo dovuto
superarlo prima di passare tra i mezzi.
Il varco era tra due camion coperti dal telone. Su uno di essi gracchiava
concitatamente una radio.
Superai il filo spinato e mi abbassai per dare copertura a Mark.
Lui oltrepassò l'ostacolo, ma fece tintinnare il filo. Un tizio cominciò a farfugliare
e mise la testa fuori del finestrino. Lo colpii immediatamente. Corsi in coda. La
rampa era sollevata, ma c'erano due staffe sporgenti che servivano da gradini.
Infilai dentro la canna del fucile e feci partire una raffica. Mark attraversò
direttamente la strada e corse dall'altra parte del costone, sparando verso quella
che per lui era la parte destra del convoglio. Non sapevo se a bordo degli altri
veicoli ci fossero persone, quindi lanciai una bomba e corsi verso Mark.
Sparammo finché terminammo le munizioni, il che durò in tutto cinque secondi.
Abbandonammo le armi e ci mettemmo a correre. Non ci servivano più.
Gli iracheni usavano cartucce calibro 7.62 corto, e noi avevamo bisogno di
proiettili da 5.56. Adesso la sola arma che ci rimaneva era l'oscurità.
Dovevamo aver sparato abbastanza colpi da spaventarli, perché non ci fu una
reazione immediata. Corremmo per trecento metri. Il rumore delle grida riempiva
la notte.
Ci fermammo vicino a una cisterna dell'acqua. Non mancava più molto all'alba,
ormai. Guardando dritto davanti a noi, vedevamo alla nostra sinistra la strada che
avevamo appena attraversato, il pennone della bandiera dalla parte irachena, e
un'altra strada che avremmo dovuto attraversare per andare verso ovest.
Ci guardammo in faccia e io dissi: «Va bene, proviamo».
Corremmo attraverso i campi e ci fermammo vicino a quella che sembrava una
grande depressione. Dall'altra parte c'era un abitato senza luci. All'angolo destro,
in fondo all'abitato, una specie di incrocio.
La depressione doveva essere usata come discarica. Nel buio ardeva qualche
focherello. Scendemmo nella discarica e inciampammo in vecchie lattine e
pneumatici. C'era un tanfo asfissiante di spazzatura. Cominciammo a risalire
dall'altra parte. A circa metà salita ci spararono con un Kalashnikov, molto da
vicino.
Ci buttammo a terra e io andai verso destra.
Corsi per quella che ritenni una distanza sufficiente a portarmi a livello
dell'incrocio. Volevo portarmi sulla strada. Corsi sul fianco di una montagnola, e
credevo di potere arrivare dall'altra parte, ma mi trovai di fronte l'ostacolo di una
grande riserva idrica. C'erano due vascone oleose e unte. Ansimavo, correndo
come un topo braccato, cercando una via d'uscita. Le pareti erano a 90 gradi. Non
potevo arrampicarmi. Dovevo ritornare sui miei passi.
Adesso non mi guardavo neanche più alle spalle, correvo e basta.
Se li avevo alle calcagna, saperlo non avrebbe cambiato la situazione.
Uscii dall'area della riserva idrica e mi fermai vicino alla strada. Il petto mi faceva
male, non riuscivo più a respirare. Vaffanculo, pensai, vediamo che succede.
Passai vicino agli edifici. Ero sollevato. Sentivo di avercela fatta. Solo il confine,
adesso. Non mi preoccupavo per Mark.
Lo avevo visto cadere, poi non avevo sentito più niente, e lui non mi aveva
raggiunto. Era morto. Almeno aveva fatto in fretta.
8.
EBBI la sensazione di essermi lasciato tutto alle spalle: davanti a me restava solo
una breve marcia fino al confine.
Avevo gli scarponi pieni di fango, pesavano. Le gambe mi bruciavano e
fisicamente ero uno straccio. Mi fermai per buttare giù qualcosa: mi fece sentire
meglio. Bevvi un po' d'acqua e mi costrinsi a calmarmi e a recuperare un po' di
energie. La navigazione era piuttosto semplice. L'asta della bandiera era dritta
davanti a me. Mentre camminavo, cercai di ripensare a quello che era accaduto
durante gli scontri. Ma la confusione era tale che non riuscivo a trovare nessun
bandolo. Alle mie spalle stavano ancora sparando.
Erano le prime ore del mattino del 27 gennaio e mi restavano ancora da percorrere
circa quattro chilometri. In condizioni normali avrei potuto farli in una ventina di
minuti con lo zaino e tutto l'equipaggiamento. Ma era assurdo mettersi a correre
alla cieca verso la Siria con soltanto un'ora di buio davanti.
Non sapevo, inoltre, come fosse materialmente la frontiera: se c'era una barriera o
un posto di blocco con un vecchio carro armato, se era difesa come una fortezza o
non lo era per niente.
E anche se fossi arrivato in Siria di giorno, che accoglienza avrei dovuto
aspettarmi?
Mi trovavo a sud dell'Eufrate, un chilometro a nord di una città. La zona era
irrigata da pompe diesel disposte lungo il fiume a intervalli regolari. Le
coltivazioni nei campi erano alte circa cinquanta centimetri. Mi ero tenuto lontano
dai sentieri, e mi spostavo in mezzo alle coltivazioni, posando i piedi sulle radici
delle piante. Ma anche cosi non potevo evitare di lasciare impronte.
La mia speranza era che il giorno dopo nessuno andasse nei campi a occuparsi di
quello che, a parte il ghiaccio, sembrava un raccolto giovane e sano.
Mi sentivo molto ottimista: ero sopravvissuto agli scontri, e quella era l'unica cosa
che contava veramente. L'ultimo combattimento era come una grande barriera che
avevo superato, e adesso ero uno spirito libero.
Per molti aspetti, questo è il momento più pericoloso. Sono sicuro che fin dalla
notte dei tempi gli uomini sono sempre stati cauti quando progettano
un'operazione, aggressivi quando la eseguono e facili all'errore quando l'hanno
portata a termine e stanno ritornando a casa. E' in quel momento che si diventa
approssimativi e accadono tutti gli imprevisti. Non è ancora finita, continuai a
ripetermi: è vicino, ma è ancora maledettamente lontano...
L'adrenalina prodotta durante gli scontri, e l'otto volante delle peripezie notturne
aveva impedito ai segnalatori del dolore di raggiungere il mio cervello. Durante la
prima guerra mondiale uno scozzese della Black Watch fu ferito quattro volte e
continuò ad andare all'assalto. Quando alla fine prese posizione ed ebbe tempo di
valutare le sue ferite, stramazzò faccia a terra.
Non senti quello che è successo al tuo corpo perché la tua mente lo cancella.
Adesso che mi ero un po' calmato e il futuro mi sorrideva, cominciavo a rendermi
conto di essere veramente in cattive condizioni fisiche. Tutti i dolori e le
sofferenze degli ultimi due giorni saltarono fuori all'improvviso. Ero coperto di
tagli e lividi. Durante gli scontri, si salta e ci si tuffa da tutte le parti, e si prendono
colpi che al momento non si notano. Avevo tagli profondi nelle mani, sulle
ginocchia e sui gomiti, e abrasioni dolorose sulle gambe; graffi e punture di spine
degli arbusti e tagli per il filo spinato; il bruciore che mi causavano naturalmente
aumentava il livello generale di dolore. Avevamo marciato per circa duecento
chilometri su roccia dura e pietre, e gli stivali cominciavano ad andare in pezzi.
Avevo i piedi in condizioni penose: erano fradici, mi sembravano pezzi di
ghiaccio. Mi era rimasta ben poca sensibilità nelle dita. Avevo gli indumenti
laceri e le mani unte di grasso e sporcizia, come se avessi lavorato a un motore
per due giorni di fila. Il mio corpo era coperto di fango che si stava lentamente
asciugando man mano che camminavo.
Rivoli di sudore mi colavano lungo la schiena e tra le gambe, e avevo chiazze
appiccicose sotto le ascelle. Mi sentivo le estremità congelate, ma per lo meno il
tronco era caldo perché mi stavo muovendo.
Faceva ancora molto freddo. Sul fango c'era una sottile patina di ghiaccio, tutte le
pozzanghere erano ghiacciate, ma era una notte tersa e bellissima. Brillavano le
stelle e, se mi fossi trovato in un qualsiasi altro luogo della terra, sarei rimasto a
bocca aperta. Ma il chiarore del cielo significava che a ovest non c'erano nubi a
oscurare la luna piena, e nessun vento che disperdesse il rumore.
Sparpagliate qua e là c'erano delle baracche, alcune con la luce accesa, altre con
un generatore in funzione. Vedevo le luci della zona meridionale della città. I cani
abbaiavano; io strisciavo lungo le costruzioni sperando che nessuno mi notasse.
I fari delle automobili in lontananza mi facevano sussultare.
Erano inseguitori? Si sarebbero messi a perlustrare i campi adesso? Non era un
posto molto rassicurante. Restava ancora mezz'ora di buio: non mi bastava per
fare il giro della città, e nemmeno per attraversarla direttamente e rifugiarmi nei
sobborghi dall'altra parte.
Mentre le luci pian piano si spegnevano, feci una rapida valutazione. Come nella
canzone dei Clash: dovevo andare o restare?
Dovevo nascondermi o dirigermi al confine e cercare di passarlo prima dell'alba?
Quali erano le possibilità che gli iracheni mi cercassero in pieno giorno?
Certamente, fino a quel momento non c'erano inseguitori. Forse pensavano che
avessi già passato la frontiera e fossi scappato.
Le case sembravano così invitanti. Sarei dovuto entrare in una di quelle piccole
costruzioni dove c'era soltanto un vecchio con il suo fuoco acceso e stare con lui
per tutta la giornata? Avrei avuto riparo e la possibilità di trovare cibo e acqua; e,
in teoria, maggiori probabilità di restare nascosto. Ma non si devono mai usare
coperture isolate o troppo ovvie. Sono punti di naturale attrazione per qualsiasi
inseguitore. Nei film si vedono gli attori che si nascondono nei fienili: è pura e
totale fantasia, perché se ti piazzi lì sotto ti trovano subito. Non esiste che uno si
infili sotto le balle di fieno e venga mancato di poco dalla baionetta che ci rovista
dentro. "
La mia chance migliore era restare all'aperto, ma nascosto.
Dovevo immaginarmi lo scenario peggiore, quello secondo cui gli iracheni
avevano un aereo da ricognizione. Trovai una fossa di scolo larga circa un metro e
profonda cinquanta centimetri, con un filo d'acqua che scorreva a fatica. Vi entrai
e proseguii il cammino, felice di non lasciare impronte sul terreno fangoso.
L'acqua scorreva da est a ovest, la mia direzione di marcia.
Guardai l'orologio, controllando i minuti fino all'alba. Ogni pochi metri mi
fermavo, mi guardavo intorno e restavo in ascolto, programmavo il movimento
seguente e le mie azioni; e se il nemico si fosse presentato di fronte? E se fosse
arrivato da sinistra?
Ricordavo il terreno su cui avevo appena camminato, e per ogni eventualità
progettavo la migliore via di fuga.
Dopo tre o quattrocento metri vidi davanti a me una sagoma scura. Si trattava di
una piccola diga oppure di un canale di drenaggio naturale. Quando mi avvicinai,
vidi un sentiero che andava da nord a sud, dall'Eufrate alla zona abitata, con una
lastra d'acciaio che fungeva da ponte improvvisato... tipo quelli che si vedono in
Gran Bretagna durante i lavori stradali. Stava spuntando il sole. Dovevo prendere
una decisione: potevo proseguire lungo il fossato sperando di trovare qualcosa di
meglio o rimanere fermo. Nel complesso pensai che era meglio restare dov'ero.
Il solo problema del canale di drenaggio era che, quando si guardano al buio e
sotto pressione, le cose possono sembrare fatte su misura per le tue necessità,
mentre di giorno si rivelano totalmente diverse. Bisogna essere attentissimi nel
caso si scelga un punto di sosta di notte in una zona sconosciuta. Quando ero nel
battaglione a Tidworth, avevamo delle caserme gemelle, una dei Green Jackets e
l'altra del reggimento fanteria leggera. Una notte tornai dalla città sbronzo come
un maiale, con un sacchetto di patatine al curry. Barcollai fino alla mia stanza, mi
calai le brache e mi infilai a letto. Seduto a mangiare le patatine con la testa che
mi girava vorticosamente e la luce accesa, non sentii neanche quando un ragazzo
gridò: «Spegni la luce, Geordie». Sollevai lo sguardo e vidi un poster di Debbie
Harry... ma a me Debbie Harry non piaceva. «Chi cazzo c'è lassù, allora?»
domandò la voce, ma a quel punto mi ero reso conto di cosa avevo fatto.
Abbandonai le patatine, afferrai le brache e corsi come un fulmine verso la mia
caserma.
Strisciai sul ventre fino alla piastra d'acciaio. Il canale di drenaggio non era
profondo come il fossato perché non era stato pulito, ma la prospettiva di
riposarmi le stanche ossa era così allettante da sopportare la scomodità di stare
sdraiato al freddo nel fango.
Presi dalla tasca la copertura di plastica della carta geografica, e cercai di
utilizzarla come una specie di cerata, ma senza successo. La mia mente pensava al
cibo. Forse in seguito ne avrei avuto bisogno, ma potevo sempre venire catturato.
Era meglio mandarlo giù che farselo portare via. Tirai fuori dalla cintura la mia
ultima razione, bistecca e cipolle, e la aprii. Mangiai con le mani spingendo la
lingua negli angoli per catturare tutta la salsa unta e fredda. Come dessert, portai
le labbra al livello dell'acqua e ne bevvi qualche sorso. Mi stesi addosso la carta
geografica con l'intenzione di guardarla quando ci fosse stata luce sufficiente,
quindi mi sdraiai e attesi.
Mentre l'oscurità cedeva il posto alla luce, sentii alcuni camion in lontananza e
distinsi delle grida, ma nulla che fosse cosi vicino da creare allarme. Era quasi
tranquillo. Cominciai a rabbrividire e il tremore divenne pressoché
incontrollabile. I denti mi battevano: inspiravo e tendevo i muscoli più che
potevo. Rimasi così per due ore.
Avevo il pugnale da combattimento in mano e l'orologio sul petto, in modo da
non dovere muovere le mani. Studiai la carta per valutare la mia posizione. Se
dovevo darmela a gambe, l'ultima cosa che desideravo era dover leggere la
mappa. Volevo sapere che, come stabilii, alla mia sinistra c'era un centro abitato e
a destra l'Eufrate, e che dovevo ancora fare un sacco di chilometri per raggiungere
il confine. Desideravo immagazzinare nel cervello tutte le informazioni che
potevo.
Esaminai molti scenari: in realtà vere e proprie fantasie. E se fossi già stato in
Siria? Sapevo di non aver attraversato il confine: le due nazioni erano in guerra,
quindi tra loro doveva esserci qualche barriera evidente... ma questo non mi
impedì di sognare a occhi aperti.
Dovevano essere circa le otto quando sentii lo scalpiccio di zoccoli delle capre
provenienti dall'abitato. Non è che in quella missione avessimo avuto molta
fortuna con le capre.
Non sentii il pastore finché non fu sopra la piastra metallica.
Trassi un respiro lungo, molto lungo. Allungando il collo, vidi la punta di due
sandali e una serie di grosse dita aperte. Un piede scese nel fango. Afferrai il
pugnale. Non avrei fatto niente finché lui non avesse abbassato la testa e mi
avesse proprio visto, e anche allora non sapevo bene come avrei agito. Avrei
sollevato la mano sinistra e gli avrei sferrato il colpo? E se avesse cominciato a
correre, cosa avrei fatto? Dai suoi piedoni gonfi e veloci vedevo che non era un
militare, quindi c'era speranza che non fosse armato.
Si chinò per raccogliere dal fossato una scatoletta di cartone che non avevo visto.
Era una scatola di munizioni del 7.62 corto, quelle che sparano i Kalashnikov.
Scomparve dalla mia vista. La scatola ammarò nel rigagnolo. Probabilmente
l'aveva esaminata e aveva deciso che non gli interessava.
Arrivarono un paio di capre che si fermarono sulla riva. Non volevo respirare, non
volevo sbattere le palpebre. Il pastore tornò sul ponte e si sedette sul bordo della
piastra con i piedi penzoloni.
Tossì e scatarrò sputando in acqua. Vidi cadermi addosso una sorta di scivolosa
medusa verde che atterrò sui miei capelli.
Ero talmente lurido che non avrebbe dovuto fregarmene niente, e invece per poco
non vomitai.
Ero sicuro che una delle capre sarebbe entrata in acqua e avrebbe costretto il
vecchio amico ad andare a recuperarla, ma non successe niente. Le capre si
mossero incespicando e il pastore le seguì. Cominciai a togliermi la schifezza dai
capelli.
Rimasi ad ascoltare i rumori. Guardando in su dalla mia sepoltura, vidi che era un
frizzante mattino d'inverno, senza nemmeno una nuvola in cielo. Questo sì era un
paesaggio, non una spianata desertica. Mancavano solo le mucche e avrebbe
potuto essere benissimo la campagna attorno a Hereford, dove c'è un sentierino
che costeggia il fiume Wye, e a un certo punto sull'altra sponda si vede un
allevamento di mucche. A Kate quel posto piaceva molto. Non assomigliava
affatto alla scena che stavo vedendo in quel momento, ma immaginai le mucche
che muggivano e il suono del risolino di Kate. Il sole splendeva nel cielo, ma io
ero fuori portata per i suoi caldi raggi. Mi sentivo una lucertola intrappolata.
Sarebbe stato così bello uscire a scaldarsi le ossa...
In lontananza sentivo veicoli - stridenti rumori di sospensioni e di vecchio metallo
- e auto che passavano. Grida di ragazzini e di adulti. Morivo dalla voglia di
sapere che cosa stava accadendo là fuori. Mi stavano cercando? O forse stavano
solo occupandosi delle loro normali faccende? Per un verso, il fatto che ci fossero
persone nelle vicinanze mi preoccupava molto, ma era bello e confortante sentire
delle voci umane perché significava che non ero solo. Avevo freddo ed ero
esausto. Era piacevole sapere con certezza che mi trovavo sulla Terra e non su
Saturno.
Talvolta si avvicinava un veicolo e il mio cuore cominciava a sussultare.
Si fermeranno?
Non fare lo stupido, nessun problema: si stanno dirigendo verso il fiume.
Mi stanno cercando.
Ma non a tappeto, siamo troppo vicino al confine.
I rumori mi spaventavano: prima del loro arrivo, la mia mente li aveva amplificati
cento volte. Avevo paura perché i bambini sono curiosi. I bambini devono
giocare. Giocavano nell'acqua?
Giocavano con le capre? Cosa facevano? Un bambino è più basso di un adulto, e
guardando verso il canale di drenaggio avrebbe avuto una prospettiva migliore:
invece della luce, avrebbe visto la mia testa o i miei piedi, e bastava avesse più di
undici anni per capire che doveva dare l'allarme.
Desideravo tanto che non mi catturassero. Non adesso. Non dopo il culo che mi
ero fatto.
Continuavo a sbirciare l'orologio sul mio petto. Guardai una volta ed era l'una.
Mezz'ora dopo controllai di nuovo. Il tempo si trascinava lentamente, ma io
cominciavo a essere più ottimista.
Erano arrivati veicoli, capre e pastori e me l'ero cavata. Stavo ancora cercando di
memorizzare la carta geografica, ripassando mentalmente le strade. Aspettavo con
ansia l'imbrunire.
Ci fu un assordante stridore d'acciaio quando un gruppo di veicoli attraversò il
ponte. Stavolta si fermarono.
Sei fregato, se no perché si fermano? Sei nella merda.
Non preoccuparti, sono venuti a prendere qualcuno. Tu pensa solo a restare
immobile, controlla il respiro.
Mi sforzai spasmodicamente di non cedere allo sconforto, come se questo li
potesse fermare o impedisse loro di trovarmi.
Il 7.62 è un proiettile di grosso calibro. Lo scroscio di oltre un centinaio di essi
contro la lastra d'acciaio a pochi millimetri dal mio naso fu la cosa peggiore che
avessi mai udito. Mi raggomitolai e gridai in silenzio.
Cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Gli uomini urlavano con quanto fiato avevano nei polmoni.
Sparavano nel fossato tutto intorno, sollevando fango nell'aria.
Avevo i brividi. Mi raggomitolai ancora di più, sperando di non essere colpito.
Gli scoppi, i colpi e le urla sembravano non finire mai.
Gli spari cessarono, le urla no. Cosa avrebbero fatto, adesso?
Avrebbero puntato un'arma sotto la lastra e mi avrebbero fatto secco, o che cosa?
Me la stavo facendo addosso. Non sapevo cosa volevano che facessi. Non capivo
cosa stessero urlando. Volevano catturarmi?
O uccidermi? Avrebbero lanciato una bomba e addio? Cazzo, pensai, se mi
vogliono fuori di qui, dovranno trascinarmi a forza.
Di una cosa ero assolutamente certo: che stavo crepando in una fossa di spurgo a
quattro chilometri dal confine. Il mio naso toccava più o meno la parte inferiore
della piastra d'acciaio. Allungavo il collo, ma non riuscivo a vedere granché.
La canna di un fucile si abbassò. Poi apparve la faccia di un tale. Quando mi vide,
mostrò un'espressione di totale sorpresa.
Fece un saltello all'indietro e attaccò a gridare.
La prima cosa che vidi dopo fu una massa di stivali che scendevano nel fossato.
Da tutti i lati c'erano uomini che gridavano a squarciagola. Mi fecero cenno di
uscire.
Col cazzo! ' Volevano vedermi le mani. Io ero sdraiato sulla schiena, con le
braccia e le mani sporte di lato. Due tizi mi presero ciascuno per uno stivale e
tirarono.
Uscii di schiena, ed ebbi la prima visione della Siria alla luce del giorno.
Sembrava il più bel Paese del mondo. Vedevo il pennone della bandiera
sull'altopiano, così beffardamente vicino che avrei quasi potuto allungare la mano
e toccarlo. Mi sentii derubato, o preso in giro; e l'incredulità per il fatto che questa
fottitura stesse capitando a me era mista allo sdegno, perché mi stavano privando
di qualcosa che era mio di diritto.
Perché proprio io? Nella mia vita sono sempre stato fortunato.
Mi sono trovato in situazioni drammatiche su cui non avevo alcun controllo, e
anche in casini che avevo creato io stesso. Ma sono sempre stato abbastanza
fortunato da uscirne ragionevolmente indenne.
Mi mollarono un paio di calci e mi fecero cenno di alzarmi in piedi. Obbedii,
tenendo le mani in alto e fissando dritto davanti a me.
Bellissimo cielo azzurro, assolutamente splendido. Voltai la schiena alla Siria e
guardai i campi arati e la vegetazione verdeggiante e tutte le capanne e i camion
che avevo evitato durante la notte.
Tanti sforzi sprecati. Mancavano così poche ore di luce.
Imbracciavano le armi con un certo nervosismo e saltellavano su e giù, facendo
strani gorgheggi come i pellerossa. Erano spaventati quanto me. Spararono in aria
a raffica e pensai: ci siamo, mi manca solo che una pallottola ricada a
perpendicolo e mi fori il cervello.
Dalla parte destra del ponte erano parcheggiate due Land Cruiser.
Tre tizi stavano andando avanti e indietro sulla piastra d'acciaio, e altri otto o nove
rastrellavano i lati del fossato.
La campagna appariva ancora più europea di quanto mi fosse sembrata prima. Ero
incazzato con me stesso. Essere scoperti in un deserto tutto uguale sarebbe stata
scalogna, ma essere catturati in quel posto che poteva essere il nord-ovest
d'Europa significava veramente avere gestito male l'operazione.
C'erano soldati dappertutto che ciondolavano e parlottavano, ancora molto
circospetti. Adesso che mi avevano preso, non sembravano troppo sicuri di cosa
fare di me. Sembrava che ci fossero più capi che indiani: tutti volevano dare
ordini. Probabilmente avrebbero ricevuto qualche premio. Restai immobile nel
fango... un patetico ammasso di stracci. Guardavo fisso davanti a me, nessun
sorriso conciliante, nessun ghigno di sfida, nessun contatto oculare. Il mio
addestramento si faceva valere. Stavo cercando di diventare l'uomo grigio.
Cominciarono a sparare nel terreno: erano incredibilmente esaltati. Mi sembrava
una cosa demenziale restare colpito accidentalmente invece che in missione, o in
uno scontro mentre sparavo anch'io. Non si trattava di morte e gloria...
semplicemente non volevo morire perché una testa di cazzo dal grilletto facile
aveva dato fuori di matto. O, peggio, restare gravemente ferito.
Ma, in una situazione come quella, l'ultima cosa da fare è mostrare paura; ci si
limita a stare lì, si respira a fondo, si chiudono gli occhi e li si lascia continuare.
Dopo una quindicina di secondi gli spari cessarono. Un soldato scese nel canale di
drenaggio e cominciò a frugare alla ricerca del mio equipaggiamento. Venne fuori
con la carta geografica che non aveva alcun segno, la cintura e il pugnale da
combattimento. Brandì la lama davanti a me e fece il classico gesto di squarciarmi
la gola. Be', pensai, uno di questi giorni non sarà per scherzo.
Uno degli altri soldati, che mi stava stuzzicando con l'arma, mi fece segno di
mettermi in ginocchio.
Mi ucciderà? E' ora di morire?
Non riuscivo a pensare a nessun'altra ragione per cui avrebbero dovuto farmi
inginocchiare. Se mi stavano portando via, o mi avrebbero trascinato, o mi
avrebbero fatto cenno di incamminarmi in una direzione.
Allora... mi inginocchio e aspetto che mi sparino o mi metto a correre?
Non sarei arrivato molto lontano... mi avrebbero fatto secco prima che facessi
cinque passi. Mi inginocchiai nell'acqua e nel fango denso.
Il fondo del fossato era circa mezzo metro più basso rispetto al livello dei campi,
perciò quando alla fine mi abbassai avevo la faccia più o meno all'altezza della
piastra d'acciaio. Sollevai lo sguardo.
Il calcio di rigore che uno dei tizi mi assestò sulla mascella mi gettò all'indietro
nel fossato. L'acqua mi entrò nelle orecchie, e fui accecato da intensi lampi di
luce. Aprii gli occhi. Attraverso le stelle, vidi il mondo precipitarmi addosso con
le figure umane e un cielo azzurro chiaro da cui presto sarebbe caduta una pioggia
di calci di fucile.
Anche se sei sfiatato, il meccanismo di autoprotezione fa sì che il corpo si
raccolga in se stesso. A faccia in giù nel fango, mi raggomitolai. Circola un
vecchio detto tra i paracadutisti, se c'è un po' di vento e sai che l'atterraggio sarà
spaventoso: «Piedi e ginocchia insieme, e accetta l'atterraggio». Io dovevo
accettare questa roba, non potevo far nulla per fermarla. Rispetto alla prospettiva
di beccarmi una pallottola, era quasi una piacevole sorpresa.
Erano come piccoli animali, mi davano un calcetto, si allontanavano, ritornavano,
cominciavano a farsi più audaci. Mi afferrarono i capelli e mi tirarono la testa
indietro. Mentre mi davano calci e botte, schiumando frustrazione repressa,
gridavano: «Tel Aviv! Tel Aviv!»
Mi saltavano dal ponte sulla schiena e sulle gambe: sentivo l'impatto, ma non il
dolore. Il tuo sistema pompa troppa adrenalina, stringi lo stomaco, digrigni i
denti, tendi il corpo quanto più possibile e speri, speri che non comincino a
dartele veramente di santa ragione.
« Tel Aviv! Tel Aviv! » continuavano a urlare. Capii dove volevano arrivare...
be', c'era poco da stare allegri.
Non durò più di cinque minuti, ma fu anche troppo. Quando alla fine
indietreggiarono, mi voltai e sollevai lo sguardo verso di loro. Volevo che
vedessero la mia espressione confusa e miserabile, quella di un povero soldato
terrorizzato e mite che meritava solo la loro pietà.
Non funzionò.
Sapevo che sarebbe ricominciato tutto da capo e mi raggomitolai di nuovo, questa
volta cercando di ripararmi le braccia sotto il corpo. Avevo la mente intorpidita,
ma rimasi più o meno cosciente per tutta la durata della faccenda. I colpi alla testa
e ai fianchi, che mi facevano rintronare, si alternavano a botte ben assestate con la
punta della scarpa ai reni, alla bocca e alle orecchie.
Dopo qualche minuto si fermarono e mi costrinsero ad alzarmi in piedi. Io mi
reggevo a malapena; ero in una posizione semiaccovacciata, e cercavo di tenere la
testa bassa, barcollando, tenendomi lo stomaco, sputando sangue.
Ondeggiai, incespicando. Due ragazzi mi arrivarono ai fianchi.
Mi fecero una rozza perquisizione - niente più che una rapida tastata per verificare
che non avessi armi -, poi mi sbatterono in ginocchio e mi cacciarono la faccia nel
fango. Mi misero le mani dietro la schiena e me le legarono. Cercai di sollevare la
testa in modo da riuscire a respirare, ma quelli me la premevano per obbligarmi a
stare giù. Gemetti, inspirando fango e sangue. Pensavo che sarei soffocato.
Sentivo solo urla e schiamazzi, e poi il rumore di altri spari nell'aria. I suoni erano
amplificati. Avevo un tremendo dolore alla testa.
La cosa successiva che ricordo è che mi trascinarono verso i veicoli. Le gambe
non mi reggevano, quindi dovettero reggermi sotto le ascelle. Camminavano
rapidamente, e senza smettere di tossire e con il naso che mi colava cercai di
immettere aria nei polmoni. La faccia mi si stava gonfiando, le labbra erano
spaccate in vari punti. Li lasciai fare. Ero una bambola di stracci, un sacco di
merda.
Fui gettato nel retro di una jeep, nello spazio dietro il sedile anteriore. Non appena
mi lasciarono, cercai di mettermi relativamente comodo e di sistemarmi. Mi
sentivo stranamente sicuro, trovandomi in uno spazio così angusto. Almeno
avevano smesso di darmi calci e riuscivo di nuovo a respirare. Sentivo il calore
del riscaldamento e l'odore di sigarette e di dopobarba scadente.
Avevo la canna di un fucile puntata alla testa. Mi faceva molto male e mi
costringeva a stare giù. Del resto non sarei riuscito a rialzarmi in nessun caso. Ero
un cadavere. Avevo un dolore lancinante alla nuca e tutto mi girava intorno.
Ansimavo, ma continuavo a ripetermi che poteva andare peggio. Per un secondo o
due mi sembrò quasi di stare bene. Non mi picchiavano più, e tanto bastava. Poi
due tizi vennero nel retro e mi scalciarono con gli stivali in tutto il corpo, andando
a tempo con i sobbalzi del veicolo.
Non riuscivo a vedere dove stessimo andando perché dovevo tenere la testa bassa
per proteggermi dalla grandinata di calci, e comunque sarebbe stato un esercizio
accademico. Per quanto ne sapevo, mi avrebbero ucciso. Non avevo nessun
controllo su quello che accadeva, volevo solo che mi facessero fuori e buonanotte.
Avevo provato lo choc iniziale di essere catturato, seguito dalla visione
demoralizzante del confine siriano. All'improvviso, sentii tutto il rammarico del
mondo. Ero proprio davanti alla Siria ed ero stato preso. Era come se avessi corso
la maratona con un tempo da Olimpiadi e poi fossi stato squalificato a un passo
dal traguardo. Mi chiesi nuovamente quando mi avrebbero ucciso.
Il veicolo ondeggiava e deviava per evitare la folla. Quando rallentarono, sentii
delle grida. Erano tutti felici e al colmo dell'eccitazione.
I soldati spararono dall'interno della jeep. Il Kalashnikov è un'arma di grosso
calibro, e quando si spara in uno spazio ristretto si sente l'aumento della pressione
dell'aria. Era assordante, ma stranamente il familiare odore di cordite mi
rassicurò. Cominciai a sentire in bocca il sapore del fango e del sangue. Avevo il
naso bloccato dai grumi.
Il mio corpo seguiva i sobbalzi del veicolo che si spostava rapidamente sul terreno
arato; le sospensioni stridevano e scricchiolavano. Avrei voluto solo rintanarmi in
un cantuccio remoto e togliermi di mezzo. Metà del mio cervello mi stava dicendo
di chiudere gli occhi e respirare a fondo, che forse sarebbe passato tutto. Ma in un
angolo della mia mente aleggiava un residuo di istinto di sopravvivenza: stiamo a
vedere, forse non lo faranno, c'è sempre una possibilità.
Anche la folla si era messa a fare quell'orribile gorgheggio dei pellirosse. Erano
giubilanti perché avevano catturato qualcuno, ma non riuscivo a capire se il
gorgheggio fosse un grido di vittoria o l'annuncio di sviluppi peggiori. Sballottato
dalla jeep, cercai di concentrarmi sull'identificazione delle truppe in base alla loro
uniforme. Indossavano tenute mimetiche di modello britannico con buffetterie in
canapa che contenevano cinque caricatori, e scarponi alti stringati. Avevano anche
le ali da para e cordelline rosse, distintivo dei commando di élite. Soltanto più
tardi seppi che le cordelline servivano a commemorare una vittoria della seconda
guerra mondiale, quando combattevano sotto il comando di Montgomery... un
episodio di cui andavano molto fieri.
Giungemmo su una strada asfaltata e i sobbalzi cessarono. A quel punto non ero
molto preoccupato della nostra meta: volevo solo raggiungerla per non avere più
addosso gli stivali di quei tizi. I soldati mi inveivano contro, concitati e
aggressivi.
Il veicolo si fermò. Sembrava che fossimo arrivati in una città.
Il rumore intorno a noi crebbe; sentivo voci, molte voci, e dal tono compresi che
si trattava di una folla inferocita. Il rumore dell'odio è spaventoso e universale.
Sollevai lo sguardo e vidi una marea di facce di militari e civili, ma ugualmente
rabbiose, che inneggiavano e gridavano improperi. Mi sentii come un bambino in
una carrozzina con una banda di adulti che lo fissano. Ebbi paura: quella gente mi
odiava.
Un vecchio inspirò a fondo nei suoi polmoni sforacchiati dalla tubercolosi e mi
sputò un faccia un moccolo verdastro: ne seguirono altri, secchi e densi. Poi
arrivò la punizione fisica. Cominciò con una ditata nelle costole, saggio dei nuovi
comfort urbani. La ditata fu seguita da un buffetto, poi da un ceffone, poi da un
pugno, mentre cominciavano a tirarmi i capelli. Pensai che sarebbe scoppiato un
tumulto, e avevo la netta sensazione che sarei stato linciato, o peggio.
Iniziarono a salire a bordo. C'era una sorta di frenesia incontrollata. Forse era la
prima volta che vedevano un soldato bianco, forse mi ritenevano personalmente
responsabile dei loro amici e familiari morti e feriti. Si avvicinavano e mi
sferravano schiaffi e pugni, mi tiravano i baffi e i capelli. Si sentiva un odore
penetrante di corpi mal lavati. Era come un film dell'orrore con gli zombi.
Non vedevo più la luce del giorno, e pensai che sarei morto soffocato.
Spararono molti altri colpi in aria, e pensai che di lì a poco avrebbero abbassato la
mira. Pensai scioccamente che qualcuno avrebbe potuto restare ferito. Quando
ricadono a terra, i proiettili hanno perso molta della loro velocità iniziale, ma
comunque conservano un'energia inerziale che può uccidere. Senza dubbio anche
per quelle morti avrebbero dato la colpa a me.
Che cosa avrebbero fatto quei soldati? Mi avrebbero lasciato squartare dai civili?
Uccidetemi subito, pensai. Poi i militari cominciarono a spingere via la folla. Fu
una sensazione meravigliosa. Solo un minuto prima mi stavano picchiando, e
adesso quei ragazzi erano diventati i miei salvatori. Meglio il diavolo che si
conosce...
Ero steso bocconi sul retro della jeep, sempre con le mani legate, e cominciarono
a trascinarmi, con i piedi in avanti. Gli insulti crebbero. Mi sforzai di apparire
derelitto e gravemente ferito, pensando a come proteggermi la faccia mentre
cadevo sull'asfalto da un'altezza di sessanta centimetri. La soluzione era voltarmi
di schiena, perché in quel modo avrei potuto tenere la testa sollevata. Riuscii a
farlo appena in tempo. Alzai la testa e la base della spina dorsale assorbì la forza
dell'impatto, scatenandomi però un'esplosione di dolore nel cranio. Rimasi senza
fiato. I soldati stavano facendo la parte del macho, agitando i loro Kalashnikov
come Che Guevara. Sembravano proprio dei bulli, pensai, si pavoneggiavano
davanti alle ragazze. Erano i veri ffighi locali, e potevo giurare che quella sera
avrebbero battuto |il chiodo.
Il veicolo si era fermato a quindici metri da un grande cancello i battenti
incardinati in un muro alto tre metri. Pensai che doveva essere la base militare del
luogo. Mi trascinarono sulla schiena fino al cancello. Dovetti inarcarmi per
proteggermi le mani ed evitare che strisciassero sul terreno. Anche lì c'era un
isterismo di massa. Ero spaventato: la paura dell'ignoto. Questa gente aveva l'aria
di aver perso il controllo.
Alla fine fui trascinato dentro e il cancello sbattè alle nostre spalle. Vidi un grande
cortile e una serie di costruzioni. La sceneggiata per impressionare le ragazze
terminò di colpo, e i soldati mi misero in piedi e mi trascinarono per le braccia. Ci
vuole del tempo per guardarsi attorno e sintonizzarsi. Se fai il duro, metti il petto
in fuori e li mandi affanculo, ti riempiono di nuovo di botte, ed è
controproducente. Devi mostrarti docile e mansueto, è questo che vogliono. E'
adesso che le ferite possono cominciare a esserti utili. Devi sembrare debole,
come se tutto ti pesasse addosso e fossi totalmente spaesato. A parte ogni altra
considerazione, questa tattica ti permette di risparmiare le energie residue in modo
da essere pronto per la fuga, il che è della massima importanza.
Sentii di avere superato una prova importante. Ero in un altro mondo, una fase
drammatica si era conclusa. Per una strana combinazione, mi sentivo quasi salvo,
adesso che la popolazione locale non poteva più mettermi le mani addosso. La
prospettiva di essere linciato mi era apparsa molto peggiore di qualunque cosa
potesse farmi un mio collega militare. Esagerai la zoppia, i brividi e la tosse, e
ogni volta che qualcuno mi afferrava gemevo. Doveva sembrare un miracolo che
fossi vivo, per come ero malconcio. Intendiamoci: malconcio lo ero veramente,
ma il mio stato mentale era buono, ed è di questo che ci si deve preoccupare,
questo è ciò che si deve nascondere al nemico.
Per qualche minuto rimasi lì, circondato da un anello di guardie. Proprio davanti a
me c'era una strada asfaltata che portava a un gruppo di edifìci, cento metri più
avanti. Guardando da destra a sinistra, vidi dapprima un gruppo di caserme lungo
il perimetro di un muro di cinta, poi un gruppetto di alberi.
Vidi un povero bastardo steso sull'erba, piegato sull'addome come un pollo, con i
polsi e le caviglie legati insieme. Stava cercando di sollevare le gambe per
allentare la pressione sulla testa. Ovviamente gli avevano dato una bella legnata.
Aveva la testa gonfia come un pallone e la divisa strappata e coperta di sangue.
Non riuscivo nemmeno a vedere il colore dei suoi capelli o a distinguere se era in
tenuta mimetica. Quando sollevò la testa, ci fissammo negli occhi per un istante e
mi resi conto che era Dinger.
Gli occhi dicono molte cose. Ti possono dire se una persona è ubriaca, quando sta
bluffando, quando è in stato di allerta, quando è felice. Sono le finestre della
mente. Gli occhi di Dinger dicevano: andrà tutto bene. Riuscii perfino a
strappargli un debole sorriso che ricambiai. Avevo una paura tremenda per lui
perché era in uno stato pietoso, ma era fantastico vederlo, avere lì un amico che
condivideva la mia sorte. Egoisticamente ero felice di non essere il solo catturato.
La presa per il culo che mi sarei sorbito di ritorno a Hereford sarebbe stata
intollerabile.
Per contro, quando lo vidi conciato in quel modo mi resi subito conto che adesso
era il mio turno. Era davvero alla frutta, eppure era un tipo molto più duro di me.
Mi venne in mente che avrei potuto essere morto prima della fine del pomeriggio.
Se era così, meglio fare in fretta.
Un paio di ragazzi se ne stavano in ozio a fumare sigarette contro un albero vicino
a Dinger. Non si mossero quando due ufficiali con il loro piccolo entourage
uscirono dai loro uffici e ci vennero incontro. Continuai a bluffare con le ferite,
riflettendo sul principio che non si conosce nulla finché non si prova.
Mentalmente mi preparai a un'altra dose di botte. Mentre gli ufficiali si
avvicinavano, digrignai i denti e strinsi le gambe per proteggermi i coglioni.
I reparti locali avevano avuto un sacco di perdite, e fu subito chiaro che questi
ufficiali ben vestiti - a metà fra i commando in tenuta mimetica e le truppe di leva
in verde oliva con le stelle sulle spalline - non erano impressionati dalla mia
recita. Mi tirarono su la testa e uno di loro cominciò col darmi un pugno. Chiusi
gli occhi e mi irrigidii in attesa del colpo successivo. Non arrivò.
Un altro ufficiale stava gridando e io aprii gli occhi abbastanza per afferrare
l'argomento della conversazione. Quello che mi aveva colpito aveva in mano un
coltello e stava venendo verso di me. Ci siamo, pensai, adesso fa vedere ai soldati
che è un duro.
Mi infilò il coltello sotto la giacca e la lacerò dall'alto in basso.
La giacca cadde a pezzi.
Fu ordinato ai soldati di perquisirmi, ma non avevano idea di come si facesse.
Dovevano aver sentito storie strane su dispositivi suicidi che esplodevano o roba
del genere, perché si comportavano da paranoici. Trovarono nelle mie tasche due
matite e le ispezionarono per vedere se contenevano arsenico o carburante per
razzi. Un soldato mi strappò le piastrine di identificazione e le portò via.
All'improvviso, senza di esse mi sentii nudo. Peggio ancora: ero nessuno, un
uomo senza nome. Togliermi le piastrine fu come privarmi dell'identità.
Altri due mi presero le fialette di morfina che portavo al collo e fecero il gesto di
infilarsele nel braccio. Erano eccitatissimi, e immaginai che se le sarebbero
iniettate più tardi. In un taschino sulle maniche della mia camicia mimetica avevo
uno spazzolino da denti, ma si rifiutarono di toccarlo. Forse non capirono cosa ci
facesse lì. Forse, se l'odore che emanavano significava qualcosa, non sapevano
nemmeno che cosa fosse uno spazzolino. In tutti i casi, non volevano rischiare
nulla. Lo fecero tirare fuori a me.
La perquisizione avvenne dalla testa ai piedi, ma fu eseguita malamente: non si
preoccuparono nemmeno di togliermi i vestiti. Mi sfilarono gli scarponi e fecero
razzia di ogni componente del mio kit. Si comportavano come vecchie signore a
una vendita di beneficenza. Noi usiamo sempre le matite invece delle penne,
perché funzionano sempre, anche sotto la pioggia. Io ne avevo un paio da dieci
centimetri, appuntite da entrambi i lati, così se una punta si rompeva usavo l'altra.
Le presero come souvenir. La stessa fine fecero il coltellino dell'esercito svizzero
e una bussola Silva che tenevo in tasca, entrambi attaccati a un pezzo di spago.
Per sicurezza ogni pezzo di equipaggiamento viene legato. C'era un taccuino ma
senza scritto niente. Ne avevo distrutto il contenuto al nostro primo punto di sosta.
C'era il cucchiaio di plastica che avevo fregato dalle razioni americane, e anche
quello era legato alla tasca con un pezzo di spago. Avevo l'orologio appeso al
collo con una corda, in modo che non sarei stato tradito dallo scintillio luminoso e
non si sarebbe impigliato mentre marciavo. Mi fu tolto persino il sacchetto di
plastica che tenevo nel caso avessi avuto bisogno di cagare durante la marcia.
Tuttavia, in un marsupio di tre centimetri intorno alla vita c'era il premio della
giornata: circa 1700 sterline, sotto forma di venti sovrane d'oro, che ci erano state
date per corrompere qualcuno in caso di fuga. Avevo fissato le monete con del
nastro adesivo e questo dette luogo a un gran casino. Balzarono indietro, gridando
quella che ritengo fosse la versione irachena di « Mollalo! Esploderà! »
Giunse un capitano. Non arrivava al metro e sessanta, ma doveva pesare più di
cento chili. Sembrava un uovo sodo. Era aggressivo e parlava un buon inglese,
rapido e concitato.
« Okay, come ti chiami? » /
« Andy. »
« Okay, Andy, voglio che tu ci dia le informazioni che ci servono. Se non lo farai,
questi uomini ti spareranno. »
Mi guardai intorno. I soldati erano tutti assiepati l'uno contro l'altro: se avessero
sparato, si sarebbero fatti fuori a vicenda.
« Che cos'è quell'arma che hai lì? » chiese indicando il nastro adesivo.
« Oro », dissi.
Quella parola deve essere internazionale, come jeans e Pepsi, e in ogni esercito
del mondo i soldati stravedono per la prospettiva di guadagnare qualche extra. Si
illuminarono gli occhi a tutti, perfino ai soldati semplici. In un colpo solo avevano
la possibilità di guadagnare più soldi di quanti ne portavano a casa in un anno.
Erano già lì a progettare vacanze o acquisti di nuove auto. Improvvisamente mi
ricordai la storia di un soldato americano appartenente alle truppe che avevano
invaso Panama. In un ufficio del presidente Noriega trovò tre milioni di dollari in
contanti, e fu così stronzo da riferirlo per radio. I soldi furono portati al quartier
generale del reggimento, e poi non li vide più nessuno. Il tizio che mi raccontò la
storia mi disse che non riusciva a dormire di notte, pensando a un'occasione
simile buttata al vento.
Gli ufficiali non corsero rischi. Mi trascinarono in un altro ufficio e mi dissero di
posare la cintura sul tavolo.
«Perché hai dell'oro?» latrò il nano obeso. '' « Per pagare la gente se avessi finito
il cibo », risposi. « Rubare è peccato. » , « Apri il marsupio. »
I graduati misero due soldati di guardia nella stanza con me e se ne andarono,
casomai stessi mentendo e mi accingessi a far esplodere una fila di bombe
incendiarie. Tirai fuori la prima sovrana d'oro e gli ufficiali furono richiamati.
Naturalmente congedarono subito la bassa forza e si divisero le sovrane tra loro.
Cercarono di mostrarsi marziali e solenni, ma quel che stavano facendo era
scandalosamente chiaro.
Probabilmente fu grazie all'avidità degli ufficiali se la mia carta geografica di seta
e la bussola miniaturizzata non vennero trovate. Erano entrambe nascoste nella
mia uniforme e un'attenta perquisizione le avrebbe scoperte. Ero felicissimo di
averle ancora. Era una sensazione bellissima; tu non lo sai, nasone, ma ho ancora
una cartina e una bussola... tiè, brutto stronzo. Il momento migliore per scappare è
subito dopo la cattura. Più ti avvicini al cuore del sistema, più scappare è difficile,
perché i controlli si fanno sempre più efficienti e professionali. Le truppe di prima
linea hanno altri problemi per la testa, ma man mano che ti inoltri nelle retrovie la
sicurezza è maggiore, ed è più probabile che ti tolgano l'uniforme. Dal momento
in cui ero stato catturato avevo cercato di orientarmi in modo da capire da che
parte stesse l'ovest. Se la fortuna avesse girato dalla mia parte, avrei avuto
bisogno degli strumenti che mi restavano.
Mi bendarono e mi condussero in un'altra stanza: sentivo che era grande e ariosa.
C'erano dentro alcune persone che parlavano, e l'atmosfera era più pacata. Dai
toni di voce controllati, capii che era la stanza del comando. Mi sembrava
stranamente sicura, e per certi versi mi sentivo fuori pericolo, anche se in fondo
sospettavo ciò che sarebbe successo. Poi mi resi conto che, proprio perché erano
meno emotivi, se mi avessero riempito di botte lo avrebbero fatto in modo molto
più professionale.
C'era un odore forte di caffè, Gitanes e dopobarba scadente.
Fui spinto a sedere su una sedia con il sedile imbottito e lo schienale alto. Avevo
la sensazione che una parte di me fosse in un altro posto. La mia mente stava
vagando in qualche regno fantastico per allontanarmi da lì, come se tutto fosse
stato un sogno. Non avevo mai pensato che mi potesse succedere una cosa del
genere. Mi sentivo come se avessi investito un bambino con la macchina:
incredulità assoluta e totale. La mia mente coglieva i fatti, ma io restavo chiuso
nel mio mondo. Quando ne uscii per un attimo, pensai di mendicare una tazza di
caffè o qualcosa da mangiare. Ma no, non avrei chiesto un cazzo di niente. Se mi
avessero dato qualcosa di loro iniziativa, va bene, ma io non li avrei implorati.
Irrigidii i muscoli, abbassai la testa e strinsi le gambe. Immaginai che prima di
procedere a un vero e proprio interrogatorio tattico avrebbero riversato su di me le
loro frustrazioni. Stavano bisbigliando tra loro.
Vediamo cosa cazzo fanno, pensai. Una tortura efferata?
O me lo metteranno in culo?
Gli uomini giravano nella stanza sussurrando. Quando ci si sforza tanto di
ascoltare, il minimo rumore viene amplificato.
Una sedia scricchiolò. Qualcuno si alzò in piedi e si diresse verso di me.
Mi irrigidii. Ecco, ci siamo. Finsi di tremare. Sarebbe stata una gran cosa che quei
beduini provassero un po' di pietà per me.
Due secondi sembrarono due minuti. Era esasperante non vedere cosa stava
succedendo. Rabbrividii di nuovo, come una creatura ferita, patetica, un uomo
all'oscuro di tutto, un povero coglione cui non valeva la pena di fare nulla. Ma
sapevo che stavo arrampicandomi sui vetri. A testa bassa, cercai di non
manifestare nessuna reazione, mentre il tizio si avvicinava.
Sentii una forte zaffata di caffè e sognai di essere al Ross's Café di Peckham con
una grande tazza schiumosa davanti. Da ragazzi, il sabato andavamo là e ci
mangiavamo due salsicce con patatine fritte, sale e aceto a volontà, innaffiate da
un bel caffè con la schiuma. Ross il greco ci permetteva di passare là tutta la
mattina. Non eravamo mai più di otto o nove. Mia madre mi dava sempre i soldi
per pranzare da Ross, sapeva che era una gran cosa. In inverno c'erano la
condensa che copriva le finestre e quel fortissimo odore di caffè. Era un posticino
davvero coi fiocchi, e molto intimo. Per un brevissimo istante, mi tornò alla
memoria così vividamente che mi sentii un bambino caduto che piange
chiamando la mamma.
Sicuramente Dinger non aveva raccontato la storia di copertura... nome,
matricola, grado e data di nascita: le Big Four, le Quattro Grandi, erano tutto ciò
che aveva detto, pensai. Qui mi daranno un sacco di botte perché vorranno sapere
molto di più.
Sperai che non avrebbero incominciato subito. Forse adesso avrebbero sfogato su
di me soltanto le loro frustrazioni. Forse nessuno parlava inglese! La mia mente
girava a velocità impressionante, mentre il tizio si avvicinava sempre di più e alla
fine si fermò a pochi centimetri da me.
Mi tirò su la testa e mi sferrò un formidabile pugno in faccia. Il colpo mi sbattè
all'indietro e di fianco, ma loro stavano intorno a me e mi risollevarono. Anche se
te lo aspetti, un pugno del genere, quando arriva, è uno choc. Volevo restare giù
perché prima di incassare l'altro avrei avuto tempo per riprendermi, tempo per
pensare.
Tutti si fecero sotto. Udii delle risate: facevano a gara a chi colpiva più sodo. Mi
sentivo ubriaco. Sai che cosa ti aspetta, sai cosa sta succedendo, ma non puoi
intervenire in nessun modo.
Allora cominci a sentirti distaccato. E' te che stanno picchiando, ma la tua mente
prende il sopravvento e dice vaffanculo, non intendo sopportare altro: così inizi a
scivolare nell'incoscienza. Lo senti che avviene, ma la tua mente vaga altrove. Mi
stavano ammazzando di pugni, ma io ero semincosciente.
Mi lasciai cadere sul pavimento, perché in quel modo avrei potuto proteggermi
almeno la faccia. Tirai su le ginocchia e le tenni strette, tenni bassa la testa e mi
raggomitolai. Mentre piovevano i colpi urlavo e gemevo. Alcune urla erano finte,
altre no.
Poi, come se qualcuno avesse dato un segnale, il pestaggio si interruppe.
«Povero Andy, povero Andy, eh eh...» Un falso risolino di preoccupazione.
Mi sollevai in ginocchio, appoggiai la testa contro l'uomo e la scossi. Mi sostenni
contro di lui, con il respiro pesante e affannoso, perché avevo il naso intasato da
grumi di sangue e fango.
Stramazzai di nuovo sul pavimento. Avevo bisogno del suo aiuto per rimettermi
in piedi. Questo mi da del tempo, pensai, questo inceppa le operazioni. Forse
sarebbero tornati in sé e avrebbero visto che io ero solo un povero e inutile cretino
che non meritava tanti sforzi, e mi avrebbero lasciato in pace.
Fui aiutato a rimettermi sulla sedia e qualcuno mi dette un calcio nello stomaco.
Urlai. Fin da quando ero uno scolaretto odiavo quei colpi, e ai tempi te li davano
con le ginocchia. Questo invece era un calcione in piena regola. Gli stivali mi
volarono di nuovo addosso da tutte le direzioni e caddi a terra.
Sai che la tattica più giusta è mostrarsi debole e supplicarli di avere pietà, ma poi
qualcosa prende il sopravvento. Ero cosi incazzato che decisi di tenere duro. Non
c'era modo che riuscissi a divincolarmi: tanto mi avrebbero menato comunque.
Sapevo che resistere era controproducente, ma non si può combattere contro la
propria dignità e il proprio orgoglio. Se mi fossi lamentato, loro sarebbero stati
più contenti. La sola via per sconfiggerli era il mio atteggiamento mentale; e mi
ripetevo che ce l'avrei fatta.
Mantenendomi il più calmo possibile, stavo vincendo una piccola battaglia.
Anche il successo più infinitesimale psicologicamente viene moltiplicato per
mille. Questa la sto vincendo, pensai. Sentii il morale salirmi assurdamente alle
stelle. Che vadano a fare in culo, mi dissi, non dar loro la soddisfazione di tornare
a casa a bere il tè e raccontare agli amici: sì, ci supplicava di smettere.
Non smisero. Gli stivali mi battevano contro le costole e la testa, punte d'acciaio
sui miei stinchi dolenti. Non avevano alcun motivo per agire così, volevano solo
dimostrare la loro virilità.
La mia sola speranza era che si annoiassero in fretta.
Un paio di loro cominciarono a imprecare in inglese, insultan do Bush, la
Thatcher, tutti quelli che gli venivano in mente. Il mio corpo iniziava a ribellarsi.
Mi sentivo sfinito e privo di forze, facevo fatica a respirare. Non ci vedevo più:
avevo gli occhi gonfi e pulsanti, e sentivo che anche gli altri sensi si
appannavano. Il cuore batteva così forte da opprimermi il petto.
Sentivo urla e gemiti disperati. Probabilmente venivano da me.
Qualcuno mi gridò in faccia a qualche centimetro di distanza e poi scoppiò in una
risata maniacale: «Ah, ah, ah, ah», e si ritrasse.
Avrei dovuto avere il buon senso di mostrarmi uno straccio tremante... di farli
ridere, fargli dire: «Ah, il pivello...! Lasciatelo stare, che testa di cazzo! »
Invece mi limitai a stare lì a prenderle. ' « Sei uno strumento di Bush, Andy
», disse uno, « ma non lo sarai ancora per molto, perché noi ti uccideremo. »
Presi la minaccia sul serio. Quell'uomo aveva solo confermato le mie peggiori
paure. Ci avrebbero dato una bella manica di botte e poi ci avrebbero ucciso.
" ' Bene, pensai: allora continuiamo.
Mi trascinarono di nuovo in piedi. Il sangue mi scendeva dalle ferite alla testa,
colandomi in bocca e negli occhi. Avevo le labbra insensibili, come se fossi
andato dal dentista. Non controllandole, non potevo soffiare via il sangue: quindi
chinai la testa per farlo scendere da un'altra parte, evitando il contatto con i loro
occhi. Non volevo che quei bastardi capissero quello che stavo pensando.
Per un quarto d'ora, continuarono a turno a darmi pugni e sberle: spesso senza
nemmeno fare lo sforzo di rimettermi sulla sedia.
Restai più raggomitolato che potei. Due mani mi afferrarono per i piedi
trascinandomi attraverso la stanza in modo che gli altri mi potessero mollare calci
più agevolmente. Avevano perso il controllo della situazione, pensai. Ancora un
po' di botte e mi avrebbero accoppato.
Nel casino la benda mi era caduta dagli occhi, ma non mi preoccupai di guardare.
Vidi solo le mie ginocchia strette contro la faccia e il pavimento chiaro di
linoleum, prima lucido e adesso macchiato di fango e sangue. Faticavo sempre
più a respirare e cominciai a preoccuparmi degli effetti a lungo termine di quel
trattamento. Sentivo il corpo disintegrarsi. Potevo morire lì, con l'unica
consolazione di avergli sporcato il pavimento.
Raschiavo e tossivo sangue. Ancora venti minuti, pensai, e sarei stato veramente
nei guai. Le mie possibilità di fuga diminuivano.
Alla fine, dovettero stufarsi del gioco. Ero un rottame, mi avevano portato al
punto di cottura e non c'era ragione di continuare. ' « ' Giacevo sul pavimento,
madido del mio stesso sangue, in mezzo alla sporcizia e al sangue coagulato.
Perfino i piedi mi sanguinavano, e le mie calze color cachi erano inzuppate e
rosse.
Aprii gli occhi per un istante e vidi fugacemente un paio di stivali Chelsea con le
cerniere laterali, sormontati da jeans scampanati. Gli stivali avevano orribili tacchi
di plastica, tipo i modelli di cui rigurgitano i mercatini del sabato. I jeans erano
smunti e sporchi, a zampa d'elefante. C'era da scommettere che l'uomo che li
indossava sotto l'uniforme portasse anche una maglietta David Cassidy.
Lanciando una rapida occhiata vidi che erano tutti ufficiali, con la faccia liscia e
ben rasata, senza un pelo fuori posto. Tutti portavano i baffi, e i capelli
impomatati all'indietro.
Il look alla Saddam impazzava.
Ero rattrappito in un angolo contro la parete. Tutt'intorno, le loro facce
incombevano su di me. Uno mi sbattè addosso la cenere della sua sigaretta e io
alzai uno sguardo pietoso. Per tutta risposta, lo rifece.
Entrarono altre persone. Fui sollevato, rimesso sulla sedia e bendato di nuovo.
Sperai solo che non fossero uomini freschi venuti per ricominciare dal punto in
cui avevano smesso gli altri.
« Come ti chiami? » Era una voce nuova, che parlava un inglese perfetto.
« Andy. »
Non gli dissi il mio nome per esteso. Ero determinato a tirarla più in lungo
possibile. Il mio cognome richiedeva una nuova domanda; il trucco è mostrarsi
sempre disposti a collaborare, ma consumare più tempo che si può.
« Quanti anni hai, Andy? In che giorno sei nato? »
La sua dizione era molto precisa, la sua grammatica migliore della mia: si
coglieva appena un leggerissimo accento orientale.
Gli detti la risposta.
« Qual è la tua religione? »
In base alla convenzione di Ginevra, lui non aveva il permesso di chiedermelo. La
risposta corretta sarebbe stata: «Non posso rispondere a questa domanda ».
« Appartengo alla Chiesa anglicana », dissi.
Era scritto sulle mie piastrine di identificazione che erano in mano loro: quindi,
perché' avrei dovuto rischiare un altro pestaggio per non fornire un'informazione
che già possedevano? Speravo che l'informazione servisse a confermare che ero
inglese e non di Tel Aviv, come quegli stronzi sembravano credere.
La Chiesa anglicana per loro non significava niente.
« Sei ebreo? »
«No, sono protestante.»
«Che cos'è un protestante?»
« Un cristiano. Sono cristiano. »
Per loro, un cristiano è uno che non è né musulmano né ebreo.
La cristianità comprende tutti, dai trappisti ai seguaci di Moon.
«No, Andy, tu sei ebreo. Lo scopriremo presto. A proposito... ti piace il mio
inglese? »
« Sì, è ottimo. »
Non avevo intenzione di discutere. Per quanto mi riguardava, parlava inglese
meglio di Kate Adie.
Avevo la testa che ondeggiava a destra e sinistra, dovevo sembrare in stato
confusionale. Ci furono lunghe pause durante le quali cercavo di apparire
occupato a riflettere. Confondevo le parole, gemevo, insomma... la tiravo per le
lunghe.
« Certo che il mio inglese è ottimo », ribattè secco, avvicinandosi alla mia faccia.
« Ho lavorato a Londra. Mi prendi per idiota? Noi non siamo idioti. »
Mi aveva interrogato da circa tre metri di distanza, come se stesse dietro una
scrivania. Ma adesso si era alzato in piedi, e girava nella stanza schiumando un
torrente di retorica su quanto intelligente e meravigliosa era la nazione irachena, e
quanto erano civili e via dicendo. Stava cominciando a urlare, e gocce della sua
saliva atterrarono sulla mia faccia. Puzzavano di tabacco e colonia da due soldi.
La rapidità e la durezza del suo assalto verbale mi fece sussultare un po'; ma
strinsi i denti. Dovevo controllare le mie reazioni: non volevo che capisse che ero
in condizioni migliori di quanto credesse. Bisogna dare per scontato che questi
beduini sono esaltati.
« Siamo una nazione avanzata», berciò. « E il tuo Paese lo scoprirà presto. »
Mi sentivo un po' come un bambino che si sta buscando una sgridata, ed è lì a
testa bassa tutto tremante davanti a uno che gli urla contro.
Aveva nominato Londra, e pensai che le cose si stavano mettendo bene, perché
avremmo parlato di Londra.
« Io sono innamorato di Londra », dissi. « Mi piacerebbe ritornarci, adesso. Non
voglio stare qui. Non so che cosa sto facendo, qui. Sono solo un soldato. »
Ripetemmo di nuovo le Big Four. Con gli occhi della mente cercai di correre
avanti e confrontare quello che stavo per dire con quello che avevo già detto.
Sentivo che qualcuno stava scrivendo molto, che piegavano dei fogli, e udii uno
scalpiccio di piedi.
Il mio inquisitore si allontanò e si sedette. Il suo tono cambiò, rifacendosi dolce e
mellifluo.
« So che sei solo un soldato », disse. « Anch'io sono un soldato. Comportiamoci
da persone civili. Noi siamo una nazione civile. Ci sono alcune cose che vogliamo
sapere, Andy... tu diccele.
Tu sei solo uno strumento. Loro ti stanno usando. »
La loro tattica era evidente: adesso il mio compito era fargli pensare che i loro
metodi stavano funzionando.
«Sì, signore», risposi. «Sono così confuso, voglio davvero aiutarvi. Non so cosa
sta succedendo. Sono molto preoccupato per il mio amico là fuori. »
« Bene, dimmi da che unità provieni. Diccelo, e non dovrai più sopportare tutto
questo dolore. Perché vuoi farti del male? »
« Mi spiace, non posso rispondere a questa domanda. »
Ricominciarono.
Quando erano entrati quelli nuovi, uno di loro doveva essersi piazzato alle mie
spalle. Credo che quando risposi secondo regolamento l'inquisitore gli fece un
cenno, perché mi arrivò sulla tempia un colpo fortissimo sferrato con la canna del
fucile, che mi sbattè a terra.
Nelle risse fra ragazzi, sei pronto e ti aspetti i colpi. Non fanno molto male
quando arrivano, ma, se non te li aspetti, il dolore è fortissimo. Lo choc della
canna del fucile fu tremendo. Svenni.
Passai in un altro mondo e, anche se sentivo molto male, era un posto piuttosto
piacevole.
Mentre ero sdraiato sul pavimento, mi accorsi che il mio respiro era lieve e il
cuore pompava molto più lentamente. Tutto si stava rallentando, mi sentivo
gradualmente declinare. Non riuscivo a deglutire. Ero in mezzo alla nebbia.
Ricevetti un altro colpo con la canna del fucile, e davanti agli occhi mi esplosero
bolle di luce vividissima. Poi calò l'oscurità.
Ero semincosciente quando mi rimisero sulla sedia.
« Senti, Andy... noi abbiamo solo bisogno di sapere alcune cose. Permettimi di
fare il mio lavoro. Non devi comportarti così.
Siamo tutti soldati, e la nostra è una professione onorevole. » Parlava con voce
profonda e rassicurante, come per dire: « Su, diventiamo amici ».
« Potremmo lasciarti nel deserto a farti mangiare dagli animali, Andy. Non
importerebbe niente a nessuno, tranne che alla tua famiglia. Lascia perdere, non
fare l'eroe, sei solo un burattino nelle mani delle persone che ti hanno mandato
qui. Loro se la spassano, mentre la gente come me e te combatte. Tu e io, Andy...
non volevamo combattere questa guerra. »
Annuivo, mostrandomi d'accordo con tutto quello che diceva, e in quel mentre
cresceva in me la meravigliosa sensazione di averlo sconfitto: mi vedeva annuire,
ma non sapeva che dentro di me lo mandavo affanculo. Cominciai a sentirmi
meglio rispetto alla mia cattura. Fino a quel momento tutto mi era sembrato così
negativo. Ora pensavo: lui crede a tutte queste stronzate.
Lui sta blaterando e io annuisco. Non riuscivo a credere che stavo per cavarmela.
Ero io a dominare la conversazione, e quello non se ne accorgeva nemmeno.
Avevo un vantaggio su di lui, e questo avrebbe potuto dare il la a un rapporto
stupendo.
Stavo vincendo.
« Diccelo, Andy, e ti rimanderemo subito in Inghilterra. Qual è il tuo reparto? »
Fece un rumore come se avesse il potere di chiamare lì un aereo privato per
riportarmi a Brize Norton.
« Mi dispiace, non posso rispondere a questa domanda. »
Questa volta, mentre i calci mi colpirono la testa, sentii un rumore sibilante e uno
schiocco nelle orecchie, e quando mi afferrai la mascella sentii scricchiolare le
ossa. Il sangue mi colava dalle orecchie e sul volto. Ahi, ahi... Il sangue che ti
esce dalle orecchie non è un buon segno. Rimarrò sordo, pensai. Merda, avevo
poco più di trent'anni.
« A che reparto appartieni? »
Speravo con tutte le forze che cambiasse domanda, ma quello non mollava.
Non risposi.
« Andy, non stiamo facendo molti progressi. »
Stranamente la voce era ancora dolce e accattivante.
« Devi capire, Andy, che io ho un lavoro da fare. Non stiamo andando molto
lontano, vero? Non è un'informazione cosi importante, perché non ce la dai? »
Silenzio.
Altri calci. Altri pugni. Altre urla. .
« Ce lo ha già detto il tuo amico, sai? Vogliamo solo avere una conferma. »
Era una bugia. Sicuramente da Dinger non aveva tirato fuori un cazzo. Dinger era
più duro di me, non avrebbe detto una parola. Probabilmente lo avevano pestato
in quel modo perché lui li aveva trattati come trattava chiunque non'gli piacesse: li
aveva mandati di sicuro affanculo.
« Lei deve capire che io sono un soldato », dissi. « Anche lei è un soldato, deve
capire che non posso dirglielo. »
Cercavo di ottenere un po' di complicità buttandola sul patetico lacrimoso.
Speravo di riuscire a fare appello alla loro tradizionale paura di perdere la faccia.
« La mia famiglia sarebbe svergognata per sempre », piagnucolai. «Cadrebbero in
disgrazia, io sarei screditato per il resto dei miei giorni. Non posso dirle queste
cose, non posso proprio. »
« Allora, Andy, abbiamo un grosso problema. Tu non ci vuoi dire quello che noi
abbiamo bisogno di sapere. Non ci stai aiutando, e non stai aiutando te stesso.
Potresti morire molto presto per qualcosa che per te non significa nulla. Io vorrei
aiutarti, ma ci sono persone che stanno sopra di me che non me lo permettono.
»
« Ammettilo », proseguì con un tono da amico del cuore che ti da un amorevole
consiglio, « sei israeliano, vero? Su, dai, ammettilo. »
«Io non sono israeliano», singhiozzai. «Guardi... non sono vestito da israeliano.
Questa è l'uniforme britannica, e avete visto le mie piastrine di riconoscimento. Io
sono inglese e questa è l'uniforme britannica. Non so che cosa vogliate da me. Per
favore, vi prego, voglio aiutarvi. Voi mi state confondendo, e io ho paura. »
« Questa è una stupidaggine. »
« Voi avete le mie piastrine di riconoscimento, avete visto che sono inglese. Ho
paura di quello che lei dice. »
Il suo tono cambiò improvvisamente. « Sì, noi abbiamo le tue piastrine di
identificazione, e tu no! », esplose come un cane rabbioso. « Tu sei quello che
diciamo noi, e per quanto ci riguarda sei israeliano. Altrimenti, perché eri cosi
vicino alla Siria? Cosa stavi facendo? Dimmelo, dimmelo! Cosa stavi facendo?»
Anche se avessi voluto rispondere, non me ne lasciò il tempo.
Mi investì con un diluvio di domande e di retorica furibonda.
«Tu non significhi niente per noi! Tu non sei niente, niente! »
Doveva essere divertente a casa sua: di certo i suoi figli non sapevano nemmeno
se andava o veniva.
Che cosa faccio adesso? mi domandai.
Ritorniamo alla faccenda che sono israeliano.
Nella mia mente si stava insinuando il terrore per Bob. Bob aveva i capelli neri,
ricci e il naso grosso. Se fosse stato catturato o avessero trovato il suo cadavere,
avrebbero potuto scambiarlo per ebreo.
« Io sono britannico. »
«No, no, tu sei israeliano. Sei vestito da commando.»
« Nell'esercito britannico tutti portano questa divisa. »
«Morirai presto, Andy... perché sei stupido, perché non hai risposto a delle
semplici domande. »
« Io non sono israeliano. » - ' Ero arrivato al punto in cui dovevo
ricordare quello che avevo detto e quello che non avevo detto, perché sapevo che
se veniva verbalizzato - e li sentivo scribacchiare - mi sarei cacciato nella merda. -
, , Riprendiamo la storia dell'israeliano. Forse se questo tizio continua a
parlare, possiamo instaurare un rapporto. Lui e io.
E' mìo. Lui è il mio inquisitore. Potrebbe avere pietà di me.
«Io sono cristiano, sono inglese», ricominciai. «Non so nemmeno in che parte
dell'Iraq mi trovo, figuriamoci se so che siamo vicino alla Siria. Io non voglio
stare qua. Mi guardi, ho paura. »
« Sappiamo che sei israeliano, Andy. Vogliamo solo sentirlo da te. Il nostro
amico ce l'ha già detto. »
Pensai che anche Dinger poteva essere scambiato per ebreo, con i suoi capelli
biondi, folti e ricciuti.
« Voi siete dei commando. »
Nel loro esercito, solo i commando indossano tenute mimetiche.
«No, che non lo siamo. Siamo comuni soldati! »
« Morirai per la tua stupidità. Vogliamo da te solo risposte facili facili. Sto
cercando di aiutarti. Come ti aspetti che possa farlo, se tu non aiuti me? Vogliamo
che tu risponda a questa domanda. Dobbiamo sentirlo da te. Tu ci vuoi aiutare,
vero? »
«Certo che voglio aiutarvi! » singhiozzai di nuovo. «Ma non posso aiutarvi, se
non so niente! »
« Sei proprio stupido. » Il tono di voce era aggressivo, ma c'era anche una traccia
di compassione. « Perché non ci aiuti? Su, forza, dammi una mano. Non voglio
vederti in questa situazione più di quanto lo voglia tu. »
« Voglio aiutarvi, ma non sono israeliano. »
« Diccelo e noi la smetteremo. Avanti, non sarai mica così stupido, vero? Che
problema c'è? Siamo gente civile. Ma ho bisogno che tu mi dica che sei
israeliano. Se non puoi farmi questo favore, allora dimmi, come mai sei così
vicino alla Siria? »
«Non lo so dove mi trovo. »
«Sei vicino alla Siria, ecco dove sei!... quindi dimmelo. Queste persone ti
uccideranno. Il tuo amico è okay, il tuo amico ce lo ha detto. Lui vivrà, ma tu
morirai per una cosa stupida. Perché morire? Sei stupido. »
Sentii la sua sedia scricchiolare sul pavimento. Stavo cercando di capire cosa
stesse succedendo, senza mostrare che riuscivo a concentrarmi. Fisicamente ero
uno straccio. Speravo solo in una scintilla di umanità da parte di quell'uomo.
Merda... da bambino riuscivo sempre a girare la frittata, e raggirare le mie zie per
farmi comprare le patatine. Perché con questi qua non funzionava?
Sicuramente avrei meritato la nomination per l'Oscar, ma una buona percentuale
di quello che stavo facendo era vero.
Soffrivo davvero, e questo era un buon catalizzatore per apparire convincente.
Questa storia dell'israeliano era una buona cosa. Continuiamo così e speriamo che
si allontanino dalle altre domande.
«Non posso aiutarvi. Non posso proprio. »
Udii un grosso sospiro, come se lui fosse un mio amico e non potesse più fare
niente per aiutarmi. Il sospiro diceva: sono io il tuo contatto, l'unico in grado di
tenerli fermi.
« Allora io non posso aiutare te, Andy. »
Come se avesse fatto un cenno, udii un'altra sedia scricchiolare e dei passi venire
verso di me. Quando sentii la zaffata di dopobarba, capii che l'uomo che mi aveva
colpito con la canna del fucile stava venendo a darmi la buona notizia.
Era lui, infatti. E mi fece davvero vedere le stelle.
Dovevo essermi abituato a stare bendato, perché il mio udito e il mio olfatto
sembravano più acuti. Stavo cominciando a distinguere quelle persone dal loro
odore. Il ragazzo che usava la canna del fucile indossava abiti lavati di fresco. Un
altro amava i pistacchi. Se li metteva in bocca e li masticava, poi mi sputava i
gusci in faccia. Quello che parlava bene l'inglese fumava incessantemente e l'alito
gli puzzava di caffè e fumo. Quando si lanciava nell'oratoria mi sputacchiava in
faccia. Puzzava anche bestialmente di dopobarba.
La sua sedia scricchiolava e lo sentivo aggirarsi. Parlava a mitraglia, poi per un
po' faceva la parte dell'amicone ripetendomi: « Va tutto bene, andrà tutto bene ».
Parlava a bassa voce e lo sentivo avvicinarsi sempre più, finché non eravamo naso
a naso. Poi mi strillava nelle orecchie.
« Così non va, Andy », disse a un certo momento. « Dovremo strapparti la verità
in un altro modo. »
Che altro poteva mai farmi di peggio? Avevamo ricevuto dal controspionaggio
relazioni su centri di interrogatorio e sulle uccisioni di massa, per cui pensai:
ecco, ci siamo, ora mi fanno il culo. Vidi i campi di concentramento e gli elettrodi
attaccati alle mie palle.
Due ragazzi mi colpirono con la canna del fucile.
Un colpo particolarmente forte mi raggiunse alla mascella, appena sopra i denti.
Tra la punta del fucile e due dei miei molari posteriori c'era solo la pelle della
guancia. Sentii i denti rompersi e andare in pezzi, quindi il dolore mi sopraffece.
Ero a terra, e urlavo come un pazzo. Cercai di sputare i frammenti, ma avevo la
bocca troppo gonfia e insensibile. Non riuscivo a deglutire.
Nell'attimo in cui la mia lingua toccò i moncherini molli e aguzzi, svenni.
Rinvenni sul pavimento. La benda era venuta via e osservai il sangue uscirmi
dalla bocca formando un laghetto sul linoleum color crema. Mi sentii sciocco e
inutile. Avrei voluto solo che le manette mi cadessero per alzarmi e affrontare
quei tizi.
Continuarono, dandomi altri colpi sulla schiena, picchiandomi la testa, le gambe,
le reni.
Non riuscivo più a respirare dal naso. Quando urlavo, dovevo respirare con la
bocca, e l'aria colpiva il nervo del dente esposto.
Gridai di nuovo, continuavo a gridare.
Stava diventando insopportabile.
Mi rialzarono e mi fecero sedere. Non si preoccuparono di rimettermi la benda,
ma comunque tenni la testa bassa. Non volevo incrociare il loro sguardo e
rischiare un altro pestaggio per averli visti. Soffrivo già abbastanza. Ero un grumo
scomposto di dolore che gridava a squarciagola mentre ripiombava sulla sedia,
smoccolandosi addosso. La mia coordinazione se n'era andata del tutto. Non
riuscivo più nemmeno a tenere strette le gambe. Di sicuro sembravo la copia di
Dinger.
Ci fu un lungo silenzio.
Tutti stavano camminando avanti e indietro nella stanza, lasciandomi riflettere sul
mio destino. Quanto potevo resistere ancora? Mi avrebbero ammazzato di calci lì
dentro o cosa?
Sentii altri sospiri e parlottii.
« Perché lo fai, Andy? Per il tuo Paese? Il tuo Paese non vuole nemmeno sapere
chi sei. Il tuo Paese se ne frega. I soli che si preoccuperanno saranno i tuoi
genitori, la tua famiglia. Noi non vogliamo la guerra. Sono Bush e Mitterrand, la
Thatcher e Major che la vogliono. Loro stanno seduti laggiù e non rischiano
niente.
Tu sei qui. Sei tu che soffrirai, non loro. Loro non si preoccupano di te.
« Noi veniamo da una guerra durata molti anni. Tutte le nostre famiglie hanno
sofferto. Non siamo barbari, siete voi che ci fate la guerra. Perché non ci aiuti?
Perché subisci tutta questa sofferenza? Perché ci costringi a farti del male? »
Non risposi, limitandomi a tenere la testa bassa. Il mio piano prevedeva di non
raccontare subito la storia di copertura, perché dopo sarei stato finito. Stavo
cercando di mostrarmi disposto a dire loro le Big Four e basta. Regina e patria, e
via discorrendo.
Avrei sopportato una certa quantità di interrogatorio tattico, poi mi sarei buttato
nella storia di copertura.
Parlavano tra loro a voce bassa in quello che mi sembrava un arabo da persone
istruite. Qualcuno stava scribacchiando appunti.
Questo era un buon segno, perché indicava che non c'era una grande esaltazione,
non stavano cercando di spremermi quello che potevano per poi farmi secco.
Sembrava avessero qualche motivo per tenermi in vita. C'erano forse ordini in tal
senso?
Di nuovo l'ottimismo, il pensiero che un'autorità superiore mi avrebbe salvato alla
morte. D'accordo, ribatteva l'altra metà del mio cervello.:, ma così ti avvicini al
centro, e le probabilità di scappare diventano minori. In cima ai tuoi pensieri deve
esserci sempre la fuga. Non sai mai quando si presenterà l'occasione, e devi essere
pronto. Carpe diem! Devi afferrare il momento, ma più a lungo rimani
prigioniero, più diventa difficile.
Pensai a Dinger. Sapevo che sulla faccenda di Tel Aviv non gli aveva dato
nessuna soddisfazione. Di certo aveva dato il massimo e, quando aveva stabilito
che fisicamente non ce la faceva più e che lo avrebbero preso a calci fino alla
morte, aveva cominciato con la storia della ricerca e del soccorso.
Mi venne in mente che forse mi sarei sentito meglio se fossi riuscito a vedere
l'ambiente in cui mi trovavo. Alzai lo sguardo e aprii gli occhi. Le veneziane
erano abbassate, ma un po' di luce filtrava. Tutto era avvolto in una penombra
crepuscolare.
La stanza era piuttosto grande, forse 12x6. Sedevo lungo un lato del rettangolo.
Non vedevo la porta, quindi doveva essere alle mie spalle. Gli ufficiali erano di
fronte a me. Dovevano essere otto o nove, e fumavano tutti. Aleggiava una
nebbiolina, attraversata qua e là da un raggio di sole che entrava dalla finestra.
A metà della stanza, sulla destra, c'era una grande scrivania con un paio di
telefoni, risme di comune carta da ufficio, libri e altre cianfrusaglie. Un'imponente
poltrona di pelle in stile dirigenziale era vuota. Dietro di essa c'era la più grande
fotografìa del mondo di Saddam completo di basco, medaglie e immancabile
sorriso. Immaginai che fosse l'ufficio del comandante locale.
Sulla parete erano appese generiche note amministrative. Al centro del pavimento
di linoleum c'era un grande tappeto persiano che proseguiva sotto la scrivania.
Lungo le altre pareti erano allineate sedie di plastica accatastabili. La mia - quella
degli ospiti - sembrava una sedia da pranzo imbottita di materia plastica.
Altri parlottii e sospiri. Le persone parlavano tra loro come se io non esistessi e si
trattasse di una normale giornata in ufficio.
Girai la testa e sul mento mi colarono sangue e muco. Non sapevo quanto avrei
sopportato quello sfacelo alla bocca.
Esaminai le possibilità. Se avessero ricominciato a picchiarmi sarei morto prima
della fine del pomeriggio. Era venuto il momento di raccontare la storia di
copertura. Avrei aspettato che mi interpellassero di nuovo, poi avrei iniziato.
Quando mi ero rifiutato di rispondere alle domande non era perché fossi un eroe o
un patriota: questa è la propaganda che si vede nei film di guerra. La mia invece
era tecnica appresa in addestramento. Non potevo raccontare subito la mia storia
di copertura. Doveva sembrare che" fossero loro a estorcermela. Era una
questione di autoconservazione, non di coraggio. Le persone a volte fanno cose
eroiche perché le situazioni lo richiedono, ma l'eroe non esiste. Gli ammazzasette
o sono idioti o non conoscono il loro lavoro. Adesso dovevo fornire ai beduini il
minimo di informazioni sufficienti per rimanere vivo.
« Andy, non puoi startene lì in quel modo. Noi cerchiamo di dimostrarti amicizia,
ma dobbiamo avere le informazioni. Andy, questo interrogatorio può continuare a
oltranza. Il tuo amico là fuori ci ha aiutato e sta bene, è là fuori sull'erba ed è
ancora vivo, è al sole. Tu sei qui dentro al buio. Non va bene per te, e non va bene
per noi. Serve solo a esaurire il tempo a disposizione.
« Dicci solo quello che dobbiamo sapere e basta, tutto finisce.
Starai bene, ci prenderemo cura di te fino alla fine della guerra.
Forse potremmo anche organizzarci in modo da farti ritornare subito a casa dalla
tua famiglia. Non c'è problema, se ci aiuti. Hai un brutto aspetto. Ti fa male? Hai
bisogno di un dottore? Ti aiuteremo. »
Dovevo apparire completamente distrutto.
« Okay », sussurrai con voce roca. « Non ce la faccio più, vi aiuterò.»
Tutti i presenti nella stanza sollevarono lo sguardo.
« Appartengo a una squadra di ricerca e soccorso mandata a recuperare i piloti
abbattuti. »
L'inquisitore si voltò e guardò gli altri, che si avvicinarono tutti e si sedettero ai
loro tavoli. Tutto quello che dicevo doveva essere loro tradotto.
« Andy, dimmi qualcos'altro. Dimmi tutto quello che sai della ricerca e del
soccorso. »
La sua voce era molto gentile e tranquilla. Ovviamente pensava di avercela fatta:
proprio come desideravo.
«Proveniamo da unità diverse dell'esercito britannico», dissi, « e ci riuniscono per
via della nostra esperienza medica. Io non conosco nessuno, loro ci mettono
insieme e basta. Ho un addestramento sanitario, non sono un vero soldato. Sono
capitato in questa guerra, ma non perché l'ho chiesto. Ero in Gran Bretagna tutto
contento di lavorare in un ospedale militare e all'improvviso mi hanno ficcato in
una di queste squadre di ricerca e soccorso.
Non ho idea di cosa stia succedendo... sono un infermiere diplomato. »
Tutto sembrava procedere abbastanza bene. Ne discussero tra loro: ovviamente
quadrava con quello che aveva detto Dinger.
Il problema è che, quando cominci, hai aperto una breccia nella corazza e devi
continuare con la storia. Se però ci infili troppi particolari, rischi di incasinare le
cose per gli altri prigionieri. Devi mantenere la tua storia semplice, tra l'altro
anche per ricordartela facilmente. Il miglior modo di riuscirci è fare la parte del
coglione. Hai la memoria confusa perché sei in una pessima condizione fisica. La
tua mente non rammenta nulla, sei solo un soldato di truppa ottuso, uno
scalzacane, e non hai la più pallida idea della situazione, non sai nemmeno su che
elicottero hai volato.
La mia mente lavorava a tutta birra per decidere cosa avrei detto dopo.
Sapevano che ero sergente, e questo mi avvantaggiava. Nel loro esercito, quello di
sergente è un grado fasullo: sono gli ufficiali che fanno tutto, compreso pensare.
« Quanti eravate? »
«Non lo so. Quando l'elicottero è atterrato c'era un rumore incredibile. Ci hanno
detto che c'era pericolo di esplosioni e quindi bisognava correre, poi sono
decollati e ci hanno lasciato lì. » Recitai la parte del marmittone confuso, testa di
legno, spaventato e abbandonato. « Io faccio solo pronto soccorso, non voglio
saperne niente di queste cose. Non ci sono abituato. Faccio solo i bendaggi ai
piloti feriti. »
«Quanti eravate sull'elicottero?» ritentò.
«Non sono sicuro. Era notte. »
«Andy... cosa sta succedendo? Ti avevamo dato una possibilità. Ci prendi per
cretini? Negli ultimi giorni molti soldati sono stati uccisi e vogliamo sapere che
cosa è successo. »
Era la prima volta che parlavano di morti. Me l'ero aspettato, ma speravo che non
saltasse fuori.
« Non capisco. »
«Vogliamo sapere chi è stato. Sei stato tu?» « , « Io... no. Non capisco. »
« Tu devi darci una possibilità. Senti, solo per dimostrarti che ti vogliamo aiutare
davvero: dimmi il nome di tuo padre o di tua madre e noi gli scriveremo per
informarli che stai bene. Tu scrivi una lettera e ci metti sopra l'indirizzo e noi la
imbucheremo. »
Questo era proprio da manuale. In addestramento ti insegnano a non firmare mai
niente: risale ai tempi del Vietnam, quando la gente firmava del tutto
innocentemente pezzi di carta e poi venivano a sapere che sulla stampa
internazionale era apparsa una loro dichiarazione secondo cui avevano raso al
suolo un intero villaggio pieno di bambini.
Sapevo che erano puttanate. Figurarsi se avrebbero mai spedito una lettera a
Peckham. Era pura fantasia, ma non potevo rispondergli semplicemente:
affanculo, pecoraio... In qualche modo dovevo aggirare l'ostacolo.
«Mio padre è morto da anni », risposi. «Mia madre se n'è andata con un
americano che lavorava a Londra. Adesso è in America, da qualche parte. Io non
ho i genitori, è per questo che sono nell'esercito. Non ho parenti stretti.»
« In che zona di Londra lavorava questo americano? »
« A Wimbledon. »
Un altro classico. Stavano cercando di farmi aprire il cuore, il resto sarebbe uscito
da sé. Era la stessa tecnica che usavano durante le esercitazioni di evasione e fuga
e cattura.
« Che mestiere faceva? »
«Non lo so. Non vivevo in casa in quel periodo. Avevo gravi problemi familiari. »
«Hai fratelli e sorelle?»
«No.»
Volevo basare le mie menzogne sulla verità. Se ti attieni alle cose che sai, e sono
cose vere, hai maggiori probabilità di ricordartele. Inoltre potrebbero fare un
controllo, verificare che quello che stai dicendo è la verità e non andare più a
fondo. Ricordavo un amico che aveva proprio quel tipo di situazione familiare.
Suo padre era morto quando lui aveva tredici anni. Sua madre aveva incontrato un
americano, non aveva voluto più saperne del figlio e se l'era filata negli Stati
Uniti. Mi sentivo piuttosto convincente.
Presi tempo. Avevo la bocca impastata, stavo ancora sbavando. Non riuscivo a
parlare bene.
« Ti fa male, Andy? Aiutaci, e tutto andrà bene. Ti faremo visitare da un medico.
Continua, dicci qualcos'altro. »
« E' tutto quello che so. »
Seguì un altro classico. Doveva essersi studiato il manuale a memoria.
«Firma questo pezzo di carta, Andy. Vogliamo solo dimostrare alla tua famiglia
che sei ancora vivo. Faremo tentativi per rintracciare tua madre in America.
Abbiamo dei contatti laggiù. Abbiamo bisogno solo della tua firma, così saprà che
stai bene. E potremo dimostrare effettivamente alla Croce Rossa che sei ancora
vivo, non sei morto nel deserto e gli animali non ti hanno mangiato. Pensaci,
Andy. Se riusciamo a farti firmare e ad andare da quelli della Croce Rossa, non ti
uccideremo. »
Non potevo credere che volessero darmi a bere delle barzellette simili. Cercai di
restare sul vago. «Non conosco nessun indirizzo, non ho nessuna vita familiare. »
Potevo dare un indirizzo fittizio oppure uno vero, nel caso controllassero. Ma poi
magari, un bel mattino, la signora Mills di Acacia Avenue n. 8 apriva la porta e la
facevano saltare in aria. Non si sa mai fino a che punto si possano spingere queste
panzane.
«Andy, perché continui a farci ostruzionismo? Perché vuoi farti del male? Questa
gente, i miei superiori, non mi permetteranno di aiutarti, a meno che tu non dica
loro ciò che hanno bisogno di sapere. Temo di non poterti più aiutare, Andy. Se tu
non aiuti me, io non posso aiutare te. »
Si allontanò. A quel punto non sapevo che cosa aspettarmi.
Avevo la testa bassa e li sentii avvicinarsi. Strinsi la mascella e aspettai. Questa
volta non usarono i fucili, solo una bella scarica di ceffoni in piena faccia. Ogni
volta che mi colpivano vicino ai denti rotti, urlavo.
Fu un errore.
Mi sollevarono la testa per i capelli per mirare meglio e cominciarono a
picchiarmi sistematicamente in quel punto.
I ceffoni divennero pugni che mi rovesciarono dalla sedia, ma rispetto al
pestaggio precedente non fu granché. Probabilmente pensavano di essere ormai
riusciti a fare breccia, pensavano che mi occorresse solo un po' di
incoraggiamento. Durò meno di un minuto.
«Ascolta, Andy... stiamo cercando di aiutarti. Tu non vuoi aiutare noi? »
«Certo che lo vorrei, ma io non so niente. Vi aiuto più che posso.»
« Dove sono tua madre e tuo padre? »
Ripetei la mia storia.
«Ma com'è che non sai in che Stato dell'America si trova tua madre? »
«Perché non ho più niente a che vedere con lei. Lei non mi voleva. Così è andata
in America e io mi sono arruolato nell'esercito. »
«Quando ti sei arruolato nell'esercito?»
« A sedici anni. »
« Perché ti sei arruolato? » «
« Ho sempre desiderato aiutare le persone, ecco perché faccio l'infermiere. Non
voglio combattere. Sono sempre stato contro la violenza. »
La storia della famiglia era una falsa pista. Non so se la volle demolire a ogni
costo solo per una questione di orgoglio.
«Andy, senti... in questo modo non può funzionare.»
Il pestaggio ricominciò. i ..> r , -, >
Il corpo si adatta, e svieni più in fretta. La tua mente lavora in due modi. Una
parte ti dice che ne sei fuori. E' come stare sdraiato a letto quando sei sbronzo
fradicio... la mente gira come una trottola e una voce ti dice: mai più. Questa volta
ero totalmente fuori gioco. Fu una bella legnata, dopo di che non ebbi più bisogno
di accentuare nulla. Ero incoerente. Svenni, e quando rinvenni ero ancora
incoerente.
A svegliarmi fu un ragazzo che mi spense la sigaretta sul collo.
Ero nell'oscurità, bendato e ammanettato, sdraiato con la faccia nell'erba. Avevo
un mal di testa pazzesco, le orecchie mi prudevano e mi bruciavano.
Su qualche punto della faccia sentivo il sole, ne avvertivo la luminosità. La mia
mente era confusa, ma mi resi conto che a un certo punto dovevo essere stato
trascinato fuori della stanza e gettato all'aperto. Volevo far riposare la testa, ma
non potevo sdraiarmi su un fianco per via del gonfiore, né mettermi sull'altro a
causa delle ferite.
Proprio alle mie spalle udii la voce di Dinger. Stavano spegnendo sigarette anche
su di lui. Era bello sentirlo, anche se stava gemendo e lamentandosi. Non potevo
né vederlo né toccarlo perché ero voltato dall'altra parte, ma sapevo che c'era e mi
sentii un po' più al sicuro.
Dovevano esserci tre o quattro guardie che ci usavano come portacenere. Negli
ultimi giorni gli avevamo fatto vedere i sorci verdi, ed era logico che si
divertissero a farcela pagare.
Arrivarono altri soldati ad assistere allo spettacolino e contribuendo con un calcio
o un colpetto. Ci prendevano in giro e ridevano. Uno di loro mi appoggiò dietro
l'orecchio una sigaretta accesa e la lasciò lì finché non fu bruciata del tutto. I suoi
compagni apprezzarono molto l'idea.
Anche se ero bendato, continuavo a guardare verso il basso, cercando di apparire
spaventato. Volevo vedere Dinger, avevo bisogno del contatto fisico con lui, di
sentirmi vicino a lui: avevo bisogno di non essere solo.
A faccia in giù, mentre la sigaretta mi bruciava dietro l'orecchio, mi agitai
convulsamente riuscendo a farmi scendere la benda sul naso. Finalmente vedevo
la luce del giorno. Quando si è bendati, si prova un atroce senso di insicurezza,
perché sembra di essere ancora più vulnerabili.
Questa è la mia ultima ora, mi dissi, cerchiamo di vedere il più possibile. C'era un
magnifico cielo limpido. Ci trovavamo sotto un piccolo albero da frutto, con un
uccellino che cominciò a cantare. Il veicolo isolato a venti metri di distanza avviò
il motore: si sentiva parlare, e tutto era piuttosto tranquillo e piacevole. Dall'altra
parte del muro arrivava il brusio della città, con i sibili e i rombi dei motori, oltre
a un urlio generale. Sentii il cancello principale aprirsi a cinquanta metri da noi,
poi dei veicoli che uscivano e si allontanavano. Era tranquillo e sicuro come
trovarsi in un giardino incantato di un'altra epoca.
Pensai: ho visto e fatto quello che potevo. Se proprio deve succedere, che sia
adesso. Non pensavo tanto a Jilly e a Kate. Ci avevo pensato nel canale di
drenaggio, concludendo che non potevo farci granché, e non era il momento di
preoccuparsi. Avevo fatto del mio meglio per provvedere a loro finanziariamente.
Avevo preparato le lettere, e in fin dei conti loro sapevano che le amavo e io
sapevo che loro amavano me. Non c'erano grossi problemi: avrebbero detto loro
che ero morto, punto e basta.
C'erano altre cose su cui volevo concentrarmi adesso. In Breaker Morant, un film
sulla guerra anglo-boera, mentre si incamminavano verso il luogo dove sarebbero
stati giustiziati, i protagonisti avevano teso le mani e se le erano strette. Io non
sapevo se avevo voglia di toccare Dinger, o di dire qualcosa: ma al momento della
fine avrei voluto essere in contatto con lui.
Arrivarono altri soldati, a mollare calci e tormentarci con i fucili. Abbassarono lo
sguardo su noi due poveri mucchi di stracci e risero e ci presero per il culo,
ridacchiando come una banda di ragazzini... e probabilmente alcuni di loro lo
erano davvero.
Ma non mi sembrò più l'incubo di prima: o non sentivano più il fascino della
novità, oppure semplicemente mi stavo abituando.
Mi limitai a tenere la testa bassa e stringere i denti. A ogni calcio gemevamo e
grugnivamo tutti e due perché facevano male, ma non tanto per l'impatto del
calcio quanto perché risvegliavano dolori e ammaccature precedenti. Inveivano
contro Bush e Mitterrand, e quando videro che avevo la benda abbassata fecero
segno di tagliarmi la gola, ci puntavano le pistole e dicevano bang bang. Ci avrei
fatto caso se fosse stato parte di una strategia, ma quegli stronzi si stavano
divertendo e basta.
Alcuni veicoli si accesero e i conducenti scaldarono i motori. Dagli edifici alle
nostre spalle sentimmo una serie di urla e ordini, e io sussultai. Avevo
l'angosciosa sensazione di affondare: ecco che ci risiamo, pensai... perché non
possiamo restare un'altra ora, è carino qui al sole, abbiamo avuto un bell'intervallo
tranquillizzante...
Sperai che il rumore provenisse dagli ufficiali e non significasse una nuova
esagitazione della truppa. Gli ufficiali sembravano avere uno scopo, con loro si
poteva anche parlare. Con i soldati semplici erano solo calci e pugni.
Sentii sbattere le portiere dei mezzi, quindi un diffuso brusio che indicava attività.
Stava per succedere qualcosa. Contrassi i muscoli nell'attesa.
Non sapevo cosa avrei gridato a Dinger. Forse: «Dio salvi la regina! » Ma no...
probabilmente no.
Qualcuno mi slegò i piedi, ma la benda e le manette rimasero al loro posto. Fui
afferrato rudemente per i fianchi e mi issarono in piedi. Dopo il lungo riposo il
mio corpo cominciò a risvegliarsi: i lividi pulsavano. Mentre mi spintonavano, le
ferite che si erano rimarginate si riaprirono. Non mi reggevo in piedi, quindi
dovettero trascinarmi.
Fui gettato sul retro di un pick-up scoperto e poi trasportato avanti, finché mi
legarono sopra la cabina, fra due soldati. Pensai che ci avrebbero portati via per
ucciderci. Ero alla fine? Il mio grande progetto di dire qualcosa a Dinger era
andato in merda, ed ero arrabbiato con me stesso.
Mi tolsero la benda e sbattei le palpebre alla luce violenta del sole. Davanti a noi
non c'erano altri mezzi. Non mi permettevano di voltarmi, quindi non sapevo se
Dinger fosse dietro di me. I soldati battevano dei colpi sul tetto, il conducente e
quello al suo fianco tenevano le mani fuori e anche loro battevano contro la
lamiera. Tam-tam festosi da tutte le parti.
Arrivò uno degli ufficiali, che mi disse: «Adesso ti mostriamo alla nostra gente ».
Stavo ancora cercando di aggiustare la vista, ero totalmente stordito dal sole e dai
rumori. Dovevamo far parte di un convoglio di cinque o sei pick-up Toyota e
Land Cruiser nuovi di pacca. Alcuni avevano ancora la plastica sui sedili: però
erano coperti di polvere del deserto, e dovettero spazzarla dal lunotto sotto di me
per permettere al conducente di vedere.
Aprirono il grande cancello per fare uscire il convoglio e fummo accolti da una
folla in delirio, come se stessero uscendo dal tunnel di Wembley le due squadre
finaliste della Coppa d'Inghilterra. Davanti a noi c'era una massa compatta di
gente - donne con bastoni, uomini con fucili o pietre, tutti in caffetano - che
agitava foto di Saddam. Alcuni saltellavano per la gioia, altri blateravano slogan,
additandoci e lanciando sassi. I soldati cercavano di fermarli perché venivano
colpiti anche loro.
Questo appena fummo usciti dai cancelli. Pensai: ecco, ci siamo, ci portano da
qualche parte per fucilarci. Faremo un rapido giro per la città, gireranno un video
e poi ci faranno fuori.
Svoltammo a destra sul viale principale e la folla ci sciamò intorno. Dovemmo
fermarci quasi subito, mentre i soldati cercavano di respingere la gente e il
guidatore si faceva strada con la mano sul clacson. Avanzavamo di pochi
centimetri alla volta, tentando di farci largo. La folla inveiva: «Abbasso Buush!
Abbasso Buush! » e io ero lì come il presidente alla testa di una parata.
Anche i soldati erano fuori di testa. Tutti sparavano in aria, perfino dei ragazzini
di dieci anni con i loro bravi Kalashnikov.
L'unica cosa che riuscivo a pensare era che uno di quei proiettili mi avrebbe
ucciso. E anche che era una giornata calda e bellissima.
Di tanto in tanto venivo colpito da un bastone o da una pietra. I soldati che mi
stavano a fianco saltellavano su e giù per l'eccitazione. Avevo solo le calze ai
piedi e loro ci atterravano sopra con gli stivali. Mi sentivo debole, avrei voluto
appoggiarmi alla cabina, ma loro mi tenevano la testa avanti per essere sicuri che
tutti mi vedessero.
Alla mia destra comparve Dinger, anche lui sopra un pick-up Toyota. Quando
fummo vicini, riuscì a rivolgermi un sorriso. Fu il momento migliore di tutta la
giornata. L'aspetto di Dinger era lo specchio di come mi sentivo: il mostro della
palude al massimo dello splendore, ma guardandolo pensai: cazzo, non credevo
che potesse diventare più brutto di quanto era già. Senza dubbio fu il momento
più felice dopo la cattura. La strizzatina d'occhi e il fievole sorriso erano proprio
quello di cui -avevo bisogno. Ne trassi una forza immensa... per una questione di
fiducia personale, direi. Se lui era riuscito a sopportare tutto quanto e a sorridere...
cazzo, pensai, posso riuscirci anch'io. Provai per lui un affetto incredibile, e sperai
di essergli stato altrettanto utile. Per quanto ne sapevo, era l'ultima volta che avrei
visto un compagno.
Procedemmo nel casino percorrendo il viale principale della città. La folla
inneggiava e agitava i pugni, il rumore era incredibile. Non sapevano nemmeno
chi o che cosa fossimo. Potevamo benissimo arrivare da Saturno, ma comunque
eravamo i cattivi.
Alcuni soldati facevano festa con i civili; altri correvano intorno a noi tentando di
tenere sotto controllo la folla. Tutti cercavano di evitare le pietre e i bastoni che ci
lanciavano. Si sentivano spari dappertutto; anche i soldati della nostra scorta
sparavano in aria.
«Abbasso Buush! Abbasso Buush! »
La gente entrava e usciva dai piccoli negozietti arabi con le inferriate. «Non
rubare», dice il Corano, ma dovunque tu vada in Medio Oriente i negozi hanno le
sbarre di sicurezza per proteggersi dai furti dei correligionari musulmani. Tutti
avevano foto di Saddam e indicavano la sua faccia, baciandola e invocando Allah.
Avanzavamo un po' a passo d'uomo, quindi ci fermavamo per far spostare la folla.
Mi facevano male le gambe. Guardai verso Dinger che sorrideva da un orecchio
all'altro e mi chiesi cosa diavolo ci trovasse di spassoso. Pensai che era ammattito.
Poi capii: li stava sbeffeggiando! Allora mi dissi: che cazzo, qui stiamo per andare
a morte, e allora perché fare la parte dei conigli? Mi caricai. Vaffanculo a tutti!
All'improvviso, l'unica cosa che contava per me era di non apparire una merda.
Dovevo mostrarmi al massimo della forma. Fissai negli occhi la folla e regalai un
po' di sorrisi. Uno dei soldati mi vide e lo segnalò alla guardia di destra, che mi
rifilò un ceffone e un pugno. Guardai Dinger e ridemmo di loro: sembravamo
Leslie Grantham quando apre un supermarket. Se non avessimo avuto le mani
legate, avremmo salutato con la mano come la regina.
La nostra risata li eccitò veramente. Alcuni la presero bene, altri meno. Stavano
impazzendo. Fu una scelta del tutto controproducente, ma era inevitabile. Le
guardie ci allungarono un ceffone per sottometterci di nuovo e far bella figura. Ma
che cazzo!, io mi sentivo meglio. Da sinistra arrivò una grossa berlina americana.
Due ufficiali alzarono lo sguardo, ci indicarono e scoppiarono a ridere. Dato che li
mettevamo di buon umore, ricambiai con il mio sorriso presidenziale. Quelli
gradirono, ma fecero cenno ai soldati che ci pestarono di nuovo.
Pagammo il prezzo di quella presa per il culo quando arrivammo dall'altra parte
della città. La folla ci stava aspettando, cercando di superare il cordone di
sicurezza e discutendo con i soldati perché voleva menarci. Saltellavano a destra e
a sinistra: era solo questione di tempo prima che il cordone venisse travolto o
ritirato volontariamente; la mia sola preoccupazione era che uccidessero me e non
Dinger.
Fui trascinato giù dal veicolo: cercai disperatamente Dinger.
Avevo bisogno di lui, perché era il mio solo legame con la realtà.
Poi vidi che gli stavano facendo la stessa cosa.
Non avevo paura di morire: non ne avevo mai avuta, purché fosse una cosa rapida
e pulita come era successo a Mark.
Jilly l'avrebbe saputo? Avrebbe mai saputo che ero disperso?
Alle necessità materiali avevo provveduto, e non c'era nient'altro che potessi fare
per lei. Ma l'elemento emotivo contava: sarebbe stato bello poterle dire addio.
Che maniera di morire...
Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Il lezzo cittadino era terrificante. C'erano puzze primordiali - di cucina primitiva,
di vecchi tizzoni, di piscio stagnante - miste a quelle di spazzatura marcia e
scarichi diesel.
La città era una curiosa miscela di medievale e moderno. Il viale principale era
stato asfaltato di recente; il resto era polvere e sabbia. C'erano Land Cruiser
appena uscite dal concessionario e soldati con gli stivali puliti e scintillanti,
uniformi di taglio occidentale e la folla nei caffetani puzzolenti, con i sandali o a
piedi nudi. A un certo punto, fui gettato a terra e vidi vicino all'occhio un grosso
alluce che sembrava una salsiccia tagliata, con sopra il sudiciume di una vita.
C'erano ufficiali in divise immacolate e giovani soldati dall'aria sana, ma anche
civili con tre denti in tutto, e anche quelli neri e rovinati; e gli arabi neri con la
faccia piena di cicatrici e le ginocchia e i gomiti bianchi e coperti di croste per
mancanza di igiene e idratazione, e i capelli impolverati e unti acconciati alla
rasta.
Le costruzioni erano in fango e pietra, quadrate, con il tetto piatto. Dovevano
avere circa duecento anni, ma ai lati avevano appese le pubblicità più recenti della
Pepsi. Nell'ombra si aggiravano cani vecchi, ossuti e rognosi che si cibavano di
rifiuti e pisciavano. Dappertutto c'erano mucchi di lattine arrugginite.
A un certo punto del viale si apriva un giardino centrale, e nel mezzo di questo,
giusto dirimpetto a noi, sorgeva un parco giochi per bambini, pieno di strutture
tubolari d'acciaio e di altalene gialle e blu sbiadite. Era il tipo di attrezzature che
in Gran Bretagna si trovano in un normale quartiere residenziale, ma in quel
mondo sembravano irreali. In pratica quello Stato era ininterrottamente in guerra
da parecchi anni, e c'erano povertà, merda e sudiciume ovunque. Chissà come
cazzo si dice «Tidworth» in arabo, ma era proprio così: un posto vecchio e
merdoso.
Eravamo sul bordo della strada ad aspettare la morte. I soldati ci afferrarono, ma
le mie gambe si erano arrese e barcollai. Dovettero trascinarmi verso il pubblico.
Ci esibirono come trofei di caccia, tirandoci per i capelli, assicurandosi che tutti ci
vedessero bene.
Questa volta non stavo sorridendo. Stavo cercando Dinger: avevo paura di
perderlo nella folla. Volevo solo restargli vicino.
Lo sentivo urlare quanto me, e di tanto in tanto lo intravedevo. Fu un momento
terribile.
La folla rumoreggiava, facevano i gorgheggi indiani. Ci avrebbero consegnato
alla folla? Ci avrebbero squartati? Arrivarono alcune donne anziane che mi
tirarono i baffi e i capelli e mi colpirono con bastoni e pugni. Caddi a terra e la
gente si avvicinò. Mi gettavano in faccia le foto di Saddam e me le facevano
baciare.
Buona parte della folla non sapeva nemmeno che c'era la guerra. Quanto alle
donne, represse da secoli dalla cultura e dalla religione, quella probabilmente era
la loro unica occasione di picchiare un uomo adulto.
Dopo un po' mi resi conto che i soldati cercavano di controllare la folla:
evidentemente non volevano che fossimo linciati, perché notai che bloccavano
chiunque avesse un fucile o una pistola. Forse la parata era solo un'operazione di
immagine a beneficio della popolazione locale.
Le donne mi graffiavano la pelle, mi lanciavano in faccia frammenti di cibo
masticato e mi rovesciavano in testa pitali pieni di orina. Vecchie immagini del
Vietnam mi tornarono alla mente. Mi ricordavo foto di piloti con la faccia
stravolta dopo essere stati trasportati attraverso le città che avevano appena
bombardato. Era proprio così che mi sentivo.
Non riuscivo più a muovermi. Caddi addosso a uno dei soldati e lo abbracciai.
Arrivò un suo collega e lo aiutò a sollevarmi. Mi trascinarono sul terreno,
graffiandomi orribilmente le punte dei piedi. Di tanto in tanto dovevamo fermarci
per permettere a un vecchio di sessant'anni di darmi un pugno nella pancia. Ero
completamente andato e non mi importava più di niente.
Non so quanto durò, ma sembrò una vita. In lontananza si sentirono spari e
arrivarono di corsa vari ufficiali a controllare i soldati, che a loro volta stavano
cercando di controllare la folla. Era paradossale essere protetto dagli stessi che
un'ora prima mi avevano spento la sigaretta sul collo. Prima erano i bastardi:
adesso erano i salvatori.
Sentii Dinger rispondere agli insulti. Sapevo che avremmo dovuto tentare di fare
la parte dei rottami, ma ormai ci stavamo adattando alla situazione e ne avevamo
piene le palle. Era venuto il momento di dimostrare qualcosa. «
Scoccai un'occhiataccia alle ragazze: un attimo dopo ero a terra sotto una
sventagliata di ceffoni e graffi, e due soldati si avvicinarono per sollevarmi.
Sempre in ginocchio, alzai lo sguardo verso uno di loro e dissi: «Vaffanculo,
stronzo figlio di puttana! »
Capirono quello che volevo dire: la traduzione era nei miei occhi.
Mi tirarono su. Li spinsi via e ripetei: « Vaffanculo! » Non me ne fregava un
cazzo di quello che avrebbero fatto: ero comunque distrutto. Ma loro avevano
perso la faccia, quindi dovettero darmi un'altra pestata per recuperare credibilità.
Ricordai una conferenza tenuta da un prigioniero di guerra americano appena
prima che partissimo da Hereford. Era pilota ai tempi del Vietnam, dopo essere
stato trasferito dal corpo dei marines. Durante l'addestramento gli avevano
spiegato che più sei duro e aggressivo al momento della cattura, prima i tuoi
carcerieri ti lasceranno andare. Be', li di fronte a noi, cinici e duri soldati di
Hereford, pianse tutte le sue lacrime raccontandoci dei cinque anni in cui era stato
prigioniero dei vietcong.
« Che marea di stronzate », disse. « Gli incubi e le sofferenze incredibili che ho
sofferto perché credevo veramente a ciò che mi avevano insegnato. »
Be', stavo facendo esattamente ciò che lui ci aveva raccomandato di evitare, ma
ormai ne andava del mio orgoglio e della mia credibilità. Sapevo che era
controproducente, sapevo che non avrebbe pagato, ma... Dio, che sollievo mi
dava. Per una frazione di secondo ero tornato padrone della situazione, e questa
era la sola cosa che contava. Non ero più una mercé, non ero un sacco di merda,
ero Andy McNab.
I soldati ridacchiavano mentre tornavamo alla base. Avevano passato una giornata
meravigliosa ed erano contenti di lasciarmi in pace in un angolo del pick-up, a
quattro zampe, sanguinante e semiasfìssiato mentre loro fumavano, ridevano e
rivivevano la scena. Io ero abbastanza soddisfatto che tutto fosse finito e che non
mi avessero ucciso.
Era più o meno il crepuscolo quando ritornammo all'interno della base: non mi
rimisero nemmeno la benda trascinandomi verso la caserma, una costruzione a un
solo piano. Lungo le pareti c'erano cinque letti. Sembrava che i ragazzi non
avessero armadietti, né niente di personale. Avevano solo i letti e le coperte:
coperte dozzinali, pelose, con disegni di tigri e strani e mirabolanti motivi
geometrici. Sopra le coperte c'erano i cinturoni.
Sembrava una base di transito piuttosto che una caserma permanente.
La sola luce proveniva da una stufa a cherosene che ardeva al centro della stanza.
Ondeggiando, la fiamma proiettava ombre in tutte le direzioni. Faceva un caldo
delizioso, il tipo di caldo che ti fa subito sentire stanco e fa venire sonno. Era un
calore che riconoscevo; anche le ombre erano familiari, e fui pervaso da una
piacevole e confortante sensazione di sicurezza. Ero tornato a Catford, in casa di
mia zia Nell. Da bambino adoravo andare da lei. Aveva una grande casa con tre
camere da letto, dove faceva anche pensione. Rispetto all'appartamento dei miei,
mi sembrava un hotel. Di notte, zia Nell metteva nella mia stanza una stufa a
cherosene. Sotto le coperte, ero felice quanto può esserlo un bambino di nove anni
che osserva le onde danzare sulla tappezzeria, pregustando la colazione del
mattino dopo. Con i corn-flakes, zia Nell preparava il latte vero invece dell'acqua
calda con una cucchiaiata di latte in polvere cui ero abituato, e per i suoi ospiti
cucinava pacchetti di Vesta al curry. Se mio zio le diceva che avevo fatto il bravo,
ne dava uno anche a me.
Il vecchio zio George era un abile giardiniere. Aveva un grande giardino con in
fondo un capanno dove io giocavo. Era un vecchio furbacchione. Mi diceva: «
Comincia a scavare qui, Andy, e conta quanti vermi ci sono. Dobbiamo sapere
quanti vermi ci sono, così sappiamo quanto è buono il terriccio ».
Io scavavo come se fossi stato investito di una missione, mentre lui rimaneva
seduto sulla sua sdraio a bere il tè, ridendo come un matto. Non compresi mai
l'inghippo; pensavo che era fortissimo contare i vermi per lo zio George.
Per una ventina di minuti mi lasciarono tranquillo, con una mano ammanettata a
qualcosa di metallico sul muro. Cercai di mettermi comodo, ma le manette
funzionavano con un sistema dentato per cui, se ti muovevi nel modo sbagliato, si
stringevano ancor di più. Mi sistemai in posizione semisdraiata, inclinato a 45
gradi e con la mano sollevata.
Provai a valutare i danni. Mi faceva male dappertutto e temevo di avere qualche
frattura. Ero preoccupato soprattutto per le gambe: mi facevano un male boia e
non mi reggevano più. Controllai le ossa a una a una, cominciando dai piedi,
cercando deformazioni, assicurandomi di riuscire a muoverle. Tutto sembrava a
posto, e c'erano buone probabilità che non avessi nulla di rotto.
Respiravo attraverso il sangue incrostato, la polvere e il muco, e ogni volta che
soffiavo per pulirmi il naso cominciavo a sanguinare. Avevo delle brutte ferite, la
faccia gonfia, le labbra spaccate e lacerazioni in ogni angolo esposto di pelle. Ora
che avevo veramente il tempo di respirare e riflettere, il mio corpo fece tutte le
sue rimostranze. I graffi erano molto più dolorosi dei tagli, ma nel complesso la
struttura era intatta. Avevo solo danni muscolari, tagli e lividi. Ero debole ed
esausto, ma se si fosse presentata l'occasione potevo ancora alzarmi e scappar via.
Avevo cercato di raccogliere quante più informazioni possibili per cercare di
orientarmi: ripensai a quello che avevo visto e a dove mi trovavo. Certo, avrei
potuto fare di meglio, perché avevo guardato troppo a terra invece che intorno a
me. Se fossi scappato e avessi superato il cancello, da che parte sarei andato?
Avrei girato a destra, a sinistra, o sarei andato dritto? Se fossi uscito dal retro,
dove sarei andato? Quanto all'interno della città si trovava la base? Avrei dovuto
allontanarmi dall'abitato il più in fretta possibile. Da vero coglione, quando ero
fuori, invece di guardarmi in giro mi ero lasciato distrarre dalla folla.
Esaminai le possibilità. Questo esercizio in parte era realtà, in parte
immaginazione. Realtà perché stavo facendo quello che l'addestramento mi
richiedeva, cioè valutazioni su come uscire da quel posto. Immaginazione perché
stavo immaginando me stesso mentre scappavo, svoltavo a destra eccetera,
pensando a cosa avrei visto e a cosa avrei avuto alle spalle. Sì, bisognava togliersi
di lì.
Mi guardai intorno. Sopra di me c'era una finestra: solo una metà era aperta, l'altra
era coperta da un'asse perché era rotta, o forse per impedire al sole di entrare.
Sentivo i soldati che bighellonavano all'esterno, grida a media distanza. Le voci
appena oltre la finestra erano basse e tranquille - un mormorio sotto la veranda, a
non più di cinque o dieci metri - come se gli avessero detto di mettersi lì e tenermi
in soggezione.
Speravo che Dinger godesse dello stesso trattamento, perché seduti sul tappeto
non si stava affatto male. La solitudine era una sensazione inebriante: me ne stavo
lì in pace, a osservare il caldo scintillio della stufa, inspirando quel fumo
familiare. Non c'era casino, solo io con la mano assicurata al muro. Era davvero
un momento super.
Cominciai a pensare alla mia pattuglia. Gli altri erano stati catturati? Erano morti?
Dinger sapeva qualcosa di loro? Avrei avuto la possibilità di parlargli?
Cercai di mantenermi immobile. Il cuore mi batteva lentamente, e il corpo era
rigido e dolorante. Muovermi mi faceva male: volevo trovare una posizione
comoda e restare fermo. Alcuni tagli si erano appiccicati al tessuto della divisa, e
quando mi muovevo si riaprivano. Il sangue mi aveva incollato le calze ai piedi.
Dovevo avere l'aria di un barbone: era una settimana che non mi lavavo, e avevo
la pelle nera. I miei capelli, già sudici dopo il tentativo di evasione e fuga, adesso
erano incrostati di fango e sangue. Era difficile anche distinguere il tessuto
mimetico della mia uniforme. I miei pantaloni sembravano i jeans di un ciclista.
Perché ci avevano riportato alla base? Non ne avevo idea. Evidentemente erano
ancora nella fase di interrogatorio tattico.
Aspettavano qualcosa o qualcuno. Trassi un profondo respiro, espirai e cominciai
a pensare a qualche metodo di fuga. All'improvviso ricordai che avevo ancora la
carta geografica e la bussola. Le sentivo attaccate alla cordicella dei pantaloni.
Ottimo: almeno avevo qualcosa, potevo basarmi su quello.
Pensai a tutte le belle cose che avevo fatto con Jilly, a tutte le vacanze stupide che
avevamo passato assieme, ai gelati che le avevo spiaccicato in faccia. Mi
venivano in mente le cose che mi avevano fatto ridere con lei, tutte quelle
sciocchezze da ragazzi imm'aturi. Cercando di immaginarmi cosa stesse facendo
in quel momento, ripensai a un sabato di due settimane prima che partissi per il
Golfo. Come al solito, Kate passava il week-end da noi, ed era sdraiata con me sul
pavimento a guardare Robin Hood. Little John stava facendo la sua danza e io mi
alzai e la feci con lei. Ballammo e ballammo, cercando di scalciare sempre più in
alto, finché crollammo sul tappeto storditi, ridendo come matti.
Ripensai al suo primo Natale. Non l'avevo vista molto fino allora, perché in
febbraio, quando era nata, ero via, ed ero tornato quando aveva già sei settimane.
Nei tre mesi successivi ero andato a trovarla solo sporadicamente. Quel Natale,
invece, ero libero ed eravamo a casa di amici sulla costa meridionale. Kate non
dormiva molto, il che per me era una meraviglia, perché era la prima volta che
stavamo da soli. A mezzanotte portavo fuori la carrozzina - la coprivo per bene,
intendiamoci - e andavamo a passeggio lungo la costa fino alle sei del mattino.
Dopo la prima mezz'ora lei si riaddormentava e io, mentre camminavo, le
guardavo il faccino e ridacchiavo come un beota. Quando tornavamo, lei si
svegliava di nuovo e io la mettevo in macchina e andavamo a fare un giro.
Continuavo a guardare sopra la spalla per controllare se stava bene. Aveva due
occhi azzurri incredibili: mi fissava da sotto le copertine di lana e il suo berretto
da baseball... Fu un periodo stupendo. Poco dopo dovetti ripartire, e nei due anni
seguenti la vidi per un totale di dodici settimane.
Fuori si sentirono dei rumori: il mio piccolo eden di sogni stava per essere invaso.
Avevo paura. Sarebbero venuti a darmi un'altra razione di botte? Dopo la calma,
quell'apprensione era terribile, come un mondo che aspetta di crollare. Merda,
pensai, hanno già avuto da divertirsi, perché adesso non mi lasciano in pace?
Sentii una corrente d'aria e la porta si aprì. Alzai lo sguardo e al centro della
stanza vidi un uomo. Era sulla cinquantina, alto uno e sessanta, con un grosso
pancione sotto il caffetano di lana.
Aveva i baffi ben curati, i capelli neri pettinati indietro e le mani curate: la luce
colpì i suoi denti facendoli brillare. Ansava e mi insultava in arabo. Le due
guardie che erano entrate con lui si sedettero su uno dei letti a fumare e a
chiacchierare, ma osservavano con attenzione.
Il tizio aveva una pistola alla cintola, ma non ci feci molto caso, perché in quel
posto erano tutti armati, cani e porci. Si fermò vicino alla stufa urlando e
gesticolando. Con il bagliore del cherosene sotto la faccia, sembrava un mostro di
Halloween con il mento appuntito.
Venne verso di me e mi prese la faccia, stringendomi la mascella nella mano.
Sentii un'esplosione di dolore nella zona dei denti rotti, e gemetti chiudendo gli
occhi. Non volevo sapere cosa stava succedendo. Lui mi restò vicino, l'alito gli
puzzava di spezie. Mi spalancò gli occhi con il pollice e l'indice. Che cazzo aveva
intenzione di fare?
Ebbe uno scambio di battute molto rapido e aggressivo con le guardie, poi mi
mollò una scarica di sberle in faccia. Infine fece qualche passo indietro ed estrasse
una Makharov. Carino, pensai, che cos'è questa storia? Mirò verso di me, ma
senza mettere il colpo in canna.
Era un bluff o che cosa?
Quando inserisci un colpo in canna, il cane delle pistole semiautomatiche resta
armato. Se premi il grilletto, spara e si ricarica da sola, restando sempre con il
cane armato. Se non vuoi sparare, metti la sicura. Il cane si abbatte, ma raggiunge
il percussore per via di un blocco che esce quando sposti la sicura. E' diversa da
altre pistole semiautomatiche, che hanno sempre una sicura, ma quando questa è
inserita il cane rimane armato.
Stavo guardando attentamente per vedere se il cane era armato. In caso
affermativo, avrei saputo che non stava bluffando e che se era nervoso poteva
sparare per sbaglio e uccidermi comunque. Lo guardai in faccia: aveva
un'espressione addolorata e due occhi gonfi in cui vidi luccicare le lacrime. I
nostri sguardi si incrociarono, lui cominciò a piangere e la pistola gli tremò nella
mano.
Le guardie non gli avrebbero sicuramente permesso di sparare nella loro bella
caserma pulita, vero? Ma i suoi occhi lo tradirono. Senza dubbio era deciso a
premere il grilletto. Non sembrava un militare: era lì di straforo. Ma aveva l'aria
disperata, perciò, anche se non era militare, cosa cambiava? L'avrebbe fatto
comunque. Pazzesco: potevo essere ucciso per il soprassalto emotivo di un civile
che non c'entrava niente!
Forza, stronzo, muoviti, facciamola finita.
Le guardie sembrarono svegliarsi e capire cosa stava succedendo. Balzarono in
piedi urlando rabbiosamente e gli tolsero la pistola.
L'episodio mi fornì l'informazione più importante dalla mia cattura: o quei tizi
non volevano che la loro caserma fosse insudiciata o, più probabilmente, avevano
l'ordine di tenerci vivi.
Una delle guardie si avvicinò e mi strizzò le guance. « Figlio, figlio », disse, «
bum, bum. »
Uno dei nostri aveva ucciso il figlio di quell'uomo. Giusto. Al suo posto, avrei
fatto lo stesso. Sfortunatamente, però, era lui che lo stava facendo a me.
Ero seduto sul pavimento a gambe incrociate, con un braccio ammanettato alla
parete. Lui si avvicinò di nuovo e cercò di picchiarmi. Abbassai la testa e sollevai
le ginocchia, accovacciandomi in avanti per proteggermi le palle. Mi addossai al
muro più che potei. A quel punto solo il mio braccio era vulnerabile. Mi venne da
ridere: era stato lì lì per uccidermi con la pistola, ma trovava difficile mettermi le
mani addosso. Mi dava calci, ma non facevano granché male perché portava i
sandali di pelle.
Mi tirò un pugno, ma senza molta forza. Era chiaramente infuriato, ma non era in
grado di farmi male. Gli mancavano l'aggressività e la forza... meglio così.
Io simulai, emettendo gemiti e grugniti, quando mi dette una ginocchiata nella
schiena e una scarica di sberloni e mi sputò addosso. Se fosse stato mio figlio a
essere ammazzato e fossi stato nella stessa stanza con quello che l'aveva ucciso a
quel punto avrebbe urlato alla grande. In un certo senso mi spiaceva per lui perché
suo figlio era morto, e lui era un uomo troppo buono e gentile per farmela pagare.
Forse, dopo tutto, non avrebbe mai premuto il grilletto.
I soldati cominciavano a stufarsi e forse anche a preoccuparsi all'idea di dovere
poi pulire il pavimento e i muri sporchi di sangue. Lo calmarono e lo portarono
via. Quando tornarono, si sedettero di nuovo a fumare.
«Buush, cattivo, cattivo», disse uno di loro.
« Sì, Bush cattivo », ripetei annuendo.
«Major», disse lui, e grufolò come un maiale.
« Sì, Major è un maiale », confermai con un grugnito.
Lo trovarono divertentissimo. , , , », « Tu », mi indicò, e ragliò forte.
« Io sì, asino. Ih, oh. »
Rotolarono sui letti reggendosi la pancia dal ridere.
Poi si avvicinarono e mi colpirono, non tanto forte, come per pungolarmi. Non
sapendo di preciso che cosa volessero, ragliai di nuovo a squarciagola. Nuovi
scoppi di risa. A me non fregava un cazzo se volevano divertirsi alle mie spalle,
anzi: con un po' di buona volontà lo trovavo divertente anch'io. Non mi stavano
pestando, e questa era la sola cosa che contava. Era assolutamente splendido.
Andai avanti così per un quarto d'ora; seguirono un paio di minuti di silenzio,
dopo di che uno si alzò e mi diede ancora dei colpi, io feci un bello ih-oh! e loro
riscoppiarono a ridere. Che branco di deficienti.
Pensai che, se erano cosi di buon umore, forse mi avrebbero sistemato le manette.
Come ho detto prima, ero appoggiato a un angolo di 45 gradi, con la mano
sollevata. La legge di gravità me la faceva ricadere contro la manetta, e si stava
gonfiando dolorosamente. Era un tormento. Mi domandai se non potevano
legarmi a una sporgenza più bassa, come un tubo.
Indicai la mia mano e dissi: « Male, per favore, male. Ahhh ».
Mi guardarono e mi dettero un calcio, ottenendo un altro ihoh. Mentre
sghignazzavano, cercai di indicare che la mano mi faceva impazzire dal male.
Non funzionò. Per un po' continuarono a ridere, poi improvvisamente si fecero
seri. Dovevano avere pensato che fosse ora di ristabilire un po' di autorità. Così
ripresero il loro interrogatorio come se io dovessi tenere presente che non erano
semplici guardie, ma veri e propri inquisitori.
«Chi? Chi?»
Era difficile capire che cosa stavano dicendo.
« Che cosa? Non capisco. »
Continuai a indicare il mio polso, ma senza successo. Mi fecero altre domande:
guardavo quelle facce da Halloween illuminate dal cherosene, ma non riuscivo a
capirli.
Uno di loro andò a chiamare un'altra guardia che parlava un discreto inglese.
Ovviamente gli avevano detto che non capivo quello che stavano dicendo.
« Come ti chiami? »
« Andy. »
« Commando, Andy? Tel Aviv? »
« Britannico. »
«Britannico. Gascoigne? Rush? Calcio?» Si sciolse in ampi sorrisi e segnò un
immaginario gol con il piede destro.
Tutti i volti si illuminarono, compreso il mio, anche se di calcio non me ne
fregava un accidente. Quando ero ragazzino tenevo per il Millwall, la squadra
locale, ma sarò andato a vederlo giocare tre o quattro volte, standomene lì sulle
gradinate come una testa di cazzo a chiedermi il perché di tutto quel casino.
Non vedevo un tubo perché ero troppo piccolo: sapevo solo che per entrare ci
volevano un sacco di soldi. Una volta ci andai anche di mercoledì sera, ma a metà
partita uscii perché faceva troppo freddo. Le mie conoscenze calcistiche finivano
qui, e questo era il solo effetto che mi faceva il calcio: mi ricordava una gradinata
umida, fredda e ventosa... eppure eccomi prigioniero di un iracheno fanatico di
calcio, e quella poteva essere la mia speranza di salvezza.
«Liverpool! » esclamò.
« Chelsea », ribattei. \
« Manchester United! »
«Nottingham Forest! »
Scoppiarono a ridere e risi con loro, cercando di stabilire un rapporto come
suggeriva il manuale, ma l'argomento calcio non ero in grado di reggerlo molto a
lungo. Le mie conoscenze erano già pressoché esaurite.
«Da quanto tempo sono qui?» tentai. «Sapete quanto dovrò ancora restare? Mi
potete dare qualcosa da mangiare? »
«Nessun problema. Bobby Moore! »
Pensai di tentare un'altra via.
«Mai! Mai?» dissi, chiedendo dell'acqua. Detti qualche colpo di tosse secca,
assumendo la vecchia espressione da cucciolo bagnato.
Uno dei ragazzi uscì e tornò con un bicchiere d'acqua. Io la ingollai e ne chiesi
dell'altra. Questo fece sparire i loro sorrisi, perciò li ringraziai e decisi di
restarmene un po' zitto.
Erano tutti sui vent'anni, con i primi baffetti ispidi. Si comportavano come
qualsiasi giovane soldato di ogni esercito, ma quello che mi sorprese in loro era il
livello di manutenzione delle loro divise e delle armi. Mi ero immaginato che quei
beduini fossero una banda di zingari, con l'equipaggiamento sporco e trasandato:
invece le loro uniformi erano ben lavate e stirate e gli stivali lucidi. Le loro armi
erano oliate alla perfezione, e anche gli edifici: puliti e ben tenuti. Mi fece
piacere: in un certo senso la loro disciplina era una garanzia. Era improbabile che
mi avrebbero fatto qualcosa, a meno che non glielo avessero ordinato. Meglio dei
veri soldati che una banda di fanatici assetati di sangue e di bottino. Questi
avevano sopra le loro teste qualcuno che gli ordinava di pulire le armi, di lucidarsi
gli stivali e di tenere pulite le stanze.
Ma la cosa più importante era che chiaramente si poteva intrecciare un rapporto
con quelle persone: cosa che in seguito avrebbe potuto essermi d'aiuto.
Diversamente da come mi aspettavo, per loro non esistevano solo il bianco e il
nero, cioè io (il cattivo) e loro (i buoni). C'era una vasta zona grigia di interessi
comuni che avevamo già cominciato a esplorare. Fino a quel momento, ci
eravamo incontrati sul calcio. Ci parlavamo e ci rispondevamo... non ero solo un
destinatario di slogan, di violenza e interrogatori tattici. I rapporti, per quanto
tenui, si possono stabilire quasi sempre, e nella situazione in cui mi trovavo non
potevo chiedere di meglio. In quello scambio ero riuscito a ottenere l'acqua,
perciò ne ero uscito vincente. Bene... non fa mai male essere ottimisti.
Pensai che forse si mostravano amichevoli perché era finita, l'interrogatorio era
terminato. In fin dei conti erano solo ragazzi.
All'inizio Dinger e io eravamo la grande novità, la mercé che volevano vedere, i
nuovi giocattoli, i prigionieri bianchi. Probabilmente ci guardavano con
meraviglia, come qualcosa da raccontare ai nipoti. E adesso che ci avevano visto,
ci avevano parlato, ci avevano preso per il culo, erano satolli. Cominciavano ad
apparire stanchi, probabilmente per il calore della stufa e tutta l'eccitazione della
giornata. Infilarono le armi sotto il letto e misero giù la testa.
Tornai a pensare alla fuga. Togliermi le manette era impossibile, ma anche se ci
riuscivo, che cosa avrei fatto? Dovevo garrotarli e scappare? Cose del genere non
succedono, sono fantasie cinematografiche. Uccidi il numero uno senza che il
numero cinque ti senta? , ,,, , Avevo la mano fissata contro il muro, e non sarei
andato da nessuna parte. Dalla posizione in cui mi trovavo non riuscivo a
raggiungere niente. Avrei dovuto aspettare il prossimo trasporto o qualche altra
occasione.
D'altra parte, mi sentivo molto più a mio agio. Ero stato catturato, avevo superato
i traumi iniziali e adesso ero seduto in una stanza al caldo, con persone che non
mi stavano prendendo a calci. Non gli interessava più pestarmi, volevano solo
parlare di Gazza e Hobby Charlton. Ero pieno di speranza - anche se vana, lo
sapevo già - che forse d'ora in poi mi avrebbero solo tenuto li come uno degli
scudi umani di Saddam.
Man mano che passava la notte, il braccio e la mano cominciarono a farmi male.
Cercai di sviare la mia mente dal dolore riconsiderando le possibilità di fuga.
In cima alla finestra vedevo qualche stella: era una notte limpidissima. Guardai di
nuovo i soldati addormentati.
Se fossi riuscito a scappare, sarei stato in grado di raggiungere Dinger? Dov'era?
Ero sicuro che si trovasse nella base, ma se fosse stato nella stanza accanto? Non
sentivo niente. Era sotto la veranda? Giunsi alla conclusione che avrei dovuto
cogliere l'occasione se si fosse presentata, ma non potevo andarmene senza
provare a cercarlo. Sapevo che lui avrebbe fatto lo stesso, come del resto qualsiasi
membro della pattuglia. Valeva la pena di aspettare di trovarci insieme? No...
avrei afferrato la minima occasione che si fosse presentata. Quindi, qual era la
prima cosa da fare? Come scoprire la sua posizione? Avrei dovuto cercarlo
guardando dalle finestre, o chiamare? Le sue guardie sarebbero state sveglie?
Bisogna avere un piano principale e alcuni d'emergenza. La titubanza è fatale. Se
possibile, avrei evitato di muovermi allo scoperto: questa è un'altra follia
hollywoodiana. Al cinema ti vengono addosso uno alla volta, in modo da farsi
uccidere facilmente, come anatre alla fiera. Nella realtà ti attaccano tutti insieme e
ti fanno a pezzi. Avrei cercato di restare invisibile. Dovevo solo scappare, rubare
qualcosa con cui sparare, prendere Dinger, impadronirci di un veicolo. Facile!
Tutto questo all'interno di una base con truppe e, se mi andava di lusso, con un
caricatore da trenta colpi.
Una volta fuori avremmo dovuto dirigerci verso ovest. A piedi o su un mezzo?
Attraverso i campi o in città? Il tragitto dal canale di drenaggio alla base era stato
molto breve: eravamo ancora vicini alla Siria. Il nostro prossimo trasferimento ci
avrebbe portato verso zone più sicure, più lontane dal confine.
Sonnecchiai e mi svegliai per il dolore. La testa mi faceva male, il corpo peggio.
Dovevo togliermi il sangue e il muco dal naso.
Sentii motori in lontananza, poi grida: il grosso cancello di ferro battuto si aprì a
forza di calci. Era ancora buio. Alcune persone con lampade ad acetilene stavano
camminando fuori, sotto la veranda. Parlavano. Provai una fitta di apprensione.
Che stava succedendo? Trassi un profondo respiro e cercai di calmarmi. Una delle
guardie si svegliò e diede un calcio all'altra. Si alzarono in piedi.
Entrarono nella stanza cinque o sei individui che non avevo mai visto prima. Mi
sentii impotente, la sensazione che si prova da bambini quando sai di essere stato
intrappolato dalla banda rivale. Incombevano su di me nell'ombra.
Quando me la liberarono dal muro, la mia mano aveva superato la fase del
formicolio. Era gonfia e completamente intorpidita. Due ragazzi mi sostennero da
entrambi i lati sollevandomi.
Qualcuno mi passò gli stivali, ma avevo i piedi troppo gonfi per riuscire a
infilarli. Me li portai appresso come le nonne portano la borsa, stretti al petto.
Volevo tenerli: non volevo passare scalzo il resto dei miei giorni.
Mentre mi trascinavano fuori esagerai il dolore gemendo e mugolando. Dovevo
sembrare una povera testa di cazzo, e i tizi facevano un sacco di smorfie di
disprezzo. Uno mi guardò con finta solidarietà e disse: « Siamo veramente
preoccupati per te ».
L'aria fredda mi colpì. Era una sensazione fresca e tonificante, ma avrei preferito
tornare nella bella stanza calda della zia. Cominciai a rabbrividire. Non c'era una
nuvola. Se fossimo riusciti a scappare, navigare verso est sarebbe stato un gioco
da bambini.
Nessuno mi spiegò dove stavamo andando. Mi trascinarono, e per non cadere
dovetti fare dei passettini da allocco. Ci fermammo accanto a una Land Cruiser e
mi infilarono nel retro con gli stivali in grembo. Strinsero le mie manette e mi
legarono la benda fino a farmi male.
Cercai di appoggiarmi in avanti per appoggiare la testa sul sedile e alleviare la
pressione sulle mani, ma una mano sulla faccia mi spinse subito all'indietro. La
luce interna brillava attraverso la benda. La portiera sbattè rumorosamente
facendomi sobbalzare.
Strinsi i denti aspettandomi una botta in testa.
Ero seduto sulla destra e sentii dei fruscii sulla sinistra, poi una voce: «Va bene,
socio... va bene, socio».
Era Dinger, che nel fare il suo ingresso sbattè la testa e cacciò un urlo belluino.
Questa sì era una buona notizia, che mi fece riprovare quella meravigliosa
sensazione di non essere solo. Il socio si piazzò con le ginocchia contro le mie.
« Puoi aggiustarmi le mani? » gli chiesi nel buio.
Fui colpito alla nuca, ma ne valeva la pena. Ero riuscito a far capire a Dinger che
ero lì, appurando nel frattempo che dietro con noi c'era una guardia e i nostri
carcerieri facevano sul serio.
Il guidatore sembrava un ufficiale. « Voi, non parlare. Parlare, bum, bum! »
Giusto.
Ogni nostro movimento provocava da parte della guardia una punizione, ma non
potei evitare di trarre lunghi sospiri, perché le mani mi facevano molto male.
Come al solito, il veicolo puzzava di sigarette e colonia di infima qualità. Feci una
valutazione. Probabilmente il trasporto significava la fine della fase tattica: ci
stavamo avvicinando. Non avevo idea se sarebbe stato meglio o peggio. La mia
parte ottimista mi suggeriva: bene, adesso andiamo in prigione. La mia parte
professionale mi diceva: stiamo a vedere. Non sai ancora cosa succederà.
Cercai di concentrarmi per mantenere il senso dell'orientamento. Uscimmo dal
cancello e svoltammo a sinistra. Questo significava che eravamo diretti a est, non
a ovest, quindi non andavamo verso la Siria. Come se il contrario fosse stato
possibile. Il conducente andava come un pazzo. Normalmente mi sarei augurato
di fare un incidente, ma a quella velocità saremmo morti tutti quanti.
Una volta avevo visto un filmato del mago Houdini che giungeva le mani dietro la
schiena e passandoci in mezzo era capace di portarsele davanti. Mi domandai se
sarei stato in grado di farlo con tutte quelle ferite. Poi pensai: o testa di cazzo, ma
cosa ti salta in mente? Se non l'hai mai fatto in tutta la tua vita? Giuro però che
pur di scappare mi sarei trasformato in un elastico. Avevo solo bisogno di una
chance.
Mi sentivo rimbambito per via delle sigarette e del riscaldamento, ma il dolore
alle mani mi impediva di dormire. Come per assicurarsi che restassimo svegli,
misero una cassetta di musica araba: a un volume talmente alto che lì per lì non
sentii neanche cadere le bombe.
9.
10.
Un'ora dopo - o forse erano passati solo dieci minuti? - mi trovavo ancora in
quella scomoda posizione.
I carcerieri camminavano avanti e indietro, guardavano dentro e mormoravano.
Per quanto riguardava il mio corpo, era nella fase di stanca della battaglia: adesso
che non mi stava succedendo niente di fisico, mi urlava che aveva fame e sete.
Non ero troppo preoccupato per il cibo, perché il mio stomaco aveva ricevuto dei
calci e probabilmente non sarebbe stato in grado di trattenere nulla. La priorità era
l'acqua. Avevo una sete tremenda, e conati di vomito.
Li sentii armeggiare con il lucchetto. Stavano venendo a prendermi; la sete svanì,
ma la paura mi invase.
Vennero verso di me senza dire una parola, mi afferrarono e mi sollevarono. Non
li vedevo, ma sentivo il loro odore. Cercai di apparire tutto teso ad aiutarli,
nonostante le ferite. Avrei voluto esagerare, ma scoprii che in realtà prendevo in
giro me stesso. Lo stadio della finzione tattica era solo un ricordo.
Mi trascinarono fuori dalla cella e svoltammo a destra, percorrendo il corridoio.
Dalla fessura sotto la benda vedevo pochissimo: solo l'acciottolato e una scia di
sangue. Mi accorsi anche di un gradino davanti a me, ma finsi di inciampare,
perché non volevo che capissero che ci vedevo. Non desideravo essere punito più
di quanto non mi sarebbe toccato comunque.
Il sole era caldo: lo sentivo sulla faccia. Percorremmo un viottolo e rasentammo
una piccola siepe, poi su per un altro gradino e di nuovo il buio, in un lungo
corridoio nero, freddo e umido. Sentii i tipici rumori da ufficio, e un viavai di
passi su linoleum o piastrelle. Svoltammo a destra ed entrammo in una stanza. Nel
freddo generale, mentre mi portavano dentro, passammo accanto a fonti isolate di
calore. Non era la sensazione di caldo e comodo - tipo la stanza di zia Nelly - di
un locale riscaldato a lungo.
Mi spinsero su una sedia dura. C'era il solito sentore di cherosene e sigarette, ma
questa volta anche un acre puzzo di sudore.
Non potevo dire se venisse dalle persone nella stanza o da un precedente
prigioniero. Cercai di protendermi, ma delle mani mi afferrarono e mi tirarono
indietro.
In quella stanza c'erano molte persone, che trascinavano i piedi, tossivano e
parlottavano tra loro: sembravano disposte su due lati. Sentivo sibilare le lampade
ad acetilene. Non sapevo se la stanza fosse senza finestre o se fossero state tirate
le tende ma, a parte la luce delle lampade, era molto buia.
Irrigidii i muscoli e aspettai. Per un minuto circa incombette il silenzio: ero
preoccupato, qui facevano sul serio. Questi non erano fessi. , Una voce mi
parlò dal fondo della stanza. Sembrava quella di un caro nonnino: una voce
anziana e un po' roca, dal timbro molto gradevole.
« Come va, Andy? »
« Non troppo male. »
«Sembri piuttosto malconcio.» L'inglese era fluente, ma con un forte accento. «
Forse quando saremo arrivati in fondo a questa faccenda con reciproca
soddisfazione, riusciremo a procurarti delle cure mediche. »
« Sarebbe molto bello se fosse possibile. Grazie mille. Anche per il mio amico? »
,"
Adesso eravamo in un nuovo ambiente, con un nuovo gruppo.
Se stavano facendo la solita parte dei bravi ragazzi, forse sarei riuscito a ottenere
qualcosa da mangiare, forse la visita di un medico, forse qualche cura per Dinger.
Era anche possibile che riuscissi a strappargli qualche informazione. Forse mi
avrebbero tolto la benda e le manette, forse, forse, forse. Anche se fosse stato solo
per dieci minuti, sarebbe stato meglio che un calcio nelle palle. Se ti promettono
delle cose, devi fare in modo che te le diano. Prendi tutto quello che puoi, finché
puoi. Bene, forza... stiamo un po' a vedere.
« La sola cosa che vogliamo sapere, Andy, è cosa facevate nel nostro Paese. »
Ripetei di nuovo la mia storia, cercando di apparire umile e impaurito.
« Ero su un elicottero come membro di una squadra di ricerca e soccorso. Sono un
sanitario, non ero lì per ammazzare le persone.
L'elicottero è atterrato, c'è stata un'emergenza, ci hanno détto di scendere
rapidamente e poi l'elicottero è decollato. Non so quante persone siano scese
dall'elicottero, o quante adesso sono a terra e in giro per l'Iraq. Dovete capire che
c'era una confusione totale. Era notte: nessuno sapeva dove fosse l'ufficiale, io
penso che possa essere ritornato indietro, che ci abbia abbandonato.
Non ho idea di dov'ero né di dove stavo andando. Correvo, ero spaventato e
confuso. E questo è tutto. »
Ci fu una lunga pausa.
«Andy... è vero che capisci che sei un prigioniero di guerra e che ai prigionieri di
guerra è richiesto di fare certe cose? »
« Lo capisco, e sto cercando di aiutarvi il più possibile. »
«Noi abbiamo bisogno che tu firmi certi documenti. Abbiamo bisogno di alcune
tue firme per mandarle alla Croce Rossa. Servono per far sapere alla tua famiglia
che ti trovi qui. »
« Mi dispiace, ma in base alla Convenzione di Ginevra mi hanno detto che non
devo firmare nulla. Non capisco proprio perché dovrei firmare qualcosa, quando
ci hanno insegnato che non dobbiamo farlo. »
« Andy... » La Voce divenne ancora più suadente. « Perché tutto vada liscio
dobbiamo aiutarci reciprocamente, d'accordo? »
« Sì, certo. Però, io non so niente. Vi ho detto tutto quello che so.»
« Dobbiamo davvero aiutarci, altrimenti la situazione può diventare dolorosa.
Penso tu capisca che cosa intendo con questo, vero, Andy?»
« Lo capisco, ma davvero non so come potrei aiutarvi. Ho detto tutto quello che
so. Non so nient'altro. »
C'è una tecnica usata dai venditori molto sagaci per strapparti la dichiarazione che
vuoi comprare il prodotto. Si chiama... qualcosa come «pausa creativa». L'ha
spiegata Victor Kiam in uno dei suoi libri: quando una trattativa era al culmine,
lui si interrompeva e faceva una pausa, e se la persona cui stava cercando di
vendere qualcosa sentiva la necessità di continuare la conversazione in quel
silenzio, lui sapeva di essere riuscito a vendergli il prodotto. L'antagonista sentiva
di dover fare qualcosa, cioè in pratica comprare.
Mi mantenni in silenzio e con l'aria confusa.
«Hai proprio un aspetto terribile, Andy. Hai bisógno di assistenza medica? »
« Sì, grazie. »
«Bene, Andy. Ma le cose le devi pagare. Quello che noi ti chiediamo in cambio è
un po' d'aiuto. Tu gratti la schiena a me, e io gratto la schiena a te! Credo sia un
vecchio detto inglese, giusto? »
Probabilmente girò lo sguardo nella stanza alla ricerca di approvazione perché gli
altri risero forte, un po' troppo forte. Come quando il presidente del consiglio di
amministrazione racconta una barzelletta cretina e tutti ridono perché è il
presidente. Probabilmente metà delle persone nella stanza non avevano nemmeno
sentito quello che aveva detto.
«Vi aiuterò», dissi. «Sto cercando di aiutarvi il più possibile.
Mi chiedo se potrei avere del cibo e dell'acqua, dato che il mio amico e io non
mangiamo né beviamo da tempo. Ho molta sete, e mi sento molto debole. »
« Se ci aiuterai, potremmo raggiungere una specie d'accordo, ma non puoi
aspettarti che faccia qualcosa per niente. Lo capisci, Andy?» « ,«
« Sì, lo capisco, ma non so davvero cosa lei desideri da me. Le ho detto tutto
quello che so. Siamo solo soldati, ci hanno ordinato di scendere dall'elicottero e di
muoverci. Non so che cosa stia succedendo. L'esercito ci tratta come merde. »
« Penso che troverai che qui le persone ti trattano meglio. Sono disposto a fornire
cibo, acqua e assistenza medica a te e al tuo amico, Andy, ma deve essere uno
scambio equo. Dobbiamo sapere i nomi delle altre persone, in modo che possiamo
informare la Croce Rossa che si trovano in Iraq. »
Inutile dire che erano una massa di stronzate, ma dovevo mostrarmi il più
compiacente possibile senza effettivamente dire nulla. Volevo che questo
interrogatorio rimanesse nelle mani di Nonno Tenerone. Era educato, cordiale,
gentile, morbido, premuroso. Non ero ansioso di vedere il suo lato cattivo, tanto
sapevo che prima o poi me lo avrebbe mostrato.
« Il solo nome che conosco è quello del mio amico Dinger », risposi. Lui aveva
sicuramente fornito il proprio nome, matricola, grado e data di nascita, come
prescritto dalla Convenzione di Ginevra. Dissi il suo nome per intero. « A parte
lui, non ho idea di chi c'era e chi non c'era. Era molto buio. Tutti correvano da
tutte le parti, era il caos. So di Dinger soltanto perché l'ho visto. »
Qualcosa mi diceva che la storia di copertura stava crollando: non sembrava più
credibile neanche a me. Iniziava a fare acqua come qualsiasi altra storia... a parte
quelle di «copertura profonda » che sono molto più elaborate. Era solo questione
di tempo.
Non avevo idea di cosa pensassero i beduini a quel punto; era solo un gioco del
gatto con il topo. Lui faceva una domanda e io gli davo la mia risposta cretina, al
che lui faceva la successiva senza nemmeno considerare quello che gli avevo
risposto.
La Voce capiva che gli stavo raccontando cazzate e io, a mia volta, capivo che
non gli stavo raccontando quello che voleva. Sicuramente sarebbe successo
qualcosa di terribile.
Mentalmente stavo bene. Lo stato mentale può essere alterato dalle droghe, ma
speravo non fossero cosi progrediti e usassero ancora le tattiche dei cavernicoli.
La violenza fisica può aiutare l'inquisitore solo fino a un certo punto: oltre quello,
non è più produttiva. Dalle botte che ti hanno dato possono valutare le tue
condizioni fisiche, non lo stato mentale: a tale scopo, devono conoscere il tuo
livello di attenzione, e il solo indizio visibile è dato dagli occhi. Alcuni crollano
completamente se un inquisitore ride delle dimensioni del loro cazzo, o li accusa
di essere omosessuali o dice che la loro madre ha fatto la puttana. Si eccitano, e
questo dimostra che non sono così fuori come vorrebbero apparire. Tutti hanno
una crepa nell'armatura, e compito dell'inquisitore è scoprirla. Da quel momento
in poi, sei fottuto.
Noi eravamo addestrati ad aspettarcelo e avevamo la fortuna che nel Reggimento
tutti ti prendono per il culo in continuazione.
La vita quotidiana ruota attorno agli insulti più sanguinosi. Comunque sarebbe
stata una dura battaglia.
Se sei fisicamente e mentalmente esausto, non dovresti nemmeno avere l'energia
di comprendere ciò che ti si dice; e men che meno di reagire. Il tuo bluff non
durerà molto se solo sbatti una palpebra quando lui ride delle dimensioni del tuo
cazzo o ti chiede ragguagli sulla posizione preferita da tua moglie. Devi sembrare
esausto, convincerlo che quello che ti hanno fatto è davvero troppo perché tu
possa ancora capire qualcosa, che hai detto loro tutto quello che sai e non c'è nulla
che desideri di più che tornare a casa. Il vantaggio con cui partivo era che per loro
anche un sottufficiale anziano non è nessuno. Non avevano la mia mentalità, e
non l'avrebbero mai avuta: era solo una questione di ricordargli che ero uno
zuccone semideficiente, che non sapevo un tubo.
Domandai che mi levassero la benda e le manette. « Non riesco a pensare
chiaramente», dissi. «Ho le mani intorpidite e male agli occhi. Ho il mal di testa.
»
« E' per la tua sicurezza », rispose la Voce.
«Certo, capisco, signore. Scusi se gliel'ho chiesto.»
Era per la loro sicurezza, non per la mia. Non volevano che un giorno fossi in
grado di identificarli.
« Sto cercando di aiutarvi », continuai, « ma sono soltanto un sergente. Io non so
niente. Non faccio niente e non desidero neanche fare niente. Non voglio stare
qui. E' il governo che mi ha mandato. Io stavo solo volando su un elicottero, non
sapevo nemmeno che eravamo atterrati nel vostro Paese. »
« Capisco tutto, Andy. Però, devi renderti conto che dobbiamo chiarire alcune
cose. E visto che noi aiutiamo te, tu devi aiutare noi, come abbiamo già detto. Lo
capisci? »
«Sì, capisco... ma mi spiace, è tutto quello che so.»
Questo gioco andò avanti per un'ora buona. Veniva condotto con grande coerenza,
e non ci furono maltrattamenti di nessun tipo. Era chiaro che, di base, sapevano
che stavo mentendo spudoratamente, ma gli unici problemi me li creai io stesso
quando non riuscii a tenermi due passi davanti a lui e finii per contraddirmi.
Capitò un paio di volte.
« Andy, ci stai dicendo delle bugie? »
« Sono confuso. Lei non mi da il tempo di pensare. Ho paura che non tornerò a
casa vivo. Non voglio fare questa guerra. Ho solo tanta, tanta paura. »
«Ti darò tempo per pensare, Andy... ma tu devi pensare chiaramente, perché noi
non possiamo aiutarti se tu non ci aiuti. »
A questo punto cominciò a parlare della mia famiglia e della mia istruzione. « Sei
laureato? »
Laureato? Non ero andato nemmeno alle superiori.
«No, non ho neanche il diploma. Ecco perché faccio il soldato.
Nell'Inghilterra della Thatcher, se non hai un'istruzione non puoi fare niente. Io
appartengo alla classe operaia, in fondo alla scala.
Ho dovuto arruolarmi nell'esercito perché non potevo fare altro.
L'Inghilterra è molto cara, ci sono molte tasse. Se non avessi fatto questo lavoro
sarei morto di fame. »
« Hai fratelli e sorelle? »
« No, non ho né fratelli né sorelle. Sono figlio unico. »
«Dobbiamo sapere l'indirizzo dei tuoi genitori per avvisarli che sei ancora vivo.
Chissà come stanno in pena per te, Andy.
Devi inviargli un messaggio, li farà sentire meglio. Possiamo inviarlo noi. Siamo
disposti ad aiutarti, purché tu aiuti noi. Quindi, se tu mi dessi l'indirizzo dei tuoi
genitori, gli manderemmo una lettera. »
Spiegai che mio padre era morto per una malattia cardiaca, e mia madre era
scappata e adesso era da qualche parte in America.
Non la vedevo da anni. Non avevo famiglia.
« Ma avrai pure degli amici in Inghilterra, che desiderano sapere dove sei. »
«Sono solo. La mia casa è l'esercito. Non ho nessuno.»
Sapevo che non mi credeva, ma era meglio che tacere e basta.
Il risultato finale era lo stesso, ma almeno non mi picchiavano.
« Andy, perché pensi che gli eserciti occidentali siano qui? »
« Non ne sono sicuro. Bush dice che vuole il petrolio del Kuwait e la Gran
Bretagna è d'accordo. Essenzialmente noi siamo servi di Bush e io sono servo di
John Major, il nuovo primo ministro. Io questa guerra non la capisco proprio.
Quello che so è che sono stato mandato per fare il sanitario. Non ho interesse per
la guerra, non volevo fare la guerra. So che la Thatcher e Major se ne stanno
seduti a casa loro a bere gin and tonic, e Bush fa jogging attorno a Camp David e
io sono qui, coinvolto in una faccenda che non capisco. Vi prego, credetemi,
voglio andare a casa... sto cercando di aiutarvi. »
« Ci vediamo molto presto, Andy », disse. « Adesso vai pure. »
Quelli dietro di me mi tirarono su e mi fecero rifare la stessa strada da cui ero
venuto. Non riuscivo a muovere i piedi alla loro velocità, per cui mi trascinarono
per tutto il corridoio, lungo il viottolo, sull'acciottolato e di nuovo in cella. Poi mi
ricacciarono nell'angolo, nella stessa dolorosa posizione.
Quando la porta sbattè, sospirai profondamente di sollievo e cominciai a
sistemarmi.
Due minuti dopo, entrò una guardia. Mi tolse la benda, ma io non sollevai lo
sguardo: l'ultima cosa che desideravo era un'altra mano di botte. Uscì di nuovo,
lasciandomi a guardare per la prima volta quello che mi circondava.
Il pavimento era in cemento: cemento molto brutto, sbrecciato, sforacchiato e
umidissimo. Alla destra della porta c'era una finestra, una piccola apertura sottile
e lunga. Sollevando gli occhi, vidi un grosso gancio al centro del soffitto. Il cuore
cominciò a battermi all'impazzata: era là sopra che mi avrebbero appeso?
Le pareti, un tempo color crema, adesso erano coperte di sudiciume: le superfici
erano piene di graffi, incisioni e scritte in arabo. C'erano anche un paio di
svastiche naziste, e su una parete una colomba vista da dietro, grande più o meno
come un foglio di macchina per scrivere, che volava verso il cielo. L'uccello
aveva catene che gli imprigionavano le zampe e sotto, tra le scritte arabe,
spiccavano alcune parole in inglese: « Al mio unico bene, il mio bambino Josef,
lo vedrò mai più?» Era un piccolo capolavoro, e mi domandai chi l'avesse inciso e
cosa gli fosse successo.
Era forse l'ultima cosa che aveva fatto prima di morire? Forse era in assoluto
l'ultima cosa fatta in quel luogo?
Sul muro c'erano due enormi macchie di sangue... un litro, un litro e mezzo per
ciascuna, sangue essiccato sullo stucco. Accanto a una macchia c'era un pezzo di
cartoncino. Lo fissai per un po', poi saltellai sul culo finché non mi avvicinai
abbastanza da riuscire a leggere quello che c'era scritto. Veniva da una scatola che
conteneva bustine di una bibita energetica. L'imballo esaltava la bontà del
prodotto che ti dava vitalità ed energia. Lessi ancora, e il mio cuore sobbalzò: il
prodotto veniva da Brentford, nel Middlesex. Era il luogo di origine della madre
di Kate.
Conoscevo bene quel posto, sapevo anche dov'era la fabbrica, e Kate abitava
ancora là. Al pensiero di mia figlia, piombai in una profonda depressione. Quanto
tempo sarei rimasto lì? Tutta la guerra? O finché non mi avrebbero eliminato?
Sarei entrato nelle statistiche sulle atrocità irachene?
La mia sola difesa era ripensare alle varie possibilità. C'erano altri sopravvissuti
della pattuglia? Gli iracheni avevano stabilito definitivamente un rapporto tra noi
e l'incidente sulla strada?
Avevano già catturato qualcuno che gli aveva dato conferma e si stavano solo
divertendo? No, il solo fatto certo era che avevano in pugno me e Dinger.
Circa un quarto d'ora dopo udii nel corridoio delle voci attutite. Il cuore cominciò
a battermi forte. Sarà stato verso il tramonto. Il corridoio doveva essere molto
buio, perché le ombre non filtravano più sotto la mia porta. Rimasi ad ascoltare
tutte le voci che arrivavano fino alla porta in fondo; poi anche quella fu chiusa,
per la prima volta dal nostro arrivo. Significava che saremmo rimasti per la notte?
Speravo di si. Avevo bisogno di metter giù la testa.
L'oscurità portò con sé uno strano senso di sicurezza, perché non riuscivo a
vedere... misto a terrore, perché avevo freddo e troppo tempo per pensare. Cercai
di dormire sdraiato, con la testa appoggiata al pavimento, ma la migliore
posizione si dimostrò quella su un fianco, con la guancia appoggiata sul cemento.
L'unico inconveniente era la pressione sull'anca: ogni pochi minuti dovevo
spostarmi per alleviare il dolore, e finii per non dormire.
Le lampade ad acetilene brillarono sotto la porta; sentii dei passi e un tintinnio di
chiavi. Il chiavistello stridette. Cominciarono a dar calci alla porta: era ancora più
spaventoso che durante la giornata. Sentii anche la porta di Dinger che faceva lo
stesso rumore.
Tutto era sapientemente intimidatorio: loro avevano il potere e la lampada, mentre
io ero solo un povero stronzo nell'angolo.
La porta si aprì. Si avvicinarono, mi fecero alzare in piedi e mi guidarono fuori
nel corridoio. I piedi mi facevano un male terribile e dovetti lasciarmi cadere per
alleviare il peso. Mi trascinarono per pochi metri, poi si fermarono. Mi spostarono
in un'altra cella, e io non riuscivo a capire cosa stava succedendo. Era una specie
di cella di rigore? O un'altra stanza per gli interrogatori?
Mi sbatterono sul pavimento e mi tolsero le manette, ma solo per rimettermele al
polso sinistro. Avevo la destra libera, mentre l'altra era ammanettata a qualcosa.
Uno di loro disse: «Adesso stai qui».
Uscirono dalla cella, chiusero la porta e i loro passi svanirono nel corridoio.
Tastai con la mano libera per capire a che cosa ero agganciato, ma incocciai nel
braccio di un'altra persona.
« Dinger? »
« Segaiolo! »
Finalmente riuniti.
Eravamo felicissimi di essere insieme. Per qualche minuto restammo lì come due
fessi, solo ad abbracciarci e salutarci. Poi sentimmo dei passi in corridoio e le
guardie cominciarono a dar calci alla porta per entrare. Guardai Dinger; aveva la
faccia delusa come me. Quando entrarono alzai gli occhi, pronto per dire: alè,
ragazzi. Ma portavano una coperta per noi. Era il compleanno di Saddam, o cosa?
«Come vanno le tue mani?» bisbigliai all'orecchio di Dinger, nel dubbio che
fossimo stati messi assieme perché nella cella c'erano le microspie.
« Vanno di merda. » »
Tutto sommato non mi dispiacque: mi sarei incazzato se avessi avuto le mani in
condizioni peggiori delle sue.
«Io ho ancora la carta geografica e la bussola», gli confidai.
« Sì, anch'io. Non riesco a crederci. » , « Oro? »
« Se lo sono preso i borghesi. E il tuo? »
« Se lo sono preso gli ufficiali. »
Per la mezz'ora seguente facemmo come due ragazzini che confrontano le
rispettive sbucciature. Prendemmo per il culo le guardie e sparlammo di tutti in
generale. Poi sistemammo la coperta in modo che ci stesse sotto il culo, ma ci
coprisse anche la schiena e le spalle. Mentre ci spostavamo per stare più comodi,
le manette si stringevano sempre più.
Seduto al buio con Dinger, seppi cosa era capitato a lui, Legs e Bob dopo che ci
eravamo divisi.
Mentre si spostavano lungo la siepe Dinger sentì un rumore e si fermò. Legs e
Bob lo seguivano a breve distanza. Non potevano alzare la voce per avvertire
noialtri, e la pattuglia si divise.
Il rumore cessò. Aspettarono dieci minuti, ma non tornò nessuno. Continuarono
muovendosi con la bussola. Avevano percorso non più di duecento metri quando
videro un pericolo a quindici metri. Due proiettili fischiarono molto vicino a loro.
Poi fu aperto il fuoco da molte postazioni. Ci fu uno scontro, durante il quale Bob
fu separato dagli altri due.
Dinger e Legs spararono e riuscirono a ritirarsi verso il fiume.
A circa centocinquanta metri era in corso un rastrellamento, con molti spari e
grida. Gli iracheni si stavano avvicinando lungo un fronte esteso.
Dinger e Legs avevano trenta colpi per la Minimi, e un caricatore tra tutti e due.
Non restò loro altra scelta che attraversare il fiume. Arrivarono ai bordi dell'acqua
e trovarono una piccola barca. Cercarono di togliere l'ormeggio, ma senza fortuna.
Non volevano sparare al lucchetto, perciò restava una sola via di fuga.
Il fiume sembrava largo solo cento metri, e la corrente lenta.
Però l'acqua era così fredda che Dinger rimase senza fiato.
Quando si issarono faticosamente a riva si accorsero di avere nuotato in un
affluente e di essere in realtà bloccati su una striscia di terra in mezzo al fiume.
Sulla sponda da cui erano partiti, gli iracheni sparavano e gridavano, le torce
illuminavano l'acqua. Cercarono un riparo.
La striscia di terra era controllata da un blocco stradale, su una chiatta distante
circa duecentocinquanta metri. Dinger e Legs erano allo scoperto e tremavano
convulsamente per il freddo. Legs compì una piccola perlustrazione per scoprire
come potevano uscirne. Sentivano continuare gli altri scontri, in particolare uno
prolungato in cui era coinvolta una Minimi. Doveva essere Bob. Poi scese il
silenzio.
Legs trovò uno scatolone di polistirolo che spezzarono e si misero nelle casacche
come salvagente. Il solo punto di fuga dalla striscia di terra era pattugliato dalle
guardie, e c'era una tale attività nemica che la sola possibilità era attraversare il
fiume principale.
Rimasero a terra per un 'ora, aspettando l'occasione. Casacche e pantaloni si erano
irrigiditi per il gelo; dovevano muoversi. Dinger indugiava. Aveva faticato
moltissimo ad arrivare fino lì, e temeva che non sarebbe riuscito ad attraversare il
fiume principale.
Legs lo incitò. Guadarono finché l'acqua non gli arrivò alla vita, poi cominciarono
a nuotare. Il fiume era largo cinquecento metri, la corrente veloce, e ben presto
Dinger si trovò ad annaspare.
«Ce la facciamo, amico», lo rassicurò Legs. « Possiamo farcela. »
Alla fine, Dinger toccò terra con i piedi. «E' il fondo», bisbigliò mentre si
accasciava sulla terra asciutta, controllando istintivamente la riva per vedere se
c'era attività nemica.
Guardandosi alle spalle, vide che la corrente li aveva trascinati indietro di circa un
chilometro e mezzo; e Legs era ancora in acqua. Corse lungo la riva e lo trascinò
fuori. Legs non si reggeva in piedi.
A circa dieci metri dalla riva Dinger aveva visto la baracca di una pompa
idraulica. Vi trascinò Legs e lo fece entrare. Anche Dinger era così stanco che gli
ci vollero due ore per riuscire a togliergli gli abiti bagnati.
Era l'alba. Dinger portò Legs fuori, al sole, senza più preoccuparsi del pericolo di
venire scoperti: la cosa più importante era che non morisse. La gente cominciava
a lavorare nei campi, obbligando Dinger a portare l'amico dentro e fuori dalla
baracca. Sapeva che fra poco sarebbero stati scoperti. La zona era battuta da
centinaia di soldati.
Legs stava per morire, e Dinger doveva prendere una decisione: sarebbe rimasto
nascosto senza poter fare nulla per lui, o avrebbe compromesso la posizione
dandogli forse la possibilità di essere curato? Il dubbio non si poneva neppure.
Dinger lasciò la capanna e si aggirò nei pressi finché un contadino non lo
individuò.
Dinger corse indietro e si chiuse la porta alle spalle. Il contadino lo rincorse, mise
il lucchetto e si precipitò nei campi gridando. Dinger aveva predisposto una via di
fuga nel retro della capanna. Legs era accanto al generatore, ma ansimava
pesantemente. Dinger gli spiegò cosa avrebbe fatto e se ne andò. Non sapeva se
Legs avesse capito, ma lo sperava.
Stava correndo sul fondo di uno uadi disseccato, quando un civile lo individuò.
Presto arrivarono a gruppi, venti o trenta alla volta, chiudendogli la via lungo
entrambe le rive. Cominciarono a sparare. Sapeva che lo avrebbero preso, ma
continuò a correre. Aveva la sciarpa a rete in testa nel tentativo di passare per
arabo, ma a un certo punto gli vennero addosso, lo sbatterono a terra e gli
legarono le mani dietro la schiena. Quando Dinger sollevò la testa, vide uno di
loro estrarre un coltello, presumibilmente per tagliargli un orecchio.
Era il momento giusto per mostrare l'oro che aveva nel cinturone. I locali
pensarono che fosse Natale: glielo presero e cominciarono a contenderselo.
Quando si furono messi d'accordo, trascinarono Dinger in città.
I civili lo stavano facendo a pezzi; vennero sparati alcuni colpi, e pensò che la fine
fosse vicina. Ma gli spari venivano da una squadra di militari che si fecero strada
tra la folla e lo liberarono. Doveva esserci qualche ordine o qualche premio per
chi riportava vivi i prigionieri.
Lo misero in un convoglio di veicoli che riattraversarono il fiume diretti a una
base militare. Grande eccitazione generale: Dinger era il primo bianco che
avevano catturato.
Fu ammanettato a una sedia in una stanza piena di ufficiali che parlavano bene in
inglese e gli chiesero prima le Big Four, e poi: « Qual è la tua missione? » al che
lui ribattè: « Non posso rispondere a questa domanda ».
Gli dissero che di quel passo le cose si sarebbero messe molto male: erano in
guerra. Gli rifecero la domanda e lui cominciò a rispondere. Arrivò fino a «Non
posso... » e lo aggredirono. Avevano il morale alto: sembravano impegnati in una
gara.
Il pestaggio andò avanti per mezz'ora senza che gli facessero nessuna vera
domanda. Poi uno degli ufficiali si alzò e lasciò la stanza, e uno degli altri gli
annunciò: «Adesso saranno dolori».
L'uomo ritornò con un palo di legno lungo un metro e venti, del diametro di nove
centimetri.
Il trattamento durò al massimo un minuto e mezzo, ma Dinger era sicuro che
continuando così sarebbe morto. Allora cominciò a raccontare la storia di
copertura.
Gli chiesero quante persone e 'erano nella squadra di ricerca e soccorso, e quando
lui ribattè: «Non posso rispondere a questa domanda», ricominciarono con il palo.
Gli portarono un 66 e un 203 scarichi e gli chiesero come funzionavano quelle
armi. Dinger si rifiutò di mostrarglielo, il che gli procurò un 'altra battuta. Poi
pensò: Cristo, è un 'arma, non un segreto di Stato. Potrebbero scoprire come
funziona da una copia del Jane's Defence Weekly.
Raccontò loro la storia del recupero dei piloti, che sembrò andare bene, ma era
solo all'inizio degli interrogatori. Sapeva che la situazione sarebbe molto
peggiorata.
Confrontammo quello che sapevamo sul resto della pattuglia.
L'ultima volta che Dinger lo aveva visto, Legs era steso su una barella,
assolutamente immobile. Secondo lui, era morto. Non avevamo la minima idea di
che fine avesse fatto Bob. Dinger aveva pensato che fosse con noi, e noi che fosse
con loro. Aveva visto parte dell'equipaggiamento di Bob quando eravamo stati
spostati a Baghdad; era un brandello del suo giubbotto, ed era orribilmente
bruciacchiato. Brutto segno. Mentre io venivo interrogato, subito dopo la cattura,
Dinger era in un'altra stanza con tutte le nostre attrezzature che i beduini avevano
recuperato.
«Avevano anche armi. I ragazzi hanno iniziato a giocherellare con un 203, e io gli
ho gridato di lasciarlo stare perché era ancora carico. Ci ho guadagnato un pugno
sulla bocca. I coglioni hanno sparato e il colpo è partito. »
Fortunatamente per Dinger, una bomba del 203 deve viaggiare per almeno venti
metri prima che la sicura a inerzia si tolga automaticamente. La bomba colpì il
soffitto e rimbalzò di nuovo giù.
Quel giorno Allah era di buon umore: se fosse esplosa, avrebbe ucciso tutti.
« A quel punto, tutti si sono spaventati a morte e naturalmente mi hanno picchiato
di nuovo. »
Continuammo a parlare del 203, ma facevamo fatica a non scoppiare a ridere. Era
un tale sollievo sentire di nuovo la voce di Dinger... sembrava che tutti i miei
problemi fossero svaniti.
«Il sergente maggiore ha preso una bussola, ma essendo un coglione non aveva la
più pallida idea di come funzionasse.
Non voleva perdere la faccia davanti ai soldati, ha fatto finta di saperlo. E' stata
una vera goduria. Teneva quel cazzo di cosa dalla parte sbagliata cercando di
aprirla, e io ero là, a testa bassa, con un sorrisetto sulla faccia, che cercavo di non
scoppiare. Tiravano via dall'attrezzatura pezzi vari e roba innocua come le
batterie, e per loro tutto era esplosivo. Si aspettavano che tutto quanto gli
scoppiasse in faccia. »
Passammo a un umore più serio e mi chiesi se Stan e Vince erano ancora vivi.
Probabile che Stan fosse morto. Stava già male la prima notte della fuga, e non
potevo convincermi che fosse migliorato all'improvviso.
«Bastardo!» dissi. «Gli avevo dato il mio berretto da baseball. »
«Quel bastardo è sempre stato pieno di accessori», osservò Dinger. « Scommetto
che a quest'ora è già riuscito a fregare la giacca a vento a Dio. »
Su Vince e Chris eravamo in dubbio. Presupponendo che se qualcuno fosse
rimasto vivo a quest'ora sarebbe stato con noi, anche loro, come Bob, o erano
scappati o erano morti.
L'unica cosa che proprio non riuscivamo a capire era perché ci avevano messi
insieme. Significava forse che credevano alla nostra storia? Speravano che
avremmo cominciato a cantare alla grande? Giungemmo alla conclusione che non
avremmo sprecato tempo ed energie a lambiccarci il cervello: dovevamo pensare
solo a goderci la reciproca compagnia.
Il rumore di un chiavistello aperto ci fece subito riassumere la concentrazione. Sul
pavimento echeggiarono di nuovo dei passi e il bagliore delle lampade ad
acetilene invase la cella. Oh, no, merda, pensai... adesso ci dividono.
Comparvero due guardie. La prima ci presentò una brocca d'acqua, la seconda
reggeva ciotole fumanti.
La coperta, l'acqua, la minestra... sembrava di stare al Ritz.
Avevamo il servizio in camera e tutti i comfort. Chissà se potevo chiedergli di
portarci una copia del Financial Times.
Li guardammo con la coperta sulle spalle, ridendo come due profughi colmi di
gratitudine.
«Americani?» chiesero. - , « No, britannici. »
« Tel Aviv? »
« No. Britannici, Inghilterra, Londra. »
« Ah, Londra. Calcio. Manchester United. Calcio. Bene. »
« Sì, Liverpool. »
«Ah, Liverpool. Bobby Moore! Bene!»
Non ci dicemmo una sola parola finché la porta non si fu rinchiusa per bene. Poi
mi voltai verso Dinger e all'unisono esclamammo: «Merdaioli!» e ci facemmo una
bella risata.
Le ciotole contenevano una broda calda che sapeva vagamente di cipolle. Nella
brocca c'erano un paio di litri d'acqua, che aveva un sapore migliore dello
Champagne d'annata. In teoria, bisognerebbe andarci con calma e berla
lentamente. In pratica, col rischio che arrivino i bastardi e te la soffino da sotto il
naso, sei obbligato a fare in fretta. Il rischio grosso è di trarne solo una sensazione
di umidità in gola e la pancia gonfia.
Cercammo di metterci giù. Le manette ci imponevano di stare sulla schiena.
Stendemmo la coperta sopra di noi e rimasi a fissare il soffitto. Molto presto
cominciai a storcere il naso: Dinger puzzava, puzzava maledettamente.
«Poveretta, tua moglie», gli dissi. «Me l'immagino, dover dormire tutte le notti
con un puzzone come te: deve essere come andare a letto con un grizzly. »
Pochi minuti dopo fui preso da un incredibile mal di pancia.
Dovevano essere state le cipolle.
« Dinger, amico, devo fare la cacca. »
Borbottando Dinger si issò in una posizione semisdraiata, con la mano sollevata,
in modo che potessi allontanarmi un po' da lui.
Combattei fieramente per tirarmi giù i pantaloni, cercando di non stringere troppo
le manette.
« Cazzo, sbrigati », gemette. « Cerchiamo di dormire. »
Alla fine mi misi in posizione e svuotai il culo. La merda liquida e scivolosa si
sparse dappertutto.
«Oh, cazzarola», protestò Dinger. «Qui siamo a casa mia, perché non lo hai fatto a
casa tua? »
Non riuscivo a trattenermi, continuava a uscire.
« Sei un bifolco ingrato... è così che si fa? Uno ti invita a casa sua, ti offre la cena
e come viene ripagato? Svuoti il tuo culo fetido sul suo miglior tappeto. »
Scoppiai a ridere così forte che ci ricaddi in mezzo, ma non potei far altro che
tirarmi su le braghe e tornare a sdraiarmi.
Non era la situazione ideale, ma c'erano almeno tre vantaggi.
L'avevo fatta nella sua cella, e non nella mia, mi scaldava le gambe, e adesso
sarebbe stato il suo turno.
Ci raggomitolammo sotto la coperta.
Durante la notte sentivamo le guardie andare e venire e le porte che sbattevano.
Ogni volta avevo il terrore che venissero a prenderci, ma passarono sempre oltre.
A un certo momento, in lontananza sentimmo una porta che si apriva con un
calcio e un seguito di urla soffocate, grida, gemiti e grugniti: evidentemente
qualcuno le stava buscando. Ci si sforza di ascoltare, ma si captano solo sporadici
frammenti. Sentire un'altra persona che soffre a quel modo è terribile: non tanto
perché potrebbe essere un tuo amico... questo non lo sai, e quindi non te ne
importa. Ma è molto demoralizzante, perché sei privo di difese e fra poco
potrebbe toccare a te.
Le voci dicevano: «Cattivo. In piedi! Cattivo, cattivo». Poi come il rumore di un
piatto scagliato attraverso una stanza che sbatteva sul cemento.
Era Stan il nome che avevano detto? Facemmo di tutto per sentire qualcosa di più,
ma il rumore cessò. Be', almeno nel casino c'era qualcun altro, anche se non
sapevamo se si trattava di uno di noi. Chiunque fosse, però, poteva rappresentare
una minaccia. Dinger e io eravamo soddisfatti che le nostre storie quadrassero, e
un'altra persona sulla scena - una persona con cui non potevamo comunicare -
poteva voler dire che il tappeto ci sarebbe stato strappato da sotto i piedi. Sentii
svanire tutta la contentezza. Salvo per il fatto che ero ancora insieme a Dinger.
Nota: In inglese, «in piedi» si dice stand, da cui l'equivoco col nome Stan.
(N.d.T.). Fine nota.
All'improvviso, come se li avessero mandati apposta per tranquillizzarmi, sentii il
gradito rumore dei bombardieri nel cielo, a circa due chilometri. Immediatamente
tornai a sperare. Se fossimo stati colpiti, avremmo potuto fuggire.
Passammo il resto della notte insieme. Ogni volta che sentivamo sbattere le porte
pensavamo che sarebbero venuti a separarci e ci salutavamo. Alla fine, era già
mattina, la porta effettivamente si aprì e io fui ammanettato, bendato e condotto
via.
Sapevo che mi stavano portando a un altro interrogatorio: mi ricordavo la strada.
Fuori dalla porta, svolta a destra, corridoio, a sinistra, acciottolato, gradino; poi
viottolo di fianco ai cespugli, ed eccomi in una stanza. Stabilii che era la stessa
dell'altra volta.
Mi fecero sedere su una sedia e mi tennero fermo.
«Buongiorno, Andy», disse la Voce. «Come va stamattina?»
«Bene, grazie infinite», risposi. «Grazie per la coperta. Fa molto freddo di notte. »
« Sì, fa molto freddo. Come puoi vedere, Andy, noi ci prendiamo veramente cura
di voi. Siamo generosi con le persone che ci aiutano. E tu ci aiuterai... vero,
Andy?»
«Sì, gliel'ho detto. Farò del mio meglio per aiutarvi.»
« Ci sono solo un paio di questioni che vogliamo chiarire questa mattina, Andy.
Vedi... non siamo completamente convinti che tu non sia ebreo. Abbiamo bisogno
di prove. Dicci subito se lo sei, perché ti risparmierà un sacco di dolori e disagi.
Qual è la tua religione? »
« La Chiesa anglicana. »
« Che cos'è la Chiesa anglicana? »
« E' una religione cristiana. » »
« In chi credi? »
« Credo in Dio. »
« Capisco. E chi è Gesù? »
Lo spiegai.
« Chi è Maria? »
Lo spiegai.
« Andy, capisci che tu e io crediamo nello stesso Dio? Io sono musulmano e
credo nel tuo stesso Dio. »
« Sì, lo capisco. »
« Sei religioso, Andy? »
« Sì, lo sono. Prendo la mia religione molto seriamente. »
« Dimmi come pregano i cristiani. »
«Possiamo pregare in ginocchio, possiamo pregare in piedi... dipende, non
importa, E' una questione molto personale. »
Quando ero un novellino a Shorncliffe, tutte le domeniche c'era una parata
religiosa del battaglione. Bisognava indossare la divisa migliore e gli stivali, e
marciare inappuntabilmente dalla base alla chiesa della guarnigione. Era una
menata, perché da novellino ti danno solo un giorno libero alla settimana, la
domenica, e solo se nella corsa campestre del venerdì non arrivi dietro l'ufficiale
comandante: altrimenti la domenica ti devi fare un'altra corsa. Comunque, andare
a casa era impossibile, perché non si può uscire prima delle nove del mattino e
devi rientrare prima delle otto di sera. Per farla breve, non ero molto felice di
partecipare alla parata domenicale, e non ho mai fatto troppo caso a quello che
succedeva. Adesso stavo disperatamente cercando di rimettere insieme un po' di
pezzi di funzioni religiose per sembrare il più devoto baciapile dai tempi di Billy
Graham.
« Quando digiunate? Quando digiunano i cristiani? »
Digiunavamo? Non lo sapevo.
« Ma noi non digiuniamo. »
Il suo tono cambiò. «Ci stai mentendo, Andy. Stai mentendo!
Noi sappiamo che i cristiani digiunano. »
Mi parlò della Quaresima. To', non si finisce mai di imparare... non sapevo che i
cattolici digiunassero.
« Io sono protestante », dissi. « E' diverso. », Sembrò calmarsi.
«Parlami delle feste. Quali cibi mangiate? Quali non mangiate?»
Mi sforzai di ricordarmi i menù di Natale e Pasqua.
« I protestanti mangiano di tutto. In realtà noi celebriamo il fatto di mangiare tutto
quello che possiamo, quando possiamo. E' una religione molto liberale. »
« Allora non dovete astenervi dalla carne di maiale? »
« No. »
«Senti, Andy, confessa che sei un ebreo... ci basta questo. Lo sai che se ci stai
mentendo sarai punito. »
Intervenne un altro tizio alla mia destra, anche lui in un buon inglese. Mi disse
che era stato a Sandhurst.
« Quand'è la festa di san Giorgio? »
Non ne avevo la più pallida idea.
« E quella di san Swithin? »
Stessa risposta.
« Come seppellite i morti? Come portate il lutto? Per quanto tempo? »
Per due ore mi arrabattai alla bell'e meglio.
Alla fine la Voce disse: « Cosa te ne parrebbe, Andy, se ti dicessi che sappiamo
che siete ebrei, e che posso dimostrartelo? »
« Lei si sbaglia. Io non sono ebreo. »
«Bene. Dimmi tutto quello che sai dell'ebraismo.»
«Ci sono gli ebrei ortodossi che portano i cernecchi e non mangiano maiale. E'
tutto. Noi non ci mescoliamo con la comunità ebraica. »
«Bene... ora dimmi, hai mai avuto una ragazza ebrea? Conosci qualche ebreo in
Inghilterra? Dimmi i loro nomi, e dove abitano.
Come hai fatto a sapere che erano ebrei? »
« Non ho mai avuto niente a che fare con donne ebree. »
«Perché, Andy? Sei forse omosessuale?»
« No, non sono omosessuale, ma in Inghilterra abbiamo gruppi razziali ben
definiti, e non c'è molta mescolanza. La comunità ebraica sta per conto suo e non
è facile avere contatti, perché si isolano molto. »
« Quant'è grande la comunità ebraica in Inghilterra? »
« Non ne ho idea. Non ci mescoliamo. »
Le domande continuarono, e le risposte che potevo dare diventavano sempre
meno convincenti. Mi stavano incastrando... Poi all'improvviso ebbi una pensata:
chissà perché non mi era venuta in mente prima.
« Posso dimostrare di non essere ebreo. »
«E come?»
« Perché ho il prepuzio. »
«Che cosa? Che cos'è il prepuzio?»
Sentii una fitta conversazione in arabo, e un rumore di fogli che frusciavano.
Forse stavano controllando sul dizionario.
« Ve lo posso mostrare », dissi in tono conciliante. « Se mi liberate le mani, vi
mostrerò che cos'è il prepuzio. »
Non riuscivano ancora a capire di cosa parlavo.
« Come si scrive prepuzio? »
Sentii il tizio che scriveva. Due soldati mi afferrarono per le spalle e qualcuno mi
aprì le manette.
« Che cosa hai intenzione di fare, Andy? Prima devi dirci che cosa vuoi fare. »
«Be', mi abbasserò la lampo dei pantaloni, tirerò fuori il pene e vi mostrerò che ho
il prepuzio. »
Mi alzai in piedi ed estrassi l'uccello. Afferrai il prepuzio, e lo tirai su più che
potei.
« Vedete? Ho il prepuzio. La religione impone agli ebrei che vengano circoncisi.
Gli tolgono la pelle del prepuzio. »
Nella stanza ci fu un'esplosione di risate. Si rotolavano dal ridere. Mentre mi
risistemavo, fui di nuovo sbattuto sulla sedia e ammanettato.
Stavano ancora ridendo come matti per questa storia del prepuzio.
« Vorresti qualcosa da mangiare, Andy? »
« Sì, grazie mille, mangiare qualcosa mi piacerebbe proprio », risposi. E visto che
erano tutti di così buon umore, soggiunsi: «E vorrei anche qualcosa da bere, se
possibile, per favore».
Una mano mi mise in bocca un dattero.
Continuarono a ridere come se non ci fossi. Meglio così, certo, però da bere non
ottenni niente. Rimasi lì seduto con il nocciolo del dattero in bocca chiedendomi
cosa avrei dovuto farne. Non lo volevo inghiottire, perché mi si sarebbe
conficcato in gola e non avevo niente per mandarlo giù. L'ufficiale che era stato a
Sandhurst dovette capire il mio problema, perché urlò a una guardia che mi mise
una mano sotto la bocca, facendomi sputare il nocciolo.
Poi mi venne un colpo: non sapevo com'erano gli altri della pattuglia, se avevano
il prepuzio o no. Pensai che Bob era scuro di pelle e aveva un aspetto
mediterraneo. Se avessero trovato il suo cadavere avrebbero potuto scambiarlo
per ebreo e noi ne avremmo pagato le conseguenze.
«Naturalmente i cristiani possono anche farsi circoncidere per ragioni sanitarie»,
spiegai. «Alcuni genitori fanno circoncidere i figli alla nascita. Quindi non sono
solo gli ebrei a essere circoncisi. »
« Continua, Andy. Mi hai detto che gli ebrei vengono circoncisi alla nascita.
Adesso mi dici che vengono circoncisi anche i cristiani. Non ti capisco più. Ci stai
mentendo? »
« No. Dipende dai genitori. Alcuni pensano che sia più igienico. »
Trovarono la cosa ancora più divertente, e io fui felice che continuassero a ridere
ancora un po'. Mi domandavo solo come potevo farli continuare.
«Ci parleremo ancora molto presto, Andy», disse la Voce.
Fui rimesso in piedi e riportato alla mia vecchia cella. Ancora una volta ero solo e
ammanettato.
Poco dopo sentii che riportavano Dinger nella sua cella. Fummo lasciati per conto
nostro per un certo numero di ore.
Alla luce del giorno, le guardie aprirono la porta con il solito calcione e mi
portarono una brocca d'acqua. Era un liquido maleodorante e disgustoso, che
sembrava essere stato raccolto da una fogna, ma pazienza. Era bagnata. E anche
se mi dava il voltastomaco, almeno mi stavo reidratando... a parte il rischio di
vomitare tutto quanto.
Volevano portare via subito la brocca, quindi dovetti bere tutto d'un fiato. Per la
prima volta dall'interrogatorio mi tolsero la benda, mi aprirono le manette e
rimasero ad aspettare mentre seduto sul pavimento alzavo la brocca con entrambe
le mani.
Cominciai a bere. I miei denti rotti esplosero di dolore quando l'acqua fredda
colpì i monconi. Guardando in corridoio, oltre le loro gambe vidi Stan. Stan è alto
circa un metro e novanta, e veniva trascinato da uomini che gli arrivavano alle
ascelle. Aveva tutta la testa, barba compresa, macchiata di un appiccicoso rosso
scuro. Il suo cuoio capelluto era solcato da una vasta ferita, aperta e luccicante; i
pantaloni chiazzati di sangue, fango e merda. Teneva gli occhi chiusi, stava
gemendo. Era completamente andato, piegato in due e praticamente inerte, ben
oltre il limite della finzione. Mi fece sentire come se fossi appena uscito da un
istituto di bellezza. Era la prima volta che lo vedevo da quando avevamo cercato
di contattare gli aviogetti con il radiofaro tattico.
Mi ricordai della notte in cui Dinger e io avevamo sentito le guardie comandare a
qualcuno di alzarsi in piedi. « In piedi, cattivo, in piedi! » Forse avevano davvero
storpiato il suo nome.
Le guardie si voltarono e, vedendo che guardavo, dettero un calcio alla brocca,
che si rovesciò; poi continuarono a prendermi a calci. »
«No guardare! » strillarono. «No guardare! »
Erano i primi calci che ricevevo dall'interrogatorio iniziale, e ne avrei fatto
volentieri a meno. Chissà se avevano lasciato aperta la porta per errore o di
proposito.
Mi raggomitolai sul cemento umido. I denti mi facevano impazzire, ma guardai la
metà piena del bicchiere: le guardie si erano dimenticate di rimettermi le manette.
Avevo la nausea, ma cercavo disperatamente di trattenere il cibo. Non volevo
disidratarmi. Alla fine, non potei evitarlo e vomitai. Tutti i preziosi liquidi che
avevo bevuto andarono persi di nuovo.
Sentii che spostavano Dinger, ma non sentii riportare indietro Stan. Poco dopo
vennero a prendermi. Solita routine: mi bendarono, mi ammanettarono e mi
trascinarono fuori senza dire una parola.
Dopo che mi ebbero fatto sedere ci fu un lungo, lunghissimo silenzio. Sentivo lo
scalpiccio di piedi e lo scricchiolio delle penne, e gli stessi odori di sempre.
Non successe nulla, credo, per un'ora.
Poi, all'improvviso: «Andy, oggi vogliamo che tu ci dica la verità ».
Era sempre la Voce, ma il tono era cambiato. Fermo, adesso, impaziente, come
dire: niente stronzate.
« Sappiamo che ci hai mentito. Abbiamo cercato di aiutarti. Tu non stai affatto
aiutando noi. Perciò ti tireremo fuori la verità con altri sistemi. Capisci cosa
intendo? »
« Sì, capisco, ma non so cosa vuole. Le ho detto tutto quello che sapevo. Sto
cercando di aiutarvi. »
«Bravo. Perché ti trovi in Iraq?»
Attaccai la solita storiella, ma prima che terminassi, lui si alzò e si mise a
camminare per la stanza. .
« E' tutto quello che so », dissi infine, cercando di intuire in che punto si trovasse.
« Ci stai mentendo! » mi urlò in faccia. « Lo sappiamo! Lo sappiamo che stai
mentendo! »
Mi alzarono la faccia e la Voce cominciò a darmi schiaffi violentissimi. Quando si
interruppe mi gridò, così da vicino che sentivo il suo alito sulla mia guancia:
«Come sappiamo che stai mentendo? Perché abbiamo il tuo addetto alle
trasmissioni in ospedale, ecco perché. E' stato catturato, e ci ha detto tutto ».
Era possibile. Forse Legs era ancora vivo, e nelle condizioni in cui si trovava
avrebbe potuto dire di tutto... o tutto. Ma la Voce non mi spiegava cosa gli aveva
rivelato Legs. Era un bluff?
« Tu stai mentendo, vero, Andy? »
«No, non sto mentendo. Non vi posso aiutare di più. Sto cercando, ma non so
niente. »
Facevo il supplichevole perché avevo una paura tremenda.
Cercai di pensare a come avevano potuto inventarsi la storia di Legs.
Altri ceffoni, e caddi. Mi rialzarono e mi tolsero le manette.
Prima che mi potessi chiedere il perché, cominciarono a spogliarmi: ecco, adesso
mi avrebbero tagliato l'uccello.
Mi strapparono la camicia e mi abbassarono i pantaloni. Bene, pensai, allora mi
inculano.
Ma mi rimisero sulla sedia tenendomi la testa in avanti; trassi un profondo respiro
e aspettai.
Doveva essere un pezzo di legno, o la parte terminale di un remo o roba simile.
Aaagh! Lo choc di quella cosa che mi colpiva.
Aaagh! Aaagh! Gridai come un idiota. Mi batterono sistematicamente tutta la
schiena e la testa. Credo di essere svenuto prima di toccare il pavimento.
Rinvenni gemendo e mugolando: loro mi sollevarono per rimettermi sulla sedia.
« Ci dirai tutto, Andy. Stai sicuro. Sappiamo che cosa è successo. Abbiamo il tuo
addetto alle trasmissioni. Ce lo ha detto lui, che era il tuo marconista. »
Sì, doveva proprio essere Legs. Era lui il trasmettitore. Era in ospedale?
Negai, negai, negai.
Ancora pugni e schiaffi, ancora una scarica di colpi di remo sulla schiena. Poi si
fermarono cinque minuti, come per riprendere le forze.
«Perché ti stai facendo del male, Andy? Dicci solo quello che vogliamo sapere. »
Ricominciarono un'altra volta.
A un tratto fui colpito con quella che sembrava una palla metallica posta
all'estremità di un bastone, una specie di mazza medievale. Mi arrivava sul collo,
sulle braccia e sulle reni con una precisione micidiale. Caddi di nuovo, urlando
come un forsennato.
Questa era una cosa da pazzi. Mi avrebbero ucciso.
Appena stramazzai sul pavimento, quelli alle mie spalle ricominciarono con i
calci.
La Voce mi strillò: « Stai mentendo! Ci dirai tutto! »
Non so per quanto tempo continuarono. Mi davano calci, mi ritiravano su, mi
prendevano a schiaffi, poi mi picchiavano con la palla di metallo e con il remo. Li
sentivo respirare affannosamente per lo sforzo.
La Voce urlava e io gli urlavo di rimando.
« Cazzo. Non lo so, non so niente, porca puttana! »
Lui urlò qualcosa in arabo ai ragazzi che ricominciarono a darmi calci.
Continuavo a cadere. , - .
Dolore su dolore. , Faceva male, faceva un male del diavolo.
Smisero di scalciarmi e mi rialzarono. Fui trascinato fuori della stanza, a petto
nudo, con i pantaloni ancora calati alle caviglie.
Non appena uscimmo in cortile, trovai il comitato di accoglienza.
Mi diedero calci e pugni per tutto il percorso. Mi beccai un calcio in culo così
forte che pensai mi avesse spaccato il retto. Pensai anche che mi sarebbero usciti
gli intestini e caddi a terra grugnendo come un maiale.
Mi buttarono in cella, bendato, ammanettato e nudo. Avevo il respiro molto
debole. Quando mi ripresi a sufficienza per mettermi a sedere, controllai se avevo
le ossa rotte. Mi attaccai al ricordo della conferenza di quel pilota di marina
americano. In sei anni di prigionia, i vietcong gli avevano spezzato tutte le ossa
principali del corpo. Al confronto, il mio era un picnic.
11.
A QUESTO punto c'era un andirivieni continuo dalle celle, con colonna sonora di
urla e gemiti strazianti, più il terrificante sbattere delle porte di metallo.
Le guardie dovevano fare i turni di pestaggio. All'incirca ogni due ore entrava
gridando una squadra per darci una manica di botte. Eravamo sempre bendati e
ammanettati.
«In piedi! Seduti! »
Mentre cercavi di obbedire, ti prendevano a calci e pugni. A volte, dopo pochi
pugni, piombavo in uno stato di semincoscienza, a volte me ne restavo lì
ansimando a prenderle tutte. In altre occasioni, mi picchiavano sulle reni e sulla
schiena con un tubo che mi faceva un male boia. Avevo il corpo sempre più
massacrato, ma la cosa peggiore era sentire i pestaggi nelle celle di Stan e Dinger.
Volevano dire che dopo sarebbe toccato a me.
Una volta, per cambiare un po', l'interrogatorio cominciò in un tono abbastanza
civile.
« Stai molto male, vero, Andy? »
« Sì, sto malissimo. »
Avevo la bocca così piena di tagli e di vesciche che quasi non riuscivo a parlare.
«Come vanno i denti? Mi pare che prima ti dessero problemi.»
« Ho alcuni molari rotti. Mi fanno male. » Continuavo a fare la parte del povero
testa di cazzo: tanto a quel punto ero comunque fuori gioco. I denti erano una
tortura: peggio, molto peggio di qualunque mal di denti che avessi mai avuto.
« Ho fatto venire una persona per sistemarteli », disse la Voce in tono mellifluo. «
Qui abbiamo un dentista. Sai, ha lavorato per nove anni al Guy's Hospital di
Londra... E' uno dei migliori. »
Mi tolsero la benda; comparve il dentista che mi salutò gentilmente, mi fece aprire
la bocca e guardò dentro con aria premurosa e rassicurante. Sembrava
sinceramente preoccupato mentre estraeva da una borsa i suoi strumenti.
«Per favore, Andy... apri bene», mi ordinò in perfetto inglese.
«Oh, povero me, che disastro... ma adesso te li sistemo io.»
Avevo dei sospetti, ma non potevo far niente. Aprii la bocca il più possibile e quel
figlio di una troia afferrò con le pinze il primo moncone e lo girò con forza.
Urlai, mentre il sangue mi usciva dalla bocca a fiotti.
« Credi davvero che ti aiuteremo? » La Voce scoppiò a ridere.
« Credi davvero che ti aiuteremo, o stronzo pezzo di merda? Potremmo solo
lasciarti morire, per noi non conti un tubo, sai. Chi pensi che ti aiuterà, Andy? Il
tuo governo? Non puoi credere una cosa simile. John Major se ne frega degli
stronzi merdosi come te. No, Andy, l'unico che può aiutarti sei tu stesso. Perché ti
stai facendo tanto male? Stai sopportando tutto questo per niente. Sei uno stupido,
stupido idiota, e ti strapperemo i denti uno per uno. »
Non riuscii a rispondere. Stavo urlando: sapevo che sarei morto, e sapevo che non
sarebbe successo in modo né pulito né rapido.
12.
Passò una settimana. Certi giorni entravano nella nostra cella tre volte, altri due,
ma c'erano dei giorni in cui venivano anche sei o sette volte. Sentivamo i soldati
andare avanti e indietro di continuo, o per fare il bucato o semplicemente per
bighellonare.
Ci nutrivano in modo irregolare. A volte ci portavano il secchio all'ora di
colazione, a volte nel tardo pomeriggio, a volte al tramonto. I pasti consistevano
sempre di zuppa di riso o riso bollito, una sbobba nauseante piena di fango e
sporca. Ci dicevano sempre che eravamo fortunati a poter mangiare. Una volta ci
dettero ossi già masticati da altri. Li divorammo affamati.
Dovevano aver visto uno di quei film carcerari in cui i prigionieri vengono
indottrinati per radio, perché ogni mattina all'alba accendevano un apparecchio
che blaterava alle nostre finestre.
Era come avere in cella un altoparlante che sputava propaganda, interrotta di tanto
in tanto da qualche parola inglese tipo Bush o America. Seguivano le preghiere,
quindi la propaganda riprendeva. Si fermava soltanto al tramonto, ci faceva
impazzire.
Tutte le notti c'erano bombardamenti. Si sentivano sempre partire dalla città colpi
sporadici di contraerea: una batteria era sul nostro tetto, che tremava per i colpi
mentre i mitraglieri litigavano e gridavano. Non sembrarono mai capire che,
quando lo senti, un aereo è già fuori tiro.
Alcune notti dopo, decidemmo che avremmo cercato di stabilire un contatto con
quelli delle altre celle. Sapevamo che il tale dentro la cella accanto si chiamava
David ed era americano. Non eravamo certi di Russell. Decidemmo di avviare un
contatto. Se fossimo stati sorpresi, rischiavamo un pestaggio o peggio ancora, ma
ne valeva la pena. Se loro fossero stati rilasciati o fossero riusciti a fuggire,
avrebbero potuto riferire i nostri nomi.
Quando le guardie smontavano, come ultima cosa chiudevano il cancello
principale del corridoio e uscivano in cortile. In quel momento mi avvicinai alla
porta e chiamai aiuto. Se avesse risposto una guardia, avrei solo detto che uno di
noi stava male e aveva bisogno di cura.
Nessuna risposta.
Chiamai: « David! David! »
Ci furono dei fruscii, poi: « Che cosa? Che cosa? »
« Da quanto tempo sei qui? »
« Da qualche giorno. »
Disse che lui e un'altra conducente, una donna, avevano sconfinato e gli avevano
sparato addosso. Lui era stato ferito all'addome, ma non aveva idea di cosa fosse
successo alla donna.
«Chi c'è laggiù?»
« Un aviatore dei marines di nome Russell. »
«Russell! Russell!»
Lui rispose e ci scambiammo i nomi. , - . , « Cosa hai saputo? » gli chiesi.
Russell Sanborn era stato abbattuto da un missile contraereo mentre volava a
tremila metri sopra il Kuwait. Era in prigione solo da un paio di giorni.
Concludemmo che non c'erano altri prigionieri e prendemmo accordi per cercare
di parlarci ancora.
Baghdad veniva ancora attaccata tutte le notti. Se una bomba cadeva troppo
vicino o qualcuno perdeva un amico o un familiare, le guardie venivano da noi e
si accertavano che lo sapessimo.
Nei cessi cominciarono a mollarci pedate molto pesanti. Facemmo un patto per
cui, se lo avessero fatto quando eravamo tutti e tre insieme, non lo avremmo
tollerato.
Una notte, durante un bombardamento, un colpo esplose vicino alla prigione.
Dall'inizio, avevamo stabilito che, se mai nella cella si fosse aperto un varco
abbastanza grande per passarci, lo avremmo fatto. Con le bombe che cadevano
così vicino, se non ci muovevamo avremmo comunque finito per restare uccisi... e
per di più dalle nostre bombe.
Quella notte ci furono molti feriti. Sentivamo le grida e i gemiti, le onde d'urto e
tutte le finestre della zona che tremavano.
La città di Ali Babà se la stava vedendo davvero brutta. Qualcuno urlò vicino al
cancello che dava sul cortile esterno; seguì il rumore di un cancello che si apriva.
Potevamo immaginare quello che sarebbe successo. Ovviamente arrivarono le
guardie e dettero una battuta a David e Russell.
Quindi vennero nella nostra cella due tizi che facevano ondeggiare le loro
lampade ad acetilene e urlavano. Indossavano gli elmetti e i cinturoni, avevano le
armi a tracolla e degli sfollagente.
Ci alzammo in piedi, sapendo che con quegli arnesi avrebbero potuto ucciderci:
basta un colpo ben assestato in testa. Nei film, l'eroe viene picchiato fino
all'incoscienza e poi, dopo pochi minuti, rinviene e va a salvare il mondo; ma
nella realtà, se alzi un braccio per proteggerti, te lo spezzano. Qualcosa nei nostri
occhi doveva aver fatto capire loro che eravamo pronti a combattere. Si
fermarono e ci fissarono, noi li fissammo e loro indietreggiarono fino alla porta.
Rimasero sulla soglia, urlando e fingendo di caricare le armi, poi fecero
retromarcia e si sbatterono la porta alle spalle. Non potevamo crederci. Saremmo
scoppiati a ridere, se non avessimo sentito i gemiti e i mugugni degli altri
prigionieri lungo il corridoio.
La stessa scena si verificò un'altra volta, anche se in quell'occasione a scatenare il
tutto non fu un bombardamento, ma un americano. Sembrava che avessero un
desiderio incredibile di comunicare con i loro connazionali, anche se farlo gli
procurava qualche bastonata. Adesso gli americani nella nostra palazzina
sapevano che ce n'erano altri e andarono completamente fuori di testa.
David gridò: « Ucciderei qualcuno per un Burger King ».
Una guardia che per caso si trovava nel lavatoio lo sentì e pochi minuti dopo i
carcerieri entrarono. Ma fu Russell che le prese, non David. Probabilmente si
sbagliarono perché la sua cella era più vicina ai bagni. Russell si buscò una
pestata coi fiocchi e fu trascinato in una cella di punizione, poi ritornarono e
dettero un po' di sberle a David; infine arrivarono da noi.
Erano in tre, con gli elmetti e i manganelli. Li salutammo con uno sguardo che
diceva: « Su, venite avanti ».
Indietreggiarono urlando: « Vi divideremo ». La minaccia era più orribile di
qualunque pestaggio.
Miracolosamente non successe nulla e concludemmo che quelle guardie non
avevano riferito l'incidente nel timore che emergesse la loro mancanza di
coraggio.
Diventammo fenomeni da baraccone. Le guardie portavano dentro amici e
dignitari locali e battevano i piedi mostrando la loro autorità, caricando le armi e
puntandole. Un giorno arrivò un bastardo grosso e grasso armato di pistola
Makharov. La caricò, la sollevò, la puntò contro Dinger e premette il grilletto. Il
cane battè sulla camera di sparo vuota. Le guardie impazzirono e il pallone
gonfiato cominciò a ridere; tutti i suoi amici cominciarono a ridere e ridemmo
anche noi. Poi Dinger in qualche modo riuscì a volgere la situazione a proprio
vantaggio facendosi dare una sigaretta che gli valse la giornata.
Continuammo a effettuare ogni pomeriggio i nostri rilevamenti sul terreno con la
carta geografica, cercando di memorizzare ogni particolare, in modo che, quando
fossimo fuggiti e ci fossimo allontanati dalla zona abitata, avremmo avuto
qualche possibilità di stabilire la nostra posizione. Credo che alla fine eravamo
diventati così bravi che alla vista del primo segnale stradale avremmo saputo dove
ci trovavamo.
Lo studio delle carte occupava molto tempo, ma nei momenti di ozio stavamo lì
seduti a chiacchierare. Ripetei un sacco di volte la storia della mia vita, finché
tutti conobbero Peckham e le mie tre ex mogli quasi quanto me. Stan parlava del
periodo passato in Rhodesia con la sua famiglia. Avevano asini cui dipingevano
gli zoccoli a colori vivaci. Ci raccontò una storia particolarmente carina. Un
giorno vide arrivare una mandria di elefanti che si misero a mangiare le mele
autunnali di un frutteto. I frutti erano così vecchi che avevano cominciato a
fermentare e non passò molto che gli elefanti si accasciarono completamente
sbronzi.
Mentre smaltivano la sbornia dormendo, comparve un gruppo di scimmie che si
mangiarono le mele superstiti. Dopo il banchetto si arrampicarono sugli alberi per
riposare e in breve furono sbronze anche loro. Una scimmia lo era a tal punto che
cadde dal ramo trascinandone con sé altre due. Atterrarono sulla testa di un
elefante ubriaco, che rinvenne di colpo e partì alla carica.
Un'altra storia era molto più fosca. I genitori di Stan avevano un giovane
domestico che viveva con la sua famiglia in un piccolo bungalow nella proprietà.
Una notte, un gruppo di ribelli lo rapì e lo uccise perché lavorava per l'uomo
bianco. Riportarono il corpo al bungalow e lo lasciarono sui gradini a mo' di
ammonimento per il resto della famiglia. L'ammonimento fu preso sul serio. Poco
dopo, Stan si arruolò nell'esercito, entrando nella forza di reazione rapida. Quando
fu dichiarata l'indipendenza, Stan lasciò quella terra disperata.
Cercammo di educare Stan all'ascolto della migliore musica punk. Ci vollero tre
giorni per ricordare tutte le parole della canzone dei Jam Down in thè Tube
Station at Midnight, e poi tentammo di insegnargliela. Si arrese in fretta. «Non
capisco tutte queste mode da inglesi», si lamentò. «Voi ragazzi non ne sapete
niente di Rolf Harris? »
Povero Stan. Aveva la mania di conservare il cibo: anche se aveva fame, cercava
di metterlo via per un momento peggiore. Si ingegnava al massimo per
nasconderlo alle guardie, e poi al mattino quando ci svegliavamo lo
convincevamo regolarmente a dividerlo con noi. Dopo tutto, perché esistono gli
amici?
Passavamo il tempo anche facendo esercizio fisico e curandoci le ferite. Ero
molto preoccupato per il pessimo stato dei miei denti. Le guardie sputavano quasi
sempre dentro il nostro cibo e io mi immaginavo terribili batteri iracheni che
attaccavano i miei denti rotti e li facevano marcire, facendo poi cadere tutti gli
altri come tessere del domino.
Tenevamo il conto dei giorni, e il 24 mi sentii particolarmente di merda. Non
potevo fare a meno di pensare a come avrei passato la giornata se fossi stato in
Inghilterra. Katie sarebbe stata con noi o le avrei soltanto telefonato per farle gli
auguri di buon compleanno?
Verso fine mese, il maggiore cominciò a farsi vedere più spesso, solitamente
prima del tramonto. Ci parlava molto di quanto era bello essere iracheni dopo la
rivoluzione. C'era un sistema sanitario efficientissimo, spiegò, e tutti, quando si
ritiravano dal lavoro, avevano una bella pensione. Inoltre Saddam forniva
l'istruzione gratuita a tutti fino al livello universitario, anche se questo significava
andare a studiare all'estero.
« I nostri bambini a scuola leggono Shakespeare », disse una volta mostrandoci
una copia dell'Amleto. « Ieri sera, mentre tornavo a casa, è caduta una bomba
appena dietro di me. Essere o non essere... è il volere di Allah, no?»
Nessuno di noi aprì bocca, e dopo un breve silenzio lui mormorò: « Tutto
sommato, qui siete stati trattati bene ».
Fu l'indizio decisivo che la guerra stava per finire. Non gli riferimmo ciò che le
sue guardie facevano quando lui voltava le spalle: avrebbe solo peggiorato la
situazione.
«Ricordatevi solo che io non c'entro niente con quanto vi è accaduto prima»,
ribadì. Doveva aver capito che la guerra stava volgendo a loro sfavore e si stava
parando il culo.
All'alba del 3 marzo, si aprì il cancello esterno del cortile della prigione
principale. Udimmo un tintinnio di molte chiavi e delle grida. La cella di David fu
aperta, e ci sforzammo tutti di origliare.
Sentimmo le parole: «Vai a casa».
Ci guardammo l'un l'altro, e Stan disse: « Cazzo, ragazzi, questa è una bella
notizia! »
La nostra porta si spalancò e comparve sulla soglia una guardia con una
lavagnetta in mano. « Stan, Dinger. Adesso andate a casa. Aspettate qui. »
Andy, niente. Fu uno dei peggiori momenti della mia vita: le nostre paure erano
state confermate. Avrebbero trattenuto alcuni ostaggi.
Mi voltai verso Dinger e gli dissi: « Se arrivi a casa, per favore, ti raccomando di
parlare con Jilly ».
Prima di partire, Dinger e Stan mi strinsero la mano, dicendomi un inutile: « Non
ti preoccupare ».
Non ti preoccupare? Ma se stavo sbattendo le braccia come ali per volare via!
Quella notte capitò qualcosa di strano a Joseph Small. Ero sdraiato sul pavimento
quando sentii che qualcuno entrava nella sua cella. Ci furono dei mormorii e poi,
circa un minuto dopo, la porta si richiuse e i rumori svanirono. Al tramonto le
guardie ci lasciarono soli: cominciammo a parlare, e io chiesi a Small cosa gli era
successo.
« E' entrato nella mia cella un soldato iracheno », spiegò. « Era in mimetica,
piuttosto male in arnese. Aveva la barba ispida, il cinturone, l'elmetto e gli anfibi
sdruciti. E' entrato, mi ha guardato, mi ha fatto il saluto militare e se n'è andato.
Strano, Andy, cazzo, strano. »
Riuscimmo solo a pensare che si fosse ritirato dal Kuwait e per qualche strana
ragione desiderasse vedere un prigioniero.
Passammo la mezz'ora seguente a cercare di capire come mai se ne fossero andati
già due gruppi e noi no, ma non arrivammo molto lontano. Per la seconda notte
consecutiva non dormii: la precedente perché ero depresso, e ora causa
l'eccitazione con cui aspettavo la mattina. ' '
13.
14.
EPILOGO.