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ANDY MCNAB

PATTUGLIA BRAVO TWO ZERO

Titolo originale:Bravo Two Zero.


Traduzione di Isabella Bolech Russo.

Copyright 1993 by Andy McNab.


Prima edizione TEADUE giugno 1999.

«Un libro di guerra destinato a diventare un classico.


Il miglior resoconto mai scritto sulle forze speciali in azione.»
SUNDAY TIMES.

Iraq, gennaio 1991. Durante la guerra del Golfo, una pattuglia composta da otto
uomini dello Special Air Service - il reparto d'elite dell'esercito britannico, l'unità
d'assalto più temuta al mondo - viene trasportata in elicottero dietro le linee
irachene, in pieno deserto. Il suo nome in codice: Bravo Two Zero; la sua
missione: tagliare alcune linee telefoniche e, soprattutto, distruggere le rampe di
lancio mobili degli Scud di Saddam Hussein...

Cronaca fedele di un fatto d'armi tra i più drammatici della storia recente, questo
libro descrive minuto per minuto, con la forza e la semplicità del vero, senza
retorica e senza finzioni, le imprese, le emozioni, le paure, il coraggio sovrumano
e le inimmaginabili sofferenze di un gruppo di uomini addestrati a compiere
l'impossibile.
Andy McNab, pseudonimo dietro il quale l'autore si nasconde per motivi di
sicurezza, dal 1984 al 1993 ha fatto parte del SAS e durante la guerra del Golfo
era al comando di Bravo Two Zero. Alla sua esperienza nel SAS ha dedicato
anche Azione immediata, già pubblicato dalla TEA. Successivamente è passato
alla narrativa con Controllo a distanza (già in TEA) e Crisi quattro (Longanesi).

Nota per questa versione elettronica: alla fine del testo originale sono presenti
alcune carte geografiche che aiutano a rendersi conto della collocazione dei
luoghi di cui si parla in questo libro.
All'interno del testo originale, poi, si trovano anche degli schemi che descrivono
alcuni edifici (o parti di essi)... naturalmente, qui non troverete né le cartine, né gli
schemi! :-))

Pattuglia Bravo Two Zero.

Ai tre che non sono tornati.


1.

POCHE ore dopo che le truppe e i blindati iracheni avevano varcato il confine con
il Kuwait - alle 02.00 ora locale del 2 agosto 1990 - il Reggimento cominciò i
preparativi per effettuare operazioni nel deserto.
In quanto membri della squadra antiterrorismo di stanza a Hereford, il mio gruppo
e io non eravamo coinvolti. Restammo a guardare con occhi un po' gelosi i
ragazzi della prima squadra che prendevano il loro equipaggiamento da deserto e
partivano.
Il nostro turno di nove mesi stava per terminare e aspettavamo il cambio con
ansia; ma con il passare delle settimane cominciarono a circolare voci di un
rinvio, se non addirittura di un annullamento dell'operazione. Mangiai il tacchino
natalizio con rabbia e preoccupazione. Non volevo perdere quell'opportunità.
Poi, il 10 gennaio 1991, a metà dello squadrone fu dato un preavviso di tre giorni
prima della partenza per l'Arabia Saudita.
Con nostro grande sollievo, il gruppo cui appartenevo era compreso tra i prescelti.
Ci demmo un gran daffare a preparare l'equipaggiamento, a provare le armi e a
correre in città per comprarci nuove scarpe da deserto e ogni tipo di creme solari a
fattore protettivo 20 « schermo totale » per il naso.
Dovevamo partire nelle prime ore di domenica mattina. Passai la notte in città con
Jilly, la mia ragazza, ma lei era troppo turbata per divertirsi. Fu una serata di falsa
allegria, dominata dal nervosismo di entrambi.
«Andiamo a fare una passeggiata?» le proposi quando arrivammo a casa,
sperando di allentare la tensione della serata.
Facemmo qualche giro dell'isolato, e quando rientrammo a casa accesi la
televisione. C'era Apocalypse Now. Non eravamo dell'umore adatto per
chiacchierare, così ci sedemmo a guardarlo. Due ore di carneficina e mutilazioni
non erano esattamente quanto di più opportuno da mostrare a Jilly. Scoppiò in
lacrime.
Lei stava sempre bene, finché non era consapevole dei rischi che Correvo.
Conosceva molto poco del mio lavoro e non aveva mai fatto molte domande...
perché, mi spiegava, non voleva sapere le risposte.
«Ah, parti... e quando ritorni?» era in sostanza quello che si limitava regolarmente
a chiedermi. Ma adesso era diverso. Per una Volta, sapeva dove stavo andando.
Nel buio dell'auto, mentre mi accompagnava alla base, le suggerii: «Perché non ti
prendi quel cane che volevi? Potrebbe tenerti compagnia».
Avevo le migliori intenzioni del mondo, ma lei scoppiò di nuovo a piangere. Le
chiesi di farmi scendere a una certa distanza dal cancello principale.
«Ora continuo a piedi, bella», le dissi con un sorriso teso.
« Ho bisogno di fare un po' di moto. »
Né lei né io amavamo gli addii prolungati.
La prima cosa che colpisce quando si entra nelle linee dello squadrone (l'area
degli alloggi del campo) è il rumore: veicoli che fanno manovra, uomini che
urlano per farsi restituire pezzi di equipaggiamento, e da tutti gli alloggi degli
scapoli un tipo di musica diverso... ma sempre al massimo del volume. Questa
volta la musica era ancora più forte perché molti di noi stavano per partire.
Incontrai Dinger, Mark il Kiwi (cioè il neozelandese) e Stan, gli altri membri del
mio gruppo. Alcuni sfortunati che non sarebbero partiti per il Golfo entravano
comunque negli alloggi e si univano agli sfottò e ai piccoli scherzi.
Caricammo sulle macchine il nostro equipaggiamento e ci dirigemmo verso il
limite della base, dove i mezzi di trasporto ci aspettavano per trasferirci a Brize
Norton. Come al solito, mi portai sull'aereo il sacco a pelo, oltre al mio walkman,
al necessario per lavarmi e radermi e al fornellino per gli infusi. Dinger portò
duecento sigarette Benson & Hedges. Se ci fossimo trovati impastoiati nel bel
mezzo del nulla o avessimo dovuto trascinarci su una pista deserta per lunghi,
interminabili giorni, non sarebbe stata la prima volta.
Volammo su un VC-10 della RAF. Fumai in modo passivo le venti e più sigarette
che Dinger si fece fuori durante le sette ore di volo, pittandogli dietro tutto il
tempo; ma, come al solito, le mie lamentele non sortirono effetto. Bisogna dire
che lui era sempre una compagnia eccellente, nonostante quella disgustosa
abitudine. Originariamente inquadrato nel Reggimento dei paracadutisti, Dinger
era un veterano delle Falkland. Incarnava bene il tipo: rude e tosto, con una voce
che metteva paura e due occhi che ne mettevano ancora di più. Ma dietro la sua
faccia da hooligan c'era un cervello acuto e analitico. Dinger era in grado di
spazzare via il cruciverba del Daily Telegraph in un baleno... con mio grande
rammarico. Da civile, era anche un eccellente giocatore di cricket e di rugby,
mentre a ballare faceva assolutamente schifo. Dinger ballava come camminava
Virgil Tracy. Quando però si trattava di gestire una crisi, era tetragono e
imperturbabile.

Quando atterrammo a Riyad fummo salutati dal clima piacevole tipico di quel
periodo dell'anno in Medio Oriente: ma non ci fu tempo per prendere il sole.
Sull'asfalto ci stavano aspettando dei camion coperti, e fummo dirottati in una
base isolata dalle altre truppe della coalizione.
Il gruppo che ci aveva preceduto aveva fatto le cose in modo da saper rispondere
alle prime tre domande che si pongono sempre quando si arriva in un posto
nuovo: dove dormo, dove mangio e dov'è il cesso.
Scoprimmo che l'alloggio riservato al nostro mezzo squadrone era un hangar
lungo circa cento metri e largo cinquanta. All'interno erano ammassati quaranta
uomini e ogni tipo di provviste ed equipaggiamento, inclusi i veicoli, le armi e le
munizioni. C'erano cataste di materiale ovunque: di tutto, dal repellente per gli
insetti alle razioni di cibo, fino ai tracciatori laser per i bersagli e alle casse di
esplosivo ad alto potenziale. Era solo questione di districarsi fra tutto e cercare di
crearsi il proprio piccolo mondo quanto meglio possibile. Il mio era costituito da
parecchie grandi casse contenenti motori fuoribordo, sistemate in modo da
garantirmi uno spazio a parte che ricoprii con una tela cerata per ripararmi dalle
potenti luci sopra la mia testa.
C'erano varie isole separate di attività, ognuna con il proprio rumore specifico:
radio sintonizzate sul Servizio Internazionale della BBC, walkman con gli
auricolari da cui rimbombavano musica folk, rap e heavy metal. Si sentiva un
odore pungente di gasolio, benzina e gas di scarico. I veicoli andavano avanti e
indietro tutto il tempo, mentre i ragazzi uscivano per andare a esplorare altre parti
della base e vedere cosa riuscivano ad arraffare. E naturalmente, mentre erano
assenti, il loro equipaggiamento veniva a sua volta rovistato da altri. « Chi dorme,
non piglia pesci »: è così che funziona. Il possesso equivale alla proprietà. Lascia
il tuo spazio incustodito troppo a lungo e, quando tornerai, scoprirai che ti manca
una sedia... a volte perfino il letto!
Nell'hangar le tisane si sprecavano. Stan aveva portato un pacchetto di tè
all'arancia e Dinger e io, dopo avere vagato un po', andammo a sederci sul suo
letto con le nostre tazze vuote.
« Tè, ragazzo », ordinò Dinger porgendogli la tazza.
«Sì, buana», rispose Stan.
Nato in Sudafrica da madre svedese e padre scozzese, Stan si era trasferito in
Rhodesia poco prima della dichiarazione unilaterale d'indipendenza dalla Gran
Bretagna. Restò subito coinvolto nella guerra che ne seguì, e quando più tardi la
sua famiglia si trasferì in Australia si arruolò nell'esercito. Superò gli esami di
ammissione alla facoltà di medicina, ma amava troppo la vita all'aperto, e
abbandonò quasi subito la facoltà. Il suo sogno era andare in Gran Bretagna e
arruolarsi nel Reggimento, quindi passò un anno nel Galles a prepararsi per la
selezione. Naturalmente fu tra i prescelti.
Qualunque genere di attività fisica era una bazzecola per Stan, sesso compreso.
Era alto un metro e novanta, di corporatura imponente e di bell'aspetto: insomma,
le faceva attizzare tutte. Jilly mi disse che a Hereford il suo soprannome era
Dottor Sesso, e che quel nomignolo compariva piuttosto di frequente sulle pareti
dei bagni delle donne. Per sua stessa ammissione, la donna ideale di Stan era una
che non mangiasse troppo - per cui portarla fuori non costasse granché - e avesse
auto e casa proprie, cioè fosse un tipo indipendente che non gli si sarebbe
attaccata troppo. In qualunque parte del mondo si trovasse, le donne se lo
mangiavano con gli occhi e sbavavano per lui. Nella veste di seduttore era
affascinante e soave come Roger Moore nella parte di James Bond.
A parte il successo con le donne, la cosa più notevole e sorprendente di Stan era il
suo senso dell'abbigliamento: ne era del tutto privo. Fino a quando lo squadrone
non aveva messo le mani su di lui, andava sempre in giro con sahariane di acrilico
antipiega e pantaloni che non gli arrivavano alla caviglia. Una volta si presentò a
una festa elegante con una giacca a quadri che debordava da tutte le parti e
pantaloni modello acqua alta.
Aveva viaggiato molto, e ovviamente si era fatto molte amicizie femminili. Gli
arrivavano proposte di matrimonio da tutte le parti del mondo, ma le lettere non
ricevevano mai risposta. Stan non svuotava nemmeno la cassetta postale. Per
essere uno di trentacinque anni, aveva un carattere molto spensierato, oltre che
amichevole: non c'era niente che non avrebbe preso alla leggera. Se non fosse
stato nel Reggimento, avrebbe fatto lo yuppie o la spia... anche se naturalmente in
completo di acrilico.
Per insaporire le razioni, la maggior parte dei ragazzi si porta senape o pasta al
curry, perciò dalle zone in cui si stavano preparando pasti supplementari
giungevano penetranti aromi speziati.
Io feci un giro e assaggiai qua e là. Tutti si portano sempre dietro un cucchiaio da
viaggio. La regola non scritta è che chi ha la lattina o sta cucinando ha il diritto di
assaggiare per primo, e divide il resto con gli altri. Si immerge il proprio
cucchiaio da viaggio in verticale e ci si serve. Se il cucchiaio è grosso, si può
prendere di più dalla lattina, ma se è troppo grosso - per esempio un cucchiaio di
legno con il manico rotto - non si riesce nemmeno a infilarlo. Insomma, la caccia
al cucchiaio da viaggio di dimensioni ideali è sempre aperta.
C'era un casino bestiale. Se non ti piaceva la musica che qualcuno stava
ascoltando, lui assente gli sostituivi le pile con dei sassi. Quando aprì lo zaino,
Mark scoprì di essersi portato da Hereford una pietra di dieci chili. Sospettando a
torto che fossi stato io, mi sostituì il dentifricio con la crema solare Uvistat.
Quando feci per usarlo mi incazzai.
Avevo incontrato Mark per la prima volta a Brisbane nel 1989, allorché alcuni di
noi furono ospitati dai SAS (Special Air Service) australiani. Giocò contro di noi
in una partita di rugby e fu proprio l'uomo del match, con quelle gambe
muscolose che gli permisero di segnare tutte le mete della sua squadra. Era la
prima volta che perdevamo, e lo odiai: odiai quel bastardo in tutto il suo metro e
sessantasei. L'anno seguente ci rincontrammo. Stava passando la selezione, e il
giorno che lo vidi era appena ritornato alla base dopo una corsa di quindici
chilometri con tutto l'equipaggiamento.
« Metti una buona parola per me », ridacchiò quando mi riconobbe. « Vi sarebbe
molto utile un cazzutissimo buon mediano di mischia! »
Mark superò la selezione e si unì al nostro squadrone appena prima di partire per
il Golfo.
« E' una cazzutissima goduria essere qui, amico », dichiarò entrando nella mia
stanza per stringermi la mano.
Mi ero scordato che esisteva un solo aggettivo nel vocabolario del Kiwi, e
cominciava per « e ».
Nel nostro hangar l'atmosfera era gioviale e movimentata. Il Reggimento non era
più stato a ranghi completi dai tempi della seconda guerra mondiale. Era
meraviglioso essere così in tanti e tutti assieme. Generalmente operiamo a piccoli
gruppi e in condizioni di massima segretezza: qui invece c'era la possibilità di
andare allo scoperto in gran numero. Non avevamo ancora ricevuto istruzioni, ma
in cuor nostro sapevamo che la guerra avrebbe fornito a ciascuno di noi una
grande occasione di fare del « lavoro vero », cioè le operazioni militari classiche
dei SAS dietro le linee nemiche. Era questo lo scopo per cui inizialmente David
Stirling aveva creato il Reggimento, e adesso, a quasi cinquant'anni di distanza, ci
ritrovavamo al punto di partenza. A quanto intuivo, in Iraq le maggiori difficoltà
probabilmente sarebbero state determinate dal nemico e dalla logistica:
esaurimento delle scorte di munizioni e di acqua. Mi sentivo come un muratore
che aveva passato la vita a costruire bungalow, e adesso qualcuno mi dava la
possibilità di costruire un grattacielo. Speravo solo che la guerra non finisse prima
che riuscissi a posare il mio primo mattone.

Non avevamo ancora la più pallida idea di quello che avremmo dovuto fare, così
passammo i giorni successivi a prepararci per tutto e niente, dagli attacchi contro
bersagli alla costituzione di posti di osservazione. E' sempre una gran
soddisfazione fare le cose più emozionanti - arrampicate, ascensioni in cordata,
salti negli edifici -, ma essenzialmente essere nelle Forze Speciali significa
meticolosità e precisione. Il vero motto dei SAS non dovrebbe essere «Chi osa
vince», ma «Controlla e verifica, controlla e verifica ».
Alcuni di noi avevano bisogno di rinfrescare a spron battuto le proprie
competenze in fatto di esplosivi, movimento con i veicoli e lettura delle carte in
un deserto. Ci portammo dietro anche le armi pesanti. Alcune di esse, come la
mitragliatrice pesante da 12.7 mm, non le usavo da due anni. Seguimmo corsi di
aggiornamento tenuti da chiunque fosse il più esperto in un particolare settore;
poteva essere il sergente maggiore come l'ultimo arrivato dello squadrone.
C'erano gli allarmi Scud, quindi tutti erano comprensibilmente ansiosi di
impadronirsi delle nuove tecniche NBC (nuclear, biological, chemical, «nucleari,
biologiche, chimiche») che non avevano più utilizzato dai tempi in cui erano nelle
loro vecchie unità. L'unico problema era che Pete, l'istruttore proveniente dalle
nostre truppe di montagna, aveva un accento di Newcastle più impenetrabile della
nebbia sul Tyne, e parlava a raffica senza mai mettere la sicura alle parole.
Sembrava Gazza Gascoigne nei suoi momenti peggiori.
Cercammo con grande sforzo di capire di cosa stesse parlando, ma dopo un quarto
d'ora la fatica ci vinse. Qualcuno gli fece una domanda semplicissima, e lui finì
per mettersi a parlare ancora più in fretta. Gli furono poste altre domande, e si
innestò un circolo vizioso. Alla fine decidemmo tra noi che, se il kit doveva
funzionare, avrebbe funzionato. Non ci preoccupammo di imparare le tecniche per
procurarci acqua e cibo che Pete stava spiegando e dimostrando, perché così non
avremmo poi dovuto imparare le tecniche per pisciare e cagare; era roba troppo
complicata per gente come noi. Nel complesso, concluse Pete, mentre la riunione
si scioglieva nel caos, non era stata la sua giornata più costruttiva; o, almeno,
questo era il senso delle sue parole. ,

Quando ci distribuirono gli occhiali da sole da aviatore ci piazzammo fuori


dell'hangar ad aspettare che passasse qualcuno per inforcarli da bellimbusti, come
facevano nelle pubblicità alla TV.
Dovemmo prendere le pillole contro i gas nervini, ma sospendemmo l'assunzione
non appena incominciò a circolare la voce che rendevano impotenti.
« E' falso », ci rassicurò il sergente maggiore un paio di giorni dopo. « Io mi sono
appena fatto una bella sega. »
Guardavamo il telegiornale della CNN e discutevamo dei diversi scenari possibili.
Immaginammo che i parametri delle nostre operazioni sarebbero stati elastici,
anche se questo non significava che avremmo potuto andarcene semplicemente a
spasso a far saltare le linee elettriche o qualsiasi cosa ci facesse girare i coglioni.
Noi siamo truppe strategiche, quindi ciò che facciamo al di là delle linee nemiche
può avere conseguenze importanti. Se, per esempio, vedevamo una centrale
petrolifera e la facevamo saltare solo per il gusto perverso di farlo, avremmo
anche potuto far entrare in guerra la Giordania: poteva essere un oleodotto da
Baghdad alla Giordania che gli alleati avevano concordato di non distruggere, in
modo che la Giordania continuasse ad avere il suo petrolio. Quindi, se avessimo
individuato un bersaglio appetitoso come quello, prima di occuparcene avremmo
dovuto ottenere il permesso. Così facendo avremmo provocato il massimo danno
possibile alla macchina da guerra irachena, senza però compromettere nessuna
valutazione politica o strategica.
Ci chiedevamo se, in caso di cattura, gli iracheni ci avrebbero uccisi. Se fosse
successo, sarebbe stato un vero peccato. La cosa più importante, però, era che lo
facessero in modo rapido, altrimenti avremmo dovuto cercare di accelerare i
tempi.
Ce lo avrebbero ficcato nel culo? I maschi arabi sono molto affettuosi fra loro, si
tengono per mano e cose simili. Naturalmente è solo un'usanza, non significa
necessariamente che siano omosessuali, ma la domanda era legittima. Io non ero
preoccupato di quella prospettiva, perché tanto, se mi fosse successo, non l'avrei
raccontato in giro. L'unica eventualità che mi faceva sudare era che mi tagliassero
le palle. Quello proprio sarebbe stato brutto. Se i beduini mi avessero spogliato e
avessero affilato i coltelli davanti a me, avrei fatto qualunque cosa per provocarli
e indurli a farmi secco.
Non ho mai avuto paura di morire. Il mio atteggiamento verso il lavoro che ci si
aspetta da me nel Reggimento è sempre stato pensare che a fine mese prendi i
soldi, e in cambio sei uno strumento da usare, lo sei fino in fondo. Il Reggimento
perde uomini, quindi questa eventualità viene calcolata. Puoi stipulare
un'assicurazione, anche se all'epoca solo la Equity & Law aveva il coraggio di
assicurare i SAS senza aumentare il premio. Si scrivono le lettere da consegnare
ai parenti prossimi, se ti fanno fuori. Io ne scrissi quattro e le affidai a un
compagno di nome Eno. Ce n'era una per i miei genitori che diceva: « Grazie per
esservi presi cura di me, per voi non deve essere stato facile, ma ho passato
un'infanzia abbastanza bella. Non preoccupatevi se sono morto, succede».
Un'altra era per Jilly: «Non stare troppo a piangere, prendi i soldi e spassatela, p.s.
Cinquecento sterline sono per quelli che finiscono dietro le sbarre per via dei
prossimi casini dello squadrone. P.p.s. Ti amo ». Ce n'era una terza, per la piccola
Kate, che Eno le avrebbe dato quando fosse stata più grande, e diceva: « Ti ho
sempre voluto bene, e sempre te ne vorrò ». Infine la lettera per Eno stesso, che
avrebbe dovuto fungere da mio esecutore testamentario; diceva: « Non fregarmi,
segaiolo, altrimenti tornerò indietro a tirarti i piedi ».

Una sera, verso le 19.00, io e Vince, un altro comandante di squadra, fummo


chiamati al tavolo dell'ufficiale comandante dello squadrone. Il comandante stava
bevendo qualcosa con il sergente maggiore dello squadrone.
« Abbiamo una missione per voi », annunciò passandoci una tazza di tè per
ciascuno. «Lavorerete insieme. Andy prenderà il comando. Vince sarà il secondo.
Il briefing è previsto domattina alle 08.00: ci vediamo qui. Informate i vostri
ragazzi. Non ci muoveremo prima di due giorni. »
I miei ragazzi furono piuttosto contenti delle novità. A parte il resto, significavano
smettere di far la coda per i due soli lavandini e cessi disponibili. Sul campo,
l'odore degli abiti o dei corpi puliti può disturbare gli animali selvatici e
compromettere la tua posizione: perciò gli ultimi giorni prima di partire si smette
di lavarsi e ci si assicura che gli abiti indossati siano usati.
I ragazzi si dispersero e io andai a sentire le ultime notizie della CNN. Avevano
lanciato dei missili Scud su Tel Aviv, ferendo almeno ventiquattro civili. Alcuni
missili erano caduti in zone residenziali e, guardando la lunghezza delle vie e i
bambini in pigiama, mi ricordai all'improvviso di Peckham e della mia infanzia.
Quella notte, mentre cercavo di dormire, mi ritrovai a ricordare tutte le mie
vecchie ossessioni e a pensare ai miei genitori e a molte altre cose cui non
pensavo da tempo.

2.

NON ho mai conosciuto la mia vera madre, sebbene abbia sempre immaginato
che, chiunque fosse, per me aveva desiderato il meglio: la borsa della spesa di
plastica in cui mi trovarono quando mi lasciò sui gradini del Guy's Hospital era di
Harrods.
Fin dall'età di due anni sono stato allevato da una coppia della zona sud di Londra
che aveva fatto domanda per adottarmi. Man mano che mi vedevano crescere,
probabilmente hanno rimpianto di essersi presi cura di me. A quindici anni e
mezzo ho lasciato la scuola per andare a lavorare in una ditta di trasporti di
Brixton.
Già nell'ultimo anno di scuola avevo cominciato a bigiare due o tre giorni alla
settimana. Invece di studiare per prendere il diploma, in inverno consegnavo
carbone e in estate bevevo fetidi intrugli nei pub. Lavorando a tempo pieno
guadagnavo otto sterline al giorno, che nel 1975 erano dei bei soldi. Con quaranta
carte in tasca, al venerdì sera eri un drago.
Mio padre aveva fatto il militare nella Sussistenza, e adesso faceva il tassista. Mio
fratello maggiore si era arruolato nei Royal Fusiliers quando io ero piccolo e
aveva prestato servizio per cinque anni, finché non si era sposato. Ricordavo con
eccitazione quando tornava da posti lontanissimi con il marsupio pieno di regali.
La mia infanzia, però, fu normalissima. Non c'era nulla in cui io fossi
particolarmente bravo, e sicuramente non avevo alcun interesse per la carriera
militare. La mia massima ambizione era quella di affittare un appartamento con i
miei amici per fare quello che volevo.
Ho trascorso i primi anni della mia adolescenza a scappare di casa. A volte
andavo in Francia per il week-end con un amico: spedizioni finanziate da lui, che
fregava sul contatore del gas di sua zia. Presto mi misi nei guai con la polizia,
essenzialmente per atti vandalici su treni e macchinette distributrici. Sono stato
processato in diversi tribunali minorili, beccandomi alcune multe che hanno
procurato molto dispiacere ai miei sfortunati genitori.
A sedici anni cambiai lavoro, finendo a servire dietro un banco del McDonald's a
Catford. Tutto andò bene più o meno fino a Natale, quando venni arrestato con
altri due ragazzi al Dulwich Village mentre uscivo da un appartamento che non
era il nostro.
Mi misero in un riformatorio per tre giorni, in attesa di comparire di fronte al
giudice. Odiavo stare rinchiuso e giurai a me stesso che, se me la fossi cavata, non
avrei permesso che accadesse mai più. In cuor mio sapevo di dover fare qualcosa
di veramente decisivo, altrimenti avrei finito col passare il resto della mia vita a
Peckham, a far cazzate e a lasciarmi fregare. L'esercito mi sembrò una buona via
d'uscita. A mio fratello era piaciuto: e allora perché non avrebbe dovuto andare
bene anche a me?
In seguito al processo, gli altri due furono spediti al carcere minorile di Borstal. Io
venni rilasciato su cauzione e il giorno dopo mi presentai all'ufficio di
reclutamento dell'esercito. Mi sottoposero a un semplice test accademico, che
peraltro non superai.
Mi dissero di ritornare il mese seguente e questa volta, dato che era esattamente lo
stesso test, riuscii a superarlo per due miseri punti.
Dissi che volevo diventare pilota di elicotteri, come si fa quando non si vanta
nessun genere di qualifiche e non si ha la più pallida idea di che cosa voglia dire.
« E' assolutamente impossibile che tu diventi pilota di elicotteri », mi spiegò il
sergente selettore. « Comunque, se vuoi, puoi arruolarti nell'aviazione. Potresti
diventare addetto ai rifornimenti degli elicotteri. »
«Benissimo», risposi. «E' il mio mestiere.»
A questo punto ti mandano per tre giorni a un centro di selezione, dove fai altri
test, corri un po' e ti sottopongono a qualche esame medico. Se li superi e hanno
posto, ti permettono di arruolarti nel reggimento o nell'arma che preferisci.
Mi presentai al colloquio finale e l'ufficiale mi disse: « McNab, tu hai più
probabilità di essere incenerito da un fulmine sui due piedi che di diventare un
caporale dell'aviazione. Penso che sia più adatto alla fanteria. Ti arruolerò nei
Royal Green Jackets. E' il mio reggimento».
Non avevo la minima idea di chi fossero e cosa facessero i Royal Green Jackets.
Per quanto ne sapevo, potevano benissimo essere una squadra di football
americano.
Se avessi aspettato ancora tre mesi, fino al compimento dei diciassette anni, avrei
potuto arruolarmi nei Green Jackets come recluta adulta, ma da autentico fesso
volli entrare subito. Arrivai a Shorncliffe, al battaglione dei caporali della fanteria,
nel settembre 1976, e odiai subito quel posto. La baracca era diretta da guardie
reali, e il corso era un'accozzaglia di stronzate e addestramento formale. Non si
potevano portare i jeans e si doveva girare con i capelli rasati a zero. Non ci
davano nemmeno il week-end libero, il che rendeva le visite ai miei vecchi a
Peckham una vera tortura. Una volta mi misi nei guai perché persi la corriera a
Folkestone arrivando in ritardo di dieci minuti.
Shorncliffe era un incubo, ma fu lì che imparai a stare al gioco.
Dovevo: non potevo fare altro. La parata conclusiva era in maggio. Avevo
detestato ogni minuto passato in quel posto, ma avevo anche imparato a sfruttare
il sistema e, chissà come, fui promosso sergente delle reclute e mi aggiudicai la
spada della divisione leggera come soldato più promettente.
Dopo di che passai un periodo al deposito fucilieri di Winchester, dove i giovani
soldati inquadrati in plotoni trascorrevano le ultime sei settimane di
addestramento per imparare le tecniche della divisione leggera. Rispetto a
Shorncliffe ci trattavano molto più da adulti e c'era meno tensione.
Nel luglio 1977 fui mandato al secondo battaglione dei Royal Green Jackets,
all'epoca di stanza a Gibilterra. Per me quello era il massimo che l'esercito potesse
offrire: clima temperato, commilitoni simpatici, donne esotiche e malattie veneree
ancora più esotiche. Sfortunatamente il battaglione rientrò in Gran Bretagna dopo
soli quattro mesi.
Nel dicembre 1977 feci il mio primo giro nell'Irlanda del Nord. Nei primi anni
dell'emergenza nell'Ulster era stato ucciso un così gran numero di giovani soldati
che per andarci bisognava avere compiuto diciott'anni. Benché il battaglione fosse
partito il 6 dicembre, prima di raggiungere gli altri dovetti aspettare il mio
compleanno alla fine del mese.
Doveva esserci un fatto personale tra l'IRA e i novellini, perché ebbi presto il mio
battesimo del fuoco. Un blindato Saracen si era impantanato nella campagna
vicino a Crossmaglen, e il mio compagno e io fummo messi a fargli la sentinella.
Nelle prime ore del mattino, mentre scrutavo i dintorni col cannocchiale a
infrarossi del mio fucile, scorsi due tizi venire verso di noi, costeggiando una
siepe. Si avvicinarono e vidi distintamente che uno dei due portava il fucile. Non
avevamo la radio, per cui non potevamo chiamare soccorsi. Non c'era molto che
io potessi fare se non intimare un alt. I due se la diedero a gambe e noi sparammo
una mezza dozzina di colpi. Sfortunatamente, all'epoca i fucili con mirino a
infrarossi erano pochi, quindi la stessa arma veniva passata da una sentinella
all'altra alla fine di ogni turno di guardia. Il mirino che stavo usando io era stato
tarato per l'occhio di qualcun altro, e solo uno dei miei colpi andò a bersaglio. Ci
fu un inseguimento con i cani, ma non trovarono nulla. Due giorni dopo, però, un
ben noto membro dell'iRA si presentò all'ospedale appena al di là del confine con
un proiettile di calibro 7.62 in una gamba. Era stato il primo contatto per la nostra
compagnia, e tutti erano eccitatissimi. Il mio compagno e io ci sentivamo piccoli
eroi e rivendicammo entrambi la paternità del colpo sparato.
Il resto del tempo che passammo in Manda fu meno impegnativo,, ma più triste. Il
battaglione subì alcune perdite in un assalto a una postazione a Forkhill, e uno dei
ragazzi del mio plotone fu ucciso da una trappola esplosiva nascosta a
Crossmaglen. In seguito morì il nostro colonnello, per l'abbattimento
dell'elicottero Gazelle su cui stava volando. Quindi ritornammo a fare la solita
vitaccia di battaglione a Tidworth, e il solo evento degno di essere ricordato
dell'anno successivo fu che a diciotto anni mi sposai.
L'anno dopo rientrammo a South Armagh. A quel punto ero caporale e
comandavo una pattuglia di quattro uomini. Un sabato notte la nostra compagnia
era di pattuglia nella città di confine di Keady. Come sempre di sabato sera, le
strade erano piene di gente del posto. Andavano sempre con il bus di là dal
confine a Castlebayney, a vedere un po' di cabaret e a giocare a bingo, poi
tornavano e si sbronzavano per tutta la notte. Il mio reparto stava operando nella
zona meridionale della città, nei pressi di un quartiere residenziale. Ci eravamo
portati su una zona incolta e ci trovammo in un avvallamento. Quando
riapparimmo in cima al crinale, scorgemmo una ventina di persone assiepate
attorno a un carro agricolo nel mezzo della strada. Sei tizi con fucili Armalite
stavano per salire sul carro. Li sorprendemmo davanti alla gente, mascherati e
pronti ad agire, mentre agitavano i fucili e i pugni guantati. In seguito scoprimmo
che erano stati trasportati dal sud e il loro piano prevedeva di superare la pattuglia
e attaccarci rapidamente.
Quando intimai l'alt, due di loro stavano scavalcando la staccionata. Quattro erano
ancora sulla strada. Un tizio sul retro del carro puntò il fucile e io lo feci fuori al
primo colpo. Gli altri risposero al fuoco, e ci fu uno scontro serio. Uno di loro si
beccò sette colpi in corpo e finì su una sedia a rotelle. Un altro, che rimase ferito,
era allora agli inizi della sua carriera criminale: si chiamava Dessie O'Hara.
Fui di nuovo il superfìgo del mese, e non solo per l'esercito britannico. Durante lo
scontro a fuoco, uno dei negozianti si era beccato un paio di colpi attraverso la
finestra, e il parabrezza della sua auto era andato in frantumi. Circa un mese più
tardi tornai di pattuglia in quel posto e lui era là, dietro il nuovo bancone, nel
negozio completamente riarredato, con una macchina nuova fiammante
parcheggiata fuori. Aveva un sorriso smagliante che gli andava da un orecchio
all'altro.
Quando tornammo a Tidworth, nell'estate del 1979, ero completamente
innamorato dell'esercito. Per buttarmi fuori ci sarebbero voluti piccone e
piccozza. In settembre fui inserito nel quadro interno dei sottufficiali. Passai con i
massimi voti e quella stessa notte fui promosso caporalmaggiore. Diventai così il
più giovane caporalmaggiore di fanteria dell'epoca, avendo solo diciannove anni.
Nel 1980 seguii un corso per comandanti di sezione. Lo superai con una
menzione d'onore e il mio premio fu un biglietto di sola andata per ritornare a
Tidworth.
La sede della guarnigione del Wiltshire era - e lo è ancora - un posto davvero
deprimente. C'erano otto battaglioni di fanteria, un reggimento carri, uno da
ricognizione, tre pub, una bottega di patatine fritte e un lavasecco. Non c'è da
meravigliarsi che la mia giovane moglie ne fosse esasperata: era una rottura anche
per i soldati. Non eravamo altro che pantofolai un po' nobilitati.
Una domenica fui perfino chiamato a guidare i battitori di galli cedroni, anche
loro soldati, per la battuta di caccia di un generale di brigata. L'incentivo erano
due lattine di birra: e poi si chiedevano come mai ci fosse un ricambio di ragazzi
così inarrestabile!
A settembre mia moglie ne aveva abbastanza. Mi pose un ultimatum: o portarla a
Londra o concederle il divorzio. Io rimasi, lei se ne andò.
Alla fine del 1980 mi rispedirono al deposito fucilieri per due anni, come
caporalmaggiore istruttore. Fu veramente un periodo stupendo. Mi piaceva
insegnare alle reclute, anche se con molte di loro significava ritornare all'abc,
cominciando dalle più elementari norme igieniche, come l'uso dello spazzolino da
denti.
Fu anche alll'incirca in quel periodo che cominciai a sentir parlare dei SAS.
Incontrai Debby, una ex ausiliaria della RAF, e nell'agosto 1982 ci sposammo. Lo
feci perché stavo per essere inviato al battaglione, che in quel momento era di
stanza a Paderborn, in Germania, e non volevamo separarci. Tutti i miei peggiori
timori sulla vita in Germania furono puntualmente confermati. Era uguale a
Tidworth, ma senza la bottega delle patatine fritte. Passavamo più tempo a far
manutenzione ai mezzi che a usarli, con gli uomini che si consumavano le dita
fino all'osso per niente. Prendevamo parte a imponenti esercitazioni in cui non si
sapeva che cosa in realtà stesse succedendo e, dopo un po', non gliene fregava più
niente a nessuno.
Mi sentivo buggerato perché i Green Jackets non erano stati inviati alle Falkland.
Ogni volta che c'era un po' d'azione, mi sembrava che chiamassero in causa i
SAS. Anch'io volevo il mio pezzo di torta: altrimenti, perché mi ero arruolato in
fanteria?
Inoltre, Hereford aveva l'aria di un bel posto, visto che non era una città di
guarnigione. A quel tempo, se vivevi in un posto come Aldershot o Catterick, ti
facevano sentire un cittadino di seconda categoria; come soldato semplice, non
potevi comprare nemmeno un televisore a rate se un ufficiale non firmava la
richiesta per te.
Quattro di noi Green Jackets firmarono per la selezione dell'autunno 1983, e tutti
per lo stesso motivo: lasciare il battaglione. Nei due anni precedenti un paio dei
nostri ce l'avevano fatta.
Uno era un capitano, che con un sotterfugio ci fece programmare una fila di
esercitazioni nel Galles, così potevamo ritornare in Gran Bretagna per addestrarci.
Ci portò personalmente a Brecon Beacons e ci fece fare un sacco di
addestramento sulle colline.
Ma, meglio ancora, ci diede consigli e incoraggiamenti. Devo molto a quell'uomo.
Fummo fortunati a conoscerlo; alcuni reggimenti, specialmente i corpi speciali,
non sono contenti se i loro uomini li lasciano, perché hanno competenze difficili
da rimpiazzare. Non concedono loro tempo libero, o buttano la domanda nel
«Dossier 13 », cioè il cestino della carta straccia. Oppure consentono al loro uomo
di andare, ma lo fanno lavorare fino al venerdì prima di partire.
Nessuno di noi fu ammesso. Io, poco prima della prova di resistenza, fallii la
marcia di trenta chilometri con la cartina muta.
Ero incazzato con me stesso, ma almeno mi incoraggiarono a riprovarci.
Ritornai in Germania e subii tutti gli sberleffi che toccano a chi ha fatto un buco
nell'acqua. Normalmente ti vengono rifilati da froci che non oserebbero mai
provarci. Non mi importava niente.
Ero un giovane ambizioso, e la scelta più facile sarebbe stata quella di restare
nell'ambiente del battaglione e diventare il pesce grosso nello stagno piccolo, ma
avevo perso ogni entusiasmo per la cosa. Mi iscrissi alla selezione invernale del
1984 e mi allenai nel Galles per tutte le vacanze di Natale. A Debby non
importava molto.
La selezione invernale è tremenda. La maggioranza si arrende entro la prima delle
quattro settimane della fase di resistenza, Sono quelli che non si sono preparati
abbastanza o si fanno male.
Alcuni di coloro che si presentano sono autentici duri. Credono che i SAS siano
come James Bond e il loro lavoro sia liberare le ambasciate. Non capiscono che
sei comunque un soldato, e quando scoprono come si svolge la selezione
rimangono scioccati.
L'unico aspetto positivo della selezione invernale è il tempo. I podisti, che in
estate si spostano sul terreno come indemoniati, vengono rallentati dalla neve e
dalla nebbia. Gli uomini immersi fino alla cintola nella neve vanno tutti alla stessa
velocità.
Passai la prova.
Dopo questa prima fase ti inviano a un periodo di addestramento di quattro mesi
che comprende una dura prova nella giungla, in Asia. L'ultimo test importante è il
corso di sopravvivenza al combattimento. Per due settimane ti insegnano le
tecniche di sopravvivenza, dopodiché ti mandano dal dottore, il quale ti infila un
dito nel culo per controllare che tu non abbia dentro qualche barretta di cioccolato
Mars. Poi ti sguinzagliano sulle Black Mountains vestito in uniforme della
seconda guerra mondiale, con pantaloni, camicia, cappotto senza bottoni e
scarponi senza stringhe. I cacciatori erano una compagnia delle Guardie in
elicottero. A ogni guardia veniva dato l'incentivo di due settimane di licenza se
avesse effettuato una cattura.
Andai in fuga per due giorni in compagnia di tre vecchi bacucchi, due piloti della
marina e un capo velivolo della RAF. Bisognava restare in gruppo, e non mi
sarebbe potuto capitare un trio peggiore di pesi morti. A loro non importava
niente, il corso era solo una rottura di palle di tre settimane, dopo di che sarebbero
tornati a casa con le loro medaglie a bersi il tè. Ma se i candidati ai SAS non
superano il corso di sopravvivenza non vengono premiati.
Stavamo aspettando in un particolare punto d'incontro quando i due di sentinella
si addormentarono. Arrivò un elicottero pieno di guardie e fummo sorpresi. Dopo
una breve caccia ci catturarono e ci condussero in una zona di detenzione.
Alcune ore più tardi, mentre ero in ginocchio, mi tolsero la benda dagli occhi e mi
trovai a guardare in faccia il sergente maggiore addetto all'addestramento.
« Sono finito? » uggiolai.
«No, scemo. Torna sull'elicottero e non farti più fregare.»
Lo avevo trovato di buon umore. Da ex guardia della Household Division,
gongolava vedendo che i suoi vecchi commilitoni se la cavavano così bene.
Nella fase successiva fui solo, il che mi andò benissimo. 1 nostri spostamenti tra i
punti d'incontro erano studiati in modo tale che alla fine della fase di fuga ed
evasione tutti venissimo catturati e sottoposti a interrogatorio. Ti insegnano a
essere - e tu cerchi sempre di essere - l'uomo che non conta niente. L'ultima cosa
che si desidera è venire selezionati fra i meritevoli di ulteriore interrogatorio. Io
non trovavo questo stadio particolarmente duro, perché nonostante le minacce
verbali nessuno ci avrebbe riempito di botte, e lo sapevamo. Hai freddo, hai fame,
sei bagnato, stai scomodissimo: ma è soltanto questione di resistere, fisicamente
più che mentalmente. Non riuscivo a credere che qualcuno potesse davvero
gettare la spugna in quelle ultime ore.
Alla fine, durante uno degli interrogatori, entrò un tale che mi diede una tazza di
minestra e mi annunciò che era finita. Ci fu un rapporto completo, perché quelli
che ti interrogano possono apprendere da te e tu da loro. In realtà la mente subisce
dei contraccolpi: fui sorpreso nello scoprire che avevo sbagliato la mia
valutazione del tempo di circa sei ore.
Seguirono due settimane di addestramento alle armi a Hereford. Gli istruttori
studiavano il tuo curriculum e si aspettavano da te determinate prestazioni. Se
provenivi dalla Sussistenza cominciavano pazientemente da capo, se eri sergente
di fanteria si aspettavano l'eccellenza. Poi fu la volta dell'addestramento di
paracadutismo a Brize Norton, che dopo i rigori della selezione fu come passare
un mese in villeggiatura.
Di ritorno a Hereford dopo sei lunghi e pesantissimi mesi, fummo condotti uno
per uno nell'ufficio del comandante. Mentre mi veniva consegnato il famoso
berretto color sabbia con il pugnale alato, il comandante mi disse: « Ricordati solo
che è più duro da mantenere che da conquistare ».
In realtà non afferrai bene il concetto. Ero troppo impegnato a trattenermi dal
mettermi a ballare.
Come al solito, il grosso dei nuovi arrivi era composto da uomini provenienti
dalla fanteria, più un paio di tecnici e trasmettitori.
Dei centosessanta candidati che avevano cominciato ne erano passati solo otto: un
ufficiale e sette soldati.
Gli ufficiali prestano servizio nei SAS solo per un periodo di tre anni, anche se
poi possono tornare per un secondo turno. Appartenendo alla truppa, dovevo
ultimare la mia ferma completa nell'esercito, che era di ventidue anni: altri
quindici, dunque.
Ci mandarono ai nostri squadroni. E' possibile indicare se si preferisce uno
squadrone da montagna, motorizzato, di incursori subacquei o di paracadutisti e
se possono ti accontentano. Altrimenti tutto dipende dai vuoti nell'organico e dalle
reali capacità delle reclute. Io fui assegnato ai paracadutisti.
I quattro squadroni hanno caratteristiche molto diverse. Una volta dicevano che se
si andava in un night quelli dello squadrone A sarebbero rimasti lungo il muro
senza dire una parola, nemmeno tra loro, lanciando semplicemente sguardi cattivi
a tutti. Quelli dello squadrone C si sarebbero messi a parlare, ma solo tra loro.
Quelli del D sarebbero stati sul bordo della pista da ballo a guardare le donne e
quelli del B - il mio - si sarebbero lanciati sulla pista da ballo, a fare un casino da
matti e a comportarsi proprio da teste di cazzo.
Debby ritornò dalla Germania per raggiungermi a Hereford.
Da gennaio, quando avevo cominciato la selezione, non mi aveva visto molto e
non fu troppo contenta quando seppe che all'indomani del suo arrivo mi avrebbero
rispedito nella giungla per un ulteriore addestramento di due mesi. Quando tornai,
la casa era vuota. Aveva fatto le valigie ed era tornata a Liverpool.
Nel dicembre dell'anno successivo cominciai a uscire con Fiona, la mia vicina
della porta accanto. Nel 1987 è nata nostra figlia Kate, e nell'ottobre dello stesso
anno ci siamo sposati. Il mio regalo di nozze da parte del Reggimento fu un
lavoro oltremare di due anni. Tornai da quel viaggio nel 1990, ma in agosto, circa
due mesi dopo il mio ritorno, il matrimonio fu sciolto.
Nell'ottobre del 1990 incontrai Jilly. E' stato un amore a prima vista, o per lo
meno così mi ha detto lei.

3.

ALLE 07.50 ci radunammo intorno al tavolo del comandante per dirigerci nella
sala dove si sarebbe tenuto il briefing. Eravamo tutti di buonumore: ciascuno di
noi aveva una borraccia d'acciaio inossidabile e una maxiscorta di cioccolato. La
giornata sarebbe stata lunga, e risparmiare il tempo del rinfresco ci avrebbe
permesso di approfondire questioni della massima importanza., Mi sentivo ancora
eccitatissimo: a) perché ero stato nominato comandante di pattuglia e b) perché
avrei lavorato con Vince.
Vince, che stava per iniziare gli ultimi due anni di servizio nel Reggimento, aveva
trentasette anni ed era un vecchio pirata straordinariamente forte. Era un provetto
alpinista, sommozzatore e sciatore, e camminava ovunque, anche in salita, come
se avesse un barile di birra sotto le braccia. Per Vince tutto era « fottutissima
merda», e lo diceva con il peggior accento di Swindon; ma amava il Reggimento,
e lo avrebbe difeso anche quando quelli degli altri squadroni si fossero lamentati.
Il solo rimpianto della sua vita era che si stava avvicinando alla fine dei suoi
ventidue anni di servizio. Era arrivato dall'artiglieria e aveva un'aria rude, come ci
si aspetta da un membro del Reggimento, i capelli crespi e ispidi e un gran paio di
baffi. Dato che era nel Reggimento da più tempo di me, al momento di
programmare le azioni mi sarebbe stato molto utile.
Scoprimmo che la zona del briefing era in un altro hangar. Ci scortarono
attraverso una porta con la scritta VIETATO L'INGRESSO AL PERSONALE
NON AUTORIZZATO. Già tutto il Reggimento era isolato, ma la zona del
briefing era un isolamento nell'isolamento. La sicurezza delle operazioni è
fondamentale. Nessuno di noi avrebbe mai chiesto a un altro commilitone cosa
stesse facendo. Come tutte le regole non scritte, questa è scritta con l'inchiostro
rosso, a lettere maiuscole e sottolineate. Su entrambi i lati delle porte
campeggiavano: PIANIFICAZIONE AVIAZIONE, SQUADRONE D, INT
CORP, MAGAZZINO MAPPE. Erano disadorne, senza nessun ornamento,
semplici fogli battuti a macchina e appuntati alle porte.
In quell'edificio regnava un'atmosfera decisamente particolare: c'era un'aria di
asepsi e di efficienza, con i classici sibili e fruscii delle radio in sottofondo. I
membri del servizio informazioni, noti come spooks (« spettri ») o green slime («
melma verde »), si spostavano da una stanza all'altra con pile di carte geografiche
sulle braccia, chiudendosi meticolosamente le porte alle spalle.
Tutti parlavano sottovoce. Erano un esempio impressionante di
ultraprofessionalità.
Conoscevamo molti spook di nome, avendo lavorato con loro in Gran Bretagna.
« Buongiorno, slime », dissi a un volto familiare. « Come va? »
In risposta ottenni solo una parola biascicata accompagnata da un movimento del
polso.
Il posto non aveva finestre, e sembrava fosse rimasto abbandonato per molto
tempo. In sottofondo si sentiva odore di muffa e marciume, sovrastato dai tipici
aromi da ufficio che si trovano ovunque: carta, caffè, sigarette. Ma poiché questo
era uno di quegli edifici che noi definivamo remf (rear echelon mother-fucker,
letteralmente «rotti in culo delle retrovie ») ed era mattina presto, si sentiva anche
un intenso profumo di sapone, schiuma da barba, dentifricio e dopobarba.
« Salve, remf! » li salutò Vince con il suo accento di Swindon e un radioso
sorriso. « Siete delle fottute merde, ecco che cosa siete!»
« Una fottuta merda sarai tu », ribattè uno spook. « Credi che saresti capace di
fare il nostro lavoro? »
« Manco per sogno », ammise Vince. « Ma tu rimani sempre un remf! »
La stanza dello squadrone B misurava più o meno cinque metri quadrati. Il
soffitto era molto alto, con una specie di apertura in cima che garantiva l'unica
aerazione. Avevano accostato quattro tavoli al centro, disponendovi sopra carte
geografiche di fuga in seta e bussole.
« Sono gratis, prendiamole », disse Dinger.
«Non badate alla qualità, guardate le dimensioni», intervenne Bob, uno del
gruppo di Vince.
Bob, alto la bellezza di un metro e cinquantasette, era di origine svizzero-italiana
ed era noto come Moscerino Brontolone.
Era stato nei Royal Marines ma voleva migliorarsi, quindi se n'era andato e aveva
scommesso di passare la selezione. Nonostante la bassa statura era forte come un
toro, fisicamente e di carattere.
Insisteva sempre per portare lo stesso carico di tutti gli altri, il che a volte poteva
essere divertente: si vedeva solo l'immenso zaino con sotto due gambette che
andavano su e giù come pistoni.
A casa era un fanatico delle vecchie commedie in bianco e nero, e ne possedeva
una vasta collezione in video. Quando era in giro, i suoi hobby favoriti erano il
ballo e la conversazione intima con donne alte trenta centimetri più di lui. Il
giorno che partimmo per il Golfo, avevamo dovuto prelevarlo al circolo della base
alle ore piccole.
Guardammo le carte, che risalivano agli anni '50. Da un lato c'erano Baghdad e
dintorni, dall'altro Bassora.
« Dove pensate che ci mandino, ragazzi? » domandò Chris, un altro del gruppo di
Vince con un forte accento del Nord. « Baghdad o Bassora? »
Entrò Bert, uno spook. Conoscevo Bert perché faceva parte della nostra
organizzazione di controspionaggio a Hereford.
« Ce ne sono altre di queste? » domandò Mark. « Sono fighissime. »
Tipica mentalità del Reggimento: se una cosa luccica, la voglio. A volte non sai
nemmeno che funzione abbia un pezzo di equipaggiamento, ma se ha un
bell'aspetto te lo prendi. Non si sa mai se ti possa servire.
Nella stanza non c'erano sedie, per cui ci accomodammo con la schiena contro il
muro. Chris estrasse la sua borraccia e la offrì a tutti. Chris era di bell'aspetto e
aveva una voce profonda: era stato coinvolto nei SAS territoriali da civile, e aveva
deciso che il suo desiderio era esattamente quello di arruolarsi nel Reggimento.
Per Chris, se si doveva fare un lavoro, bisognava farlo nel migliore dei modi, così
prima firmò per i parà, perché voleva avere alle spalle un solido addestramento in
fanteria. Fu trasferito a Hereford da Aldershot non appena promosso caporale, e
naturalmente passò la selezione.
Se Chris aveva in mente un progetto, faceva in modo di realizzarlo. Era uno degli
uomini più determinati e decisi che abbia mai incontrato. Forte nel fisico e nella
mente, era un fanatico del body building, della bici e dello sci. Sul campo gli
piaceva indossare un vecchio berretto con visiera dell'Afrikakorps. Fuori servizio
era facile preda di un qualsiasi ultimo ritrovato della tecnologia ciclistica o
sciistica, e indossava soltanto vestiti firmati Gucci. Quando si era arruolato nel
Reggimento era molto taciturno, ma dopo circa tre mesi la sua forza di carattere
cominciò a emergere. Chris era l'uomo che faceva sentire la voce della ragione.
Era sempre pronto a intervenire per dirimere una controversia, e quello che diceva
sembrava sempre giusto anche quando era una stronzata.
« Mettiamoci al lavoro », disse il comandante. « Bert vi illustrerà la situazione. »
Bert si appollaiò sul bordo di un tavolo. Era un bravo spook perché era conciso, e
quanto più uno è conciso tanto più è facile capire e ricordare quello che ti dice.
« Come sapete, Saddam Hussein ha attaccato Israele sparando alcuni Scud
modificati su Tel Aviv e Haifa. Il danno reale arrecato è molto limitato, ma
migliaia di abitanti stanno scappando dalle città per rifugiarsi in zone più sicure. Il
Paese ha mantenuto la calma. Il loro primo ministro non è preoccupato.
« I beduini, invece, sono molto soddisfatti. Per loro, Saddam ha colpito Tel Aviv,
la capitale riconosciuta di Israele, dimostrando che il cuore dello Stato ebraico
non è invulnerabile.
« Ovviamente Saddam vuole che Israele reagisca, a qualunque costo, perché
questo, quasi sicuramente, spezzerebbe la coalizione anti-Iraq e probabilmente
trascinerebbe perfino l'Iran in guerra al fianco dell'Iraq per combattere l'odiata
Israele.
« Sapevamo che esisteva questo pericolo, e fin dal primo giorno abbiamo cercato
di localizzare e distruggere le rampe di lancio degli Scud. I bombardieri Stealth
hanno attaccato i sei ponti nel centro di Baghdad che attraversano il fiume Tigri.
Questi ponti uniscono le due parti della città, e su di essi corrono anche le linee
telefoniche mediante le quali Baghdad comunica con il resto del Paese, con il suo
esercito nel Kuwait e con le unità Scud che lanciano i missili contro Israele.
Poiché le trasmittenti a microonde dell'Iraq sono già state bombardate e fatte a
pezzi, e le sue trasmissioni radio vengono intercettate dal controspionaggio
alleato, le linee telefoniche sono l'ultima via di comunicazione di Saddam. Per i
piloti sono diventate il bersaglio principale.
« Sfortunatamente, Londra e Washington vogliono che gli attacchi cessino.
Ritengono che l'accanimento dei mass media nel mostrare i bambini che giocano
vicino ai ponti distrutti sia una cattiva pubblicità. Ma, signori, a Saddam deve
essere negato l'accesso a quei cavi. E se vogliamo tenere fuori dalla guerra l'Iran e
Israele, gli Scud devono essere neutralizzati. »
Bert si alzò dal tavolo e si avvicinò a una parete con una carta in grande scala di
Iraq, Iran, Arabia Saudita, Turchia, Siria, Giordania e Kuwait. Puntò il dito
sull'Iraq nord-occidentale.
« Qui », indicò, « ci sono gli Scud. »
Tutti sapevano cosa avrebbe detto a quel punto.
« Da Baghdad ci sono tre strade principali di rifornimento che vanno da ovest a
est», proseguì, «essenzialmente in direzione della Giordania. Queste strade
vengono utilizzate per il trasporto di carburante e quant'altro, e anche per spostare
gli Scud. Adesso, sembra che gli iracheni lancino gli Scud in due modi: da rampe
di lancio fisse, che sono tenute sempre sotto sorveglianza, e da rampe mobili, per
cui si devono fermare e fare il punto della zona prima del lancio. Queste ultime
sono più tattiche. Abbiamo fatto fuori la maggior parte delle rampe fisse. Ma
quelle mobili... »
A quel punto ci eravamo fatti molto più che un'idea.
« Le linee telefoniche forniscono informazioni a queste rampe di lancio mobili
perché tutti gli altri sistemi di comunicazione sono fuori uso. E dubito che siano
rimaste molte persone in grado di riparare quegli aggeggi. La situazione, grosso
modo, è questa. »
« Il vostro compito si divide in due parti », intervenne il capo.
«Uno, localizzare e distruggere le linee telefoniche nell'area della strada
principale a nord. Due, trovare e distruggere gli Scud. »
Ripetè due volte qual era il nostro compito, secondo il protocollo previsto per
l'assegnazione di una missione.
« Non ci interessa molto in che modo lo fate, purché sia fatto », proseguì. « La
vostra zona operativa si stende lungo duecentocinquanta chilometri di questa
strada. La durata della missione è quattordici giorni prima dei nuovi rifornimenti.
Qualcuno ha qualche domanda da fare? »
A quello stadio non ne avevamo.
« Bene... Bert vi fornirà qualunque cosa desideriate. In ogni caso, io sarò di
ritorno in giornata, ma se avete qualsiasi problema venite a cercarci. Andy... una
volta che avete elaborato il piano, fammelo sapere che gli darò un'occhiata. »
Invece di gettarci a capofitto nel lavoro, ci prendemmo una pausa per bere
qualcosa. Se desideri qualcosa da bere, attingi alla prima fonte disponibile.
Svuotammo la borraccia di Mark, poi demmo un'occhiata alla carta.
« Abbiamo bisogno di tutte le carte di cui disponete », dissi a Bert. « Tutte le
informazioni topografiche. E qualsiasi fotografia, comprese quelle fatte dal
satellite. »
« La sola cosa utile che posso darvi sono le carte per la navigazione aerea, in scala
uno a mezzo milione. Tutto il resto sono merdate. »
« Che cosa ci sai dire delle condizioni del tempo e simili? » domandò Chris.
« Sto cercando di far stendere una previsione. Vado a vedere se è pronta. »
« Abbiamo anche bisogno di sapere molto di più sulle fibre ottiche, su come
funzionano veramente », osservò Legs. « E anche sugli Scud. »
Legs mi piaceva. Stava ancora consolidando la sua posizione al Reggimento, visto
che era arrivato solo sei mesi prima dai parà. Ancora un po' silenzioso, come tutti
i nuovi arrivati, era diventato molto amico di Dinger. Aveva molta fiducia in se
stesso e nella sua capacità di trasmettitore della pattuglia e, avendo cominciato la
sua carriera nell'esercito tra i tecnici, era anche un eccellente meccanico. Si era
procurato quel nomignolo (Gambe) perché sul terreno andava come una vera
biscia.
Bert uscì dalla stanza e cominciammo a discutere tra noi. Ci sentivamo rilassati.
Sembrava che avessimo moltissimo tempo - il che è raro per le operazioni del
Reggimento - e ci trovavamo in un bell'ambiente sterile: non dovevamo elaborare
i nostri piani in situazione tattica sotto una pioggia scrosciante e a casa del
diavolo. In fanteria c'è un principio che viene definito delle Sette P: una Perfetta
Pianificazione e Preparazione Previene una Prestazione da Poveri Piscioni. Noi
avevamo condizioni di pianificazione perfette. Non avremmo avuto nessuna scusa
per una prestazione da piscioni.
Mentre aspettavamo il ritorno di Bert, i ragazzi si aggiravano per riempire le
borracce o usare i bagni dei rotti in culo.
« Ho le cartine per voi », annunciò Bert attraversando la porta un quarto d'ora più
tardi. « Ho anche le informazioni sul terreno, ma non sono molte. Cercherò di
procurarmene altre. Stanno per arrivare altre mappe di fuga, migliori. Ve le darò
prima che ve ne andiate. »
Per non sapere né leggere né scrivere, ci eravamo già intascati le altre come
souvenir.
Adesso avevamo il tempo di riflettere un po' meglio sui dettagli e bombardammo
Bert di richieste d'informazioni sulle posizioni del nemico, le zone abitate dalle
popolazioni locali e la natura del confine con la Siria, perché stavamo subito
pensando a un piano di fuga, e quella era la frontiera più vicina; quali tipi di
truppe erano stanziate nei pressi della nostra area operativa e in che
concentrazioni, perché se ci fossero state concentrazioni massicce ci sarebbe stato
molto movimento sulla strada principale, il che avrebbe reso il compito più
difficile; che tipo di traffico si spostava lungo la strada e in quale intensità; oltre a
tutto quello che fossimo riusciti a reperire sul funzionamento delle linee
telefoniche: che aspetto avevano, con quanta facilità era possibile individuarle e
se, una volta trovate, potevano essere distrutte con cinque chili di esplosivo al
plastico o con una semplice martellata.
Bert ci lasciò con la nostra nuova lista della spesa.
Guardando la carta sul muro, notai un oleodotto interrato in disuso. «Mi domando
se l'avranno posato parallelo alla strada», osservai, « e se ci sono dei cavi. »
« Nello squadrone c'è un ragazzo che un tempo posava cavi interrati per la
Mercury», osservò Stan. «Vedrò di chiedergli se lo sa.»
Bert ritornò con una pila di carte geografiche. Mentre alcuni di noi univano i fogli
separati con lo scotch per ricavarne una più grande, due uscirono a prendere
alcune sedie.
A questo punto l'atmosfera si era fatta molto più seria. Rimuginammo le cose per
un'altra mezz'ora, prima di metterci a fare dei veri e propri piani. Chris studiò le
carte e trasse alcune considerazioni utili; Legs scribacchiò qualche appunto
sull'attrezzatura radio. Dinger aprì un altro pacchetto di Benson & Hedges.
La prima cosa che dovevamo esaminare era il posto dove eravamo diretti.
Dovevamo sapere tutto del terreno e delle zone abitate dalla popolazione civile e
militare. Le informazioni disponibili erano molto sommarie.
« La vera e propria strada principale non è asfaltata, ma è un sistema di sentieri
messi assieme», osservò Bert. «Il punto di massima larghezza è circa due
chilometri e mezzo, e il punto più stretto circa seicento metri. Ogni diciassette
chilometri su entrambi i lati della strada ci sono soltanto cinquanta metri di
dislivello: è terreno molto piatto e ondulato, roccioso, niente sabbia.
Procedendo a nord verso l'Eufrate, ovviamente il terreno comincia ad abbassarsi.
A sud è terra piatta fin quasi all'Arabia, ma poi si profila il tipico paesaggio con
gli uadi che vanno benissimo per muoversi e nascondersi; quindi diventa di nuovo
piatto. »
Le carte tattiche aeree non avevano curve di livello, ma sfumature per le quote, un
po' come gli atlanti scolastici. L'intera area della strada principale era di un unico
colore minaccioso.
« Questo Paese è una fottuta merda! » esclamò Vince.
Scoppiammo a ridere, un po' nervosi. Vedevamo benissimo che non era un
terreno dove ci si potesse nascondere con facilità.
Nelle regioni semidesertiche, praticamente tutto si trova vicino a una strada o a un
fiume. La strada correva attraverso zone edificate e abitate, tre o quattro piste
d'atterraggio e parecchie pompe per l'acqua che, potevamo presumere, sarebbero
state difese dall'esercito. Era anche facile ritenere che lungo tutta la strada ci
sarebbero state piccole comunità locali: sia stanziali, in casupole di fango, sia
beduini nomadi; e coltivazioni sparse in tutta la zona per approfittare della
disponibilità di trasporti e d'acqua.
A nord-ovest la strada principale incrociava l'Eufrate nell'importante città di
Banidahir, poi scendeva a sud-ovest fino alla Giordania. Il traffico si sarebbe
presentato sotto forma di movimenti da e verso la Giordania, di trasporti militari
fino alle piste di atterraggio e di milizie locali nelle zone abitate. Era improbabile
che fossero in stato di allerta, perché non si aspettavano truppe alleate in una zona
così remota. Per quanto li riguardava, lassù non c'era nulla di grande importanza
strategica.
Allora, a quale altezza della strada avremmo operato? Non nel punto più largo,
quello era certo, perché se avessimo dovuto richiedere un intervento aereo
volevamo restringere l'area del potenziale bersaglio. Ciò di cui avevamo
veramente bisogno era un punto in cui la strada fosse meno larga, e buon senso
voleva che questo si trovasse in corrispondenza di una curva stretta: in qualunque
parte del mondo, gli automobilisti cercano sempre di tagliare le curve. Cercammo
un punto a imbuto che fosse il più lontano possibile dalle abitazioni e dalle
installazioni militari.
La cosa non era semplice, perché le carte aeree mostrano solo le città e le
caratteristiche principali del territorio. Tuttavia, Legs individuò una buona curva a
metà strada tra una pista aerea e la città di Banidahir, a circa trentacinque
chilometri da entrambe.
Per di più, l'oleodotto sotterraneo incrociava la strada nello stesso punto, il che ci
avrebbe fornito un buon ragguaglio per la navigazione.
Il tempo, ci informò Bert, sarebbe stato frescolino, ma non troppo freddo. Come
la primavera in Gran Bretagna: potevamo aspettarci che facesse freddo durante la
notte e alla mattina presto, e un po' più caldo nel pomeriggio. Le piogge erano
scarse.
Questa era una buona notizia, perché non c'è niente di peggio che avere freddo ed
essere bagnati, specialmente se hai anche fame. Tieni a mente questi parametri, e
vedrai che la tua vita filerà davvero liscia.
Sapevamo dove andare: a questo punto dovevamo decidere come arrivarci.
« Le opzioni sono: arrivarci a piedi, con un automezzo oppure farci calare da un
elicottero », disse Vince.
« Andarci a piedi non ha senso », osservò Chris. « A una tale distanza non
saremmo in grado di portare con noi abbastanza rifornimenti, e dovrebbero
comunque riapprovvigionarci con un elicottero... ma allora tanto vale che ci
portino! »
Concordammo che i veicoli avrebbero potuto toglierci d'impaccio alla svelta,
permettendoci inoltre di spostarci sulla strada o in un'altra zona per ricevere nuovi
ordini. Le Land Rover a passo lungo ci avrebbero inoltre garantito la potenza di
fuoco delle mitragliatrici bivalenti e dei lanciabombe portatili M19 da 40 mm... o
di qualunque altra arma avessimo voluto. Avremmo anche potuto portare più
munizioni, esplosivi e attrezzatura, e in generale essere molto più autosufficienti
per un periodo di tempo maggiore. Ma gli automezzi avevano due importanti
svantaggi.
« Saremmo limitati dalla quantità di carburante che potremmo portare », osservò
Dinger, tirando una boccata dalla sua sigaretta, « e inoltre le possibilità di
nasconderci nell'area attorno alla strada sono praticamente inesistenti. »
Poiché la missione richiedeva di restare nella stessa zona per un lungo periodo, la
nostra miglior difesa sarebbe stata la possibilità di nasconderci, e in questo senso
gli automezzi non ci avrebbero aiutato per niente. In quella zona sono visibili
come le palle dei cani. Ogni volta che fossimo usciti in pattuglia, avremmo
dovuto lasciare delle sentinelle presso i mezzi. Altrimenti non ci saremmo accorti
se qualcuno ci metteva una bomba o se stavamo cadendo in un'imboscata, o se
eravamo stati scoperti dalla popolazione locale ed era circolata la voce. Inoltre,
per otto uomini avremmo avuto bisogno di due mezzi, e due mezzi equivalevano
a due possibilità di compromettere il risultato.
Con un'unica pattuglia a piedi la probabilità di essere scoperti era una sola. D'altra
parte, era possibile che i viveri e le altre attrezzature per due settimane fossero un
peso eccessivo da trasportare, e quindi - nonostante gli svantaggi - dovessimo
utilizzare gli automezzi per forza. Bisognava pensare ai dettagli
dell'equipaggiamento.
Stabilimmo che ci occorrevano esplosivo e munizioni, cibo e acqua per due
settimane, indumenti anti-NBC e - ma solo se fosse avanzato posto - effetti
personali. Vince fece i calcoli e stabilì che dovevamo portarci appresso solo noi
stessi.
«Perciò andremo a piedi», concluse. «Ma ci sarà qualcuno che ci accompagna fin
là su quattro ruote, o è meglio che prendiamo un elicottero che ci scarichi sul
posto? »
« Con i mezzi ci sono maggiori rischi di fallimento », osservò Mark. « E' anche
possibile che non arriviamo fino all'obiettivo senza un rifornimento di benzina. »
« Se abbiamo bisogno di un rifornimento, andiamo in elicottero e basta, » tagliò
corto Legs.
Alla fine tutti furono d'accordo per scendere in elicottero.
« Non possiamo prendere un aereo? » chiesi a Bert.
Lui andò nella sala operativa a controllare.
Detti uno sguardo alla carta: tutti dovevano essersi resi conto di quanto saremmo
stati isolati. Se ci fossimo trovati nei guai, non sarebbe arrivato nessuno a tirarci
fuori.
« Almeno, se finiamo nella merda, non avremo troppe colline da salire e scendere
», commentò Bob.
«Mmm... buona questa», sbuffò Dinger.
Ricomparve Bert: « Si può avere un aereo, non c'è problema».
Fui io a riaprire il dibattito. « Allora... dove è meglio che ci lascino? »
Il vantaggio degli elicotteri è che ti trasportano sul posto velocemente, lo
svantaggio che fanno un gran casino e possono attirare la contraerea. Anche
l'atterraggio è piuttosto delicato. Noi non volevamo che capissero qual era la
nostra missione, quindi bisognava scegliere una località che fosse ad almeno venti
chilometri dalla strada principale. Non volevamo atterrare né a est né a ovest della
curva della strada, perché sarebbe stato più difficile arrivarci. La navigazione non
è una scienza, ma una tecnica.
Che cosa avrebbe reso più difficile attuare una tecnica se non l'aggiungervi
problemi supplementari? L'obiettivo era raggiungere il punto di sosta il più presto
possibile.
«Dovremmo volare a nord sopra la strada per poi marciare verso sud, o viceversa
avvicinarci da sud? » domandai.
Nessuno riscontrava vantaggi nell'attraversare la strada in aereo; quindi
scegliemmo di scendere a sud del punto stabilito.
Giunti là, non dovevamo fare altro che navigare verso nord per incrociare la
strada.
Avremmo marciato con una bussola e misurato la distanza empiricamente. Tutti
conoscono il proprio passo ed è pratica comune portarsi in tasca un pezzo di
spago con dei nodi per tenere il conto. Io, per esempio, sapevo che centododici
dei miei passi equivalevano a cento metri. Avrei fatto dieci nodi sulla mia corda
plasticata e l'avrei toccata attraverso un buco nella tasca. Ogni centododici passi
avrei tirato fuori un nodo. Una volta estratti dieci nodi avrei saputo di avere
percorso un chilometro, e a quel punto avrei verificato con il « controllore dei
passi ». Se la sua distanza fosse stata diversa dalla mia, avremmo fatto la media.
Oltre a questo espediente avremmo usato il Magellan, un sistema di navigazione
satellitare portatile. Il SatNav è utile, ma non ci si può fidare completamente: può
rompersi, o le pile possono scaricarsi.
Non riuscivamo ancora a stabilire dove volevamo scendere; avremmo valutato il
tempo e la distanza in seguito, a seconda di quello che ci dicevano i piloti. Era
compito loro valutare il problema delle installazioni antiaeree e delle
concentrazioni delle truppe, oltre alla questione di piazzarci in un buco che non
fosse incompatibile con gli altri voli giornalieri - un fattore noto come
esfiltrazione.
A questo punto della pianificazione sapevamo dove dovevamo andare, come ci
saremmo arrivati e - più o meno - dove ci sarebbe piaciuto che ci lasciassero.
Qualcuno bussò alla porta.
«C'è qui il pilota, se volete parlargli», annunciò uno spook.
Il capitano pilota era più basso di Mark, aveva i capelli rossi e le lentiggini.
« Puoi portarci in questo punto? » gli domandai mostrandogli la carta.
«Quando?» chiese con la cadenza piatta e monotona delle Midlands.
« Non lo so ancora. Fra un paio di giorni. »
«Così, di botto, mi sembra di sì. Tuttavia, dovrò fare i miei piani di esfiltrazione e
via dicendo. In quanti siete? »
« Otto. »
« Automezzi? » ' « Solo equipaggiamento. »
«Non c'è problema. »
Sentivo che nella sua mente stava già calcolando i carichi di carburante,
visualizzando i profili terrestri, pensando alle batterie contraeree.
« Avete altre informazioni, a livello topografico? »
« Stavo per farti la stessa domanda », ribattei.
«No, soltanto una bella merda. Se non riusciamo a lasciarvi proprio in quel posto
lì, dove vorreste andare? »
« Dipende da dove sei in grado di portarci. »
Il pilota ci avrebbe mostrato tutti i possibili punti dove farci scendere e
raccoglierci, anche se non aveva la minima idea della missione che dovevamo
compiere. Noi ci saremmo fidati ciecamente della sua capacità di giudizio:
saremmo stati semplici passeggeri.
Se ne andò e noi ci prendemmo un'altra pausa prima di affrontare la parte più
spinosa: come attaccare le linee di terra e gli Scud.
Volevamo mettere a punto un sistema per infliggere il massimo danno con il
minimo sforzo. Con un po' di fortuna, i cavi sarebbero stati disposti lungo la
strada e ogni dieci chilometri circa ci sarebbero state botole di ispezione. Non
sapevamo se all'interno delle botole avremmo trovato un sistema di segnalazione
ausiliaria o cos'altro. Ma Stan ipotizzò che, per una questione di economia nella
posa dei cavi, era anche possibile che esistesse una linea interna telefonica
terrestre.
Altre domande per Bert. I coperchi delle botole avrebbero avuto lucchetti?
Avrebbero avuto sistemi di protezione e, in tal caso, saremmo stati in grado di
eliminarli? E, in caso contrario, avremmo dovuto cominciare a scavare per cercare
la linea telefonica vera e propria? Era possibile che fossero inseriti nel cemento,
nell'acciaio o in altri sistemi di protezione? In tal caso, avremmo dovuto portarci
una carica cava per forare l'acciaio. Forse le botole erano inondate d'acqua per
impedire un attacco? Paradossalmente questo sarebbe stato un vantaggio, perché
l'acqua fa da tampone, aumentando la forza della detonazione.
Stabilimmo che, a seconda del tipo di terreno, avremmo praticato una serie di
quattro, cinque o sei tagli lungo il cavo, e ciascuno sarebbe stato programmato per
saltare in aria in momenti diversi nell'arco di alcuni giorni. Avremmo posato tutte
le cariche in una notte e ne avremmo fatta partire una, diciamo, la sera presto del
giorno successivo. Questo ci avrebbe lasciato un'intera notte durante la quale,
nella migliore delle ipotesi, sarebbe stato impossibile ripararla, o quanto meno le
riparazioni sarebbero state rallentate: gli addetti alla riparazione sarebbero arrivati
alle prime luci dell'alba. Alla fine avrebbero scoperto dove erano stati fatti i tagli e
avrebbero mandato una squadra a ripararli. A questo punto, potendo, ci conveniva
provocare un incidente ai tecnici, riducendo in tal modo le possibilità degli
iracheni di eseguire le riparazioni. Mark se ne uscì con l'idea di mettere delle
Elsie, piccole mine antiuomo che funzionano a pressione. Quando ci posi il piede
sopra esplodono.
Se tutto fosse andato secondo i piani, la prima carica avrebbe aperto il taglio e
quando fossero arrivati per ripararlo, presumibilmente alle prime luci dell'alba, un
tecnico o una guardia avrebbe perso un piede su una Elsie. La sera successiva
sarebbe saltata la numero due, ma stavolta avremmo messo la carica senza Elsie.
Tuttavia, chi fosse arrivato sarebbe stato molto cauto, avrebbe impiegato molto
tempo o magari avrebbe anche rifiutato di fare il lavoro. Il giorno seguente ne
sarebbe saltata un'altra, e stavolta avremmo messo le Elsie. Forse sarebbero stati
più fiduciosi e sarebbero stati colpiti di nuovo. Il solo problema era che non
potevamo nascondere le Elsie troppo vicino al punto che facevamo saltare,
altrimenti l'esplosione avrebbe potuto spostarle o renderle visibili.
Nella peggiore delle ipotesi, avremmo reso inservibile il cavo in sei giorni. Nella
migliore, avremmo potuto distruggerlo definitivamente dopo il primo giorno. La
pensata di Mark era brillante, per cui aggiungemmo alla lista
dell'equipaggiamento due scatole di Elsie, ventiquattro mine in tutto.
Nel complesso avremmo fatto il maggior numero possibile di tagli con il
materiale e il tempo a nostra disposizione. Era verosimile che dovessimo fare dei
tagli anche a venti chilometri di distanza l'uno dall'altro, e in questo caso ci
sarebbero volute due notti. Speravo che non avremmo dovuto far saltare le botole
per accedere ai cavi, perché se gli iracheni avessero controllato gli altri coperchi
sicuramente avrebbero trovato le altre bombe.
Per prevenire questo pericolo, avremmo piazzato su tutti i timer un sistema
antimanomissione: un interruttore o un dispositivo a molla che, se sollevato,
sarebbe saltato con la carica.
Cominciavo a sentirmi stanco. Era ora di fare una pausa, altrimenti avremmo
iniziato a commettere errori. Se lo elabori troppo in fretta, il piano diventa
raffazzonato.
Bevemmo qualcosa e stendemmo le gambe prima di pensare a come distruggere
gli Scud.
Lungo circa undici metri e largo novanta centimetri, lo Scud di fabbricazione
sovietica B SS-1C ha una portata di 160-240 chilometri. Viene trasportato e
sparato da una rampa di lancio mobile montata su otto ruote. Gli equipaggi sono
addestrati a operare da punti di massima copertura. Gli Scud non sono molto
precisi: sono stati progettati per colpire i luoghi di grande accantonamento, le
stazioni di smistamento e gli aeroporti. In definitiva, sono stati concepiti come
armi psicologiche. Oltre a testate convenzionali ad alto potenziale, possono
portare testate chimiche, nucleari e biologiche.
Quando le nostre divisioni corazzate furono mandate in Arabia, circolò la voce
che la signora Thatcher aveva dato istruzioni ai generali di ricorrere all'atomica se
Saddam Hussein avesse usato contro le forze britanniche le armi chimiche. Nella
mia vita non avevo mai pensato che mi sarei potuto trovare di fronte a esse.
Nessuno sano di mente le utilizzerebbe, ma c'era un uomo che lo aveva fatto
contro l'Iran e contro la propria gente e, qualora se ne fosse presentata la
necessità, lo avrebbe certamente rifatto in questa guerra. ,' « Ci sono forse da
quindici a venti rampe di lancio mobili, ma molti più missili », ci informò Bert. «
Vi potete aspettare che una rampa di lancio mobile sia accompagnata da un
veicolo di comando come un Land Cruiser con il comandante e/o il topografo a
bordo. Nella stessa rampa di lancio mobile ci sarà l'equipaggio: due davanti, e gli
altri operatori dietro. Il posto di comando della rampa di lancio è al centro del
veicolo, l'entrata è una porta sul fianco sinistro. Può esserci un'unità di fanteria di
supporto, ma non sappiamo di quanti uomini sia composta, né se è possibile che
ci siano parecchie rampe di lancio incolonnate insieme oppure se operino
individualmente. »
Fu subito chiaro che il topografo era la figura più importante per il lancio di uno
Scud. Quando il veicolo di trasporto arrivava in un luogo deciso all'ultimo
momento, c'era un intervallo di circa un'ora prima che lo Scud potesse essere
lanciato. Il tempo trascorreva in un accurato sopralluogo del posto, con la ricerca
radar di palloni sonda nell'atmosfera, calcolandoli come fattori dell'angolo di
deflessione e infine immettendo il propellente.
C'erano anche un paio di aiutanti tecnici, il comandante della batteria e gli
operatori del centro di controllo che registravano le coordinate. Questo significava
che per rendere il lancio totalmente impossibile era necessario uccidere almeno
tre persone. Tuttavia, il personale poteva essere rimpiazzato: quindi dovevamo «
lavorarci » anche lo Scud.
Come lo avremmo distrutto? Gli attacchi aerei vanno benissimo, ma sapevamo
che gli iracheni avevano un'eccellente capacità di rilevamento radio e dovevamo
presupporre l'ipotesi peggiore, cioè che le loro attrezzature di rilevamento radio
fossero intatte. Esse funzionavano tramite una serie di ecogoniometri sparsi nel
Paese che trasmettevano un rilevamento alla fonte di un segnale radio. Bastavano
due soli rilevamenti per indicare una posizione; a quel punto, per loro, prenderci
sarebbe stato molto facile, specialmente se eravamo appiedati. E richiedere un
attacco aereo avrebbe significato per noi uscire allo scoperto.
Avremmo chiamato gli aerei solo se gli iracheni ci avessero fatto un'offerta che
non potevamo rifiutare, per esempio un convoglio di tutti gli Scud esistenti al
mondo. A quel punto avremmo chiamato via radio rischiando di farci localizzare
dal rilevamento con ecogoniometri. Dovevamo comunque presumere che loro
conoscessero la nostra posizione già dal fatto che l'attacco aereo era stato guidato.
Se avessimo attaccato direttamente il missile, c'erano pericoli dipendenti dalla
testata. Non avremmo saputo se era chimica, biologica, nucleare o convenzionale,
e non volevamo dover prendere la precauzione di attaccare con le tute anti-NBC,
perché per indossarle ci vuole tempo e rallentano enormemente l'operazione.
Anche il carburante era un problema, in quanto altamente tossico.
La rampa di lancio mobile stessa sarebbe stata un obiettivo migliore, perché senza
di essa il missile non si poteva lanciare.
« Possiamo sabotarla? » chiese Bob.
«Probabilmente sì, ma non sappiamo quanto facilmente si possa riparare »,
rispose Dinger. « E comunque è troppo vicina al missile. »
« Che cosa ne dite del sistema di guida che deve essere installato sui razzi? » disse
Chris.
Più ci pensavamo, più ci pareva sensato compiere un attacco diretto per
distruggere la stazione di controllo al centro del veicolo.
« Potremmo piazzarci una carica che manderebbe tutto a farsi fottere eliminando
tutti i nostri problemi», suggerì Vince. «La rampa di lancio mobile deve essere
protetta contro lo scoppio dei razzi... abbastanza da impedire alla nostra carica di
mettere fuori uso il missile. »
Sapevamo che cosa attaccare, ma come farlo? Alla fine decidemmo che quando
avessimo visto lanciare uno Scud - il che non sarebbe stato difficile, dato che il
terreno era piatto come un biliardo - avremmo fatto un rilevamento e lo avremmo
trovato.
Speravamo che, distruggendo le linee telefoniche, i lanci non sarebbero comunque
avvenuti.
Conoscevamo i punti vulnerabili. Sapevamo che non avremmo avuto problemi a
trovare gli Scud. Ci saremmo portati nella zona, avremmo individuato la zona di
lancio e organizzato un sopralluogo vicino all'obiettivo per scoprire quante truppe
c'erano, quante rampe di lancio rimanevano e dov'erano le sentinelle.
Con un classico sopralluogo avremmo probabilmente trovato lo Scud, quindi
saremmo ritornati indietro e ci saremmo fermati a un punto d'incontro finale
distante circa millecinquecento metri, in ogni modo tenendo conto del terreno. Da
lì quattro ragazzi sarebbero partiti per una ricognizione a 360 gradi intorno alla
posizione stessa, alla ricerca dei punti vulnerabili. Successivamente due di noi
sarebbero tornati indietro per completare l'informazione. Infine ci saremmo ritirati
al punto d'incontro finale. Avrei dovuto impartire rapide istruzioni riguardo al
sopralluogo vicino all'obiettivo: come lo avremmo effettuato, come ci saremmo
arrivati, da quale direzione saremmo tornati indietro, qual era il segnale di
riconoscimento mentre rientravamo al punto d'incontro finale.
Per evitare confusioni, si rientra sempre seguendo la stessa direttrice percorsa
all'andata. Il mio segnale normale di riconoscimento era camminare con le braccia
allargate come un crocifisso, l'arma nella mano destra. Altre pattuglie usano segni
diversi.
Lo scopo è duplice: evitare rumori e poter essere facilmente identificati. I punti
d'incontro finale devono trovarsi in una zona facilmente identifìcabile e
difendibile, perché tornarci nel buio pesto non è facile come sembra. Di ritorno al
punto d'incontro finale avrei preparato mentalmente un rapido elenco di ordini per
l'attacco e quindi comunicato a tutti qual era il bersaglio.
Finché non ci fossimo effettivamente trovati sul posto, dovevamo lavorare
sull'ipotesi che avremmo avuto almeno tre « contatti », cioè ucciso il topografo, il
comandante del centro di controllo e gli operatori con armi munite di silenziatore.
Un uomo cade sempre se gli piazzi una pallottola nella sua T corporea (quella
composta dalla linea che va da una tempia all'altra lungo le sopracciglia e dalla
linea che scende al centro della faccia, dall'attaccatura del naso alla base dello
sterno). Spara un colpo in qualsiasi punto della T e il tuo uomo andrà sempre giù.
Deve essere fatto da vicino, devi praticamente stargli addosso. Si attacca da una
linea di partenza e si continua a procedere fino a che lui si volta: quindi si deve
essere molto rapidi. Non si può esitare. E' tutta una questione di velocità pura,
aggressione e sorpresa. '! ' "' ' Questo in teoria. Vince si era portato dalla Gran
Bretagna una pistola con il silenziatore, ma poi erano venuti quelli di un'altra
squadra a supplicarlo di prestargliela per una missione, e non ne avevamo più. Lo
squadrone D era arrivato in Arabia prima di noi, e nei negozi era scoppiata la «
sindrome del kit scintillante ». Si erano accaparrati tutto quello che sembrava
avere un minimo interesse, e gli altri quattro si sarebbero infiltrati nell'area dello
Scud. Avremmo fatto fuori anzitutto il topografo, poi i tizi seduti o addormentati
sulla rampa di lancio mobile; poi avremmo piazzato una carica di esplosivo al
plastico PE4. Prevedevo che sarebbe stato necessario circa un chilo di esplosivo
con un timer a due ore all'interno della rampa di lancio. Avremmo chiuso bene la
porta e la carica sarebbe scoppiata quando noi saremmo stati già lontani.
Dovevamo collocare un dispositivo antimanomissione anche sul plastico,
cosicché se lo avessero scoperto e avessero tentato di neutralizzarlo sarebbe
scoppiato.
Avremmo installato un dispositivo di sicurezza anche sulla carica: un interruttore
a maniglia, che avrebbe attivato una miccia con spoletta di sicurezza, la quale a
sua volta dopo circa sessanta secondi avrebbe innescato il detonatore. Così, se i
cazzi si fossero fatti acidi, potevamo solo piazzare la carica e scappare. Ci
sarebbero state tre diverse attivazioni della carica, sufficienti - si sperava - per
tutte le eventualità: il dispositivo a tempo, il sistema antimanomissione e
l'interruttore a scatto, a pulsante o a strappo - il migliore -, più un dispositivo di
sicurezza.
Erano le 16.00. Intorno a me una o due facce cominciavano a sembrarmi stanche,
e probabilmente nemmeno io ero fresco come una rosa. Avevamo davvero
galoppato. Adesso sapevamo come avremmo compiuto la missione, fin nei
dettagli operativi. In caso di contatto, i quattro uomini di appoggio avrebbero
dovuto garantire il fuoco di copertura per permettere al gruppo d'attacco, [se
possibile, di completare l'azione e disimpegnarsi. I quattro uomini del gruppo
d'attacco avevano il compito di aiutarsi a vicenda e tentare di completare la
neutralizzazione del bersaglio usando il dispositivo di danneggiamento. In un
modo o nell'altro avrebbero poi dovuto raggiungere il punto d'incontro di
emergenza e riunirsi, per spostarsi infine al punto d'incontro della pattuglia e
ricongiungersi alla squadra di appoggio.
Naturalmente non avremmo saputo se questi piani erano realizzabili finché non li
avessimo effettivamente messi in pratica sul terreno. Potevano anche esserci
quattro rampe di lancio mobili, il che avrebbe creato problemi di sicurezza, in
quanto ci sarebbero stati molti più obiettivi. O magari poteva essercene una sola,
ma impossibile da attaccare, nel qual caso avremmo dovuto colpirla da lontano,
ma senza sacrificare la pattuglia per un unico obiettivo. Se fossimo stati coinvolti
in uno scontro a fuoco non avremmo potuto agire direttamente, ma per cercare di
distruggere l'obiettivo avremmo usato i 66. Un attacco del genere deve essere
breve e violento, ma compierlo o no era una decisione che poteva essere presa
soltanto sul posto. Solo quando si è di fronte a un problema reale si possono fare
le scelte e agire di conseguenza.
Se fosse stato possibile, avremmo sempre cercato di attaccare sotto copertura.
La terza opzione era un attacco aereo. Decidere tra lo scontro diretto e l'attacco
aereo era una questione molto delicata, che dipendeva sostanzialmente dal
numero degli obiettivi e dei difensori. Entrambe le opzioni comunque avrebbero
segnalato la nostra presenza nella zona. Sarebbe stato accettabile venire scoperti
se i numeri fossero stati abbastanza alti, ma se fossimo riusciti a tagliare le linee
telefoniche non ci sarebbe stato bisogno di nulla di tutto ciò.
A questo punto il posto puzzava di sudore, scoregge e sigarette. C'erano pezzi di
carta dappertutto, con sagome di Scud, omini disegnati col fiammifero e schemi
dei movimenti del gruppo di appoggio. La pianificazione è sempre esauriente, ma
solo perché noi vogliamo studiare tutto fin nei minimi particolari. Quando
fossimo arrivati alla porta della rampa di lancio mobile e avessimo trovato la
porta chiusa, dove stava la maniglia? Come funzionava? Da che parte si apriva la
porta, verso l'interno o verso l'esterno? Era una porta a soffietto? Aveva i cardini
in alto? Sarebbe stata chiusa con un lucchetto come nella maggioranza dei mezzi
corazzati? Che cosa avremmo fatto allora? Non lo sapevamo, quindi studiavamo
le varie possibilità, cercando di risolvere i pròblemi. Particolari, particolari,
particolari. Sono determinanti. Magari spingi una porta quando invece dovresti
tirarla. Trascurare i dettagli secondari significa far si che la missione vada a farsi
fottere.
Ci accingemmo a pensare all'equipaggiamento necessario per portare a
compimento i nostri piani.
Si può distruggere una centrale elettrica con una carica cava di un chilo di
esplosivo, se la si colloca nel posto giusto; non è necessario far saltare in aria tutto
l'impianto. Si può ottenere il risultato con una carica piccola e studiata
espressamente, perché si conosce il punto vulnerabile. Nel caso degli Scud
conoscevamo i punti vulnerabili, ma non eravamo certi di come raggiungerli. Io
ero propenso a portare solo cariche di plastico - ciascuna di un chilo circa -
piuttosto che ordigni speciali, perché magari avremmo dovuto usare l'esplosivo
altrimenti, e allora le cariche speciali sarebbero state inutili. Ancora una volta,
avremmo avuto i ragguagli indispensabili solo sul posto.
Avremmo usato l'esplosivo PE4, miccia a lenta combustione, accenditori a
dinamo, detonatori elettrici e semplici, timer e micce detonanti. Non si mette il
detonatore direttamente nell'esplosivo al plastico come si vede nei film. Tra il
detonatore e l'esplosivo bisogna piazzare la miccia detonante. Avremmo preparato
queste cariche in anticipo e appena prima dell'attacco le avremmo collegate ai
detonatori e ai timer.
Vince e Bob scomparvero per andare a preparare questi aggeggi, e ritornarono un
quarto d'ora dopo.
« E' tutto sistemato », annunciò Vince. « Sta tutto sotto il tuo letto. »
A questo punto tutti gli elementi principali erano stati esaminati.
Saremmo andati a piedi, portandoci dietro tutto quanto: quindi avevamo bisogno
di una zona per nasconderci, che sarebbe stata il nostro punto di sosta. In teoria
quest'ultimo avrebbe fornito copertura contro gli spari e gli avvistamenti, perché
l'avremmo sempre sorvegliato. E' molto pericoloso lasciare l'equipaggiamento e
poi tornare indietro - anche se a volte è necessario - perché, se scoperto, potrebbe
servire per un'imboscata o per nasconderci una bomba. Avremmo operato da una
base di pattuglia. Muovendoci nell'area, avremmo anche potuto trovare un posto
migliore per il punto di sosta, nel qual caso avremmo spostato l'attrezzatura con il
favore delle tenebre.
A quel punto passammo a studiare il piano di fuga. Saremmo stati a trecento
chilometri dall'Arabia Saudita, ma solo a centoventi dai paesi confinanti. Alcuni
facevano parte della coalizione, quindi in teoria sarebbero state destinazioni
perfette.
« Come sono i confini? » domandò Vince a Bert.
«Non ne sono del tutto certo. Potrebbero essere come il confine con l'Arabia, una
strettoia per carri armati e basta. Però potrebbero anche essere superdifesi. In tutti
i modi, se passate un confine per qualunque ragione, assicuratevi che loro non
pensino che siete israeliani; Israele non è poi cosi lontana. »
« Giusto, Bert », osservò Stan, accennando in direzione di Bob con un sorriso. «
Ma non ho intenzione di passare nessun confine in compagnia di questo tizio con
la faccia da marocchino. »
Certamente Bob aveva un'aria molto nordafricana, con i capelli neri e ricci e un
bel nasone.
« Si, perché invece c'è qualcuno che vorrebbe passare di là con Zorro? » Bob
indicò il grande naso di Mark.
Tutto stava andando a meraviglia. E' quando le persone smettono di scherzare e
cominciano a scambiarsi gentilezze che è il caso di preoccuparsi.
« Come sarà il terreno lassù? » chiese Mark.
« Molto uniforme. Essenzialmente piatto, ma i pianori ci sono soprattutto verso la
zona di Krabilah e il confine. Quanto più si va a ovest, tanto più il terreno sale. »
«E l'Eufrate, com'è?» domandò Dinger. «Ci si può nuotare?»
« In certi punti è largo un chilometro, con delle isolette in mezzo. In questo
periodo dell'anno l'acqua sarà molto alta. Tutto attorno c'è vegetazione, e dove c'è
vegetazione, c'è acqua; e dove c'è acqua, c'è gente. Quindi ci saranno sempre
insediamenti attorno al fiume. E' piuttosto verde e lussureggiante... in effetti, se vi
ricordate la Bibbia, era il paese di Adamo ed E'va. »
Verificammo le varie possibilità. Se fossimo stati bruciati, ci saremmo diretti
verso sud o verso nord-ovest? Avremmo avuto molti problemi ad attraversare
qualsiasi confine, ma anche andando verso sud non sarebbe stata una passeggiata.
Avrebbero immaginato che saremmo andati in quella direzione, e c'era un fottio di
strada da fare.
Dinger innescò la sua migliore voce da vecchietto western.
« Va' a ovest, ragazzo, va' a ovest. »
« No, che stronzata », obiettò Chris, « di là è pieno di beduini.
Se dobbiamo scappare, andiamo in qualche posto che sia un po' carino. Che so, in
Turchia. Ci sono stato una volta in vacanza. E' mica male. Se arriviamo a Istanbul
c'è un posto che si chiama Pudding Club, dove si incontrano tutti i viaggiatori
internazionali e si lasciano messaggi. Potremmo lasciare un messaggio per la
squadra di ricerca e salvataggio, e poi, mentre aspettiamo che ci vengano a
recuperare, andare in giro a far casino. Non mi sembra una cattiva idea. »
«Bert, che genere di comitato di accoglienza troveremmo se andassimo da altre
parti? » domandò Legs. « Non avete ancora informazioni dai piloti abbattuti? »
« Verificherò. »
«A meno che non ce lo ordinino, noi non andremo a sud, Bert», dissi io.
Finché si può si cerca sempre di restare uniti in squadra: perché è meglio per il
morale e per il potenziale offensivo, e le possibilità di fuga sono maggiori che da
soli. Ma se la pattuglia fosse stata divisa, il vantaggio di scegliere di andare a nord
era che potevi essere il peggior navigatore del mondo e riuscivi comunque a
trovare la strada giusta. Vai verso nord finché incontri il fiume, poi gira a sinistra
verso ovest. Ma anche se fossimo riusciti ad attraversare il confine, non potevamo
giurare di trovarci su terreno sicuro. Non c'erano informazioni che ce ne dessero
la certezza.
La cosa di cui avevamo terrore era essere catturati. Per quanto ne sapevo io, gli
iracheni non erano firmatari né della convenzione di Ginevra né di quella dell'Aia.
Tutti avevamo letto i rapporti sulle atrocità che avevano commesso negli
interrogatori durante la guerra contro l'Iran. I loro prigionieri erano stati frustati,
sottoposti a scariche elettriche e parzialmente squartati. Temevo molto che, se
fossimo stati catturati e avessimo dato solo le quattro generalità - matricola,
grado, nome e data di nascita -, gli iracheni non si sarebbero accontentati e ci
avrebbero chiesto di più, magari con i metodi terrificanti già usati in precedenza.
Quindi decisi (senza dirlo ai miei superiori) che, contrariamente alle convenzioni
militari, la pattuglia avrebbe dovuto inventarsi una storia di copertura. Ma quale?
Che fossimo una forza d'attacco era evidente. Saremmo stati mollati nella parte
nord-occidentale dell'Iraq con una quantità impressionante di munizioni,
esplosivi, acqua e cibo. Non ci voleva un cervello raffinato per capire che non
facevamo parte della Croce Rossa.
La sola idea che riuscimmo a tirar fuori era che eravamo una squadra di
salvataggio e ricerca. Queste squadre arrivavano a frotte, specialmente quando gli
americani stavano cercando uno dei loro piloti abbattuti. I piloti avevano il
TACBE (tactìcal beacon), un radiofaro tattico che trasmetteva sulla frequenza
internazionale di richiesta di aiuto che gli AWACS (Airborne Warning And
Contral System, «aereo-radar») ascoltavano continuamente e registravano.
Naturalmente ascoltavano anche tutti gli altri, compresi gli iracheni. Gli AWACS
avrebbero individuato il pilota dal suo radiofaro e avrebbero riferito il messaggio.
A quel punto veniva allestita una squadra di ricerca e soccorso, che si imbarcava
su un elicottero insieme a un gruppo di otto-dieci uomini pronti a fornire
copertura dall'aria con mitragliatrici. La squadra poteva essere raggiunta anche da
un paio di elicotteri d'attacco Apache che garantivano la copertura in modo che
l'elicottero più grande potesse scendere e caricare il pilota. In caso di necessità era
inoltre possibile avere la copertura aerea, cioè un paio di cacciabombardieri A-10
per aumentare la potenza di fuoco dal cielo. Si attribuiva la massima importanza
alla capacità di andare a prendere i ragazzi, bisognava riuscirci a tutti i costi.
Perciò, tu sapevi che, se fossi finito nella merda, avrebbero fatto di tutto per
venire a salvarti: specialmente se eri un pilota. Questa è un'ottima cosa per il
morale e per l'efficienza in volo... e, a parte il resto, c'è un aspetto puramente
finanziario: ogni singolo pilota è costato milioni di sterline in addestramento.
Gli iracheni sapevano di queste squadre di ricerca e soccorso, e sapevano anche
che all'interno dell'elicottero di salvataggio c'è una squadra di medici che deve
occuparsi di eventuali feriti.
Noi eravamo nel numero giusto ed eravamo vestiti più o meno allo stesso modo.
Contrariamente a quanto di solito si crede, non andiamo in giro come ci pare e
piace. Qualche forma di riconoscimento, in modo che le nostre truppe ci possano
identificare, è necessaria. Nessuno vuole essere ammazzato dai suoi: sarebbe
molto poco professionale. Così, per questo tipo di operazioni, ci si veste più o
meno da soldati.
Dato che trasportavamo del normale PE4, avremmo potuto dichiarare che era per
proteggere noi stessi, e che qualche volta dovevamo allestire un punto d'incontro,
mentre gli AWACS ci spiegavano dove si trovava il pilota abbattuto. In un caso
del genere dovevamo garantirci una protezione locale. « Ci hanno dato tutta
questa roba », avremmo spiegato, « ma in realtà non abbiamo la più pallida idea
di come usarla. »
Tutti avevamo una certa esperienza medica. Gli appartenenti al Reggimento
vengono addestrati ad alti livelli. Chris era il sanitario della pattuglia, e perciò era
stato parzialmente addestrato nel servizio sanitario nazionale. Poi Stan,
naturalmente, aveva la laurea in medicina e un anno di esperienza clinica. Le
squadre di ricerca e soccorso generalmente hanno a che fare con feriti, e gente
come noi poteva tranquillamente farne parte.
Il radiofaro tattico sarebbe stato un elemento della storia che avremmo raccontato,
ma sotto sotto sapevamo che non avrebbe retto a lungo, specialmente se fossimo
stati catturati con l'attrezzatura nascosta. Sapevamo che, mentendo, avremmo
guadagnato non più di due o tre giorni, ma sarebbero stati sufficienti perché le
superiori autorità valutassero il danno che potevamo arrecare alla sicurezza delle
operazioni. Che cosa sanno? avrebbe chiesto il nostro comando. E come possono
compromettere le operazioni future? Avrebbero dovuto presumere che avremmo
rivelato tutto ciò che sapevamo. Ecco perché ci viene sempre detto solo ciò che
dobbiamo sapere, per il bene di noi stessi e di tutti gli altri.
Erano quasi le sei, l'ora di fare un'altra pausa. Ormai la stanza puzzava da far
senso, e sui nostri volti leggevamo i segni della tensione. Uscimmo, ci facemmo
una risata e, tanto per cambiare, ci sedemmo tutti assieme. Normalmente uno
sarebbe andato in giro con gli amici a farsi gli affari suoi.
« Ero depresso perché la sera prima di partire ho guardato Apocalypse Now alla
televisione», osservò Vince mescolando il caffè.
«Anch'io», disse Mark. «Ma non c'era altro da fare. I pub erano tutti chiusi. »
La maggior parte di noi aveva sperimentato la stessa depressione nelle prime ore
del mattino, ed eravamo semplicemente rimasti seduti ad aspettare l'ora. Jilly e io
avevamo passato la giornata e la notte precedenti in un silenzio carico di tensione.
Solo Bob aveva trascorso la vigilia in modo del tutto diverso, a dimenarsi tutta la
notte al club: malamente come al solito, c'era da scommetterci.
Parlammo della qualità della missione e di quanto eravamo ansiosi di arrivare sul
posto, ma l'entusiasmo era un po' rovinato dal pensiero di quanto saremmo stati
isolati. Sapevamo che era rischioso, ma non era la prima volta, e nemmeno
l'ultima: dopo tutto, ci pagavano per questo.
Riempimmo le nostre borracce per la sessione seguente.
Mentre riassumevo le dodici ore di pianificazione, l'umore generale era più
sollevato.
«Bene. Arriviamo sul posto con un Chinook in un punto di sbarco situato venti
chilometri a sud della strada principale, poi marciamo una notte, forse due (a
seconda del terreno e della popolazione), fino al punto di sosta. Da lì faremo una
ricognizione per localizzare la linea di terra. Questa ricerca potrebbe richiedere
due o tre notti, lo sapremo soltanto sul posto. All'inizio ci preoccuperemo di
trovare le linee telefoniche, ma contemporaneamente appronteremo un punto di
osservazione sulla strada principale per sorvegliare i movimenti degli Scud. Se
vediamo tutti gli Scud possibili e immaginabili transitare sulla strada, ci fermiamo
e chiediamo un attacco aereo. Se vediamo il lancio di uno Scud, facciamo un
rilevamento, lo localizziamo, facciamo una ricognizione e poi organizziamo
l'attacco strategico. Quindi si rientra al punto di sosta e continuiamo la missione.
Tutto questo è molto flessibile finché arriveremo sul posto. Potremmo vedere il
lancio di uno Scud fin dalla prima notte che arriviamo.
Ma non faremo niente finché non ci troveremo nel punto di sosta.
Non serve un cazzo mettersi a gridare « banzai » e farci pigliare a calci nel culo
solo per un po' di spavalderia e un unico Scud.
Meglio prendere tempo e fare più danno. Così decideremo con calma: poi si va, e
allora daremo il massimo. Dopo quattordici giorni ce ne andremo verso un punto
di raccolta prefissato con l'equipaggio dell'aereo nel momento in cui ci lasciano a
terra, oppure daremo un punto d'incontro con il nostro rapporto sulla situazione.
Arriveranno a rifornirci e a rispedirci indietro, oppure ci riporteranno a casa per
affidarci un'altra missione. Tutto molto semplice, davvero. »
Tutto qui. Si devono spiegare le cose più semplici nel modo più semplice, così c'è
meno roba da scordare e meno roba che può andare storta. Se un piano ha molte
sfaccettature e dipende da un'organizzazione precisa al secondo - cosa che a volte
succede -, è molto più probabile che salti. Molti piani, naturalmente, sono ben
poco elastici, ma comunque si deve sempre cercare di mantenerli semplici.
Mantienilo semplice e lo mantieni sicuro.
Avevamo una radio per comunicare con la base aerea avanzata in Arabia Saudita.
Era improbabile che ci fosse posto per i pezzi di ricambio, a causa del peso.
Averne una sola non sarebbe stato un problema, perché avremmo lavorato in
un'unica pattuglia.
Avevamo anche quattro radiofari tattici; l'ideale sarebbe stato averne uno a testa,
ma non erano disponibili. Sono dispositivi a doppio uso. Permettono di stabilire la
posizione e trasmettono un segnale che può essere raccolto da qualsiasi aereo.
«Ricordo un'unità nel Belize», dissi. «Non erano del Reggimento, ma si stavano
addestrando nella giungla, ed erano appunto dotati di radiofaro tattico. Un
ufficiale ripose il suo nel proprio armadietto, poi lo mise in funzione e partì.
Alcuni aerei da trasporto stavano ascoltando alla radio, e si misero tutti a correre.
Ci vollero due giorni prima che scoprissero il radiofaro nell'armadietto. »
« Testa di cazzo. »
Lo piazzi su un'altra frequenza e lo puoi usare come una radio normale, parlando
entro un raggio limitato con un aereo. Puoi anche usarlo per comunicare a terra
con un'altra squadra, ma il collegamento deve essere a vista, e ha una portata
limitata. La sua funzione principale, tuttavia, sarebbe stata di parlare con gli
AWACS se fossimo finiti nei guai. Fummo informati che gli AWACS ci
avrebbero garantito ventiquattro ore di copertura e avrebbero risposto a una
chiamata entro quindici secondi. Era confortante sapere che qualcuno ci avrebbe
risposto subito, con quella bella voce tranquilla e gentile che usano sempre gli
AWACS con i piloti che mandano richieste di aiuto. Il problema era che il
radiofaro tattico era molto facilmente individuabile. Lo avremmo usato solo in
emergenza, o se tutto fosse andato a puttane nell'attacco aereo.
Avevamo anche un'altra radio che trasmetteva col metodo Simplex, lo stesso
principio del radiofaro tattico ma su una frequenza diversa, e con una portata di
circa un chilometro. Così avremmo potuto parlare con l'elicottero se avessimo
avuto un problema importantissimo, oppure per chiamarlo o dirigerlo verso di noi.
Inoltre la potenza della trasmissione era minima, intercettarla quasi impossibile, e
avremmo potuto usarla con relativa sicurezza.
I principali accessori nella nostra cintura sarebbero stati munizioni, acqua, cibo di
emergenza, kit di sopravvivenza, bende, un coltello e una bussola prismatica
come ricambio della bussola Silva e per fare i rilevamenti sul terreno. Acqua e
munizioni: queste sono sempre le prime cose cui pensare. Tutto il resto
dell'attrezzatura è secondario, quindi i generi di conforto personali sarebbero stati
gli ultimi a essere caricati, e solo se avanzava posto. Il kit di sopravvivenza deve
sempre adattarsi alla scena della missione, quindi togliemmo le lenze da pesca,
ma tenemmo l'eliografo, la minisega e la lente di ingrandimento per accendere il
fuoco. Portavamo anche un kit di pronto soccorso che consisteva in fili da sutura,
analgesici, reidratanti, antibiotici, bisturi, flebo e strumenti per somministrarli. La
procedura operativa standard prevede di portare le due fialette di morfina intorno
al collo, così tutti sanno dove sono. Se devi somministrare morfina, dovrai usare
sempre quella del ferito, non la tua: potresti averne bisogno dopo pochi minuti.
Avremmo lasciato a casa i sacchi a pelo, a causa dell'ingombro e del peso, e poi il
tempo non sarebbe stato troppo terribile. Io portai un completo leggero di Gore-
Tex, tutti gli altri optarono per un poncho o una coperta. Presi anche il mio
vecchio berretto di lana, perché dalla testa si perde molto calore corporeo. Quando
dormo me lo tiro sopra la faccia, il che ha l'ulteriore vantaggio di darti la
piacevole sensazione di stare sotto le coperte.
Nei nostri zaini trasportavamo esplosivi, batterie di ricambio per la radio di
pattuglia, altri preparati per endovenose e set di idratazione, acqua e cibo. Bob fu
scelto per trasportare il bugliolo, un contenitore di plastica da circa quattro litri.
Quando fosse stato pieno, uno di noi lo avrebbe portato fra i cespugli a un paio di
chilometri di distanza mentre eravamo in pattuglia; avrebbe spostato una pietra o
scavato una buca, e lo avrebbe svuotato risistemando la pietra o il terriccio.
Questo avrebbe evitato che ci scoprissero per l'odore, che si avvicinassero animali
o fossimo perseguitati dagli insetti.
Assegnai varie altre mansioni.
« Chris, tu ti occupi del kit di pronto soccorso. » . , ' Questo significava
procurare articoli sanitari per le ferite, compreso un set completo per endovenose
e indumenti da campo per tutti.
« Legs si occuperà della radio. »
Sapevo che Legs, fra l'altro, si sarebbe assicurato che avessimo antenne di
ricambio per la radio di pattuglia, in modo che, se fossimo stati visti mentre
l'antenna era fuori, l'avremmo semplicemente abbandonata e ce ne saremmo
andati. Tanto saremmo stati in grado di comunicare usando l'antenna di ricambio.
Avrebbe anche controllato che tutto fosse dotato di una batteria nuova, che
avessimo le batterie di ricambio e che ogni cosa funzionasse alla perfezione.
«Vince e Bob... voi potete occuparvi degli esplosivi?»
Avrebbero tolto il plastico dal suo involucro e lo avrebbero avvolto nel nastro
mimetico per mantenerlo in forma. Questo avrebbe evitato il rumore dello
spacchettamento sul posto o il rischio di farci scoprire lasciandone i resti alle
spalle. « Se il nemico vede anche un solo fiammifero consumato sul terreno
davanti a lui, sa dove ti trovi», ci aveva spiegato l'istruttore del mio corso di
sopravvivenza e combattimento. « E quando se lo trova alle spalle, sa che sei delle
Forze Speciali. »
« Mark, tu puoi occuparti del cibo e dei bidoni. »
Il neozelandese avrebbe ritirato dai magazzini razioni per otto uomini per
quattordici giorni. Le apri e prendi una dose da metterti nella cintura per farti
l'infuso. Io la carta igienica la butto via, perché in azione cago accovacciato e
quindi non ne ho bisogno. Ma tutti tengono il sacchetto di plastica per cagarci
dentro.
Dopo l'uso si fa un semplice nodo e si ficca ogni cosa nello zaino. Tutto deve
restare con te, non puoi lasciare niente, potrebbe rivelare la tua posizione, vecchia
e nuova. Se uno si limita a seppellire la merda, può risvegliare l'interesse degli
animali, e se la scoprono potrebbero analizzarla. Per esempio, se nelle feci
trovano del riso, è facile che si tratti di iracheni; ma i lamponi o il chili indicano
una presenza di occidentali.
Si faceva sempre un gran casino per cambiare i menù. La regola non scritta è che
quello che non ti va lo butti in un bidone e gli altri ragazzi possono scegliere. A
Stan non piaceva lo stufato del Lancashire, ma adorava la bistecca con verdure:
cosi gli cambiammo il contenuto senza che se ne accorgesse. Avremmo
attraversato il confine con una scorta per quattordici giorni del cibo che più
detestava. Era solo uno scherzo: una volta sul posto, avremmo rifatto il cambio.
Avevamo bisogno anche di reti mimetiche per nascondere noi stessi e
l'equipaggiamento.
« Lo farò io », si offrì volontario Dinger.
Avrebbe tagliato dei rotoli di canapa in quadrati da un metro e ottanta. La canapa
nuova di zecca deve essere trattata con olio da motore: la si mette in una pozza
d'olio e si sfrega bene con una spazzola. Poi si rivolta, la si mette nel fango e si
sfrega. Si da una scrollata, si lascia asciugare, ed ecco che sei un pascià, con la tua
rete mimetica personale.
«Tutto deve essere pronto per domani mattina alle 10.00», conclusi.
Dovevamo controllare e verificare, verifìcare e controllare.
Questo non avrebbe impedito che qualcosa andasse male o non funzionasse, ma
almeno diminuiva le probabilità.
Erano quasi le 22.30, e Dinger annunciò che aveva finito le sigarette. ' Presi la
palla al balzo. Avevamo esaminato tutto, e continuare sarebbe stato solo una
perdita di tempo. Mentre se ne andavano, i ragazzi misero tutti i pezzi di carta in
un sacco da bruciare che sarebbe stato distrutto.
Vince e io ci trattenemmo ancora. Dovevamo esaminare le Fasi (il piano di
massima) con il comandante dello squadrone e il maresciallo. Ci avrebbero
bersagliato con una raffica di domande che cominciavano con « e se...? » e il loro
modo diverso di vedere le cose avrebbe potuto farci apparire il tutto sotto una
nuova luce.
Se tutto ci andava di culo, magari ci approvavano anche il piano.

4.

NON riuscivo a dormire perché la mente andava a duecento all'ora. Ero


responsabile della vita di alcune persone, compresa la mia. Il comandante dello
squadrone aveva approvato il piano, ma questo non mi aveva impedito di
continuare a chiedermi se ci fosse un altro sistema - migliore - per affrontare la
missione.
Forse gli altri si erano limitati ad annuire passivamente e a mostrarsi d'accordo
con quello che avevo detto? Probabilmente no, perché tutti avevano un interesse
considerevole per il nostro successo ed erano persone schiette. C'era qualcosa che
avevo trascurato o dimenticato? Comunque vada, si arriva sempre al punto in cui
bisogna premere il pulsante e tanti saluti. Avrei potuto passare il resto della vita a
pensare alle infinite opzioni possibili.
Mi alzai e mi preparai qualcosa da bere. Legs aveva appena finito di preparare il
kit di segnalazione e venne da me per tenermi compagnia. Né Dinger né Stan
erano in vista. Quei due sarebbero stati in grado di dormire comunque e
dovunque.
« I comandanti delle trasmissioni mi hanno appena comunicato il nostro
nominativo-radio », mi annunciò Legs. « E' Bravo Two Zero. Mi piace. »
Discutemmo un po' sui possibili difetti del piano. Mentre lo guardavo tornare al
suo letto, mi domandai se stesse pensando a casa. Era un uomo con un forte
attaccamento alla famiglia e il suo secondogenito aveva solo cinque mesi. La mia
mente vagò verso Jilly. Speravo che non si spaventasse per quello che poteva
leggere sui giornali.
C'era un continuo rumore di attrezzature che venivano caricate mentre i ragazzi
gironzolavano cercando di arraffare qualcosa. Mi sistemai il walkman e ascoltai i
Madness. In realtà non ascoltavo veramente perché la mia mente gridava a
squarciagola in un mucchio di direzioni, ma verso le tre devo essermi
addormentato perché alle sei, quando mi svegliai, il cantante solista era sceso di
due ottave e la musica stava per interrompersi gracchiando.

Quella mattina fu piuttosto frenetica. Controllammo di essere ancora in grado di


attivare il segnale di aiuto sui radiofari tattici e di usarli direttamente in modo che
riuscissimo davvero a parlare a vista.
Vince aveva raccolto cartucce calibro 5.56 mm per gli Armalite, oltre a tutte le
bombe da 40 mm per i lanciabombe portatili su cui era riuscito a mettere le mani.
Spesso c'era scarsità di queste bombe perché il lanciabombe è un'arma
formidabile. Le bombe sono un bene prezioso; quando le trovi, ne fai incetta.
Spiegai il problema a un collega dello squadrone A e lui andò a cercarle e ce ne
procurò delle altre.
Tutte le 5.56 dovevano essere messe nei caricatori, e i caricatori essere controllati
per assicurarsi che funzionassero. I caricatori sono importanti quanto le armi
stesse, perché se le molle non spingono la cartuccia nella posizione giusta, le parti
meccaniche non possono poi infilarla nella camera di sparo. Quindi si devono
controllare e ricontrollare i caricatori per tre volte. Di solito il caricatore
dell'Armalite porta trenta colpi, ma molti di noi decidono di mettercene solo
ventinove perché questo aumenta un po' la spinta della molla. E' più facile e più
rapido infilare un nuovo caricatore che sbloccare un inceppamento.
Controllammo le bombe degli M203 e gli esplosivi. Il PE4 non puzza e
assomiglia molto alla plastilina. E' sorprendentemente inerte. Puoi anche
appiccargli fuoco come a un bastoncino e osservarlo bruciare come una candela
impazzita. Il solo problema del PE4 è che quando fa freddo è piuttosto fragile e
duro da plasmare. Bisogna renderlo malleabile lavorandolo con le mani.
Controllammo e ricontrollammo i detonatori. Quelli non elettrici che avremmo
utilizzato per il dispositivo d'attacco sono attivati dalla miccia a lenta combustione
che brucia al loro interno, e non possono essere collaudati. I detonatori elettrici si
possono collaudare con un tester. Se il circuito elettrico attraversa il detonatore, si
può stare sicuri che l'impulso elettrico attiverà l'esplosivo all'interno e a sua volta
farà esplodere la carica. Fortunatamente le accensioni mancate sono molto rare.
Ce ne vuole per controllare i timer. Bisogna fissare il tempo e accertarsi che
funzioni. Se funziona per un'ora, funzionerà per ventiquattro. Allora programmi il
dispositivo a tempo e vedi se funziona correttamente. In teoria lo cambi con un
altro se anticipa o ritarda di oltre cinque secondi. In pratica, io getto ogni timer su
cui nutro dei dubbi.
L'ultimo accessorio da collaudare era il filo d'inciampo per le mine antiuomo
direzionali Claymore, prova che si faceva anch'essa con un tester.
A quel punto provammo il montaggio e lo smontaggio delle mine antiuomo Elsie.
Molti di noi non avevano più usato questo tipo di arma da molto tempo. Ci
assicurammo di ricordarci come innescarle e, cosa ancora più importante, come
disinnescarle. Si sarebbe potuta verificare una situazione per cui, dopo avere
piazzato gli esplosivi e le mine Elsie sul bersaglio, per qualche ragione saremmo
dovuti andare a toglierli. Questo complica la fase del minamento, perché non solo
si devono ricordare i punti dove le mine sono state piazzate, ma a levare il
dispositivo antimanomissione dovrebbe essere proprio la persona che lo ha
attivato.
C'era molta penuria di Claymore, il che costituiva un problema, perché sono
ottime per la difesa e contro gli inseguitori. La soluzione era quella di fare un
giretto in cucina, prendere una pila di contenitori del gelato e farsele da sé. Si fa
un buco al centro del cartone, si infila l'estremità di una miccia detonante e si fa
un nodo all'interno del contenitore. Poi si fa una carica cava con il PE4 e la si
mette sul fondo della scatola, assicurandosi che il nodo sia incorporato. A quel
punto si riempie la scatola di dadi, bulloni, piccole schegge di metallo e qualsiasi
cosa pericolosa si riesca a trovare in giro, si rimette il coperchio e si avvolge con
abbondante nastro adesivo per sigillarla. Una volta che la Claymore è sistemata,
bisogna solo mettere un detonatore sulla miccia detonante e sei come un topo nel
formaggio. , Quindi ci occupammo delle armi, cominciando a fare un giro al
poligono per azzerare i mirini. Ci si sdraia bocconi, si mira a uno stesso punto su
un bersaglio distante cento metri e si sparano cinque colpi. Questi si definiscono
una rosata. Si verifica sul bersaglio dove la rosata è finita e quindi si aggiusta
l'abo in modo che il gruppo successivo finisca dove vuoi tu, cioè sul bersaglio al
quale stai mirando. Se non lo azzeri e la rosata è una decina di centimetri a destra
rispetto a ciò che tu stai mirando a cento metri, allora a duecento metri sarà a
venti centimetri e così via. A quattrocento metri potresti facilmente mancare il
bersaglio.
L'azzeramento di un individuo sarà diverso da quello di un altro a causa di molti
fattori. Alcuni sono le dimensioni fisiche e il «rilievo oculare», cioè la distanza tra
l'occhio di chi spara e l'alzo. Se usi l'arma di un'altra persona, l'azzeramento per te
può essere fuori bersaglio. Questo non costituisce un problema per le brevi
distanze fino a trecento metri, ma quanto maggiore è la distanza, tanto maggiori
possono essere i problemi. Se si fosse realizzata questa ipotesi, vedendo dove
andavano i colpi, avremmo potuto sparare fuori bersaglio per aggiustare il tiro.
Passammo un'intera mattinata giù al poligono, prima per azzerare le armi e poi
per provare tutti i caricatori. Io ne avrei portati con me dieci, per un totale di
duecentonovanta colpi, e ciascuno dei caricatori doveva essere provato. Avrei
portato anche una scatola di duecento colpi per una mitragliatrice Minimi che usa
le stesse cartucce delPArmalite e che può essere caricata a nastro e a caricatore.
Lanciammo anche alcune bombe da esercitazione dell'M203, che quando
atterrano mandano una nuvoletta di fumo bianco, aiutandoti a vedere se devi
mirare più in alto o più in basso: anche questo è un sistema rudimentale di
azzeramento. , , Provammo diversi scenari. La situazione sul terreno può
mutare molto rapidamente, e ci si deve aspettare che tutto sia molto fluido. Più ci
si esercita, più si diventa flessibili. Questa fase della programmazione si chiama «
fallo e parlane », perché mentre facciamo le cose organizziamo una specie di
parlamento cinese. Tutti, indipendentemente dal loro grado, hanno il diritto di
contribuire con idee personali e di demolire quelle degli altri.
Ci esercitammo con vari tipi di scenari possibili perché non eravamo sicuri della
natura del terreno. Avrebbe potuto essere piatto come una focaccia, nel qual caso
avremmo fatto il posto di agguato in due gruppi di quattro per garantirci il
sostegno reciproco. Discutemmo del sistema di comunicazione tra i due gruppi; o
a corde, cioè mediante semplici pezzi di spago che si possono tirare in caso di
grave pericolo, o con il telefono da campo (una piccola cornetta attaccata a un
pezzo di cavo doppio steso fino alla posizione successiva). Ci esercitammo a
srotolare il cavo e a parlare tra noi secondo le modalità che avremmo usato nel
caso avessimo deciso di sfruttare la linea telefonica. Legs si allontanò per un po',
ritornando con un paio di telefoni da campo elettronici che nemmeno lui
conosceva bene. Prima che li arraffasse, avevano fatto la spola da un ufficio
all'altro nei vari prefabbricati. Ci sedemmo con questi telefoni come bambini con
un nuovo giocattolo, schiacciando ora questo ora quel tasto. « E allora questo a
cosa serve? E se schiaccio quest'altro? »

Quando si prepara uno zaino la priorità è «l'equipaggiamento per la missione», nel


nostro caso gli esplosivi, le munizioni e gli attrezzi che ci avrebbero aiutato a
piazzare gli uni e a sparare le altre. Poi c'erano le cose essenziali per la
sopravvivenza: acqua, cibo, cassetta del pronto soccorso e, per quella particolare
operazione, le tute anti-NBC.
Ciò che stivavamo negli zaini era quello di cui avremmo avuto bisogno per
operare sul terreno. Tuttavia, le batterie per la radio si esauriscono e durante le
due settimane di autonomia avrebbero dovuto essere sostituite, insieme a molte
altre cose.
Quindi dovevamo portarci, e riuscire a nascondere, altre attrezzature,
semplicemente per rifornire gli zaini. Questo era ciò che si trovava nei bidoni e in
due sacchi, contenenti l'uno altre attrezzature NBC, l'altro del cibo supplementare
più le batterie e cianfrusaglie varie. ' , Il carico totale era spaventoso: incaricato
di distribuirlo era Vince. I vari tipi di attrezzatura devono essere equamente
ripartiti tra i membri della pattuglia. Se tutti gli esplosivi fossero stati sistemati in
uno zaino e, per qualsiasi ragione, questo fosse andato perduto, non avremmo
potuto usarli. Nella guerra delle Falkland l'intero approvvigionamento di
cioccolato Mars era stato inviato su una sola nave e tutti si fecero prendere dal
panico nel timore che affondasse. Avrebbero dovuto avere Vince a organizzarlo.
A parte le considerazioni tattiche, le persone vogliono e si aspettano carichi
uguali, siano esse alte un metro e cinquanta o un metro e novanta. Noi abbiamo
una bilancia che pesa fino a novanta chili, e indicò che ci portavamo nella cintura
e nello zaino settanta chili ciascuno. Inoltre avevamo una tanica da diciotto litri
d'acqua per ciascuno. Portavamo il nostro kit NBC e le razioni di riserva che
pesavano altri sette chili, in due sacchi legati insieme a formare una bisaccia che
si poteva portare sopra le spalle o intorno al collo. Il peso totale per ciascun uomo
era quindi di novantacinque chili. Tutti sistemavano la loro attrezzatura come
meglio desideravano: non c'è un modo prestabilito per farlo, purché si abbia tutto
e si possa usare tutto.
Il solo obbligo riguardava la radio della pattuglia, che va sempre sopra lo zaino
del segnalatore, così da poter essere recuperata da chiunque in caso di scontro.
Al cinturone sono appesi giberne, borracce e zainetto con munizioni e materiali di
sopravvivenza: acqua, cibo, attrezzature di pronto soccorso, più gli effetti
personali. Per questa operazione ci saremmo anche portati nel cinturone il
radiofaro tattico, oltre alla rete mimetica per avere copertura se non fossimo
riusciti a trovare niente di naturale, e vanghette per scavare fino ai cavi, se
necessario. Il cinturone non si dovrebbe slacciare mai, ma se capita non bisogna
mai starne lontani più di un braccio. Durante la notte devi sempre avere un
contatto fisico con esso. Se te lo togli, ci devi dormire sopra. Stesso discorso per
l'arma personale.
Il miglior modo per trasportare le attrezzature si dimostrò l'alternanza di gruppi di
quattro: quattro di noi garantivano la protezione e altri quattro facevano la
faticaccia; poi ci si dava il cambio. Era un lavoro faticoso e io non ero
particolarmente ansioso di sorbirmi la marcia di venti chilometri della prima notte
- o forse due notti - da quando saremmo scesi dall'elicottero fino alla strada
principale. Certamente non ci saremmo esercitati a provarla adesso: sarebbe stato
un po' come esercitarsi a trovarsi bagnati, al freddo e affamati, il che non ci
avrebbe portato a nulla.
Ci esercitammo invece a scendere dall'elicottero e alle azioni che avremmo
compiuto se fossimo stati scoperti mentre stavamo scendendo o mentre
l'apparecchio se ne stava andando.
Tutto ciò che facevamo era in vista della missione. Se non facevamo fisicamente
qualcosa per prepararci, ci stavamo comunque pensando. Mentre « facevamo e
parlavamo », notavo la concentrazione scolpita sul volto di tutti.
Le cucine erano centralizzate, i cuochi si facevano un culo nero per darci da
mangiare. La maggior parte del Reggimento si era già dileguata in missioni varie,
ma c'erano abbastanza ragazzi da riempire la mensa e far casino. I ragazzi dello
squadrone A si erano rasati i capelli nella maniera più scandalosa possibile, fino al
cranio. Avevano la faccia abbronzata e teste bianche e scintillanti. Alcuni di loro
erano autentici raffinati, animali da bar che il venerdì in città fanno le vasche:
avevano rapate allucinanti e senza dubbio pregavano disperatamente che la guerra
continuasse abbastanza perché gli ricrescessero i capelli.
Dato che l'amministrazione del Reggimento è fondamentalmente centralizzata,
continuavo a imbattermi in persone che non vedevo da molto tempo. Allora ci si
sfotteva per bene, si vedeva che cosa avevano da leggere e poi glielo si fregava.
Passammo davvero dei bei giorni. Eravamo tutti più socievoli del solito,
probabilmente perché ci trovavamo lontani da casa e non c'erano distrazioni, solo
il lavoro. Tutti erano euforici. Dalla seconda guerra mondiale, insomma dai tempi
di David Stirling, il Reggimento non si era più trovato concentrato tutto in un solo
posto.
A un certo punto ci fecero delle iniezioni davvero tremende contro i germi della
guerra biologica che si temeva che Saddam Hussein potesse usare. In teoria
bisognava farsi fare un'iniezione, poi aspettare un paio di giorni e ritornare per
un'altra, ma la maggior parte di noi dopo la prima puntura restò fuori
combattimento. Era terrificante, le braccia si gonfiavano come palloni... così per
la seconda non tornammo più.

Il 18 gennaio ci dissero che ci saremmo trasferiti in un altro posto, un aeroporto


da cui avremmo preparato la nostra operazione. Passammo in rassegna gli effetti
personali eliminando tutte le cose compromettenti o pornografiche, nel caso
fossero stati inviati ai nostri parenti prossimi. La stessa operazione sarebbe stata
rifatta anche dai ragazzi dello squadrone per assicurarsi che i nostri feticci da
depravati non fossero mai resi pubblici. Per attenuare l'impatto drammatico sulle
famiglie, di solito si mettono le attrezzature militari in una borsa e gli effetti
personali in un'altra.
Ci mettemmo sopra le etichette e passammo tutto in custodia al sergente del
quartier generale dello squadrone.
Decollammo dalla base operativa su un C-130 pieno di Land Rover e attrezzature
varie. Fu un volo a bassa quota, tattico, anche se ci trovavamo ancora nello spazio
aereo saudita. C'era troppo frastuono per parlare. Io mi infilai un paio di cuffie
antirumore e cercai di fare un sonnellino.
Era buio pesto quando atterrammo alla grande base aerea della coalizione e
cominciammo a scaricare tutte le attrezzature. Il fragore era costante e da spaccare
i timpani. Sulla pista illuminata a giorno decollavano e atterravano in
continuazione aerei di tutti i tipi, dagli osservatori agli A-10 Thunderbolt.
Lì eravamo molto più vicini alla frontiera irachena e notai che faceva molto più
freddo di quello cui fossimo abituati. Per non gelare c'era bisogno di un maglione
o di una giacca, anche mentre eravamo occupati nello scarico. Stendemmo i nostri
sacchi a pelo sull'erba sotto le palme e ci preparammo una buona tisana presa dal
cinturone.
Ero sdraiato sulla schiena a guardare le stelle quando sentii un rumore che
cominciò come un tuono basso e distante e poi aumentò fino a riempire il cielo.
Frotte di quelli che sembravano B-52 ci passarono sopra la testa diretti in Iraq.
Ovunque guardassi c'erano bombardieri. Sembrava la scena di un manifesto di
reclutamento della seconda guerra mondiale. Gli aerei-cisterna tiravano fuori le
sonde e gli altri apparecchi si avvicinavano per fare rifornimento. Il cielo
rimbombò per cinque o sei minuti. Una forza aerea così imponente da mozzare il
fiato, che dominava i cieli... e giù tra l'erba un pugno di teste di cazzo che
prendevano il tè. Eravamo ossessivamente concentrati su noi stessi, di tutta la
guerra non vedevamo che i nostri preparativi. Adesso ci rendemmo conto: la
guerra del Golfo non era solo quattro gatti in missione, ma qualcosa di
dannatamente serio. Mancava un solo rifornimento di carburante, e anche noi
saremmo stati pronti a entrare nella cagnara.
Appena prima dell'alba le sirene cominciarono a ululare e la gente si mise a
correre in tutte le direzioni. Nessuno di noi aveva la più pallida idea di che cosa
stesse succedendo, e rimanemmo tranquilli nei sacchi a pelo.
« Mettetevi al riparo », gridò qualcuno, ma si stava troppo al calduccio dove ci
trovavamo. Nessuno si mosse, e giustamente. Se avessero voluto che sapessimo
cosa stava succedendo, sarebbero venuti a dircelo. Alla fine qualcuno urlò: «
Scud! » e sobbalzammo.
Eravamo quasi in piedi quando giunse l'ordine di gettarsi a terra.
Ogni sessanta minuti, all'ora esatta, qualcuno si sintonizzava sul Servizio
Internazionale della BBC. In certi momenti si sentiva anche la sigla degli Archers.
Quando si è lontani c'è sempre qualcuno che ascolta le notiziuole quotidiane di
folclore domestico, anche se non lo ammette.
Ci avevano detto che quella notte saremmo partiti. Era un sollievo. Eravamo
arrivati alla base aerea senza nient'altro che l'equipaggiamento.
Nel pomeriggio impartii una serie di ordini formali.-Erano presenti tutti i
partecipanti alla missione, tutti i membri della pattuglia, il comandante dello
squadrone e l'ufficiale alle operazioni.
Una volta che li avessi dati a voce, gli ordini sarebbero stati passati al centro
operativo. Sarebbero stati conservati fino alla fine dell'operazione, così tutti
avrebbero saputo cosa volevo che succedesse se qualcosa fosse andato storto. Se,
per esempio, il quarto giorno avessimo dovuto trovarci nel punto A e non ci
fossimo stati, avrebbero saputo che io desideravo sopra di noi un jet veloce per
poterlo contattare con il radiofaro tattico.
In testa a ciascun foglio degli ordini sono stampate le parole RICORDATI CHE
DEVI SAPERE SOLO QUELLO CHE TI SERVE, per rammentare la prima
regola della sicurezza delle operazioni. E' vitale che nessuno sappia nulla che non
lo riguardi direttamente.
Per esempio, quando avrei dato gli ordini relativi alla missione, i piloti non
sarebbero stati presenti.
Cominciai a descrivere il terreno che avremmo coperto. Si devono spiegare gli
ordini come se nessuno avesse la più pallida idea di quel che sta succedendo,
perciò in questo caso cominciai indicando dove si trovava l'Iraq e con quali paesi
confinava. Poi si parla in dettaglio della zona, che per noi era la curva della strada.
Descrissi la natura del terreno e diedi le poche informazioni topografiche di cui
disponevo. Tutto quello che sapevo io lo dovevano sapere anche loro.
Quindi precisai a che ora si levava e tramontava il sole, le fasi della luna e le
previsioni del tempo. Avevo ricevuto in via confidenziale dai ragazzi della
meteorologia l'informazione che il tempo sarebbe stato freddo e secco. I dati
meteorologici sono importanti perché se negli ordini ti è stato detto, supponiamo,
che il vento prevalente è da nord-est, la cosa può esserti utile nella navigazione.
Dal momento che per la durata della nostra missione il tempo si prevedeva ancora
piuttosto clemente, avevamo deciso di lasciare a casa certa roba pesante. Ma, in
ogni caso, non ci sarebbe stato posto per portarla con noi.
Poi diedi gli ordini della fase Situazione. Normalmente, a quel punto, avrei detto
tutto ciò che sapevo del nemico che potesse riguardarci: armi, morale, reparti,
forze in campo e così via... ma le informazioni erano molto scarse. Avrei anche
parlato della posizione di qualsiasi forza amica, spiegando come avrebbe potuto
aiutarci, ma nella nostra operazione non c'era nulla da dire.
Seguiva l'annuncio dello scopo della missione, che ripetei due volte. Parlai
esattamente come il comandante che ce l'aveva comunicato nella sala del briefing:
uno, localizzare e distruggere la linea di terra nell'area della strada settentrionale
e, due, trovare e distruggere gli Scud.
Adesso arrivava l'Esecuzione, il vero succo degli ordini, cioè il modo in cui
avremmo effettivamente compiuto la missione. Ne diedi un resoconto generale
suddiviso in fasi, un po' come se raccontassi una storia.
«La fase 1 sarà l'infiltrazione, che avverrà con il Chinook. La fase 2 consisterà nel
raggiungere il punto di sosta con il nascondiglio. La fase 3 sarà la routine per
custodire il punto di sosta. La 4 la ricognizione, quindi l'assalto all'obiettivo sulla
linea telefonica. La fase 5 riguarderà le azioni sulle postazioni Scud. La fase 6 la
ritirata, o il rifornimento prima di una nuova missione. »
Quindi entrai nei dettagli di come avremmo operato in ciascuna fase. Questa
esposizione doveva essere la più particolareggiata possibile, per eliminare le zone
d'ombra. Dopo ogni fase parlavo delle « azioni conseguenti », spiegando per
esempio cosa fare se fossimo stati scoperti durante lo sbarco e se la pattuglia fosse
stata presa di mira non appena l'elicottero decollava di nuovo. Così i ragazzi
avrebbero saputo cosa volevo che succedesse nel caso ci fossero stati casini o no.
Naturalmente in teoria tutto andava benissimo, ma per ognuna di queste azioni
bisogna anche descrivere in modo dettagliato come si desidera che le direttive
vengano eseguite. Tutto questo doveva essere prima discusso ed elaborato, quindi
ufficializzato sotto forma di ordini formali. La pianificazione anticipata fa
risparmiare tempo ed energie sul terreno, perché gli uomini sanno cosa si desidera
da loro. Per esempio, che cosa succede se a un certo punto si richiede all'elicottero
di ritornare per sostituire una radio guasta? Quando l'elicottero atterra, facciamo il
giro da dietro?
Oppure prendiamo la radio dal portello del comandante? Come facciamo a
richiamare l'elicottero? Qual è il codice di identificazione? La risposta a
quest'ultima domanda fu che avremmo usato come riconoscimento un codice
fonetico, la parola Bravo. Il pilota dell'elicottero avrebbe saputo che, in
corrispondenza di certe coordinate - o in una certa area all'interno di tali
coordinate -, avrebbe visto lampeggiare Bravo con gli infrarossi. Avrebbe
guardato attraverso i suoi visori notturni e, come gli avevo spiegato, quando
avesse visto la lettera B sarebbe atterrato cinque metri alla sua sinistra. Poi, dato
che sarebbe sceso alla mia destra, io avrei dovuto semplicemente affiancare la
cabina di comando fino alla porta laterale del capomitragliere (che si trova dietro
la cabina, sul lato sinistro del Chinook), gettare dentro la radio e prendere quella
che mi passavano. Se ci fossero stati dei messaggi, mi avrebbero toccato un
braccio e passato un pezzo di carta. Lo scambio sarebbe durato al massimo un
minuto.
Ci volle circa un'ora e mezzo per analizzare tutti i dettagli di ogni fase. Seguirono
le istruzioni di coordinamento, altri punti essenziali come i tempi, le coordinate
topografiche, i punti d'incontro, le località di particolare interesse. Questi aspetti
erano già stati precisati, ma dovevano essere ripetuti per conferma. Esposi anche
le azioni da effettuare in caso di cattura e i dettagli del piano evasione e fuga.
Parlai del supporto di servizio, che era un inventario delle merci e
dell'equipaggiamento che avremmo portato con noi. Per finire, descrissi la
sequenza di comando e i segnali: tipi di radio, frequenze, orari, codici e parole
d'ordine, oltre ogni segnale sul campo che fosse specifico della missione.
« Sono sicuro che ormai tutti sapete», conclusi, «che il nostro codice è Bravo Two
Zero. Il comando è composto da me in quanto capo pattuglia e da Vince come
secondo. Per il resto, potete fare a botte. »
A questo punto risposi alle domande dei componenti della pattuglia, dopo di che
sincronizzammo gli orologi.
Le istruzioni di volo furono date dal pilota, dal momento che durante le fasi di
infiltrazione e di allontanamento sarebbe stato lui al comando. Ci mostrò una
carta con la rotta che avremmo seguito e parlò a lungo delle probabili difficoltà
che avremmo incontrato causa la contraerea e gli attacchi con missili terra-aria
Roland. Ci spiegò come voleva che ci comportassimo nel retro del velivolo, e le
azioni da compiere nel caso fossimo stati abbattuti.
Gli avevo già parlato di questo argomento, e in cuor mio fui contento quando
disse che ci dovevamo dividere: l'equipaggio dell'aereo e quello della pattuglia
avrebbero agito indipendentemente. A essere sinceri, non avremmo gradito la
compagnia di un gruppetto di aviatori, e per qualche ragione anche loro non erano
entusiasti di stare con noi. Il pilota parlò anche del diversivo per l'esfiltrazione,
perché ci sarebbero stati raid aerei contro obiettivi tutto intorno a noi: un certo
numero di rampe di lancio fisse sarebbero state bombardate nel raggio di dieci
chilometri dal punto in cui saremmo atterrati. La nostra esfiltrazione era stata
studiata in modo da permetterci di uscire durante questi attacchi, usandoli di fatto
come copertura.
Il briefing terminò verso le 11.00. Adesso tutti sapevamo dove stavamo andando,
che cosa dovevamo fare e come lo avremmo fatto.
A pranzo ci dissero che era possibile che non riuscissimo ad atterrare a causa
dell'esfiltrazione. Tuttavia, ci avremmo provato comunque: finché non si prova,
non si può sapere. Avremmo fatto rifornimento poco prima del confine arabo-
iracheno, avremmo volato quindi a serbatoi pieni. Effettuammo un ultimo giro di
controlli, caricammo le attrezzature sui camion e mangiammo tutto il cibo fresco
che fummo capaci di inghiottire.
Eravamo ansiosi di metterci in azione. L'umore era quello del tipo «leviamoci dai
coglioni e facciamola finita in fretta».
Avremmo lasciato gli altri ragazzi a rubare le tende e il materiale, e in generale a
sistemare tutto. Prima del nostro ritorno, avrebbero rivoltato il campo come un
guanto.
Alle 18.00 salimmo a bordo degli automezzi che ci condussero al Chinook. Era
tutto molto informale, i ragazzi dello squadrone venivano a chiederci: « Di che
numero sono quei tuoi stivali?... tanto non ne avrai più bisogno, vero? » Per la
nostra prima sistemazione quattro o cinque di noi avevano fregato alcuni
materassi di gommapiuma, sempre in base allo stesso principio: se è lì, e se
luccica, prendilo. Adesso cominciava ad arrivare gente delle altre pattuglie, e tutti
a dire: «Non ne avrai bisogno mai più, vero?... quindi puoi lasciarcelo».
Accompagnando il discorsetto con il gesto di scavarci la fossa.
Comparve perfino il maresciallo reggimentale. «Andate, fate quello che dovete
fare e tornate. » Fu tutto quello che disse.
All'improvviso Bob si ricordò di qualcosa. «Ho fatto una stronzata », disse a un
compagno. « Non ho completato il modulo del testamento. C'è il nome di mia
madre e l'ho firmato, ma devi cercare l'indirizzo fra le mie cose. Puoi fare in modo
di compilarlo tutto e passarlo a chi di dovere? »
Scambiai quattro parole con i piloti. Avevano ricevuto i giubbotti antiproiettile e
stavano decidendo che cosa farne, se sedercisi sopra - così non gli avrebbero
trinciato le palle - o indossarli, così non sarebbero stati colpiti al petto. Arrivarono
alla conclusione che era meglio indossarli, perché avrebbero potuto continuare a
vivere anche senza i coglioni.
«Non che lui li abbia», osservò il copilota additando il collega, « come scoprirete
presto. »
C'era ancora luce, e mentre l'elicottero decollava vedemmo il vento provocato dai
rotori sollevare una discreta tempesta di sabbia. Quando si placò, vedemmo solo i
ragazzi che guardavano in alto e ci salutavano agitando le braccia.

Sorvolavamo il deserto a bassissima quota. All'inizio osservammo il terreno, ma


non c'era molto da vedere: solo un mare di sabbia e qualche duna. Qua e là il
deserto era punteggiato da strani cerchi simili a campi di frumento: erano
coltivazioni di ortaggi che dal cielo sembravano impianti di trattamento dei
liquami, con grandi bracci di irrigazione che giravano continuamente per bagnare
i raccolti. In quel paesaggio desertico apparivano paradossali.
Ci trovavamo a venti chilometri dalla frontiera, e c'era ancora luce quando il
pilota parlò negli auricolari.
« Manda i ragazzi ai finestrini e fagli dare un'occhiata a quello che succede qua
sopra. »
Circa trecento metri sopra di noi c'era uno sciame di aerei. Diretti dagli AWACS,
volavano con precisione millimetrica lungo una complessa rete di corridoi per
evitare collisioni. Tutti avevano i fari anteriori accesi, e il cielo era illuminato a
giorno. Sembrava una scena di Guerre stellari, con tutte quelle luci sui vari tipi di
aereo.
Se noi stavamo andando a cento nodi, quelli volavano almeno a cinque o seicento.
Mi domandai se sapevano di noi. Mi domandai se stavano dicendo: « Speriamo di
riuscire a fare un buon lavoro, così questi tizi possono arrivare a fare il loro». Ne
dubitai.
Due caccia scesero per venire a controllarci, quindi risalirono.
« Siamo a cinque chilometri dal confine », annunciò il pilota.
«Guardate cosa succede adesso.»
Mentre parlava, come se un solo fusibile fosse stato in grado di controllare tutte le
luci di Blackpool, il cielo divenne improvvisamente nero come la pece. Tutti gli
aerei avevano spento contemporaneamente le luci.
Atterrammo nella più profonda oscurità per fare rifornimento a caldo, il che
significava restare a bordo con i rotori che giravano.
In quel posto avremmo ricevuto il via o lo stop definitivi, a seconda delle
condizioni del diversivo, e mentre nel buio si intravedevano le sagome del
personale di terra, aspettai ansiosamente che qualcuno ci desse un segnale
incoraggiante. Una delle sagome guardò il pilota e voltò la mano: voleva dire
tornate indietro.
Bastardo!
Un altro tizio corse verso il pilota con un pezzo di carta e glielo passò attraverso il
finestrino.
Qualche istante dopo, attraverso gli auricolari ci giunse la voce del pilota. « E'
uno stop, è uno stop, dobbiamo tornare indietro. »
Dinger sull'interfono fu molto diretto. «Be'... vaffanculo! Attraversiamo almeno la
frontiera, solo per dire che ci siamo stati, dai, sono soltanto un paio di chilometri,
non ci vorrà molto ad andare e tornare. Bisogna oltrepassarla, anche solo per
evitare le prese per il culo quando torniamo. »
Ma il pilota la vedeva diversamente. Restammo a terra per altri venti minuti circa,
mentre lui faceva i suoi controlli e il rifornimento veniva completato: quindi
decollammo e ci dirigemmo a sud. I camion ci stavano aspettando. Scaricammo
tutte le attrezzature e fummo condotti all'acquartieramento del mezzo squadrone
che a quel punto era stato spostato dall'altra parte della base aerea. Gli uomini
avevano scavato delle buche di protezione, ricoprendole con i poncho, pezzi di
legno e cartone per ripararsi dal vento. Sembrava un accampamento di barboni,
con corpi accoccolati disordinatamente intorno ad alcuni fornelletti.
I miei uomini erano di umore nero, non solo per la delusione di non aver passato
la frontiera, ma anche perché non sapevano bene cosa sarebbe accaduto a quel
punto. Io ero doppiamente scocciato perché avevo dato via il mio materasso.

Per tutta la giornata del 20 ciondolammo in attesa che accadesse qualcosa, nella
speranza che si aprisse uno spiraglio.
Controllammo le attrezzature un altro paio di volte e cercammo di metterci un po'
più a nostro agio, nel caso avessimo dovuto aspettare a lungo. Usammo un po' di
rete mimetica: non per questioni tattiche, dato che la base aerea era un posto
sicuro, ma per proteggerci dal vento e avere un po' di ombra durante il giorno.
Ripararsi sotto qualcosa da sempre l'illusione di essere protetti.
Dopo esserci messi comodi, setacciammo l'area con i veicoli leggeri d'assalto e le
Land Rover alla ricerca di qualcosa da prendere. Quel posto era il sogno di un
cleptomane.
Facemmo buoni scambi con gli yankee. Le nostre razioni sono molto superiori a
quelle degli americani, ma anche loro hanno cosucce molto gradevoli, come
bustine di condimento e bottigliette di tabasco, per aggiungere un certo non so che
al manzo e agli ' gnocchi. Un'altra buona cosa della razione degli yankee è il
cucchiaio di plastica resistente. Si può bruciare e fare un forellino sul manico,
metterci uno spago e tenerlo in tasca; un cucchiaio da corsa eccellente, quasi
perfetto.
Visto che i nostri materassi di gommapiuma erano passati a miglior vita durante il
volo abortito, cercammo di impadronirci di alcune comode giacche in dotazione
all'esercito degli Stati Uniti. Gli americani avevano un equipaggiamento che la
metà bastava e, il Padreterno li benedica, erano felici di darti un tettuccio in
cambio di un paio di razioni.
Little America era dall'altra parte della base. Avevano tutto, |dai forni a
microonde alle macchine per fare i bomboloni, ai video di Bart Simpson che
ululavano ventiquattro ore al giorno. E perché no, del resto? Sicuramente gli
yankee sanno combattere una guerra in grande stile. Negli Stati Uniti i ragazzini
delle scuole mandavano ai soldati grandi scatole di mercanzie: disegni fatti da
ragazzini di sei anni con un bravo cristo con la bandiera americana e uno cattivo
con quella irachena e quantità inverosimili di sapone, dentifricio, materiale per
scrivere, pettini e deodoranti. Li lasciavano semplicemente aperti sui tavoli della
mensa, in modo che i militari prendessero tutto quello che volevano. Gli yankee
non avrebbero potuto accoglierci meglio, e noi ci lanciammo dritti a bere un buon
cappuccino schiumoso e fare una festicciola.
Inutile dire che ci portammo via quasi tutto.
Alcuni personaggi erano pazzeschi e divertentissimi, specialmente certi piloti
americani che io scambiai per appartenenti alla Guardia Nazionale. Nella vita
civile erano tutti avvocati e manager di segherie, ragazzoni sui quaranta,
cinquant'anni, coperti di decorazioni, che fumavano sigari enormi e guidavano i
loro Thunderbolt urlando « Ehi, ragazzi » per tutto il cielo. Per alcuni di loro era
la terza guerra. Erano uomini di prim'ordine, e avevano storie incredibili da
raccontare. Ascoltarli era molto istruttivo.
Nei due giorni successivi ripassammo di nuovo il piano. Adesso che avevamo più
tempo, potevamo migliorare qualcosa? Discutemmo, discutemmo, ma alla fine
non cambiammo niente.
Fu un periodo snervante, di pura attesa, come se fossimo corridori e lo starter
fosse andato in trance. Aspettavo con ansia il sollievo di trovarmi sul terreno.
Chiacchierammo con il pilota di un Jaguar il cui aereo era bloccato alla base da
diversi giorni. Nella sua prima uscita, aveva dovuto rientrare per problemi con un
generatore.
« Voglio passare il resto della guerra qui », ci disse, « perché quando tornerò mi
piglieranno per il culo in una maniera da far piangere. »
Ci sentimmo solidali con lui: sapevamo bene di che cosa stava parlando.
Finalmente, il 21, ricevemmo l'okay per partire la notte seguente.

La mattina del 22 ci svegliammo alle prime luci dell'alba. Dinger fumò subito una
sigaretta.
Stan, Dinger, Mark e io eravamo tutti sotto un'unica rete mimetica, circondati da
razioni di ogni tipo e vari generi di scatolame e sacchetti di plastica. In mezzo
c'era il fornelletto per cucinare.
Stan preparò qualcosa di caldo senza avventurarsi fuori del suo sacco a pelo.
Nessuno voleva alzarsi, perché faceva un freddo ca-' ne. Rimanemmo sdraiati a
bere il tè, a sputacchiare e a mangiare un po' di cioccolato delle razioni. Durante
la notte il nostro sonno da belli addormentati era stato rovinato da altri due allarmi
Scud.
Anche se dormivamo sempre con addosso gran parte della nostra attrezzatura, era
una vera rottura di coglioni mettersi gli stivali, il giubbotto da aviatori e l'elmetto
e precipitarci nelle buche. Entrambe le volte dovemmo aspettare solo dieci minuti
dal cessato allarme.
Dinger aprì alcune scatolette di salsicce e fagioli e le fece passare. Tre o quattro
tazze di tè e - nel caso di Dinger - tre sigarette dopo, ci sintonizzammo sulla BBC.
Dovunque ti trovi nel mondo, da loro saprai quello che succede prima che te lo
dica qualsiasi altro stronzo. In tutte le operazioni ed esercitazioni ci portiamo
dietro delle piccole radio a onde corte, perché se sei bloccato nel bel mezzo della
giungla l'unico legame con il mondo esterno è il Servizio Internazionale.
Dovunque tu vada, la gente è sempre china sulle radio a sintonizzarle, perché le
frequenze cambiano a seconda dell'ora del giorno. Anche in questa missione
avremmo portato con noi le radio, perché era probabile che quelli della BBC
fossero i primi a sapere che la guerra era finita. Nessuno sarebbe stato in grado di
dircelo finché non avessimo stabilito dei contatti, e questo sarebbe potuto
avvenire anche il giorno dopo la resa di Saddam. Ci incazzammo con la radio di
Dinger perché era tenuta assieme con lo scotch e lo spago. Tutti gli altri ne
avevano una digitale, mentre Dinger ne aveva una ancora a vapore, che per
sintonizzarla ci volevano secoli.
Girava voce che quel giorno sarebbe arrivata la posta: il primo sacco da quando
eravamo giunti in Arabia. Sarebbe stato carino avere notizie da casa prima di
partire. Io stavo per comprare una casa con Jilly e dovevo firmare un documento
per darle la procura. Speravo che arrivasse; altrimenti, se ci fossi rimasto secco,
avrebbe avuto i suoi bei casini.
Arrivarono il pilota e il copilota e discutemmo un'ultima volta sullo stivaggio
dell'attrezzatura. Rilessi di nuovo le operazioni da compiere in mancanza di
comunicazioni e le azioni sul contatto al punto di sbarco per essere doppiamente
sicuro di averli ben chiari in mente Parlammo ai due mitraglieri, ragazzi sui
vent'anni che erano evidentemente grandi ammiratori di Apocalypse Now, perché
il Chinook aveva mitragliatrici che gli uscivano da tutti i fori. Mancavano Solo gli
stemmi con la testa di tigre sugli elmetti e la Cavalcata delle Valchirie di Wagner
che suonava negli altoparlanti dell interfono. Per loro attraversare la frontiera era
il momento magico di tutta una vita. Non stavano più nella pelle.
I piloti conoscevano altre postazioni dei Roland e avevano studiato una rotta per
aggirarle, ma dal modo in cui parlavano i mitraglieri veniva da pensare che
sognassero davvero di essere attaccati. Pensai che sarebbe stata un'atroce
delusione per loro se ci avessero lasciati a terra e fossero rientrati tutti interi.
Controllaj i miei ordini a un tavolo al capo opposto della base aerea, senza
distrazioni. Visto che il mio primo tentativo di infiltrazione era abortito, quel
pomeriggio avrei dovuto dare un'altra serie di ordini finali, non così nel dettaglio,
ma almeno riguardo ai punti principali.
Ecco la fantomatica corrispondenza. Alla fine si sparse la voce che, ammesso che
arrivasse, sarebbe arrivata dall'altra parte della base a circa settecentocinquanta
metri di distanza. Erano le 1.30, e mancava solo mezz'ora prima di salire
sull'elicottero.
Vince e io salimmo su un veicolo leggero d'assalto e corremmo per afferrare la
borsa destinata allo squadrone B.
Uno dei ragazzi ricevette il modulo delle tasse. Un altro fu il felice destinatario di
un invito a partecipare a un concorso del Reader's Digest. Io fui più fortunato:
ricevetti due lettere. Una era di mia madre, forse la prima lettera che avessi mai
ricevuto dai miei genitori da quando avevo diciassette anni. Non sapevano che ero
nel Golfo, ma doveva essere ovvio. Non avevo tempo di leggerla e di fretta, la
sola cosa che puoi fare è aprire le buste in modo che sembri che tu le abbia lette,
per non ferire i sentimenti di nessuno, se non ritorni. Riconobbi una busta dal
formato: era di Jilly. Dentro c'erano le mie caramelle preferite. Stranamente erano
otto, una per ciascun membro della pattuglia. C'era anche la lettera di procura.

L'Ultima Cena prima di partire per una missione è un'occasione mica da ridere.
Tutti partecipano e sfottono.
« La prossima volta che ti vedrò sarà dall'alto al basso, mentre ti copro », disse
qualcuno, facendo il gesto di riempirmi la fossa di terra.
« E' un piacere conoscerti, segaiolo », disse un altro. « Che modello di bici hai a
casa? C'è qui qualcuno pronto a testimoniare che lui, se lo fanno fuori, mi regala
la bici? »
Era un'atmosfera molto gioiosa, e tutti, se potevano, erano disposti ad aiutarti nei
preparativi. Contemporaneamente comparvero molti cibi freschi. Il maresciallo
addetto al vettovagliamento del Reggimento aveva messo le mani su una partita di
bistecche e funghi, salsicce e tutti gli ingredienti per una buona frittura. Fu una
mangiata fantastica, ma con il difetto che, dopo tanto tempo che ci alimentavamo
con le razioni, fece venire a tutti l'urgente bisogno di fare una maxicagata.

5.

L'EQUIPAGGIO di terra era rimasto alzato tutta notte a rimimetizzare il Chinook


con un motivo a macchie che imitava il deserto e che attirò una salva di ululati e
applausi da parte dei compagni venuti a salutarci.
Era il momento di trasmetterci nuovamente i messaggi dell'ultimo minuto. Vidi il
mio compagno Mick e gli dissi: «Qualunque cosa succeda, Eno ha le lettere. Ti
raccomando di prenderti cura della carta geografica di fuga perché è firmata dallo
squadrone.
Non voglio che vada perduta, sarebbe carina per Jilly ».
Sentii Vince che diceva: « Qualunque cosa succeda, sta a te vedere che Dee se la
cavi ».
Mick aveva una macchina fotografica al collo. «'Volete una foto?»
« Sarei pazzo se dicessi di no », risposi.
Posammo davanti alla coda del Chinook per la foto di gruppo, di Bravo Two
Zero.
I ragazzi erano indaffarati a far incazzare gli elicotteristi, specialmente i
mitraglieri. Uno di loro era un fanatico imitatore di Gary Kemp degli Spandau
Ballet, al punto di farsi crescere le basette stile anni '80. Due o tre ragazzi dello
squadrone erano accanto a un camioncino e gli facevano il verso cantando You
are gold. Il poveretto era davvero molto imbarazzato.
Alcuni ragazzi si misero insieme a fare la parte dei portatori di bara,
canticchiando la marcia funebre. Altri fecero una parodia del video dei Madness It
must be Lave, dove il cantante sta in piedi sopra una tomba e il becchino salta su
e giù per misurarlo.
Qua e là nel casino si sentivano strani sussurri di « Ci vediamo presto » e «
Speriamo che tutto vada bene ».
L'equipaggio si radunò per fare un ultimo rapido controllo dei giubbotti
antiproiettile e noi salimmo a bordo.

Su un Chinook nessuno viaggia in prima classe. L'interno e spartano, un semplice


guscio rivestito di plastica. Non ci sono posti a sedere, solo un pavimento
antiscivolo, sporco di sabbia e olio. All'interno era stato caricato un grosso
serbatoio supplementare. La puzza di carburante avio e di motori era
insopportabile anche nel retro, vicino alla rampa d'ingresso. I mitraglieri tenevano
la parte superiore del portello di coda aperto per far circolare un po' d'aria.
I motori si accesero sputando nell'aria spaventose nuvole di fumo. Dalla nostra
posizione sulla rampa vedevamo alcuni ragazzi che si abbassavano i calzoni per
farci il mostraculo nella nebbiolina calda e la banda di amici dello Spandau Ballet
che faceva ancora casino. Quando la sabbia della deflessione si posò eravamo già
saliti di trenta metri, e in breve l'unica cosa che vedemmo furono le luci
lampeggianti delle Land Rover.
Faceva caldo, e cominciavo a sudare e a puzzare. Mi sentivo stanco, sia
mentalmente sia fisicamente: mi passavano per la testa un sacco di cose.
L'infiltrazione mi preoccupava perché non potevamo controllarla: dovevamo
restare li seduti e sperare di avere un po' di culo. Non mi è mai piaciuto affidare la
mia vita alle mani di qualtun altro. C'erano missili antiaerei Roland sulla nostra
rotta e, più grosso era un velivolo, maggiori erano le probabilità di essere
abbattuti. I Chinook sono imponenti. C'era anche il rischio di venire abbattuti
dalla nostra stessa aviazione, dal momento che stavamo viaggiando con la
copertura di tre raid aerei. ! ' D'altra parte ero anche ansioso di scendere a
terra. Era una bella sensazione essere al comando di una missione dei SAS così
impegnativa. Nella nostra vita tutti speriamo in una guerra importante, e questa
era la mia: a parte il fatto che ero accompagnato da un gruppo che il resto dello
squadrone chiamava già la Legione Straniera.
Gli zaini erano legati per impedire che volassero e ci cadessero in testa se il pilota
avesse dovuto fare un'azione di scampo o fosse stato abbattuto. Poco prima del
calar della notte, i mitraglieri accesero dei bastoncini di Cyalume e li piazzarono
attorno all'attrezzatura per farcela vedere, essenzialmente perché la gente non si
facesse male. I bastoncini sono come quelli che comprano i ragazzini alle fiere: un
tubo di plastica che si piega rompendo le fiale di vetro all'interno e mescolando
due sostanze chimiche che producono un composto luminoso.
Mi misi un paio di cuffie e parlai con il pilota, mentre i ragazzi facevano razzia
nei kit della RAF cercando i sandwich dell'equipaggio, il cioccolato e le bottiglie
di acqua minerale.
Ricapitolammo velocemente le possibilità di atterraggio. Se prima dell'atterraggio
stesso avessimo avuto un contatto, saremmo dovuti restare sull'elicottero. Se
stavamo scendendo, saremmo dovuti risalire. Ma se al momento del contatto
l'elicottero fosse già decollato, la radio Simplex avrebbe avuto una portata di un
chilometro e mezzo, sufficiente per contattare il pilota e richiamarlo.
«Girerò l'elicottero e tornerò a tutta birra», disse il pilota, «e voi salite come
potete, al culo le attrezzature. »
Qualche volta si crede che quelli della RAF siano tassisti di lusso che ti portano
dal punto A al punto B, ma non è così: sono parte integrante di ogni operazione.
Per un pilota, tornare a prenderci con un Chinook sotto il fuoco nemico sarebbe
stato un rischio spaventoso. E' una macchina grossa, un facile bersaglio, ma lui
era disposto a farlo: come se non avesse idea di quello che stava succedendo a
terra, o gli fosse indifferente, perché era il suo lavoro. Ovviamente il pilota sapeva
benissimo cosa poteva succedere: dunque, gli era indifferente. E se lui era
disposto a tornare, allora a me non fregava niente, io sarei saltato di nuovo
sull'elicottero. -, Mentre stavamo sorvolando l'Arabia, cominciammo a
valutare la natura del terreno. Era come un tavolo da biliardo marrone. Ero stato
molte volte in Medio Oriente, ma non avevo mai visto nulla del genere.
«Siamo su Zanussi», disse Chris nell'interfono, usando il codice del Reggimento
per indicare qualcuno che sta lontanissimo e con cui non si può entrare in
contatto, perché è proprio su un altro pianeta.
E Zanussi era precisamente come appariva: un altro mondo. I nostri studi sulle
carte indicavano che il terreno sarebbe stato sempre così. Questo ci avrebbe creato
problemi, ma ormai era troppo tardi per fare qualcosa. Ci eravamo dentro.
Di tanto in tanto si sentiva parlare in cuffia, quando i piloti comunicavano con gli
AWACS. Mi piaceva stare a osservare i due mitraglieri signori della guerra che si
preparavano per il gran ballo, controllando le mitragliatrici e sperando, senza
dubbio, che presto qualcuno gli sparasse contro.
Per tutto il viaggio il flap flap delle pale dei rotori fu assordante, per cui non si
fece molta conversazione. Quanto meno, tutti eravamo contenti di non doverci dar
da fare come al solito, di essere lì sdraiati a bere acqua o a pisciare dentro le
bottiglie appena vuotate. Mi chiesi se la mia vita sarebbe stata diversa se fossi
rimasto a scuola e avessi preso il diploma. Forse in quel momento sarei stato
seduto nella cabina di pilotaggio a chiacchierare, pregustando la fetta di torta e la
pinta di birra che mi sarei fatto al ritorno.
Lo sportello del mitragliere anteriore era semiaperto, come la porta di una stalla.
Entrava il vento, fresco e tonificante, facendo sbattere le cinghie che penzolavano
all'interno del Chinook.
Arrivammo allo stesso punto di rifornimento precedente. Di nuovo il pilota tenne
i rotori accesi. A quello stadio un guasto del motore avrebbe significato
l'annullamento dell'operazione. Noi restammo sul velivolo, ma il mitragliere
posteriore uscì subito nell'oscurità. Gli yankee le provviste te le tirano dietro.
Ritornò con cioccolato, bomboloni e lattine di Coca. Per una ragione inspiegabile,
gli yankee gli avevano dato anche una manciata di biro e alcuni pettini.
Aspettammo, aspettammo. Bob e io scendemmo e andammo a farci una bella
cagata sull'asfalto, trenta metri più in là. Quando tornammo, il mitragliere mi fece
cenno di indossare la cuffia.
«Abbiamo l'okay», annunciò il pilota, solo con una minima traccia di eccitazione
nella voce.

Iniziammo a perdere quota.


« Siamo sopra il confine », comunicò con naturalezza il pilota.
Riferii il messaggio e i ragazzi cominciarono a indossare il loro equipaggiamento.
Adesso gli elicotteristi cominciarono davvero a guadagnarsi lo stipendio. Il casino
cessò. Stavano lavorando con gli occhiali per la visione notturna, volando a
ottanta nodi a poco più di venti metri da terra. Le pale del rotore avevano un
diametro notevole, e sapevamo dalle carte che stavamo volando in un labirinto di
cavi elettrici e ostacoli. Un mitragliere guardava in avanti verso le pale anteriori,
l'altro faceva lo stesso sul retro. Il copilota controllava continuamente gli
strumenti, il pilota volava a vista e in base alle istruzioni che riceveva dal resto
dell'equipaggio.
Lo scambio di informazioni tra il pilota, il copilota e i mitraglieri era incessante. Il
tono della loro voce rassicurante. Tutto era stato ben collaudato e sperimentato.
Erano così rilassati che sembravano nel simulatore di volo.
COPILOTA: «Trenta metri... venticinque metri... venticinque».
PILOTA: «Ricevuto. Venticinque».
COPILOTA: « Cavi elettrici a un chilometro e mezzo ».
PILOTA: « Ricevuto. Cavi elettrici a un chilometro e mezzo. Mi alzo ».
COPILOTA: «Quaranta... cinquanta... sessanta... settanta. Distanza ottocento
metri. Quota centocinquanta ».
PILOTA: «Centocinquanta. Ho i cavi in vista... mi alzo».
MITRAGLIERE: «Superati». »
PILOTA: «Okay, mi abbasso».
COPILOTA: «Cinquanta... quaranta... trenta metri. Velocità centocinquanta».
-.
PILOTA: « Ricevuto, rimango a trenta. Velocità centocinquanta».
COPILOTA: «Rientranza a sinistra, a un chilometro e mezzo».
PILOTA: «Ricevuto, ho un edificio alla mia destra».
MITRAGLIERE: «Ricevuto, edificio a destra».
COPILOTA: «Trenta metri. Velocità centocinquanta. Cavi elettrici a otto
chilometri ».
PILOTA: «Ricevuto, otto chilometri. Viro a destra».
I mitraglieri stavano osservando anche il terreno sottostante.
Oltre a controllare gli ostacoli, verificavano che non arrivasse qualcosa.
COPILOTA: «Trenta metri. Strada asfaltata, tre chilometri».
PILOTA: «Ricevuto. Strada asfaltata, tre chilometri». , COPILOTA: «Ancora
un chilometro e mezzo. Velocità centosessanta, trenta metri ».
Sotto i trenta metri, se l'elicottero avesse virato, le pale avrebbero colpito il
terreno. Nel frattempo i mitraglieri erano in attesa di istruzioni e cercavano di
assicurarsi che le pale avessero spazio sufficiente per ruotare; mentre noi
cercavamo qualche rilievo nel terreno che offrisse all'elicottero una protezione.
PILOTA: « Viro alla mia destra adesso. E' un buon posto ».
COPILOTA: « A destra, quota venticinque, velocità centosessanta, venticinque
metri, velocità centocinquanta».
Dovevamo superare un importante ostacolo che attraversava quella parte del
paese da est a ovest.
COPILOTA: « Okay, è la superstrada a otto chilometri ».
PILOTA: «Saliamo a settanta».
COPILOTA: « Okay, la vedo ».
Noi passeggeri eravamo li seduti a mangiare cioccolato quando all'improvviso il
mitragliere anteriore brandì la mitragliatrice.
Afferrammo i fucili e balzammo in piedi. Non avevamo la più pallida idea di cosa
stesse succedendo. Non avremmo potuto fare molto, perché mettere fuori la canna
del fucile nella turbolenza dell'elica è come mettere fuori la mano da una
macchina lanciata a centocinquanta all'ora. In realtà non avremmo combinato una
merda di niente, ma ci sentivamo in dovere di aiutarlo.
Nulla di drammatico. Solo ci stavamo avvicinando alla strada e il mitragliere
sperava che qualcuno ci sparasse, così avrebbe potuto rispondere al fuoco.
Era la superstrada principale tra Baghdad e la Giordania. La attraversammo a
centocinquanta metri di quota. C'erano molte luci di convogli, ma noi avevamo
spento tutto e sicuramente non potevano sentirci. Fu il nostro primo avvistamento
del nemico. , , Guardare la strada ci diede un'idea della posizione perché
sapevamo esattamente dov'era sulla carta. Io stavo lì, cercando di pensare per
quanto tempo saremmo rimasti in cielo, quando udii una sirena.
Dinger e io avevamo indossato la cuffia e ci guardammo, mentre gli elicotteristi si
parlavano.
« Virare a sinistra! Virare a destra! »
Si scatenò l'inferno: l'elicottero zigzagò paurosamente.
I mitraglieri saltavano a destra e a sinistra con le torce accese, premendo pulsanti
a tutto spiano per lanciare le esche riflettenti che ingannano i radar.
I piloti sapevano dove si trovavano la maggior parte dei Roland, ma
evidentemente non questo. Il missile terra-aria ci aveva illuminato facendo
scattare l'allarme interno. Per complicare ulteriormente le cose, quando ci
avevano avvistato stavamo andando abbastanza lenti.
Vidi l'espressione sul volto di Dinger alla luce dei bastoncini di Cyalume. Il
fiducioso chiacchiericcio degli elicotteristi aveva fatto nascere in noi un falso
senso di sicurezza. Adesso mi sentivo come quando stai guidando, abbassi lo
sguardo e, rialzandolo, scopri che sulla strada la situazione è improvvisamente
cambiata e devi frenare di colpo. Non sapevo se il missile fosse effettivamente
partito o ci avesse puntato o che altro.
« In culo tutto quanto! » disse Dinger. « Se proprio deve succedere, io non voglio
sentire. »
Gettammo via le cuffie contemporaneamente. Mi stesi a terra e mi raggomitolai
come una palla, preparandomi a un atterraggio di emergenza.
Il pilota impennò l'elicottero verso il cielo. I motori rombarono e stridettero come
se l'apparecchio stesse facendo un esercizio ginnico.
Poi il Chinook si stabilizzò e volò diritto. L'espressione sul volto dei mitraglieri ci
confermò che ce l'eravamo cavata.
Mi rimisi le cuffie e domandai: « Che cazzo era? »
« Probabilmente un Roland, chi lo sa? Comunque, non il massimo della vita. Per
voi non c'è problema, siamo noi che dobbiamo ritornare da questa parte. »
Volevo scendere da quell'elicottero e riprendere il controllo sul mio destino. E'
bello essere trasportati da qualche parte, ma non in quel modo. E non era ancora
finita. Se gli iracheni a terra avessero riferito l'avvistamento, era possibile che i
loro aerei ci venissero a cercare. Nessuno sapeva se gli iracheni avessero aerei in
cielo o avessero capacità di volo notturno, ma bisogna sempre valutare la
peggiore delle ipotesi. Sudavo come uno stupratore.
Mezz'ora dopo, il pilota ci dette un preavviso di due minuti all'atterraggio. Alzai
due dita verso i ragazzi, lo stesso segnale che si da per i lanci con il paracadute. Il
mitragliere posteriore cominciò a mollare le cinghie che tenevano ferme le
attrezzature.
Lo scintillio rosso della torcia a penna che teneva in bocca lo faceva sembrare il
diavolo in persona.
Quattro di noi erano armati con i 203, cioè il fucile americano Armalite M-16 con
attaccato un tubo di lancio per bombe da 40 mm che sembrano pallottole grandi e
tozze; gli altri con le Minimi, mitragliatrici leggere. Per i nostri scopi, l'Armalite è
un'arma superiore al nuovo SA-80 dell'esercito. E' più leggero e di più facile
pulizia e manutenzione. E' una buona arma, semplice, prodotta in molteplici
varianti dalla guerra del Vietnam in poi.
Quando uscirono i SA-80, il Reggimento li provò nell'addestramento nella
giungla, trovando che non erano adattissimi alle nostre necessità specifiche. Con
l'M-16 tutto è facile e pulito, non ci sono pezzi o pezzetti che sporgono. La sicura
è molto semplice e può essere azionata con il pollice; con l'SA-80, invece,
bisogna usare il dito del grilletto, il che è una follìa. Se sei nei casini, con l'M-16
puoi togliere facilmente la sicura con il pollice e tenere sempre il dito sul grilletto.
Inoltre, se sul tuo M-16 la sicura si sposta sul tiro a raffica, sai che è pronto;
questo significa che è armato con il colpo in canna. Si vedono persone andare di
pattuglia con il pollice che controlla la sicura ogni minuto; l'ultima cosa che
desiderano è che parta un colpo accidentale a portata di orecchi del nemico.
L'M-16 ha una sicura silenziosa - altro vantaggio se sei di pattuglia - e non ci sono
parti che si arrugginiscono. Se i fucili fossero automobili, si potrebbe dire che
invece di una Ford Sierra 4x4, buona, affidabile, provata e amata dalle persone
che la guidano, acquistando l'SA-80 l'esercito si era procurato una RollsRoyce.
Ma nella fase iniziale la Rolls-Royce era un prototipo, e c'erano un sacco di
problemi d'adattamento. Secondo me, il solo svantaggio di un 203 è che non puoi
inastarci la baionetta per via del lanciagranate sottostante la canna.
Sugli M-16 non avevamo tracolle. Una tracolla significa che il fucile te lo puoi
mettere in spalla, ma durante le operazioni è molto meglio averlo in mano per
essere pronti a sparare. Quando sei di pattuglia, ti muovi sempre con tutte e due le
mani sull'arma e il calcio contro la spalla. Che senso ha portarlo se non puoi
mirare rapidamente?
Non mi interessa come e dove viene fabbricata un'arma, purché faccia il suo
lavoro e io sia capace di usarla. Fintante che spara - e ti restano un bel po' di
pallottole - non devi avere altre preoccupazioni.
Le armi, naturalmente, sono buone quanto chi le usa. Viene alimentata molta
rivalità tra i ragazzi nello sparo alle sagome mobili. Tutto il nostro addestramento
con le armi avviene su bersagli mobili, perché solo così si ottiene il senso del
realismo e della prospettiva. In uno scontro a fuoco, il rumore è talmente
assordante che, se non ci sei ben abituato, può compromettere le tue capacità.
Quando spara, un Armalite suona sorprendentemente metallico, e non ha molto
rinculo. Si tende a sentire l'arma degli altri piuttosto che la propria. Quando
esplode la bomba da 40 mm, si sente solo un pop: non ci sono né esplosioni né
rinculo.
Avevamo quattro Minimi, che sono mitragliatrici di supporto leggere calibro 5.56.
Possono essere alimentate tramite nastri ad anelli autodisintegranti in scatole da
duecento, o caricatori ordinari. L'arma è così leggera che può essere usata sulla
linea d'assalto come un fucile oppure sparare fuoco di accompagnamento, e ha
una cadenza di tiro impressionante. Se necessario, è dotata di un bipiede per
garantire spari accurati e automatici.
Le scatole di plastica preconfezionate di munizioni non sono di una forma molto
pratica. Mentre sei di pattuglia, la scatola è messa di traverso sul tuo corpo; può
sbatterti contro e cadere, bisogna stare attenti. Un altro problema può essere che i
colpi non sono perfettamente imballati nella scatola e senti un rumore ritmico che
di notte, quando i suoni si propagano di più, costituisce un pericolo non
indifferente.
Ciascun uomo della squadra portava anche un lanciarazzi da 66 mm usa e getta di
fabbricazione americana, un'arma anticarro da fanteria. E' lungo poco più di 60
cm e consiste di due tubi l'uno all'interno dell'altro. Si allungano telescopicamente
le due parti e il tubo interno contiene il razzo, pronto a partire. Mentre lo apri
saltano fuori i mirini. Spari il razzo e butti il lanciatore. E' eccellente perché
semplice. Più una cosa è semplice, maggiori sono le probabilità che funzioni. Il
proiettile ha una ogiva a carica cava sulla punta per forare i mezzi corazzati. La
spoletta si arma dopo circa nove metri; basta che sfiori il bersaglio e scoppia. Il 66
non esplode in grosse palle di fuoco come nei film. Non lo fa mai, a meno che
non ci sia un'esplosione secondaria.
Oltre alle bombe a mano L2, portavamo bombe al fosforo. Il fosforo brucia molto
e lascia dietro di sé una buona cortina di fumo, se hai bisogno di tempo per
scappare.
Le bombe a mano non hanno più la vecchia forma ad ananas, come credono i più.
Quelle al fosforo sono cilindriche, con sopra stampate le lettere WP. La L2 ha un
involucro ovale di filo di ferro ben avvolto attorno alla carica esplosiva. Noi
allarghiamo ulteriormente il filo di ferro degli spinotti delle sicure, così ci vuole
più forza per estrarli. Mettiamo anche del nastro adesivo attorno alla bomba per
tenere giù la cucchiaia della seconda sicura come ulteriore protezione in caso di
incidente con la prima sicura. Il fosforo non viene usato molto per
l'addestramento, perché è davvero pericoloso. Se ti viene addosso, devi versarci
sopra molto lentamente acqua dalla borraccia per far cessare la reazione con
l'ossigeno, quindi rimuoverlo. Se non ci riesci, non è esattamente un bel modo di
morire.
Avevamo almeno dieci caricatori ciascuno, dodici bombe da 40 mm, L2, bombe
al fosforo e un 66. I quattro che portavano le Minimi avevano più di seicento
colpi ciascuno, oltre a sei caricatori pieni. Per una pattuglia di otto uomini era una
potenza di fuoco impressionante.
Quelli di noi che avevano i 203 controllarono che la bomba in canna fosse armata.
Bob stava verifìcando che i nastri per la sua Minimi non fossero attorcigliati: il
problema delle munizioni del nastro è che entrino in canna facilmente. Se i nastri
sono attorcigliati, l'arma si inceppa. Vidi Vince controllare la scatola di munizioni
appesa al fianco dell'arma per assicurarsi che non cadesse. Il suo gruppo avrebbe
fornito la copertura perimetrale muovendosi direttamente verso alcuni punti
appena oltre la turbolenza dell'elicottero. Mentre loro correvano, noi avremmo
gettato le attrezzature fuori del portellone di coda il più velocemente possibile.
Stan controllò le sue bombe al fosforo per essere certo di poterle usare
rapidamente. Tutti ci stavamo preparando mentalmente al via. I ragazzi
saltellavano su e giù per controllare che tutto fosse comodo. Si fanno cose
semplici, come abbassarsi i pantaloni, tirarli su, rimettere tutto dentro, richiuderli,
stringere la cintura, assicurarsi che l'attrezzatura alla cintura non intralci e che le
giberne e i bottoni siano chiusi. Poi si controlla e ricontrolla che ci sia tutto, che
non sia rimasto niente sul pavimento.
Dallo stridere delle pale capivo che eravamo vicini al terreno. Il portellone di coda
cominciò ad abbassarsi e io sbirciai fuori. Al momento dell'atterraggio si è
maledettamente vulnerabili. Il nemico potrebbe sparare contro l'elicottero, e tu
con il rumore dei motori potresti non rendertene conto finché non sei a terra. La
rampa scese ancora. Sotto un quarto di luna, il paesaggio era 'una negativa in
bianco e nero. Ci trovavamo in un piccolo uadi largo quattro metri. Le nuvole di
polvere si sollevarono e Vince e il suo gruppo si spostarono verso il portello di
coda con le armi spianate.
L'elicottero era ancora a un metro da terra quando saltarono giù: se ci fosse stato
un contatto, non lo avremmo saputo finché non li avessimo visti risalire
precipitosamente.
Il pilota completò l'atterraggio. Buttammo giù le attrezzature e Stan, Dinger e
Mark le seguirono immediatamente. Io rimasi a bordo mentre il mitragliere
perlustrava l'interno con in mano un bastoncino di Cyalume per un ultimo
controllo. Il rumore dei rotori aumentò e sentii l'elicottero sollevare il suo peso dal
carrello. Aspettai. Vale sempre la pena aspettare dieci secondi per essere sicuri,
piuttosto che scoprire che hai preso solo metà dell'equipaggiamento dopo che
l'elicottero se ne è andato. Insomma, bisogna trovare come sempre il giusto mezzo
tra pignoleria e rapidità.
Il mitragliere alzò i pollici e disse qualcosa in cuffia. L'elicottero cominciò a
sollevarsi e io saltai, toccai terra e guardai verso l'alto. Si stava ancora chiudendo
la rampa e già prendevano rapidamente quota. In pochi secondi se ne andò: erano
le 21.00, ed eravamo soli.
Ci trovavamo sul letto di un fiume in secca. A est era tutto piatto e scuro, a ovest
lo stesso.
Il cielo notturno era terso, si vedevano le stelle. Faceva più freddo di quanto non
fossimo abituati, anzi, l'aria era davvero pungente. Rabbrividii a causa del sudore
che mi colava sulle guance. -'«
Ci vuole molto tempo perché gli occhi si abituino all'oscurità.
I coni retinici ti permettono di vedere alla luce del giorno, ma di notte non sono
adeguati. Le miofibrille ai bordi delle iridi prendono il sopravvento. Sono
angolate a 45 gradi a causa della forma convessa dell'occhio, così se di notte si
guarda dritto verso qualcosa, non lo si vede veramente, tutto risulta appannato.
Devi guardare un po' sopra o intorno all'oggetto, in modo da allineare queste
miofibrille che alla fine ti consentiranno di vedere un'immagine. Ci vogliono circa
quaranta minuti prima che diventino veramente efficaci, ma già dopo cinque si
comincia a vedere meglio. E quello che ti appare al momento dell'atterraggio è
completamente diverso da ciò che vedi dopo cinque minuti.
Vince e i suoi erano già fuori a garantire la copertura perimetrale. Si erano
allontanati di circa trenta metri sul bordo dello uàdi e stavano guardando al di là.
Ci spostammo di lato per creare una zona più sicura. Ci vollero due viaggi per
trasportare gli zaini, le taniche e i sacchi.
Mark estrasse il Magellan e fece il punto. Guardò con un occhio solo. Perfino una
luce debolissima può turbare la tua visione notturna, e il processo deve
ricominciare. Se devi guardare qualcosa, devi chiudere l'occhio con cui prendi la
mira, l'occhio dominante, e guardare con l'altro. Così ti resta in serbo il 50 per
cento della visione notturna, ed è nell'occhio migliore.
Ci disponemmo a difesa coprendo l'intero arco a 360 gradi.
Per i dieci minuti seguenti non facemmo nulla, assolutamente nulla. Eravamo
usciti da un velivolo rumoroso e puzzolente dove si era svolta un'attività frenetica.
Bisogna dare al proprio corpo la possibilità di sintonizzarsi con il nuovo
ambiente. Bisogna adattarsi ai suoni, ai rumori, alla vista e ai cambiamenti di
clima e terreno. Quando si va alla ricerca di persone nella giungla, si fa la stessa
cosa; di tanto in tanto ci si ferma a guardare e ascoltare. Succede anche nella vita
normale. Ci si sente più a proprio agio in una casa estranea, dopo esserci stati per
un po'. Gli indigeni di un posto avvertono istintivamente se tira aria grama e
possono nascere problemi, mentre un turista ci cascherà dentro a pie pari.
Avevamo bisogno di confermare la nostra posizione, perché spesso c'è molta
differenza tra dove vorresti essere e dove la RAF ti ha sbarcato. Una volta
stabilito il punto, ci si assicura che lo conoscano anche tutti gli altri del gruppo. Il
passaggio di informazioni è vitale; guai se le cose le sa solo il capo. In effetti ci
trovavamo dove volevamo essere, il che era un peccato, perché cosi non avremmo
potuto prendere per il culo la RAF al ritorno.
Il terreno era privo di caratteristiche significative. Roccia dura del letto del fiume
secco, coperta da uno strato di circa cinque centimetri di pietrisco. Ci apparve
alieno e desolato come il set di Dr. Who, Avremmo benissimo potuto essere sulla
luna. Ero già stato nel Medio Oriente per diverse missioni, e pensavo di conoscere
bene quella zona del mondo, ma questo terreno mi era nuovo. Le orecchie mi si
drizzarono quando udii un cane abbaiare in lontananza.
Eravamo molto isolati, è vero, ma formavamo un gruppo numeroso, con più armi
e munizioni di quanto si potesse credere, e ci accingevamo a fare ciò per cui
eravamo pagati.
A circa venti, trenta chilometri in direzione est e nord-est si sentivano i raid aerei.
Vidi salire i traccianti e alcuni lampi all'orizzonte; e qualche secondo dopo sentii
in lontananza lo schianto delle esplosioni.
Uno dei lampi mi permise di notare una piantagione circa un chilometro e mezzo
a est: non avrebbe dovuto esserci, ma c'era.
Alberi, un serbatoio per l'acqua, un edificio. Adesso sapevo da dove veniva
l'abbaiare dei cani. Ne abbaiarono altri. Probabilmente avevano sentito il
Chinook, ma per la popolazione civile un elicottero è solo un elicottero. I
problemi sarebbero nati solo se lì ci fossero state delle truppe.
Pensai con preoccupazione all'attendibilità del resto delle nostre informazioni. Ma
in fin dei conti ormai eravamo lì, e non c'era molto che potessimo fare.
Rimanemmo in attesa di udire delle macchine che partivano, ma non successe
nulla. Guardai oltre la piantagione ed ebbi la sensazione di fissare l'infinito.
- Osservai il tracciante salire nel cielo. Non riuscii a vedere nessun aereo, ma
ebbi ugualmente una meravigliosa sensazione di conforto: sentivo che lo stavano
facendo solo per noi.
« A culo tutto quanto, mettiamoci in moto », disse piano Mark.
Mi alzai in piedi e all'improvviso, a ovest, dalla terra eruppe un fragore e una luce
accecante balenò nel cielo.
« Cazzo, che cos'è? » bisbigliò Mark.
«Un elicottero!»
Da dove fosse spuntato, non ne avevamo idea. Sapevamo solo che eravamo sul
posto da soli dieci minuti e stavamo per trovarci in un casino tremendo. Non era
assolutamente possibile che l'elicottero fosse uno dei nostri. Tanto per cominciare,
non avrebbe avuto una luce così forte. Ma, a chiunque appartenesse, sembrava
che filasse dritto verso di noi.
Cristo, come era possibile che gli iracheni fossero stati così rapidi? Avevano forse
seguito le tracce del Chinook fin dal momento in cui eravamo entrati nel loro
spazio aereo?
A un tratto mi resi conto che la luce non stava venendo verso di noi, ma prendeva
quota; e non era un proiettore, ma una palla di fuoco. ' « «Uno Scud! »
mormorai.
Sentii i sospiri di sollievo.
Era la prima volta che qualcuno di noi assisteva a un lancio, e adesso sapevamo
che cos'era; sembrava proprio come il lancio dell'Apollo verso la luna, una grossa
palla di vampe di scarico a circa dieci chilometri di distanza, che bruciava diritta
nell'aria finché alla fine non scomparve nell'oscurità.
«Corridoio degli Scud», «Triangolo degli Scud»... questi erano i termini usati con
enfasi dai mass media, e adesso noi eravamo qui, proprio nel bel mezzo.
Quando tornò la calma, bisbigliai all'orecchio di Vince di richiamare gli altri
ragazzi. Nessuno si precipitò di corsa. Forma, scintillio, ombra, sagoma,
movimento e rumore sono sempre elementi che ti possono fregare. Il movimento
lento non genera rumore né cattura facilmente l'attenzione, il che spiega perché ci
muoviamo sempre così lentamente. Inoltre, se corri, cadi e ti fai male... fotti anche
tutti gli altri.
Spiegai loro dove ci trovavamo esattamente e diedi la direzione in cui dovevamo
muoverci, confermando che il punto d'incontro era davanti a noi. Quindi, se ci
fosse stato un incidente tra il luogo in cui ci trovavamo adesso e il nascondiglio
che ci proponevamo di trovare, e fossimo stati costretti a separarci, tutti sapevano
che nelle prossime ventiquattro ore era già stato stabilito un punto di incontro.
Sarebbero andati a nord finché non avessero incontrato un oleodotto semibruciato
e lo avrebbero seguito fino a incrociare una catena di montagne: ci saremmo
incontrati lì. Dovevamo tenerci così sul vago perché qualsiasi descrizione più
precisa non avrebbe significato nulla per un tizio solo in mezzo al deserto con una
carta geografica e una bussola: la carta indica rocce, e basta. Dopo di che, e per le
ventiquattro ore successive, il prossimo punto d'incontro sarebbe stato nella zona
di atterraggio.
Adesso dovevamo raggiungere quello che avremmo scelto come nascondiglio. Lo
facemmo a staffetta, come ci eravamo esercitati, con quattro ragazzi che a turno
trasportavano l'equipaggiamento e gli altri quattro che garantivano la protezione.
Dato che ci stavamo spostando, tutto doveva essere fatto tatticamente; ci saremmo
fermati, avremmo controllato il terreno davanti a noi e ogni paio di chilometri,
quando ci fermavamo per riposare, i quattro uomini di protezione si sarebbero
allontanati, quindi avremmo controllato l'equipaggiamento per essere certi di non
aver perso niente, che tutte le tasche fossero chiuse e nessuno dei sacchi si fosse
rotto.
L'acqua era il bagaglio più punitivo, perché era come trasportare la valigia più
pesante del mondo con una mano. Io cercai di issare il mio bidone sopra lo zaino
finché il peso sulla schiena divenne intollerabile. Comunque nessuno ci aveva mai
detto che sarebbe stato facile.
Muovendoci nel modo più rapido ma anche più tattico possibile, dovevamo
arrivare alla strada ben prima che facesse giorno per avere il tempo di trovare un
nascondiglio per noi e l'equipaggiamento. Secondo i miei ordini, dovevamo avere
come limite di tempo le 04.00 della mattina seguente; per quell'ora, anche se non
avessimo raggiunto l'area designata per il nascondiglio, avremmo dovuto
cominciare a cercare un punto di sosta. Cosi ci sarebbe rimasta un'ora e mezzo di
buio per lavorare.
Il terreno mi preoccupava. Se si manteneva così, sarebbe stato troppo piatto e
troppo duro per nascondersi: alla luce del giorno saremmo stati visibili come le
palle di un bulldog.
Navigammo in base ai rilevamenti, al tempo e alla distanza.
Avevamo il Magellan, ma era solo un aiuto. Non era facile usarlo mentre stavamo
marciando. A parte il fatto che non potevamo fidarci del tutto, la macchina aveva
una spia luminosa e comunque non sarebbe stato tattico per l'operatore guardare
una macchina invece del terreno.
Ogni mezz'ora circa fissavamo un nuovo punto d'incontro di emergenza, una
posizione dove raggrupparci se avessimo avuto un contatto e avessimo dovuto
ritirarci rapidamente. Se avessimo incontrato un punto caratteristico come un
ammasso di vecchie rovine sepolcrali, l'uomo in testa lo avrebbe indicato come
nuovo punto d'incontro di emergenza con un movimento circolare della mano, e
l'informazione sarebbe passata via via agli altri membri della pattuglia.
Per tutto il tempo, bisogna continuare a fare valutazioni. Devi chiederti un sacco
di: « E se...? » Che cosa succede se ci attaccano frontalmente? O da sinistra?
Dove andrò a cercare riparo? Questo è un buon punto per tendere un'imboscata?
Dov'era l'ultimo punto d'incontro di emergenza? Chi ho davanti a me? Chi ho
dietro?
Devi controllare di non perdere qualcuno. E devi sempre pararti il culo ed essere
consapevole del rumore che fai.
In marcia cominci a sentire caldo, ma appena ti fermi hai freddo di nuovo. Ti siedi
lì con tutto il freddo lungo la schiena e sotto le ascelle, e lo senti anche in faccia.
Sui capelli della nuca cominci ad avere quello schifoso, fastidiosissimo senso di
appiccicaticcio, e intorno alla cintura i vestiti sono bagnati. Allora riprendi a
muoverti perché hai bisogno di sentire caldo di nuovo. Non vuoi fermarti troppo a
lungo per non congelare. Hai già vissuto queste sensazioni un mucchio di volte, e
sai che dopo ti asciugherai, ma questo non significa che la rottura di cazzo sia
minore.
Finalmente, alle 04.45 arrivammo nella zona della curva della strada. Nel buio
pesto non vedevamo nessuna luce, né veicoli.
Nascondemmo l'equipaggiamento e il gruppo di Vince rimase a proteggerlo. Noi
andammo avanti per fare una perlustrazione e trovare un nascondiglio.
«Il mio tempo massimo di ritorno qui sono le 05.45 », sussurrai a Vince, con la
bocca appiccicata contro il suo orecchio perché il rumore delle mie parole non si
propagasse.
Se non fossimo ritornati, ma loro avessero capito che non c'era stato un contatto
perché non avevano sentito alcun rumore, ci saremmo incontrati al punto
d'incontro della pattuglia accanto all'oleodotto. Se non ci fossimo arrivati nelle
ventiquattr'ore di tempo massimo, Vince avrebbe dovuto portarsi al punto
d'incontro dell'atterraggio dell'elicottero, quindi aspettare ancora ventiquattr'ore e
chiedere l'elicottero. Se noi non fossimo arrivati, avrebbe dovuto limitarsi a salire
sull'elicottero e andar via.
Avrebbero dovuto portarsi al punto d'incontro dell'elicottero anche se avessero
sentito che c'era un contatto, ma non fossero stati abbastanza vicini per aiutarci.
Ripetei di nuovo le azioni per il ritorno. «Ritornerò dalla stessa direzione da cui
sono partito», sussurrai a Vince. «Nell'avvicinarmi sarò solo, con l'arma nella
mano destra, e camminerò come se fossi crocifìsso. »
Dopo essermi avvicinato in quel modo, mi sarei fatto riconoscere dalla sentinella,
sarei tornato indietro e avrei riportato gli altri tre. Avrei fatto tutto questo casino
prima di tutto per farmi identificare, e poi per verificare che il rientro non era
pericoloso; era possibile che fossero stati sopraffatti e che il nemico,ci tendesse
un'imboscata. Gli altri tre sarebbero rimasti fuori con funzione di appoggio,
quindi, se ci fosse stato un incidente, avrebbero sparato e io avrei potuto ritirarmi
verso di loro.
Partimmo per la ricognizione circa mezz'ora dopo che avevamo trovato un buon
posto per il punto di sosta: uno spartiacque dove, nei millenni, le inondazioni
avevano scavato nella roccia una piccola rientranza alta circa cinque metri, che
formava una specie di tettoia naturale. Ci saremmo trovati su un terreno protetto,
coperti alla vista e con un minimo di protezione dal fuoco nemico. Non riuscivo a
credere di avere avuto una fortuna simile. Ritornammo a prendere gli altri.
Spostammo tutte le attrezzature nel punto di sosta. La caverna era divisa da un
grande masso, per cui accentrammo l'equipaggiamento fra un gruppo e l'altro.
Finalmente mi sentivo al sicuro, anche se il problema di trovare un punto di sosta
di notte è che la mattina dopo tutto può apparire diverso. Puoi scoprire che il tuo
meraviglioso nascondiglio si trova nel bel mezzo di una proprietà privata.
Adesso era un momento opportuno per fermarsi, sistemarsi, stare tranquilli e
ascoltare i rumori: sintonizzarsi con il nuovo ambiente. Il terreno non appariva più
così ostile e la fiducia aumentava.
Era anche ora di dormire un po'. Nell'esercito c'è un detto: «Quando nella
battaglia c'è una fase di stanca, metti giù la testa», ed è vero. Devi dormire ogni
volta che puoi, perché non sai mai quando avrai la possibilità di farlo di nuovo.
Tenevamo di sentinella due uomini, che cambiavano ogni due ore. Dovevano
guardare e rimanere in ascolto. Qualunque cosa fosse venuta verso di noi, era loro
compito svegliare gli altri. Dormivamo col corpo che formava un arco, in modo
da dover solo girarci e cominciare a sparare.
Quella notte passarono altri jet. Vedemmo i traccianti della contraerea salire verso
il cielo e le fiamme su Baghdad a centocinquanta chilometri sulla nostra destra.
Nessun incidente.
Proprio alle prime luci dell'alba, due dei ragazzi si allontanarono dal punto di
sosta e controllarono che nell'avvicinamento non avessimo lasciato impronte, che
non avessimo lasciato cadere né modificato nulla, né lasciato il minimo segno che
avrebbe potuto tradirci. Bisogna sempre presumere che tutti siano più bravi di te
in tutto - anche nell'inseguirti - e fare i piani di conseguenza.
Sistemammo le nostre Claymore in modo che fossero nel campo visivo di
entrambi gli uomini di sentinella, che così erano pronti per farle saltare con gli
accenditori che tenevano in mano. Se le sentinelle avessero visto o sentito
qualcosa, avrebbero svegliato tutti. Non ci sarebbe stato nessun movimento
frenetico: ci saremmo soltanto alzati in piedi. Ogni azione deve essere eseguita
lentamente. Sentendo sparare la sentinella, gli altri avrebbero saputo che non c'era
tempo da perdere. Se qualcuno rischiava di saltare su una delle nostre Claymore,
voleva dire che noi rischiavamo di essere scoperti: stava alla sentinella decidere se
attivare o no le Claymore. In definitiva, il contatto era molto probabile.
Comunque, l'arma migliore di cui disponevamo era l'invisibilità.
Risalii sul terreno protetto per controllare due volte. Guardando a nord verso la
strada, vidi una zona piatta di seicento metri, poi una lieve salita di cinque metri e,
distante quattrocento metri, una piantagione. Guardando a est e a ovest, fino
all'orizzonte il terreno era piatto. Circa un chilometro e mezzo a sud, dietro di me,
vidi un'altra piantagione, con un serbatoio per l'acqua e un edificio. Secondo la
carta e le informazioni di Bert, quelle costruzioni non avrebbero dovuto esserci,
ma c'erano... ed erano troppo vicine per sentirci al sicuro.
Sentii alcuni veicoli muoversi lungo la strada - non ancora confermata come tale -
, ma questo non era preoccupante. Per vederci, qualcuno avrebbe dovuto trovarsi
sul limitare opposto e guardare giù. Dalla nostra parte dello uadi eravamo
invisibili, grazie allo sperone roccioso. Nessuno poteva vederci senza essere visto
da noi.
Tornai indietro e spiegai a tutti ciò che avevo visto. C'era bisogno di un solo
uomo di sentinella, perché dal suo punto di osservazione riusciva a vedere in
basso lungo lo uadi, e in alto il limitare opposto. Mentre io davo le informazioni,
ci voltava le spalle. Descrissi ciò che avevo visto sul terreno e decidemmo come
agire se avessimo avuto un contatto durante la giornata.
Era ora di trasmettere il rapporto sulla situazione alla base aerea avanzata. Finché
non l'avessimo fatto, nessuno avrebbe saputo dove e in che condizioni eravamo.
Durante questa missione avremmo cercato di inviare un rapporto al giorno,
comunicando la nostra posizione, quanto avevamo appreso sul nemico nell'area e
ciò che avevamo fatto, le nostre intenzioni future e qualsiasi altra informazione.
Loro ci avrebbero risposto con le istruzioni.
Mentre scrivevo il rapporto, Legs preparava la radio. Trascrisse il messaggio in
codice e lo battè per la trasmissione. La radio di pattuglia avrebbe trasmesso con
un solo brevissimo impulso che era virtualmente inintercettabile da parte del
nemico. L'impulso sarebbe rimbalzato nella ionosfera e noi avremmo atteso un
qualunque segnale di riconoscimento.
Non ricevemmo un cazzo.
Legs provò e riprovò, ma non successe nulla. Era seccante, ma non drammatico,
perché avevamo una procedura prevista in caso di perdita di comunicazioni. La
notte successiva ci saremmo portati nella zona d'atterraggio a un punto d'incontro
con l'elicottero per cambiare le radio.
Per il resto di quella giornata provammo ogni tipo di antenna, dai cavi stesi al
dipolo. Tutti avevamo ricevuto un addestramento alle trasmissioni, e ci
provammo tutti: ma senza successo.
Facemmo due ore di guardia ciascuno prima di alzarci, mezz'ora prima che
facesse buio. Le condizioni ideali per un attacco sono appena prima del
crepuscolo e appena prima dell'alba, quindi è procedura operativa standard che in
quei momenti tutti siano svegli e ogni cosa sia pronta. Ci mettemmo in posizione
di fuoco e preparammo i nostri 66, togliendo la copertura superiore e aprendo il
tubo in modo che fosse pronto a sparare. Una volta calato il buio, chiudemmo
tutto di nuovo e ci preparammo per la nostra marcia di perlustrazione.

Partii con il mio gruppo alle 21.00. Il nostro tempo limite erano le 05.00. Se per
quell'ora non fossimo stati di ritorno, sarebbe stato perché avevamo avuto un
incidente, ci eravamo persi, avevamo un ferito o avevamo avuto un contatto a
fuoco che Vince avrebbe dovuto sentire. Se non avesse sentito niente, dovevano
aspettare al punto di sosta fino alle 21.00 della sera successiva.
Se non fossimo stati di ritorno per quell'ora, dovevano portarsi al punto d'incontro
con l'elicottero. Se ci fosse stato un contatto, dovevano portarsi al punto
d'incontro quella notte stessa e noi avremmo tentato di arrivare lì in tempo per il
prossimo prelievo delle 04.00.
Stan, Dinger, Mark e io salimmo sul limitare dello uadi nella più completa
oscurità. Il compito era confermare la posizione della strada principale di
rifornimento e localizzare la linea telefonica. Non è giusto restare fermo davanti a
quello che ritieni sia il tuo obiettivo senza avere controllato. A quanto ne
sapevamo, un chilometro più in là poteva esserci la vera strada principale, quindi
dovevamo compiere un rilevamento visivo. Avremmo marciato in direzione
antioraria, dirigendoci generalmente verso nord e usando la conformazione del
terreno, per vedere se avvistavamo qualcos'altro che assomigliasse alla strada.
Prima di tutto dovevamo individuare un segno che ci avrebbe guidato di ritorno al
punto di sosta se ci fossimo persi. Avremmo fatto una ricognizione verso nord
fino a raggiungere l'altro lato della strada, dove avremmo cercato una roccia o un
altro segno.
Quindi, se proprio ci fossimo persi, sapevamo che dovevamo solo fare il giro
dell'altopiano, trovare il segno e spostarci in direzione sud per ritrovare lo
spartiacque.
Era difficile leggere le carte, perché non c'erano segni particolari. Nella maggior
parte dei casi si può usare come riferimento un rilievo, ci sono strade o altre
indicazioni ed è tutto piuttosto facile. Anche nella giungla è facile, perché ci sono
molti fiumi e si possono usare le curve di livello. Ma qui, in pieno deserto, non
c'era assolutamente un cazzo, quindi tutto si basava sui rilevamenti e sui passi,
con l'aiuto del Magellan.
Trovammo un riferimento evidente, una grande roccia,- e cominciammo a
dirigerci a ovest per il nostro giro antiorario. Pochi minuti dopo avvistammo il
nostro primo insediamento sulla destra e sentimmo immediatamente un cane. Di
notte i beduini si ritirano; vanno a dormire al calar del sole. Così, se un cane
abbaia, sanno che ci deve essere qualcosa. Dopo pochi secondi, il primo cane fu
raggiunto da altri due.
Ero stato il primo a sentire quel ringhio basso. Mi ricordava quando ero di
pattuglia nell'Irlanda del Nord. Ci si ferma e si cerca di stabilire cosa sta
succedendo. Nove volte su dieci hai invaso il territorio di un cane e se indietreggi,
ti siedi e aspetti che tutto si calmi, si calmerà. Il nostro problema era che
dovevamo perlustrare attentamente la zona. Per quanto ne sapevamo, i cani
potevano far parte di una base di Scud.
Ci sedemmo estraendo dal fodero i coltelli da combattimento.
Sarebbero stati necessari se i cani fossero venuti a indagare e avessero deciso di
abbaiare forte o di attaccarci. In ogni caso li avremmo uccisi, poi ci saremmo
portati dietro le carcasse, in modo che il mattino dopo i proprietari avrebbero
pensato che erano scappati o stavano vagabondando. Certo, l'avrebbero trovato
strano, ma nella circostanza non potevamo fare di meglio.
Rimanemmo in ascolto, convinti che fra poco avremmo visto accendersi delle luci
e qualcuno sarebbe venuto a controllare.
Non accadde nulla. Incominciammo a girare intorno al posto, per vedere se
trovavamo un altro modo per stabilire di cosa si trattava. Arrivammo all'altro capo
e trovammo solo segni di popolazione locale. C'erano tende, capanne di fango,
Land Cruiser e una serie di altri veicoli, ma nessuna presenza militare. Facemmo
il punto della posizione con il Magellan, in modo che rientrando al punto di sosta
avremmo potuto informare gli altri, poi ci dirigemmo verso nord-ovest usando il
terreno. Per il momento volevamo evitare la piantagione, che sapevamo essere a
nord.
Stavo guidando il gruppo quando vidi qualcosa davanti a me.
Mi fermai, guardai, ascoltai, quindi mi avvicinai lentamente.
Quattro tende e altrettanti veicoli erano parcheggiati accanto a due cannoni
antiaerei S60 da 57 mm: doveva trattarsi di un'unità corrispondente all'incirca a
una sezione. Tutto era tranquillo e non sembrava che ci fossero sentinelle. Mark e
io ci avvicinammo lentamente. Ci fermammo di nuovo, guardammo e
ascoltammo. Non volevamo andare fin sopra la postazione. Solo abbastanza
vicino da raccogliere più dati possibile. Certo nessuno stava dormendo, né
accanto ai pezzi né sui veicoli. L'intera sezione del plotone doveva trovarsi nelle
tende. Sentimmo dei colpi di tosse. Quella postazione non rappresentava un
pericolo immediato per noi, ma mi preoccupava il fatto che i cannoni contraerei
erano sicuramente stati collocati per proteggere qualcosa. Se fosse stata solo la
strada, nessun problema. Il pericolo era che potevano far parte di un battaglione
corazzato o di qualcosa del genere. Mark fissò la posizione con il Magellan e ci
dirigemmo a nord.
Proseguimmo per quattro chilometri senza incontrare nulla e giungemmo alla
conclusione che quella che avevamo attraversato doveva sicuramente essere la
strada. Il Magellan ci confermò che la nostra posizione punto di sosta era un
chilometro a nord del punto in cui la carta indicava la strada, il che non era
preoccupante. La carta precisava che le indicazioni di strade, tralicci e oleodotti si
dovevano ritenere approssimative.
Adesso sapevamo per certo che avevamo trovato la curva giusta della strada, ma
sfortunatamente sapevamo anche che la zona era densamente popolata; avevamo
piantagioni a nord e a sud della nostra postazione, ancora civili più avanti sulla
strada e una postazione contraerea a nord-ovest del nostro punto di sosta.
Da un punto di vista tattico era la stessa cosa che se avessimo deciso di
accamparci al centro di Piccadilly Circus. Comunque, nessuno ci aveva mai detto
che sarebbe stato facile.
Tornammo indietro per dare un'occhiata agli edifìci nella piantagione a nord del
punto di sosta. Avevo programmato di osservarli per ultimi perché questo era
l'insediamento più pericoloso di cui fossimo a conoscenza prima della
perlustrazione.
Sbirciammo un po' attorno alla piantagione e scoprimmo che consisteva
unicamente di un serbatoio per l'acqua e di un edificio vuoto che sembrava
alloggiasse una pompa per l'irrigazione.
Non c'erano veicoli, né luci, né segni di vita, il che ci fece piuttosto piacere. Era
chiaramente un luogo che veniva usato, molto più che abitato.
Mentre ritornavamo al punto di sosta, fummo testimoni di un altro lancio di Scud,
circa cinque chilometri a nord-ovest. Sembrava proprio che ci trovassimo nel
paradiso degli Scud. Ce la saremmo passata bene. Fissammo un'altra volta la
posizione.
Marciammo verso il punto di sosta, trovammo il segno e andammo a sud verso lo
uadi. Mi avvicinai con le braccia allargate nella posizione del crocifisso mentre
salivo sul limitare dello spartiacque.
Era di sentinella Bob. Mi fermai e aspettai che si alzasse. Mi sorrise, e tornai a
prendere il resto dei ragazzi. Controllai l'orologio: il giro era durato cinque ore.
Non valeva la pena fare un resoconto ai ragazzi in quel momento, perché quelli
che non erano di guardia dormivano e informare la gente di notte fa solo rumore.
Tuttavia era importante che tutti sapessero cosa avevamo fatto e visto. Decisi di
aspettare le prime luci dell'alba.
La sentinella ci svegliò e per prima cosa ci disponemmo ad arco.
Dopo di che, e prima che io dessi le informazioni, volevo controllare di nuovo la
zona morta, anche se l'avevamo coperta la notte precedente. Sapevo che eravamo
veramente sulla strada, ma volevo cercare qualche mezzo di identificazione che ci
indicasse dov'erano le linee telefoniche. Era anche una questione personale;
volevo verificare che sopra di noi non ci fossero stati cambiamenti. Con le pareti
della caverna che ci isolavano dai rumori, avremmo benissimo potuto starcene lì
mentre i Genesis davano un concerto all'aperto senza sentire una sola nota.
Chris mi coprì mentre mi arrampicavo sulle rocce per sbirciare oltre il bordo. Era
l'ultima volta che avrei rischiato una cosa del genere alla luce del sole.
Guardai verso nord-est e proprio lì, sul ciglio della strada, c'erano altri due S60.
Dovevano essere arrivati durante la notte.
Riuscivo a vedere i camion, le tende e gli uomini che si stiracchiavano e
tossivano. E tutto questo, a soli trecento metri dalla nostra postazione. Non potevo
crederci: la faccenda stava diventando surreale. La nostra pattuglia in
perlustrazione doveva averli schivati di soli cinquanta metri. Scesi e lo riferii a
Chris, quindi andai a informare il resto della pattuglia. Mark salì e gettò una
rapida occhiata per assicurarsi che non avevo avuto le allucinazioni.
Non è che questo sviluppo della situazione mi facesse impazzire di gioia. Era
abbastanza pericoloso, perché quei tizi erano proprio sopra di noi. Ci avrebbero
limitato pesantemente.
Aprii la carta geografica e mostrai tutti gli insediamenti che avevamo individuato,
incluse le due nuove postazioni degli S60. Passammo il resto della giornata a
cercare di trasmettere di nuovo il rapporto sulla situazione. Evidentemente i nuovi
S60 erano lì per proteggere la strada: peraltro non avevano motivi ragionevoli per
mandare pattuglie in perlustrazione. Erano nel loro territorio e avevano tutto il
sostegno che gli serviva. Insomma, potevamo essere visti solo dal limitare
opposto dello uadi, e anche in quel caso soltanto se uno ci fosse andato
letteralmente sopra e avesse guardato verso il basso.
Provammo tutti un'altra volta con la radio: niente da fare. A quel punto sarebbe
scattata la procedura prevista per la mancanza di collegamenti, e l'elicottero
avrebbe ricevuto l'ordine di incontrarci la mattina seguente alle 04.00.
Tutto sommato, stavamo tranquilli. Stavamo al coperto ed eravamo una pattuglia
d'assalto di otto uomini. All'incontro con l'elicottero ci saremmo messi
direttamente in comunicazione o saremmo saliti a bordo e ripartiti per altra
destinazione.
Ripassai nella mia mente la procedura del punto d'incontro con l'elicottero. Il
pilota sarebbe arrivato con i visori notturni in attesa di un segnale con la mia
torcia a infrarossi. Avrei lampeggiato la parola Bravo come segnale. Lui sarebbe
atterrato cinque metri alla mia destra, usando la luce come punto di riferimento.
La porta del capo mitragliere era appena dietro il pilota e io avrei dovuto
dirigermi verso di essa, consegnare la vecchia radio e ricevere quella nuova. Se ci
fosse stato qualche messaggio per noi, mi avrebbero stretto il braccio e me lo
avrebbero dato. Se il messaggio fosse stato lungo, sarebbe scesa la rampa con il
mitragliere che mi avrebbe accompagnato in coda. Il resto della pattuglia si
sarebbe attestato a difesa in cerchio. Se avessi dovuto andare a chiamarli,
conoscevano la procedura. Se volevo che ci portassero da un'altra parte, avrei
tenuto per un braccio il mitragliere e indicato dietro la rampa. A quel punto la
rampa sarebbe scesa e noi saremmo saliti tutti a bordo.
Questo era il piano. Niente di drammatico. Quella notte saremmo tornati indietro
e ci saremmo spostati altrove.

6.

AVEVAMO ascoltato i veicoli rombare su e giù lungo la strada per tutta la


giornata. Non costituivano una minaccia.
Verso metà pomeriggio, però, sentimmo lo strillo di un bambino a non più di
cinquanta metri di distanza. Seguirono altri strilli, accompagnati dagli zoccoli
delle capre e dal tintinnio di una campanella.
Nessun problema. Non potevamo essere scoperti, a meno che non riuscissimo a
vedere la persona di là dall'altra riva dello uadi.
Mi sentivo fiducioso.
Le capre si avvicinarono. Eravamo in stato di allerta: tutti con indosso la cintura e
le armi in pugno. Non ci avevano sorpresi avvolti nei sacchi a pelo o intenti a
prendere il sole. Comunque sentii il pollice avvicinarsi alla sicura del mio 203.
La campanella tintinnò sopra di noi. Alzai lo sguardo proprio mentre dall'altro
lato appariva il muso della capra. Sentii la mascella contrarsi per l'apprensione.
Stavamo tutti immobili come statue: muovevamo solo gli occhi.
Altre capre vagarono sul limitare dello uadi. Chissà se il pastore le avrebbe
seguite...
All'improvviso apparve una testa umana. Si fermò e ondeggiò, poi venne avanti.
Scorsi il profilo di una faccetta scura. Il bambino sembrava preoccupato di
qualcosa dietro di lui. Avanzava rivolto dietro di sé. Apparvero le spalle e il collo,
poi il petto.
Non poteva essere a più di un metro dal bordo. Spostò la testa da parte a parte,
urlando all'indirizzo delle capre e battendole con un lungo bastone.
Gli gridai mentalmente di non abbassare gli occhi.
Avevamo ancora una possibilità, purché continuasse a guardare dall'altra parte.
Per favore, niente contatto visivo, guarda solo quello che stai facendo.
Voltò la testa.
Mormorai lentamente: Va...ffanculo!
Lui guardò in giù.
Bastardo! Merda!
I nostri occhi si incontrarono: ci fissammo. Non avevo mai visto un simile
sguardo di sorpresa sul volto di un bambino.
E adesso? Restò inchiodato sul posto. Esaminai febbrilmente le varie possibilità.
Lo facciamo fuori? Troppo rumore. E comunque... siamo pazzi? Non avrei mai
voluto avere sulla coscienza una cosa simile per il resto della mia vita. Merda,
avrei potuto benissimo essere un incursore iracheno infiltrato in Gran Bretagna, e
quella lassù poteva essere Katie.
Il ragazzino cominciò a correre. I miei occhi lo seguirono e feci la mia mossa.
Anche Mark e Vince si stavano arrampicando come indemoniati nel tentativo di
tagliargli la strada. La cosa fondamentale era prenderlo. Avremmo potuto
decidere in seguito cosa fare di lui: legarlo, tappargli la gola con il cioccolato o
roba del genere. Ma non potevamo fare molta strada senza esporci alle postazioni
degli S60, e il bambino aveva già troppo vantaggio. Se n'era andato - cazzo! - ci
era sfuggito, strillava come un'aquila e stava correndo verso i cannoni.
Poteva fare un sacco di cose. Era possibile che non lo dicesse a nessuno perché
avrebbe potuto finire nei guai... magari non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto.
Avrebbe potuto dirlo ai suoi amici o alla sua famiglia, ma solo più tardi, tornando
a casa. Oppure avrebbe potuto continuare a correre urlando verso i cannoni. Il mio
dovere era di pensare al peggio. E allora?
Avrebbero potuto non credergli. Era possibile che venissero a vedere
personalmente. Oppure avrebbero potuto aspettare rinforzi. Io dovevo presumere
che prima avrebbero informato altri e poi ci avrebbero cercati. E allora? Se ci
avessero scoperti, ci sarebbe stato un contatto prima del buio. Se non ci avessero
scoperti, avremmo avuto la possibilità di sganciarci con il favore delle tenebre.
Avevamo scelto il nostro punto di sosta perché era riparato - si poteva vedere solo
dal punto in cui si era trovato il ragazzino - e non certo pensando a una difesa. Era
un posto chiuso da tutte le parti, in cima a uno spartiacque, senza nessuna via di
fuga.
Non ci fu bisogno di dire niente: tutti sapevano che dovevamo ritenerci bruciati,
scoperti. Facemmo in fretta... be' non è che raccogliemmo alla bell'e meglio il
nostro armamentario e ci mettemmo le gambe in spalla: sarebbe stato
controproducente. Vale sempre la pena prendersi qualche minuto in più per
chiarirsi le idee.
Mangiammo cioccolato e bevemmo un po' d'acqua. Non sapevamo quando
avremmo potuto alimentarci di nuovo. Controllammo che i nostri tascapane
fossero chiusi, che i bottoni sulle tasche delle carte geografiche fossero bene
allacciati, che i caricatori fossero a posto. Controllare, controllare, controllare.
Vince mandò fuori per primi Stan e Bob con le Minimi. Appena altri due uomini
furono pronti, si scambiarono di posto in modo che le sentinelle si preparassero.
Tutti gli altri effettuarono automaticamente le operazioni necessarie. Vince
esaminò le attrezzature nascoste. Estrasse un bidone di acqua e aiutò tutti a
riempire le borracce. Se avessimo avuto uno scontro, avremmo perso gli zaini con
tutto ciò che contenevano. I ragazzi bevvero grandi sorsate per ingerire quanta più
acqua possibile, svuotando le loro borracce e poi riempiendole. Anche se non ci
fosse stato alcuno scontro, sapevamo tutti che ci aspettava una marcia tremenda.
Controllammo l'equipaggiamento appeso al cinturone, assicurandoci che le
giberne fossero chiuse. I caricatori sono assicurati bene? Controllateli di nuovo.
La sicura è inserita e il colpo in canna? Naturalmente sì, ma controllammo lo
stesso. Chiudemmo i tubi dei nostri due 66 e li infilammo insieme per trasportarli
più facilmente. Senza preoccuparci di rimettere il tappo o la cinghia, ci infilammo
le armi tra gli spallacci degli zaini, pronti a un uso rapido.
Controllammo che i caricatori di ricambio fossero agevolmente estraibili. Se li
prendi dalla parte sbagliata, sprechi un paio di secondi preziosi per girarli: se
invece li infili nelle giberne dalla parte giusta, sono già pronti per andare a posto.
Per facilitare l'estrazione, molti mettono sui caricatori un pezzo di nastro adesivo.
Quando erano vuoti, io me li lasciavo cadere nel davanti della casacca per
riempirli in seguito. Potevamo anche usare le cartucce tolte dai nastri delle
Minimi. - , , Tutto questo ci costò un paio di minuti, ma fu un tempo meglio speso
che se ci fossimo alzati e messi a correre. Loro sapevano che eravamo lì, e allora
perché precipitarci? Le sentinelle ci avrebbero avvisati del loro arrivo.
Legs si buttò sulla radio. Fece di tutto, provando tutte le antenne, sperimentando
combinazioni diverse che non aveva potuto tentare mentre eravamo nascosti.
Adesso che eravamo bruciati poteva fare quello che gli pareva. Se il messaggio
fosse arrivato, avrebbero potuto mandarci in fretta dei jet. Avrebbe potuto parlare
ai piloti con il radiofaro tattico e fargli sputare un po' di fuoco di copertura, il che
non sarebbe stato male.
L'acqua di Legs era finita. Mentre lui era chino sulla radio, i ragazzi aprirono il
suo cinturone, presero le bottiglie d'acqua e lo fecero bere prima di riempirle di
nuovo, quindi misero altro cibo nella sua cintura. Quando capì che non avevamo
più tempo, smontò la radio e la assicurò in cima allo zaino.
« Le istruzioni sono nella tasca da mappa destra dei miei pantaloni », annunciò a
tutti. « La radio è in cima al mio zaino. »
Questa era una procedura ben nota, messa a punto affinchè, se lui fosse morto, noi
fossimo in grado di recuperare le attrezzature in fretta: ma Legs la ripetè a norma
di manuale per essere sicuro che tutti la conoscessero.
Quando fu pronto, Legs sostituì Bob di sentinella. Tutti avevano un'aria
consapevole, la calma di chi esegue alla lettera procedure che conosce a menadito.
Bob, che da quando eravamo arrivati non aveva fatto nient'altro che dormire, era
preoccupato di dover riprendere a muoversi così in fretta.
« Dovremmo istituire un sindacato », disse. « Questi orari sono scandalosi. »
« Il cibo è una vera merda, per non parlare del resto », commentò Mark.
Era bello sentire un po' di battutacce, perché allentavano la tensione.
Dinger tirò fuori le sigarette. « Vaffanculo, lo sanno che siamo qui. Potrei farmi
una fumatina, tanto magari fra un minuto sono morto. »
« Ti faccio rapporto! » urlò Vince mentre usciva per dare il cambio a Stan con la
Minimi. Era un classico tormentone dell'esercito, nato da un'espressione che la
gente crede si usi come il pane nell'ambiente militare, mentre in realtà non si sente
mai.
Eravamo pronti a muoverci, se necessario. C'erano voluti tre minuti in tutto.
Restava ancora circa un'ora e mezzo di luce.
Se la nostra arma migliore era l'invisibilità, quel ragazzino ci aveva disarmato.
Nel posto in cui eravamo, non potevamo combattere. Era un culo di sacco, per
farci fuori sarebbero bastati un paio di elicotteri. La sola possibilità era uscire allo
scoperto e batterci, o forse scappare. E' vero che restando lì eravamo nella merda,
ma saremmo stati nella merda anche se fossimo usciti, dato che non c'era
copertura. Era come cadere dalla padella nella brace, ma paradossalmente nella
brace avevamo un briciolo di possibilità in più.
Da sud giunse il rumore di cingoli: a quel punto non potevamo più uscire dallo
uadi. Era troppo tardi. La nostra sola uscita era stata bloccata da un mezzo
corazzato. Saremmo dovuti restare lì a combattere.
Non riuscivo a capire perché portassero un mezzo corazzato in uno spazio così
angusto. Cosa credevano, che non avessimo armi anticarro?
Aprimmo subito i nostri 66 e ci affannammo a trovare una posizione decente per
sparare. Chris saltellava qua e là con il suo vecchio berretto dell'Afrikakorps
indicando i 66 e parlandoci come il più paziente degli istruttori. « Ora, ragazzi,
non scordatevi della vampata di scarico! Sabato pomeriggio vorrei fare lo struscio
in città, e l'ultima cosa che desidero è una bella ustione sulla faccia! »
Stan guardò lungo la sua Minimi con il colpo in canna alla linea dello spartiacque,
verso il rumore del cingolato in avvicinamento. Ci fu uno scintillio metallico
quando comparve alla vista.
Che diavolo era? Non aveva l'aspetto del mezzo corazzato che mi ero aspettato.
, Stan gridò: «Un bulldozer! »
Incredibile. Stava per scatenarsi l'inferno e un imbecille andava in giro con una
scavatrice. Il conducente arrivò a centocinquanta metri dalla nostra postazione,
ma non ci vide mai. Era in abiti civili e probabilmente passava di lì per purissimo
caso.
« Non sparate », ordinai. « Dobbiamo considerarci scoperti, ma a che livello non
lo sappiamo ancora. »
L'attenzione del guidatore sembrava concentrata sulla ricerca di una via d'uscita
dallo uadi. Continuò a manovrare per quella che ci parve un'eternità.
« Cazzo », dissi a Vince, « dobbiamo andarcene. Non possiamo rimanere qui e
basta. »
L'ideale sarebbe stato attendere l'ultima luce, ma sentivo che la situazione ci stava
sfuggendo di mano.
Il bulldozer scomparve all'improvviso e il rumore del motore svanì.
Evidentemente il guidatore aveva trovato il modo di uscire.
Era ora di andarcene. Dissi a Stan di chiamare i ragazzi delle Minimi in modo che
tutti sentissero quello che stavo per dire.
Ci radunammo con i cinturoni indossati e gli zaini ai piedi. Così raggruppati
eravamo in condizione di massima vulnerabilità, ma non se ne poteva fare a
meno, tutti dovevano sapere cosa stava succedendo.
Cominciai affermando quello che tutti sapevano: « Ce ne andiamo di qua.
Dirigeremo verso ovest, cercando di evitare i cannoni antiaerei, e poi a sud verso
il punto d'incontro con l'elicottero, che è domani mattina alle 04.00 ».
« Ci vediamo al Pudding Club », commentò Chris.
« Che si fotta », ribattè Dinger, aggiungendo con grottesca solennità: « Va' a
ovest, ragazzo, va' a ovest ».
Ci caricammo gli zaini in spalla e controllammo di nuovo le giberne. Tutto il resto
rimase lì. Perfino le Claymore furono abbandonate, perché non avevamo tempo di
raccoglierle.
Le postazioni degli S60 ci lasciavano una sola via d'uscita. A ovest e poi a sud,
usando il più possibile gli avvallamenti del terreno. Ma non avremmo corso. Non
volevamo commettere errori.
Avevamo un sacco di tempo per arrivare al punto d'incontro con l'elicottero, se
solo fossimo riusciti a uscire da quella merda e garantirci la copertura del buio.
Mi sentivo ansioso, ma ottimista. Meritavamo di più dopo tutto quel duro lavoro
di programmazione, la marcia, la localizzazione e la conferma della strada e la
piccola sfiga delle comunicazioni interrotte. Tuttavia pensavo che sostanzialmente
non ci fossero problemi: dovevamo solo aspettare le 04.00 del mattino seguente e
ci saremmo di nuovo messi all'opera. Ma in fin dei conti eravamo una pattuglia
d'assalto di otto uomini, avevamo armi e munizioni, avevamo i 66. Che altro
poteva desiderare un uomo?
«Forza», suggerì Mark, «facciamo come i beduini.»
Ci tirammo sulla faccia le sciarpe a rete. Partimmo in fila indiana, con il sole negli
occhi: guidavo io. Marciammo correttamente, senza scapicollarci, osservando il
terreno.
Lo uadi svanì e il paesaggio spianò del tutto. Uscimmo a ovest, usando la
conformazione del terreno, quindi svoltammo a sinistra, dirigendoci verso sud.
Continuai a controllare il nord perché non volevo finire nel mirino dei cannoni
della contraerea. A ogni passo mi aspettavo di sentire un proiettile da 57 mm
sibilarmi vicino alla testa. Cosa li tratteneva? Non avevano creduto al ragazzino?
Stavano aspettando rinforzi? O solo di trovare il coraggio per attaccarci?
Per altri cinque minuti marciammo verso ovest, mantenendo la distanza tra ogni
uomo per minimizzare le perdite in caso di grave incidente. Era la cosa corretta da
fare, ma se avessimo avuto un contatto frontale, l'ultimo avrebbe dovuto correre
forse anche sessanta metri per raggiungerci (se il genere di azione intrapresa lo
avesse reso necessario).
Mentre svoltavamo a sud c'era un pendio che saliva fino alla strada. Eravamo
ancora in zona morta rispetto al contingente nemico, che era più su dall'altra parte.
Quando svoltammo verso sud non riuscimmo a credere alla nostra buona sorte.
Non successe nulla. Poi da est, al nostro fianco sinistro, sentimmo un rumore di
cingolati.
L'adrenalina salì alle stelle, il sangue cominciò a fluire rapido.
Ci fermammo: non potevamo andare né avanti né indietro. E che altra direzione
potevamo prendere? Sapevamo che il contatto era inevitabile.
Vidi tutti che si preparavano. Sapevano cosa fare. Gli zaini vennero messi a terra
e gli uomini controllarono che tutte le giberne fossero chiuse. Non è divertente
correre all'assalto e scoprire, quando arrivi davanti al nemico, che non hai più
caricatori perché li hai persi per strada. Controllarono le armi ed eseguirono le
procedure, che per loro erano ormai naturali. Probabilmente mancavano solo
pochi secondi al contatto. Mi guardai intorno alla ricerca di un avvallamento più
profondo di quello in cui ci trovavamo.
Il minuto peggiore è quello che precede i primi spari. Si può solo ascoltare e
pensare. Quanti mezzi arriveranno? Ti piomberanno direttamente addosso - che è
quanto faranno se hanno solo un po' di buon senso - o ti punteranno i mitragliatori
scaricandoli a pioggia? Lo sferragliare dei cingoli e il rombo dei motori a pieni
giri sembravano avvilupparci. Non sapevamo ancora dove fossero.
«Cazzo, spariamo! Spariamo!» gridò Chris.
Provai un'improvvisa sensazione di solidarietà, dato che ci trovavamo tutti in
quella merda. Non pensavo che avrei potuto morire, pensavo solo: cerchiamo di
andarne fuori.
Alcuni sono sopravvissuti alle imboscate con la semplice aggressività. Qui
sarebbe stato lo stesso. Dispiegai i tubi del mio 66, assicurandomi che la tacca di
mira fosse scattata in posizione.
Deposi il lanciarazzi al mio fianco. Controllai che il caricatore fosse a posto e
verificai che il 203 avesse la bomba pronta. Dopo queste superflue verifiche mi
sentii un po' più sicuro.
L'istinto naturale ti fa desiderare di tenerti più basso che puoi, ma devi pur sempre
guardare verso l'alto e attorno a te. Mi sollevai in posizione semiaccovacciata.
Ognuno di noi si spostava nel raggio dei suoi dieci metri quadrati, cercando di
raggiungere una posizione migliore e vedere cosa stava arrivando. Prima riesci a
vedere, meglio è, perché il terribile timore dell'ignoto sempre in agguato per
metterti nei pasticci - scompare. Può darsi che ciò che vedi sia molto peggio di
quello che avevi previsto, ma comunque devi guardare.
Sentii me stesso gridare: « Merda! Merda! Merda! »
Seguirono urla lungo tutta la linea.
« Vedi niente dalla tua parte? »
«No, non vedo un cazzo! »
«Cazzo! Cazzo!»
« Su, presto, facciamola finita! »
« Sono già qui? »
«No, cazzo!»
« Fottuti beduini! »
Stavamo tutti a orecchie tese per localizzare i veicoli.
Uuuuf!
Dalla mia parte tutti sollevarono la testa.
« Che cazzo era? »
Per tutta risposta, dall'altra parte del gruppo Legs o Vince spararono col 66.
Uuuuf!
Ammesso che gli iracheni avessero dubbi sulla nostra posizione, adesso erano
sicuri. Ma i ragazzi non potevano avere sparato senza una buona ragione.
Allungai bestialmente il collo e in fondo a sinistra vidi che un mezzo corazzato
armato di una mitragliatrice calibro 7.62 era sceso lungo una piccola depressione,
non visibile dalla nostra parte. Vince e Legs avevano visto il mezzo andargli
addosso.
« Cazzo, spariamo! Facciamola finita, facciamola finita! » urlai con tutto il fiato
che avevo in corpo.
All'improvviso fu una bella sensazione avere sparato il primo colpo. Non sapevo
se stavo gridando ai ragazzi o a me stesso.
Molto probabilmente all'uno e agli altri.
«Forza! Forza!» ; Un secondo mezzo corazzato con mitragliatrice montata
sulla torretta aprì il fuoco su tutta la zona. Non è carino sapere che hai contro un
corazzato che per di più trasporta fanteria. Tu sei in una pattuglia a piedi e queste
anonime masse di metallo avanzano inesorabilmente. Sai che trasportano fanteria,
conosci benissimo il loro interno. Sai che il guidatore è davanti e il mitragliere in
cima sta cercando di guardare attraverso il suo mirino prismatico, e sta sudando
come un pazzo là dentro, perché è difficile prendere la mira così sballottati. Ma
l'unica cosa che vedi coi tuoi occhi è questo affare che viene rombando verso di te
e ti appare così mostruoso, dieci volte più grosso, perché sai che ti vuole
ammazzare. Sembrano così impersonali. Si lasciano dietro una scia di distruzione.
Sei tu contro di loro, sei una formica e hai una paura folle. , Il portatruppe
corazzato più vicino sparò altri colpi, all'impazzata. Uno di essi colpì il terreno
circa dieci metri davanti a me.
Nell'esercito britannico ti insegnano come reagire quando il nemico apre il fuoco:
scatti per renderti un bersaglio difficile, ti butti giù, strisci in posizione di sparo,
trovi il nemico, gli punti il mirino epam. Si chiama « reazione al tiro di efficacia
nemico ».
Ma quando ti trovi davvero sotto il fuoco, sono tutte stronzate.
Per me è sempre stato così. Non appena ti scaricano addosso i colpi, sei già a terra
e vorresti aprire una voragine per affondarci dentro. Potendo, prenderesti un
cucchiaio e ti metteresti a scavare. E' una reazione fisica naturale. I tuoi istinti ti
obbligano ad abbassarti, a farti piccolo piccolo e aspettare che tutto finisca al più
presto. La parte razionale del tuo cervello ti suggerisce invece di alzarti in piedi e
guardare cosa succede per poi cominciare a combattere: rimanere sdraiato non è
di nessuna utilità, perché moriresti comunque. La parte emotiva ti dice: affanculo
tutto, sta' lì, forse se ne andranno. Ma tu sai che non sarà così, che bisogna fare
qualcosa.
Il mitragliatore sparò un'altra raffica mica da ridere. I colpi rimbalzarono sul
terreno, sempre più vicini alla mia postazione.
Dovevo reagire. Respirai a fondo e sollevai la testa. Un autocarro si era fermato a
cento metri di distanza e i soldati stavano scendendone in una confusione totale.
Dovevano sapere dove ci trovavamo, perché avevano sentito i 66 e le
mitragliatrici dei corazzati erano in azione, ma il fuoco che facevano con le loro
armi leggere era impreciso.
Sembrava che tra i mezzi corazzati non ci fosse nessun coordinamento. Ognuno
faceva per conto suo. Gli uomini scendevano dal retro urlando e sparando. Non
erano proprio sicuri di dove fossimo. Ma, anche così, sparavano un numero di
colpi sufficiente per farci tenere la testa al riparo. Quando ti colpiscono, non fa
molta differenza se era un colpo sparato a caso o diretto proprio a te.
Ci fu altro casino e altre urla, da parte loro e nostra. Lo scontro a fuoco doveva
iniziare. Non va bene starsene fermi lì e sperare che non ti vedano e vadano via,
perché è piuttosto improbabile.
Facilmente cominceranno ad avanzare e a cercarti, perciò devi prendere il toro per
le corna. Per prevalere è indispensabile la massima potenza di fuoco, senza però
scordarsi di risparmiare le munizioni. Si tratta di sparare più colpi di loro e
ucciderne tanti all'inizio, in modo che indietreggino o si mettano al riparo. Ma la
loro potenza di fuoco era molto superiore alla nostra.
Il mezzo corazzato si fermò. Non credetti ai miei occhi. Invece di avanzare con la
fanteria e sopraffarci, stava basando l'attacco sul fuoco della mitragliatrice... una
scelta provvidenziale!
Adesso toccava a noi. Le Minimi spararono raffiche di tré-cinque colpi. Le
munizioni dovevano essere gestite oculatamente.
Sparammo due razzi da 66 contro il carro e lo centrammo. Si sentì lo scossone
dell'esplosivo ad alto potenziale: dovette essere molto demoralizzante per loro.
Decisioni. Cosa si deve fare dopo il contatto iniziale? Stai lì tutto il tempo,
indietreggi o avanzi? Dovevamo fare qualcosa, altrimenti ci saremmo solo sparati
a vicenda, loro avrebbero avuto perdite, noi avremmo avuto perdite, ma eravamo
destinati a soccombere semplicemente perché avevamo meno uomini. Per di più,
forse questa era solo l'avanguardia: magari dietro di loro sarebbe arrivata un'altra
compagnia di fucilieri, non potevamo saperlo. L'unica scelta possibile in questi
casi è avanzare, altrimenti rimani lì finché hai esaurito le munizioni.
Guardai verso Chris. « Cazzo, diamoci dentro. Sei pronto? Sei pronto? »
Lui di rimando mi gridò: «Ce la faremo! Ce la faremo! »
Sapevano tutti cosa si doveva fare. Ci caricammo mentalmente. E' così innaturale
attaccare in una situazione del genere... non è esattamente ciò che le tue
vulnerabili carni e ossa desiderano. Bisogna solo chiudere gli occhi e riaprirli
molto più tardi scoprendo che tutto è andato bene.
« Tutto okay? »
Che tutti i ragazzi sulla linea avessero sentito importava poco: certo sapevano che
stava per succedere qualcosa, e che probabilmente saremmo andati all'assalto di
un nemico preponderante.
Senza pensarci, cambiai il caricatore. Non avevo idea di quanti colpi mi fossero
rimasti. Era ancora piuttosto pesante, magari ne avevo sparati solo due o tre. Me
lo infilai nella casacca per dopo.
Stan sollevò i pollici e aumentò il ritmo di colpi della Minimi per avviare
l'avanzata.
Io ero carponi e guardavo verso l'alto. Trassi qualche respiro profondo, poi mi
alzai in piedi e cominciai a correre in avanti.
«Cazzo! Cazzo!»
I ragazzi scaricarono una gran quantità di fuoco di copertura.
Non si spara mentre si avanza, perché ti rallenterebbe. La sola cosa che devi fare è
correre, buttarti a terra e sparare in modo che anche gli altri possano sostenerti.
Non appena ti getti a terra i polmoni ti bruciano e il torace si alza e si abbassa, ti
guardi attorno per vedere il nemico, ma hai il sudore che ti cola negli occhi. Te lo
asciughi, il fucile ti si sposta su e giù sulla spalla. Vorresti posizionarti meglio per
sparare come quando sei al poligono, ma non si può. Cerchi di calmarti per
compiere azioni logiche, ma poi vorresti fare tutto contemporaneamente. Vorresti
fermare quel respiro affannoso, in modo da riuscire a impugnare l'arma
correttamente e prendere bene la mira. Vorresti far sparire il sudore per vedere il
tuo bersaglio, ma non vuoi muovere il braccio perché è in posizione di sparo e
devi sparare per coprire gli altri che si muovono avanzando.
Balzai in piedi e corsi per altri quindici metri, una distanza molto più lunga di
quanto indichino i manuali. Più a lungo stai in piedi, più a lungo sei un bersaglio
evidente. Tuttavia, è piuttosto difficile colpire un uomo che si muove molto
velocemente, e noi eravamo pieni di adrenalina.
Sei immerso nel tuo piccolo mondo. Io e Chris che correvamo in avanti, Stan e
Mark che ci facevano da copertura con le Minimi. Fuoco e manovra. Gli altri
correvano in avanti. I beduini devono aver pensato che fossimo pazzi, ma erano
loro ad averci messo nei casini, e quella era la sola via d'uscita.
Potevi seguire la traiettoria del tracciante che ti veniva addosso. Sentivi quel
rumore bruciante e sibilante mentre i colpi ti oltrepassavano o colpivano il terreno
e rimbalzavano in aria. C'era da aver paura. In questi casi non puoi fare altro che
saltar su, correre, buttarti a terra, saltar su, correre, buttarti a terra. Poi restare
sdraiato, ansante, zuppo di sudore, a cercare disperatamente l'aria, a sparare, a
scegliere nuovi bersagli e tentare di risparmiare le munizioni.
Una volta che mi ero portato in avanti e avevo cominciato a sparare, le Minimi
interrompevano il fuoco e avanzavano anche loro. Prima arrivavano e meglio era:
avevano una potenza di fuoco formidabile.
Più ci avvicinavamo, più gli iracheni perdevano la calma. Doveva essere l'ultima
cosa che si aspettavano da noi. Probabilmente non si resero conto che era anche
l'ultima cosa che avremmo voluto fare.
Mentre spari dovresti contare i colpi, ma è più facile dirlo che farlo. In qualsiasi
momento in cui è necessario sparare, dovresti sapere quanti colpi ti restano e
cambiare i caricatori se ne hai bisogno. Se perdi il conto sentirai «il clic dell'uomo
morto». Premi il grilletto e il percussore scatta, ma non succede nulla. In pratica
riuscire a contare fino a trenta è veramente impossibile.
Quello che si fa è aspettare che l'arma smetta di sparare, poi si preme il bottone e
si lascia cadere il caricatore, se ne infila direttamente un altro e via. Se sei ben
addestrato è un automatismo che non richiede nessuno sforzo mentale. Succede e
basta. L'Armalite è progettato in modo tale che, quando le munizioni finiscono,
l'otturatore resta agganciato in posizione di apertura, così puoi infilare un altro
caricatore e poi premere la leva di sgancio in modo che il primo colpo entra in
canna. Poi spari di nuovo a qualsiasi cosa si muova.
Eravamo arrivati a cinquanta metri dai beduini. Il mezzo corazzato più vicino a
me cominciò a ritirarsi, con la mitragliatrice ancora in azione. Il nostro ritmo di
fuoco diminuì. Dovevamo amministrare i colpi.
Il carro era in fiamme. Non sapevo se qualcuno di noi fosse stato colpito. In tutti i
casi, non avrei potuto fare molto.
Non riuscivo a credere che il mezzo corazzato indietreggiasse.
Ovviamente temevano i razzi anticarro e sapevano che l'altro era stato colpito, ma
una ritirata restava impensabile. Alcuni fanti lo rincorsero, salendo dal retro.
Correvano, si voltavano, sparavano, ma era uno spettacolo da aprire il cuore.
Pensai di lanciare anch'io un razzo con il mio 66, e scoprii che nella fretta lo
avevo dimenticato accanto allo zaino. Che pippa invereconda!
Dall'altra parte, Vince era in piedi con Legs e stava ancora avanzando. Urlavano
per caricarsi a vicenda. Il resto della pattuglia faceva fuoco di copertura.
Mark e Dinger si alzarono in piedi e corsero in avanti. Si stavano concentrando
sul mezzo corazzato che avevano colpito con i loro 66. Avevano totalizzato un «
colpo immobilizzante »: i cingoli non potevano muoversi, anche se la
mitragliatrice era ancora utilizzabile. Continuarono a tirargli nella speranza di
mandare in frantumi il mirino prismatico del mitragliere. Se fossi stato al suo
posto sarei uscito dal carro e me la sarei data a gambe, ma lui non sapeva che
nemici aveva di fronte. Arrivarono al mezzo corazzato e scoprirono che i portelli
posteriori erano ancora aperti. I beduini non si erano chiusi dentro. Gettarono
all'interno una granata L2, che esplose con il suo caratteristico tonfo sordo. Gli
occupanti restarono uccisi all'istante.
Continuammo ad avanzare verso la zona dei carri in quattro gruppi di due,
ciascuno alle prese con il suo piccolo problema.
Tutti correvamo ondeggiando a un passo degno di Sebastian Coe. Sparavamo un
paio di colpi, poi correvamo e ci toglievamo di mezzo, quindi ricominciavamo.
Cercavamo di prendere la mira. Scegli un bersaglio e spari finché non cade a
terra. A volte possono essere necessari anche dieci colpi.
Sul 203 è montato un congegno di mira, ma non sempre hai il tempo di puntare e
sparare. Bisognava arrangiarsi alla bell'e meglio. Quando spari, il lanciabombe fa
un caratteristico pop. Osservai la bomba fendere l'aria. Si sentì una forte
esplosione e poi una pioggia di terriccio. Sentii urlare. Bene, significava che
stavano sanguinando, non sparando, ed erano diventati feriti di cui gli altri
dovevano occuparsi.
Ci ritrovammo in cima al saliente. Tutti quelli che avevano potuto erano scappati.
Un camion ardeva allegramente davanti a noi. Un mezzo corazzato bruciato
fumava alla nostra sinistra. Cadaveri erano sparsi su un'ampia zona. Quindici
morti forse, molti più i feriti. Li lasciammo dov'erano e avanzammo ancora.
Adesso che il contatto era terminato, provavo un indicibile sollievo, che tuttavia
non bastò a fugare la paura. Ce ne sarebbero stati altri... e poi, chiunque dica di
non aver paura è un bugiardo o un deficiente.
«Cazzo, roba da matti! » esclamò Dinger.
Sentivo odore di benzina, fumo e maiale arrosto: l'odore dei cadaveri che
bruciano. Un iracheno rotolò giù dal sedile della parte posteriore del portatruppe,
con la faccia tutta spellata e annerita. I feriti sul campo si muovevano
penosamente. Dalla quantità di spaventose ferite alle gambe, capii che i 203
avevano fatto il loro dovere: quando sparano, scagliano schegge di metallo in tutte
le direzioni.
Adesso volevamo solo andarcene. Non sapevamo che altro sarebbe potuto
arrivare... Quando raggiungemmo gli zaini, alcuni proiettili colpirono il terreno
alle nostre spalle. A ottocento metri, il mezzo corazzato sopravvissuto, circondato
da morti e feriti, stava ancora sparando, ma senza efficacia. Non c'era tempo da
perdere.

7.

LA notte doveva essere la nostra copertura, e presto avrebbe fatto buio. Adesso il
mezzo corazzato che si era ritirato stava avanzando di nuovo. Gli uomini
seguivano a piedi, sparando all'impazzata. Ci issammo in spalla gli zaini. Andare
verso sud era un suicidio, perché sicuramente immaginavano che quella sarebbe
stata la nostra direzione di marcia. Perciò l'obiettivo era distanziarli il più
possibile, e a tale scopo dovevamo obbligatoriamente dirigerci verso ovest, il che
significava rischiare di essere avvistati dalla postazione degli S60.
Non avremmo marciato secondo le regole della pattuglia. Per quanto ce lo
permettevano gli zaini, dovevamo allontanarci in tutta fretta dall'area del contatto.
Era una famosa manovra della fanteria, nota in codice come « levarsi dalle palle
».
A est comparvero due camion carichi di fanteria, che superarono il limitare
dell'avvallamento e ci individuarono. Si fermarono immediatamente, e gli uomini
scesero dai cassoni cominciando a sparare. Saranno stati una quarantina, il che
significava un incredibile volume di fuoco contro di noi.
Cominciarono ad avanzare. Ci dirigemmo verso est, tirammo qualche colpo, poi
indietreggiammo verso ovest, sparando come forsennati. Fuoco e manovra, fuoco
e manovra, ma questa volta lontano da loro: due uomini si ritiravano di corsa,
quindi si voltavano per coprire gli altri due.
Stavamo salendo un leggero pendio. Non appena giungemmo sul crinale, ci
trovammo esposti ai cannoni contraerei della postazione di nord-ovest.
Cominciarono a sparare con un cupo fragore di tuono. I proiettili da 57 mm, tutti
traccianti, sibilavano attorno a noi. Le granate esplodevano sul terreno circostante.
Chris e io facemmo simultaneamente dietrofront per buttarci a terra. Lui stava
correndo due o tre metri alla mia destra quando sentii qualcosa di simile al rumore
che può fare il pugno di un gigante.
Guardai di lato e vidi Chris che cadeva. Era stato colpito da una granata
contraerea. Gli corsi accanto, pronto a iniettargli una fiala di morfina, sempre che
non fosse già morto.
Si dimenava, e per un attimo credetti che fossero gli spasimi dell'agonia. Errore:
era vivo e vegeto, e cercava semplicemente di liberarsi dalle cinghie dello zaino.
Appena ci riuscì, si rialzò barcollando.
«Vaffanculo! » esclamò. Nel punto in cui era penetrato il colpo, il suo zaino si era
praticamente disintegrato.
Corremmo per qualche metro, poi si fermò di colpo. « Ho dimenticato una cosa. »
Tornò di corsa verso la carcassa dello zaino e la frugò, estraendo una fiaschetta
d'argento.
« E' un regalo di Natale di mia moglie », ridacchiò mentre mi raggiungeva. «Non
potevo lasciarla lì. Mi avrebbe ucciso.»
Anche gli altri ragazzi stavano gettando via gli zaini. Sperai che Legs fosse
riuscito a recuperare dal suo la radio di pattuglia.
Il mezzo corazzato avanzava piuttosto minacciosamente, facendo un fuoco
sostenuto e preciso. Anche due Land Cruiser piene di uomini si erano unite al
pandemonio.
Ci fermammo e sparammo un po' di colpi con i 203.I veicoli frenarono
bruscamente, mentre i proiettili da 40 mm esplodevano davanti a loro. Gli uomini
scesero e si misero a sparare.
Gli S60 avevano inchiodato alla posizione Mark e Dinger, che perciò lanciarono
le bombe al fosforo, e attorno a loro volteggiò un fumo biancastro. Il problema
dei fumogeni isolati è che attirano immediatamente il fuoco nemico, ma non
avevamo altra scelta. Gli iracheni sapevano che i ragazzi si stavano coprendo la
ritirata, quindi svuotarono i caricatori nella nuvola. Un paio di colpi di 203
rallentarono il ritmo del loro assalto. Mark e Dinger balzarono in piedi e si misero
a correre.
« Cazzo, carino qui, eh? » disse Dinger con una voce veramente incazzata, mentre
mi passava vicino.
Continuammo a retrocedere. Era quasi buio, e alla fine, nel crepuscolo, persero
contatto con noi. Eravamo molto sparpagliati, e man mano che scendeva l'oscurità
c'era il pericolo che il gruppo si dividesse. Correndo, studiavamo il terreno alla
ricerca di un punto adatto per riunirci. Lo poteva scegliere chiunque.
Cinquanta metri alla mia destra, echeggiò un grido: « Riunitevi, riunitevi,
riunitevi! »
Chiunque fosse, aveva trovato una copertura utile per raggrupparci. Fu una gran
cosa, perché in quel momento eravamo divisi, ognuno di noi combatteva la sua
piccola battaglia personale per sganciarsi. Un punto di raduno è molto simile a un
punto d'incontro di emergenza, a parte il fatto che viene stabilito al momento e
non in anticipo. Il suo scopo è radunare tutti, il più presto possibile, prima di
riprendere la marcia. Se qualcuno mancava all'appello, avremmo dovuto
confermare che era morto, ammesso che non lo si fosse già fatto. Altrimenti
avremmo dovuto tornare a prendere l'uomo colpito.
Corsi e trovai Chris e Bob che aspettavano nell'avvallamento.
Infilai subito un nuovo caricatore e preparai la mia arma per riprendere il fuoco.
Ci attestammo a difesa in cerchio, coprendo tutte le angolazioni, in attesa che
arrivassero gli altri.
Contai le teste man mano che mi superavano e prendevano posizione per sparare.
Ci vollero cinque o sei minuti prima che arrivasse l'ultimo uomo. Se mancava
qualcuno avrei dovuto chiedere: «Chi è stato l'ultimo a vederlo? Dove l'hai visto?
Era solo a terra o era morto? » In caso di risposta negativa, lo si andava a cercare.
I fari dei veicoli cingolati corazzati si incrociavano freneticamente a non più di
trecento metri da noi. Di tanto in tanto, in lontananza si udiva una detonazione
seguita da grida. Probabilmente avevano sparato contro le rocce o contro i loro
compagni. C'era una confusione totale, il che non ci piaceva affatto.
Eravamo ammassati tutti e otto in un fazzoletto di un paio di metri quadrati. Ci
sistemammo rapidamente, togliendoci i maglioni e infilandoli nel cinturone o
nella casacca. Sapevamo che le possibilità erano due: saremmo andati
all'elicottero o ci saremmo diretti verso la Siria. In ogni caso, ci aspettava una
marcia da incubo.
« Ce l'hai la radio? » domandai a Legs.
«Non c'era modo di prenderla», rispose. «Facevano un fuoco dell'accidente. Penso
comunque che fosse danneggiata perché il mio zaino è stato colpito ed è saltato. »
Sapevo che se avesse potuto l'avrebbe presa. Ma comunque, non importava molto.
Avevamo quattro radiofari tattici, e avremmo potuto metterci in contatto con gli
AWACS in quindici secondi.
Ero ancora senza fiato e avevo una gran sete, per cui bevvi qualche sorsata dalla
mia borraccia. Tirai fuori un paio di caramelle all'orzo e me le ficcai in bocca.
«L'avevo appena accesa quella sigaretta», commentò tristemente Dinger. «Se l'ha
raccolta uno di quei bastardi, spero che si soffochi.»
Bob ridacchiò e all'improvviso ci ritrovammo tutti a ridere come matti. Mica per
quello che aveva detto Dinger... eravamo solo sollevati per essere ancora tutti
interi e insieme dopo uno scontro così disperato. In quel momento non poteva
fregarcene niente di tutto il resto. Era bellissimo essere vivi.
Avevamo usato un quarto delle nostre munizioni. Le mettemmo insieme,
dividendole tra noi e infilando caricatori pieni nelle armi. Avevo ancora il mio 66,
l'ultimo rimasto perché, da brava testa di cazzo, lo avevo lasciato vicino allo
zaino.
Mi sistemai i vestiti, tirandomi su ben bene i pantaloni per evitare piaghe alle
gambe, e mi strinsi di nuovo il cinturone per essere certo di stare comodo.
Cominciavo ad avere freddo. Avevo sudato moltissimo e tremavo nella casacca
bagnata. Dovevamo muoverci.
« Cerchiamo di chiamare, adesso », disse Legs. « Loro lo sanno che siamo qui.
Possiamo benissimo usare i radiofari tattici. »
«Sì», convenne Vince, «facciamo venire giù uno di quegli stronzi. »
Aveva ragione. Tirai fuori il mio radiofaro tattico, estesi l'antenna e sentii il
fruscio. Premetti il pulsante di trasmissione e parlai.
«Pronto AWACS, qui Bravo Two Zero, chiamiamo da terra e siamo nella merda.
»
Nessuna risposta.
Ripetei il messaggio.
Niente.
« Pronto, qualunque codice », dissi. « Qui Bravo Two Zero. »
Niente.
Continuai a provare per trenta secondi, senza successo.
La nostra sola speranza a quel punto era di essere sorvolati da un jet, in modo che
potessimo contattarli con il radiofaro tattico sulla frequenza d'emergenza. Tuttavia
questa eventualità era altamente improbabile, a meno che durante la fase di
compromissione uno dei segnali di Legs fosse arrivato, e la base aerea avanzata
avesse avvisato qualche aereo di supporto. Di certo non c'era stato nessun
riconoscimento automatico. Forse sapevano che eravamo nella merda, forse no.
Non potevano far niente.
Esaminai rapidamente la situazione. Avremmo potuto marciare per trecento
chilometri verso sud in direzione dell'Arabia Saudita, oppure andare a nord verso
la Turchia - il che significava attraversare l'Eufrate - o, ancora, prendere verso
ovest per centoventi chilometri fino alla Siria. Avevamo fanteria e mezzi corazzati
nelle immediate vicinanze. Eravamo bruciati e ci stavano cercando. Naturalmente
avrebbero pensato che ci saremmo diretti verso l'Arabia. Anche se fossimo
arrivati al punto d'incontro con l'elicottero, c'era la possibilità che ci seguissero, e
questo avrebbe potuto significare attività nemica nella zona dove sarebbe atterrato
il Chinook.
Decisi che non avevamo altra possibilità che andare in Siria.
Inizialmente ci saremmo mossi verso sud per creare una diversione, dato che
quella era la via che il nemico avrebbe ritenuto più probabile; poi ci saremmo
diretti a ovest, puntando infine genericamente verso nord-ovest. Avremmo cercato
di arrivare dall'altra parte della strada prima delle prime luci dell'alba, perché
probabilmente quello sarebbe stato il perimetro psicologico della loro zona di
ricerca a sud. A quel punto ci saremmo diretti decisamente verso la frontiera.
«Tutti pronti?» chiesi.
Ci avviammo verso sud in fila indiana. A circa un chilometro di distanza, i mezzi
correvano avanti e indietro intorno a noi.
Avevamo percorso solo qualche centinaio di metri quando uno di essi, una Land
Cruiser, avanzò dritto contro di noi, puntandoci con i fari. Ci buttammo a terra,
ma eravamo allo scoperto. Distogliemmo lo sguardo per evitare il riflesso e
continuare a vedere nella notte. Il veicolo era a duecento metri di distanza e si
stava avvicinando. Se fosse avanzato ancora, ci avrebbero visto. Mi preparai a un
altro scontro. Si alzò un grido. Sollevai la testa di scatto e vidi i fari di un altro
veicolo, circa trecento metri alla nostra sinistra. La Land Cruiser cambiò direzione
e si allontanò in fretta.
Proseguimmo a passo rapido. Transitavano continuamente veicoli, per cui
dovemmo fermarci e buttarci a terra diverse volte.
Era un tormento: non solo volevamo allontanarci rapidamente dalla zona, ma
avevamo anche bisogno di continuare a camminare per tenerci caldi. Avevamo
soltanto le casacche sulle camicie perché non volevamo sudare troppo, ma adesso
sembrava che la temperatura continuasse a scendere.
Il fatto che gli AWACS non rispondessero ai nostri segnali mi faceva veramente
incazzare, e neanche il pensiero di dover fare ancora centoventi chilometri per
raggiungere la Siria mi metteva troppa allegria.
Dopo avere marciato per quella che mi sembrò una vita, ci guardammo alle spalle
e vedemmo che i fari erano concentrati in lontananza. Eravamo fuori della zona di
pericolo immediato, e con un minimo di copertura garantita da un avvallamento
del terreno. Se volevamo riprovare con il radiofaro tattico, dovevamo farlo su
quella rotta meridionale. Bob e Dinger si spostarono immediatamente sul ciglio
della depressione con le loro Minimi per coprirci le spalle nel caso fossimo stati
seguiti. Tutti gli altri si erano schierati in cerchio a difesa. Riprovai con il mio
radiofaro tattico, ma senza successo.
Tutti quelli che avevano un radiofaro tattico fecero un tentativo. Era incredibile
che tutte e quattro le radio fossero scassate, ma sembrava proprio così.
Mark fece un controllo di posizione con il Magellan e stabilì che avevamo
marciato per venticinque chilometri. Li avevamo fatti così rapidamente che, con
un po' di fortuna, gli iracheni non lo avrebbero creduto possibile e sarebbero stati
depistati.
« Adesso ci dirigeremo verso ovest per uscire da questa zona », dissi. «Poi
cominceremo ad andare verso nord per superare la strada prima della luce. »
Sentii una serie di improperi diretti ai fabbricanti del radiofaro tattico. Non lo
avremmo più usato, a meno che un aviogetto non ci avesse sorvolato. Non
sapevamo se gli iracheni avessero velivoli in cielo, ma dovevamo correre il
rischio. Eravamo nella merda, ed era pure fredda.
Richiamammo Bob e Dinger, gli comunicammo le buone notizie e ci mettemmo
in marcia. Eravamo rimàsti fermi solo un minuto o due, ma conveniva rimettersi
di nuovo in cammino. Faceva un freddo terribile, un vento micidiale ci gelava le
ossa. Il cielo era molto nuvoloso e buio come la pece. Non riuscivamo a vedere
bene le nostre impronte: il solo lato positivo era che anche per loro sarebbe stato
molto più difficile trovarci. Si vedeva ancora il veicolo isolato, ma molto lontano.
Li avevamo distanziati, e mi sentivo quasi fiducioso.
Ci spingemmo a ovest per quindici chilometri, muovendoci rapidamente con la
bussola. Il terreno era così piatto che ci saremmo accorti con grande anticipo di
qualsiasi presenza irachena.
Ogni ora ci fermavamo cinque minuti per riposare, secondo la procedura
operativa standard della marcia in pattuglia. Se continui senza fermarti, finisci per
esaurirti e non sei più in grado di rispettare i programmi. Così ci si ferma, ci si
butta a terra, ci si riposa un attimo, si beve un po' d'acqua, ci si sistema, ci si
rimette comodi e si riparte. Insisto che faceva un freddo boia, e quando ci
fermavamo tremavo come una foglia.
Dopo quindici chilometri facemmo una sosta di cinque minuti e un controllo con
il Magellan. Decisi che, per via del fattore tempo, avremmo dovuto dirigerci a
nord e oltrepassare la strada prima dell'alba.
« Superiamo quella strada », spiegai, « poi filiamo a nord-ovest fino in Siria. »
Avevamo coperto altri dieci chilometri, quando notai che nella fila si aprivano dei
varchi. Stavamo marciando assai più lentamente di prima. C'era un problema:
fermai la pattuglia e ci raggruppammo.
Vince zoppicava.
« Tutto bene, socio? » gli chiesi.
« Sì, mi sono fatto male alla gamba sganciandomi da quel contatto e, porca
puttana, comincia proprio a farmi vedere le stelle. »
Il nostro scopo era far arrivare tutti quanti oltre la frontiera.
Vince era chiaramente ferito e avremmo dovuto rifare i programmi e le
valutazioni in base al fatto che stava nei casini. Niente stronzate del tipo: «No, va
tutto bene, vecchio mio... posso andare avanti strisciando sui coglioni! » perché se
uno cerca di fare il duro e non informa gli altri dei suoi guai, mette in pericolo
tutti.
Se invece informi i tuoi compagni che sei ferito, si possono fare dei piani.
« Che tipo di problema hai? » domandò Dinger.
« Mi fa solo un male pazzesco. Non penso che sia rotta e non sanguina, o roba del
genere... ma è gonfia. Mi rallenterà. »
« Bene », conclusi. « Ci fermiamo qui e ci sistemiamo. »
Estrassi dalla giacca il mio berretto da baseball di lana e me lo misi in testa.
Osservai Vince che si massaggiava la gamba. Era infuriato con se stesso per
essersi fatto male.
« Stan è in uno stato pietoso », mi informò Bob.
Dinger e Mark gli avevano dato una mano, l'avevano disteso sul terreno: era in
brutte condizioni. Lui lo sapeva ed era incazzato nero.
« Che cazzo c'è? » gli domandai ficcandogli in testa il mio berretto.
« Sono a fine corsa, amico. Morirò qui. »
Chris era quello con maggiore esperienza medica. Esaminò Stan e vide subito che
era pericolosamente disidratato.
« Tenteremo di reidratarlo rapidamente. »
Strappò dalla cintura di Stan due buste di elettroliti, che sciolse nella borraccia.
Stan bevve come un cammello.
« Senti, Stan », dissi, « ti rendi conto che noi dobbiamo proseguire? »
« Sì, lo so. Dammi solo un minuto, manderò giù ancora un po' di questa merda in
gola. E' colpa di questa fottuta biancheria. Stavo dormendo con quella, quando
siamo stati scoperti. »
La disidratazione non rispetta il clima. Ci si può disidratare durante l'inverno
artico esattamente come di giorno nel Sahara.
Lo sforzo fisico produce sudore, anche se fa freddo. E le nuvolette di vapore che
si vedono quando espiriamo sono liquidi ancora più preziosi che fuggono dal
nostro corpo. Fra l'altro, quando si parla di disidratazione, la sete è un indice
inaffidabile. Il problema è che qualche sorsata di liquido può alleviare la sete
senza migliorare il deficit idrico interno. E' anche possibile non accorgersi della
sete perché la nostra attenzione è assorbita da troppe altre cose. Dopo aver perso il
5 per cento del peso corporeo, si viene colti da accessi di nausea. Se si vomita, si
perdono altri liquidi preziosi. I movimenti rallentano decisamente, la bocca si
impasta e non si riesce più a parlare. Stan aveva portato i suoi indumenti termici
da quando avevamo lasciato il punto di sosta. Doveva avere perso litri di sudore.
Cominciai a rabbrividire.
«Che cosa facciamo, gli togliamo l'equipaggiamento?» domandai a Chris.
« No, è tutto quello che ha addosso, a parte i pantaloni, la camicia e la casacca. Se
glielo togliamo starà peggio. »
Stan si alzò in piedi e cominciò a girare intorno. Gli concedemmo altri dieci
minuti perché si organizzasse, ma poi cominciavamo ad avere troppo freddo e
dovemmo rimetterci in moto.
Dovevamo marciare al ritmo dei due più lenti; perciò misi Chris per primo, con
Stan e Vince dietro di lui. Seguivo io con gli altri alle mie spalle.
In quanto capofila, Chris si muoveva in base al rilevamento della bussola per
essere sicuro che non incappassimo in brutte sorprese. Anziché ogni ora, ci
fermavamo ogni mezz'ora. A tutte le soste dovevamo far bere Stan. La situazione
non era disperata, ma sembrava peggiorare.
Il tempo era diventato un vero schifo. Non marciavamo con la lena di prima anche
perché il freddo stava minando la nostra resistenza. Il vento ci soffiava in faccia e
avanzavamo tutti con la testa girata di tre quarti per cercare di proteggerci. Poi, a
una sosta, Vince si sedette e si afferrò la gamba.
« Sta peggiorando, amici », disse. Era uno che non si lamentava mai... doveva
proprio fargli un male tremendo. Si scusò per il casino in cui ci aveva messo.
Adesso avevamo due nemici: il tempo e le condizioni fisiche dei ragazzi più lenti.
A questo punto anche noialtri cominciavamo a risentire della massacrante marcia
notturna. A me facevano male i piedi e le gambe, e dovevo continuare a ripetermi
che era per questo che venivo pagato.
Il cielo era coperto. Nero come l'inchiostro. Controllai la navigazione, mentre il
resto della pattuglia mi copriva. Chris aveva problemi con i visori notturni perché
non c'era luce ambiente. Questo adesso ci stava rallentando più dei due in
difficoltà.
Il vento mordeva ogni centimetro di pelle esposta. Tenevo le braccia strette lungo
i fianchi per conservare il calore, la testa bassa, le spalle sollevate. Se dovevo
girare la testa, muovevo tutto il corpo. Non volevo assolutamente che il vento mi
soffiasse nel collo.
Cominciammo a sentire alcuni aerei da nord. Non riuscivo a vedere un tubo per
via delle nuvole sopra di noi, ma dovevo prendere una decisione. Avrei tirato
fuori il radiofaro tattico solo per scoprire che erano iracheni?
« Sì, cazzo », disse Mark, leggendomi nel pensiero. « Proviamo. »
Appoggiai la mano sulla spalla di Vince e dissi: «Ci fermiamo e proviamo il
radiofaro tattico ».
Lui annuì. « Sì, okay, sì. »
Cercai di aprire il mio tascapane: facile a dirsi... Avevo le mani congelate e così
rattrappite che non riuscivo a muovere le dita.
Mark cominciò a frugarmi nel cinturone, ma neanche lui riusciva a stendere le
dita abbastanza per aprire il tascapane. Alla fine, in qualche modo, qualcuno mi
mise il radiofaro tattico in mano.
L'ultima coppia di jet stava ancora volando sopra di noi.
« Pronto, chiunque siate, qui Bravo Two Zero, Bravo Two Zero. Chiamiamo da
terra e siamo nella merda. Stop. »
Niente. Richiamai. Richiamai ancora.
« Pronto, Bravo Two Zero. Chiamiamo da terra e siamo nella merda. Dobbiamo
darvi la posizione. Stop. »
Se non avessero fatto altro che informare qualcuno della nostra posizione,
avremmo riso a crepapelle. Mark tirò fuori ilMagellan e premette il pulsante che
ci diede la longitudine e la latitudine.
Fu allora che udii il suono celestiale di una voce americana e capii che quelli
erano jet provenienti dalla Turchia che andavano a fare un'incursione dalle parti di
Baghdad.
« Bravo Two Zero, Bravo Two Zero, ripeti! Sei molto debole.
Prova di nuovo. »
Il segnale era debole perché lui stava gridando fuori banda.
« Ritorna a nord », gli dissi, « ritorna a nord. Stop. »
Nessuna risposta.
« Pronto, chiunque siate, qui Bravo Two Zero. Stop. »
Niente.
Se n'erano andati. Non sarebbero tornati. Bastardi!
Cinque minuti dopo, l'orizzonte fu rischiarato dalle bombe illuminanti e dai
traccianti. Evidentemente i jet stavano scaricando qualcosa vicino a Baghdad. Le
loro incursioni sono fondamentali, programmate per spaccare il secondo. Non
avrebbero potuto ritornare verso di noi neanche se avessero voluto. Almeno lui
aveva ripetuto il nostro codice di identificazione. Presumibilmente questo sarebbe
stato filtrato attraverso il sistema e la base aerea avanzata avrebbe saputo che
eravamo ancora sul posto, ma nella merda, o almeno che lo era quello di noi con il
radiofaro tattico.
In venti o trenta secondi terminò tutto. Voltai la schiena controvento mentre
infilavo il radiofaro tattico nel tascapane. Guardai Legs, che scrollò le spalle.
Aveva ragione: in fin dei conti, avevamo stabilito un contatto.
« Forse ritorneranno sulla stessa rotta e ci sentiranno », dissi a Bob.
« Speriamo. » ' Mi voltai verso il vento per dire a Chris che era meglio che ci
muovessimo.
« Oh, cazzo », sussurrai, « e dove sono finiti tutti gli altri? »
Avevo detto a Vince che avremmo tentato con il radiofaro tattico.
La prassi corretta è passare il messaggio lungo la fila, ma il suo cervello
annebbiato non lo registrò nemmeno. Doveva aver semplicemente continuato a
camminare senza dirlo a Chris e Stan.
Quando si è in fila ciascuno ha la responsabilità di assicurarsi che i messaggi
passino avanti o indietro; e, se ti fermi, devi accertarti che l'uomo davanti a te lo
sappia. Dovresti sempre sapere chi hai davanti a te e chi hai dietro. Sta a te
accertartene. Perciò, se non si erano fermati, era colpa mia e di Vince. Entrambi
eravamo venuti meno alle nostre responsabilità: Vince per non aver trasmesso il
messaggio, io per non essermi assicurato che si fermasse.
Non potevamo più fare nulla. Non potevamo effettuare una ricerca visiva perché
Chris era l'unica persona con il dispositivo per la visione notturna. E non
potevamo usare la luce bianca: nemmeno a parlarne. Quindi potevamo solo
attenerci al rilevamento e sperare che a un certo punto loro si sarebbero fermati
per aspettarci. C'erano buone possibilità che ci rincontrassimo.
Mi sentivo di merda. Avevamo più o meno fallito nel contatto con l'aereo. E
adesso, cosa ben peggiore, avevamo perso tre membri della pattuglia, due dei
quali in cattive condizioni fisiche.
Ero incazzato con me stesso e per la situazione. Come potevo essere stato così
idiota?
Bob doveva avermi letto nel pensiero, perché disse: « Adesso è fatta, ormai,
andiamo avanti. Speriamo di trovarci al punto d'incontro ».
Le sue parole mi aiutarono molto. Aveva ragione. In fondo erano adulti e
vaccinati e se la sarebbero cavata.
Ci dirigemmo a nord secondo la bussola. Il vento gelido trapassava le nostre
leggere tenute da deserto. Dopo due ore di dura marcia arrivammo alla strada e la
attraversammo. L'obiettivo seguente era una strada asfaltata più a nord.
Incontrammo un paio di zone abitate, ma le aggirammo senza difficoltà. Appena
dopo la mezzanotte sentimmo un rumore in lontananza. Cominciammo il nostro
aggiramento di routine attorno a qualunque cosa fosse e ci imbattemmo in un
accampamento di blindati con una selva di antenne. Un soldato si accese una
sigaretta, illuminando brevemente il proprio volto. Probabilmente avrebbe dovuto
stare di sentinella, ma stava sonnecchiando nell'abitacolo di un camion. Poteva
trattarsi di una installazione militare come di una postazione temporanea.
Qualunque cosa fosse, dovevamo aggirarla.
Chris e gli altri non dovevano essere entrati in contatto con il nemico, altrimenti
lo avremmo sentito.
Proseguimmo per un'altra ventina di minuti. Eravamo tutti al limite della
resistenza. Avevamo riposato otto ore, e poi via. Lo sforzo delle gambe era stato
immane. I piedi mi facevano male.
Mi sentivo a pezzi.
Ripensai all'aereo. Ormai erano passate alcune ore, quindi a questo punto i piloti
dovevano essere tornati ai loro hotel a bersi un caffè e a mangiarsi un bombolone,
mentre i tecnici controllavano i motori. Proprio un modo carino di fare la guerra.
Si issano dentro le loro belle carlinghe e volano sui bersagli. Giù a terra, per
quanto li riguarda, c'è il nulla. Poi cosa sentono? Una vecchia voce britannica che
blatera lamentandosi di essere nella merda.
Doveva essere stata una bella sorpresa. Sperai con tutte le forze che si fossero
preoccupati per noi e stessero facendo qualcosa.
Chissà se avevano riferito del contatto via radio subito o al loro ritorno alla base.
Probabilmente, la seconda ipotesi. Erano passate ore senza che fossimo sorvolati
da nessun jet. Non sapevo che cosa ci volesse nel sistema americano per dare il
via a un'operazione di ricerca e soccorso. Speravo solo che sapessero che era
davvero importante.
Pensavo che la divisione del gruppo era stata colpa mia. Mi sentivo un vero
stronzo, e mi chiedevo se tutti gli altri la pensassero allo stesso modo. Mi
ricordavo di un discorso del feldmaresciallo Slim che avevo letto. A proposito
della leadership, diceva press'a poco così: « Quando sei in comando, c'è battaglia
e tutto sta andando bene - secondo i piani - e, insomma, stai vincendo, sei un
grande condottiero, proprio un bravo ragazzo. Ma è solo quando tutto va a puttane
e tu ne sei il responsabile che scopri se hai attitudine al comando o no». Adesso
mi trovavo esattamente nella situazione descritta. Avrei potuto prendermi a calci
per non aver controllato che Vince avesse capito che ci stavamo fermando.
Mentre marciavamo verso nord continuai a pensare: dove diavolo ho sbagliato?
Ma era indispensabile che da allora in avanti il piano di evasione e fuga
funzionasse. Non dovevo commettere altri errori. -(
Era ora di trovare un posto in cui nasconderci. Avevamo superato una zona di
pietrisco e roccia e adesso camminavamo su un lieve strato di sabbia. I nostri
stivali quasi non lasciavano impronte. Da una parte era un vantaggio, ma il
terreno era così duro che non potevamo scavarci un nascondiglio. Stava già
arrivando l'alba e noi eravamo ancora allo scoperto. Le cose si stavano mettendo
un po' maluccio quando Legs individuò delle dune di sabbia un chilometro a
ovest. Ci trovavamo in una zona in cui i venti costanti corrugavano il terreno e
formavano cumuli di terra alti dai cinque ai dieci metri. Cercammo quello più
alto: volevamo trovarci sopra il livello degli occhi.
Facemmo ciò che non avremmo mai dovuto fare, nascondendoci in un luogo ben
delimitato. Ma quello era l'unico rialzo su un terreno più piatto di una tavola. In
cima c'era un cumulo di sassi: forse c'era sepolto qualcuno.
Attorno al cumulo sorgeva un muricciolo di pietra alto una trentina di centimetri.
Lo rincalzammo leggermente e ci sdraiammo all'interno. Faceva un freddo gelido
e il vento soffiava attraverso le fessure tra le pietre, ma avere smesso di marciare
era comunque un sollievo. Nelle ultime dodici ore, completamente al buio e in
condizioni meteorologiche atroci, avevamo percorso ottantacinque chilometri, la
lunghezza di due maratone. Mi facevano male le gambe. Stare sdraiati era
meraviglioso, ma poi sarebbero cominciati i crampi. Come ti muovevi, esponevi
al freddo altre parti del corpo. Era incredibilmente scomodo.
A sud, vedemmo dei tralicci correre in direzione est-ovest. Li utilizzammo per
stabilire la nostra posizione sulla carta. Se li avessimo seguiti, alla fine ci
saremmo imbattuti nel confine.
Ma se avessimo usato i tralicci della luce per la navigazione, chi avrebbe potuto
dire che non lo avrebbero fatto anche i beduini?
Rimanemmo fermi per mezz'ora, sempre più a disagio. A est, a circa due
chilometri, c'era un edificio di lamiera ondulata, probabilmente una stazione per
lo scavo di pozzi idrici. Appariva molto invitante, ma ancora più isolato. A nord
non c'era nulla.
Non avevamo alternativa, bisognava restare lì.
Dovevamo tenerci veramente bassi; ci raggomitolammo cercando di trasmetterci
il calore dei nostri corpi. Nuvole nere solcavano il cielo. Il vento sibilava tra le
pietre; sentivo i suoi morsi.
Avevo già provato il freddo, nell'Artico: ma mai niente di simile.
Qui era come stare sdraiati in un freezer sentendo il corpo scivolare via piano
piano. E avremmo dovuto restare lì per il resto della giornata, muovendoci
sempre, per quanto possibile, al di sotto del muretto. Quando avevamo un crampo
- un problema molto comune dopo una marcia così faticosa -, dovevamo aiutarci
l'un l'altro.
Legs estrasse dalla tasca della mappa le informazioni sui segnali e distrusse tutti i
codici e gli altri scarabocchi. Incendiammo i fogli dei codici e li facemmo
bruciare tutti assieme per essere certi che tutto venisse polverizzato; poi
schiacciammo le ceneri, spargendole sul terreno.
« Mentre voi fate il falò, mi fumerò una sigaretta », disse Dinger. «Devo farmi
una paglia prima che ricominci il ballo.»
Controllammo di nuovo, frugando in tutte le tasche per essere doppiamente sicuri
di non aver trascurato nulla che potesse compromettere la missione, noi stessi o
qualcun altro. Si può sempre avere addosso qualcosa che per la controparte - a
meno che non glielo spieghi tu - non significa nulla, ma che loro potrebbero
utilizzare come punto di partenza per un interrogatorio. « Che cos'è questo? A
cosa serve? » Magari si passano un sacco di guai per una sciocchezza. , In
lontananza si sentivano dei veicoli. C'erano due mezzi corazzati circa un
chilometro a sud, troppo lontani per costituire un pericolo immediato. Sperai che
non si mettessero in mente di cominciare a cercare in tutti i posti che potevano
garantire una copertura.
Verso le 07.00 cominciò a piovere: non potevamo crederci.
Eravamo in mezzo al deserto. L'ultima volta che avevo visto la pioggia nel
deserto era stato in Oman, nel 1985. In un attimo eravamo fradici, e dopo dieci
minuti la pioggia si era trasformata in nevischio: ci guardammo a bocca aperta.
Poi cominciò a nevicare.
Bob intonò: «I'm dreaming ofa white Christmas».
Era esattamente come se ci trovassimo su una montagna in pieno inverno: cazzi
acidi. Ci rannicchiammo ulteriormente: non potevamo più permetterci di perdere
una sola linea di temperatura corporea. Estraemmo le fodere delle carte
geografiche e cercammo di improvvisare un riparo. La nostra principale
preoccupazione era preservare il calore nella parte centrale del corpo, il torace.
L'uomo è « omeotermico », vale a dire che il corpo cerca di mantenere costante la
temperatura interna indipendentemente da quella esterna. Il corpo consiste di un
centro interno caldo circondato da un rivestimento esterno più freddo. Il centro è
costituito dal cervello e dagli altri organi vitali contenuti nel cranio, nel petto e
nell'addome. Il rivestimento è ciò che rimane: la pelle, il grasso, i muscoli e gli
arti. In effetti è una zona cuscinetto tra il nucleo e il mondo esterno a proteggere
gli organi dai catastrofici cambi di temperatura. > ' Il mantenimento di una
corretta temperatura interna è il fattore più importante per la sopravvivenza.
Persino al freddo o al caldo più estremi, la temperatura interna varierà al massimo
di due gradi in più o in meno rispetto a 36,8 °C, mentre quella esterna sarà
inferiore solo di qualche grado. Se la temperatura interna sale oltre i 42,7 °C o
scende sotto i 28,8 °C, si muore.
Il corpo genera energia e calore bruciando combustibile. Quando si comincia a
tremare, il corpo ti sta dicendo che sta perdendo calore più in fretta di quanto non
sia in grado di generarne. Il riflesso del tremore mette in azione molti muscoli,
aumentando la produzione di calore e bruciando altro combustibile. Se la
temperatura all'interno del tuo corpo scende anche solo di qualche grado, sei nei
guai. Per scaldarti di nuovo, tremare non sarà sufficiente.
Il corpo ha un termostato, situato in un piccolo lembo di tessuto nervoso alla base
del cervello, che controlla la produzione o la dispersione di calore nell'intero
organismo per mantenere una temperatura costante. Quando il corpo comincia ad
andare in ipotermia, il termostato reagisce ordinando di sottrarre calore alle
estremità per convogliarlo verso il centro. Le mani e i piedi cominciano a
irrigidirsi. Mentre la temperatura interna scende, il centro sottrae calore anche alla
testa. Quando ciò avviene, la circolazione rallenta e la vittima non riceve
l'ossigeno o lo zucchero di cui il cervello ha bisogno: lo zucchero di cui
normalmente il cervello si nutre viene bruciato per produrre calore. Man mano
che il cervello comincia a rallentare, il corpo smette di tremare e inizia un
comportamento irrazionale. Questo è un chiaro segno di pericolo, ma è diffìcile da
riconoscere in se stessi, perché uno dei primi effetti dell'ipotermia è la perdita di
volontà. Si smette di tremare e di preoccuparsi. In effetti si sta morendo, ma la
cosa non potrebbe interessarci di meno. A quel punto il corpo perde la capacità di
riscaldamento e, anche se ci si infila in un sacco a pelo, continua a raffreddarsi. Il
battito cardiaco diventa irregolare, lo stordimento si trasforma in semincoscienza
che degenererà poi in una perdita totale di coscienza. La sola speranza è
aggiungere calore da una fonte esterna: un fuoco, bevande calde, un altro corpo.
In effetti, uno dei metodi più efficaci per riscaldare una vittima dell'ipotermia è
metterla in un sacco a pelo con un'altra persona la cui temperatura corporea è
ancora normale.
Mi sentivo abbastanza sicuro, il che era sciocco perché la nostra situazione non lo
era affatto. Ci trovavamo su un terreno desertico e occupavamo uno dei due
possibili nascondigli evidenti nel raggio di molti chilometri. Ero felice che ci
fossimo fermati perché potevamo riposare, ma anche a disagio perché i nostri
corpi volevano continuare a muoversi per restare caldi. Tuttavia non c'era altro da
fare se non restare sdraiati là, scambiarci il calore corporeo e aspettare il buio.
La sabbia compatta era come fango rappreso. Se prima ci era apparsa poco
familiare, adesso con la neve ci sembrava di essere sulla luna. La nevicata si
trasformò in tormenta. Cercai di considerare il lato positivo della faccenda:
almeno la visibilità era ridotta a non più di cinquanta metri.
I veicoli andarono su e giù per tutta la giornata, spostandosi da est verso ovest
lungo la fila dei tralicci elettrici: autocarri civili, autocisterne, Land Cruiser e
veicoli corazzati su ruote. Gli ultimi due mezzi ci fecero sussultare perché si
avvicinarono a circa duecento metri dalla nostra postazione. Stavano venendo
verso di noi? Non che potessimo fare granché; anche se fossimo scappati di corsa,
non avevamo nessun posto dove andare.
C'erano molti più veicoli di quanto non ci aspettassimo, molta più attività militare:
ma in quel momento non era la cosa più importante. Accucciati nella neve,
sferzati da un vento maligno, eravamo molto più preoccupati di restare caldi e
vivi. Eravamo esausti ed esposti al vento. C'erano tutti gli ingredienti per fare una
brutta fine. L'aria già fredda, combinata con un vento forte, può produrre una
temperatura a effetto vento capace di uccidere. Se si espone della carne a un vento
che corre a cinquanta chilometri all'ora, essa congela in un minuto anche se ci
sono appena 9 °C. Molto tempo dopo ci avrebbero detto che quelle erano le
peggiori condizioni climatiche che la regione avesse conosciuto da trent'anni. La
nafta congelava nei serbatoi dei veicoli.
Passai dalla fiducia a una forte preoccupazione. Avevo visto della gente morire in
quelle condizioni. Che fine ingloriosa per dei SAS, pensai: morire di freddo
invece di essere uccisi dal nemico. Non avrei mai sopportato quella presa per il
culo.
Non potevamo metterci a sedere perché saremmo stati visibili a distanza. La
sicurezza del nostro nascondiglio dipendeva dall'angolo di visuale: poiché per
vederci avrebbero dovuto guardare verso l'alto, la nostra speranza era che il
muricciolo ci offrisse copertura sufficiente. Ma era indispensabile che ce ne
stessimo tranquilli e coricati.
Alle 11.00, la situazione stava diventando incontrollabile. Eravamo raggomitolati,
rannicchiati l'uno contro l'altro e tremavamo convulsamente, mormorandoci
paroline di incoraggiamento e raccontandoci stupide barzellette. Avevo le mani
gelate, inutilizzabili, e molto dolenti. Eravamo coperti da una notevole coltre di
neve. Bisognava per forza mandare al diavolo la tattica e cercare di sopravvivere.
Decisi che dovevamo infrangere le procedure operative e prepararci una tisana
calda.
Scavai una piccola buca e accesi una mattonella di combustibile solido. Riempii
una tazza d'acqua e la tenni sopra la fiamma.
Il calore sulle mani e sulla faccia era meraviglio'so. Agitai una mano per
disperdere il vapore. Aggiunsi all'acqua calda granuli di caffè, zucchero e latte e
la feci circolare, mettendomi immediatamente a preparare una cioccolata.
« A questo punto, con tutto quel maledetto vapore », disse Dinger, « potrei anche
farmi una fumatina. »
Era patetico mentre cercava di accendersi una sigaretta. Le mani gli tremavano
così violentemente che non riusciva a portarsela alla bocca, e quando ci riuscì era
tutta bagnata. Ma lui insistette, e nel giro di cinque minuti sfumazzava felice,
espirando il fumo dentro la giacca per nasconderlo.
Quando la cioccolata fu pronta, tutti quanti stavamo già tremando e borbottando
di nuovo. La bevanda calda non ci rialzò molto la temperatura, ma era meglio che
una pedata nei coglioni.
Senza dubbio fece la differenza tra la vita e la morte.
A mezzogiorno, c'era ancora passaggio di veicoli. Non riuscivamo sempre a
vederli, ma non importava. Li avremmo sentiti se si fossero fermati. Cercammo di
cambiare posizione in modo che i più esposti al vento e alla neve avessero almeno
la possibilità di essere circondati dagli altri e trarne un po' di calore corporeo.
Mentre la temperatura interna del nostro corpo continuava a scendere, mi resi
conto di avere la voce impastata e la testa leggera: i primi sintomi dell'ipotermia.
Verso le 14.00, Mark capì di essere proprio nei guai. « Dobbiamo metterci in
marcia fra un minuto », esplose. « Io qui sto crepando. »
Era il meno vestito di tutti. Aveva solo la casacca, la camicia e il maglione, e tutti
fradici. Ci disponemmo intorno a lui cercando di scaldarlo un po'. Bisognava
decidersi, e dovevamo farlo tutti insieme: ci saremmo mossi alla luce del giorno
per salvare Mark rischiando di essere compromessi? C'erano ancora molte ore di
luce e non sapevamo a cosa saremmo andati incontro fuori del nascondiglio.
Oppure avremmo aspettato fino all'ultimo minuto, quando ci avrebbe detto che
proprio non ce la faceva più?
Cercai di incoraggiarlo a tenere duro. « Okay, se è indispensabile possiamo anche
partire tra mezz'ora, ma cerchiamo di star qui fino all'ultimo. »
Se avesse scrollato la testa spiegando che doveva muoversi a tutti i costi, mi sarei
alzato senza battere ciglio; ma lui annuì.
Dopo altre due ore, non era soltanto Mark ad avere bisogno di aiuto. Eravamo in
una situazione disperata. Se fossimo rimasti lì, saremmo morti tutti prima di sera.
Sbirciai oltre il muretto. Rimaneva solo un'altra ora e mezzo di luce; le nuvole e la
neve avrebbero fatto calare il buio prima.
Stava ancora nevicando forte. Non vedevo né sentivo nulla, a parte l'incredibile
scenario del deserto arido coperto da una spessa coltre di neve. , «Andiamo»,
dissi.
Dato che avremmo lasciato un sacco di impronte nella neve - anche se speravamo
che nella notte continuasse a nevicare o a piovere cancellando le tracce -, ci
dirigemmo prima verso est, convergendo poi per puntare a nord-ovest. Il
diversivo si dimostrò una buona mossa perché non ci eravamo allontanati più di
un chilometro dalla postazione quando sentimmo gridare e schiamazzare dietro di
noi. Ci voltammo e vedemmo alcune luci. Un gruppo di veicoli aveva circondato
il nostro nascondiglio.
«Merda! » esclamò Legs. «Adesso devono solo seguire le nostre impronte. »
Ma stava cominciando a calare il buio, e le tracce degli iracheni dovevano essersi
confuse con le nostre, disorientandoli.
Il piano prevedeva di dirigerei verso nord-ovest dopo avere attraversato la strada
asfaltata, per prendere poi la via più breve verso il confine con la Siria. Se
avessimo cominciato ad andare a nordovest da quel lato della strada, infatti,
c'erano probabilità che ci intercettassero, con tutti i movimenti che avevamo
osservato durante la giornata.
Ma adesso il piano andava modificato. Ben presto avremmo avuto problemi
d'acqua. Riempimmo le nostre borracce di neve, ma anche nelle migliori
condizioni atmosferiche ci vuole molto tempo per sciogliere la neve e produrre
comunque pochissima acqua. Nel nostro caso, il tempo era così freddo che neve e
ghiaccio restavano compatti. Non si può mangiare la neve. Non solo sciogliendosi
in bocca brucia calore corporeo, ma ti raffredda dall'interno, gelando gli organi
vitali. D'altra parte, non sapevamo dove e quando saremmo stati in grado di
procurarci altra acqua. Perciò avevamo una fretta del diavolo. ' La seconda e più
importante considerazione che determinò il nostro cambiamento di programma
era il tempo. Ci trovavamo su un altopiano a circa trecento metri sul livello del
mare, e quanto più ci spingevamo a nord-ovest tanto più l'altitudine aumentava. In
quelle condizioni l'effetto vento era micidiale. Dovevamo sottrarci al vento e alla
neve che continuava a cadere. Tuttavia, le possibilità di ripararci erano scarse
perché il terreno non offriva alcun riparo.
Come tutti i sistemi idrografici, l'Eufrate segue il fondovalle.
Il fiume scorreva circa duecento metri più in basso rispetto a noi, quindi se ci
fossimo diretti a nord verso di esso non solo ci saremmo allontanati dal fronte
nevoso, ma con un po' di fortuna avremmo anche trovato riparo dal vento.
Puntammo verso nord. Ci saremmo potuti dirigere a ovest un po' più tardi: in quel
momento era vitale per la nostra sopravvivenza che ci allontanassimo da
quell'altopiano.
Tre chilometri dopo il nostro punto di sosta del muretto uscimmo dal fronte
nevoso. Ero incazzato come una iena. Se quella mattina fossimo riusciti a coprire
quella piccola distanza in più, non avremmo passato l'intera giornata sdraiati nella
neve.
Avevamo ancora il grosso problema dell'effetto vento. Mi avvolsi la sciarpa a rete
attorno alla testa e disposi la bussola davanti a me per la navigazione strumentale.
Tenevo il pollice della mano destra sopra la parte luminosa della bussola, e la
giacca tesa sulla mano il più possibile per difenderla dal freddo. Sul braccio destro
bilanciavo l'arma. Abbassai lo sguardo e vidi che la casacca si era ghiacciata.
Sembrava uno stagno gelato. Volevo sistemarla, ma era più rigida di un'asse.
Anche la sciarpa si era congelata intorno alla mia faccia. Cercai di muoverla, ma
era dura come un baccalà.
Non osavo muovere le mani perché avrei fatto penetrare il freddo. Dovevamo
spostarci a tutta velocità per generare calore corporeo. La scena era desolante:
nessuna luce naturale, solo il rumore del vento. Era come se fossimo soli in un
pianeta disabitato.
Aumentammo la velocità verso nord, a testa in giù, la faccia livida per il freddo. I
fari dei veicoli si spostavano di tanto in tanto in lontananza indicando la strada
asfaltata. Il terreno cominciò a variare di nuovo, da sabbia dura a roccia con
pietrisco. Tutto intorno, nella zona, c'erano posti di blocco dove i bulldozer
avevano scavato trincee perché i carri armati si mettessero in posizione « a scafo
sotto ». Erano pieni di ghiaccio e neve: dovevano essere lì già da un po'.
Ci abbassammo di circa settanta metri di altitudine, soffrendo come cani. Guardai
da dietro la sciarpa e pensai: qui, se il tempo non migliora in fretta, siamo morti.
Avevamo superato la strada di tre chilometri, quando decisi che bisognava tornare
indietro. L'effetto vento ci stava uccidendo. Inciampavamo, eravamo scossi da
violenti brividi e, peggio ancora, cominciavamo a spegnerci, le nostre menti
vagavano.
Lo stadio successivo era il coma. Avremmo riattraversato la strada e ci saremmo
ritirati per altri due chilometri fino al letto asciutto di un torrente che correva più o
meno parallelo all'asfalto. Era il solo posto riparato dal vento che avessimo
trovato quella notte. Se non avessimo ripreso un po' di energie là, non le avremmo
riprese mai più.
Così tornammo, gettando letteralmente al vento ogni tattica. A quel punto
l'invisibilità era irrilevante. Volevamo solo salvarci la vita. Scendemmo
barcollando nell'avvallamento e ci rannicchiammo l'uno contro l'altro. Mark era
quello in condizioni peggiori, ma avevamo tutti bisogno di aiuto. Bob e io gli
saltammo addosso per trasmettergli calore. Dinger e Legs ci imitarono, poi
preparammo un tè caldo... di notte sarebbe assolutamente vietato, ma chi se ne
frega? Quando sei morto, non ci sei più. Meglio rischiare e sopravvivere per
combattere un altro giorno. Forse, se non ci avessero scoperti, avremmo
cominciato a riprenderci. In questo caso, o ce l'avremmo fatta o saremmo morti.
Diversamente, saremmo morti comunque.
Preparammo due tè e li facemmo passare. Facemmo trangugiare a Mark del cibo
caldo. Diceva cose insensate, era decisamente fuori di testa.
Dopo avere passato un paio d'ore ammucchiati l'uno sopra l'altro per cercare di
scaldarci, le nostre condizioni migliorarono un po'.
Personalmente avrei preferito non muovermi perché eravamo ancora congelati e
bagnati. Ma sapevamo di doverci mettere in marcia, altrimenti non ce l'avremmo
mai fatta. Dopo tutto, lo scopo era evitare la cattura.
Avevamo tre fattori di cui preoccuparci: il tempo, le nostre condizioni fisiche e il
nemico. A causa del terreno, era molto difficile evitare il vento. Dovunque
fossimo andati e qualunque cosa avessimo fatto, ci sarebbe stato in ogni caso. Le
nostre condizioni fisiche avrebbero potuto essere peggiori, ma non di molto.
L'ideale sarebbe stato tenerci al riparo dal vento finché il tempo non fosse
migliorato. Ma quanto ci sarebbe voluto? Di questo passo, anche la mancanza
d'acqua poteva diventare un grave motivo di preoccupazione.
In quella zona c'erano molti più nemici di quanto ci avessero detto. Se fossimo
stati scoperti, l'azione avrebbe potuto essere molto più rapida perché c'erano già le
truppe sul posto. E se avevano scoperto il nostro punto di sosta, sapevano che
eravamo nella zona.
Dovevamo muoverci, ma in quale direzione? A favore dell'ipotesi «nord, poi
ovest» c'era il fatto che ci saremmo mantenuti al di fuori del fronte nevoso. Di
contro, saremmo stati esposti al vento per un periodo maggiore e saremmo stati
più vicini al fiume e agli abitati, per cui nascondersi diventava più difficile.
Dirigerci a nord-ovest ci avrebbe riportato nel fronte nevoso, ma sarebbe stato più
rapido, garantendoci inoltre maggiori opportunità di nasconderci. La quota era di
circa quattrocento metri, ma una volta in cima avremmo dovuto scendere di
duecento metri fino al confine. Se le nostre condizioni fisiche non fossero
peggiorate, avremmo anche potuto farcela in una notte.
In qualunque direzione fossimo andati, avremmo avuto il problema del vento.
Quindi era meglio non perdere tempo. Se non ce l'avessimo fatta, avremmo solo
dovuto ridiscendere e rifare i conti; ma se non ci fossimo mossi subito, non
avremmo avuto abbastanza tempo. Più tardi fossimo partiti, meno oscurità
avremmo avuto sull'altopiano. Avremmo dovuto coprire all'incirca venti-
venticinque chilometri, quindi dovevamo muovere il culo e andar via.
Il letto del fiume correva verso nord-ovest e decidemmo di approfittarne per due
ragioni. Prima di tutto, ci garantiva una copertura tattica; secondariamente, ci
proteggeva dal vento. Il solo svantaggio era la possibilità di avvicinarsi a qualche
installazione militare. Il fossato era un'ottima via per chiunque avesse intenzione
di attaccare, quindi c'erano possibilità che fosse presidiato da armi e sentinelle.
Tuttavia, avremmo corso quel rischio.
Era quasi mezzanotte e ci stavamo muovendo da circa due ore, marciavamo in
ordine tattico per via del gran numero di veicoli che avevamo visto arrivare in
quella direzione. Muoversi così lentamente è una pessima cosa, perché non si
riesce a mantenersi caldi come si vorrebbe; tuttavia, se ci si imbatte in qualcosa di
spiacevole, è più facile sganciarsi.
Legs era avanti a fare da battistrada. Io ero dietro di lui, quindi venivano Bob,
Mark e Dinger. Mentre ci spostavamo lungo il letto del fiume, controllavo la
nostra navigazione con la bussola per essere certo che il fossato ci conducesse più
o meno nella giusta direzione. Gli altri coprivano i lati. Faceva ancora un freddo
bestiale, ma dato che ci muovevamo in modo tattico avevamo altro cui pensare.
Il terreno cominciò a diventare di nuovo roccioso, con pietrisco, il che procurava
l'ulteriore rottura di cazzo del rumore, ma per una volta l'ululato del vento ci
favoriva. Il cielo era chiaro, con tre quarti di luna a occidente: un vantaggio per la
navigazione, ma non per nascondersi. Le nuvole se n'erano andate, ma col
risultato che faceva ancora più freddo.
Il paesaggio cominciava a variare. La zona in gran parte era piatta, ma di tanto in
tanto il terreno saliva dolcemente lungo un pendio di tre o quattrocento metri. Il
terreno ondulato è ottimo per nascondersi e cominciammo a sentirci più ottimisti.
Finalmente arrivavano le colline.
La distanza tra i membri del gruppo era imposta dalla luce. In teoria sarebbe
meglio una certa distanza, in modo che se si è sorpresi dal fuoco nemico non tutti
vengono avvistati e presi di mira contemporaneamente; ma poi bisogna stabilire
un compromesso tra questa esigenza e quella di riuscire a vedere cosa sta
succedendo all'uomo che ti precede. Noi stavamo marciando a circa quattro metri
l'uno dall'altro.
Nessuno parlava. Comunicavamo con le mani, o ripetendo i movimenti del
battistrada. Se il battistrada si ferma, il ragazzo dietro di lui fa lo stesso e così via
fino all'ultimo della fila. Se il battistrada si inginocchia, tutti si inginocchiano.
Queste azioni vanno eseguite con lentezza e con determinazione, altrimenti si
provocano movimento e rumore.
Legs si bloccò all'improvviso.
Dietro di lui ci bloccammo tutti. Coprimmo i lati e ci guardammo intorno,
aspettando di vedere quello che aveva visto lui. Alla nostra destra c'era una
piantagione; vedevamo soltanto le punte degli alberi. Non c'erano né luci né
movimenti. Sulla sinistra, a non più di cento metri, un altopiano. A poco a poco,
sopra la cima della collina apparvero alla vista le sagome di due uomini.
Entrambi avevano delle armi lunghe, cioè fucili o mitragliatori.
Legs cominciò molto lentamente a inginocchiarsi per scendere oltre il ciglio del
letto del fiume. Avevamo la copertura del vento e di quei due uomini, che
facevano rumore. Ma dietro di loro potevano essercene altri duecento: non lo
sapevamo. Con lentezza e precisione cominciammo a metterci al coperto.
Era possibile che fossero due dei nostri che si erano persi? Il vento trasportava
frammenti di parole, e mi sforzai di riconoscere una voce. Ma sicuramente né
Vince, né Stan, né Chris si sarebbero mai stagliati all'orizzonte a quel modo, e
men che meno sarebbero andati a spasso chiacchierando. Era frustrante.
Continuavo a sperare con tutte le forze che fossero loro e che in qualche modo
saremmo riusciti a raggiungerli.
Si fermarono guardandosi in giro. Sperai che non avessero apparecchi per la
visione notturna. In caso affermativo, se ci avessero visti a una così grande
distanza, beccarli diventava una faccenda da fuoriclasse. Poi mi attraversò la
mente un pensiero folle... Chris aveva il nostro visore notturno: se ci fossimo
mossi, ci avrebbe visti. No, non avrei davvero fatto una cosa del genere.
Avrebbe guardato, ma avrebbe visto solo dei corpi e non sarebbe stato in grado di
identificarci. In realtà le probabilità di riunirci erano diventate irrilevanti.
Erano ancora troppo lontani per identificarli. Ripresero a camminare e li osservai
scendere dall'altopiano e passare proprio davanti a noi. Ci abbassammo: anche se
uno dei ragazzi in coda non aveva visto le due sagome, avrebbe capito che era una
situazione di pericolo. Spiegargli cosa stava succedendo sarebbe stato
tatticamente imprudente, perché avrebbe comportato movimenti e parole.
Rimanemmo per un'eternità a fissare quei due tizi che si guardavano in giro per
vedere se c'era qualcuno. Arrivarono al letto del fiume e vennero nella nostra
direzione. La situazione era di estrema gravità. Saremmo stati scoperti da quelle
teste di cazzo.
Avremmo dovuto restare nascosti il più a lungo possibile per poi saltare fuori
quando ci avessero visto. Tutti avevano fatto la stessa valutazione. Vidi Legs
appoggiare delicatamente a terra il suo 203 e piano, molto piano, allungare la
mano verso il fodero di pelle del suo pugnale da combattimento. L'arma è infilata
in modo da non fare nessun rumore quando si estrae. Dietro di me Bob si stava
togliendo dalla spalla la cinghia della Minimi. Lui non aveva pugnale: aveva la
baionetta dell'M-16 infilata in un fodero di plastica e metallo. La baionetta
scricchiola quando viene estratta, quindi Bob si limitò a mettere la mano
sull'impugnatura e a sfilarla leggermente. L'avrebbe estratta completamente solo
all'ultimo momento.
Non potevamo correre il rischio di lasciargli dare l'allarme.
Dovevamo ucciderli appena a portata di mano. Nei film, l'assalitore mette la mano
sulla bocca dell'assalito e con un movimento rapido affonda il coltello nel cuore o
nel collo, e il tizio cade. Sfortunatamente non funziona proprio così. Le
probabilità di infilare una coltellata dritta nel cuore sono molto remote e non
valgono nemmeno lo sforzo. La vittima può avere un cappotto pesante e sotto un
giubbotto antiproiettile. Magari provi a dargli una coltellata e lui si volta a
chiederti pietà. Se sei alto un metro e settantacinque e lui è due metri e pesa cento
chili, sei nella merda. Anche se recidi la giugulare urlerà e strillerà per almeno un
minuto. In realtà, gli devi afferrare la testa, tirargliela indietro come se fosse una
pecora e continuare a tagliare finché gli tranci l'esofago e la testa si è quasi
staccata nelle tue mani.
In quel modo non respirerà più e non avrà modo di mettersi a urlare.
Legs e Bob erano pronti. Noi li avremmo aiutati coprendo la bocca agli iracheni e
impedendo che strillassero. Loro sarebbero dovuti uscire come fulmini dal letto
del fiume e balzare loro addosso, controllare che non fossero due dei nostri e
sistemare la cosa. L'ideale sarebbe stato identificarli prima che riuscissero a
vederci, ma tutto sarebbe successo contemporaneamente. Se i due fossero stati dei
nostri, c'era la possibilità che ci scambiassero per iracheni e ci sarebbe stato un
terribile scontro fratricida.
Era successo alle Falkland, quando una pattuglia del Reggimento ne aveva
intercettata una dello Special Boat Squadron.
Erano a venti metri da noi. Mi accovacciai presso la riva del fiume e sollevai lo
sguardo. Altri dieci o quindici passi, pensai, e ci sarebbe stata un'improvvisa
esplosione di movimento dietro e davanti a me seguita o dal ricongiungimento
con i nostri compagni perduti o da altri due morti per le statistiche.
Trattenni il fiato. Il freddo e gli stenti erano spariti. La mia mente era concentrata
al cento per cento su ogni movimento che vedevo. E quei tizi non avevano il
minimo sospetto che qualcuno stesse per tagliare loro la gola.
Si fermarono.
Avevano visto qualcosa? Erano abbastanza vicini perché riuscissi a vedere che le
loro armi erano Kalashnikov. Scesero nel letto del fiume a non più di sei-otto
metri da noi e si diressero verso l'altra sponda: poi risalirono e si avviarono verso
la piantagione... erano i due uomini più fortunati dell'Iraq. Per poco non scoppiai a
ridere. Mi sarebbe piaciuto vedere Bob saltare su e fare il lavoro, quel furetto
indemoniato che non era altro.
Rimanemmo dove ci trovavamo per circa un quarto d'ora, controllando tutto più
volte. Stavamo bene, eravamo al coperto e non stavamo facendo rumore.
Dovevamo solo prendere tempo e assicurarci di non imbatterci in qualcos'altro.
Ci stringemmo.
Non sapevamo che cosa ci fosse dall'altra parte dell'altopiano da cui erano giunti i
due iracheni. Potevano essere semplicemente due tizi che vivevano nella
piantagione, o forse invece stavamo per trovarci in un grosso casino. Meglio
fermarsi, prendere tempo, usare il nascondiglio.
« Ci dirigiamo verso sud e lo aggiriamo », sussurrai all'orecchio di Bob, che
trasmise il messaggio lungo la fila.
Marciammo come prima, con Legs come guida. Avevamo percorso due
chilometri quando ci trovammo davanti un rilievo. Scegliemmo di scollinare, ma
a un certo punto Legs si fermò. Si inginocchiò e si sdraiò. Eravamo proprio allo
scoperto.
Mi coricai di fianco a lui. Indicò verso l'alto. A circa cinquanta metri, sul crinale,
si vedeva una testa. La osservammo andare avanti e indietro, ma non individuai
nessun altro. Feci cenno al gruppo con dei segni che dovevamo aggirare quella
postazione da est. Circumnavigammo l'altopiano per circa quattrocento metri e ci
dirigemmo a ovest.
Dall'altra parte dell'altopiano vedemmo le luci interne di veicoli fermi. Ci
eravamo imbattuti in un gruppo di mezzi parcheggiati per la notte. Dovemmo di
nuovo tornare indietro, dirigerci verso sud, poi riprovare ancora a ovest.
Incontrammo altre truppe e altre tende. Svoltammo di nuovo a sud per un
chilometro, poi a ovest, e finalmente fummo salvi. Ma quegli incontri ci erano
costati due ore, e non avevamo tempo da perdere.
Marciammo a passo sostenuto lungo l'altopiano verso la Siria.
Adesso ci trovavamo a un'altitudine di oltre trecento metri e faceva più freddo di
quanto avremmo potuto immaginare. L'area sembrava una fotografia della luna,
bianca e squallida, con sparsi rilievi. Le colline incanalavano il vento verso di noi.
Dovevamo chinarci molto per passare tra i varchi. Giungemmo in una zona di
terra sconnessa interrotta da crateri e carcasse di carri armati.
Avrebbe potuto essere una vecchia base di lancio, o un campo di battaglia. I
crateri erano pieni d'acqua, neve e ghiaccio: mi ricordavano le vecchie fotografie
della battaglia della Somme.
Ci eravamo accordati che se qualcuno avesse cominciato a soffrire il freddo,
avrebbe dovuto comunicarlo subito senza mettersi a fare il duro. A richiesta di
chiunque, ci saremmo sdraiati subito o avremmo trovato una zona riparata dal
vento. Se avessimo dovuto restare lì fino al giorno dopo, l'avremmo fatto.
Eravamo ancora intirizziti e bagnati.
Nelle primissime ore del mattino, Mark cominciò a cedere.
«Dobbiamo scendere dall'altopiano perché qui sto malissimo.»
Ci fermammo e cercai di riflettere. Non era facile concentrarsi... la pioggia gelida
mi batteva diritta sulla faccia. La mia mente era un magma indistinto di freddo e
bagnato, ed era difficile scacciare la sofferenza abbastanza a lungo per pensare.
Dovevamo procedere ancora verso ovest e cercare di superare l'altopiano,
sperando di trovare qualche copertura, o piuttosto tornare indietro, dove sapevamo
che saremmo stati protetti dal vento? Decisi che dovevamo scendere
dall'altopiano, per dare a Mark qualche possibilità di sopravvivenza.
Il solo posto di cui eravamo sicuri che fosse riparato dal vento era indietro, nella
zona del letto del fiume accanto alla strada asfaltata. Scendemmo più o meno
paralleli alla strada, ma circa duecento metri lontani da essa per evitare di essere
illuminati da possibili fari. Non ci potevamo permettere il lusso della navigazione:
non c'era tempo sufficiente, dovevamo tornare indietro e recuperare forze; inoltre
non volevamo trovarci allo scoperto in piena luce. Impiegammo due terribili ore
per tornare. Marciammo il più rapidamente possibile, e poco prima dell'alba
trovammo una posizione, una depressione nel terreno, un compromesso tra un
nascondiglio e un riparo dalla furia degli elementi. Avremmo riprovato
l'indomani.
Era un fossato profondo non più di novanta centimetri. Entrammo e ci
accovacciammo. Era sconfortante. Avevamo marciato per un numero spaventoso
di chilometri solo per farne meno di dieci in direzione nord-ovest. Ma è meglio
perdere la distanza percorribile in una notte che perdere un uomo. Riuscivamo a
vedere la strada asfaltata circa due chilometri a nord. La depressione correva
lungo la linea del vento, ma eravamo fuori dal peggio.
Ci rannicchiammo tenendo gli occhi aperti.
Alle prime luci del 26, controllammo di non trovarci in cima a una postazione
nemica. C'era solo una parte di terreno che ci sovrastava e, dato che eravamo
rannicchiati contro un bordo della depressione, le probabilità di essere visti
diminuivano.
Il tempo era cambiato. Non c'era una sola nuvola in cielo e quando uscì il sole fu
un conforto, anche se solo psicologico, perché faceva ancora molto freddo. Il
vento continuava a imperversare e noi eravamo bagnati fradici.
Io avevo un binocolo, un bel giocattolino che avevo comprato da un gioielliere a
Hereford. Guardai verso nord, alla strada, che arrivava a una pompa di benzina.
C'era un flusso regolare di veicoli, uno ogni pochi minuti; autocisterne di petrolio
e d'acqua, Land Cruiser civili con il marito che guidava e la moglie tutta vestita di
nero seduta sul sedile posteriore. Di solito i veicoli arrivavano a gruppi di tre o
quattro. C'erano anche molti convogli militari, con blindati e camion.
Guardando a sud, vidi a un paio di chilometri alcuni tralicci dell'elettricità che
correvano da sud-est a nord-ovest, paralleli alla strada. Tre o quattro mezzi li
costeggiavano in direzione sudest, come se li prendessero come riferimento per la
navigazione.
Eravamo tra due fuochi.
Ci rannicchiammo gli uni contro gli altri, tentando di tenere gli occhi aperti, ma
addormentandoci frequentemente e svegliandoci di soprassalto. Eravamo
sopravvissuti alla notte e adesso speravo solo che avremmo retto di nuovo fino al
tramonto.
Ci esaminammo i piedi. Secondo la prassi ci si deve togliere solo uno stivale alla
volta. Eravamo ben abituati alle dure marce nelle peggiori condizioni, ma gli
sforzi dell'ultima notte ci avevano prostrati. Avevamo marciato per dodici ore,
coprendo più di cinquanta chilometri, nelle peggiori condizioni climatiche che
avessimo visto da molto tempo. Avevamo i piedi gonfi e tumefatti.
Dinger si ricordò che Chris indossava un paio di stivaletti che gli erano costati un
centinaio di sterline. « Se è ancora in giro che corre, scommetto che avrà i piedi a
posto, con le sue scarpe di Gucci », disse massaggiandosi le dita dolenti.
Mangiammo roba fredda. Non ci fidammo a cucinare perché eravamo su un
terreno troppo scoperto. Avevamo abbastanza sacchetti di cibo per qualche
giorno, ma la preoccupazione per l'acqua stava diventando urgente.
Ci riposammo e riflettemmo. Il grande piano a quel punto era salire l'altopiano
quella notte, superarlo e poi scendere sul terreno - una pianura, secondo la mappa
- che ci avrebbe condotto al confine. In teoria, mettendocela tutta avremmo potuto
passare la frontiera quella notte. Ci volevano ancora soltanto dodici ore di marcia
serrata. La cosa positiva era che non trasportavamo più molto peso, solo il
cinturone e l'arma. E avevamo l'incentivo: uscire dall'Iraq per entrare in Siria. Non
avevamo idea di com'era la situazione al confine: lo avremmo scoperto quando ci
fossimo arrivati.
Ristudiammo la carta per assicurarci di sapere tutti dove ci trovavamo, dove
stavamo andando e cosa avremmo visto lungo la strada: senza molta precisione,
perché stavamo sempre usando la carta aerea. Su questo tipo di carte
l'allineamento dei tralicci e anche il resto è molto approssimativo, ma sapevamo
comunque che c'era un importante abitato circa tre ore a nord, cioè alla nostra
destra. Quello sembrava il solo ostacolo fisso.
Ci stavamo riprendendo tutti abbastanza bene. In marcia sussurrammo barzellette
sconce, cercando di tenere alto il morale.
Avevamo ancora freddo, ma adesso la situazione era sotto controllo. Almeno, non
pioveva e non nevicava più. Ero fiducioso che saremmo riusciti a farcela con un
ultimo grande sforzo.
Erano le 15.30 quando lo sentimmo. ' Din, din... beee, beee...
Questa proprio non ci voleva, mi dissi.
Diedi una rapida occhiata, ma non vidi nulla. Ci appiattammo sul terreno. A
differenza della volta in cui eravamo stati scoperti, non si sentivano né grida né
urla, solo il tintinnio di una campanella solitària. Si avvicinava sempre di più.
Sollevai lo sguardo e vidi il montone con una campanella attorno al collo.
Sembrava che le altre capre lo seguissero dovunque, perché in breve ce ne furono
dieci che brucavano sull'orlo del fossato. Ci guardarono, e noi le guardammo.
Tirai un paio di sassi al montone per allontanarlo.
Quello, per tutta risposta, si avvicinò ancora di più, seguito da tutte le altre.
Quando abbassarono la testa e cominciarono a masticare, si sentirono cinque
sospiri di sollievo. Furono un po' prematuri. Pochi secondi dopo comparve la testa
del vecchio pastore. A occhio e croce doveva avere settant'anni. Aveva un ampio
caffetano di lana, con un maglione largo di lana sopra. La testa era avvolta in un
turbante. Sulle spalle portava uno sdrucito sacchetto di pelle. Aveva in mano delle
palline e mormorava « Allah » facendosele scorrere tra le dita.
Ci guardò e non battè ciglio. Nessuna sorpresa, nessuna paura, niente di niente.
Gli sorrisi tanto per fare il disinvolto.
Con totale noncuranza, come se fosse ordinaria amministrazione scoprire cinque
forestieri rannicchiati in un fossato in mezzo al nulla, si accovacciò accanto a noi
e cominciò a blaterare. Non avevo idea di cosa stesse dicendo.
Lo salutammo: « As salaam alaìkum ».
Rispose: « Wa alaikum as salaam ».
Ci stringemmo la mano. Sembrava assurdo: lui era veramente cordialissimo. Mi
chiesi se sapeva che c'era in corso una guerra.
In pochi secondi diventammo amiconi.
Volevo continuare a fare conversazione, ma il mio arabo non era all'altezza. Così
gli feci una domanda che mi suonò spropositata già mentre aprivo bocca.
« Wayn al suk? » chiesi.
Eravamo in pieno deserto e io gli chiedevo la strada per il mercato.
Lui non battè ciglio e si limitò a indicare a sud.
«Perfetto, ottima domanda», osservò Dinger. «Almeno la prossima volta che
verremo qui sapremo la strada per andare da Sainsbury's. »
Bob individuò una bottiglia nella sacca del vecchio. « Halib? » domandò.
Il guardiano di capre annuì: sì, era latte; e ci passò la bottiglia.
Poi estrasse dalla borsa dei datteri profumati e dolci e un pezzo di pane vecchio, e
ci sedemmo a recitare la parte degli uomini bianchi.
Mark si alzò in piedi e con noncuranza dette un'occhiata intorno. « E' da solo »,
sentenziò tutto sorridente.
Il guardiano di capre indicò verso sud e agitò la mano.
«Jaysh», disse, «jaysh.»
Inarcai perplesso un sopracciglio verso Bob.
« Esercito », tradusse, « milizie. »
Bob domandò: « Wayn? Wayn jaysh?»
Il vecchio indicò la direzione dalla quale eravamo arrivati.
Non riuscimmo a capire che cosa intendesse: ci sono molti soldati laggiù; o ci
sono molti soldati laggiù che vi cercano; o siete voi i soldati di quelle truppe
laggiù? Nessuno si ricordava come si dice distanza in arabo. Cercammo di fare
segni per indicare vicino e lontano.
Nel complesso fu piuttosto divertente. Eravamo là seduti a fare una chiacchierata
amichevole in mezzo al deserto con un tempo così proibitivo che per poco non ci
aveva ucciso.
Continuammo per circa mezz'ora, ma stavamo arrivando al momento in cui
dovevamo prendere una decisione. Lo avremmo ucciso? Lo avremmo legato e
tenuto lì finché non ce ne fossimo andati? O lo avremmo lasciato andare per i fatti
suoi? Il solo vantaggio di ucciderlo era che nessuno avrebbe saputo cosa stava
succedendo. Ma se fossimo stati catturati - cosa che dovevamo ritenere probabile
- dopo avere disseminato la regione di cadaveri di vecchi beduini, difficilmente
poi avremmo potuto aspettarci che gli iracheni ci stendessero un tappeto rosso. Se
lo avessimo legato per metterlo fuori gioco, sarebbe comunque morto di freddo
prima dell'alba. Non c'era dubbio che il suo corpo sarebbe stato scoperto.
Sembrava che ogni metro quadrato fosse presidiato da capre e pastori. ' Chi
avrebbe potuto prevedere che danno ci avrebbe procurato se lo avessimo lasciato
andare? Lui non aveva mezzi di trasporto e, a quanto poteva vedere Mark, era
solo. Erano quasi le 16.00, e presto avrebbe fatto buio. Anche se avesse lanciato
l'allarme, quando ci fosse stata una reazione sarebbe già stata notte e noi saremmo
stati in marcia verso il confine. Potevamo benissimo lasciarlo vivere. Eravamo
soldati dei SAS, non delle ss.
Decidemmo che, quando avesse deciso di andarsene, noi saremmo rimasti a
osservarlo, avremmo aspettato che sparisse alla nostra vista e poi avremmo attuato
il piano di diversione a sud.
Cinque minuti dopo ci salutò e si avviò con le capre, come se del mondo non gli
importasse nulla. Lo lasciammo andare per un chilometro circa, finché
scomparve; poi ce ne andammo anche noi. Proseguimmo per qualche chilometro
verso sud, e quindi svoltammo a ovest.
Giungemmo a un piccolo avvallamento e ci fermammo per fare il punto della
situazione. C'erano diversi fattori da discutere.
Prima di tutto, il nostro rifornimento idrico. Ci restava abbastanza cibo per
resistere un paio di giorni, ma avevamo quasi finito l'acqua. In secondo luogo,
dovevamo presumere che il nemico conoscesse il nostro ultimo punto di sosta
della notte precedente, e quindi conoscesse anche la direzione nella quale stavamo
marciando. Terzo, eravamo stati scoperti un'altra volta; io stavo già
rammaricandomi che avremmo dovuto tenere il vecchio con noi fino al tramonto.
Eravamo ancora in cattive condizioni fisiche e il tempo sull'altopiano sarebbe
stato pessimo. La notte prima l'avevamo scampata per miracolo, e non intendevo
più correre un simile rischio, anche perché fra l'altro avevamo perso una notte di
marcia. Nel complesso, la situazione non era molto rosea e probabilmente lasciar
andare il vecchio era stato un errore. Ma quel che era fatto era fatto.
Valutammo le alternative che ci restavano come pattuglia.
Uno: continuare verso ovest, sperando di trovare acqua per la strada:
sull'altopiano le possibilità erano buone, per via della neve e del ghiaccio. Due:
dirigerci a nord fino al fiume e poi a ovest... ma eravamo un gruppo numeroso e
nasconderci sarebbe stato un problema, perché quanto più ci saremmo avvicinati
al confine, tanto maggiore sarebbe stata la densità abitativa. Tre, dirottare un
veicolo e guidare fino al confine quella notte stessa.
Erano le 17.15, e cominciava a fare buio. Date la grande attività nemica e le
nostre condizioni fisiche, decidemmo per il dirottamento di un veicolo appena
fosse scesa la sera. Prima ci riuscivamo, meglio sarebbe stato.
Quella notte la nostra situazione avrebbe subito una svolta, in un senso o
nell'altro. Prima di spostarci fino alla strada, controllammo le armi. Una alla volta,
smontammo le parti meccaniche, dando loro una bella oliata e assicurandoci che
tutto fosse pronto.
Scrutai la strada con il mio binocolo. Volevamo trovare un nascondiglio da cui
uscire e bloccare l'automezzo in modo che gli occupanti non potessero vederci
arrivare. Individuai una montagnetta su un punto dell'altopiano che avrebbe fatto
al caso nostro.
Il piano era che Bob avrebbe fatto la parte dello storpio, appoggiandosi alla mia
spalla, e io avrei fatto un patetico gesto con la mano al buon samaritano di turno.
Per farci apparire ancora più innocui avremmo lasciato le armi e le casacche agli
altri.
Loro sarebbero saltati fuori, si sarebbero impadroniti del veicolo e... via, saremmo
partiti. Nelle ultime sei ore non avevamo visto altro che camion e Land Cruiser. A
seconda del tipo di mezzo, avremmo fatto un po' di fuoristrada - dirigendoci verso
sud finché non ci fossimo imbattuti nei tralicci per poi seguirli in direzione ovest -
o avremmo rischiato di percorrere la strada.
La strada era a un'ora di marcia. Arrivammo sul terreno sopraelevato proprio al
tramonto. Legs trovò un fossato che faceva al caso nostro nella zona alla destra
della strada, e ci infilammo tutti dentro. A sud-est avevamo una buona visuale,
perché la strada era lunga e diritta per parecchi chilometri e noi eravamo su un
punto elevato. A nord-ovest, tuttavia, lungo la strada c'era un rilievo alto circa
trecento metri. Se il veicolo fosse giunto da quella direzione non avremmo avuto
molto tempo per reagire.
Bob e io avremmo cercato di fermarlo proprio di fronte al fossato, in modo che i
ragazzi potessero balzare fuori per fargli la bella sorpresa.
Ci sedemmo rivolti verso est con i binocoli pronti. Due camion si spostarono
lungo la strada, quindi svoltarono nella direzione del nostro ultimo punto di sosta.
La scarsità di luce mi impedì di vedere se scendevano delle persone, ma sembrava
che ci fosse una generica attività a entrambi i lati della strada. Evidentemente
stavano cercando qualcosa, e immaginai si trattasse di noi. Dopo un po' i veicoli
tornarono indietro sulla strada e si diressero verso la nostra posizione.
Cazzo! Ci stavano inseguendo dalla notte prima? Delle due l'una: o eravamo stati
fortunati a spostarci, o sfortunati a non avere trattenuto il vecchio... ma lui si era
avviato nella direzione diametralmente opposta rispetto a quella da cui
provenivano queste truppe. Non aveva senso.
Osservammo i fari avvicinarsi, quindi udimmo il motore arrancare in salita.
Abbassammo la testa, sperando che l'altezza del camion non desse a nessuno dei
tizi seduti nel cassone la possibilità di guardare giù nel fossato.
Aspettammo. Appena avessimo udito i camion fermarsi di fronte a noi, ci
saremmo alzati e avremmo iniziato a sparare: non avevamo nulla da perdere.
Passarono oltre. Le nostre facce erano tutte sorrisi a trentadue denti.
Bob e io ci spostammo sulla strada e ci sedemmo, guardando in entrambe le
direzioni. Dopo circa venti minuti, sul piccolo rilievo comparvero dei fari che si
diressero verso di noi. Soddisfatti che non fosse un camion militare, ci alzammo
in piedi. Il veicolo ci inquadrò con gli abbaglianti e rallentò fino a fermarsi a
pochi metri da noi. Tenni la testa bassa per proteggermi gli occhi e nascondere il
volto al guidatore. Bob e io avanzammo incerti verso la macchina. ' ' « Oh,
merda! » mormorai all'orecchio di Bob.
Tra tutti i veicoli iracheni che avrebbero potuto venirci incontro quella notte,
quello che avevamo scelto di dirottare per accelerare la nostra corsa verso la
libertà era un taxi giallo di New York degli anni '50. Non potevo crederci.
Parafanghi cromati, pneumatici a fascia bianca, tutto quanto.
Ormai eravamo bruciati. Bob era tra le mie braccia che recitava la parte del
soldato ferito. I ragazzi erano emersi dal fossato.
« Che cazzo è questo trabiccolo? » urlò Mark incredulo. « Qui si tratta della
nostra vita! Non poteva essere una fottutissima jeep? »
Il conducente cadde nel panico e fermò il motore. Lui e i due passeggeri rimasero
fermi a bocca aperta a fissare le canne delle Minimi e dei 203.
Il taxi era una vecchia carretta arrugginita con i tipici ornamenti arabi: nappe,
pompon e pacchiani simboli religiosi che pendevano da ogni posto disponibile.
Un paio di coperte gettate sui sedili a mo' di fodere. Il guidatore era isterico. I due
uomini sul retro erano uno spettacolo, vestiti entrambi con i pantaloni mimetici
della milizia e relativi berretti, e in grembo dei cestini da week-end. Mentre il più
giovane dei due spiegava che erano padre e figlio, frugammo rapidamente tra i
loro effetti personali per vedere se c'era qualcosa che valesse la pena di essere
preso.
Dovevamo agire rapidamente perché non potevamo essere certi che non ci fossero
altri veicoli in arrivo. Cercammo di guidarli sul bordo della strada, ma il padre era
in ginocchio: credeva che lo avremmo sgozzato.
«Cristiani! Cristiani!» gridò, frugandosi nelle tasche da cui estrasse un portachiavi
con attaccata una statuetta della Madonna.
« Musulmano! » disse indicando il tassista nel tentativo di scaricare il barile.
Adesso anche il tassista era in ginocchio, e si prosternava pregando. Dovemmo
pungolarlo con il fucile per farlo muovere.
« Sigarette? » domandò Dinger.
Il figlio lo omaggio di un paio di pacchetti.
Il padre si alzò in piedi e cominciò a baciare Mark, evidentemente per ringraziarlo
di non averlo ucciso. Il tassista continuava a gridare e pregare: era una farsa.
" , « Qual è il problema? » chiesi.
« Questa macchina è il suo lavoro », disse il figlio in buon inglese. « Deve dar da
mangiare ai suoi bambini. »
Bob arrivò come un fulmine. « Ne ho piene le palle di questa stronzata. »
Infilando la punta della sua baionetta in una delle narici del tassista, lo condusse
fino al fossato.
Li lasciammo là. Non avevamo tempo di legarli, volevamo solo andar via.
Avevamo bisogno di mettere dei chilometri tra noi e loro.
«Guido io», dissi. «Ho visto Robert De Niro in Taxi Driver. »
Era un vecchio cambio al volante, e non faticavo a usarlo. Dopo una serie di
stridii e molte prese per il culo, con sei manovre riuscii a voltare l'auto verso ovest
e partimmo. Legs era davanti con la bussola, gli altri tre erano ammassati sul
sedile posteriore.
Vista la fortuna che avevamo, mi aspettavo che la bussola si scassasse da un
momento all'altro, e che il prossimo cartello stradale dicesse: BENVENUTI A
BAGHDAD. GUIDATE CON PRUDENZA.
Non avevamo pistole, ma solo armi lunghe, e se fossimo stati scoperti puntarli
sarebbe stato quasi impossibile. Tuttavia eravamo felici come bambini. Questa
volta, o ce la facevamo o eravamo fritti. O stanotte o la morte.
Era una sfortuna che fossimo obbligati ad andare sulla strada, ma dovevamo
guardare alla metà piena del bicchiere. Avevamo quasi mezzo serbatoio di
benzina, che per la distanza che dovevamo coprire era più che sufficiente.
Saremmo comunque andati a una velocità contenuta perché non volevamo dare
nell'occhio o essere coinvolti nel minimo incidente. Avremmo guidato il più
velocemente possibile, abbandonato il veicolo e quindi attraversato la frontiera a
piedi.
Cercammo scherzosamente di fare un piano per l'eventualità che fossimo fermati
a un posto di blocco. Non sapevamo cosa avremmo fatto. Non potevamo cercare
di sfondare la barriera.
Questo succede nei film, ma sono fesserie; i posti di controllo permanenti sono
fatti apposta per evitare gli sfondamenti. Un veicolo è fatto apposta per essere un
bersaglio, e noi saremmo finiti forati come colabrodi. Probabilmente avrei dovuto
frenare il più in fretta possibile, poi ci saremmo radunati e messi a correre.
Sfortunatamente non stavamo leggendo un atlante autostradale, ma una carta
aerea. Le strade erano molto confuse. Legs mi indicava di prendere strade che
andavano genericamente a ovest e io controllavo sempre il contachilometri per
vedere quanto mancava.
Il primo punto significativo che incontrammo fu la zona della pompa di benzina.
Tutt'attorno c'erano veicoli militari e soldati, ma nessun posto di blocco. Nessuno
ci notò e il taxi proseguì.
Dovevamo sembrare gente che sa con sicurezza dove sta andando. Se avessimo
avuto l'aria persa, avremmo destato sospetti e qualcuno avrebbe anche potuto
avvicinarsi per offrire aiuto.
Giungemmo a un altro incrocio. Non c'era nessuna strada che andava a ovest e la
cosa migliore era svoltare a nord. Era una strada a due corsie, non a una sola come
quelle su cui avevamo proceduto fino allora, Era piena di convogli e autocisterne
di petrolio. Accelerammo per sorpassare, ma dall'altra parte stavano giungendo
veicoli militari. Nessun altro effettuava sorpassi, così dovemmo stare al gioco per
confonderci. Almeno ci stavamo muovendo, e il riscaldamento funzionava a
meraviglia. Faceva un caldo delizioso.
Il convoglio si fermò.
Non riuscivamo a capire perché. Semafori? Un veicolo in panne? Un posto di
blocco?
Legs scese e diede una rapida occhiata, ma nel buio non riuscì a vedere nulla.
Cominciammo a procedere a passo di lumaca. Ci fermammo di nuovo e Legs
scese.
«Veicoli militari davanti al convoglio», mormorò. «Uno di loro si è schiantato o
ha un guasto. »
Alcuni militari si aggiravano a piedi e in jeep, e i camion stavano facendo
manovra attorno a loro. Ci avviammo per superarli e io trattenni il fiato. Uno dei
tizi che dirigeva il traffico ci individuò e cominciò a farci segni. Mark, Bob e
Dinger finsero di essere addormentati; Legs e io sorridemmo come idioti dietro le
nostre sciarpe e rispondemmo al saluto. Mentre sparivano nello specchietto
retrovisore scoppiammo a ridere come matti.
Passammo per un centro abitato. Davanti agli edifici pubblici torreggiavano statue
di Saddam, e le sue foto erano incollate su ogni superficie disponibile. Passammo
accanto ai bar con sfaccendati dentro e fuori. Superammo mezzi civili, autoblindo
e mezzi corazzati. Nessuno fece una piega. ' A volte le strade e gli incroci ci
portavano in una direzione completamente sbagliata. Prendemmo un po' verso
nord, poi un po' a est, quindi a sud e poi a ovest, ma sempre assicurandoci che la
direzione generale fosse ovest. Mark aveva in grembo il Magellan sul sedile
posteriore e faceva tentativi per stabilire la posizione, così se tutto fosse andato a
puttane almeno ognuno di noi avrebbe avuto l'informazione di cui aveva bisogno
per passare il confine.
Dinger stava fumando come il condannato che si gode l'ultimo desiderio. Valutai
l'ipotesi di fargli compagnia. In vita mia non avevo mai fumato una sigaretta, e
pensai: stanotte potrei morire, e allora perché non provarne una, visto che ne ho la
possibilità?
« Come si fa con queste sigarette? » chiesi a Dinger. « Si manda giù il fumo o che
altro? »
« Possibile che non hai mai fumato? »
«No, amico, non ho mai fumato in tutta la mia vita.»
«Be', allora non vorrai cominciare proprio adesso, stronzo!...
Ti ritroveresti a sputare i polmoni e faresti subito un incidente. E poi, ce l'hai
un'idea di quante persone muoiono ogni anno di cancro ai polmoni? Non ti posso
assolutamente esporre a questo rischio. Una cosa però te la concedo... un po' di
fumo passivo.»
Sbuffò una nuvola di fumo nella mia direzione. Lo odiai, come lui si aspettava.
Quando eravamo insieme nella squadra antiterrorismo, Dinger guidava la nostra
Range Rover. Lui sapeva che odiavo le sigarette, quindi fumava con i vetri del
finestrino alzati.
Io mi incazzavo e li tiravo giù tutti, e lui sghignazzava come un vero coglione. Poi
alzava i finestrini e ricominciava. Aveva una cassetta intitolata qualcosa come
Elvis -I primi vent'anni. Sapeva che la odiavo, e per questo la metteva su a ogni
occasione.
Una volta stavamo percorrendo la M4 e avevo abbassato il finestrino perché lui
stava fumando. Dinger inserì la cassetta e sghignazzò. Io schiacciai l'eject, afferrai
la cassetta e la lanciai fuori del finestrino. La guerra fu dichiarata.
Avevo le mie cassette che portavo con noi nei lunghi viaggi, ma la differenza era
che si trattava di buona musica, generalmente i Madness o The Jam. Una notte,
molte settimane più tardi, ne scelsi una e chiusi gli occhi, lamentandomi che lui
fumava e scoreggiava. Prima che mi rendessi conto di cosa stesse facendo, lui
estrasse la cassetta e le fece fare la stessa fine di Elvis.
Allontanai con la mano il fumo della sigaretta irachena.
« Ti odio quando fai così », dissi. « Sai che per ogni nove sigarette che fumi io ne
fumo tre? »
« Non dovresti lamentarti », ribattè. « E' fumo a buon mercato.
Mica lo paghi tu, lo pago io. »
I segnali stradali erano in inglese oltre che in arabo, e i ragazzi sul sedile
posteriore avevano una carta stesa sulle ginocchia e cercavano di capire dove ci
trovavamo. In effetti non c'era segnato niente. La zona abitata si stendeva lungo
tutto l'Eufrate, ma mancavano i nomi degli insediamenti.
Tutto considerato, ce la stavamo cavando abbastanza bene.
L'umore era tranquillo e fiducioso, anche se l'apprensione non era sparita.
Dovevano aver trovato le persone cui avevamo rubato l'auto, e sicuramente
stavano cercando un taxi giallo. Rispetto a quello che avevamo passato negli
ultimi giorni, però, era quasi divertente, e almeno eravamo al caldo. L'automobile
era piena d'aria viziata e i nostri abiti cominciarono ad asciugarsi.
Passavano altri convogli di circa venti veicoli alla volta. Procedevamo in coda.
C'erano automobili civili ovunque. Mancava l'illuminazione sulle strade, il che era
un bene. Cercammo di nascondere le nostre armi meglio che potevamo, sempre
partendo dal compromesso tra la necessità di nasconderle e quella di essere in
grado di impugnarle subito in caso di scontro.
Svoltammo su una strada aperta, ritrovandoci in un altro ingorgo. Alcune auto
erano sopraggiunte dietro di noi, ed eravamo bloccati. Questa volta Legs non
poteva scendere, altrimenti quelli dietro lo avrebbero visto. Dovevamo fingere di
essere tranquilli.
Un soldato con l'arma a tracolla stava scorrendo la fila sul lato del conducente,
quindi alla nostra sinistra. La gente gli parlava dalle auto e dai camion. C'erano
altri due soldati sul lato destro.
Avanzavano più lentamente del loro compagno, come se bighellonassero con le
armi in spalla: fumavano e chiacchieravano.
Sapevamo che stavamo per essere scoperti. Nell'attimo in cui il tizio avesse
infilato dentro la testa e ci avesse guardato, avrebbe visto che avevamo la pelle
chiara. C'era meno dell' 1 per cento di probabilità di cavarcela.
Grande decisione: che cosa dovevamo fare a quel punto? Buttarci subito a pesce o
aspettare?
«Aspettiamo», dissi. «Non si sa mai.»
Lentamente, cercammo di portarci le armi sotto mano. Se ci fosse stato un
incidente, dovevamo scendere dall'auto. Su tutte le maniglie era appoggiata una
mano pronta ad aprirle.
Mark disse tranquillo: «Ci vediamo in Siria».
Avremmo cercato di rimanere uniti il più possibile, ma era probabile che ci
dovessimo separare. Ognuno avrebbe fatto per sé.
Aspettammo e aspettammo, guardando queste persone che scendevano lentamente
lungo la fila. Non sembravano particolarmente attenti, stavano solo ammazzando
il tempo. Mark cercò di stabilire la posizione con il Magellan per scoprire a che
distanza eravamo dal confine, ma non ebbe il tempo di farlo.
« Andiamo a sud, poi a ovest », dissi.
Questo significava balzare sul lato sinistro della strada, sparando qualche colpo
per far loro abbassare la testa e correre come matti. Per quanto mi riguardava,
questo era il momento più pericoloso da quando avevamo lasciato l'Arabia.
I ragazzi dietro avevano preso le armi. Legs aveva il suo 203 sulle gambe, con la
canna appoggiata sulle mie.
« Se viene qui e mette la testa dentro, non appena ci identifica, lo faccio fuori»,
annunciò.
Io dovevo solo togliere di mezzo la mia testa. Legs avrebbe alzato la canna del
fucile ed eseguito l'operazione.
«Noi ci occuperemo degli altri due», disse Bob.
Mi chinai in avanti per coprire l'arma di Legs.
Il tizio arrivò al veicolo davanti al nostro. Si chinò per parlare al conducente,
ridendo e blaterando, senza preoccuparsi di niente.
Parlando agitava le mani, probabilmente stava lamentandosi del tempo. Avremmo
avuto ben poco da dire con il nostro arabo quando sarebbe arrivato alla nostra
auto. Potevo chiedergli la strada per il mercato, poi era finita lì.
Salutò il veicolo davanti a noi e si avvicinò baldanzoso al nostro taxi. Mi chinai in
avanti fingendo di occuparmi dei comandi sul cruscotto. ' Lui diede un colpetto
sul finestrino. Tirai indietro la testa e con lo stesso movimento spinsi in avanti le
gambe e mi appoggiai allo schienale. La faccia del soldato era appoggiata in
attesa contro il finestrino. Legs sollevò la canna del 203. Bastò un solo colpo. Ci
fu un'esplosione di schegge di vetro e le portiere della macchina si spalancarono.
Prima che il corpo cadesse a terra stavamo già correndo.
Gli altri due soldati corsero a cercare riparo, ma le Minimi li abbatterono prima
che riuscissero a fare quattro passi. I civili si accucciavano nelle loro automobili,
e non a torto.
Corremmo ad angolo retto rispetto alla colonna di macchine finché giungemmo
proprio di fronte al posto di blocco e fummo illuminati dai fari. Aprirono il fuoco,
ma noi rispondemmo con un'impressionante grandinata di proiettili. Sicuramente
si stavano chiedendo che cosa diavolo succedeva. Avevano sentito solo uno sparo,
quindi un paio di brevi esplosioni seguite dalla vista di cinque pazzi con le sciarpe
che scappavano nel deserto.
I primi di noi ad arrivare sulla strada aprirono un fuoco di copertura sul posto di
blocco finché gli altri non ebbero attraversato. Dopo di che ci spostammo tutti
quanti. L'intero contatto non durò più di trenta secondi.
Corremmo verso sud per alcuni minuti, poi mi fermai, gridando: « Verso di me!
Verso di me! »
Le teste mi passarono vicine e io ci misi le mani sopra e contai: uno, due, tre,
quattro.
«Ci siamo tutti. Okay. Andiamo! » , , -, Corremmo come matti,
cercando di trarre il massimo vantaggio dalla confusione che ci eravamo creati
alle spalle. Alla mia destra sentii Dinger che rideva, e poco dopo ci riunimmo
tutti.
Fu un sollievo da perdere la testa. Nessuno di noi riusciva a credere che ce
l'avevamo fatta tutti quanti.
Ci dirigemmo a ovest. Dall'ultimo rilevamento di Mark con il Magellan
stimammo di trovarci a circa tredici chilometri dalla frontiera. Tredici chilometri
in più di nove ore di buio: una bazzecola. Dovevamo solo prendere tempo e
assicurarci di arrivare quella notte. Non c'era speranza che un gruppo così
numeroso potesse restare nascosto tutto il giorno dopo.
Giungemmo a una zona abitata. C'erano pali della luce, vecchie auto, bidoni della
spazzatura, cani uggiolanti, le luci di una casa. A volte dovemmo scavalcare
qualche staccionata. Fari di automezzi sulle strade. Da dietro, nella zona del posto
di blocco, si sentiva ancora un caos incredibile. La gente stava urlando e si
sentivano sporadici colpi di armi leggere. I cingolati stridevano su e giù per la
strada. A quel punto era solo una corsa, la lepre che non doveva farsi raggiungere
dai segugi.
A ovest cominciò a spuntare la luna: era piena, peggio di così non poteva andare.
L'unica consolazione era che anche noi vedevamo meglio e potevamo muoverci
più rapidamente.
Finimmo per procedere paralleli a un'altra strada: non potevamo evitarla.
Avevamo un abitato sulla sinistra e la strada sulla destra. Non c'era tempo per fare
il giro. Dovevamo scappare a rotta di collo, per arrivare alla frontiera prima che il
casino iniziale si placasse e arrivassero i rinforzi.
Ogni volta che arrivava una macchina dovevamo coprirci. Superavamo ostacoli,
evitavamo cani ed edifìci. C'erano case dappertutto adesso, luci accese, generatori
in funzione. Passammo senza incidenti.
Lungo la strada cominciarono a muoversi veicoli a fari spenti, presumibilmente
nella speranza di sorprenderci. In lontananza si sentiva ancora sparare. Con la
nostra tenuta mimetica da deserto, su uno sfondo quasi europeo di piantagioni e
verdeggianti terreni arati, splendevamo al chiaro di luna come fantasmi.
Fummo individuati dalla strada: arrivarono sgommando tre o quattro veicoli e gli
uomini saltarono giù e iniziarono a sparare.
A questo punto ci erano rimasti pochi caricatori, e prima che la notte terminasse
era probabile che ci fossero altri scontri. Potevamo solo metterci a correre. Non
c'erano ripari. Loro continuarono a sparare e noi a schizzare via nell'abitato,
mentre i proiettili ci sibilavano intorno.
Corremmo per quattrocento metri. Passammo attraverso gruppetti di case,
aspettando da un momento all'altro di venire sgozzati da qualcuno che usciva: ma
la popolazione locale, che Dio la benedica, restò nel tepore domestico. Sudavo a
litri, respiravo affannosamente. Quando l'adrenalina ti scorre nelle vene, riesci a
stabilire dei record olimpici, ma non puoi reggere a lungo. Poi riprendono a
spararti e ritrovi altra energia.
Ci trovammo a procedere su un crinale. Guardammo in basso verso Abu Kemal e
Krabilah, i due abitati a cavallo del confine.
Era proprio un mare di luce, sembrava che corressimo sul set di Incontri
ravvicinati del terzo tipo. E c'erano i pennoni delle bandiere, quello più alto dalla
parte irachena. I nostri inseguitori continuavano a sparare.
«Cazzo», urlò Bob, «guardate... questa sì che è una bella notizia! Ci siamo quasi!
»
Da vero cretino, dissi: « Chiudi quella cazzo di boccaccia! » come se lui fosse
stato uno scolaretto monello. Mi pentii subito di averlo detto, perché anch'io stavo
pensando esattamente la stessa cosa. Quelle luci, la città di Abu Kemal e la torre
non erano in Iraq, erano in Siria. Mi sembrava di sentirne l'odore, ed ero eccitato
quanto Bob.
Correvamo in cresta. Ma nell'attimo in cui iniziammo la discesa, ci stagliammo
perfettamente contro il cielo alla vista di alcuni simpatici amici appostati più in
basso. Scoprimmo che erano una batteria contraerea. Ci dettero il benvenuto con
le armi leggere, poi ci scaricarono addosso i cannoni.
Ci dirigemmo a nord per superare la strada, il che ci obbligava a passare
attraverso la zona abitata posta tra noi e il fiume. Alcuni mezzi si stavano
avvicinando alla batteria contraerea e, per migliorare la situazione, alcuni
aviogetti cominciarono a rombarci sopra le teste. Dovevano essere dei nostri,
perché gli S60 spararono nella loro direzione. Nel caos, riuscimmo a filarcela.
Sparavano a destra, a sinistra e alle nostre spalle, ma noi continuavamo a correre a
testa bassa. Un tracciante salì in verticale, poi proseguì orizzontalmente
illuminando la zona dove gli iracheni stavano sparando a qualsiasi cosa si
muovesse. Era un'indecenza, perché tutto intorno c'erano abitazioni civili.
Eravamo assordati dal fuoco dei cannoni contraerei. Dovevamo scambiarci le
istruzioni e gli avvertimenti urlando come ossessi.
Arrivammo a una strada. Dopo averla controllata rapidamente la attraversammo;
poi ci fermammo per tirare un bel respiro lungo. Passare per una zona abitata è un
azzardo assoluto, ma non avevamo scelta. Alla nostra destra c'era una
piantagione, ma circondata da una recinzione troppo alta.
Dovevamo attraversare tre-quattrocento metri di abitato, un grosso agglomerato di
case circondate da muri perimetrali. Lungo il terreno che separava le case dalla
piantagione, correvano dei tubi di plastica per l'irrigazione. Ci avviammo,
cercando di sfruttare il più possibile le ombre, camminando con le armi spianate,
senza sicura, le dita sul grilletto. Ci stavamo muovendo verso nord e la luna era a
ovest. Ero il primo della fila. Se fosse comparso qualcuno, gli avrei sparato con il
mio 203, Mark sarebbe avanzato di due o tre passi e gli avrebbe tirato una
sventagliata con la Minimi. Poi ci saremmo radunati dietro il primo angolo per
riorganizzarci o avanzare, a seconda dell'entità contro cui avevamo sparato.
Nelle case, gli abitanti strillavano come pazzi, spegnevano le luci e sbattevano le
porte. Noi camminavamo: non potevamo metterci a correre. Se fosse successo
qualcosa, correre era molto peggio.
Dal limitare dell'abitato partivano sentieri e grossi condotti che arrivavano fino
all'Eufrate, circa centocinquanta metri più in là. Le pompe diesel scatarravano.
C'erano fango e merda dappertutto, in gran parte coperti di ghiaccio. Ci
fermammo in un angolo riparato per fare il punto della situazione.
Prima di tutto dovevamo riempire le nostre borracce. Due dei ragazzi scesero fino
al bordo del fiume, mentre Mark rilevava la posizione con il Magellan. «
Esattamente dieci chilometri al confine», sussurrò.
Tutto il caos era dall'altra parte della strada. I cingolati facevano manovra e
sparavano, e la contraerea sputava fuoco. In lontananza si udivano colpi di armi
leggere. Probabilmente stavano tirando ai cani e a qualunque altra cosa si
muovesse, compresi i loro compagni. Ormai non ci importava più niente. Davanti
a noi c'erano ancora dieci chilometri da percorrere e avremmo dovuto lottare
metro dopo metro.
Ci sedemmo con la schiena contro gli alberi a osservare due dei nostri che
riempivano le borracce.
«Dieci chilometri», osservò Dinger. «Cazzo, correndo potremmo farcela in
mezz'ora. »
« Peccato che ci sia la luna piena », ribattè Bob.
« E la mimetica da deserto », soggiunse Dinger. « E il piccolo particolare che tutti
ci stanno cercando. »
Quando Mark e Legs ritornarono con le borracce esaminammo le alternative,
stabilendo che ce n'erano quattro. Avremmo potuto attraversare il fiume; spostarci
a est per evitare la frontiera e tentare di attraversare la notte seguente; continuare
verso ovest; o dividerci e tentare singolarmente una delle tre soluzioni.
Il fiume faceva paura. Doveva essere largo almeno cinquecento metri, e dopo le
piogge torrenziali era in piena e scorreva veloce e rabbioso. L'acqua sarebbe stata
freddissima. Noi eravamo indeboliti dalla lunga marcia e dalla mancanza di
sonno, cibo e acqua. Non riuscivamo a vedere barche, ma, se ne avessimo trovata
una, sarebbe stata una possibilità. Certo... si poteva anche attraversarlo a nuoto,
ma dubitavo che avremmo resistito più di dieci minuti. E poi, chi ci diceva che
non ci sarebbero state truppe ad aspettarci dall'altra parte?
Scartammo la possibilità di prendere verso est perché c'erano troppi abitati per
nasconderci di giorno. Andare a ovest sembrava l'alternativa migliore: visto che
loro sapevano che ci trovavamo nell'area, perché non proseguire? Ma avremmo
dovuto farlo in gruppo o da soli? Andare da soli avrebbe sicuramente creato ai
nostri inseguitori cinque casini diversi, ma in fin dei conti noi eravamo una
pattuglia.
«Andremo a ovest in gruppo e attraverseremo il confine stanotte », dissi. «
Domani mattina arriveranno altri inseguitori. »
Erano quasi le 22.00 e faceva un freddo boia. Tremavamo tutti.
Avevamo sudato e l'adrenalina ci era corsa nelle vene. In queste condizioni,
appena ti riposi un attimo il corpo ha delle convulsioni.
Guardando verso ovest, lungo l'Eufrate, vedemmo dei fari attraversare un ponte a
pochi chilometri da noi. Bella fregatura.
Non potevamo perdere tempo ad aggirarlo: era troppo tardi per una manovra cosi
raffinata. Avremmo rischiato.
« Muoviamoci al passo e tatticamente », propose Bob. « Abbiamo tempo a
sufficienza. »
I corsi d'acqua naturali si gettavano nell'Eufrate. In condizioni normali ci
saremmo tenuti su terreno elevato. Così è più facile seguirli, il che fa risparmiare
tempo e crea meno rumore e movimento. Noi invece li costeggiammo per restare
paralleli al fiume, ma non così vicino all'acqua da lasciare impronte nel fango.
Il terreno era in parte gelato e in parte acquitrinoso. C'erano appezzamenti cinti
dal filo spinato. Incontrammo piccoli capanni traballanti, montarozzi, alberi e
vecchie bottiglie che scalciammo via, pezzi di plastica gelata che scricchiolava
rumorosamente sotto le scarpe. Il tutto somigliava a una discarica dell'Irlanda del
Nord.
Il vento era cessato, e il minimo rumore viaggiava per centinaia di metri.
Camminavamo sotto la luna, e il nostro fiato formava nuvolette nell'aria gelida.
Ce la prendemmo comoda, fermandoci e ripartendo ogni cinque minuti. I cani
abbaiavano. Quando arrivavamo a un edificio, qualcuno andava avanti a
controllare, poi lo aggiravamo. Se incontravamo una recinzione, il primo
verificava anzitutto di non fare troppo rumore, poi ci metteva sopra l'arma per
abbassare il filo, e ce la teneva finché non erano passati tutti.
A un certo punto dovemmo aggirare una capanna a base triangolare. Il
proprietario stava russando davanti alle braci di un fuoco, ma non si mosse mentre
passavamo in punta di piedi. Davanti a noi c'era una strada: a sinistra ne correva
un'altra, quella che arrivava alla città di frontiera di Krabilah. Negli edifici le luci
si accendevano e si spegnevano. Continuava il viavai di cingolati, ma erano
troppo lontani per preoccuparci. Ancora spari dietro di noi. Avevamo percorso
circa tre chilometri: ne mancavano sette.
Non era ancora mezzanotte, e avevamo molte ore di oscurità davanti a noi. Mi
sentivo abbastanza bene.
Seguimmo una siepe, poi attraversammo un fossato naturale di scolo: scorreva
entro un ripido uadi, il quale a sua volta sembrava gettarsi nell'Eufrate. Lo uadi
era largo circa cinquanta metri e profondo venticinque. Entrambe le rive erano più
o meno a picco. Il fondo era praticamente piatto, con un rivolo d'acqua.
Non potevamo aggirarlo perché non sapevamo quanto fosse lungo. Poteva correre
verso sud: e a sud c'erano strade che volevamo evitare. Poi però riuscii a vedere
che curvava verso ovest, il che era perfetto. Avremmo potuto tenerci al riparo
della sua ombra per un po'.
Quando arrivai sul bordo dello uadi, strisciai fino al ciglio per darci un'occhiata.
Mark era dietro di me. Cominciai a scendere, e man mano che scendevo
l'orizzonte sul lato opposto si stagliava sempre più netto. La prima cosa che vidi
contro il cielo fu la sagoma di una sentinella.
Stava camminando avanti e indietro, sbattendo i piedi e soffiandosi nelle mani che
teneva a coppa per scaldarsele. Guardai attorno a lui e non riuscii a credere ai miei
occhi. Era un presidio importante: tende, edifici, mezzi, antenne radio. Mettendo
bene a fuoco, cominciai a notare persone che uscivano dalle tende. Colsi spezzoni
di conversazione. Avevano la schiena alla luna e guardavano nella nostra
direzione. Non mi mossi.
Ci vollero quindici minuti prima che riuscissi a tornare fino a Mark. Sapevo che
aveva visto quello che avevo visto io, perché non mi aveva raggiunto. Anche lui
era immobile come un sasso. C'era da farsi accapponare la pelle: eravamo
terribilmente esposti.
Ritornai al livello di Mark. « Hai visto? » ' « Sì, è un vero schifo », disse. «
Dobbiamo tornare indietro e uscire da questa merda. »
«Niente di grave.» ' Saremmo indietreggiati silenziosamente raggruppandoci. Poi
bisognava tornare alla recinzione, fare il punto e trovare un'altra via d'uscita.
Avevamo percorso trenta metri per uscire dalla zona immediata di pericolo,
quando ci alzammo in posizione semiaccovacciata nel fossato.
In quello stesso istante udimmo simultaneamente gridare e sparare. Si scatenò
l'inferno. Mark era a terra con la Minimi e sparò lungo la siepe, dovunque vedesse
luccicare la canna di un fucile. La postazione dall'altra parte dello uadi aprì il
fuoco.
Ero molto preoccupato perché loro si trovavano più in alto.
Usai le mie ultime granate del 203, poi arrivò il momento di filarcela
elegantemente. Volevo tornare alla riva del fiume perché ci avrebbe fornito un
riparo. Mentre scappavamo, sentivo sparare e gridare dappertutto. Il resto della
pattuglia stava combattendo.
Intorno alla siepe c'era il massimo del casino. Immaginai che Bob e gli altri
fossero in un gruppo di tre.
Gli iracheni dall'altra parte dello uadi stavano sparando in tutte le direzioni. Sentii
alcune granate del 203 che dovevano essere di Legs perché sia Dinger sia Bob
avevano la Minimi. C'era un rumore assordante. Ognuno era concentrato nella sua
piccola battaglia. Mi resi conto con una fitta al cuore che non c'era più possibilità
di riunirci. Adesso eravamo divisi in altri due gruppi, con solo pochi chilometri da
percorrere. Che stronzo. Avevo creduto davvero che ce l'avremmo fatta.
Mark e io eravamo sulla riva dell'Eufrate e ci sforzavamo di capire quello che
stava accadendo. A dieci-quindici metri sotto il limitare della zona arata che
avevamo appena attraversato c'era l'acqua, e tra l'arativo e la terra arata c'era un
sistema di piccoli terrazzamenti. Noi eravamo sull'arativo, tra i cespugli.
Sentivamo dalla riva opposta gli inseguitori che venivano verso di noi con le
torce, gridandosi indicazioni. Fuoco nemico intermittente e nervoso dal nostro
lato dello uadi, seguito da scontri alla nostra sinistra, con i 203 e le Minimi. I
traccianti partivano orizzontali, poi si impennavano rimbalzando su rocce e
costruzioni.
Abbassammo la testa come una coppia di furetti e ci guardammo in giro. Era
difficile capire da che parte andare, se passare il fiume oppure attraversare le
posizioni col rischio di essere catturati o uccisi.
« Il fiume assolutamente no », bisbigliai all'orecchio di Mark.
Non avevo abbastanza coraggio per provarci, quindi decidemmo di attraversare le
posizioni nemiche. Ma quando? C'era una tale confusione che era difficile
stabilire il momento propizio.
«Cazzo», mormorò Mark, «siamo nella merda, quindi che c'importa?»
Se ce l'avessimo fatta, alla grande; se andava male, pazienza.
Speravo solo che tutto fosse rapido e indolore. Mi sentivo piuttosto distaccato da
tutto quanto.
Controllammo le nostre riserve di munizioni. Io avevo circa un caricatore e
mezzo, Mark aveva un centinaio di cartucce per la Minimi. Era una situazione
così ridicola, quella in cui ci trovavamo, con scontri a fuoco e traccianti a destra e
a sinistra, e noi seduti in un cespuglio che cercavamo di organizzarci senza
smettere di guardare dall'altra parte del fiume. Avevo le mani semicongelate.
L'erba e le foglie erano fragili per il ghiaccio. Il fiume era avvolto nella foschia.
Guardai Mark, e per poco non scoppiai a ridere. Come copricapo indossava una
lunga sciarpa di lana che si può avvolgere diventando una specie di berretto dei
commando della seconda guerra mondiale. Mark però non aveva avvolto
l'estremità e sembrava un fesso. Era lì che guardava attraverso i cespugli con
un'espressione serissima che lo rendeva ancora più comico.
«O adesso o mai più», disse.
Annuii.
Sempre guardando fuori, si infilò una mano in tasca alla ricerca di una caramella
d'orzo e se la cacciò in bocca.
« E' la sola che mi è rimasta... tanto vale che me la mangi adesso. Potrebbe essere
l'ultima della mia vita. »
Io avevo finito le mie e lo guardai con invidia.
« Tu non ne hai più, vero? » ammiccò.
« No », risposi, guardandolo come un cagnolino.
Si tolse la caramella di bocca e me ne diede metà.
Restammo lì a goderci quel momento e a caricarci psicologicamente prima di
andare.
Alla fine la decisione ce la fecero prendere gli altri. Lungo la riva si avvicinarono
quattro iracheni: sembravano ben addestrati e svegli. Non urlavano, e si
sparpagliarono a regola d'arte. Però avevano l'aria nervosa di chi sa che c'è in giro
qualcuno che ti potrebbe sparare addosso. Se ci fossimo mossi, ci avrebbero visti.
Feci segno a Mark: se non ci vedono, lasciamoli andare avanti; se ci vedono,
spariamo. Ma si avvicinarono a tal punto che non c'era modo di evitarli: perciò li
abbattemmo.
Adesso dovevamo scappare, fosse il momento buono o no.
Marciammo verso il campo arato, parallelo al fiume. Più in su, sulla destra,
cominciammo a salire un leggero pendio dove il terreno finiva nell'acqua. Ma
c'era movimento, per cui ci buttammo a terra.
I solchi correvano da nord a sud, e noi ci nascondemmo negli avvallamenti.
Cominciammo a strisciare sul ventre avanzando fino alla siepe. Si sentiva urlare
ordini e i soldati correvano da tutte le parti nella massima confusione, a non più di
venticinque metri da noi. Strisciammo per venti minuti. Il terreno era gelato, e
faceva male appoggiare le mani sul fango. Avevo i vestiti inzuppati. Piccole
pozzanghere d'acqua gelata si spezzavano sotto di noi.
Nella mia testa il rumore veniva amplificato migliaia di volte.
Perfino il mio respiro mi pareva spaventosamente forte. Volevo solo uscire da
quella merda per arrivare agli alberi, e poi sarebbe stato un mondo totalmente
nuovo.
Si sparava ancora, si continuava a gridare, regnava il caos.
Non avevo idea di come ce la saremmo cavata. In situazioni simili, devi solo
continuare ad andare avanti per vedere cosa succede. Provai la forte tentazione di
alzarmi e farla finita.
Gli iracheni erano ancora laggiù in fondo al campo. Forse, sperai, credevano che
noi avessimo proseguito lungo il fiume, dirigendoci a est per raggiungere gli altri.
In effetti non mi importava molto di cosa pensavano loro, purché restassero a una
distanza ragionevole. Il solo pensiero che avevo in testa era che dovevamo
passare il confine quella sera.
Arrivammo alla siepe. Era un divisorio costruito appositamente tra due campi:
arbusti che crescevano da un terrapieno alto sessanta centimetri. Il nostro piano
iniziale era attraversare la siepe che correva da est a ovest, unicamente per non
doverne attraversare un'altra che andava da nord a sud. Sentimmo dei rumori a
destra. Mark dette un'occhiata: altri nemici, appena oltre la siepe.
E dietro di loro, più a sud, si sentivano altre grida e una sarabanda di luci. Mark
mi fece segno di restare di là dalla siepe e spostarmi a sinistra.
Strisciammo per arrivare alla siepe che andava da nord a sud.
Cercammo un punto in cui attraversarla senza fare rumore. Cominciai a farmi
strada. La mia testa emerse dall'altra parte e qualcuno mi diede immediatamente
l'altolà.
Non appena il ragazzo gridò, Mark lo salutò calorosamente: il suo corpo si
disintegrò davanti ai miei occhi. Mark continuò a sparare senza remissione per
tutto il tratto di strada in direzione ovest. Uscii dalla siepe e continuai il fuoco
iniziato da Mark, mentre lui attraversava. Puntammo verso est, ci fermammo,
sparammo rapidamente qualche colpo, corremmo, sparammo ancora e poi ci
mettemmo a correre e correre.
Davanti a noi c'era un rialzo del terreno. Sotto, edifici con luci accese e
movimento. Non volevamo attraversare un terreno aperto, quindi non avevamo
altra scelta che utilizzare l'ovvio riparo rappresentato dal fossato. Non avevo idea
di cosa ci fosse davanti a noi.
Le recinzioni erano sopra di noi. Poiché i campi erano irrigati, le strade e le
costruzioni si trovavano su terrapieni per tenerli sopra il livello dell'acqua.
Entrammo in un fossato sotto la recinzione e ci avviammo verso sud.
Cominciammo a rallentare, perché non ci trovavamo più in una situazione di
pericolo immediato. Pensammo che una barriera di rete metallica alta un metro e
ottanta fosse il perimetro di un'installazione militare. La seguimmo per un po', poi
ci fermammo: avevamo avvistato una strada che correva da est a ovest. C'era un
intenso traffico di mezzi, alcuni con i fari accesi, altri spenti.
A est rispetto a noi doveva esserci un nodo stradale vero e proprio. Vedevamo i
veicoli con i fari accesi dirigersi laggiù e cambiare direzione. C'era un'attività
frenetica. Sembravano tutti in stato di allarme. Probabilmente pensavano che
fossero entrati in guerra gli israeliani, o che i siriani li stessero invadendo. Io
speravo solo che in tutta quella confusione un gruppetto di due persone e un altro
di tre potessero passare inosservati.
Dall'altra parte della recinzione ci trovammo di fronte a una grande moschea. Ci
fermammo a osservare la strada. Più da vicino, riuscimmo a scorgere alcuni
veicoli parcheggiati lungo il ciglio, mentre i fari passavano. Camion, jeep, mezzi
corazzati. Dove ci sono mezzi, ci sono uomini. Sentivamo le voci e il ronzio delle
radio. Non riuscivo a vedere fin dove arrivasse la colonna d'auto, né in una
direzione né nell'altra. Dal primo scontro sul limitare dello uadi erano passate tre
ore. Tremavo all'idea che ci restassero solo due ore e mezzo di buio. Dovevamo
rischiare, non avevamo tempo per compiere l'aggiramento.
Eravamo sdraiati nel fossato, bagnati e infreddoliti, cercando di capire dove
avremmo attraversato la barriera. Eravamo quasi senza munizioni. Aspettammo
che passassero dei fari per farci un'idea più precisa della posizione dei veicoli.
Avremmo attraversato nel varco più ampio.
Due camion distavano quindici metri l'uno dall'altro. Se fossimo riusciti a passare
indenni, il confine era davanti a noi. Avremmo solo dovuto avere la faccia tosta di
tentare. Cominciammo ad attraversare il campo, con calma. Ogni volta che
passava un veicolo, ci buttavamo a terra. Prima di scattare era importante
avvicinarsi il più possibile al convoglio fermo. Sapevamo soltanto che dovevamo
passare li in mezzo. Nessuno di noi due aveva la più pallida idea di cosa ci fosse
dall'altra parte: l'avremmo scoperto solo arrivandoci.
I veicoli stavano un metro più in alto di noi, sulla strada rialzata. Vedemmo che
sul ciglio c'erano tre giri di filo spinato alto novanta centimetri. Avremmo dovuto
superarlo prima di passare tra i mezzi.
Il varco era tra due camion coperti dal telone. Su uno di essi gracchiava
concitatamente una radio.
Superai il filo spinato e mi abbassai per dare copertura a Mark.
Lui oltrepassò l'ostacolo, ma fece tintinnare il filo. Un tizio cominciò a farfugliare
e mise la testa fuori del finestrino. Lo colpii immediatamente. Corsi in coda. La
rampa era sollevata, ma c'erano due staffe sporgenti che servivano da gradini.
Infilai dentro la canna del fucile e feci partire una raffica. Mark attraversò
direttamente la strada e corse dall'altra parte del costone, sparando verso quella
che per lui era la parte destra del convoglio. Non sapevo se a bordo degli altri
veicoli ci fossero persone, quindi lanciai una bomba e corsi verso Mark.
Sparammo finché terminammo le munizioni, il che durò in tutto cinque secondi.
Abbandonammo le armi e ci mettemmo a correre. Non ci servivano più.
Gli iracheni usavano cartucce calibro 7.62 corto, e noi avevamo bisogno di
proiettili da 5.56. Adesso la sola arma che ci rimaneva era l'oscurità.
Dovevamo aver sparato abbastanza colpi da spaventarli, perché non ci fu una
reazione immediata. Corremmo per trecento metri. Il rumore delle grida riempiva
la notte.
Ci fermammo vicino a una cisterna dell'acqua. Non mancava più molto all'alba,
ormai. Guardando dritto davanti a noi, vedevamo alla nostra sinistra la strada che
avevamo appena attraversato, il pennone della bandiera dalla parte irachena, e
un'altra strada che avremmo dovuto attraversare per andare verso ovest.
Ci guardammo in faccia e io dissi: «Va bene, proviamo».
Corremmo attraverso i campi e ci fermammo vicino a quella che sembrava una
grande depressione. Dall'altra parte c'era un abitato senza luci. All'angolo destro,
in fondo all'abitato, una specie di incrocio.
La depressione doveva essere usata come discarica. Nel buio ardeva qualche
focherello. Scendemmo nella discarica e inciampammo in vecchie lattine e
pneumatici. C'era un tanfo asfissiante di spazzatura. Cominciammo a risalire
dall'altra parte. A circa metà salita ci spararono con un Kalashnikov, molto da
vicino.
Ci buttammo a terra e io andai verso destra.
Corsi per quella che ritenni una distanza sufficiente a portarmi a livello
dell'incrocio. Volevo portarmi sulla strada. Corsi sul fianco di una montagnola, e
credevo di potere arrivare dall'altra parte, ma mi trovai di fronte l'ostacolo di una
grande riserva idrica. C'erano due vascone oleose e unte. Ansimavo, correndo
come un topo braccato, cercando una via d'uscita. Le pareti erano a 90 gradi. Non
potevo arrampicarmi. Dovevo ritornare sui miei passi.
Adesso non mi guardavo neanche più alle spalle, correvo e basta.
Se li avevo alle calcagna, saperlo non avrebbe cambiato la situazione.
Uscii dall'area della riserva idrica e mi fermai vicino alla strada. Il petto mi faceva
male, non riuscivo più a respirare. Vaffanculo, pensai, vediamo che succede.
Passai vicino agli edifici. Ero sollevato. Sentivo di avercela fatta. Solo il confine,
adesso. Non mi preoccupavo per Mark.
Lo avevo visto cadere, poi non avevo sentito più niente, e lui non mi aveva
raggiunto. Era morto. Almeno aveva fatto in fretta.

8.
EBBI la sensazione di essermi lasciato tutto alle spalle: davanti a me restava solo
una breve marcia fino al confine.
Avevo gli scarponi pieni di fango, pesavano. Le gambe mi bruciavano e
fisicamente ero uno straccio. Mi fermai per buttare giù qualcosa: mi fece sentire
meglio. Bevvi un po' d'acqua e mi costrinsi a calmarmi e a recuperare un po' di
energie. La navigazione era piuttosto semplice. L'asta della bandiera era dritta
davanti a me. Mentre camminavo, cercai di ripensare a quello che era accaduto
durante gli scontri. Ma la confusione era tale che non riuscivo a trovare nessun
bandolo. Alle mie spalle stavano ancora sparando.
Erano le prime ore del mattino del 27 gennaio e mi restavano ancora da percorrere
circa quattro chilometri. In condizioni normali avrei potuto farli in una ventina di
minuti con lo zaino e tutto l'equipaggiamento. Ma era assurdo mettersi a correre
alla cieca verso la Siria con soltanto un'ora di buio davanti.
Non sapevo, inoltre, come fosse materialmente la frontiera: se c'era una barriera o
un posto di blocco con un vecchio carro armato, se era difesa come una fortezza o
non lo era per niente.
E anche se fossi arrivato in Siria di giorno, che accoglienza avrei dovuto
aspettarmi?
Mi trovavo a sud dell'Eufrate, un chilometro a nord di una città. La zona era
irrigata da pompe diesel disposte lungo il fiume a intervalli regolari. Le
coltivazioni nei campi erano alte circa cinquanta centimetri. Mi ero tenuto lontano
dai sentieri, e mi spostavo in mezzo alle coltivazioni, posando i piedi sulle radici
delle piante. Ma anche cosi non potevo evitare di lasciare impronte.
La mia speranza era che il giorno dopo nessuno andasse nei campi a occuparsi di
quello che, a parte il ghiaccio, sembrava un raccolto giovane e sano.
Mi sentivo molto ottimista: ero sopravvissuto agli scontri, e quella era l'unica cosa
che contava veramente. L'ultimo combattimento era come una grande barriera che
avevo superato, e adesso ero uno spirito libero.
Per molti aspetti, questo è il momento più pericoloso. Sono sicuro che fin dalla
notte dei tempi gli uomini sono sempre stati cauti quando progettano
un'operazione, aggressivi quando la eseguono e facili all'errore quando l'hanno
portata a termine e stanno ritornando a casa. E' in quel momento che si diventa
approssimativi e accadono tutti gli imprevisti. Non è ancora finita, continuai a
ripetermi: è vicino, ma è ancora maledettamente lontano...
L'adrenalina prodotta durante gli scontri, e l'otto volante delle peripezie notturne
aveva impedito ai segnalatori del dolore di raggiungere il mio cervello. Durante la
prima guerra mondiale uno scozzese della Black Watch fu ferito quattro volte e
continuò ad andare all'assalto. Quando alla fine prese posizione ed ebbe tempo di
valutare le sue ferite, stramazzò faccia a terra.
Non senti quello che è successo al tuo corpo perché la tua mente lo cancella.
Adesso che mi ero un po' calmato e il futuro mi sorrideva, cominciavo a rendermi
conto di essere veramente in cattive condizioni fisiche. Tutti i dolori e le
sofferenze degli ultimi due giorni saltarono fuori all'improvviso. Ero coperto di
tagli e lividi. Durante gli scontri, si salta e ci si tuffa da tutte le parti, e si prendono
colpi che al momento non si notano. Avevo tagli profondi nelle mani, sulle
ginocchia e sui gomiti, e abrasioni dolorose sulle gambe; graffi e punture di spine
degli arbusti e tagli per il filo spinato; il bruciore che mi causavano naturalmente
aumentava il livello generale di dolore. Avevamo marciato per circa duecento
chilometri su roccia dura e pietre, e gli stivali cominciavano ad andare in pezzi.
Avevo i piedi in condizioni penose: erano fradici, mi sembravano pezzi di
ghiaccio. Mi era rimasta ben poca sensibilità nelle dita. Avevo gli indumenti
laceri e le mani unte di grasso e sporcizia, come se avessi lavorato a un motore
per due giorni di fila. Il mio corpo era coperto di fango che si stava lentamente
asciugando man mano che camminavo.
Rivoli di sudore mi colavano lungo la schiena e tra le gambe, e avevo chiazze
appiccicose sotto le ascelle. Mi sentivo le estremità congelate, ma per lo meno il
tronco era caldo perché mi stavo muovendo.
Faceva ancora molto freddo. Sul fango c'era una sottile patina di ghiaccio, tutte le
pozzanghere erano ghiacciate, ma era una notte tersa e bellissima. Brillavano le
stelle e, se mi fossi trovato in un qualsiasi altro luogo della terra, sarei rimasto a
bocca aperta. Ma il chiarore del cielo significava che a ovest non c'erano nubi a
oscurare la luna piena, e nessun vento che disperdesse il rumore.
Sparpagliate qua e là c'erano delle baracche, alcune con la luce accesa, altre con
un generatore in funzione. Vedevo le luci della zona meridionale della città. I cani
abbaiavano; io strisciavo lungo le costruzioni sperando che nessuno mi notasse.
I fari delle automobili in lontananza mi facevano sussultare.
Erano inseguitori? Si sarebbero messi a perlustrare i campi adesso? Non era un
posto molto rassicurante. Restava ancora mezz'ora di buio: non mi bastava per
fare il giro della città, e nemmeno per attraversarla direttamente e rifugiarmi nei
sobborghi dall'altra parte.
Mentre le luci pian piano si spegnevano, feci una rapida valutazione. Come nella
canzone dei Clash: dovevo andare o restare?
Dovevo nascondermi o dirigermi al confine e cercare di passarlo prima dell'alba?
Quali erano le possibilità che gli iracheni mi cercassero in pieno giorno?
Certamente, fino a quel momento non c'erano inseguitori. Forse pensavano che
avessi già passato la frontiera e fossi scappato.
Le case sembravano così invitanti. Sarei dovuto entrare in una di quelle piccole
costruzioni dove c'era soltanto un vecchio con il suo fuoco acceso e stare con lui
per tutta la giornata? Avrei avuto riparo e la possibilità di trovare cibo e acqua; e,
in teoria, maggiori probabilità di restare nascosto. Ma non si devono mai usare
coperture isolate o troppo ovvie. Sono punti di naturale attrazione per qualsiasi
inseguitore. Nei film si vedono gli attori che si nascondono nei fienili: è pura e
totale fantasia, perché se ti piazzi lì sotto ti trovano subito. Non esiste che uno si
infili sotto le balle di fieno e venga mancato di poco dalla baionetta che ci rovista
dentro. "
La mia chance migliore era restare all'aperto, ma nascosto.
Dovevo immaginarmi lo scenario peggiore, quello secondo cui gli iracheni
avevano un aereo da ricognizione. Trovai una fossa di scolo larga circa un metro e
profonda cinquanta centimetri, con un filo d'acqua che scorreva a fatica. Vi entrai
e proseguii il cammino, felice di non lasciare impronte sul terreno fangoso.
L'acqua scorreva da est a ovest, la mia direzione di marcia.
Guardai l'orologio, controllando i minuti fino all'alba. Ogni pochi metri mi
fermavo, mi guardavo intorno e restavo in ascolto, programmavo il movimento
seguente e le mie azioni; e se il nemico si fosse presentato di fronte? E se fosse
arrivato da sinistra?
Ricordavo il terreno su cui avevo appena camminato, e per ogni eventualità
progettavo la migliore via di fuga.
Dopo tre o quattrocento metri vidi davanti a me una sagoma scura. Si trattava di
una piccola diga oppure di un canale di drenaggio naturale. Quando mi avvicinai,
vidi un sentiero che andava da nord a sud, dall'Eufrate alla zona abitata, con una
lastra d'acciaio che fungeva da ponte improvvisato... tipo quelli che si vedono in
Gran Bretagna durante i lavori stradali. Stava spuntando il sole. Dovevo prendere
una decisione: potevo proseguire lungo il fossato sperando di trovare qualcosa di
meglio o rimanere fermo. Nel complesso pensai che era meglio restare dov'ero.
Il solo problema del canale di drenaggio era che, quando si guardano al buio e
sotto pressione, le cose possono sembrare fatte su misura per le tue necessità,
mentre di giorno si rivelano totalmente diverse. Bisogna essere attentissimi nel
caso si scelga un punto di sosta di notte in una zona sconosciuta. Quando ero nel
battaglione a Tidworth, avevamo delle caserme gemelle, una dei Green Jackets e
l'altra del reggimento fanteria leggera. Una notte tornai dalla città sbronzo come
un maiale, con un sacchetto di patatine al curry. Barcollai fino alla mia stanza, mi
calai le brache e mi infilai a letto. Seduto a mangiare le patatine con la testa che
mi girava vorticosamente e la luce accesa, non sentii neanche quando un ragazzo
gridò: «Spegni la luce, Geordie». Sollevai lo sguardo e vidi un poster di Debbie
Harry... ma a me Debbie Harry non piaceva. «Chi cazzo c'è lassù, allora?»
domandò la voce, ma a quel punto mi ero reso conto di cosa avevo fatto.
Abbandonai le patatine, afferrai le brache e corsi come un fulmine verso la mia
caserma.
Strisciai sul ventre fino alla piastra d'acciaio. Il canale di drenaggio non era
profondo come il fossato perché non era stato pulito, ma la prospettiva di
riposarmi le stanche ossa era così allettante da sopportare la scomodità di stare
sdraiato al freddo nel fango.
Presi dalla tasca la copertura di plastica della carta geografica, e cercai di
utilizzarla come una specie di cerata, ma senza successo. La mia mente pensava al
cibo. Forse in seguito ne avrei avuto bisogno, ma potevo sempre venire catturato.
Era meglio mandarlo giù che farselo portare via. Tirai fuori dalla cintura la mia
ultima razione, bistecca e cipolle, e la aprii. Mangiai con le mani spingendo la
lingua negli angoli per catturare tutta la salsa unta e fredda. Come dessert, portai
le labbra al livello dell'acqua e ne bevvi qualche sorso. Mi stesi addosso la carta
geografica con l'intenzione di guardarla quando ci fosse stata luce sufficiente,
quindi mi sdraiai e attesi.
Mentre l'oscurità cedeva il posto alla luce, sentii alcuni camion in lontananza e
distinsi delle grida, ma nulla che fosse cosi vicino da creare allarme. Era quasi
tranquillo. Cominciai a rabbrividire e il tremore divenne pressoché
incontrollabile. I denti mi battevano: inspiravo e tendevo i muscoli più che
potevo. Rimasi così per due ore.
Avevo il pugnale da combattimento in mano e l'orologio sul petto, in modo da
non dovere muovere le mani. Studiai la carta per valutare la mia posizione. Se
dovevo darmela a gambe, l'ultima cosa che desideravo era dover leggere la
mappa. Volevo sapere che, come stabilii, alla mia sinistra c'era un centro abitato e
a destra l'Eufrate, e che dovevo ancora fare un sacco di chilometri per raggiungere
il confine. Desideravo immagazzinare nel cervello tutte le informazioni che
potevo.
Esaminai molti scenari: in realtà vere e proprie fantasie. E se fossi già stato in
Siria? Sapevo di non aver attraversato il confine: le due nazioni erano in guerra,
quindi tra loro doveva esserci qualche barriera evidente... ma questo non mi
impedì di sognare a occhi aperti.
Dovevano essere circa le otto quando sentii lo scalpiccio di zoccoli delle capre
provenienti dall'abitato. Non è che in quella missione avessimo avuto molta
fortuna con le capre.
Non sentii il pastore finché non fu sopra la piastra metallica.
Trassi un respiro lungo, molto lungo. Allungando il collo, vidi la punta di due
sandali e una serie di grosse dita aperte. Un piede scese nel fango. Afferrai il
pugnale. Non avrei fatto niente finché lui non avesse abbassato la testa e mi
avesse proprio visto, e anche allora non sapevo bene come avrei agito. Avrei
sollevato la mano sinistra e gli avrei sferrato il colpo? E se avesse cominciato a
correre, cosa avrei fatto? Dai suoi piedoni gonfi e veloci vedevo che non era un
militare, quindi c'era speranza che non fosse armato.
Si chinò per raccogliere dal fossato una scatoletta di cartone che non avevo visto.
Era una scatola di munizioni del 7.62 corto, quelle che sparano i Kalashnikov.
Scomparve dalla mia vista. La scatola ammarò nel rigagnolo. Probabilmente
l'aveva esaminata e aveva deciso che non gli interessava.
Arrivarono un paio di capre che si fermarono sulla riva. Non volevo respirare, non
volevo sbattere le palpebre. Il pastore tornò sul ponte e si sedette sul bordo della
piastra con i piedi penzoloni.
Tossì e scatarrò sputando in acqua. Vidi cadermi addosso una sorta di scivolosa
medusa verde che atterrò sui miei capelli.
Ero talmente lurido che non avrebbe dovuto fregarmene niente, e invece per poco
non vomitai.
Ero sicuro che una delle capre sarebbe entrata in acqua e avrebbe costretto il
vecchio amico ad andare a recuperarla, ma non successe niente. Le capre si
mossero incespicando e il pastore le seguì. Cominciai a togliermi la schifezza dai
capelli.
Rimasi ad ascoltare i rumori. Guardando in su dalla mia sepoltura, vidi che era un
frizzante mattino d'inverno, senza nemmeno una nuvola in cielo. Questo sì era un
paesaggio, non una spianata desertica. Mancavano solo le mucche e avrebbe
potuto essere benissimo la campagna attorno a Hereford, dove c'è un sentierino
che costeggia il fiume Wye, e a un certo punto sull'altra sponda si vede un
allevamento di mucche. A Kate quel posto piaceva molto. Non assomigliava
affatto alla scena che stavo vedendo in quel momento, ma immaginai le mucche
che muggivano e il suono del risolino di Kate. Il sole splendeva nel cielo, ma io
ero fuori portata per i suoi caldi raggi. Mi sentivo una lucertola intrappolata.
Sarebbe stato così bello uscire a scaldarsi le ossa...
In lontananza sentivo veicoli - stridenti rumori di sospensioni e di vecchio metallo
- e auto che passavano. Grida di ragazzini e di adulti. Morivo dalla voglia di
sapere che cosa stava accadendo là fuori. Mi stavano cercando? O forse stavano
solo occupandosi delle loro normali faccende? Per un verso, il fatto che ci fossero
persone nelle vicinanze mi preoccupava molto, ma era bello e confortante sentire
delle voci umane perché significava che non ero solo. Avevo freddo ed ero
esausto. Era piacevole sapere con certezza che mi trovavo sulla Terra e non su
Saturno.
Talvolta si avvicinava un veicolo e il mio cuore cominciava a sussultare.
Si fermeranno?
Non fare lo stupido, nessun problema: si stanno dirigendo verso il fiume.
Mi stanno cercando.
Ma non a tappeto, siamo troppo vicino al confine.
I rumori mi spaventavano: prima del loro arrivo, la mia mente li aveva amplificati
cento volte. Avevo paura perché i bambini sono curiosi. I bambini devono
giocare. Giocavano nell'acqua?
Giocavano con le capre? Cosa facevano? Un bambino è più basso di un adulto, e
guardando verso il canale di drenaggio avrebbe avuto una prospettiva migliore:
invece della luce, avrebbe visto la mia testa o i miei piedi, e bastava avesse più di
undici anni per capire che doveva dare l'allarme.
Desideravo tanto che non mi catturassero. Non adesso. Non dopo il culo che mi
ero fatto.
Continuavo a sbirciare l'orologio sul mio petto. Guardai una volta ed era l'una.
Mezz'ora dopo controllai di nuovo. Il tempo si trascinava lentamente, ma io
cominciavo a essere più ottimista.
Erano arrivati veicoli, capre e pastori e me l'ero cavata. Stavo ancora cercando di
memorizzare la carta geografica, ripassando mentalmente le strade. Aspettavo con
ansia l'imbrunire.
Ci fu un assordante stridore d'acciaio quando un gruppo di veicoli attraversò il
ponte. Stavolta si fermarono.
Sei fregato, se no perché si fermano? Sei nella merda.
Non preoccuparti, sono venuti a prendere qualcuno. Tu pensa solo a restare
immobile, controlla il respiro.
Mi sforzai spasmodicamente di non cedere allo sconforto, come se questo li
potesse fermare o impedisse loro di trovarmi.
Il 7.62 è un proiettile di grosso calibro. Lo scroscio di oltre un centinaio di essi
contro la lastra d'acciaio a pochi millimetri dal mio naso fu la cosa peggiore che
avessi mai udito. Mi raggomitolai e gridai in silenzio.
Cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Gli uomini urlavano con quanto fiato avevano nei polmoni.
Sparavano nel fossato tutto intorno, sollevando fango nell'aria.
Avevo i brividi. Mi raggomitolai ancora di più, sperando di non essere colpito.
Gli scoppi, i colpi e le urla sembravano non finire mai.
Gli spari cessarono, le urla no. Cosa avrebbero fatto, adesso?
Avrebbero puntato un'arma sotto la lastra e mi avrebbero fatto secco, o che cosa?
Me la stavo facendo addosso. Non sapevo cosa volevano che facessi. Non capivo
cosa stessero urlando. Volevano catturarmi?
O uccidermi? Avrebbero lanciato una bomba e addio? Cazzo, pensai, se mi
vogliono fuori di qui, dovranno trascinarmi a forza.
Di una cosa ero assolutamente certo: che stavo crepando in una fossa di spurgo a
quattro chilometri dal confine. Il mio naso toccava più o meno la parte inferiore
della piastra d'acciaio. Allungavo il collo, ma non riuscivo a vedere granché.
La canna di un fucile si abbassò. Poi apparve la faccia di un tale. Quando mi vide,
mostrò un'espressione di totale sorpresa.
Fece un saltello all'indietro e attaccò a gridare.
La prima cosa che vidi dopo fu una massa di stivali che scendevano nel fossato.
Da tutti i lati c'erano uomini che gridavano a squarciagola. Mi fecero cenno di
uscire.
Col cazzo! ' Volevano vedermi le mani. Io ero sdraiato sulla schiena, con le
braccia e le mani sporte di lato. Due tizi mi presero ciascuno per uno stivale e
tirarono.
Uscii di schiena, ed ebbi la prima visione della Siria alla luce del giorno.
Sembrava il più bel Paese del mondo. Vedevo il pennone della bandiera
sull'altopiano, così beffardamente vicino che avrei quasi potuto allungare la mano
e toccarlo. Mi sentii derubato, o preso in giro; e l'incredulità per il fatto che questa
fottitura stesse capitando a me era mista allo sdegno, perché mi stavano privando
di qualcosa che era mio di diritto.
Perché proprio io? Nella mia vita sono sempre stato fortunato.
Mi sono trovato in situazioni drammatiche su cui non avevo alcun controllo, e
anche in casini che avevo creato io stesso. Ma sono sempre stato abbastanza
fortunato da uscirne ragionevolmente indenne.
Mi mollarono un paio di calci e mi fecero cenno di alzarmi in piedi. Obbedii,
tenendo le mani in alto e fissando dritto davanti a me.
Bellissimo cielo azzurro, assolutamente splendido. Voltai la schiena alla Siria e
guardai i campi arati e la vegetazione verdeggiante e tutte le capanne e i camion
che avevo evitato durante la notte.
Tanti sforzi sprecati. Mancavano così poche ore di luce.
Imbracciavano le armi con un certo nervosismo e saltellavano su e giù, facendo
strani gorgheggi come i pellerossa. Erano spaventati quanto me. Spararono in aria
a raffica e pensai: ci siamo, mi manca solo che una pallottola ricada a
perpendicolo e mi fori il cervello.
Dalla parte destra del ponte erano parcheggiate due Land Cruiser.
Tre tizi stavano andando avanti e indietro sulla piastra d'acciaio, e altri otto o nove
rastrellavano i lati del fossato.
La campagna appariva ancora più europea di quanto mi fosse sembrata prima. Ero
incazzato con me stesso. Essere scoperti in un deserto tutto uguale sarebbe stata
scalogna, ma essere catturati in quel posto che poteva essere il nord-ovest
d'Europa significava veramente avere gestito male l'operazione.
C'erano soldati dappertutto che ciondolavano e parlottavano, ancora molto
circospetti. Adesso che mi avevano preso, non sembravano troppo sicuri di cosa
fare di me. Sembrava che ci fossero più capi che indiani: tutti volevano dare
ordini. Probabilmente avrebbero ricevuto qualche premio. Restai immobile nel
fango... un patetico ammasso di stracci. Guardavo fisso davanti a me, nessun
sorriso conciliante, nessun ghigno di sfida, nessun contatto oculare. Il mio
addestramento si faceva valere. Stavo cercando di diventare l'uomo grigio.
Cominciarono a sparare nel terreno: erano incredibilmente esaltati. Mi sembrava
una cosa demenziale restare colpito accidentalmente invece che in missione, o in
uno scontro mentre sparavo anch'io. Non si trattava di morte e gloria...
semplicemente non volevo morire perché una testa di cazzo dal grilletto facile
aveva dato fuori di matto. O, peggio, restare gravemente ferito.
Ma, in una situazione come quella, l'ultima cosa da fare è mostrare paura; ci si
limita a stare lì, si respira a fondo, si chiudono gli occhi e li si lascia continuare.
Dopo una quindicina di secondi gli spari cessarono. Un soldato scese nel canale di
drenaggio e cominciò a frugare alla ricerca del mio equipaggiamento. Venne fuori
con la carta geografica che non aveva alcun segno, la cintura e il pugnale da
combattimento. Brandì la lama davanti a me e fece il classico gesto di squarciarmi
la gola. Be', pensai, uno di questi giorni non sarà per scherzo.
Uno degli altri soldati, che mi stava stuzzicando con l'arma, mi fece segno di
mettermi in ginocchio.
Mi ucciderà? E' ora di morire?
Non riuscivo a pensare a nessun'altra ragione per cui avrebbero dovuto farmi
inginocchiare. Se mi stavano portando via, o mi avrebbero trascinato, o mi
avrebbero fatto cenno di incamminarmi in una direzione.
Allora... mi inginocchio e aspetto che mi sparino o mi metto a correre?
Non sarei arrivato molto lontano... mi avrebbero fatto secco prima che facessi
cinque passi. Mi inginocchiai nell'acqua e nel fango denso.
Il fondo del fossato era circa mezzo metro più basso rispetto al livello dei campi,
perciò quando alla fine mi abbassai avevo la faccia più o meno all'altezza della
piastra d'acciaio. Sollevai lo sguardo.
Il calcio di rigore che uno dei tizi mi assestò sulla mascella mi gettò all'indietro
nel fossato. L'acqua mi entrò nelle orecchie, e fui accecato da intensi lampi di
luce. Aprii gli occhi. Attraverso le stelle, vidi il mondo precipitarmi addosso con
le figure umane e un cielo azzurro chiaro da cui presto sarebbe caduta una pioggia
di calci di fucile.
Anche se sei sfiatato, il meccanismo di autoprotezione fa sì che il corpo si
raccolga in se stesso. A faccia in giù nel fango, mi raggomitolai. Circola un
vecchio detto tra i paracadutisti, se c'è un po' di vento e sai che l'atterraggio sarà
spaventoso: «Piedi e ginocchia insieme, e accetta l'atterraggio». Io dovevo
accettare questa roba, non potevo far nulla per fermarla. Rispetto alla prospettiva
di beccarmi una pallottola, era quasi una piacevole sorpresa.
Erano come piccoli animali, mi davano un calcetto, si allontanavano, ritornavano,
cominciavano a farsi più audaci. Mi afferrarono i capelli e mi tirarono la testa
indietro. Mentre mi davano calci e botte, schiumando frustrazione repressa,
gridavano: «Tel Aviv! Tel Aviv!»
Mi saltavano dal ponte sulla schiena e sulle gambe: sentivo l'impatto, ma non il
dolore. Il tuo sistema pompa troppa adrenalina, stringi lo stomaco, digrigni i
denti, tendi il corpo quanto più possibile e speri, speri che non comincino a
dartele veramente di santa ragione.
« Tel Aviv! Tel Aviv! » continuavano a urlare. Capii dove volevano arrivare...
be', c'era poco da stare allegri.
Non durò più di cinque minuti, ma fu anche troppo. Quando alla fine
indietreggiarono, mi voltai e sollevai lo sguardo verso di loro. Volevo che
vedessero la mia espressione confusa e miserabile, quella di un povero soldato
terrorizzato e mite che meritava solo la loro pietà.
Non funzionò.
Sapevo che sarebbe ricominciato tutto da capo e mi raggomitolai di nuovo, questa
volta cercando di ripararmi le braccia sotto il corpo. Avevo la mente intorpidita,
ma rimasi più o meno cosciente per tutta la durata della faccenda. I colpi alla testa
e ai fianchi, che mi facevano rintronare, si alternavano a botte ben assestate con la
punta della scarpa ai reni, alla bocca e alle orecchie.
Dopo qualche minuto si fermarono e mi costrinsero ad alzarmi in piedi. Io mi
reggevo a malapena; ero in una posizione semiaccovacciata, e cercavo di tenere la
testa bassa, barcollando, tenendomi lo stomaco, sputando sangue.
Ondeggiai, incespicando. Due ragazzi mi arrivarono ai fianchi.
Mi fecero una rozza perquisizione - niente più che una rapida tastata per verificare
che non avessi armi -, poi mi sbatterono in ginocchio e mi cacciarono la faccia nel
fango. Mi misero le mani dietro la schiena e me le legarono. Cercai di sollevare la
testa in modo da riuscire a respirare, ma quelli me la premevano per obbligarmi a
stare giù. Gemetti, inspirando fango e sangue. Pensavo che sarei soffocato.
Sentivo solo urla e schiamazzi, e poi il rumore di altri spari nell'aria. I suoni erano
amplificati. Avevo un tremendo dolore alla testa.
La cosa successiva che ricordo è che mi trascinarono verso i veicoli. Le gambe
non mi reggevano, quindi dovettero reggermi sotto le ascelle. Camminavano
rapidamente, e senza smettere di tossire e con il naso che mi colava cercai di
immettere aria nei polmoni. La faccia mi si stava gonfiando, le labbra erano
spaccate in vari punti. Li lasciai fare. Ero una bambola di stracci, un sacco di
merda.
Fui gettato nel retro di una jeep, nello spazio dietro il sedile anteriore. Non appena
mi lasciarono, cercai di mettermi relativamente comodo e di sistemarmi. Mi
sentivo stranamente sicuro, trovandomi in uno spazio così angusto. Almeno
avevano smesso di darmi calci e riuscivo di nuovo a respirare. Sentivo il calore
del riscaldamento e l'odore di sigarette e di dopobarba scadente.
Avevo la canna di un fucile puntata alla testa. Mi faceva molto male e mi
costringeva a stare giù. Del resto non sarei riuscito a rialzarmi in nessun caso. Ero
un cadavere. Avevo un dolore lancinante alla nuca e tutto mi girava intorno.
Ansimavo, ma continuavo a ripetermi che poteva andare peggio. Per un secondo o
due mi sembrò quasi di stare bene. Non mi picchiavano più, e tanto bastava. Poi
due tizi vennero nel retro e mi scalciarono con gli stivali in tutto il corpo, andando
a tempo con i sobbalzi del veicolo.
Non riuscivo a vedere dove stessimo andando perché dovevo tenere la testa bassa
per proteggermi dalla grandinata di calci, e comunque sarebbe stato un esercizio
accademico. Per quanto ne sapevo, mi avrebbero ucciso. Non avevo nessun
controllo su quello che accadeva, volevo solo che mi facessero fuori e buonanotte.
Avevo provato lo choc iniziale di essere catturato, seguito dalla visione
demoralizzante del confine siriano. All'improvviso, sentii tutto il rammarico del
mondo. Ero proprio davanti alla Siria ed ero stato preso. Era come se avessi corso
la maratona con un tempo da Olimpiadi e poi fossi stato squalificato a un passo
dal traguardo. Mi chiesi nuovamente quando mi avrebbero ucciso.
Il veicolo ondeggiava e deviava per evitare la folla. Quando rallentarono, sentii
delle grida. Erano tutti felici e al colmo dell'eccitazione.
I soldati spararono dall'interno della jeep. Il Kalashnikov è un'arma di grosso
calibro, e quando si spara in uno spazio ristretto si sente l'aumento della pressione
dell'aria. Era assordante, ma stranamente il familiare odore di cordite mi
rassicurò. Cominciai a sentire in bocca il sapore del fango e del sangue. Avevo il
naso bloccato dai grumi.
Il mio corpo seguiva i sobbalzi del veicolo che si spostava rapidamente sul terreno
arato; le sospensioni stridevano e scricchiolavano. Avrei voluto solo rintanarmi in
un cantuccio remoto e togliermi di mezzo. Metà del mio cervello mi stava dicendo
di chiudere gli occhi e respirare a fondo, che forse sarebbe passato tutto. Ma in un
angolo della mia mente aleggiava un residuo di istinto di sopravvivenza: stiamo a
vedere, forse non lo faranno, c'è sempre una possibilità.
Anche la folla si era messa a fare quell'orribile gorgheggio dei pellirosse. Erano
giubilanti perché avevano catturato qualcuno, ma non riuscivo a capire se il
gorgheggio fosse un grido di vittoria o l'annuncio di sviluppi peggiori. Sballottato
dalla jeep, cercai di concentrarmi sull'identificazione delle truppe in base alla loro
uniforme. Indossavano tenute mimetiche di modello britannico con buffetterie in
canapa che contenevano cinque caricatori, e scarponi alti stringati. Avevano anche
le ali da para e cordelline rosse, distintivo dei commando di élite. Soltanto più
tardi seppi che le cordelline servivano a commemorare una vittoria della seconda
guerra mondiale, quando combattevano sotto il comando di Montgomery... un
episodio di cui andavano molto fieri.
Giungemmo su una strada asfaltata e i sobbalzi cessarono. A quel punto non ero
molto preoccupato della nostra meta: volevo solo raggiungerla per non avere più
addosso gli stivali di quei tizi. I soldati mi inveivano contro, concitati e
aggressivi.
Il veicolo si fermò. Sembrava che fossimo arrivati in una città.
Il rumore intorno a noi crebbe; sentivo voci, molte voci, e dal tono compresi che
si trattava di una folla inferocita. Il rumore dell'odio è spaventoso e universale.
Sollevai lo sguardo e vidi una marea di facce di militari e civili, ma ugualmente
rabbiose, che inneggiavano e gridavano improperi. Mi sentii come un bambino in
una carrozzina con una banda di adulti che lo fissano. Ebbi paura: quella gente mi
odiava.
Un vecchio inspirò a fondo nei suoi polmoni sforacchiati dalla tubercolosi e mi
sputò un faccia un moccolo verdastro: ne seguirono altri, secchi e densi. Poi
arrivò la punizione fisica. Cominciò con una ditata nelle costole, saggio dei nuovi
comfort urbani. La ditata fu seguita da un buffetto, poi da un ceffone, poi da un
pugno, mentre cominciavano a tirarmi i capelli. Pensai che sarebbe scoppiato un
tumulto, e avevo la netta sensazione che sarei stato linciato, o peggio.
Iniziarono a salire a bordo. C'era una sorta di frenesia incontrollata. Forse era la
prima volta che vedevano un soldato bianco, forse mi ritenevano personalmente
responsabile dei loro amici e familiari morti e feriti. Si avvicinavano e mi
sferravano schiaffi e pugni, mi tiravano i baffi e i capelli. Si sentiva un odore
penetrante di corpi mal lavati. Era come un film dell'orrore con gli zombi.
Non vedevo più la luce del giorno, e pensai che sarei morto soffocato.
Spararono molti altri colpi in aria, e pensai che di lì a poco avrebbero abbassato la
mira. Pensai scioccamente che qualcuno avrebbe potuto restare ferito. Quando
ricadono a terra, i proiettili hanno perso molta della loro velocità iniziale, ma
comunque conservano un'energia inerziale che può uccidere. Senza dubbio anche
per quelle morti avrebbero dato la colpa a me.
Che cosa avrebbero fatto quei soldati? Mi avrebbero lasciato squartare dai civili?
Uccidetemi subito, pensai. Poi i militari cominciarono a spingere via la folla. Fu
una sensazione meravigliosa. Solo un minuto prima mi stavano picchiando, e
adesso quei ragazzi erano diventati i miei salvatori. Meglio il diavolo che si
conosce...
Ero steso bocconi sul retro della jeep, sempre con le mani legate, e cominciarono
a trascinarmi, con i piedi in avanti. Gli insulti crebbero. Mi sforzai di apparire
derelitto e gravemente ferito, pensando a come proteggermi la faccia mentre
cadevo sull'asfalto da un'altezza di sessanta centimetri. La soluzione era voltarmi
di schiena, perché in quel modo avrei potuto tenere la testa sollevata. Riuscii a
farlo appena in tempo. Alzai la testa e la base della spina dorsale assorbì la forza
dell'impatto, scatenandomi però un'esplosione di dolore nel cranio. Rimasi senza
fiato. I soldati stavano facendo la parte del macho, agitando i loro Kalashnikov
come Che Guevara. Sembravano proprio dei bulli, pensai, si pavoneggiavano
davanti alle ragazze. Erano i veri ffighi locali, e potevo giurare che quella sera
avrebbero battuto |il chiodo.
Il veicolo si era fermato a quindici metri da un grande cancello i battenti
incardinati in un muro alto tre metri. Pensai che doveva essere la base militare del
luogo. Mi trascinarono sulla schiena fino al cancello. Dovetti inarcarmi per
proteggermi le mani ed evitare che strisciassero sul terreno. Anche lì c'era un
isterismo di massa. Ero spaventato: la paura dell'ignoto. Questa gente aveva l'aria
di aver perso il controllo.
Alla fine fui trascinato dentro e il cancello sbattè alle nostre spalle. Vidi un grande
cortile e una serie di costruzioni. La sceneggiata per impressionare le ragazze
terminò di colpo, e i soldati mi misero in piedi e mi trascinarono per le braccia. Ci
vuole del tempo per guardarsi attorno e sintonizzarsi. Se fai il duro, metti il petto
in fuori e li mandi affanculo, ti riempiono di nuovo di botte, ed è
controproducente. Devi mostrarti docile e mansueto, è questo che vogliono. E'
adesso che le ferite possono cominciare a esserti utili. Devi sembrare debole,
come se tutto ti pesasse addosso e fossi totalmente spaesato. A parte ogni altra
considerazione, questa tattica ti permette di risparmiare le energie residue in modo
da essere pronto per la fuga, il che è della massima importanza.
Sentii di avere superato una prova importante. Ero in un altro mondo, una fase
drammatica si era conclusa. Per una strana combinazione, mi sentivo quasi salvo,
adesso che la popolazione locale non poteva più mettermi le mani addosso. La
prospettiva di essere linciato mi era apparsa molto peggiore di qualunque cosa
potesse farmi un mio collega militare. Esagerai la zoppia, i brividi e la tosse, e
ogni volta che qualcuno mi afferrava gemevo. Doveva sembrare un miracolo che
fossi vivo, per come ero malconcio. Intendiamoci: malconcio lo ero veramente,
ma il mio stato mentale era buono, ed è di questo che ci si deve preoccupare,
questo è ciò che si deve nascondere al nemico.
Per qualche minuto rimasi lì, circondato da un anello di guardie. Proprio davanti a
me c'era una strada asfaltata che portava a un gruppo di edifìci, cento metri più
avanti. Guardando da destra a sinistra, vidi dapprima un gruppo di caserme lungo
il perimetro di un muro di cinta, poi un gruppetto di alberi.
Vidi un povero bastardo steso sull'erba, piegato sull'addome come un pollo, con i
polsi e le caviglie legati insieme. Stava cercando di sollevare le gambe per
allentare la pressione sulla testa. Ovviamente gli avevano dato una bella legnata.
Aveva la testa gonfia come un pallone e la divisa strappata e coperta di sangue.
Non riuscivo nemmeno a vedere il colore dei suoi capelli o a distinguere se era in
tenuta mimetica. Quando sollevò la testa, ci fissammo negli occhi per un istante e
mi resi conto che era Dinger.
Gli occhi dicono molte cose. Ti possono dire se una persona è ubriaca, quando sta
bluffando, quando è in stato di allerta, quando è felice. Sono le finestre della
mente. Gli occhi di Dinger dicevano: andrà tutto bene. Riuscii perfino a
strappargli un debole sorriso che ricambiai. Avevo una paura tremenda per lui
perché era in uno stato pietoso, ma era fantastico vederlo, avere lì un amico che
condivideva la mia sorte. Egoisticamente ero felice di non essere il solo catturato.
La presa per il culo che mi sarei sorbito di ritorno a Hereford sarebbe stata
intollerabile.
Per contro, quando lo vidi conciato in quel modo mi resi subito conto che adesso
era il mio turno. Era davvero alla frutta, eppure era un tipo molto più duro di me.
Mi venne in mente che avrei potuto essere morto prima della fine del pomeriggio.
Se era così, meglio fare in fretta.
Un paio di ragazzi se ne stavano in ozio a fumare sigarette contro un albero vicino
a Dinger. Non si mossero quando due ufficiali con il loro piccolo entourage
uscirono dai loro uffici e ci vennero incontro. Continuai a bluffare con le ferite,
riflettendo sul principio che non si conosce nulla finché non si prova.
Mentalmente mi preparai a un'altra dose di botte. Mentre gli ufficiali si
avvicinavano, digrignai i denti e strinsi le gambe per proteggermi i coglioni.
I reparti locali avevano avuto un sacco di perdite, e fu subito chiaro che questi
ufficiali ben vestiti - a metà fra i commando in tenuta mimetica e le truppe di leva
in verde oliva con le stelle sulle spalline - non erano impressionati dalla mia
recita. Mi tirarono su la testa e uno di loro cominciò col darmi un pugno. Chiusi
gli occhi e mi irrigidii in attesa del colpo successivo. Non arrivò.
Un altro ufficiale stava gridando e io aprii gli occhi abbastanza per afferrare
l'argomento della conversazione. Quello che mi aveva colpito aveva in mano un
coltello e stava venendo verso di me. Ci siamo, pensai, adesso fa vedere ai soldati
che è un duro.
Mi infilò il coltello sotto la giacca e la lacerò dall'alto in basso.
La giacca cadde a pezzi.
Fu ordinato ai soldati di perquisirmi, ma non avevano idea di come si facesse.
Dovevano aver sentito storie strane su dispositivi suicidi che esplodevano o roba
del genere, perché si comportavano da paranoici. Trovarono nelle mie tasche due
matite e le ispezionarono per vedere se contenevano arsenico o carburante per
razzi. Un soldato mi strappò le piastrine di identificazione e le portò via.
All'improvviso, senza di esse mi sentii nudo. Peggio ancora: ero nessuno, un
uomo senza nome. Togliermi le piastrine fu come privarmi dell'identità.
Altri due mi presero le fialette di morfina che portavo al collo e fecero il gesto di
infilarsele nel braccio. Erano eccitatissimi, e immaginai che se le sarebbero
iniettate più tardi. In un taschino sulle maniche della mia camicia mimetica avevo
uno spazzolino da denti, ma si rifiutarono di toccarlo. Forse non capirono cosa ci
facesse lì. Forse, se l'odore che emanavano significava qualcosa, non sapevano
nemmeno che cosa fosse uno spazzolino. In tutti i casi, non volevano rischiare
nulla. Lo fecero tirare fuori a me.
La perquisizione avvenne dalla testa ai piedi, ma fu eseguita malamente: non si
preoccuparono nemmeno di togliermi i vestiti. Mi sfilarono gli scarponi e fecero
razzia di ogni componente del mio kit. Si comportavano come vecchie signore a
una vendita di beneficenza. Noi usiamo sempre le matite invece delle penne,
perché funzionano sempre, anche sotto la pioggia. Io ne avevo un paio da dieci
centimetri, appuntite da entrambi i lati, così se una punta si rompeva usavo l'altra.
Le presero come souvenir. La stessa fine fecero il coltellino dell'esercito svizzero
e una bussola Silva che tenevo in tasca, entrambi attaccati a un pezzo di spago.
Per sicurezza ogni pezzo di equipaggiamento viene legato. C'era un taccuino ma
senza scritto niente. Ne avevo distrutto il contenuto al nostro primo punto di sosta.
C'era il cucchiaio di plastica che avevo fregato dalle razioni americane, e anche
quello era legato alla tasca con un pezzo di spago. Avevo l'orologio appeso al
collo con una corda, in modo che non sarei stato tradito dallo scintillio luminoso e
non si sarebbe impigliato mentre marciavo. Mi fu tolto persino il sacchetto di
plastica che tenevo nel caso avessi avuto bisogno di cagare durante la marcia.
Tuttavia, in un marsupio di tre centimetri intorno alla vita c'era il premio della
giornata: circa 1700 sterline, sotto forma di venti sovrane d'oro, che ci erano state
date per corrompere qualcuno in caso di fuga. Avevo fissato le monete con del
nastro adesivo e questo dette luogo a un gran casino. Balzarono indietro, gridando
quella che ritengo fosse la versione irachena di « Mollalo! Esploderà! »
Giunse un capitano. Non arrivava al metro e sessanta, ma doveva pesare più di
cento chili. Sembrava un uovo sodo. Era aggressivo e parlava un buon inglese,
rapido e concitato.
« Okay, come ti chiami? » /
« Andy. »
« Okay, Andy, voglio che tu ci dia le informazioni che ci servono. Se non lo farai,
questi uomini ti spareranno. »
Mi guardai intorno. I soldati erano tutti assiepati l'uno contro l'altro: se avessero
sparato, si sarebbero fatti fuori a vicenda.
« Che cos'è quell'arma che hai lì? » chiese indicando il nastro adesivo.
« Oro », dissi.
Quella parola deve essere internazionale, come jeans e Pepsi, e in ogni esercito
del mondo i soldati stravedono per la prospettiva di guadagnare qualche extra. Si
illuminarono gli occhi a tutti, perfino ai soldati semplici. In un colpo solo avevano
la possibilità di guadagnare più soldi di quanti ne portavano a casa in un anno.
Erano già lì a progettare vacanze o acquisti di nuove auto. Improvvisamente mi
ricordai la storia di un soldato americano appartenente alle truppe che avevano
invaso Panama. In un ufficio del presidente Noriega trovò tre milioni di dollari in
contanti, e fu così stronzo da riferirlo per radio. I soldi furono portati al quartier
generale del reggimento, e poi non li vide più nessuno. Il tizio che mi raccontò la
storia mi disse che non riusciva a dormire di notte, pensando a un'occasione
simile buttata al vento.
Gli ufficiali non corsero rischi. Mi trascinarono in un altro ufficio e mi dissero di
posare la cintura sul tavolo.
«Perché hai dell'oro?» latrò il nano obeso. '' « Per pagare la gente se avessi finito
il cibo », risposi. « Rubare è peccato. » , « Apri il marsupio. »
I graduati misero due soldati di guardia nella stanza con me e se ne andarono,
casomai stessi mentendo e mi accingessi a far esplodere una fila di bombe
incendiarie. Tirai fuori la prima sovrana d'oro e gli ufficiali furono richiamati.
Naturalmente congedarono subito la bassa forza e si divisero le sovrane tra loro.
Cercarono di mostrarsi marziali e solenni, ma quel che stavano facendo era
scandalosamente chiaro.
Probabilmente fu grazie all'avidità degli ufficiali se la mia carta geografica di seta
e la bussola miniaturizzata non vennero trovate. Erano entrambe nascoste nella
mia uniforme e un'attenta perquisizione le avrebbe scoperte. Ero felicissimo di
averle ancora. Era una sensazione bellissima; tu non lo sai, nasone, ma ho ancora
una cartina e una bussola... tiè, brutto stronzo. Il momento migliore per scappare è
subito dopo la cattura. Più ti avvicini al cuore del sistema, più scappare è difficile,
perché i controlli si fanno sempre più efficienti e professionali. Le truppe di prima
linea hanno altri problemi per la testa, ma man mano che ti inoltri nelle retrovie la
sicurezza è maggiore, ed è più probabile che ti tolgano l'uniforme. Dal momento
in cui ero stato catturato avevo cercato di orientarmi in modo da capire da che
parte stesse l'ovest. Se la fortuna avesse girato dalla mia parte, avrei avuto
bisogno degli strumenti che mi restavano.
Mi bendarono e mi condussero in un'altra stanza: sentivo che era grande e ariosa.
C'erano dentro alcune persone che parlavano, e l'atmosfera era più pacata. Dai
toni di voce controllati, capii che era la stanza del comando. Mi sembrava
stranamente sicura, e per certi versi mi sentivo fuori pericolo, anche se in fondo
sospettavo ciò che sarebbe successo. Poi mi resi conto che, proprio perché erano
meno emotivi, se mi avessero riempito di botte lo avrebbero fatto in modo molto
più professionale.
C'era un odore forte di caffè, Gitanes e dopobarba scadente.
Fui spinto a sedere su una sedia con il sedile imbottito e lo schienale alto. Avevo
la sensazione che una parte di me fosse in un altro posto. La mia mente stava
vagando in qualche regno fantastico per allontanarmi da lì, come se tutto fosse
stato un sogno. Non avevo mai pensato che mi potesse succedere una cosa del
genere. Mi sentivo come se avessi investito un bambino con la macchina:
incredulità assoluta e totale. La mia mente coglieva i fatti, ma io restavo chiuso
nel mio mondo. Quando ne uscii per un attimo, pensai di mendicare una tazza di
caffè o qualcosa da mangiare. Ma no, non avrei chiesto un cazzo di niente. Se mi
avessero dato qualcosa di loro iniziativa, va bene, ma io non li avrei implorati.
Irrigidii i muscoli, abbassai la testa e strinsi le gambe. Immaginai che prima di
procedere a un vero e proprio interrogatorio tattico avrebbero riversato su di me le
loro frustrazioni. Stavano bisbigliando tra loro.
Vediamo cosa cazzo fanno, pensai. Una tortura efferata?
O me lo metteranno in culo?
Gli uomini giravano nella stanza sussurrando. Quando ci si sforza tanto di
ascoltare, il minimo rumore viene amplificato.
Una sedia scricchiolò. Qualcuno si alzò in piedi e si diresse verso di me.
Mi irrigidii. Ecco, ci siamo. Finsi di tremare. Sarebbe stata una gran cosa che quei
beduini provassero un po' di pietà per me.
Due secondi sembrarono due minuti. Era esasperante non vedere cosa stava
succedendo. Rabbrividii di nuovo, come una creatura ferita, patetica, un uomo
all'oscuro di tutto, un povero coglione cui non valeva la pena di fare nulla. Ma
sapevo che stavo arrampicandomi sui vetri. A testa bassa, cercai di non
manifestare nessuna reazione, mentre il tizio si avvicinava.
Sentii una forte zaffata di caffè e sognai di essere al Ross's Café di Peckham con
una grande tazza schiumosa davanti. Da ragazzi, il sabato andavamo là e ci
mangiavamo due salsicce con patatine fritte, sale e aceto a volontà, innaffiate da
un bel caffè con la schiuma. Ross il greco ci permetteva di passare là tutta la
mattina. Non eravamo mai più di otto o nove. Mia madre mi dava sempre i soldi
per pranzare da Ross, sapeva che era una gran cosa. In inverno c'erano la
condensa che copriva le finestre e quel fortissimo odore di caffè. Era un posticino
davvero coi fiocchi, e molto intimo. Per un brevissimo istante, mi tornò alla
memoria così vividamente che mi sentii un bambino caduto che piange
chiamando la mamma.
Sicuramente Dinger non aveva raccontato la storia di copertura... nome,
matricola, grado e data di nascita: le Big Four, le Quattro Grandi, erano tutto ciò
che aveva detto, pensai. Qui mi daranno un sacco di botte perché vorranno sapere
molto di più.
Sperai che non avrebbero incominciato subito. Forse adesso avrebbero sfogato su
di me soltanto le loro frustrazioni. Forse nessuno parlava inglese! La mia mente
girava a velocità impressionante, mentre il tizio si avvicinava sempre di più e alla
fine si fermò a pochi centimetri da me.
Mi tirò su la testa e mi sferrò un formidabile pugno in faccia. Il colpo mi sbattè
all'indietro e di fianco, ma loro stavano intorno a me e mi risollevarono. Anche se
te lo aspetti, un pugno del genere, quando arriva, è uno choc. Volevo restare giù
perché prima di incassare l'altro avrei avuto tempo per riprendermi, tempo per
pensare.
Tutti si fecero sotto. Udii delle risate: facevano a gara a chi colpiva più sodo. Mi
sentivo ubriaco. Sai che cosa ti aspetta, sai cosa sta succedendo, ma non puoi
intervenire in nessun modo.
Allora cominci a sentirti distaccato. E' te che stanno picchiando, ma la tua mente
prende il sopravvento e dice vaffanculo, non intendo sopportare altro: così inizi a
scivolare nell'incoscienza. Lo senti che avviene, ma la tua mente vaga altrove. Mi
stavano ammazzando di pugni, ma io ero semincosciente.
Mi lasciai cadere sul pavimento, perché in quel modo avrei potuto proteggermi
almeno la faccia. Tirai su le ginocchia e le tenni strette, tenni bassa la testa e mi
raggomitolai. Mentre piovevano i colpi urlavo e gemevo. Alcune urla erano finte,
altre no.
Poi, come se qualcuno avesse dato un segnale, il pestaggio si interruppe.
«Povero Andy, povero Andy, eh eh...» Un falso risolino di preoccupazione.
Mi sollevai in ginocchio, appoggiai la testa contro l'uomo e la scossi. Mi sostenni
contro di lui, con il respiro pesante e affannoso, perché avevo il naso intasato da
grumi di sangue e fango.
Stramazzai di nuovo sul pavimento. Avevo bisogno del suo aiuto per rimettermi
in piedi. Questo mi da del tempo, pensai, questo inceppa le operazioni. Forse
sarebbero tornati in sé e avrebbero visto che io ero solo un povero e inutile cretino
che non meritava tanti sforzi, e mi avrebbero lasciato in pace.
Fui aiutato a rimettermi sulla sedia e qualcuno mi dette un calcio nello stomaco.
Urlai. Fin da quando ero uno scolaretto odiavo quei colpi, e ai tempi te li davano
con le ginocchia. Questo invece era un calcione in piena regola. Gli stivali mi
volarono di nuovo addosso da tutte le direzioni e caddi a terra.
Sai che la tattica più giusta è mostrarsi debole e supplicarli di avere pietà, ma poi
qualcosa prende il sopravvento. Ero cosi incazzato che decisi di tenere duro. Non
c'era modo che riuscissi a divincolarmi: tanto mi avrebbero menato comunque.
Sapevo che resistere era controproducente, ma non si può combattere contro la
propria dignità e il proprio orgoglio. Se mi fossi lamentato, loro sarebbero stati
più contenti. La sola via per sconfiggerli era il mio atteggiamento mentale; e mi
ripetevo che ce l'avrei fatta.
Mantenendomi il più calmo possibile, stavo vincendo una piccola battaglia.
Anche il successo più infinitesimale psicologicamente viene moltiplicato per
mille. Questa la sto vincendo, pensai. Sentii il morale salirmi assurdamente alle
stelle. Che vadano a fare in culo, mi dissi, non dar loro la soddisfazione di tornare
a casa a bere il tè e raccontare agli amici: sì, ci supplicava di smettere.
Non smisero. Gli stivali mi battevano contro le costole e la testa, punte d'acciaio
sui miei stinchi dolenti. Non avevano alcun motivo per agire così, volevano solo
dimostrare la loro virilità.
La mia sola speranza era che si annoiassero in fretta.
Un paio di loro cominciarono a imprecare in inglese, insultan do Bush, la
Thatcher, tutti quelli che gli venivano in mente. Il mio corpo iniziava a ribellarsi.
Mi sentivo sfinito e privo di forze, facevo fatica a respirare. Non ci vedevo più:
avevo gli occhi gonfi e pulsanti, e sentivo che anche gli altri sensi si
appannavano. Il cuore batteva così forte da opprimermi il petto.
Sentivo urla e gemiti disperati. Probabilmente venivano da me.
Qualcuno mi gridò in faccia a qualche centimetro di distanza e poi scoppiò in una
risata maniacale: «Ah, ah, ah, ah», e si ritrasse.
Avrei dovuto avere il buon senso di mostrarmi uno straccio tremante... di farli
ridere, fargli dire: «Ah, il pivello...! Lasciatelo stare, che testa di cazzo! »
Invece mi limitai a stare lì a prenderle. ' « Sei uno strumento di Bush, Andy
», disse uno, « ma non lo sarai ancora per molto, perché noi ti uccideremo. »
Presi la minaccia sul serio. Quell'uomo aveva solo confermato le mie peggiori
paure. Ci avrebbero dato una bella manica di botte e poi ci avrebbero ucciso.
" ' Bene, pensai: allora continuiamo.
Mi trascinarono di nuovo in piedi. Il sangue mi scendeva dalle ferite alla testa,
colandomi in bocca e negli occhi. Avevo le labbra insensibili, come se fossi
andato dal dentista. Non controllandole, non potevo soffiare via il sangue: quindi
chinai la testa per farlo scendere da un'altra parte, evitando il contatto con i loro
occhi. Non volevo che quei bastardi capissero quello che stavo pensando.
Per un quarto d'ora, continuarono a turno a darmi pugni e sberle: spesso senza
nemmeno fare lo sforzo di rimettermi sulla sedia.
Restai più raggomitolato che potei. Due mani mi afferrarono per i piedi
trascinandomi attraverso la stanza in modo che gli altri mi potessero mollare calci
più agevolmente. Avevano perso il controllo della situazione, pensai. Ancora un
po' di botte e mi avrebbero accoppato.
Nel casino la benda mi era caduta dagli occhi, ma non mi preoccupai di guardare.
Vidi solo le mie ginocchia strette contro la faccia e il pavimento chiaro di
linoleum, prima lucido e adesso macchiato di fango e sangue. Faticavo sempre
più a respirare e cominciai a preoccuparmi degli effetti a lungo termine di quel
trattamento. Sentivo il corpo disintegrarsi. Potevo morire lì, con l'unica
consolazione di avergli sporcato il pavimento.
Raschiavo e tossivo sangue. Ancora venti minuti, pensai, e sarei stato veramente
nei guai. Le mie possibilità di fuga diminuivano.
Alla fine, dovettero stufarsi del gioco. Ero un rottame, mi avevano portato al
punto di cottura e non c'era ragione di continuare. ' « ' Giacevo sul pavimento,
madido del mio stesso sangue, in mezzo alla sporcizia e al sangue coagulato.
Perfino i piedi mi sanguinavano, e le mie calze color cachi erano inzuppate e
rosse.
Aprii gli occhi per un istante e vidi fugacemente un paio di stivali Chelsea con le
cerniere laterali, sormontati da jeans scampanati. Gli stivali avevano orribili tacchi
di plastica, tipo i modelli di cui rigurgitano i mercatini del sabato. I jeans erano
smunti e sporchi, a zampa d'elefante. C'era da scommettere che l'uomo che li
indossava sotto l'uniforme portasse anche una maglietta David Cassidy.
Lanciando una rapida occhiata vidi che erano tutti ufficiali, con la faccia liscia e
ben rasata, senza un pelo fuori posto. Tutti portavano i baffi, e i capelli
impomatati all'indietro.
Il look alla Saddam impazzava.
Ero rattrappito in un angolo contro la parete. Tutt'intorno, le loro facce
incombevano su di me. Uno mi sbattè addosso la cenere della sua sigaretta e io
alzai uno sguardo pietoso. Per tutta risposta, lo rifece.
Entrarono altre persone. Fui sollevato, rimesso sulla sedia e bendato di nuovo.
Sperai solo che non fossero uomini freschi venuti per ricominciare dal punto in
cui avevano smesso gli altri.
« Come ti chiami? » Era una voce nuova, che parlava un inglese perfetto.
« Andy. »
Non gli dissi il mio nome per esteso. Ero determinato a tirarla più in lungo
possibile. Il mio cognome richiedeva una nuova domanda; il trucco è mostrarsi
sempre disposti a collaborare, ma consumare più tempo che si può.
« Quanti anni hai, Andy? In che giorno sei nato? »
La sua dizione era molto precisa, la sua grammatica migliore della mia: si
coglieva appena un leggerissimo accento orientale.
Gli detti la risposta.
« Qual è la tua religione? »
In base alla convenzione di Ginevra, lui non aveva il permesso di chiedermelo. La
risposta corretta sarebbe stata: «Non posso rispondere a questa domanda ».
« Appartengo alla Chiesa anglicana », dissi.
Era scritto sulle mie piastrine di identificazione che erano in mano loro: quindi,
perché' avrei dovuto rischiare un altro pestaggio per non fornire un'informazione
che già possedevano? Speravo che l'informazione servisse a confermare che ero
inglese e non di Tel Aviv, come quegli stronzi sembravano credere.
La Chiesa anglicana per loro non significava niente.
« Sei ebreo? »
«No, sono protestante.»
«Che cos'è un protestante?»
« Un cristiano. Sono cristiano. »
Per loro, un cristiano è uno che non è né musulmano né ebreo.
La cristianità comprende tutti, dai trappisti ai seguaci di Moon.
«No, Andy, tu sei ebreo. Lo scopriremo presto. A proposito... ti piace il mio
inglese? »
« Sì, è ottimo. »
Non avevo intenzione di discutere. Per quanto mi riguardava, parlava inglese
meglio di Kate Adie.
Avevo la testa che ondeggiava a destra e sinistra, dovevo sembrare in stato
confusionale. Ci furono lunghe pause durante le quali cercavo di apparire
occupato a riflettere. Confondevo le parole, gemevo, insomma... la tiravo per le
lunghe.
« Certo che il mio inglese è ottimo », ribattè secco, avvicinandosi alla mia faccia.
« Ho lavorato a Londra. Mi prendi per idiota? Noi non siamo idioti. »
Mi aveva interrogato da circa tre metri di distanza, come se stesse dietro una
scrivania. Ma adesso si era alzato in piedi, e girava nella stanza schiumando un
torrente di retorica su quanto intelligente e meravigliosa era la nazione irachena, e
quanto erano civili e via dicendo. Stava cominciando a urlare, e gocce della sua
saliva atterrarono sulla mia faccia. Puzzavano di tabacco e colonia da due soldi.
La rapidità e la durezza del suo assalto verbale mi fece sussultare un po'; ma
strinsi i denti. Dovevo controllare le mie reazioni: non volevo che capisse che ero
in condizioni migliori di quanto credesse. Bisogna dare per scontato che questi
beduini sono esaltati.
« Siamo una nazione avanzata», berciò. « E il tuo Paese lo scoprirà presto. »
Mi sentivo un po' come un bambino che si sta buscando una sgridata, ed è lì a
testa bassa tutto tremante davanti a uno che gli urla contro.
Aveva nominato Londra, e pensai che le cose si stavano mettendo bene, perché
avremmo parlato di Londra.
« Io sono innamorato di Londra », dissi. « Mi piacerebbe ritornarci, adesso. Non
voglio stare qui. Non so che cosa sto facendo, qui. Sono solo un soldato. »
Ripetemmo di nuovo le Big Four. Con gli occhi della mente cercai di correre
avanti e confrontare quello che stavo per dire con quello che avevo già detto.
Sentivo che qualcuno stava scrivendo molto, che piegavano dei fogli, e udii uno
scalpiccio di piedi.
Il mio inquisitore si allontanò e si sedette. Il suo tono cambiò, rifacendosi dolce e
mellifluo.
« So che sei solo un soldato », disse. « Anch'io sono un soldato. Comportiamoci
da persone civili. Noi siamo una nazione civile. Ci sono alcune cose che vogliamo
sapere, Andy... tu diccele.
Tu sei solo uno strumento. Loro ti stanno usando. »
La loro tattica era evidente: adesso il mio compito era fargli pensare che i loro
metodi stavano funzionando.
«Sì, signore», risposi. «Sono così confuso, voglio davvero aiutarvi. Non so cosa
sta succedendo. Sono molto preoccupato per il mio amico là fuori. »
« Bene, dimmi da che unità provieni. Diccelo, e non dovrai più sopportare tutto
questo dolore. Perché vuoi farti del male? »
« Mi spiace, non posso rispondere a questa domanda. »
Ricominciarono.
Quando erano entrati quelli nuovi, uno di loro doveva essersi piazzato alle mie
spalle. Credo che quando risposi secondo regolamento l'inquisitore gli fece un
cenno, perché mi arrivò sulla tempia un colpo fortissimo sferrato con la canna del
fucile, che mi sbattè a terra.
Nelle risse fra ragazzi, sei pronto e ti aspetti i colpi. Non fanno molto male
quando arrivano, ma, se non te li aspetti, il dolore è fortissimo. Lo choc della
canna del fucile fu tremendo. Svenni.
Passai in un altro mondo e, anche se sentivo molto male, era un posto piuttosto
piacevole.
Mentre ero sdraiato sul pavimento, mi accorsi che il mio respiro era lieve e il
cuore pompava molto più lentamente. Tutto si stava rallentando, mi sentivo
gradualmente declinare. Non riuscivo a deglutire. Ero in mezzo alla nebbia.
Ricevetti un altro colpo con la canna del fucile, e davanti agli occhi mi esplosero
bolle di luce vividissima. Poi calò l'oscurità.
Ero semincosciente quando mi rimisero sulla sedia.
« Senti, Andy... noi abbiamo solo bisogno di sapere alcune cose. Permettimi di
fare il mio lavoro. Non devi comportarti così.
Siamo tutti soldati, e la nostra è una professione onorevole. » Parlava con voce
profonda e rassicurante, come per dire: « Su, diventiamo amici ».
« Potremmo lasciarti nel deserto a farti mangiare dagli animali, Andy. Non
importerebbe niente a nessuno, tranne che alla tua famiglia. Lascia perdere, non
fare l'eroe, sei solo un burattino nelle mani delle persone che ti hanno mandato
qui. Loro se la spassano, mentre la gente come me e te combatte. Tu e io, Andy...
non volevamo combattere questa guerra. »
Annuivo, mostrandomi d'accordo con tutto quello che diceva, e in quel mentre
cresceva in me la meravigliosa sensazione di averlo sconfitto: mi vedeva annuire,
ma non sapeva che dentro di me lo mandavo affanculo. Cominciai a sentirmi
meglio rispetto alla mia cattura. Fino a quel momento tutto mi era sembrato così
negativo. Ora pensavo: lui crede a tutte queste stronzate.
Lui sta blaterando e io annuisco. Non riuscivo a credere che stavo per cavarmela.
Ero io a dominare la conversazione, e quello non se ne accorgeva nemmeno.
Avevo un vantaggio su di lui, e questo avrebbe potuto dare il la a un rapporto
stupendo.
Stavo vincendo.
« Diccelo, Andy, e ti rimanderemo subito in Inghilterra. Qual è il tuo reparto? »
Fece un rumore come se avesse il potere di chiamare lì un aereo privato per
riportarmi a Brize Norton.
« Mi dispiace, non posso rispondere a questa domanda. »
Questa volta, mentre i calci mi colpirono la testa, sentii un rumore sibilante e uno
schiocco nelle orecchie, e quando mi afferrai la mascella sentii scricchiolare le
ossa. Il sangue mi colava dalle orecchie e sul volto. Ahi, ahi... Il sangue che ti
esce dalle orecchie non è un buon segno. Rimarrò sordo, pensai. Merda, avevo
poco più di trent'anni.
« A che reparto appartieni? »
Speravo con tutte le forze che cambiasse domanda, ma quello non mollava.
Non risposi.
« Andy, non stiamo facendo molti progressi. »
Stranamente la voce era ancora dolce e accattivante.
« Devi capire, Andy, che io ho un lavoro da fare. Non stiamo andando molto
lontano, vero? Non è un'informazione cosi importante, perché non ce la dai? »
Silenzio.
Altri calci. Altri pugni. Altre urla. .
« Ce lo ha già detto il tuo amico, sai? Vogliamo solo avere una conferma. »
Era una bugia. Sicuramente da Dinger non aveva tirato fuori un cazzo. Dinger era
più duro di me, non avrebbe detto una parola. Probabilmente lo avevano pestato
in quel modo perché lui li aveva trattati come trattava chiunque non'gli piacesse: li
aveva mandati di sicuro affanculo.
« Lei deve capire che io sono un soldato », dissi. « Anche lei è un soldato, deve
capire che non posso dirglielo. »
Cercavo di ottenere un po' di complicità buttandola sul patetico lacrimoso.
Speravo di riuscire a fare appello alla loro tradizionale paura di perdere la faccia.
« La mia famiglia sarebbe svergognata per sempre », piagnucolai. «Cadrebbero in
disgrazia, io sarei screditato per il resto dei miei giorni. Non posso dirle queste
cose, non posso proprio. »
« Allora, Andy, abbiamo un grosso problema. Tu non ci vuoi dire quello che noi
abbiamo bisogno di sapere. Non ci stai aiutando, e non stai aiutando te stesso.
Potresti morire molto presto per qualcosa che per te non significa nulla. Io vorrei
aiutarti, ma ci sono persone che stanno sopra di me che non me lo permettono.
»
« Ammettilo », proseguì con un tono da amico del cuore che ti da un amorevole
consiglio, « sei israeliano, vero? Su, dai, ammettilo. »
«Io non sono israeliano», singhiozzai. «Guardi... non sono vestito da israeliano.
Questa è l'uniforme britannica, e avete visto le mie piastrine di riconoscimento. Io
sono inglese e questa è l'uniforme britannica. Non so che cosa vogliate da me. Per
favore, vi prego, voglio aiutarvi. Voi mi state confondendo, e io ho paura. »
« Questa è una stupidaggine. »
« Voi avete le mie piastrine di riconoscimento, avete visto che sono inglese. Ho
paura di quello che lei dice. »
Il suo tono cambiò improvvisamente. « Sì, noi abbiamo le tue piastrine di
identificazione, e tu no! », esplose come un cane rabbioso. « Tu sei quello che
diciamo noi, e per quanto ci riguarda sei israeliano. Altrimenti, perché eri cosi
vicino alla Siria? Cosa stavi facendo? Dimmelo, dimmelo! Cosa stavi facendo?»
Anche se avessi voluto rispondere, non me ne lasciò il tempo.
Mi investì con un diluvio di domande e di retorica furibonda.
«Tu non significhi niente per noi! Tu non sei niente, niente! »
Doveva essere divertente a casa sua: di certo i suoi figli non sapevano nemmeno
se andava o veniva.
Che cosa faccio adesso? mi domandai.
Ritorniamo alla faccenda che sono israeliano.
Nella mia mente si stava insinuando il terrore per Bob. Bob aveva i capelli neri,
ricci e il naso grosso. Se fosse stato catturato o avessero trovato il suo cadavere,
avrebbero potuto scambiarlo per ebreo.
« Io sono britannico. »
«No, no, tu sei israeliano. Sei vestito da commando.»
« Nell'esercito britannico tutti portano questa divisa. »
«Morirai presto, Andy... perché sei stupido, perché non hai risposto a delle
semplici domande. »
« Io non sono israeliano. » - ' Ero arrivato al punto in cui dovevo
ricordare quello che avevo detto e quello che non avevo detto, perché sapevo che
se veniva verbalizzato - e li sentivo scribacchiare - mi sarei cacciato nella merda. -
, , Riprendiamo la storia dell'israeliano. Forse se questo tizio continua a
parlare, possiamo instaurare un rapporto. Lui e io.
E' mìo. Lui è il mio inquisitore. Potrebbe avere pietà di me.
«Io sono cristiano, sono inglese», ricominciai. «Non so nemmeno in che parte
dell'Iraq mi trovo, figuriamoci se so che siamo vicino alla Siria. Io non voglio
stare qua. Mi guardi, ho paura. »
« Sappiamo che sei israeliano, Andy. Vogliamo solo sentirlo da te. Il nostro
amico ce l'ha già detto. »
Pensai che anche Dinger poteva essere scambiato per ebreo, con i suoi capelli
biondi, folti e ricciuti.
« Voi siete dei commando. »
Nel loro esercito, solo i commando indossano tenute mimetiche.
«No, che non lo siamo. Siamo comuni soldati! »
« Morirai per la tua stupidità. Vogliamo da te solo risposte facili facili. Sto
cercando di aiutarti. Come ti aspetti che possa farlo, se tu non aiuti me? Vogliamo
che tu risponda a questa domanda. Dobbiamo sentirlo da te. Tu ci vuoi aiutare,
vero? »
«Certo che voglio aiutarvi! » singhiozzai di nuovo. «Ma non posso aiutarvi, se
non so niente! »
« Sei proprio stupido. » Il tono di voce era aggressivo, ma c'era anche una traccia
di compassione. « Perché non ci aiuti? Su, forza, dammi una mano. Non voglio
vederti in questa situazione più di quanto lo voglia tu. »
« Voglio aiutarvi, ma non sono israeliano. »
« Diccelo e noi la smetteremo. Avanti, non sarai mica così stupido, vero? Che
problema c'è? Siamo gente civile. Ma ho bisogno che tu mi dica che sei
israeliano. Se non puoi farmi questo favore, allora dimmi, come mai sei così
vicino alla Siria? »
«Non lo so dove mi trovo. »
«Sei vicino alla Siria, ecco dove sei!... quindi dimmelo. Queste persone ti
uccideranno. Il tuo amico è okay, il tuo amico ce lo ha detto. Lui vivrà, ma tu
morirai per una cosa stupida. Perché morire? Sei stupido. »
Sentii la sua sedia scricchiolare sul pavimento. Stavo cercando di capire cosa
stesse succedendo, senza mostrare che riuscivo a concentrarmi. Fisicamente ero
uno straccio. Speravo solo in una scintilla di umanità da parte di quell'uomo.
Merda... da bambino riuscivo sempre a girare la frittata, e raggirare le mie zie per
farmi comprare le patatine. Perché con questi qua non funzionava?
Sicuramente avrei meritato la nomination per l'Oscar, ma una buona percentuale
di quello che stavo facendo era vero.
Soffrivo davvero, e questo era un buon catalizzatore per apparire convincente.
Questa storia dell'israeliano era una buona cosa. Continuiamo così e speriamo che
si allontanino dalle altre domande.
«Non posso aiutarvi. Non posso proprio. »
Udii un grosso sospiro, come se lui fosse un mio amico e non potesse più fare
niente per aiutarmi. Il sospiro diceva: sono io il tuo contatto, l'unico in grado di
tenerli fermi.
« Allora io non posso aiutare te, Andy. »
Come se avesse fatto un cenno, udii un'altra sedia scricchiolare e dei passi venire
verso di me. Quando sentii la zaffata di dopobarba, capii che l'uomo che mi aveva
colpito con la canna del fucile stava venendo a darmi la buona notizia.
Era lui, infatti. E mi fece davvero vedere le stelle.
Dovevo essermi abituato a stare bendato, perché il mio udito e il mio olfatto
sembravano più acuti. Stavo cominciando a distinguere quelle persone dal loro
odore. Il ragazzo che usava la canna del fucile indossava abiti lavati di fresco. Un
altro amava i pistacchi. Se li metteva in bocca e li masticava, poi mi sputava i
gusci in faccia. Quello che parlava bene l'inglese fumava incessantemente e l'alito
gli puzzava di caffè e fumo. Quando si lanciava nell'oratoria mi sputacchiava in
faccia. Puzzava anche bestialmente di dopobarba.
La sua sedia scricchiolava e lo sentivo aggirarsi. Parlava a mitraglia, poi per un
po' faceva la parte dell'amicone ripetendomi: « Va tutto bene, andrà tutto bene ».
Parlava a bassa voce e lo sentivo avvicinarsi sempre più, finché non eravamo naso
a naso. Poi mi strillava nelle orecchie.
« Così non va, Andy », disse a un certo momento. « Dovremo strapparti la verità
in un altro modo. »
Che altro poteva mai farmi di peggio? Avevamo ricevuto dal controspionaggio
relazioni su centri di interrogatorio e sulle uccisioni di massa, per cui pensai:
ecco, ci siamo, ora mi fanno il culo. Vidi i campi di concentramento e gli elettrodi
attaccati alle mie palle.
Due ragazzi mi colpirono con la canna del fucile.
Un colpo particolarmente forte mi raggiunse alla mascella, appena sopra i denti.
Tra la punta del fucile e due dei miei molari posteriori c'era solo la pelle della
guancia. Sentii i denti rompersi e andare in pezzi, quindi il dolore mi sopraffece.
Ero a terra, e urlavo come un pazzo. Cercai di sputare i frammenti, ma avevo la
bocca troppo gonfia e insensibile. Non riuscivo a deglutire.
Nell'attimo in cui la mia lingua toccò i moncherini molli e aguzzi, svenni.
Rinvenni sul pavimento. La benda era venuta via e osservai il sangue uscirmi
dalla bocca formando un laghetto sul linoleum color crema. Mi sentii sciocco e
inutile. Avrei voluto solo che le manette mi cadessero per alzarmi e affrontare
quei tizi.
Continuarono, dandomi altri colpi sulla schiena, picchiandomi la testa, le gambe,
le reni.
Non riuscivo più a respirare dal naso. Quando urlavo, dovevo respirare con la
bocca, e l'aria colpiva il nervo del dente esposto.
Gridai di nuovo, continuavo a gridare.
Stava diventando insopportabile.
Mi rialzarono e mi fecero sedere. Non si preoccuparono di rimettermi la benda,
ma comunque tenni la testa bassa. Non volevo incrociare il loro sguardo e
rischiare un altro pestaggio per averli visti. Soffrivo già abbastanza. Ero un grumo
scomposto di dolore che gridava a squarciagola mentre ripiombava sulla sedia,
smoccolandosi addosso. La mia coordinazione se n'era andata del tutto. Non
riuscivo più nemmeno a tenere strette le gambe. Di sicuro sembravo la copia di
Dinger.
Ci fu un lungo silenzio.
Tutti stavano camminando avanti e indietro nella stanza, lasciandomi riflettere sul
mio destino. Quanto potevo resistere ancora? Mi avrebbero ammazzato di calci lì
dentro o cosa?
Sentii altri sospiri e parlottii.
« Perché lo fai, Andy? Per il tuo Paese? Il tuo Paese non vuole nemmeno sapere
chi sei. Il tuo Paese se ne frega. I soli che si preoccuperanno saranno i tuoi
genitori, la tua famiglia. Noi non vogliamo la guerra. Sono Bush e Mitterrand, la
Thatcher e Major che la vogliono. Loro stanno seduti laggiù e non rischiano
niente.
Tu sei qui. Sei tu che soffrirai, non loro. Loro non si preoccupano di te.
« Noi veniamo da una guerra durata molti anni. Tutte le nostre famiglie hanno
sofferto. Non siamo barbari, siete voi che ci fate la guerra. Perché non ci aiuti?
Perché subisci tutta questa sofferenza? Perché ci costringi a farti del male? »
Non risposi, limitandomi a tenere la testa bassa. Il mio piano prevedeva di non
raccontare subito la storia di copertura, perché dopo sarei stato finito. Stavo
cercando di mostrarmi disposto a dire loro le Big Four e basta. Regina e patria, e
via discorrendo.
Avrei sopportato una certa quantità di interrogatorio tattico, poi mi sarei buttato
nella storia di copertura.
Parlavano tra loro a voce bassa in quello che mi sembrava un arabo da persone
istruite. Qualcuno stava scribacchiando appunti.
Questo era un buon segno, perché indicava che non c'era una grande esaltazione,
non stavano cercando di spremermi quello che potevano per poi farmi secco.
Sembrava avessero qualche motivo per tenermi in vita. C'erano forse ordini in tal
senso?
Di nuovo l'ottimismo, il pensiero che un'autorità superiore mi avrebbe salvato alla
morte. D'accordo, ribatteva l'altra metà del mio cervello.:, ma così ti avvicini al
centro, e le probabilità di scappare diventano minori. In cima ai tuoi pensieri deve
esserci sempre la fuga. Non sai mai quando si presenterà l'occasione, e devi essere
pronto. Carpe diem! Devi afferrare il momento, ma più a lungo rimani
prigioniero, più diventa difficile.
Pensai a Dinger. Sapevo che sulla faccenda di Tel Aviv non gli aveva dato
nessuna soddisfazione. Di certo aveva dato il massimo e, quando aveva stabilito
che fisicamente non ce la faceva più e che lo avrebbero preso a calci fino alla
morte, aveva cominciato con la storia della ricerca e del soccorso.
Mi venne in mente che forse mi sarei sentito meglio se fossi riuscito a vedere
l'ambiente in cui mi trovavo. Alzai lo sguardo e aprii gli occhi. Le veneziane
erano abbassate, ma un po' di luce filtrava. Tutto era avvolto in una penombra
crepuscolare.
La stanza era piuttosto grande, forse 12x6. Sedevo lungo un lato del rettangolo.
Non vedevo la porta, quindi doveva essere alle mie spalle. Gli ufficiali erano di
fronte a me. Dovevano essere otto o nove, e fumavano tutti. Aleggiava una
nebbiolina, attraversata qua e là da un raggio di sole che entrava dalla finestra.
A metà della stanza, sulla destra, c'era una grande scrivania con un paio di
telefoni, risme di comune carta da ufficio, libri e altre cianfrusaglie. Un'imponente
poltrona di pelle in stile dirigenziale era vuota. Dietro di essa c'era la più grande
fotografìa del mondo di Saddam completo di basco, medaglie e immancabile
sorriso. Immaginai che fosse l'ufficio del comandante locale.
Sulla parete erano appese generiche note amministrative. Al centro del pavimento
di linoleum c'era un grande tappeto persiano che proseguiva sotto la scrivania.
Lungo le altre pareti erano allineate sedie di plastica accatastabili. La mia - quella
degli ospiti - sembrava una sedia da pranzo imbottita di materia plastica.
Altri parlottii e sospiri. Le persone parlavano tra loro come se io non esistessi e si
trattasse di una normale giornata in ufficio.
Girai la testa e sul mento mi colarono sangue e muco. Non sapevo quanto avrei
sopportato quello sfacelo alla bocca.
Esaminai le possibilità. Se avessero ricominciato a picchiarmi sarei morto prima
della fine del pomeriggio. Era venuto il momento di raccontare la storia di
copertura. Avrei aspettato che mi interpellassero di nuovo, poi avrei iniziato.
Quando mi ero rifiutato di rispondere alle domande non era perché fossi un eroe o
un patriota: questa è la propaganda che si vede nei film di guerra. La mia invece
era tecnica appresa in addestramento. Non potevo raccontare subito la mia storia
di copertura. Doveva sembrare che" fossero loro a estorcermela. Era una
questione di autoconservazione, non di coraggio. Le persone a volte fanno cose
eroiche perché le situazioni lo richiedono, ma l'eroe non esiste. Gli ammazzasette
o sono idioti o non conoscono il loro lavoro. Adesso dovevo fornire ai beduini il
minimo di informazioni sufficienti per rimanere vivo.
« Andy, non puoi startene lì in quel modo. Noi cerchiamo di dimostrarti amicizia,
ma dobbiamo avere le informazioni. Andy, questo interrogatorio può continuare a
oltranza. Il tuo amico là fuori ci ha aiutato e sta bene, è là fuori sull'erba ed è
ancora vivo, è al sole. Tu sei qui dentro al buio. Non va bene per te, e non va bene
per noi. Serve solo a esaurire il tempo a disposizione.
« Dicci solo quello che dobbiamo sapere e basta, tutto finisce.
Starai bene, ci prenderemo cura di te fino alla fine della guerra.
Forse potremmo anche organizzarci in modo da farti ritornare subito a casa dalla
tua famiglia. Non c'è problema, se ci aiuti. Hai un brutto aspetto. Ti fa male? Hai
bisogno di un dottore? Ti aiuteremo. »
Dovevo apparire completamente distrutto.
« Okay », sussurrai con voce roca. « Non ce la faccio più, vi aiuterò.»
Tutti i presenti nella stanza sollevarono lo sguardo.
« Appartengo a una squadra di ricerca e soccorso mandata a recuperare i piloti
abbattuti. »
L'inquisitore si voltò e guardò gli altri, che si avvicinarono tutti e si sedettero ai
loro tavoli. Tutto quello che dicevo doveva essere loro tradotto.
« Andy, dimmi qualcos'altro. Dimmi tutto quello che sai della ricerca e del
soccorso. »
La sua voce era molto gentile e tranquilla. Ovviamente pensava di avercela fatta:
proprio come desideravo.
«Proveniamo da unità diverse dell'esercito britannico», dissi, « e ci riuniscono per
via della nostra esperienza medica. Io non conosco nessuno, loro ci mettono
insieme e basta. Ho un addestramento sanitario, non sono un vero soldato. Sono
capitato in questa guerra, ma non perché l'ho chiesto. Ero in Gran Bretagna tutto
contento di lavorare in un ospedale militare e all'improvviso mi hanno ficcato in
una di queste squadre di ricerca e soccorso.
Non ho idea di cosa stia succedendo... sono un infermiere diplomato. »
Tutto sembrava procedere abbastanza bene. Ne discussero tra loro: ovviamente
quadrava con quello che aveva detto Dinger.
Il problema è che, quando cominci, hai aperto una breccia nella corazza e devi
continuare con la storia. Se però ci infili troppi particolari, rischi di incasinare le
cose per gli altri prigionieri. Devi mantenere la tua storia semplice, tra l'altro
anche per ricordartela facilmente. Il miglior modo di riuscirci è fare la parte del
coglione. Hai la memoria confusa perché sei in una pessima condizione fisica. La
tua mente non rammenta nulla, sei solo un soldato di truppa ottuso, uno
scalzacane, e non hai la più pallida idea della situazione, non sai nemmeno su che
elicottero hai volato.
La mia mente lavorava a tutta birra per decidere cosa avrei detto dopo.
Sapevano che ero sergente, e questo mi avvantaggiava. Nel loro esercito, quello di
sergente è un grado fasullo: sono gli ufficiali che fanno tutto, compreso pensare.
« Quanti eravate? »
«Non lo so. Quando l'elicottero è atterrato c'era un rumore incredibile. Ci hanno
detto che c'era pericolo di esplosioni e quindi bisognava correre, poi sono
decollati e ci hanno lasciato lì. » Recitai la parte del marmittone confuso, testa di
legno, spaventato e abbandonato. « Io faccio solo pronto soccorso, non voglio
saperne niente di queste cose. Non ci sono abituato. Faccio solo i bendaggi ai
piloti feriti. »
«Quanti eravate sull'elicottero?» ritentò.
«Non sono sicuro. Era notte. »
«Andy... cosa sta succedendo? Ti avevamo dato una possibilità. Ci prendi per
cretini? Negli ultimi giorni molti soldati sono stati uccisi e vogliamo sapere che
cosa è successo. »
Era la prima volta che parlavano di morti. Me l'ero aspettato, ma speravo che non
saltasse fuori.
« Non capisco. »
«Vogliamo sapere chi è stato. Sei stato tu?» « , « Io... no. Non capisco. »
« Tu devi darci una possibilità. Senti, solo per dimostrarti che ti vogliamo aiutare
davvero: dimmi il nome di tuo padre o di tua madre e noi gli scriveremo per
informarli che stai bene. Tu scrivi una lettera e ci metti sopra l'indirizzo e noi la
imbucheremo. »
Questo era proprio da manuale. In addestramento ti insegnano a non firmare mai
niente: risale ai tempi del Vietnam, quando la gente firmava del tutto
innocentemente pezzi di carta e poi venivano a sapere che sulla stampa
internazionale era apparsa una loro dichiarazione secondo cui avevano raso al
suolo un intero villaggio pieno di bambini.
Sapevo che erano puttanate. Figurarsi se avrebbero mai spedito una lettera a
Peckham. Era pura fantasia, ma non potevo rispondergli semplicemente:
affanculo, pecoraio... In qualche modo dovevo aggirare l'ostacolo.
«Mio padre è morto da anni », risposi. «Mia madre se n'è andata con un
americano che lavorava a Londra. Adesso è in America, da qualche parte. Io non
ho i genitori, è per questo che sono nell'esercito. Non ho parenti stretti.»
« In che zona di Londra lavorava questo americano? »
« A Wimbledon. »
Un altro classico. Stavano cercando di farmi aprire il cuore, il resto sarebbe uscito
da sé. Era la stessa tecnica che usavano durante le esercitazioni di evasione e fuga
e cattura.
« Che mestiere faceva? »
«Non lo so. Non vivevo in casa in quel periodo. Avevo gravi problemi familiari. »
«Hai fratelli e sorelle?»
«No.»
Volevo basare le mie menzogne sulla verità. Se ti attieni alle cose che sai, e sono
cose vere, hai maggiori probabilità di ricordartele. Inoltre potrebbero fare un
controllo, verificare che quello che stai dicendo è la verità e non andare più a
fondo. Ricordavo un amico che aveva proprio quel tipo di situazione familiare.
Suo padre era morto quando lui aveva tredici anni. Sua madre aveva incontrato un
americano, non aveva voluto più saperne del figlio e se l'era filata negli Stati
Uniti. Mi sentivo piuttosto convincente.
Presi tempo. Avevo la bocca impastata, stavo ancora sbavando. Non riuscivo a
parlare bene.
« Ti fa male, Andy? Aiutaci, e tutto andrà bene. Ti faremo visitare da un medico.
Continua, dicci qualcos'altro. »
« E' tutto quello che so. »
Seguì un altro classico. Doveva essersi studiato il manuale a memoria.
«Firma questo pezzo di carta, Andy. Vogliamo solo dimostrare alla tua famiglia
che sei ancora vivo. Faremo tentativi per rintracciare tua madre in America.
Abbiamo dei contatti laggiù. Abbiamo bisogno solo della tua firma, così saprà che
stai bene. E potremo dimostrare effettivamente alla Croce Rossa che sei ancora
vivo, non sei morto nel deserto e gli animali non ti hanno mangiato. Pensaci,
Andy. Se riusciamo a farti firmare e ad andare da quelli della Croce Rossa, non ti
uccideremo. »
Non potevo credere che volessero darmi a bere delle barzellette simili. Cercai di
restare sul vago. «Non conosco nessun indirizzo, non ho nessuna vita familiare. »
Potevo dare un indirizzo fittizio oppure uno vero, nel caso controllassero. Ma poi
magari, un bel mattino, la signora Mills di Acacia Avenue n. 8 apriva la porta e la
facevano saltare in aria. Non si sa mai fino a che punto si possano spingere queste
panzane.
«Andy, perché continui a farci ostruzionismo? Perché vuoi farti del male? Questa
gente, i miei superiori, non mi permetteranno di aiutarti, a meno che tu non dica
loro ciò che hanno bisogno di sapere. Temo di non poterti più aiutare, Andy. Se tu
non aiuti me, io non posso aiutare te. »
Si allontanò. A quel punto non sapevo che cosa aspettarmi.
Avevo la testa bassa e li sentii avvicinarsi. Strinsi la mascella e aspettai. Questa
volta non usarono i fucili, solo una bella scarica di ceffoni in piena faccia. Ogni
volta che mi colpivano vicino ai denti rotti, urlavo.
Fu un errore.
Mi sollevarono la testa per i capelli per mirare meglio e cominciarono a
picchiarmi sistematicamente in quel punto.
I ceffoni divennero pugni che mi rovesciarono dalla sedia, ma rispetto al
pestaggio precedente non fu granché. Probabilmente pensavano di essere ormai
riusciti a fare breccia, pensavano che mi occorresse solo un po' di
incoraggiamento. Durò meno di un minuto.
«Ascolta, Andy... stiamo cercando di aiutarti. Tu non vuoi aiutare noi? »
«Certo che lo vorrei, ma io non so niente. Vi aiuto più che posso.»
« Dove sono tua madre e tuo padre? »
Ripetei la mia storia.
«Ma com'è che non sai in che Stato dell'America si trova tua madre? »
«Perché non ho più niente a che vedere con lei. Lei non mi voleva. Così è andata
in America e io mi sono arruolato nell'esercito. »
«Quando ti sei arruolato nell'esercito?»
« A sedici anni. »
« Perché ti sei arruolato? » «
« Ho sempre desiderato aiutare le persone, ecco perché faccio l'infermiere. Non
voglio combattere. Sono sempre stato contro la violenza. »
La storia della famiglia era una falsa pista. Non so se la volle demolire a ogni
costo solo per una questione di orgoglio.
«Andy, senti... in questo modo non può funzionare.»
Il pestaggio ricominciò. i ..> r , -, >
Il corpo si adatta, e svieni più in fretta. La tua mente lavora in due modi. Una
parte ti dice che ne sei fuori. E' come stare sdraiato a letto quando sei sbronzo
fradicio... la mente gira come una trottola e una voce ti dice: mai più. Questa volta
ero totalmente fuori gioco. Fu una bella legnata, dopo di che non ebbi più bisogno
di accentuare nulla. Ero incoerente. Svenni, e quando rinvenni ero ancora
incoerente.
A svegliarmi fu un ragazzo che mi spense la sigaretta sul collo.
Ero nell'oscurità, bendato e ammanettato, sdraiato con la faccia nell'erba. Avevo
un mal di testa pazzesco, le orecchie mi prudevano e mi bruciavano.
Su qualche punto della faccia sentivo il sole, ne avvertivo la luminosità. La mia
mente era confusa, ma mi resi conto che a un certo punto dovevo essere stato
trascinato fuori della stanza e gettato all'aperto. Volevo far riposare la testa, ma
non potevo sdraiarmi su un fianco per via del gonfiore, né mettermi sull'altro a
causa delle ferite.
Proprio alle mie spalle udii la voce di Dinger. Stavano spegnendo sigarette anche
su di lui. Era bello sentirlo, anche se stava gemendo e lamentandosi. Non potevo
né vederlo né toccarlo perché ero voltato dall'altra parte, ma sapevo che c'era e mi
sentii un po' più al sicuro.
Dovevano esserci tre o quattro guardie che ci usavano come portacenere. Negli
ultimi giorni gli avevamo fatto vedere i sorci verdi, ed era logico che si
divertissero a farcela pagare.
Arrivarono altri soldati ad assistere allo spettacolino e contribuendo con un calcio
o un colpetto. Ci prendevano in giro e ridevano. Uno di loro mi appoggiò dietro
l'orecchio una sigaretta accesa e la lasciò lì finché non fu bruciata del tutto. I suoi
compagni apprezzarono molto l'idea.
Anche se ero bendato, continuavo a guardare verso il basso, cercando di apparire
spaventato. Volevo vedere Dinger, avevo bisogno del contatto fisico con lui, di
sentirmi vicino a lui: avevo bisogno di non essere solo.
A faccia in giù, mentre la sigaretta mi bruciava dietro l'orecchio, mi agitai
convulsamente riuscendo a farmi scendere la benda sul naso. Finalmente vedevo
la luce del giorno. Quando si è bendati, si prova un atroce senso di insicurezza,
perché sembra di essere ancora più vulnerabili.
Questa è la mia ultima ora, mi dissi, cerchiamo di vedere il più possibile. C'era un
magnifico cielo limpido. Ci trovavamo sotto un piccolo albero da frutto, con un
uccellino che cominciò a cantare. Il veicolo isolato a venti metri di distanza avviò
il motore: si sentiva parlare, e tutto era piuttosto tranquillo e piacevole. Dall'altra
parte del muro arrivava il brusio della città, con i sibili e i rombi dei motori, oltre
a un urlio generale. Sentii il cancello principale aprirsi a cinquanta metri da noi,
poi dei veicoli che uscivano e si allontanavano. Era tranquillo e sicuro come
trovarsi in un giardino incantato di un'altra epoca.
Pensai: ho visto e fatto quello che potevo. Se proprio deve succedere, che sia
adesso. Non pensavo tanto a Jilly e a Kate. Ci avevo pensato nel canale di
drenaggio, concludendo che non potevo farci granché, e non era il momento di
preoccuparsi. Avevo fatto del mio meglio per provvedere a loro finanziariamente.
Avevo preparato le lettere, e in fin dei conti loro sapevano che le amavo e io
sapevo che loro amavano me. Non c'erano grossi problemi: avrebbero detto loro
che ero morto, punto e basta.
C'erano altre cose su cui volevo concentrarmi adesso. In Breaker Morant, un film
sulla guerra anglo-boera, mentre si incamminavano verso il luogo dove sarebbero
stati giustiziati, i protagonisti avevano teso le mani e se le erano strette. Io non
sapevo se avevo voglia di toccare Dinger, o di dire qualcosa: ma al momento della
fine avrei voluto essere in contatto con lui.
Arrivarono altri soldati, a mollare calci e tormentarci con i fucili. Abbassarono lo
sguardo su noi due poveri mucchi di stracci e risero e ci presero per il culo,
ridacchiando come una banda di ragazzini... e probabilmente alcuni di loro lo
erano davvero.
Ma non mi sembrò più l'incubo di prima: o non sentivano più il fascino della
novità, oppure semplicemente mi stavo abituando.
Mi limitai a tenere la testa bassa e stringere i denti. A ogni calcio gemevamo e
grugnivamo tutti e due perché facevano male, ma non tanto per l'impatto del
calcio quanto perché risvegliavano dolori e ammaccature precedenti. Inveivano
contro Bush e Mitterrand, e quando videro che avevo la benda abbassata fecero
segno di tagliarmi la gola, ci puntavano le pistole e dicevano bang bang. Ci avrei
fatto caso se fosse stato parte di una strategia, ma quegli stronzi si stavano
divertendo e basta.
Alcuni veicoli si accesero e i conducenti scaldarono i motori. Dagli edifici alle
nostre spalle sentimmo una serie di urla e ordini, e io sussultai. Avevo
l'angosciosa sensazione di affondare: ecco che ci risiamo, pensai... perché non
possiamo restare un'altra ora, è carino qui al sole, abbiamo avuto un bell'intervallo
tranquillizzante...
Sperai che il rumore provenisse dagli ufficiali e non significasse una nuova
esagitazione della truppa. Gli ufficiali sembravano avere uno scopo, con loro si
poteva anche parlare. Con i soldati semplici erano solo calci e pugni.
Sentii sbattere le portiere dei mezzi, quindi un diffuso brusio che indicava attività.
Stava per succedere qualcosa. Contrassi i muscoli nell'attesa.
Non sapevo cosa avrei gridato a Dinger. Forse: «Dio salvi la regina! » Ma no...
probabilmente no.
Qualcuno mi slegò i piedi, ma la benda e le manette rimasero al loro posto. Fui
afferrato rudemente per i fianchi e mi issarono in piedi. Dopo il lungo riposo il
mio corpo cominciò a risvegliarsi: i lividi pulsavano. Mentre mi spintonavano, le
ferite che si erano rimarginate si riaprirono. Non mi reggevo in piedi, quindi
dovettero trascinarmi.
Fui gettato sul retro di un pick-up scoperto e poi trasportato avanti, finché mi
legarono sopra la cabina, fra due soldati. Pensai che ci avrebbero portati via per
ucciderci. Ero alla fine? Il mio grande progetto di dire qualcosa a Dinger era
andato in merda, ed ero arrabbiato con me stesso.
Mi tolsero la benda e sbattei le palpebre alla luce violenta del sole. Davanti a noi
non c'erano altri mezzi. Non mi permettevano di voltarmi, quindi non sapevo se
Dinger fosse dietro di me. I soldati battevano dei colpi sul tetto, il conducente e
quello al suo fianco tenevano le mani fuori e anche loro battevano contro la
lamiera. Tam-tam festosi da tutte le parti.
Arrivò uno degli ufficiali, che mi disse: «Adesso ti mostriamo alla nostra gente ».
Stavo ancora cercando di aggiustare la vista, ero totalmente stordito dal sole e dai
rumori. Dovevamo far parte di un convoglio di cinque o sei pick-up Toyota e
Land Cruiser nuovi di pacca. Alcuni avevano ancora la plastica sui sedili: però
erano coperti di polvere del deserto, e dovettero spazzarla dal lunotto sotto di me
per permettere al conducente di vedere.
Aprirono il grande cancello per fare uscire il convoglio e fummo accolti da una
folla in delirio, come se stessero uscendo dal tunnel di Wembley le due squadre
finaliste della Coppa d'Inghilterra. Davanti a noi c'era una massa compatta di
gente - donne con bastoni, uomini con fucili o pietre, tutti in caffetano - che
agitava foto di Saddam. Alcuni saltellavano per la gioia, altri blateravano slogan,
additandoci e lanciando sassi. I soldati cercavano di fermarli perché venivano
colpiti anche loro.
Questo appena fummo usciti dai cancelli. Pensai: ecco, ci siamo, ci portano da
qualche parte per fucilarci. Faremo un rapido giro per la città, gireranno un video
e poi ci faranno fuori.
Svoltammo a destra sul viale principale e la folla ci sciamò intorno. Dovemmo
fermarci quasi subito, mentre i soldati cercavano di respingere la gente e il
guidatore si faceva strada con la mano sul clacson. Avanzavamo di pochi
centimetri alla volta, tentando di farci largo. La folla inveiva: «Abbasso Buush!
Abbasso Buush! » e io ero lì come il presidente alla testa di una parata.
Anche i soldati erano fuori di testa. Tutti sparavano in aria, perfino dei ragazzini
di dieci anni con i loro bravi Kalashnikov.
L'unica cosa che riuscivo a pensare era che uno di quei proiettili mi avrebbe
ucciso. E anche che era una giornata calda e bellissima.
Di tanto in tanto venivo colpito da un bastone o da una pietra. I soldati che mi
stavano a fianco saltellavano su e giù per l'eccitazione. Avevo solo le calze ai
piedi e loro ci atterravano sopra con gli stivali. Mi sentivo debole, avrei voluto
appoggiarmi alla cabina, ma loro mi tenevano la testa avanti per essere sicuri che
tutti mi vedessero.
Alla mia destra comparve Dinger, anche lui sopra un pick-up Toyota. Quando
fummo vicini, riuscì a rivolgermi un sorriso. Fu il momento migliore di tutta la
giornata. L'aspetto di Dinger era lo specchio di come mi sentivo: il mostro della
palude al massimo dello splendore, ma guardandolo pensai: cazzo, non credevo
che potesse diventare più brutto di quanto era già. Senza dubbio fu il momento
più felice dopo la cattura. La strizzatina d'occhi e il fievole sorriso erano proprio
quello di cui -avevo bisogno. Ne trassi una forza immensa... per una questione di
fiducia personale, direi. Se lui era riuscito a sopportare tutto quanto e a sorridere...
cazzo, pensai, posso riuscirci anch'io. Provai per lui un affetto incredibile, e sperai
di essergli stato altrettanto utile. Per quanto ne sapevo, era l'ultima volta che avrei
visto un compagno.
Procedemmo nel casino percorrendo il viale principale della città. La folla
inneggiava e agitava i pugni, il rumore era incredibile. Non sapevano nemmeno
chi o che cosa fossimo. Potevamo benissimo arrivare da Saturno, ma comunque
eravamo i cattivi.
Alcuni soldati facevano festa con i civili; altri correvano intorno a noi tentando di
tenere sotto controllo la folla. Tutti cercavano di evitare le pietre e i bastoni che ci
lanciavano. Si sentivano spari dappertutto; anche i soldati della nostra scorta
sparavano in aria.
«Abbasso Buush! Abbasso Buush! »
La gente entrava e usciva dai piccoli negozietti arabi con le inferriate. «Non
rubare», dice il Corano, ma dovunque tu vada in Medio Oriente i negozi hanno le
sbarre di sicurezza per proteggersi dai furti dei correligionari musulmani. Tutti
avevano foto di Saddam e indicavano la sua faccia, baciandola e invocando Allah.
Avanzavamo un po' a passo d'uomo, quindi ci fermavamo per far spostare la folla.
Mi facevano male le gambe. Guardai verso Dinger che sorrideva da un orecchio
all'altro e mi chiesi cosa diavolo ci trovasse di spassoso. Pensai che era ammattito.
Poi capii: li stava sbeffeggiando! Allora mi dissi: che cazzo, qui stiamo per andare
a morte, e allora perché fare la parte dei conigli? Mi caricai. Vaffanculo a tutti!
All'improvviso, l'unica cosa che contava per me era di non apparire una merda.
Dovevo mostrarmi al massimo della forma. Fissai negli occhi la folla e regalai un
po' di sorrisi. Uno dei soldati mi vide e lo segnalò alla guardia di destra, che mi
rifilò un ceffone e un pugno. Guardai Dinger e ridemmo di loro: sembravamo
Leslie Grantham quando apre un supermarket. Se non avessimo avuto le mani
legate, avremmo salutato con la mano come la regina.
La nostra risata li eccitò veramente. Alcuni la presero bene, altri meno. Stavano
impazzendo. Fu una scelta del tutto controproducente, ma era inevitabile. Le
guardie ci allungarono un ceffone per sottometterci di nuovo e far bella figura. Ma
che cazzo!, io mi sentivo meglio. Da sinistra arrivò una grossa berlina americana.
Due ufficiali alzarono lo sguardo, ci indicarono e scoppiarono a ridere. Dato che li
mettevamo di buon umore, ricambiai con il mio sorriso presidenziale. Quelli
gradirono, ma fecero cenno ai soldati che ci pestarono di nuovo.
Pagammo il prezzo di quella presa per il culo quando arrivammo dall'altra parte
della città. La folla ci stava aspettando, cercando di superare il cordone di
sicurezza e discutendo con i soldati perché voleva menarci. Saltellavano a destra e
a sinistra: era solo questione di tempo prima che il cordone venisse travolto o
ritirato volontariamente; la mia sola preoccupazione era che uccidessero me e non
Dinger.
Fui trascinato giù dal veicolo: cercai disperatamente Dinger.
Avevo bisogno di lui, perché era il mio solo legame con la realtà.
Poi vidi che gli stavano facendo la stessa cosa.
Non avevo paura di morire: non ne avevo mai avuta, purché fosse una cosa rapida
e pulita come era successo a Mark.
Jilly l'avrebbe saputo? Avrebbe mai saputo che ero disperso?
Alle necessità materiali avevo provveduto, e non c'era nient'altro che potessi fare
per lei. Ma l'elemento emotivo contava: sarebbe stato bello poterle dire addio.
Che maniera di morire...
Cazzo! Cazzo! Cazzo!
Il lezzo cittadino era terrificante. C'erano puzze primordiali - di cucina primitiva,
di vecchi tizzoni, di piscio stagnante - miste a quelle di spazzatura marcia e
scarichi diesel.
La città era una curiosa miscela di medievale e moderno. Il viale principale era
stato asfaltato di recente; il resto era polvere e sabbia. C'erano Land Cruiser
appena uscite dal concessionario e soldati con gli stivali puliti e scintillanti,
uniformi di taglio occidentale e la folla nei caffetani puzzolenti, con i sandali o a
piedi nudi. A un certo punto, fui gettato a terra e vidi vicino all'occhio un grosso
alluce che sembrava una salsiccia tagliata, con sopra il sudiciume di una vita.
C'erano ufficiali in divise immacolate e giovani soldati dall'aria sana, ma anche
civili con tre denti in tutto, e anche quelli neri e rovinati; e gli arabi neri con la
faccia piena di cicatrici e le ginocchia e i gomiti bianchi e coperti di croste per
mancanza di igiene e idratazione, e i capelli impolverati e unti acconciati alla
rasta.
Le costruzioni erano in fango e pietra, quadrate, con il tetto piatto. Dovevano
avere circa duecento anni, ma ai lati avevano appese le pubblicità più recenti della
Pepsi. Nell'ombra si aggiravano cani vecchi, ossuti e rognosi che si cibavano di
rifiuti e pisciavano. Dappertutto c'erano mucchi di lattine arrugginite.
A un certo punto del viale si apriva un giardino centrale, e nel mezzo di questo,
giusto dirimpetto a noi, sorgeva un parco giochi per bambini, pieno di strutture
tubolari d'acciaio e di altalene gialle e blu sbiadite. Era il tipo di attrezzature che
in Gran Bretagna si trovano in un normale quartiere residenziale, ma in quel
mondo sembravano irreali. In pratica quello Stato era ininterrottamente in guerra
da parecchi anni, e c'erano povertà, merda e sudiciume ovunque. Chissà come
cazzo si dice «Tidworth» in arabo, ma era proprio così: un posto vecchio e
merdoso.
Eravamo sul bordo della strada ad aspettare la morte. I soldati ci afferrarono, ma
le mie gambe si erano arrese e barcollai. Dovettero trascinarmi verso il pubblico.
Ci esibirono come trofei di caccia, tirandoci per i capelli, assicurandosi che tutti ci
vedessero bene.
Questa volta non stavo sorridendo. Stavo cercando Dinger: avevo paura di
perderlo nella folla. Volevo solo restargli vicino.
Lo sentivo urlare quanto me, e di tanto in tanto lo intravedevo. Fu un momento
terribile.
La folla rumoreggiava, facevano i gorgheggi indiani. Ci avrebbero consegnato
alla folla? Ci avrebbero squartati? Arrivarono alcune donne anziane che mi
tirarono i baffi e i capelli e mi colpirono con bastoni e pugni. Caddi a terra e la
gente si avvicinò. Mi gettavano in faccia le foto di Saddam e me le facevano
baciare.
Buona parte della folla non sapeva nemmeno che c'era la guerra. Quanto alle
donne, represse da secoli dalla cultura e dalla religione, quella probabilmente era
la loro unica occasione di picchiare un uomo adulto.
Dopo un po' mi resi conto che i soldati cercavano di controllare la folla:
evidentemente non volevano che fossimo linciati, perché notai che bloccavano
chiunque avesse un fucile o una pistola. Forse la parata era solo un'operazione di
immagine a beneficio della popolazione locale.
Le donne mi graffiavano la pelle, mi lanciavano in faccia frammenti di cibo
masticato e mi rovesciavano in testa pitali pieni di orina. Vecchie immagini del
Vietnam mi tornarono alla mente. Mi ricordavo foto di piloti con la faccia
stravolta dopo essere stati trasportati attraverso le città che avevano appena
bombardato. Era proprio così che mi sentivo.
Non riuscivo più a muovermi. Caddi addosso a uno dei soldati e lo abbracciai.
Arrivò un suo collega e lo aiutò a sollevarmi. Mi trascinarono sul terreno,
graffiandomi orribilmente le punte dei piedi. Di tanto in tanto dovevamo fermarci
per permettere a un vecchio di sessant'anni di darmi un pugno nella pancia. Ero
completamente andato e non mi importava più di niente.
Non so quanto durò, ma sembrò una vita. In lontananza si sentirono spari e
arrivarono di corsa vari ufficiali a controllare i soldati, che a loro volta stavano
cercando di controllare la folla. Era paradossale essere protetto dagli stessi che
un'ora prima mi avevano spento la sigaretta sul collo. Prima erano i bastardi:
adesso erano i salvatori.
Sentii Dinger rispondere agli insulti. Sapevo che avremmo dovuto tentare di fare
la parte dei rottami, ma ormai ci stavamo adattando alla situazione e ne avevamo
piene le palle. Era venuto il momento di dimostrare qualcosa. «
Scoccai un'occhiataccia alle ragazze: un attimo dopo ero a terra sotto una
sventagliata di ceffoni e graffi, e due soldati si avvicinarono per sollevarmi.
Sempre in ginocchio, alzai lo sguardo verso uno di loro e dissi: «Vaffanculo,
stronzo figlio di puttana! »
Capirono quello che volevo dire: la traduzione era nei miei occhi.
Mi tirarono su. Li spinsi via e ripetei: « Vaffanculo! » Non me ne fregava un
cazzo di quello che avrebbero fatto: ero comunque distrutto. Ma loro avevano
perso la faccia, quindi dovettero darmi un'altra pestata per recuperare credibilità.
Ricordai una conferenza tenuta da un prigioniero di guerra americano appena
prima che partissimo da Hereford. Era pilota ai tempi del Vietnam, dopo essere
stato trasferito dal corpo dei marines. Durante l'addestramento gli avevano
spiegato che più sei duro e aggressivo al momento della cattura, prima i tuoi
carcerieri ti lasceranno andare. Be', li di fronte a noi, cinici e duri soldati di
Hereford, pianse tutte le sue lacrime raccontandoci dei cinque anni in cui era stato
prigioniero dei vietcong.
« Che marea di stronzate », disse. « Gli incubi e le sofferenze incredibili che ho
sofferto perché credevo veramente a ciò che mi avevano insegnato. »
Be', stavo facendo esattamente ciò che lui ci aveva raccomandato di evitare, ma
ormai ne andava del mio orgoglio e della mia credibilità. Sapevo che era
controproducente, sapevo che non avrebbe pagato, ma... Dio, che sollievo mi
dava. Per una frazione di secondo ero tornato padrone della situazione, e questa
era la sola cosa che contava. Non ero più una mercé, non ero un sacco di merda,
ero Andy McNab.
I soldati ridacchiavano mentre tornavamo alla base. Avevano passato una giornata
meravigliosa ed erano contenti di lasciarmi in pace in un angolo del pick-up, a
quattro zampe, sanguinante e semiasfìssiato mentre loro fumavano, ridevano e
rivivevano la scena. Io ero abbastanza soddisfatto che tutto fosse finito e che non
mi avessero ucciso.
Era più o meno il crepuscolo quando ritornammo all'interno della base: non mi
rimisero nemmeno la benda trascinandomi verso la caserma, una costruzione a un
solo piano. Lungo le pareti c'erano cinque letti. Sembrava che i ragazzi non
avessero armadietti, né niente di personale. Avevano solo i letti e le coperte:
coperte dozzinali, pelose, con disegni di tigri e strani e mirabolanti motivi
geometrici. Sopra le coperte c'erano i cinturoni.
Sembrava una base di transito piuttosto che una caserma permanente.
La sola luce proveniva da una stufa a cherosene che ardeva al centro della stanza.
Ondeggiando, la fiamma proiettava ombre in tutte le direzioni. Faceva un caldo
delizioso, il tipo di caldo che ti fa subito sentire stanco e fa venire sonno. Era un
calore che riconoscevo; anche le ombre erano familiari, e fui pervaso da una
piacevole e confortante sensazione di sicurezza. Ero tornato a Catford, in casa di
mia zia Nell. Da bambino adoravo andare da lei. Aveva una grande casa con tre
camere da letto, dove faceva anche pensione. Rispetto all'appartamento dei miei,
mi sembrava un hotel. Di notte, zia Nell metteva nella mia stanza una stufa a
cherosene. Sotto le coperte, ero felice quanto può esserlo un bambino di nove anni
che osserva le onde danzare sulla tappezzeria, pregustando la colazione del
mattino dopo. Con i corn-flakes, zia Nell preparava il latte vero invece dell'acqua
calda con una cucchiaiata di latte in polvere cui ero abituato, e per i suoi ospiti
cucinava pacchetti di Vesta al curry. Se mio zio le diceva che avevo fatto il bravo,
ne dava uno anche a me.
Il vecchio zio George era un abile giardiniere. Aveva un grande giardino con in
fondo un capanno dove io giocavo. Era un vecchio furbacchione. Mi diceva: «
Comincia a scavare qui, Andy, e conta quanti vermi ci sono. Dobbiamo sapere
quanti vermi ci sono, così sappiamo quanto è buono il terriccio ».
Io scavavo come se fossi stato investito di una missione, mentre lui rimaneva
seduto sulla sua sdraio a bere il tè, ridendo come un matto. Non compresi mai
l'inghippo; pensavo che era fortissimo contare i vermi per lo zio George.
Per una ventina di minuti mi lasciarono tranquillo, con una mano ammanettata a
qualcosa di metallico sul muro. Cercai di mettermi comodo, ma le manette
funzionavano con un sistema dentato per cui, se ti muovevi nel modo sbagliato, si
stringevano ancor di più. Mi sistemai in posizione semisdraiata, inclinato a 45
gradi e con la mano sollevata.
Provai a valutare i danni. Mi faceva male dappertutto e temevo di avere qualche
frattura. Ero preoccupato soprattutto per le gambe: mi facevano un male boia e
non mi reggevano più. Controllai le ossa a una a una, cominciando dai piedi,
cercando deformazioni, assicurandomi di riuscire a muoverle. Tutto sembrava a
posto, e c'erano buone probabilità che non avessi nulla di rotto.
Respiravo attraverso il sangue incrostato, la polvere e il muco, e ogni volta che
soffiavo per pulirmi il naso cominciavo a sanguinare. Avevo delle brutte ferite, la
faccia gonfia, le labbra spaccate e lacerazioni in ogni angolo esposto di pelle. Ora
che avevo veramente il tempo di respirare e riflettere, il mio corpo fece tutte le
sue rimostranze. I graffi erano molto più dolorosi dei tagli, ma nel complesso la
struttura era intatta. Avevo solo danni muscolari, tagli e lividi. Ero debole ed
esausto, ma se si fosse presentata l'occasione potevo ancora alzarmi e scappar via.
Avevo cercato di raccogliere quante più informazioni possibili per cercare di
orientarmi: ripensai a quello che avevo visto e a dove mi trovavo. Certo, avrei
potuto fare di meglio, perché avevo guardato troppo a terra invece che intorno a
me. Se fossi scappato e avessi superato il cancello, da che parte sarei andato?
Avrei girato a destra, a sinistra, o sarei andato dritto? Se fossi uscito dal retro,
dove sarei andato? Quanto all'interno della città si trovava la base? Avrei dovuto
allontanarmi dall'abitato il più in fretta possibile. Da vero coglione, quando ero
fuori, invece di guardarmi in giro mi ero lasciato distrarre dalla folla.
Esaminai le possibilità. Questo esercizio in parte era realtà, in parte
immaginazione. Realtà perché stavo facendo quello che l'addestramento mi
richiedeva, cioè valutazioni su come uscire da quel posto. Immaginazione perché
stavo immaginando me stesso mentre scappavo, svoltavo a destra eccetera,
pensando a cosa avrei visto e a cosa avrei avuto alle spalle. Sì, bisognava togliersi
di lì.
Mi guardai intorno. Sopra di me c'era una finestra: solo una metà era aperta, l'altra
era coperta da un'asse perché era rotta, o forse per impedire al sole di entrare.
Sentivo i soldati che bighellonavano all'esterno, grida a media distanza. Le voci
appena oltre la finestra erano basse e tranquille - un mormorio sotto la veranda, a
non più di cinque o dieci metri - come se gli avessero detto di mettersi lì e tenermi
in soggezione.
Speravo che Dinger godesse dello stesso trattamento, perché seduti sul tappeto
non si stava affatto male. La solitudine era una sensazione inebriante: me ne stavo
lì in pace, a osservare il caldo scintillio della stufa, inspirando quel fumo
familiare. Non c'era casino, solo io con la mano assicurata al muro. Era davvero
un momento super.
Cominciai a pensare alla mia pattuglia. Gli altri erano stati catturati? Erano morti?
Dinger sapeva qualcosa di loro? Avrei avuto la possibilità di parlargli?
Cercai di mantenermi immobile. Il cuore mi batteva lentamente, e il corpo era
rigido e dolorante. Muovermi mi faceva male: volevo trovare una posizione
comoda e restare fermo. Alcuni tagli si erano appiccicati al tessuto della divisa, e
quando mi muovevo si riaprivano. Il sangue mi aveva incollato le calze ai piedi.
Dovevo avere l'aria di un barbone: era una settimana che non mi lavavo, e avevo
la pelle nera. I miei capelli, già sudici dopo il tentativo di evasione e fuga, adesso
erano incrostati di fango e sangue. Era difficile anche distinguere il tessuto
mimetico della mia uniforme. I miei pantaloni sembravano i jeans di un ciclista.
Perché ci avevano riportato alla base? Non ne avevo idea. Evidentemente erano
ancora nella fase di interrogatorio tattico.
Aspettavano qualcosa o qualcuno. Trassi un profondo respiro, espirai e cominciai
a pensare a qualche metodo di fuga. All'improvviso ricordai che avevo ancora la
carta geografica e la bussola. Le sentivo attaccate alla cordicella dei pantaloni.
Ottimo: almeno avevo qualcosa, potevo basarmi su quello.
Pensai a tutte le belle cose che avevo fatto con Jilly, a tutte le vacanze stupide che
avevamo passato assieme, ai gelati che le avevo spiaccicato in faccia. Mi
venivano in mente le cose che mi avevano fatto ridere con lei, tutte quelle
sciocchezze da ragazzi imm'aturi. Cercando di immaginarmi cosa stesse facendo
in quel momento, ripensai a un sabato di due settimane prima che partissi per il
Golfo. Come al solito, Kate passava il week-end da noi, ed era sdraiata con me sul
pavimento a guardare Robin Hood. Little John stava facendo la sua danza e io mi
alzai e la feci con lei. Ballammo e ballammo, cercando di scalciare sempre più in
alto, finché crollammo sul tappeto storditi, ridendo come matti.
Ripensai al suo primo Natale. Non l'avevo vista molto fino allora, perché in
febbraio, quando era nata, ero via, ed ero tornato quando aveva già sei settimane.
Nei tre mesi successivi ero andato a trovarla solo sporadicamente. Quel Natale,
invece, ero libero ed eravamo a casa di amici sulla costa meridionale. Kate non
dormiva molto, il che per me era una meraviglia, perché era la prima volta che
stavamo da soli. A mezzanotte portavo fuori la carrozzina - la coprivo per bene,
intendiamoci - e andavamo a passeggio lungo la costa fino alle sei del mattino.
Dopo la prima mezz'ora lei si riaddormentava e io, mentre camminavo, le
guardavo il faccino e ridacchiavo come un beota. Quando tornavamo, lei si
svegliava di nuovo e io la mettevo in macchina e andavamo a fare un giro.
Continuavo a guardare sopra la spalla per controllare se stava bene. Aveva due
occhi azzurri incredibili: mi fissava da sotto le copertine di lana e il suo berretto
da baseball... Fu un periodo stupendo. Poco dopo dovetti ripartire, e nei due anni
seguenti la vidi per un totale di dodici settimane.
Fuori si sentirono dei rumori: il mio piccolo eden di sogni stava per essere invaso.
Avevo paura. Sarebbero venuti a darmi un'altra razione di botte? Dopo la calma,
quell'apprensione era terribile, come un mondo che aspetta di crollare. Merda,
pensai, hanno già avuto da divertirsi, perché adesso non mi lasciano in pace?
Sentii una corrente d'aria e la porta si aprì. Alzai lo sguardo e al centro della
stanza vidi un uomo. Era sulla cinquantina, alto uno e sessanta, con un grosso
pancione sotto il caffetano di lana.
Aveva i baffi ben curati, i capelli neri pettinati indietro e le mani curate: la luce
colpì i suoi denti facendoli brillare. Ansava e mi insultava in arabo. Le due
guardie che erano entrate con lui si sedettero su uno dei letti a fumare e a
chiacchierare, ma osservavano con attenzione.
Il tizio aveva una pistola alla cintola, ma non ci feci molto caso, perché in quel
posto erano tutti armati, cani e porci. Si fermò vicino alla stufa urlando e
gesticolando. Con il bagliore del cherosene sotto la faccia, sembrava un mostro di
Halloween con il mento appuntito.
Venne verso di me e mi prese la faccia, stringendomi la mascella nella mano.
Sentii un'esplosione di dolore nella zona dei denti rotti, e gemetti chiudendo gli
occhi. Non volevo sapere cosa stava succedendo. Lui mi restò vicino, l'alito gli
puzzava di spezie. Mi spalancò gli occhi con il pollice e l'indice. Che cazzo aveva
intenzione di fare?
Ebbe uno scambio di battute molto rapido e aggressivo con le guardie, poi mi
mollò una scarica di sberle in faccia. Infine fece qualche passo indietro ed estrasse
una Makharov. Carino, pensai, che cos'è questa storia? Mirò verso di me, ma
senza mettere il colpo in canna.
Era un bluff o che cosa?
Quando inserisci un colpo in canna, il cane delle pistole semiautomatiche resta
armato. Se premi il grilletto, spara e si ricarica da sola, restando sempre con il
cane armato. Se non vuoi sparare, metti la sicura. Il cane si abbatte, ma raggiunge
il percussore per via di un blocco che esce quando sposti la sicura. E' diversa da
altre pistole semiautomatiche, che hanno sempre una sicura, ma quando questa è
inserita il cane rimane armato.
Stavo guardando attentamente per vedere se il cane era armato. In caso
affermativo, avrei saputo che non stava bluffando e che se era nervoso poteva
sparare per sbaglio e uccidermi comunque. Lo guardai in faccia: aveva
un'espressione addolorata e due occhi gonfi in cui vidi luccicare le lacrime. I
nostri sguardi si incrociarono, lui cominciò a piangere e la pistola gli tremò nella
mano.
Le guardie non gli avrebbero sicuramente permesso di sparare nella loro bella
caserma pulita, vero? Ma i suoi occhi lo tradirono. Senza dubbio era deciso a
premere il grilletto. Non sembrava un militare: era lì di straforo. Ma aveva l'aria
disperata, perciò, anche se non era militare, cosa cambiava? L'avrebbe fatto
comunque. Pazzesco: potevo essere ucciso per il soprassalto emotivo di un civile
che non c'entrava niente!
Forza, stronzo, muoviti, facciamola finita.
Le guardie sembrarono svegliarsi e capire cosa stava succedendo. Balzarono in
piedi urlando rabbiosamente e gli tolsero la pistola.
L'episodio mi fornì l'informazione più importante dalla mia cattura: o quei tizi
non volevano che la loro caserma fosse insudiciata o, più probabilmente, avevano
l'ordine di tenerci vivi.
Una delle guardie si avvicinò e mi strizzò le guance. « Figlio, figlio », disse, «
bum, bum. »
Uno dei nostri aveva ucciso il figlio di quell'uomo. Giusto. Al suo posto, avrei
fatto lo stesso. Sfortunatamente, però, era lui che lo stava facendo a me.
Ero seduto sul pavimento a gambe incrociate, con un braccio ammanettato alla
parete. Lui si avvicinò di nuovo e cercò di picchiarmi. Abbassai la testa e sollevai
le ginocchia, accovacciandomi in avanti per proteggermi le palle. Mi addossai al
muro più che potei. A quel punto solo il mio braccio era vulnerabile. Mi venne da
ridere: era stato lì lì per uccidermi con la pistola, ma trovava difficile mettermi le
mani addosso. Mi dava calci, ma non facevano granché male perché portava i
sandali di pelle.
Mi tirò un pugno, ma senza molta forza. Era chiaramente infuriato, ma non era in
grado di farmi male. Gli mancavano l'aggressività e la forza... meglio così.
Io simulai, emettendo gemiti e grugniti, quando mi dette una ginocchiata nella
schiena e una scarica di sberloni e mi sputò addosso. Se fosse stato mio figlio a
essere ammazzato e fossi stato nella stessa stanza con quello che l'aveva ucciso a
quel punto avrebbe urlato alla grande. In un certo senso mi spiaceva per lui perché
suo figlio era morto, e lui era un uomo troppo buono e gentile per farmela pagare.
Forse, dopo tutto, non avrebbe mai premuto il grilletto.
I soldati cominciavano a stufarsi e forse anche a preoccuparsi all'idea di dovere
poi pulire il pavimento e i muri sporchi di sangue. Lo calmarono e lo portarono
via. Quando tornarono, si sedettero di nuovo a fumare.
«Buush, cattivo, cattivo», disse uno di loro.
« Sì, Bush cattivo », ripetei annuendo.
«Major», disse lui, e grufolò come un maiale.
« Sì, Major è un maiale », confermai con un grugnito.
Lo trovarono divertentissimo. , , , », « Tu », mi indicò, e ragliò forte.
« Io sì, asino. Ih, oh. »
Rotolarono sui letti reggendosi la pancia dal ridere.
Poi si avvicinarono e mi colpirono, non tanto forte, come per pungolarmi. Non
sapendo di preciso che cosa volessero, ragliai di nuovo a squarciagola. Nuovi
scoppi di risa. A me non fregava un cazzo se volevano divertirsi alle mie spalle,
anzi: con un po' di buona volontà lo trovavo divertente anch'io. Non mi stavano
pestando, e questa era la sola cosa che contava. Era assolutamente splendido.
Andai avanti così per un quarto d'ora; seguirono un paio di minuti di silenzio,
dopo di che uno si alzò e mi diede ancora dei colpi, io feci un bello ih-oh! e loro
riscoppiarono a ridere. Che branco di deficienti.
Pensai che, se erano cosi di buon umore, forse mi avrebbero sistemato le manette.
Come ho detto prima, ero appoggiato a un angolo di 45 gradi, con la mano
sollevata. La legge di gravità me la faceva ricadere contro la manetta, e si stava
gonfiando dolorosamente. Era un tormento. Mi domandai se non potevano
legarmi a una sporgenza più bassa, come un tubo.
Indicai la mia mano e dissi: « Male, per favore, male. Ahhh ».
Mi guardarono e mi dettero un calcio, ottenendo un altro ihoh. Mentre
sghignazzavano, cercai di indicare che la mano mi faceva impazzire dal male.
Non funzionò. Per un po' continuarono a ridere, poi improvvisamente si fecero
seri. Dovevano avere pensato che fosse ora di ristabilire un po' di autorità. Così
ripresero il loro interrogatorio come se io dovessi tenere presente che non erano
semplici guardie, ma veri e propri inquisitori.
«Chi? Chi?»
Era difficile capire che cosa stavano dicendo.
« Che cosa? Non capisco. »
Continuai a indicare il mio polso, ma senza successo. Mi fecero altre domande:
guardavo quelle facce da Halloween illuminate dal cherosene, ma non riuscivo a
capirli.
Uno di loro andò a chiamare un'altra guardia che parlava un discreto inglese.
Ovviamente gli avevano detto che non capivo quello che stavano dicendo.
« Come ti chiami? »
« Andy. »
« Commando, Andy? Tel Aviv? »
« Britannico. »
«Britannico. Gascoigne? Rush? Calcio?» Si sciolse in ampi sorrisi e segnò un
immaginario gol con il piede destro.
Tutti i volti si illuminarono, compreso il mio, anche se di calcio non me ne
fregava un accidente. Quando ero ragazzino tenevo per il Millwall, la squadra
locale, ma sarò andato a vederlo giocare tre o quattro volte, standomene lì sulle
gradinate come una testa di cazzo a chiedermi il perché di tutto quel casino.
Non vedevo un tubo perché ero troppo piccolo: sapevo solo che per entrare ci
volevano un sacco di soldi. Una volta ci andai anche di mercoledì sera, ma a metà
partita uscii perché faceva troppo freddo. Le mie conoscenze calcistiche finivano
qui, e questo era il solo effetto che mi faceva il calcio: mi ricordava una gradinata
umida, fredda e ventosa... eppure eccomi prigioniero di un iracheno fanatico di
calcio, e quella poteva essere la mia speranza di salvezza.
«Liverpool! » esclamò.
« Chelsea », ribattei. \
« Manchester United! »
«Nottingham Forest! »
Scoppiarono a ridere e risi con loro, cercando di stabilire un rapporto come
suggeriva il manuale, ma l'argomento calcio non ero in grado di reggerlo molto a
lungo. Le mie conoscenze erano già pressoché esaurite.
«Da quanto tempo sono qui?» tentai. «Sapete quanto dovrò ancora restare? Mi
potete dare qualcosa da mangiare? »
«Nessun problema. Bobby Moore! »
Pensai di tentare un'altra via.
«Mai! Mai?» dissi, chiedendo dell'acqua. Detti qualche colpo di tosse secca,
assumendo la vecchia espressione da cucciolo bagnato.
Uno dei ragazzi uscì e tornò con un bicchiere d'acqua. Io la ingollai e ne chiesi
dell'altra. Questo fece sparire i loro sorrisi, perciò li ringraziai e decisi di
restarmene un po' zitto.
Erano tutti sui vent'anni, con i primi baffetti ispidi. Si comportavano come
qualsiasi giovane soldato di ogni esercito, ma quello che mi sorprese in loro era il
livello di manutenzione delle loro divise e delle armi. Mi ero immaginato che quei
beduini fossero una banda di zingari, con l'equipaggiamento sporco e trasandato:
invece le loro uniformi erano ben lavate e stirate e gli stivali lucidi. Le loro armi
erano oliate alla perfezione, e anche gli edifici: puliti e ben tenuti. Mi fece
piacere: in un certo senso la loro disciplina era una garanzia. Era improbabile che
mi avrebbero fatto qualcosa, a meno che non glielo avessero ordinato. Meglio dei
veri soldati che una banda di fanatici assetati di sangue e di bottino. Questi
avevano sopra le loro teste qualcuno che gli ordinava di pulire le armi, di lucidarsi
gli stivali e di tenere pulite le stanze.
Ma la cosa più importante era che chiaramente si poteva intrecciare un rapporto
con quelle persone: cosa che in seguito avrebbe potuto essermi d'aiuto.
Diversamente da come mi aspettavo, per loro non esistevano solo il bianco e il
nero, cioè io (il cattivo) e loro (i buoni). C'era una vasta zona grigia di interessi
comuni che avevamo già cominciato a esplorare. Fino a quel momento, ci
eravamo incontrati sul calcio. Ci parlavamo e ci rispondevamo... non ero solo un
destinatario di slogan, di violenza e interrogatori tattici. I rapporti, per quanto
tenui, si possono stabilire quasi sempre, e nella situazione in cui mi trovavo non
potevo chiedere di meglio. In quello scambio ero riuscito a ottenere l'acqua,
perciò ne ero uscito vincente. Bene... non fa mai male essere ottimisti.
Pensai che forse si mostravano amichevoli perché era finita, l'interrogatorio era
terminato. In fin dei conti erano solo ragazzi.
All'inizio Dinger e io eravamo la grande novità, la mercé che volevano vedere, i
nuovi giocattoli, i prigionieri bianchi. Probabilmente ci guardavano con
meraviglia, come qualcosa da raccontare ai nipoti. E adesso che ci avevano visto,
ci avevano parlato, ci avevano preso per il culo, erano satolli. Cominciavano ad
apparire stanchi, probabilmente per il calore della stufa e tutta l'eccitazione della
giornata. Infilarono le armi sotto il letto e misero giù la testa.
Tornai a pensare alla fuga. Togliermi le manette era impossibile, ma anche se ci
riuscivo, che cosa avrei fatto? Dovevo garrotarli e scappare? Cose del genere non
succedono, sono fantasie cinematografiche. Uccidi il numero uno senza che il
numero cinque ti senta? , ,,, , Avevo la mano fissata contro il muro, e non sarei
andato da nessuna parte. Dalla posizione in cui mi trovavo non riuscivo a
raggiungere niente. Avrei dovuto aspettare il prossimo trasporto o qualche altra
occasione.
D'altra parte, mi sentivo molto più a mio agio. Ero stato catturato, avevo superato
i traumi iniziali e adesso ero seduto in una stanza al caldo, con persone che non
mi stavano prendendo a calci. Non gli interessava più pestarmi, volevano solo
parlare di Gazza e Hobby Charlton. Ero pieno di speranza - anche se vana, lo
sapevo già - che forse d'ora in poi mi avrebbero solo tenuto li come uno degli
scudi umani di Saddam.
Man mano che passava la notte, il braccio e la mano cominciarono a farmi male.
Cercai di sviare la mia mente dal dolore riconsiderando le possibilità di fuga.
In cima alla finestra vedevo qualche stella: era una notte limpidissima. Guardai di
nuovo i soldati addormentati.
Se fossi riuscito a scappare, sarei stato in grado di raggiungere Dinger? Dov'era?
Ero sicuro che si trovasse nella base, ma se fosse stato nella stanza accanto? Non
sentivo niente. Era sotto la veranda? Giunsi alla conclusione che avrei dovuto
cogliere l'occasione se si fosse presentata, ma non potevo andarmene senza
provare a cercarlo. Sapevo che lui avrebbe fatto lo stesso, come del resto qualsiasi
membro della pattuglia. Valeva la pena di aspettare di trovarci insieme? No...
avrei afferrato la minima occasione che si fosse presentata. Quindi, qual era la
prima cosa da fare? Come scoprire la sua posizione? Avrei dovuto cercarlo
guardando dalle finestre, o chiamare? Le sue guardie sarebbero state sveglie?
Bisogna avere un piano principale e alcuni d'emergenza. La titubanza è fatale. Se
possibile, avrei evitato di muovermi allo scoperto: questa è un'altra follia
hollywoodiana. Al cinema ti vengono addosso uno alla volta, in modo da farsi
uccidere facilmente, come anatre alla fiera. Nella realtà ti attaccano tutti insieme e
ti fanno a pezzi. Avrei cercato di restare invisibile. Dovevo solo scappare, rubare
qualcosa con cui sparare, prendere Dinger, impadronirci di un veicolo. Facile!
Tutto questo all'interno di una base con truppe e, se mi andava di lusso, con un
caricatore da trenta colpi.
Una volta fuori avremmo dovuto dirigerci verso ovest. A piedi o su un mezzo?
Attraverso i campi o in città? Il tragitto dal canale di drenaggio alla base era stato
molto breve: eravamo ancora vicini alla Siria. Il nostro prossimo trasferimento ci
avrebbe portato verso zone più sicure, più lontane dal confine.
Sonnecchiai e mi svegliai per il dolore. La testa mi faceva male, il corpo peggio.
Dovevo togliermi il sangue e il muco dal naso.
Sentii motori in lontananza, poi grida: il grosso cancello di ferro battuto si aprì a
forza di calci. Era ancora buio. Alcune persone con lampade ad acetilene stavano
camminando fuori, sotto la veranda. Parlavano. Provai una fitta di apprensione.
Che stava succedendo? Trassi un profondo respiro e cercai di calmarmi. Una delle
guardie si svegliò e diede un calcio all'altra. Si alzarono in piedi.
Entrarono nella stanza cinque o sei individui che non avevo mai visto prima. Mi
sentii impotente, la sensazione che si prova da bambini quando sai di essere stato
intrappolato dalla banda rivale. Incombevano su di me nell'ombra.
Quando me la liberarono dal muro, la mia mano aveva superato la fase del
formicolio. Era gonfia e completamente intorpidita. Due ragazzi mi sostennero da
entrambi i lati sollevandomi.
Qualcuno mi passò gli stivali, ma avevo i piedi troppo gonfi per riuscire a
infilarli. Me li portai appresso come le nonne portano la borsa, stretti al petto.
Volevo tenerli: non volevo passare scalzo il resto dei miei giorni.
Mentre mi trascinavano fuori esagerai il dolore gemendo e mugolando. Dovevo
sembrare una povera testa di cazzo, e i tizi facevano un sacco di smorfie di
disprezzo. Uno mi guardò con finta solidarietà e disse: « Siamo veramente
preoccupati per te ».
L'aria fredda mi colpì. Era una sensazione fresca e tonificante, ma avrei preferito
tornare nella bella stanza calda della zia. Cominciai a rabbrividire. Non c'era una
nuvola. Se fossimo riusciti a scappare, navigare verso est sarebbe stato un gioco
da bambini.
Nessuno mi spiegò dove stavamo andando. Mi trascinarono, e per non cadere
dovetti fare dei passettini da allocco. Ci fermammo accanto a una Land Cruiser e
mi infilarono nel retro con gli stivali in grembo. Strinsero le mie manette e mi
legarono la benda fino a farmi male.
Cercai di appoggiarmi in avanti per appoggiare la testa sul sedile e alleviare la
pressione sulle mani, ma una mano sulla faccia mi spinse subito all'indietro. La
luce interna brillava attraverso la benda. La portiera sbattè rumorosamente
facendomi sobbalzare.
Strinsi i denti aspettandomi una botta in testa.
Ero seduto sulla destra e sentii dei fruscii sulla sinistra, poi una voce: «Va bene,
socio... va bene, socio».
Era Dinger, che nel fare il suo ingresso sbattè la testa e cacciò un urlo belluino.
Questa sì era una buona notizia, che mi fece riprovare quella meravigliosa
sensazione di non essere solo. Il socio si piazzò con le ginocchia contro le mie.
« Puoi aggiustarmi le mani? » gli chiesi nel buio.
Fui colpito alla nuca, ma ne valeva la pena. Ero riuscito a far capire a Dinger che
ero lì, appurando nel frattempo che dietro con noi c'era una guardia e i nostri
carcerieri facevano sul serio.
Il guidatore sembrava un ufficiale. « Voi, non parlare. Parlare, bum, bum! »
Giusto.
Ogni nostro movimento provocava da parte della guardia una punizione, ma non
potei evitare di trarre lunghi sospiri, perché le mani mi facevano molto male.
Come al solito, il veicolo puzzava di sigarette e colonia di infima qualità. Feci una
valutazione. Probabilmente il trasporto significava la fine della fase tattica: ci
stavamo avvicinando. Non avevo idea se sarebbe stato meglio o peggio. La mia
parte ottimista mi suggeriva: bene, adesso andiamo in prigione. La mia parte
professionale mi diceva: stiamo a vedere. Non sai ancora cosa succederà.
Cercai di concentrarmi per mantenere il senso dell'orientamento. Uscimmo dal
cancello e svoltammo a sinistra. Questo significava che eravamo diretti a est, non
a ovest, quindi non andavamo verso la Siria. Come se il contrario fosse stato
possibile. Il conducente andava come un pazzo. Normalmente mi sarei augurato
di fare un incidente, ma a quella velocità saremmo morti tutti quanti.
Una volta avevo visto un filmato del mago Houdini che giungeva le mani dietro la
schiena e passandoci in mezzo era capace di portarsele davanti. Mi domandai se
sarei stato in grado di farlo con tutte quelle ferite. Poi pensai: o testa di cazzo, ma
cosa ti salta in mente? Se non l'hai mai fatto in tutta la tua vita? Giuro però che
pur di scappare mi sarei trasformato in un elastico. Avevo solo bisogno di una
chance.
Mi sentivo rimbambito per via delle sigarette e del riscaldamento, ma il dolore
alle mani mi impediva di dormire. Come per assicurarsi che restassimo svegli,
misero una cassetta di musica araba: a un volume talmente alto che lì per lì non
sentii neanche cadere le bombe.

9.

DOVEVANO essere bombe da mille libbre. Udimmo parecchie esplosioni: l'area


era sottoposta a un pesante bombardamento.
Le onde d'urto ci colpirono e la macchina traballò. Le guardie imprecarono.
Il veicolo si fermò. Sentii tutti i tipici rumori dei disastri: freni che stridono, urla
di dolore e disperazione, di panico e rabbia; una donna sconvolta che piangeva, un
bambino che frignava, metallo contro pietra. Il guidatore e le guardie saltarono
fuori, e l'aria fredda ci punse il viso. Poteva essere il nostro momento. I beduini se
n'erano andati, le porte erano aperte, ma sentivo parlare.
Non vedevo cosa stava succedendo. Era snervante: dovevo dedurre gli
avvenimenti soltanto dai rumori. La strada era stata bombardata? C'erano
ostacoli? Si erano fermati per aiutare qualcuno? E,-cosa ben più importante,
adesso avrebbero ricominciato a pestarci solo perché eravamo bianchi e loro
erano stati colpiti?
Nella mia mente i pensieri si rincorrevano, ma prima che avessi il tempo di
parlare con Dinger gli iracheni tornarono e ripartimmo.
Proseguimmo per un'ora e mezzo. Il mio senso dell'orientamento era andato a
puttane non appena eravamo usciti dalla base e avevamo svoltato a sinistra: non
avevo la più pallida idea di dove potevamo trovarci. Tornai a incazzarmi con me
stesso. Quando alla fine ci fermammo, per quello che ne sapevo potevamo
benissimo essere a Timbuctù.
Ci trascinarono fuori del veicolo: io fui messo in una stanza che mi sembrò la
stessa di prima. Avevo la sensazione che le guardie fossero ancora a letto.
Qualcuno mi spinse a terra e mi ammanettò a quella che identificai come la parte
di un letto. In effetti era piuttosto comodo. Non ero rannicchiato sul retro di un
veicolo, non avevo le orecchie in mezzo alle ginocchia e una mano incatenata
troppo in alto. Mi sedetti sul pavimento a gambe incrociate, cercando di mettermi
a mio agio e di sintonizzarmi con l'ambiente. Sentivo di avere di fronte un muro.
Cercai di tirare indietro la testa in modo da riuscire a vedere oltre il mio naso.
Non vedevo altro che un pezzo della stufa a cherosene.
Rimasi lì seduto per un'ora, a riflettere sulle varie possibilità.
Sicuramente quando erano cadute le bombe stavamo attraversando un centro
abitato. Era Baghdad? Ma perché portarci a Baghdad? Per mostrarci alla gente?
Per usarci come scudi umani? E gli alleati avrebbero bombardato una prigione?
Vigliacchi, se non lo avessero fatto. Di sicuro Schwarzkopf non avrebbe fermato
l'offensiva perché Dinger e Andy erano tenuti prigionieri in un centro radar. A chi
ci avrebbero consegnato? Avrebbero girato un video? Non mi sarebbe spiaciuto:
volevo che a casa sapessero che ero ancora vivo.
Sentivo due respiri bassi e regolari. Per verifìcare se dormivano, mi chinai in
avanti appoggiando la testa sul letto. Non accadde nulla. Scivolai sul fianco destro
e misi la testa sul tappeto. Ancora nulla. Sfregando la benda contro il tappeto
riuscii ad abbassarla un po'. Ero davvero tornato nella stanza di prima.
Cercai di capire cosa era successo agli altri. Eravamo noi due gli unici
sopravvissuti? Ci avrebbero detto se qualcuno aveva passato la frontiera? Non
potevo ottenere risposta, ma era un buon esercizio mentale. Mi stavo preparando
per una lunga prigionìa, durante la quale era possibile che dovessi farne molta.
Naturalmente sarebbe stato bello essere rilasciati subito alla fine della guerra, ma
in quella fase non riuscivo proprio a immaginarmelo. Molto più probabilmente,
sarei stato tenuto in ostaggio per un lungo periodo, forse due anni.
Ripensai al prigioniero americano. Aveva passato anni da solo, e a casa tutti erano
convinti che fosse morto. La verità venne a galla solo perché organizzarono uno
scambio. C'era un marinaio americano che i vietcong avevano preso per cretino, e
gli avevano riservato i lavori più umili, come lavare i pavimenti. Fu rilasciato solo
perché era un marinaio di nessuna importanza, il classico uomo insignificante. In
realtà questo tizio era riuscito a imparare a memoria nome, grado e matricola di
oltre duecento prigionieri. Al ritorno li elencò. Tra loro c'era anche il nostro
prigioniero: per i suoi familiari fu una scoperta traumatica. Cercai di confrontare
la sua esperienza con la mia, ma non c'era paragone.
Anche un annetto sarebbe stato una cazzata... dovevo cominciare a preoccuparmi
dopo due.
Le mani erano un tormento. Cercai di sfilarle dalle manette, ma fu inutile. Erano
troppo gonfie. Considerai la possibilità di svegliare le guardie e chieder loro di
liberarmi per un attimo, ma sicuramente non avevano le chiavi, e figurarsi se
avrebbero fatto lo sforzo di andarle a cercare.
I miei pensieri ritornarono a Jilly. Chissà cosa stava facendo in quel momento.
Due ore dopo, ritornarono i tizi con le lampade ad acetilene. Come prima, mi
aprirono le manette, mi issarono in piedi e mi trascinarono fuori al freddo. Fu una
bella sensazione: pensai beffardamente che andavo a fare una lunga passeggiata
per i campi o una sciata su una bella montagna.
Nessuno parlò. Sperai, pregai che Dinger fosse con me, ma non lo sentivo. Fui
sistemato nella stessa posizione sul retro dalla parte destra, dietro i sedili, la testa
fra le gambe. Questa volta presi la precauzione di inarcare la schiena in modo da
lasciare spazio alle mie mani tumefatte, per non dovermi poi muovere
beccandomi un colpo in testa.
« No parlare o sparare », disse il guidatore.
« Okay. » » ' « Sì, okay, amico », disse Dinger accanto a me.
Dal suo tono di voce capii che anche lui era felice di sentirmi.
Ma il sollievo fu di breve durata. Proprio mentre stavamo partendo, qualcuno
sporse la testa nel veicolo e disse: « Spero che Allah sia con voi ».
Non sapevo se l'avesse detto per farmi incazzare, ma in caso affermativo ci riuscì.
Avevamo lo stesso pessimo guidatore di prima e ben presto ci ritrovammo
sballottati come sacchi di patate. Questa volta non c'era la musica, solo qualche
parola tra i tizi davanti. Di tanto in tanto si abbassava un finestrino, e un beduino
scatarrava e sputava | fuori, o urlava un saluto a qualcuno nel buio.
Ci fermammo solo in un'occasione, quando il guidatore parlò a lungo con
qualcuno sulla strada. Ebbi l'impressione che si vantasse di trasportarci. Sentii le
risatine di due o tre persone all'esterno, poi delle mani entrarono, mi tirarono i
baffi e qualche schiaffone. Mi irrigidii. Mi incazzai di più che per i calci: quelli
potevo capirli, facevano parte dell'interrogatorio tattico, ma queste teste di cazzo
si stavano solo divertendo a mie spese.
Proseguimmo in silenzio. Stavamo allontanandoci sempre più dal confine, ma
ormai non me ne importava più. Stavo troppo in ansia per le mie mani. Ormai
erano diventate circa il doppio delle dimensioni normali, e non avevo più
sensibilità nelle dita... anzi: non sentivo più nulla oltre il polso, dove le manette
erano penetrate così a fondo da farmi sanguinare come un vitello. Il dolore stava
diventando intollerabile. Di questo passo temevo che avrei perso per sempre l'uso
delle mani.
Cercai di pensare agli aspetti positivi. Almeno non ero morto.
Erano già passate dodici ore dalla mia cattura ed ero ancora vivo.
Cominciai a pensare al resto della pattuglia. Cosa potevano sapere gli iracheni di
noi? Dovevo supporre che ci avessero collegati allo scontro sulla strada e che,
avendo trovato otto zaini, sapessero quanti eravamo. Certamente avevano
scoperto anche il punto di sosta con la riserva d'acqua e cibo.
Che cosa avrebbero rivelato i nostri zaini? Conoscendo la procedura operativa
standard, sapevo che non ci sarebbero stati dettagli scritti di codici o descrizioni
della nostra missione. E l'equipaggiamento? Come avremmo giustificato gli
esplosivi, i timer e i detonatori? Avrei detto che erano sistemi di protezione... poi
avrebbero trovato le Claymore che avrebbero suffragato la mia storia. Forse non
avevano neppure riconosciuto i timer... forse i soldati si erano dati talmente da
fare a saccheggiare gli zaini che non restava più nessuna attrezzatura. Mi venne
quasi da ridere immaginandomeli al buio mentre sparavano agli zaini o infilavano
un dito in un sacchetto di plastica pieno di merda.
Una cosa di cui potevo stare certo era che non fosse rimasto nulla di
compromettente per la missione. Ripieghiamo sempre le carte geografiche dalla
parte opposta a quella che stiamo usando, e non ci scriviamo mai niente sopra.
Avevamo tutto in testa.
In questa fase contavo sul fatto che non capissero granché del nostro
equipaggiamento. Se avessero dedotto più di quanto mi aspettavo, avremmo
dovuto annaspare e trovare scuse. Il nostro problema era che non avevamo l'aria
di una normale squadra di ricerca e soccorso. A dire il vero, ormai non avevamo
più nessuna aria, sembravamo soltanto due totali sacchi di merda.
Il veicolo si fermò e dai rumori stabilii che ci aspettava un comitato di
accoglienza. In macchina cominciavo a sentirmi al sicuro, mi ero adattato... e
adesso ricominciava tutto da capo.
Parlavano sottovoce, forse perché era mattino presto. Quando i portelli posteriori
si aprirono sentii una folata di aria fredda.
Fummo trascinati fuori e condotti di buon passo attraverso un cortile. Le pietre mi
straziavano le piante dei piedi. Le ferite si riaprirono e ben presto ebbi i piedi
scivolosi per il sangue. Inciampai, e stavo per cadere, ma mi sostennero e
proseguimmo.
Salimmo un gradino, svoltammo a destra lungo una veranda e giungemmo a una
porta. Sbattei il piede contro lo stipite e urlai.
Da parte loro non ci fu alcuna reazione: erano molto professionali, tutto era stato
provato accuratamente.
Entrammo nell'edificio. C'era il solito odore di cherosene e il sibilo delle lampade
ad acetilene: mi sentii quasi a casa. Mi spinsero sul pavimento e mi fecero sedere
con le gambe incrociate, la testa bassa e le mani dietro la schiena. Li lasciai fare:
era inutile opporre resistenza. Mi strapparono la benda dagli occhi. La benda mi
aveva fatto venire delle piaghe sulle guance e sul naso.
Sussultai di dolore e il sangue mi colò lungo la faccia.
Per fortuna, vidi Dinger. Non lo avevo sentito scendere dalla macchina, e avevo
l'orribile sensazione di essere di nuovo solo.
Tolsero la benda anche a lui e ci guardammo in faccia. Dinger mi fece
l'occhiolino. Io avevo evitato il contatto visivo con i miei inquisitori da quando
ero stato catturato, e fu fantastico guardare di nuovo una persona. Una strizzata
d'occhi fu sufficiente.
Eravamo in una stanza semibuia che faceva pensare al medioevo. Le pareti erano
di nuda pietra e luccicavano di umidità. Faceva freddo, c'era odore di muschio; le
finestre erano murate con i mattoni. Il pavimento era di cemento sconnesso e-
accidentato.
Sollevai un po' la testa, cercando di stendere il collo, ma una guardia che prima
non avevo notato me la fece abbassare. Vidi che la sua uniforme era verde oliva, e
non la mimetica cui mi ero abituato.
Ero riuscito a vedere che davanti a noi c'era un tavolo pieghevole lungo un metro
e ottanta, con un paio di sedie pieghevoli.
Tutto sembrava provvisorio. Gli iracheni bevono il caffè e il tè nero dolce in
bicchierini di vetro da succo di frutta. Sul tavolo ce n'erano due o tre, mezzi pieni
di bevande presumibilmente vecchie, perché non fumavano. Due portacenere
pieni di mozziconi. Pezzi di carta sparpagliati tutto intorno. Avevano anche
appoggiato sul tavolo le loro armi.
Vicino alla porta c'era movimento, e alzai la testa. Entrarono in due: uno in
completo verde da aviatore, con un giubbotto di pelle da civile e un paio di stivali
a tacco alto con il bordo elasticizzato. Sembrava il puttaniere più vecchio della
città. Lo guardai e per poco non scoppiai a ridere. Era alto, ma con un pancione
rotondo che spingeva contro la giacca. Ovviamente quel testa di cazzo pensava di
portare ancora la taglia 48. Era tutto vestito di Gucci ed era evidente che si
credeva molto elegante, un raffinato, mentre in effetti sembrava un povero
coglione.
L'altro individuo era molto più basso e di corporatura più esile: un tipo ossuto e
imbronciato, che indossava un completo in cui doveva essere nato, con la
speranza di crescere abbastanza per riempirlo.
Le guardie portarono dentro il nostro cinturone e le armi, e rovesciarono tutto sul
tavolo. Che cosa c'era nel cinturone che poteva tradirmi? Avrebbero portato anche
gli zaini?
Mister Eleganza passò una grossa busta marrone al piccoletto ossuto. Il verso
della busta era coperto di francobolli con stelle a nove punte, mentre davanti c'era
una scritta in arabo. Si trattava sicuramente di un passaggio di consegne: o dai
commando al controspionaggio militare, o dal controspionaggio militare alla
polizia civile. Comunque fosse, ci avvicinavamo al centro.
Nessuno ci parlò: tutto si svolse come se non ci fossimo. Sembrava non facessero
alcun riferimento a noi: né sguardi, né cenni nella nostra direzione. Distendemmo
le gambe per crampi e vennero a farcele piegare di nuovo. Quando si chinarono,
sbirciai i loro polsi per leggere l'ora. Era irrilevante, ma volevo qualche legame
con la realtà. Però nessuno portava l'orologio... un dettaglio minacciosamente
professionale, benché stranamente ci avessero fatto assistere al passaggio di
consegne.
Il Top Gun gagà in giubbotto da aviatore uscì dalla stanza e subito dopo sentii
partire dei mezzi di trasporto.
Eccoci qui, con i nostri nuovi padroni di casa. , Cominciai a preoccuparmi. I
militari non indossano completini da magnaccia. Chi era quel tizio? Con i soldati,
più o meno, sai che cosa puoi aspettarti. Adesso ci avevano consegnato a
qualcuno che indossava abiti civili. Avevo sentito le storie degli orrori perpetrati
durante la guerra Iran-Iraq. Sapevo degli elettrodi e degli uncini da macellaio
appesi al soffitto. Questa gente aveva fatto per anni cose del genere in modo
professionale, ed erano organizzatissimi. Noi non eravamo una novità, arrivavamo
dopo dieci anni di esperienza, eravamo solo due vittime come le altre. La sola
speranza era che volessero mantenerci un po' bellini per girare un video. Forse
sarebbero stati meno violenti degli ultimi aguzzini, ma ne dubitavo.
Il piccoletto ossuto aveva la camicia sporca, con il colletto più grande di almeno
quattro taglie. Portava un cravattone anni '60 e i pantaloni con il risvolto.
Sembrava che avesse preso a prestito il guardaroba da Stan. Dette con voce piatta
alcuni ordini alle guardie, che tirarono su Dinger prima che potessimo guardarci
negli occhi.
Se ne andarono, e io rimasi da solo nella penombra con tre o quattro guardie.
Alcune indossavano uniformi verde oliva. I sottufficiali iracheni portano le
mostrine sul colletto, e vidi che uno era un maresciallo aiutante maggiore
equivalente alla classe 1, con due stellette. Parlava un discreto inglese.
«Tu... alza la testa», grugnì.
Perfetto. Adesso potevo dare una bella occhiata in giro. Alzai lo sguardo con
un'espressione sottomessa, sforzandomi di apparire degno di pietà.
Era davanti a me con due amici in uniforme e uno in caffetano, con il capo
scoperto e un paio di scarpe di tela.
« Come ti chiami? »
« Mi chiamo Andy, signore. »
« Americano? »
«No, sono britannico.»
« Sei americano? »
«No, sono britannico.»
«Stai mentendo! Stai mentendo!»
Mi sferrò sulla faccia un manrovescio formidabile. Caddi a terra.
« Siediti. Sei britannico? »
« Sì, sono britannico. »
« Stai mentendo. Tu sei israeliano. »
Fino a quel momento non era un interrogatorio: si stava solo divertendo un po'.
«Stanotte sono morte molte persone perché il tuo Paese sta bombardando i nostri
bambini. I nostri bambini muoiono nelle scuole. Il tuo Paese sta uccidendo
migliaia di persone ogni notte, ed è ora che tu muoia. »
Ero certo che avesse ragione, che io dovessi morire. Ma non sarebbero stati loro a
uccidermi. Questi non erano i boia incaricati: erano amministrativi, teste di cazzo
che facevano un po' di testa loro.
« Cosa ne pensi? »
« Non voglio morire. »
« Ma voi state ammazzando migliaia di persone. Siete voi che li state uccidendo,
non noi. Noi non vogliamo questa guerra. »
« Ma io non ne so niente. Sono solo un soldato. Non lo so perché fanno la guerra.
Io non volevo andare in guerra, io stavo solo lavorando in Inghilterra e loro ci
hanno costretto ad arruolarci. »
Buttai fuori tutte le vecchie coglionate, solo per mostrare che ero confuso e non
capivo né cosa stava succedendo né perché mi trovavo lì. Speravo che si
impietosissero un po', ma ovviamente non accadde.
« Mitterrand è un maiale, Bush è un maiale, la Thatcher è un maiale. Fa morire i
bambini di fame. »
« Io non ne so niente, sono solo un soldato. »
Mi beccai un'altra sventola sulla faccia e caddi a terra.
Arrivarono gli altri due e si divertirono un po'. Uno camminava avanti e indietro.
Si avvicinava, mi prendeva la faccia tra le mani e urlava; poi faceva ancora
qualche passo, si avvicinava di nuovo e mi picchiava in testa.
Il maresciallo disse: « Questo qua vuole ucciderti. E penso che adesso glielo
permetteremo ».
Capivo che stavano soltanto dando sfogo alle loro frustrazioni, e con un po' di
fortuna alla fine si sarebbero stufati. Non era un problema.
Vidi che i nostri cinturoni non c'erano più. Dovevano averli portati via quando
avevano condotto fuori Dinger. Ero preoccupato. Ci avevano diviso
definitivamente? Non lo avrei rivisto mai più? Era un pensiero sconfortante.
Sarebbe stato così bello vederlo ancora una volta prima di morire.
Cominciavano a prendere confidenza. Mi gonfiavano di schiaffi vomitando tutta
la propaganda di cui erano stati imbottiti, tutte le cose meravigliose che sarebbero
accadute quando alla fine avrebbero ricacciato dal Medio Oriente gli imperialisti
occidentali.
« Gli americani e gli europei ci stanno rubando tutto il petrolio.
Gli europei hanno diviso il nostro Paese. Il Medio Oriente è degli arabi, è la
nostra terra, è il nostro petrolio. Voi ci colonizzate e rovinate tutto. »
Io ripetei che non ne sapevo niente: ero solo un soldato, mandato laggiù
controvoglia.
Cominciarono con i pugni in testa. Uno mi si piazzò dietro e mi dette calci sulla
schiena e sui fianchi. Caddi a terra e mi raggomitolai con le ginocchia contro il
mento. Chiusi gli occhi e strinsi i denti, aspettando i colpi, ma loro mi costrinsero
a raddrizzarmi.
« Perché siete venuti a uccidere i nostri bambini? » chiesero di nuovo, ed erano
sinceri. Evidentemente in un bombardamento erano stati uccisi dei bambini, e il
fatto li aveva sconvolti. Questo non era il solito «Bastardi! » condito di calcioni
cui ero abituato: questi qui erano davvero furibondi. I calci gli venivano dal cuore.
« Perché uccidete i nostri bambini? »
«Io sono stato mandato qui per salvare delle vite», ribattei, sorvolando sul fatto
che questa dichiarazione non rifletteva precisamente le nostre attività degli ultimi
giorni. « Io non sono venuto per uccidere. »
Cominciai a sanguinare dalle vecchie ferite. Mi scese il sangue dal naso, e la
bocca ricominciò a gonfiarsi. Eppure, avevo la sensazione che in quel luogo la
situazione non fosse totalmente incontrollabile. Uno dei ragazzi doveva avere
ordinato: « Basta, per ora », perché si fermarono. Certamente avevano ricevuto
istruzioni di non eccedere, e volevano che fossimo in grado di parlare: insomma,
il brutto doveva ancora venire.
«Noi siamo in guerra da molti anni, lo sai?»
«No, non lo so. Io non so niente di queste cose. Sono molto confuso. »
« Sì, amico, abbiamo combattuto molte guerre, e sappiamo come procurarci le
informazioni. Sappiamo come far parlare le persone. E tu, Andy, parlerai
presto...»
Espettorò con un lungo, lunghissimo raschio bronchiale... e i miei ricordi
successivi sono ooop... slat! e uno sputo di un chilo dritto in faccia. Mi fece
proprio incazzare, più che se mi avessero pestato. Non potevo pulirmi, mi copriva
la faccia. Pensai che avrei contratto la tubercolosi o qualche altra malattia
infettiva.
Per come stava girando la fortuna, sarei sopravvissuto alla merda degli
interrogatori e della prigionia soltanto per tornare in Inghilterra e scoprire che
avevo una forma incurabile di sifilide irachena.
Il resto dei ragazzi pensò che fosse una gran figata, e cominciarono a sputare
anche loro, sollevandomi la faccia per mirare meglio.
«Maiale! » urlavano, spingendomi sul pavimento e continuando a sputare.
I calci li accetti perché non ci puoi far niente. Ma questa roba che si tiravano su
dai visceri o dal naso era assolutamente disgustosa. Continuarono cosi per circa
dieci minuti: probabilmente il tempo che gli ci volle per esaurire le scorte.
Mi spostarono in un angolo della stanza e mi misero contro il muro a faccia in
giù. Ero a gambe incociate, con le mani ammanettate sulla schiena, e mi
bendarono di nuovo.
Rimasi in quella posizione forse quaranta minuti, senza che nessuno mi rivolgesse
più la parola. Intorno a me sentivo parlare sottovoce e andare avanti e indietro.
Dall'altra parte della stanza sibilava una lampada ad acetilene. Faceva molto
freddo.
Sentivo il sangue delle mie ferite che cominciava a rapprendersi: era una
sensazione molto strana. Mentre esce, il sangue è caldo, da quasi un'impressione
di benessere. Poi si raffredda e si formano i grumi, viscosi e fastidiosi,
specialmente sui capelli e sulla barba.
Avevo il naso intasato dal sangue secco e dovevo respirare con la bocca. Era un
dolore tremendo, perché l'aria fredda colpiva il marasma di smalto e polpa che un
tempo erano stati i miei molari posteriori. Cominciai a sperare in un
interrogatorio, qualsiasi cosa purché mi sollevassero e mi portassero al caldo.
In mezzo a tutto, sapevo solo che mi avevano consegnato a un uomo con un
completo di Burton cinque volte più grande di lui, che sembrava il capo. Per ora
avevo detto il meno possibile, aspettando gli eventi. Mi preoccupai per Dinger.
Dove lo avevano portato? E perché? Il piccoletto se n'era andato con lui. Lo
volevano lavorare per primo? Al suo ritorno, avrei dovuto guardare Dinger pesto
e sanguinante per poi essere trascinato via io stesso?
Per carità: meglio che mi portino via senza vedere il mio socio ridotto a una
bistecca.
La porta si aprì ed entrarono le guardie. Seguì un breve scambio di battute con i
tizi nella stanza, accompagnato da risatine per come mi avevano conciato la
faccia. Mi tirarono su e mi trascinarono fuori. Uscendo svoltammo a destra,
quindi seguimmo un corridoio e in fondo a sinistra piegammo a 90 gradi. Non
riuscivo a camminare, per cui dovettero prendermi sotto le ascelle e trascinarmi.
Faceva molto freddo. Proseguimmo su un altro acciottolato, con altre sofferenze:
in città le punte dei piedi mi si erano tutte lacerate, e cercavo freneticamente di
poggiare sulle piante saltellando come un piccione in modo da non graffiare le
abrasioni.
Mancavano solo dieci-quindici metri alla nostra meta. La prima impressione che
mi colpì fu il calore: faceva un caldo meraviglioso e la stanza era piena di odori:
cherosene, fumo di sigaretta, caffè appena fatto. Mi sbatterono sul pavimento,
facendomi sedere a gambe piegate.
Attraverso le fessure della benda vidi un andirivieni di persone in una stanza ben
illuminata. Sembrava un ambiente arredato, vissuto: non una cadente area di
detenzione come quella da cui provenivo. Il tappeto era soffice, e il fuoco lì vicino
mi rasserenò.
Sentii un fruscio di carte, un bicchiere posato su una superficie dura, una sedia
che si spostava sul pavimento. Alle guardie non fu impartito nessun ordine.
Dopo una quindicina di secondi mi tolsero la benda dagli occhi. Stavo ancora
fissando il pavimento, quando una voce garbata mi disse: «Alza lo sguardo...
Andy, va tutto bene, puoi guardare».
Sollevai lentamente la testa e vidi che mi trovavo davvero in una stanza lunga non
più di sei metri: rettangolare, elegante, ben tappezzata e accogliente.
Mi trovavo vicino alla porta, proprio di fronte a un'enorme scrivania dirigenziale
in legno. Doveva essere l'ufficio del colonnello. L'uomo dietro la scrivania
appariva piuttosto distinto, un tipico ufficiale superiore. Era aitante, alto più di un
metro e ottanta, con i baffi e i capelli brizzolati. Il suo tavolo era ingombro di
cianfrusaglie: un vassoio, gli ammennicoli tipici di una scrivania e un bicchiere,
credo di caffè.
Studiò la mia faccia. Alle sue spalle spiccava l'onnipresente ritratto del vecchio
zio Saddam, in alta uniforme e tutto tirato a lucido. Ai lati della scrivania e lungo
le pareti c'era una corona di poltroncine senza braccioli, di quelle che si possono
mettere assieme per comporre un lungo divano. Erano dei colori più sgargianti:
arancione, giallo, viola. Ce n'erano tre o quattro da ciascun lato, con un tavolo in
mezzo.
Il colonnello era in divisa verde oliva. Alla mia sinistra, circa a metà della fila,
c'era un maggiore, anche lui in un impeccabile verde oliva: portava le scarpe - non
gli stivali - e una camicia ben stirata. Gli ufficiali superiori si riconoscono sempre,
indipendentemente dall'esercito cui appartengono.
Il maggiore non mi guardava nemmeno: stava sfogliando un incartamento che
sembrava quello del passaggio di consegne, e a margine prendeva appunti con una
stilografica. Poi cominciò a parlare in un inglese da speaker della BBC.
« Come va, Andy? Stai bene? »
Non mi guardava, continuava a sfogliare le carte. Era sulla trentina, e portava
occhiali a mezzaluna che lo obbligavano a tirare indietro la testa per leggere.
Aveva un paio di baffi alla Saddam, e le mani ben curate.
« Penso di aver bisogno di cure mediche. »
«Basta che tu ci dica di nuovo, per favore, perché ti trovi in Iraq. »
« Come ho già detto, facciamo parte di una squadra di ricerca e soccorso. E'
atterrato l'elicottero e ci hanno detto di scendere: poi sono andati via e ci hanno
lasciati lì, ci hanno abbandonato. »
«Quanti eravate sull'elicottero, te lo ricordi? Non c'è problema, se non te lo ricordi
adesso. Il tempo è un bene che le vostre sanzioni non ci hanno portato via. »
«Non lo so. Nell'elicottero suonavano gli allarmi. Ci hanno detto di scendere, poi
tutto si è fatto confuso. Non sono certo di quanti sono rimasti su e quanti sono
scesi. »
«Capisco. In quanti eravate sull'elicottero?»
Sembrava un maestro che sa benissimo di parlare con uno scolaretto bugiardo...
ma vuole che lo scolaretto stia sulle spine, prima di farlo confessare.
« Non lo so, quando siamo saliti era buio. Qualche volta ci sono solo quattro
persone, altre volte venti. Ci dicono solo quando dobbiamo salire e quando
scendere. Io non sapevo dove stavamo andando e che cosa stavamo facendo. A
essere sincero, non è che me ne importasse granché. Non faccio mai molta
attenzione alle cose. Ci trattano come merde, siamo solo la bassa forza che fa il
lavoro sporco. »
« Va bene. Allora qual era la tua missione, Andy? Devi conoscere la tua missione,
perché la ripetono sempre due volte nei tuoi ordini. »
E' una prassi normale, nell'esercito britannico, ripetere due volte lo scopo della
missione, e il fatto che lui lo sapesse mi lasciò allibito. Se conosceva i
regolamenti militari britannici, significava che era stato addestrato da noi.
« Io non ho vere informazioni sulle missioni in cui mi mandano», risposi. «E' solo
una questione di: vai qui, vai là, fai questo, fai quello. So che dovremmo
conoscere lo scopo della missione, ma la metà delle volte non ci dicono un tubo.
E' una confusione totale. »
La mia mente correva a mille all'ora cercando di fare tante cose in una volta.
Stavo ascoltando questo ufficiale e intanto cercavo di ricordare quello che avevo
già detto e quello che avrei dovuto dire in futuro. Ero stravolto, morivo di fame e
di sete, mentre questo maggiore era lì seduto comodo e giulivo a fare un po' di
sceneggiata. In questa fase lui era molto più sveglio e penetrante di me.
« Bene... cosa facevate, una volta saliti sull'elicottero? »
« Veniamo scelti dai vari reggimenti per formare queste squadre di soccorso. Non
siamo stati insieme molto tempo, perché veniamo tutti da reparti diversi. Non ci
hanno ancora organizzato in squadre. Senta... noi siamo qui per salvare delle vite,
non per uccidere. Non siamo quelli che credete. »
« Mmmm. »
Da quando mi avevano tolto la benda, il colonnello non aveva smesso di fissarmi.
Adesso si lanciò, in un inglese tutto sommato passabile.
« Dov'è l'ufficiale che vi comanda? »
Nell'esercito iracheno, anche al livello più basso, c'è sempre un ufficiale in
comando: fui contento che il colonnello trovasse assurda l'ipotesi di una pattuglia
a lungo raggio senza un ufficiale. Io stavo facendo la parte dello stupidotto in
stato confusionale, e forse l'avrebbero bevuta. Adesso volevano l'ufficiale, era lui
che gli interessava. Decisi di lamentarmi un po' dei miei superiori.
« Non lo so. Era buio. Un momento era li, e subito dopo non c'era più.
Probabilmente è rimasto sull'elicottero. Non ha neanche fatto lo sforzo di
scendere con noi, visto che sapeva che l'elicottero stava per decollare. Ci ha
abbandonato. » , « Pensi che potevate essere otto? »
Dunque sapevano dello scontro sulla strada, e stavano cercando di collegare le
cose, se già non lo avevano fatto. Era solo questione di tempo.
«Non lo so. C'erano persone che correvano dappertutto. Noi non siamo addestrati
per fare queste cose, siamo infermieri specialisti in pronto soccorso, e
all'improvviso ci troviamo bloccati nel bel mezzo dell'Iraq. Sì, è possibile che
fossimo otto, ma non ne ho idea. Ero spaventato e mi sono messo a correre. »
«Dove è atterrato l'elicottero?»
«Non lo so, veramente... ci hanno solo mollati. Non so dove.
Io non stavo controllando le carte di volo, sono i piloti che fanno tutto. »
Potevano credere a una stronzata del genere? Mi sentivo in sella a un cavallo
morto, ma non avevo più alternative: avevo preso quella strada e dovevo
continuare a seguirla, giusta o sbagliata che fosse. Dovevo continuare a stare al
gioco. Tutti gli altri che erano stati catturati avrebbero fatto lo stesso. Non c'era
bisogno di cadere nel panico: la conversazione era ancora piuttosto serena.
« Parlami del tuo equipaggiamento, Andy. Siamo un po' perplessi al riguardo. »
Non sapevo se volesse indurmi a parlare degli zaini abbandonati o del cinturone.
Parlava come se appartenessi alla pattuglia di otto uomini che era stata sorpresa,
mentre io mi fingevo della squadra di ricerca e soccorso.
« Sono i soliti articoli standard: acqua, munizioni, un po' di attrezzatura da pronto
soccorso e i nostri effetti personali. »
«No. Parlami degli esplosivi che avevate negli zaini.»
Aspetta un attimo, pensai... non è ancora confermato che facessi parte di quella
pattuglia.
« Non so che cosa lei voglia dire. »
« Via, Andy... Vediamo di chiarire la questione. Non è un problema. Rimani lì
seduto, prenditi il tempo che ti serve e tutto sarà sistemato prima di stasera. Tu
trasportavi esplosivi, Andy. Da quando vi abbiamo scoperti, vi abbiamo seguiti
per tutto il percorso. Sappiamo che eravate tu e i tuoi amici. Abbiamo seguito le
vostre prodezze. »
« Mi spiace, non capisco. »
« E' quello che portavate, vero, Andy? Una grossa quantità di esplosivo al
plastico. Volevate far saltare qualcosa? »
Il suo tono era molto gentile e suadente, sembrava un medico che si informava sul
mio stato generale di salute. Sapevo che non sarebbe durato. Durante
l'addestramento ti insegnano a cercare di trarre vantaggio da qualunque spunto in
qualunque momento possibile, perché non puoi mai sapere se ti si presenterà di
nuovo l'occasione. Una regola d'oro è: tenta sempre di farti dare qualcosa da
mangiare. Loro stavano facendo la parte dei bravi omoni disposti ad aiutarmi,
perciò era ora di provare a trarre vantaggio dalla situazione.
«Sarebbe possibile avere qualcosa da mangiare, per favore?
Sono giorni che non metto niente sotto i denti», dissi. «Ho i crampi allo stomaco.
Sarebbe un sogno avere qualcosa da mangiare. »
« Certo che puoi avere qualcosa da mangiare, Andy. Naturalmente non sarà facile
trovarlo, perché per colpa delle vostre sanzioni i nostri bambini muoiono di fame
per le strade. Tuttavia, cercheremo di procurarti qualcosa. Noi siamo un popolo
buono e generoso. Ci prenderemo cura di te. E se ci aiuti, chissà... potrai ottenere
ben altro! Magari di tornare a casa presto. Pensaci, Andy... a casa! » ' Il riso era
caldo, e anche la ciotola di deliziosi pomodori al forno e i due chapati. Mi dettero
anche dell'acqua fresca e servita in un bicchiere pulito.
All'inizio, una delle guardie prese il cucchiaio e cominciò a imboccarmi.
Dissi: «Non potreste liberarmi una mano, in modo che possa mangiare da solo? »
Il maggiore disse di no, ma il colonnello fece un gesto di assenso. Mi tolsero una
delle manette: fu meraviglioso sentire che la pressione svaniva. Il solo problema
era che non riuscivo a reggere bene il cucchiaio perché avevo la mano intorpidita.
Lo tenni in equilibrio tra il mignolo e l'anulare e lo appoggiai sul pollice come su
una leva.
Il colonnello indicò la foto di Saddam.
« Sai chi è? »
Esitai, come se cercassi di ricordarmi una faccia in un party, poi risposi: «Sì,
quello è Saddam Hussein. Il presidente Hussein ».
« Esatto. Che cosa hai sentito dire di lui? »
Che cosa dovevo rispondere? «Be', ne ho sentito parlare molto. Ho sentito dire
che è piuttosto bravo a gassare i bambini iraniani. »
Invece dissi: « So che è un uomo potente, un grande leader. »
« Esatto. Sotto la sua guida riusciremo a liberarci di tutti voi occidentali. Non
abbiamo tempo per voi. Non abbiamo bisogno di voi. »
Non era propaganda: aveva ancora un tono affabile.
Finii il riso, ma davanti ai pomodori mi bloccai. Non riuscivo a mangiarli perché
avevo la bocca gonfia e intorpidita. Era come quando torni a casa dopo che il
dentista ti ha fatto un'anestesia e pensi di berti una tazza di tè, ma ti cola giù per il
mento perché non governi la bocca. Facevo rumori di risucchio, e il sugo mi
sgocciolava copiosamente. I pomodori avevano un ottimo sapore, peccato che le
piaghe che avevo in bocca mi impedissero di masticarli e succhiarli per bene.
Anche il pane fu un problema.
Mi limitai a mandarne giù grossi bocconi senza masticarli. Pazienza: volevo
ingerire tutto il più in fretta possibile, nel caso avessero in mente qualche
scherzetto tipo portarmi via il cibo a metà.
Il colonnello mi guardava mentre sbucciava un'arancia. Lo faceva con studiata
eleganza, come a sottolineare il contrasto con me, lo scimmione che grufolava sul
tappeto. Con un coltellino praticò quattro precise incisioni lungo la buccia, quindi
staccò i quarti e aprì l'arancia, spicchio dopo spicchio.
Il frutto gli era stato servito in un piatto di porcellana sopra un vassoio, con una
forchetta e un coltello d'argento. La scena faceva pensare a un rigido sistema di
caste: i soldati si affannavano con la teiera in mano versando il tè, e i due pezzi
grossi comodamente seduti.
Di tanto in tanto il colonnello prendeva uno spicchio d'arancia e se lo metteva in
bocca. Giù, sul tappeto, il suo prigioniero sbavava e risucchiava. La Bella e la
Bestia.
Il mio stomaco si sentiva decisamente bene, ma non era solo il cibo a rallegrarmi:
mentre mangiavo non mi facevano domande, e questo mi diede tempo per
pensare.
Ovviamente, non appena terminai, mi rimisero le manette e continuammo la
conversazione dal punto in cui l'avevamo interrotta. Lui stava ancora parlando
come se fossimo stati d'accordo che le attrezzature rinvenute dopo il contatto
iniziale sulla strada fossero le nostre.
« Mi spiace, sono confuso. Non capisco. »
« Cosa stavate facendo con gli esplosivi? »
Il tono non era ancora aggressivo.
« Le ripeto che non avevamo esplosivi. Non so proprio di che cosa lei stia
parlando. »
«Andy, è evidente che stavate per distruggere qualcosa di grosso, perché
trasportavate il PE4, un potente esplosivo progettato a questo scopo. Capisci
perché non posso credere alla storia che mi stai raccontando? »
Il fatto che citasse il PE4 era un'altra indicazione che era stato addestrato in Gran
Bretagna, ma lo ignorai. « Non so proprio che cos'altro dirle. »
« Lo sai che abbiamo in ospedale alcuni vostri uomini? »
Accidenti, questa non me l'aspettavo... Cercai di non mostrare né choc né
sorpresa: bisognava che non mi collegassero ai diavoli scatenati della strada.
« Chi sono? » chiesi. « In che condizioni sono? »
« Sono okay, sono okay, non preoccuparti. »
« Siete molto umani a prendervi cura di loro, grazie. Il nostro esercito farebbe la
stessa cosa con i vostri feriti. »
Se avevano qualcuno in ospedale significava che erano interessati a tenerli vivi.
« Sì », continuò distrattamente, « sappiamo tutto. Alcuni membri del tuo gruppo
sono in ospedale. Ma stanno bene. Noi non siamo selvaggi, abbiamo cura dei
nostri prigionieri. »
Oh, sicuro, pensai... ho visto il documentario della guerra fra Iran e Iraq, so come
trattate i vostri prigionieri.
Non potevo far nient'altro che reagire come pensavo che si aspettassero. E' un
grande gioco, al quale cominci ad allenarti da bambino. Impari a mentire a tua
madre e alla tua maestra, a versare lacrime quando vuoi.
« Grazie per la vostra umanità », dissi, « ma io non so nulla che può interessarvi.
»
«Bene... sappiamo che facevi parte del gruppo che ha abbandonato gli zaini, e che
noi vi abbiamo sempre seguiti. »
« No, lei mi sta confondendo. Non capisco quando parla di zaini abbandonati. Noi
non usiamo zaini. Noi sì che siamo stati abbandonati... lasciati soli nel mezzo del
vostro Paese. Io sono soltanto un soldato, vado dove mi dicono di andare e faccio
quello che mi dicono di fare. »
«Ma Andy, tu non mi hai spiegato cosa ti hanno detto di fare.
Dovevi pur avere una missione. »
« Senta. Io sto in basso nella scala militare. Come lei sa, lavoriamo in base al
principio che sappiamo quello che abbiamo bisogno di sapere. Ci dicono solo
quello che dobbiamo sapere, e visto che io sto così in basso nella scala, io non so
niente. »
Tombola! Finalmente le mie parole sembrarono colpire nel segno. In testa al
foglio che da la sequenza degli ordini per un gruppo sta scritto: RICORDATI
CHE DEVI SAPERE SOLO QUELLO CHE TI
SERVE. Evidentemente era stato addestrato in Gran Bretagna, probabilmente a
Sandhurst o allo Staff College: in fondo, gli iracheni erano stati nel Club degli
Amici delle potenze occidentali per una sfilza di anni.
Il colonnello parve perplesso e domandò qualcosa in arabo al maggiore, che gli
fornì una lunga spiegazione. Forse pensavano davvero che non sapessi un cazzo
di niente. Forse potevano paragonare la mia situazione alla loro. Eravamo tutti
soldati. Ovviamente lui era un maggiore e l'altro un colonnello, ma anche loro
ricevevano ordini dai generali. Il massimo sarebbe stato che si impietosissero o
pensassero che non valeva la pena di chiederci altre informazioni perché eravamo
solo un pugno di soldati ottusi che si erano fatti beccare.
« Va bene, Andy. Ci vedremo in seguito. Adesso è ora che tu vada. »
Sembrava uno psicoterapeuta che pone fine alla seduta.
«Grazie mille per il cibo. Sto cercando di aiutarvi, davvero, ma non so proprio
cosa desiderate da me. »
Mi rimisero la benda e, incredibile!, mi tolsero le manette.
Sentii il sangue affluire di nuovo alle mani. Mi sollevarono e mi condussero fuori.
Il freddo mi colpì: faceva così caldo nell'ufficio, mentre mi gustavo i pomodori, il
pane e il riso.
Dunque, un importante confronto era finito bene, e in più ero riuscito a
procurarmi del cibo. Restavano delle probabilità che il tutto facesse parte di una
sceneggiata: che si fossero finti buoni, insomma. In quel momento però confidavo
che la storia reggesse, anche se non ero proprio soddisfatto della mia prestazione.
Con un po' di fortuna mi avrebbero etichettato come del tutto irrilevante, uno
troppo stupido per riuscire a ottenerne informazioni utili.
Non avevo ancora i miei stivali, e non riuscivo a camminare bene a piedi nudi.
Ma mentalmente mi sentivo a posto, ed era questo che contava veramente. Ti
possono spezzare tutte le ossa che vogliono, ma sta a te di non farti spezzare la
mente.
Percorsi barcollando un corridoio freddo e umido con il pavimento in linoleum: in
fondo a esso mi fecero sedere. Era buio pesto, e attraverso la benda non vedevo
nemmeno una scintilla di luce. Di tanto in tanto sentivo un'eco di passi che si
muovevano lungo altri corridoi e attraversavano quello dove mi trovavo. Forse
una zona di uffici.
Dopo un'ora circa risentii un rumore di passi, ma più irregolari e strascicati di
prima. Poco dopo, udii un respiro affannoso. Una guardia mi tolse la benda dagli
occhi e la osservai allontanarsi. Il corridoio era largo circa due metri e mezzo, con
le pareti piastrellate e una porta ogni tré-quattro metri. Sulla destra c'erano altri
due incroci con corridoi lunghi forse trenta o quaranta metri. Era buio. Proprio in
fondo c'era una lampada ad acetilene che illuminava un incrocio.
Guardai alla mia sinistra e vidi Dinger: aveva sulla faccia un sorriso che non
finiva più.
« Vieni spesso da queste parti, stronzo? » disse.
La guardia ritornò con i nostri stivali e andò a raggiungere i colleghi seduti a
qualche metro di distanza, tenendoci d'occhio.
« Musulmani, cristiani o ebrei? » chiese.
« Cristiani », risposi. « Inglesi, cristiani. »
«Non ebrei?»
«No. Cristiani, cristiani.»
« Non Tel Aviv? »
«No, non Tel Aviv. Inglesi. Gran Bretagna.» ' Annuì e parlò con i suoi
compagni.
« Il mio amico qui è cristiano », disse. « Musulmani e cristiani sono okay in Iraq.
Viviamo insieme. Ebrei no. Ebrei sono cattivi.
Tu sei un ebreo. »
«No, sono un cristiano.»
« No, tu sei un ebreo. Tel Aviv. Tel Aviv non bene. Non vogliamo ebrei.
Uccidiamo ebrei. Perché tu venuto in nostro Paese?
Noi non vogliamo guerra. La guerra è vostro problema. »
Stava solo parlando, e sembrava piuttosto ragionevole. L'Iraq ha una forte
minoranza cristiana, specialmente nella zona del porto di Bassora.
«Noi non siamo ebrei, siamo cristiani», ripetei.
« Aviazione? »
«No aviazione. Soccorso.»
Se preferiva che fossimo musulmani o membri della Chiesa della Terza Luna
sulla Destra, ci saremmo convertiti immediatamente. Io annuivo e mi mostravo
d'accordo su tutto, a parte la questione degli ebrei. Era quasi mattina, e capimmo
l'atteggiamento delle guardie, del tipo: «Noi ne abbiamo pieni i coglioni, voi ne
avete pieni i coglioni; noi dobbiamo farvi la guardia, e voi lasciatecela fare senza
crearci casini ».
Dinger si stava sfregando i piedi.
« Vi dispiace se lo aiuto? » domandai.
Fecero un gesto con la mano che significava: fa' come vuoi.
Dinger e io ci chinammo in avanti per esaminare i suoi piedi.
« Bob? » gli sussurrai all'orecchio.
« Non so. »
« Legs? »
« Probabilmente morto. E Mark? »
« Morto. Quando ti hanno preso? »
« Metà mattina. Ho sentito che ti portavano dentro. »
« Stai bene? » Non riuscivo a credere di avergli fatto una domanda così cretina.
Che testa di cazzo.
Mi scoccò un'occhiata che voleva dire: hai la merda nel cervello?
Le guardie sospettarono che stessimo comunicando e uno di loro venne a
interromperci. Dinger gli chiese una sigaretta. La guardia parlava un discreto
inglese, ma Dinger disse: «Si-garet-ta? » come se stesse parlando a un matto, e
fece il gesto di fumare. La richiesta non sortì nessun risultato.
Adesso avevamo entrambi un'idea un po' più chiara di quello che stava
succedendo. Sapevo che probabilmente Legs era morto. pi Bob non sapevo ancora
nulla. Restammo lì seduti per un'altra ora, ma non riuscimmo più a comunicare.
Mi faceva male dappertutto e mi stavo addormentando.
Quando ti picchiano, il corpo si fa forza, ma appena c'è un periodo di calma tutti i
dolorini e le sofferenze si amplificano perché non hai nient'altro di cui
preoccuparti. Quella sensazione mi ricordava quando ero a scuola. Quando fai a
botte da ragazzino, sei tutto eccitato e all'inizio non fa troppo male. E' un paio
d'ore dopo che il dolore salta fuori. Le labbra mi sanguinavano ancora, avevo la
bocca spaccata in parecchi punti per le botte, e le ferite avrebbero voluto
cicatrizzarsi, ma il minimo movimento le faceva riaprire. Avevo il culo e la
schiena doloranti per essere stato seduto sul cemento tutto il giorno. Mi
appisolavo, con la testa ciondolante sul petto, e poi, dopo un minuto o due, mi
svegliavo di soprassalto. Andò avanti così per mezz'ora. Poi Dinger e io ci
appoggiammo l'uno contro l'altro e ci addormentammo.
Fummo svegliati da uno sbattere di porte accompagnato da alcune voci. In fondo
al corridoio si intravide la luce di una lampada ad acetilene, che divenne sempre
più luminosa. Alla fine apparve davanti a noi la lampada vera e propria, seguita da
molte persone. Rieccoci.
Fummo ammanettati e bendati: non in modo brutale, piuttosto con noncuranza. Ci
alzammo e ci trascinammo lungo il corridoio; poi fuori, all'aria aperta, dove una
Land Cruiser ci aspettava con il motore acceso.
Mentre salivamo, ci tolsero di nuovo la benda: chissà perché, forse solo per
mancanza di coordinamento. Partimmo, con due guardie davanti e una dietro.
« Baghdad? Baghdad? » uggiolò Dinger tutto gentile.
« Sì, Baghdad », rispose il conducente, come se fosse la cosa più ovvia del
mondo.
Il conducente conosceva tutte le stradine secondarie. Attraversammo strade
interne trafficate con gli abbaglianti accesi. Le guardie non sembrarono
preoccuparsi quando cercai di leggere i cartelli con i nomi delle strade e delle
direzioni. Non vidi una sola parola scritta. Non c'erano costruzioni imponenti ch'e
in seguito avrei potuto identificare. Tutte le case avevano i tetti piatti.
All'apparenza si trattava di uno dei sobborghi poveri della città, e doveva essere
una zona residenziale perché non c'erano segni di bombardamenti. Non sembrava
nemmeno che ci fosse la guerra.
Le strade erano asfaltate, ma piene di buche, e i marciapiedi erano soltanto strisce
polverose. Ai lati della strada c'erano vecchie automobili abbandonate su cui
pisciavano i cani.
Ci fermammo al di fuori di un grande e scalcinato portone di legno a battenti, che
si aprì verso l'interno non appena arrivò il nostro veicolo. Entrammo in un cortile
non più grande dello spazio che serviva al fuoristrada per fare manovra. Alcuni
soldati ci stavano aspettando, e avvertii il familiare nodo di apprensione stringersi
alla bocca dello stomaco. Dinger e io ci scambiammo uno sguardo vacuo.
Mentre venivamo fatti uscire dal veicolo avrei voluto alzare gli occhi, ma tenni la
testa bassa per non attizzare nessuno.
Era buio, e mi aspettavo che il pestaggio incominciasse da un momento all'altro.
Fummo trascinati in un edificio, lungo un corridoio poco più largo delle mie
spalle. L'oscurità era totale, per cui il soldato davanti a me dovette usare una pila.
Arrivammo in un punto dove si aprivano cinque o sei porte in fila, molto vicine. Il
soldato ne spalancò una, mi spinse dentro, mi tolse le manette e richiuse. Sentii il
rumore di un catenaccio e della chiave di un lucchetto.
La stanza era così buia che non riuscivo nemmeno a vedermi la mano davanti alla
faccia. C'era un tanfo allucinante di merda.
Mi misi carponi e tastai tutto attorno. Non c'era molto da toccare.
La stanza era minuscola, e non mi ci volle molto a scoprire due impronte di piedi
di porcellana ai lati di un foro di circa venti centimetri di diametro. Non c'era da
meravigliarsi che la stanza puzzasse. Era un mefitico cesso arabo.
Bisogna approfittare di ogni situazione, e qui c'era la possibilità di farmi quella
dormita di cui avevo disperatamente bisogno.
Non avrei perso tempo a pensare. Non c'era posto per stendersi, così sistemai il
corpo in posizione semicircolare attorno al cesso.
Non c'era ventilazione e la puzza era spaventosa, ma chissenefrega. Era già un
sollievo che non mi avessero picchiato.
Mi addormentai immediatamente.

10.

Mi svegliai con la sensazione di essere stato drogato. Le porte sul corridoio si


stavano aprendo rumorosamente. Qualcuno parlava: lo sentivo, ma non ne ero
pienamente cosciente a causa dell'intontimento. Mi domandai che ora fosse. Il
mio orologio corporeo era andato completamente a farsi friggere e non sapevo
neppure se fosse giorno o notte. Dovrebbe essere una priorità tener conto delle ore
e delle date, prima di tutto perché ti fa sentire meglio, e poi perché ti tiene la
mente sveglia. Se perdi il conto dei giorni, finisci per perdere il conto delle
settimane e dei mesi. Il tempo perde significato al punto che si smarrisce il
contatto con la realtà. Quindi si dovrebbero fare degli sforzi per mantenere questo
contatto fin dal primo giorno. Se è possibile, si guardano gli orologi dei beduini,
perché hanno sempre i numeri; non esiste un quadrante arabo. Fino a quel
momento, però, nessuna delle guardie aveva portato l'orologio. Ma io ero a pezzi,
e queste considerazioni erano ormai irrilevanti. Mi preoccupava di più riuscire a
sopravvivere.
Ero ancora rincoglionito quando vennero alla mia porta.
« Andy! Andy! Andy! » gridò una guardia con una voce gioviale, da villaggio
turistico. « Va tutto bene, Andy? »
« Sì, sì, sto bene! » Cercai di sembrare allegro e garbato.
Avevo i muscoli contratti, ed ero rigido come un'asse. Cercai di fare del mio
meglio per mettermi in piedi: se mi avessero visto indolente, di sicuro mi
avrebbero pestato. Ma non riuscivo a muovermi.
La porta si aprì e vidi la luce del giorno. Tesi le braccia, le mani con il palmo in
su, in un gesto di impotenza.
« Non riesco a muovermi », dissi. « Rigido. »
Quello chiamò un'altra guardia e io mi preparai ai calcioni.
Invece entrarono nel cesso e si chinarono su di me.
« Su, su », disse uno, tutto gentile. Si tirarono le mie braccia attorno al collo e mi
sollevarono, quasi con compassione. Erano davvero preoccupati: non riuscivo a
crederci.
Il rumore del chiavistello di una porta seguito da un amichevole «Buongiorno!
Buongiorno! » echeggiò nell'edifìcio dei bagni mentre mi aiutavano a dirigermi
verso l'uscio che dava sul cortile.
La luce era abbagliante, anche se la costruzione era all'ombra.
Sbattei le palpebre al sole che era abbastanza basso e immaginai che fossero circa
le otto. Il cielo era azzurro e senza nuvole, e l'aria fresca e abbastanza pungente da
darti un senso di pizzicore sulla faccia. Il fiato formava nuvolette. Avrebbe potuto
benissimo essere una mattina di inizio primavera in Inghilterra, e io uscivo di casa
per andare al lavoro.
Giusto davanti a noi c'era un veicolo, e più in là una costruzione a un solo piano. I
rumori erano attutiti: automezzi in lontananza, voci vaghe che urlavano dall'altra
parte della base, gli echi della città oltre le mura. Alla mia sinistra sentii cantare
un uccellino: mi voltai e sollevai lo sguardo. Era su un albero che cresceva
dall'altra parte del muro. Gorgheggiava che era una meraviglia.
Al di sotto, nell'angolo dove l'edificio dei bagni incontrava il muro, c'era una pila
di grandi segmenti metallici. Quando un aereo lascia cadere le bombe a grappolo,
l'involucro si rompe in aria liberando il carico di ordigni più piccoli. Anche gli
involucri cadono, e qui evidentemente c'era qualcuno che li raccoglieva.
Avevano sopra una scritta in inglese, e fu una bella sensazione leggere delle
parole familiari. Lassù nel cielo c'erano degli amici, che non mi guardavano né mi
cercavano, ma almeno si davano da fare a bombardare questi stronzi.
Il veicolo era puntato verso l'esterno, pronto a partire, e quando ci avvicinammo il
motore si avviò. Salii e fui lasciato con un paio di guardie. Una di esse, il primo
soldato iracheno nero che vidi, mi ricordò i tempi del battaglione. Agli inizi degli
anni '80, quando era di moda l'afro, i nostri soldati neri compravano dei collant
cui tagliavano le gambe, usandoli come maschere da rapinatori per tenersi giù i
capelli di notte. L'effetto era di schiacciare al massimo le loro acconciature afro,
così al mattino, quando si mettevano il basco, i capelli non spuntavano e loro non
sembravano ridicoli. Appena erano fuori servizio, prendevano il pettine afro e li
tiravano tutti di nuovo.
Questo tizio aveva la zazzera in cima, poi un anello dove era affondata la banda
del basco, e il resto che saltava fuori. Ovviamente di notte non si era infilato in
testa i collant, e mi chiesi se dovevo passargli quell'accorgimento di bellezza. Al
ricordo del battaglione mi venne da ridere: sembrava passata una vita.
Dinger era in pessimo stato: si muoveva come un vecchio, facendo trenta
centimetri a ogni passo, sostenuto da due beduini.
Era una vista piuttosto buffa, perché Dinger era più alto di loro di trenta
centimetri buoni. Sembravano due boy-scout che aiutavano una vecchietta.
La luce accecante lo colpì e lui rabbrividì neanche fosse un vampiro, abbassando
la testa per proteggersi gli occhi. Eravamo rimasti così a lungo al buio, bendati, e
all'improvviso ci inondavano di luce, come pipistrelli sorpresi da una torcia.
Vidi che le guardie appartenevano di nuovo ai commando in tenuta mimetica ed
erano armate di AK-47. Anche Dinger era scalzo, e aveva i piedi feriti più o meno
come me, con grosse croste rosse dove il sangue si era coagulato. I suoi capelli
non erano del solito biondo cenere: erano opachi e di un marrone rossastro.
Aveva la barba di una settimana, e anche quella era coperta di fango e sangue
rappreso.
Mentre veniva aiutato a salire sulla macchina, stese la mano, e io gliela afferrai
per issarlo a bordo.
« Tutto bene, amico? » gli chiesi. ' « Sì, sto bene. »
Vidi il sorriso. La casa poteva essere stata danneggiata dalle bombe, ma in
mansarda le luci erano ancora accese.
Le guardie ci bendarono di nuovo, rompendo la crosta sul naso e premendomi i
bulbi oculari così forte che vidi le stelle. Uno dei segreti di Houdini era tendere i
muscoli il più possibile mentre lo legavano, in modo che quando si rilassava
aveva un po' di spazio per muoversi. Mentre mi legavano la benda, tesi i muscoli
della guancia per avere agio in seguito. Ma non funzionò.
Mi rimisero le manette, strette da morire. Avevo le mani molto sensibili, e il
dolore era insopportabile. Trassi un profondo respiro e tenni duro mentre i denti
delle manette mi mordevano la carne, perché non volevo che vedessero che mi
stavano facendo male. Se prima avevo esagerato gli effetti delle ferite, adesso
tornavo a comportarmi in modo controproducente cercando di non mostrare il
dolore.
Sedemmo in attesa. Mentre ascoltavo il motore avviarsi, mi domandai dove
saremmo andati. Li avevamo convinti che eravamo dei fessi e non meritavamo lo
spreco di altre energie? Eravamo diretti a una prigione dove saremmo rimasti
seduti per il resto della guerra in condizioni di relativa comodità?
I miei pensieri furono interrotti da un tizio che mi sembrò una guardia. Non
appena il guidatore posò il piede sulla frizione e innestò la prima, questi infilò la
testa nel finestrino e disse: «Chiunque sia il vostro Dio, presto avrete bisogno di
lui».
Non sapevo se lo dicesse per pietà o come parte di una strategia per farci paura...
ma ebbe l'effetto di rattristarmi del tutto. Il mio corpo cedette, come se mi
avessero detto che era morto mio padre. Fu un brutto choc: sembrava che le cose
potessero andare per il meglio, e adesso...
Chiunque sia il vostro Dio, presto avrete bisogno di lui.
La sincerità nella sua voce mi allarmò. Pensai: ecco, allora la situazione sta per
peggiorare. C'era molta preoccupazione nella voce della guardia quando aveva
nominato Dio, come se solo lui potesse salvarci. Significava che ci avrebbero
giustiziato?
Questo andava bene; speravo solo che dessero la notizia e i nostri cari fossero
informati. Ma la tortura? Ecco, ci siamo, adesso seguiranno la vecchia procedura
di tagliarci prima i coglioni, poi le orecchie, poi le dita dei piedi e delle mani:
tutto lentamente. Tuttavia l'ottimista che c'è in me lottava disperatamente e mi
diceva: no, non lo faranno, devono rendersi conto che perderanno la guerra, non
desiderano un'altra Norimberga.
Se l'effetto desiderato era semplicemente quello di farmi incazzare, be', c'erano
riusciti, e alla grande. Lo stesso accadde a Dinger. Mentre la Land Cruiser
sobbalzava attraverso il cortile, mi mormorò con l'angolo della bocca: «Almeno
non possono metterci incinti».
« Sì, giusto », ridacchiai.
Il ragazzo sul sedile del passeggero si voltò e urlò rabbioso: «No parlare! No
parlare! »
Sicuramente non ci avrebbero ingravidato, ma potevano tentare di incularci. Forse
era un'idea assurda, ma sotto pressione la mente fa di questi scherzi. L'idea mi
preoccupava più della morte.
Solo con i miei pensieri, rimuginai sulla conversazione che avevo avuto con Chris
alla base aerea avanzata.
«La sola cosa di cui hai bisogno se vieni catturato», aveva scherzato Chris, « è di
avere sei furetti indemoniati nel culo. »
Viaggiammo per circa un quarto d'ora sotto il sole abbagliante.
Capivo che non eravamo fuori città, perché stavamo ancora svoltando a intervalli
piuttosto frequenti e il rumore delle attività umane non cessava. Le persone nelle
strade si chiamavano urlando e i guidatori tenevano la mano sul clacson.
Uno dei tizi davanti scoreggiò. Era disgustoso, un fetido bastardo. Bene, pensai,
oltre al resto ora devo anche mangiarmi la merda di un altro.
Loro pensavano che fosse divertente... il tizio di fianco al guidatore si voltò e
disse: «Buono? Buono?»
«Mmmm... gnam, gnam», rispose Dinger, inalando profondamente come se fosse
sul lungomare di Yarmouth. « Ottimo, roba buona. »
I nostri nasi erano così ostruiti che non passava troppa puzza, ma era importante
mostrare loro che, qualunque cosa facessero, a noi non importava granché. Dopo
un po' quelli davanti non riuscirono più a sopportarlo e dovettero abbassare i
finestrini.
Era bellissimo sentire la brezza fresca che mi accarezzava il viso. Voltai la faccia
al vento finché non mi sentii pizzicare. Tenni la mente lontana dalle condizioni
delle mie mani. Avevo perfezionato una tecnica: appoggiarmi in avanti e tenere la
schiena dritta, in modo da allentare la pressione sulle manette. Il problema era
che, ogni volta che mi muovevo, pensavano stessi facendo qualcosa per cercare di
scappare: così mi respingevano all'indietro. Ma, tutto sommato, andava di lusso.
Il guidatore si fermò sghignazzando e capii che eravamo arrivati. Sentii aprire un
portone, e percorremmo altri duecento metri su un terreno diverso. Il fuoristrada
fu circondato da voci rabbiose: benone, avevamo un comitato di accoglienza.
Il veicolo si fermò e le portiere furono spalancate. Fui afferrato per i capelli e
gettato direttamente a terra, senza complimenti.
Non fu il peggior pestaggio che subimmo: schiaffi, tirate di capelli, pugni sui
fianchi... ordinaria amministrazione, insomma.
Ma fu un grande, grandissimo choc. Le persone ridevano e parlavano e io tenevo
la testa bassa, trattenendomi, lasciandoli fare.
Ero il loro gingillo.
Dopo due o tre minuti mi tirarono in piedi e cominciarono a trascinarmi via.
Zoppicavo e inciampavo. Eseguirono il loro compito con estrema efficienza,
molto rapidi, molto addestrati, come se fossero uomini di fatica di un macello alle
prese con carcasse di animali. Tutti gridavano intorno a me, ma io cercavo di
tendere le orecchie in modo da mantenere le tracce di Dinger.
Inutilmente.
Continuai a sollevare i piedi in modo che non strisciassero sul pavimento,
provocando altre abrasioni. Percorremmo solo una decina di metri, poi, mentre
loro armeggiavano con la porta, cercai di riprendere fiato. Salimmo un paio di
gradini dei quali non conoscevo l'esistenza, per cui sbattei le dita dei piedi
gemendo.
Caddi a terra, ma mi tirarono su di nuovo, urlando e dandomi ceffoni.
Percorremmo un corridoio: gli echi erano sinistri e orribili.
Prima era caldo e adesso all'improvviso faceva di nuovo freddo, e si sentiva
l'umidità e la muffa. L'edificio sembrava cadente.
La porta della cella doveva essere già aperta. Mi gettarono in un angolo e mi
spinsero giù sul pavimento. Ero sistemato in modo da avere le gambe incrociate,
ma con le ginocchia all'insù, le spalle all'indietro e le mani, ancora ammanettate,
dietro la schiena. Non dissi nulla, mi lasciai solo portare dalla corrente. Un altro
paio di schiaffoni e di calci, qualche invettiva di propaganda, e chiusero la porta.
Sembrava fatta di metallo imbullonato a uno stipite, ma quest'ultimo doveva
essere deformato, perché furono costretti a sbatterla veramente forte, con un
rimbombo che mi fece cagare addosso dalla paura.
Sei solo. Credi di essere solo. Non vedi cosa sta succedendo, sei disorientato e
preoccupato. Hai il respiro pesante, e pensi: facciamola finita. Non puoi essere
sicuro che non ci sia nessuno nella stanza. Forse non se ne sono andati tutti, forse
c'è ancora qualcuno che ti sta guardando, in attesa di un tuo errore, così tieni la
testa bassa, stringi i denti, tiri su le ginocchia, cerchi di ripararti dai pugni e dai
calci che potrebbero ricominciare da un momento all'altro.
Sentii sbattere un'altra porta: era Dinger che veniva rinchiuso, pensai. Mi consolò
un pochino sapere che eravamo ancora nella stessa barca.
Non potendo fare altro, trassi profondi respiri espirando lentamente, mentre
analizzavo gli eventi e giungevo all'ovvia conclusione che la catastrofe si
avvicinava. Eravamo stati spostati in un posto che sembrava organizzato e ben
gestito. C'era un comitato di accoglienza che ci aveva dato un benvenuto breve e
scioccante: questi qui conoscevano il gioco, sapevano esattamente cosa avrebbero
fatto, e quando. Ma si trattava della nostra prigione definitiva, eravamo ancora in
transito, e i soldati stavano solo affermando la loro autorità? Sarei rimasto
bendato e ammanettato per il resto dei miei giorni? In caso affermativo, mi
aspettavo il peggio. Sarei uscito con gli occhi danneggiati?
E... Cristo, le mie mani?
Mi calmai con il pensiero che, una volta ambientato, sarei stato bene. Era come
entrare per la prima volta in una casa: ci si sente strani, ma dopo un paio d'ore si
prova già una maggiore familiarità. Avevo ancora la mia carta geografica e la
bussola nascoste, al sicuro, perciò potevo contare su un piccolo vantaggio.
Faceva freddo: un freddo bestiale, che distruggeva. Il pavimento era umido e io
stavo seduto sul fango e la merda bagnata. Scoprii che con le mani riuscivo a
toccare il muro: era di gesso, con qualche scalfittura, e dove incontrava il
pavimento c'erano dei buchi.
Il pavimento di cemento era molto rozzo e sconnesso. Le piaghe sul culo mi
costrinsero a cambiare posizione. Cercai di raddrizzare le gambe, ma non
funzionava... così le tirai indietro e cercai di piegarmi su un fianco. Ma,
comunque mi piegassi, mi facevano male le mani e non riuscivo proprio a
mettermi comodo.
Sentii qualcuno parlare ad alta voce, e un rumore di passi. Evidentemente c'era un
buco nella porta - o in una finestra - e sentivo che mi guardavano, che
controllavano la nuova mercé, fissandola con occhi vacui e impassibili. Pensai
che, se mai fossi uscito di li, non sarei più andato allo zoo in tutta la mia vita.
Il dolore per le manette e per la posizione rattrappita era diventato insopportabile.
Che mi guardassero o meno, non avevo altra scelta che cercare di sdraiarmi per
alleviare la pressione. Non avevo nulla da perdere... non lo sai mai, finché non
provi. Mi spostai sul fianco e il sollievo fu immediato: ma lo furono altrettanto le
grida. Sapevo che stavano venendo da me. Ogni nervo del mio corpo urlava:
vaffanculo, oh, no, non di nuovo...
Cercai di tirarmi su appoggiandomi di peso al muro, ma non feci in tempo. Il
chiavistello si aprì di scatto e le guardie spinsero e scalciarono la porta sbilenca,
che tremò e rumoreggiò come la serranda di un garage; e quando alla fine si aprì
di scatto stava ancora tuonando, sembrava un temporale in miniatura. Fu il
rumore più terrificante che avessi mai udito... orrendo, assolutamente orrendo.
Entrarono diretti, afferrandomi per i capelli, dandomi calci e pugni. Il messaggio
era molto chiaro. Mi rimisero nella posizione precedente e uscirono dalla cella. Il
chiavistello tornò nella sua sede e i loro passi si allontanarono.
Questa sembra una vera prigione, questa è una cella costruita apposta. Sono
completamente in loro balia. Allora è qui che succederà tutto? Non c'è possibilità
di fuga e, se le condizioni rimangono queste, non ce ne saranno mai.
All'improvviso ebbi la sensazione che sarebbe durato per sempre. Ero senza
speranza. Pensai che era impossibile sentirsi più avviliti, più soli, più
disperatamente abbandonati.
La mente almanaccava. Mi chiedevo se avessero detto a Jilly che ero disperso in
azione, o presunto morto. Speravo che le avessero detto delle stronzate. Speravo
che qualcuno fosse riuscito a passare la frontiera, o che gli iracheni avessero
parlato con la Croce Rossa. C'era qualche possibilità. Forse presto mi avrebbero
mandato in TV, sarebbe stato carino. O forse no? I parenti prossimi stavano già
abbastanza in ansia solo perché eravamo andati al fronte. A proposito del mio
lavoro, Jilly si era sempre mostrata molto saggia: aveva deciso che meno sapeva e
meno avrebbe sofferto. In qualche modo riusciva a estraniarsi. Questa volta però
sapeva bene dove mi trovavo, e lo stesso valeva per i miei genitori.
La mia sola paura era che nessuno fosse informato della mia morte. Non
sopportavo il pensiero dell'angoscia della mia famiglia per non avere un cadavere
su cui piangere e dover continuare a vivere nel dubbio.
Evidentemente il comando iracheno non ci voleva morti, perché se avessero
lasciato fare ai soldati, a quel punto lo saremmo già stati da un pezzo. E, se ci
volevano vivi, doveva essere per qualche ragione... o per propaganda, o
semplicemente perché sapevano che avrebbero perso la guerra, e temevano le
conseguenze se i prigionieri fossero stati trucidati.
Non potendo fare niente per i miei cari, rivolsi la mente altrove. Avrei dovuto
dirigermi alla frontiera quella notte? Per me allora era ovvio che avrei dovuto
tentare la fuga. Ma, con il senno di poi, sarebbe stato come vincere la lotteria.
Ero ferito e disorientato; non riuscivo nemmeno a ricordare che giorno fosse.
Sapevo di dovermi sforzare di mantenere un contatto con la realtà. Disorientare il
prigioniero è un buon modo per cominciare a spezzarlo, e lo sapevo. Ma non
potevo far altro che provare a sbirciare un orologio sul muro o al polso di una
guardia.
Gli inquisitori hanno due scogli da superare: prima quello immediato di
distruggerti fisicamente, e poi quello più difficile di farti a pezzi mentalmente.
Non conoscono la tua psicologia, le tue debolezze, le tue risorse intime. Alcuni
possono crollare il primo giorno, altri non si arrenderanno mai: sparpagliati lungo
lo spettro tra i due estremi, ci siamo tutti noi. L'inquisitore non può mai essere
certo di avere raggiunto il suo obiettivo. I segnali sono difficili da riconoscere:
saprà di non poter giudicare dalle tue condizioni fisiche, perché tu esageri i danni;
ma sicuramente gli avranno insegnato che gli occhi non mentono. Sta a te far sì
che non veda attraverso la finestra: devi mascherare la tua concentrazione. Devi
far sì che la gente ti scruti e veda solo un locale vuoto, non la vetrina principale di
Harrods.
Mi sforzai di concentrarmi su pensieri più pratici. Ripassai un'altra volta la storia
di copertura, cercando di ricordare i particolari, e sperando che Dinger avesse
detto più o meno le stesse cose. Lo scopo era reggere il più a lungo possibile, in
modo che alla base aerea avanzata potessero fare una valutazione dei danni. La
domanda che il nostro comando si sarebbe posto era: cosa sanno quelli della
Bravo Two Zero? Sarebbero giunti alla conclusione che conoscevamo i nostri
compiti, ma non sapevamo nulla di quelli degli altri, quindi niente poteva essere
compromesso. Tutto ciò che sapevamo che avrebbe potuto avere influenza su altre
operazioni sarebbe stato cambiato o cancellato.
Dovevamo attenerci alla nostra storia: non potevamo fare marcia indietro.

Un'ora dopo - o forse erano passati solo dieci minuti? - mi trovavo ancora in
quella scomoda posizione.
I carcerieri camminavano avanti e indietro, guardavano dentro e mormoravano.
Per quanto riguardava il mio corpo, era nella fase di stanca della battaglia: adesso
che non mi stava succedendo niente di fisico, mi urlava che aveva fame e sete.
Non ero troppo preoccupato per il cibo, perché il mio stomaco aveva ricevuto dei
calci e probabilmente non sarebbe stato in grado di trattenere nulla. La priorità era
l'acqua. Avevo una sete tremenda, e conati di vomito.
Li sentii armeggiare con il lucchetto. Stavano venendo a prendermi; la sete svanì,
ma la paura mi invase.
Vennero verso di me senza dire una parola, mi afferrarono e mi sollevarono. Non
li vedevo, ma sentivo il loro odore. Cercai di apparire tutto teso ad aiutarli,
nonostante le ferite. Avrei voluto esagerare, ma scoprii che in realtà prendevo in
giro me stesso. Lo stadio della finzione tattica era solo un ricordo.
Mi trascinarono fuori dalla cella e svoltammo a destra, percorrendo il corridoio.
Dalla fessura sotto la benda vedevo pochissimo: solo l'acciottolato e una scia di
sangue. Mi accorsi anche di un gradino davanti a me, ma finsi di inciampare,
perché non volevo che capissero che ci vedevo. Non desideravo essere punito più
di quanto non mi sarebbe toccato comunque.
Il sole era caldo: lo sentivo sulla faccia. Percorremmo un viottolo e rasentammo
una piccola siepe, poi su per un altro gradino e di nuovo il buio, in un lungo
corridoio nero, freddo e umido. Sentii i tipici rumori da ufficio, e un viavai di
passi su linoleum o piastrelle. Svoltammo a destra ed entrammo in una stanza. Nel
freddo generale, mentre mi portavano dentro, passammo accanto a fonti isolate di
calore. Non era la sensazione di caldo e comodo - tipo la stanza di zia Nelly - di
un locale riscaldato a lungo.
Mi spinsero su una sedia dura. C'era il solito sentore di cherosene e sigarette, ma
questa volta anche un acre puzzo di sudore.
Non potevo dire se venisse dalle persone nella stanza o da un precedente
prigioniero. Cercai di protendermi, ma delle mani mi afferrarono e mi tirarono
indietro.
In quella stanza c'erano molte persone, che trascinavano i piedi, tossivano e
parlottavano tra loro: sembravano disposte su due lati. Sentivo sibilare le lampade
ad acetilene. Non sapevo se la stanza fosse senza finestre o se fossero state tirate
le tende ma, a parte la luce delle lampade, era molto buia.
Irrigidii i muscoli e aspettai. Per un minuto circa incombette il silenzio: ero
preoccupato, qui facevano sul serio. Questi non erano fessi. , Una voce mi
parlò dal fondo della stanza. Sembrava quella di un caro nonnino: una voce
anziana e un po' roca, dal timbro molto gradevole.
« Come va, Andy? »
« Non troppo male. »
«Sembri piuttosto malconcio.» L'inglese era fluente, ma con un forte accento. «
Forse quando saremo arrivati in fondo a questa faccenda con reciproca
soddisfazione, riusciremo a procurarti delle cure mediche. »
« Sarebbe molto bello se fosse possibile. Grazie mille. Anche per il mio amico? »
,"
Adesso eravamo in un nuovo ambiente, con un nuovo gruppo.
Se stavano facendo la solita parte dei bravi ragazzi, forse sarei riuscito a ottenere
qualcosa da mangiare, forse la visita di un medico, forse qualche cura per Dinger.
Era anche possibile che riuscissi a strappargli qualche informazione. Forse mi
avrebbero tolto la benda e le manette, forse, forse, forse. Anche se fosse stato solo
per dieci minuti, sarebbe stato meglio che un calcio nelle palle. Se ti promettono
delle cose, devi fare in modo che te le diano. Prendi tutto quello che puoi, finché
puoi. Bene, forza... stiamo un po' a vedere.
« La sola cosa che vogliamo sapere, Andy, è cosa facevate nel nostro Paese. »
Ripetei di nuovo la mia storia, cercando di apparire umile e impaurito.
« Ero su un elicottero come membro di una squadra di ricerca e soccorso. Sono un
sanitario, non ero lì per ammazzare le persone.
L'elicottero è atterrato, c'è stata un'emergenza, ci hanno détto di scendere
rapidamente e poi l'elicottero è decollato. Non so quante persone siano scese
dall'elicottero, o quante adesso sono a terra e in giro per l'Iraq. Dovete capire che
c'era una confusione totale. Era notte: nessuno sapeva dove fosse l'ufficiale, io
penso che possa essere ritornato indietro, che ci abbia abbandonato.
Non ho idea di dov'ero né di dove stavo andando. Correvo, ero spaventato e
confuso. E questo è tutto. »
Ci fu una lunga pausa.
«Andy... è vero che capisci che sei un prigioniero di guerra e che ai prigionieri di
guerra è richiesto di fare certe cose? »
« Lo capisco, e sto cercando di aiutarvi il più possibile. »
«Noi abbiamo bisogno che tu firmi certi documenti. Abbiamo bisogno di alcune
tue firme per mandarle alla Croce Rossa. Servono per far sapere alla tua famiglia
che ti trovi qui. »
« Mi dispiace, ma in base alla Convenzione di Ginevra mi hanno detto che non
devo firmare nulla. Non capisco proprio perché dovrei firmare qualcosa, quando
ci hanno insegnato che non dobbiamo farlo. »
« Andy... » La Voce divenne ancora più suadente. « Perché tutto vada liscio
dobbiamo aiutarci reciprocamente, d'accordo? »
« Sì, certo. Però, io non so niente. Vi ho detto tutto quello che so.»
« Dobbiamo davvero aiutarci, altrimenti la situazione può diventare dolorosa.
Penso tu capisca che cosa intendo con questo, vero, Andy?»
« Lo capisco, ma davvero non so come potrei aiutarvi. Ho detto tutto quello che
so. Non so nient'altro. »
C'è una tecnica usata dai venditori molto sagaci per strapparti la dichiarazione che
vuoi comprare il prodotto. Si chiama... qualcosa come «pausa creativa». L'ha
spiegata Victor Kiam in uno dei suoi libri: quando una trattativa era al culmine,
lui si interrompeva e faceva una pausa, e se la persona cui stava cercando di
vendere qualcosa sentiva la necessità di continuare la conversazione in quel
silenzio, lui sapeva di essere riuscito a vendergli il prodotto. L'antagonista sentiva
di dover fare qualcosa, cioè in pratica comprare.
Mi mantenni in silenzio e con l'aria confusa.
«Hai proprio un aspetto terribile, Andy. Hai bisógno di assistenza medica? »
« Sì, grazie. »
«Bene, Andy. Ma le cose le devi pagare. Quello che noi ti chiediamo in cambio è
un po' d'aiuto. Tu gratti la schiena a me, e io gratto la schiena a te! Credo sia un
vecchio detto inglese, giusto? »
Probabilmente girò lo sguardo nella stanza alla ricerca di approvazione perché gli
altri risero forte, un po' troppo forte. Come quando il presidente del consiglio di
amministrazione racconta una barzelletta cretina e tutti ridono perché è il
presidente. Probabilmente metà delle persone nella stanza non avevano nemmeno
sentito quello che aveva detto.
«Vi aiuterò», dissi. «Sto cercando di aiutarvi il più possibile.
Mi chiedo se potrei avere del cibo e dell'acqua, dato che il mio amico e io non
mangiamo né beviamo da tempo. Ho molta sete, e mi sento molto debole. »
« Se ci aiuterai, potremmo raggiungere una specie d'accordo, ma non puoi
aspettarti che faccia qualcosa per niente. Lo capisci, Andy?» « ,«
« Sì, lo capisco, ma non so davvero cosa lei desideri da me. Le ho detto tutto
quello che so. Siamo solo soldati, ci hanno ordinato di scendere dall'elicottero e di
muoverci. Non so che cosa stia succedendo. L'esercito ci tratta come merde. »
« Penso che troverai che qui le persone ti trattano meglio. Sono disposto a fornire
cibo, acqua e assistenza medica a te e al tuo amico, Andy, ma deve essere uno
scambio equo. Dobbiamo sapere i nomi delle altre persone, in modo che possiamo
informare la Croce Rossa che si trovano in Iraq. »
Inutile dire che erano una massa di stronzate, ma dovevo mostrarmi il più
compiacente possibile senza effettivamente dire nulla. Volevo che questo
interrogatorio rimanesse nelle mani di Nonno Tenerone. Era educato, cordiale,
gentile, morbido, premuroso. Non ero ansioso di vedere il suo lato cattivo, tanto
sapevo che prima o poi me lo avrebbe mostrato.
« Il solo nome che conosco è quello del mio amico Dinger », risposi. Lui aveva
sicuramente fornito il proprio nome, matricola, grado e data di nascita, come
prescritto dalla Convenzione di Ginevra. Dissi il suo nome per intero. « A parte
lui, non ho idea di chi c'era e chi non c'era. Era molto buio. Tutti correvano da
tutte le parti, era il caos. So di Dinger soltanto perché l'ho visto. »
Qualcosa mi diceva che la storia di copertura stava crollando: non sembrava più
credibile neanche a me. Iniziava a fare acqua come qualsiasi altra storia... a parte
quelle di «copertura profonda » che sono molto più elaborate. Era solo questione
di tempo.
Non avevo idea di cosa pensassero i beduini a quel punto; era solo un gioco del
gatto con il topo. Lui faceva una domanda e io gli davo la mia risposta cretina, al
che lui faceva la successiva senza nemmeno considerare quello che gli avevo
risposto.
La Voce capiva che gli stavo raccontando cazzate e io, a mia volta, capivo che
non gli stavo raccontando quello che voleva. Sicuramente sarebbe successo
qualcosa di terribile.
Mentalmente stavo bene. Lo stato mentale può essere alterato dalle droghe, ma
speravo non fossero cosi progrediti e usassero ancora le tattiche dei cavernicoli.
La violenza fisica può aiutare l'inquisitore solo fino a un certo punto: oltre quello,
non è più produttiva. Dalle botte che ti hanno dato possono valutare le tue
condizioni fisiche, non lo stato mentale: a tale scopo, devono conoscere il tuo
livello di attenzione, e il solo indizio visibile è dato dagli occhi. Alcuni crollano
completamente se un inquisitore ride delle dimensioni del loro cazzo, o li accusa
di essere omosessuali o dice che la loro madre ha fatto la puttana. Si eccitano, e
questo dimostra che non sono così fuori come vorrebbero apparire. Tutti hanno
una crepa nell'armatura, e compito dell'inquisitore è scoprirla. Da quel momento
in poi, sei fottuto.
Noi eravamo addestrati ad aspettarcelo e avevamo la fortuna che nel Reggimento
tutti ti prendono per il culo in continuazione.
La vita quotidiana ruota attorno agli insulti più sanguinosi. Comunque sarebbe
stata una dura battaglia.
Se sei fisicamente e mentalmente esausto, non dovresti nemmeno avere l'energia
di comprendere ciò che ti si dice; e men che meno di reagire. Il tuo bluff non
durerà molto se solo sbatti una palpebra quando lui ride delle dimensioni del tuo
cazzo o ti chiede ragguagli sulla posizione preferita da tua moglie. Devi sembrare
esausto, convincerlo che quello che ti hanno fatto è davvero troppo perché tu
possa ancora capire qualcosa, che hai detto loro tutto quello che sai e non c'è nulla
che desideri di più che tornare a casa. Il vantaggio con cui partivo era che per loro
anche un sottufficiale anziano non è nessuno. Non avevano la mia mentalità, e
non l'avrebbero mai avuta: era solo una questione di ricordargli che ero uno
zuccone semideficiente, che non sapevo un tubo.
Domandai che mi levassero la benda e le manette. « Non riesco a pensare
chiaramente», dissi. «Ho le mani intorpidite e male agli occhi. Ho il mal di testa.
»
« E' per la tua sicurezza », rispose la Voce.
«Certo, capisco, signore. Scusi se gliel'ho chiesto.»
Era per la loro sicurezza, non per la mia. Non volevano che un giorno fossi in
grado di identificarli.
« Sto cercando di aiutarvi », continuai, « ma sono soltanto un sergente. Io non so
niente. Non faccio niente e non desidero neanche fare niente. Non voglio stare
qui. E' il governo che mi ha mandato. Io stavo solo volando su un elicottero, non
sapevo nemmeno che eravamo atterrati nel vostro Paese. »
« Capisco tutto, Andy. Però, devi renderti conto che dobbiamo chiarire alcune
cose. E visto che noi aiutiamo te, tu devi aiutare noi, come abbiamo già detto. Lo
capisci? »
«Sì, capisco... ma mi spiace, è tutto quello che so.»
Questo gioco andò avanti per un'ora buona. Veniva condotto con grande coerenza,
e non ci furono maltrattamenti di nessun tipo. Era chiaro che, di base, sapevano
che stavo mentendo spudoratamente, ma gli unici problemi me li creai io stesso
quando non riuscii a tenermi due passi davanti a lui e finii per contraddirmi.
Capitò un paio di volte.
« Andy, ci stai dicendo delle bugie? »
« Sono confuso. Lei non mi da il tempo di pensare. Ho paura che non tornerò a
casa vivo. Non voglio fare questa guerra. Ho solo tanta, tanta paura. »
«Ti darò tempo per pensare, Andy... ma tu devi pensare chiaramente, perché noi
non possiamo aiutarti se tu non ci aiuti. »
A questo punto cominciò a parlare della mia famiglia e della mia istruzione. « Sei
laureato? »
Laureato? Non ero andato nemmeno alle superiori.
«No, non ho neanche il diploma. Ecco perché faccio il soldato.
Nell'Inghilterra della Thatcher, se non hai un'istruzione non puoi fare niente. Io
appartengo alla classe operaia, in fondo alla scala.
Ho dovuto arruolarmi nell'esercito perché non potevo fare altro.
L'Inghilterra è molto cara, ci sono molte tasse. Se non avessi fatto questo lavoro
sarei morto di fame. »
« Hai fratelli e sorelle? »
« No, non ho né fratelli né sorelle. Sono figlio unico. »
«Dobbiamo sapere l'indirizzo dei tuoi genitori per avvisarli che sei ancora vivo.
Chissà come stanno in pena per te, Andy.
Devi inviargli un messaggio, li farà sentire meglio. Possiamo inviarlo noi. Siamo
disposti ad aiutarti, purché tu aiuti noi. Quindi, se tu mi dessi l'indirizzo dei tuoi
genitori, gli manderemmo una lettera. »
Spiegai che mio padre era morto per una malattia cardiaca, e mia madre era
scappata e adesso era da qualche parte in America.
Non la vedevo da anni. Non avevo famiglia.
« Ma avrai pure degli amici in Inghilterra, che desiderano sapere dove sei. »
«Sono solo. La mia casa è l'esercito. Non ho nessuno.»
Sapevo che non mi credeva, ma era meglio che tacere e basta.
Il risultato finale era lo stesso, ma almeno non mi picchiavano.
« Andy, perché pensi che gli eserciti occidentali siano qui? »
« Non ne sono sicuro. Bush dice che vuole il petrolio del Kuwait e la Gran
Bretagna è d'accordo. Essenzialmente noi siamo servi di Bush e io sono servo di
John Major, il nuovo primo ministro. Io questa guerra non la capisco proprio.
Quello che so è che sono stato mandato per fare il sanitario. Non ho interesse per
la guerra, non volevo fare la guerra. So che la Thatcher e Major se ne stanno
seduti a casa loro a bere gin and tonic, e Bush fa jogging attorno a Camp David e
io sono qui, coinvolto in una faccenda che non capisco. Vi prego, credetemi,
voglio andare a casa... sto cercando di aiutarvi. »
« Ci vediamo molto presto, Andy », disse. « Adesso vai pure. »
Quelli dietro di me mi tirarono su e mi fecero rifare la stessa strada da cui ero
venuto. Non riuscivo a muovere i piedi alla loro velocità, per cui mi trascinarono
per tutto il corridoio, lungo il viottolo, sull'acciottolato e di nuovo in cella. Poi mi
ricacciarono nell'angolo, nella stessa dolorosa posizione.
Quando la porta sbattè, sospirai profondamente di sollievo e cominciai a
sistemarmi.
Due minuti dopo, entrò una guardia. Mi tolse la benda, ma io non sollevai lo
sguardo: l'ultima cosa che desideravo era un'altra mano di botte. Uscì di nuovo,
lasciandomi a guardare per la prima volta quello che mi circondava.
Il pavimento era in cemento: cemento molto brutto, sbrecciato, sforacchiato e
umidissimo. Alla destra della porta c'era una finestra, una piccola apertura sottile
e lunga. Sollevando gli occhi, vidi un grosso gancio al centro del soffitto. Il cuore
cominciò a battermi all'impazzata: era là sopra che mi avrebbero appeso?
Le pareti, un tempo color crema, adesso erano coperte di sudiciume: le superfici
erano piene di graffi, incisioni e scritte in arabo. C'erano anche un paio di
svastiche naziste, e su una parete una colomba vista da dietro, grande più o meno
come un foglio di macchina per scrivere, che volava verso il cielo. L'uccello
aveva catene che gli imprigionavano le zampe e sotto, tra le scritte arabe,
spiccavano alcune parole in inglese: « Al mio unico bene, il mio bambino Josef,
lo vedrò mai più?» Era un piccolo capolavoro, e mi domandai chi l'avesse inciso e
cosa gli fosse successo.
Era forse l'ultima cosa che aveva fatto prima di morire? Forse era in assoluto
l'ultima cosa fatta in quel luogo?
Sul muro c'erano due enormi macchie di sangue... un litro, un litro e mezzo per
ciascuna, sangue essiccato sullo stucco. Accanto a una macchia c'era un pezzo di
cartoncino. Lo fissai per un po', poi saltellai sul culo finché non mi avvicinai
abbastanza da riuscire a leggere quello che c'era scritto. Veniva da una scatola che
conteneva bustine di una bibita energetica. L'imballo esaltava la bontà del
prodotto che ti dava vitalità ed energia. Lessi ancora, e il mio cuore sobbalzò: il
prodotto veniva da Brentford, nel Middlesex. Era il luogo di origine della madre
di Kate.
Conoscevo bene quel posto, sapevo anche dov'era la fabbrica, e Kate abitava
ancora là. Al pensiero di mia figlia, piombai in una profonda depressione. Quanto
tempo sarei rimasto lì? Tutta la guerra? O finché non mi avrebbero eliminato?
Sarei entrato nelle statistiche sulle atrocità irachene?
La mia sola difesa era ripensare alle varie possibilità. C'erano altri sopravvissuti
della pattuglia? Gli iracheni avevano stabilito definitivamente un rapporto tra noi
e l'incidente sulla strada?
Avevano già catturato qualcuno che gli aveva dato conferma e si stavano solo
divertendo? No, il solo fatto certo era che avevano in pugno me e Dinger.
Circa un quarto d'ora dopo udii nel corridoio delle voci attutite. Il cuore cominciò
a battermi forte. Sarà stato verso il tramonto. Il corridoio doveva essere molto
buio, perché le ombre non filtravano più sotto la mia porta. Rimasi ad ascoltare
tutte le voci che arrivavano fino alla porta in fondo; poi anche quella fu chiusa,
per la prima volta dal nostro arrivo. Significava che saremmo rimasti per la notte?
Speravo di si. Avevo bisogno di metter giù la testa.

L'oscurità portò con sé uno strano senso di sicurezza, perché non riuscivo a
vedere... misto a terrore, perché avevo freddo e troppo tempo per pensare. Cercai
di dormire sdraiato, con la testa appoggiata al pavimento, ma la migliore
posizione si dimostrò quella su un fianco, con la guancia appoggiata sul cemento.
L'unico inconveniente era la pressione sull'anca: ogni pochi minuti dovevo
spostarmi per alleviare il dolore, e finii per non dormire.
Le lampade ad acetilene brillarono sotto la porta; sentii dei passi e un tintinnio di
chiavi. Il chiavistello stridette. Cominciarono a dar calci alla porta: era ancora più
spaventoso che durante la giornata. Sentii anche la porta di Dinger che faceva lo
stesso rumore.
Tutto era sapientemente intimidatorio: loro avevano il potere e la lampada, mentre
io ero solo un povero stronzo nell'angolo.
La porta si aprì. Si avvicinarono, mi fecero alzare in piedi e mi guidarono fuori
nel corridoio. I piedi mi facevano un male terribile e dovetti lasciarmi cadere per
alleviare il peso. Mi trascinarono per pochi metri, poi si fermarono. Mi spostarono
in un'altra cella, e io non riuscivo a capire cosa stava succedendo. Era una specie
di cella di rigore? O un'altra stanza per gli interrogatori?
Mi sbatterono sul pavimento e mi tolsero le manette, ma solo per rimettermele al
polso sinistro. Avevo la destra libera, mentre l'altra era ammanettata a qualcosa.
Uno di loro disse: «Adesso stai qui».
Uscirono dalla cella, chiusero la porta e i loro passi svanirono nel corridoio.
Tastai con la mano libera per capire a che cosa ero agganciato, ma incocciai nel
braccio di un'altra persona.
« Dinger? »
« Segaiolo! »
Finalmente riuniti.
Eravamo felicissimi di essere insieme. Per qualche minuto restammo lì come due
fessi, solo ad abbracciarci e salutarci. Poi sentimmo dei passi in corridoio e le
guardie cominciarono a dar calci alla porta per entrare. Guardai Dinger; aveva la
faccia delusa come me. Quando entrarono alzai gli occhi, pronto per dire: alè,
ragazzi. Ma portavano una coperta per noi. Era il compleanno di Saddam, o cosa?
«Come vanno le tue mani?» bisbigliai all'orecchio di Dinger, nel dubbio che
fossimo stati messi assieme perché nella cella c'erano le microspie.
« Vanno di merda. » »
Tutto sommato non mi dispiacque: mi sarei incazzato se avessi avuto le mani in
condizioni peggiori delle sue.
«Io ho ancora la carta geografica e la bussola», gli confidai.
« Sì, anch'io. Non riesco a crederci. » , « Oro? »
« Se lo sono preso i borghesi. E il tuo? »
« Se lo sono preso gli ufficiali. »
Per la mezz'ora seguente facemmo come due ragazzini che confrontano le
rispettive sbucciature. Prendemmo per il culo le guardie e sparlammo di tutti in
generale. Poi sistemammo la coperta in modo che ci stesse sotto il culo, ma ci
coprisse anche la schiena e le spalle. Mentre ci spostavamo per stare più comodi,
le manette si stringevano sempre più.
Seduto al buio con Dinger, seppi cosa era capitato a lui, Legs e Bob dopo che ci
eravamo divisi.
Mentre si spostavano lungo la siepe Dinger sentì un rumore e si fermò. Legs e
Bob lo seguivano a breve distanza. Non potevano alzare la voce per avvertire
noialtri, e la pattuglia si divise.
Il rumore cessò. Aspettarono dieci minuti, ma non tornò nessuno. Continuarono
muovendosi con la bussola. Avevano percorso non più di duecento metri quando
videro un pericolo a quindici metri. Due proiettili fischiarono molto vicino a loro.
Poi fu aperto il fuoco da molte postazioni. Ci fu uno scontro, durante il quale Bob
fu separato dagli altri due.
Dinger e Legs spararono e riuscirono a ritirarsi verso il fiume.
A circa centocinquanta metri era in corso un rastrellamento, con molti spari e
grida. Gli iracheni si stavano avvicinando lungo un fronte esteso.
Dinger e Legs avevano trenta colpi per la Minimi, e un caricatore tra tutti e due.
Non restò loro altra scelta che attraversare il fiume. Arrivarono ai bordi dell'acqua
e trovarono una piccola barca. Cercarono di togliere l'ormeggio, ma senza fortuna.
Non volevano sparare al lucchetto, perciò restava una sola via di fuga.
Il fiume sembrava largo solo cento metri, e la corrente lenta.
Però l'acqua era così fredda che Dinger rimase senza fiato.
Quando si issarono faticosamente a riva si accorsero di avere nuotato in un
affluente e di essere in realtà bloccati su una striscia di terra in mezzo al fiume.
Sulla sponda da cui erano partiti, gli iracheni sparavano e gridavano, le torce
illuminavano l'acqua. Cercarono un riparo.
La striscia di terra era controllata da un blocco stradale, su una chiatta distante
circa duecentocinquanta metri. Dinger e Legs erano allo scoperto e tremavano
convulsamente per il freddo. Legs compì una piccola perlustrazione per scoprire
come potevano uscirne. Sentivano continuare gli altri scontri, in particolare uno
prolungato in cui era coinvolta una Minimi. Doveva essere Bob. Poi scese il
silenzio.
Legs trovò uno scatolone di polistirolo che spezzarono e si misero nelle casacche
come salvagente. Il solo punto di fuga dalla striscia di terra era pattugliato dalle
guardie, e c'era una tale attività nemica che la sola possibilità era attraversare il
fiume principale.
Rimasero a terra per un 'ora, aspettando l'occasione. Casacche e pantaloni si erano
irrigiditi per il gelo; dovevano muoversi. Dinger indugiava. Aveva faticato
moltissimo ad arrivare fino lì, e temeva che non sarebbe riuscito ad attraversare il
fiume principale.
Legs lo incitò. Guadarono finché l'acqua non gli arrivò alla vita, poi cominciarono
a nuotare. Il fiume era largo cinquecento metri, la corrente veloce, e ben presto
Dinger si trovò ad annaspare.
«Ce la facciamo, amico», lo rassicurò Legs. « Possiamo farcela. »
Alla fine, Dinger toccò terra con i piedi. «E' il fondo», bisbigliò mentre si
accasciava sulla terra asciutta, controllando istintivamente la riva per vedere se
c'era attività nemica.
Guardandosi alle spalle, vide che la corrente li aveva trascinati indietro di circa un
chilometro e mezzo; e Legs era ancora in acqua. Corse lungo la riva e lo trascinò
fuori. Legs non si reggeva in piedi.
A circa dieci metri dalla riva Dinger aveva visto la baracca di una pompa
idraulica. Vi trascinò Legs e lo fece entrare. Anche Dinger era così stanco che gli
ci vollero due ore per riuscire a togliergli gli abiti bagnati.
Era l'alba. Dinger portò Legs fuori, al sole, senza più preoccuparsi del pericolo di
venire scoperti: la cosa più importante era che non morisse. La gente cominciava
a lavorare nei campi, obbligando Dinger a portare l'amico dentro e fuori dalla
baracca. Sapeva che fra poco sarebbero stati scoperti. La zona era battuta da
centinaia di soldati.
Legs stava per morire, e Dinger doveva prendere una decisione: sarebbe rimasto
nascosto senza poter fare nulla per lui, o avrebbe compromesso la posizione
dandogli forse la possibilità di essere curato? Il dubbio non si poneva neppure.
Dinger lasciò la capanna e si aggirò nei pressi finché un contadino non lo
individuò.
Dinger corse indietro e si chiuse la porta alle spalle. Il contadino lo rincorse, mise
il lucchetto e si precipitò nei campi gridando. Dinger aveva predisposto una via di
fuga nel retro della capanna. Legs era accanto al generatore, ma ansimava
pesantemente. Dinger gli spiegò cosa avrebbe fatto e se ne andò. Non sapeva se
Legs avesse capito, ma lo sperava.
Stava correndo sul fondo di uno uadi disseccato, quando un civile lo individuò.
Presto arrivarono a gruppi, venti o trenta alla volta, chiudendogli la via lungo
entrambe le rive. Cominciarono a sparare. Sapeva che lo avrebbero preso, ma
continuò a correre. Aveva la sciarpa a rete in testa nel tentativo di passare per
arabo, ma a un certo punto gli vennero addosso, lo sbatterono a terra e gli
legarono le mani dietro la schiena. Quando Dinger sollevò la testa, vide uno di
loro estrarre un coltello, presumibilmente per tagliargli un orecchio.
Era il momento giusto per mostrare l'oro che aveva nel cinturone. I locali
pensarono che fosse Natale: glielo presero e cominciarono a contenderselo.
Quando si furono messi d'accordo, trascinarono Dinger in città.
I civili lo stavano facendo a pezzi; vennero sparati alcuni colpi, e pensò che la fine
fosse vicina. Ma gli spari venivano da una squadra di militari che si fecero strada
tra la folla e lo liberarono. Doveva esserci qualche ordine o qualche premio per
chi riportava vivi i prigionieri.
Lo misero in un convoglio di veicoli che riattraversarono il fiume diretti a una
base militare. Grande eccitazione generale: Dinger era il primo bianco che
avevano catturato.
Fu ammanettato a una sedia in una stanza piena di ufficiali che parlavano bene in
inglese e gli chiesero prima le Big Four, e poi: « Qual è la tua missione? » al che
lui ribattè: « Non posso rispondere a questa domanda ».
Gli dissero che di quel passo le cose si sarebbero messe molto male: erano in
guerra. Gli rifecero la domanda e lui cominciò a rispondere. Arrivò fino a «Non
posso... » e lo aggredirono. Avevano il morale alto: sembravano impegnati in una
gara.
Il pestaggio andò avanti per mezz'ora senza che gli facessero nessuna vera
domanda. Poi uno degli ufficiali si alzò e lasciò la stanza, e uno degli altri gli
annunciò: «Adesso saranno dolori».
L'uomo ritornò con un palo di legno lungo un metro e venti, del diametro di nove
centimetri.
Il trattamento durò al massimo un minuto e mezzo, ma Dinger era sicuro che
continuando così sarebbe morto. Allora cominciò a raccontare la storia di
copertura.
Gli chiesero quante persone e 'erano nella squadra di ricerca e soccorso, e quando
lui ribattè: «Non posso rispondere a questa domanda», ricominciarono con il palo.
Gli portarono un 66 e un 203 scarichi e gli chiesero come funzionavano quelle
armi. Dinger si rifiutò di mostrarglielo, il che gli procurò un 'altra battuta. Poi
pensò: Cristo, è un 'arma, non un segreto di Stato. Potrebbero scoprire come
funziona da una copia del Jane's Defence Weekly.
Raccontò loro la storia del recupero dei piloti, che sembrò andare bene, ma era
solo all'inizio degli interrogatori. Sapeva che la situazione sarebbe molto
peggiorata.
Confrontammo quello che sapevamo sul resto della pattuglia.
L'ultima volta che Dinger lo aveva visto, Legs era steso su una barella,
assolutamente immobile. Secondo lui, era morto. Non avevamo la minima idea di
che fine avesse fatto Bob. Dinger aveva pensato che fosse con noi, e noi che fosse
con loro. Aveva visto parte dell'equipaggiamento di Bob quando eravamo stati
spostati a Baghdad; era un brandello del suo giubbotto, ed era orribilmente
bruciacchiato. Brutto segno. Mentre io venivo interrogato, subito dopo la cattura,
Dinger era in un'altra stanza con tutte le nostre attrezzature che i beduini avevano
recuperato.
«Avevano anche armi. I ragazzi hanno iniziato a giocherellare con un 203, e io gli
ho gridato di lasciarlo stare perché era ancora carico. Ci ho guadagnato un pugno
sulla bocca. I coglioni hanno sparato e il colpo è partito. »
Fortunatamente per Dinger, una bomba del 203 deve viaggiare per almeno venti
metri prima che la sicura a inerzia si tolga automaticamente. La bomba colpì il
soffitto e rimbalzò di nuovo giù.
Quel giorno Allah era di buon umore: se fosse esplosa, avrebbe ucciso tutti.
« A quel punto, tutti si sono spaventati a morte e naturalmente mi hanno picchiato
di nuovo. »
Continuammo a parlare del 203, ma facevamo fatica a non scoppiare a ridere. Era
un tale sollievo sentire di nuovo la voce di Dinger... sembrava che tutti i miei
problemi fossero svaniti.
«Il sergente maggiore ha preso una bussola, ma essendo un coglione non aveva la
più pallida idea di come funzionasse.
Non voleva perdere la faccia davanti ai soldati, ha fatto finta di saperlo. E' stata
una vera goduria. Teneva quel cazzo di cosa dalla parte sbagliata cercando di
aprirla, e io ero là, a testa bassa, con un sorrisetto sulla faccia, che cercavo di non
scoppiare. Tiravano via dall'attrezzatura pezzi vari e roba innocua come le
batterie, e per loro tutto era esplosivo. Si aspettavano che tutto quanto gli
scoppiasse in faccia. »
Passammo a un umore più serio e mi chiesi se Stan e Vince erano ancora vivi.
Probabile che Stan fosse morto. Stava già male la prima notte della fuga, e non
potevo convincermi che fosse migliorato all'improvviso.
«Bastardo!» dissi. «Gli avevo dato il mio berretto da baseball. »
«Quel bastardo è sempre stato pieno di accessori», osservò Dinger. « Scommetto
che a quest'ora è già riuscito a fregare la giacca a vento a Dio. »
Su Vince e Chris eravamo in dubbio. Presupponendo che se qualcuno fosse
rimasto vivo a quest'ora sarebbe stato con noi, anche loro, come Bob, o erano
scappati o erano morti.
L'unica cosa che proprio non riuscivamo a capire era perché ci avevano messi
insieme. Significava forse che credevano alla nostra storia? Speravano che
avremmo cominciato a cantare alla grande? Giungemmo alla conclusione che non
avremmo sprecato tempo ed energie a lambiccarci il cervello: dovevamo pensare
solo a goderci la reciproca compagnia.
Il rumore di un chiavistello aperto ci fece subito riassumere la concentrazione. Sul
pavimento echeggiarono di nuovo dei passi e il bagliore delle lampade ad
acetilene invase la cella. Oh, no, merda, pensai... adesso ci dividono.
Comparvero due guardie. La prima ci presentò una brocca d'acqua, la seconda
reggeva ciotole fumanti.
La coperta, l'acqua, la minestra... sembrava di stare al Ritz.
Avevamo il servizio in camera e tutti i comfort. Chissà se potevo chiedergli di
portarci una copia del Financial Times.
Li guardammo con la coperta sulle spalle, ridendo come due profughi colmi di
gratitudine.
«Americani?» chiesero. - , « No, britannici. »
« Tel Aviv? »
« No. Britannici, Inghilterra, Londra. »
« Ah, Londra. Calcio. Manchester United. Calcio. Bene. »
« Sì, Liverpool. »
«Ah, Liverpool. Bobby Moore! Bene!»
Non ci dicemmo una sola parola finché la porta non si fu rinchiusa per bene. Poi
mi voltai verso Dinger e all'unisono esclamammo: «Merdaioli!» e ci facemmo una
bella risata.
Le ciotole contenevano una broda calda che sapeva vagamente di cipolle. Nella
brocca c'erano un paio di litri d'acqua, che aveva un sapore migliore dello
Champagne d'annata. In teoria, bisognerebbe andarci con calma e berla
lentamente. In pratica, col rischio che arrivino i bastardi e te la soffino da sotto il
naso, sei obbligato a fare in fretta. Il rischio grosso è di trarne solo una sensazione
di umidità in gola e la pancia gonfia.
Cercammo di metterci giù. Le manette ci imponevano di stare sulla schiena.
Stendemmo la coperta sopra di noi e rimasi a fissare il soffitto. Molto presto
cominciai a storcere il naso: Dinger puzzava, puzzava maledettamente.
«Poveretta, tua moglie», gli dissi. «Me l'immagino, dover dormire tutte le notti
con un puzzone come te: deve essere come andare a letto con un grizzly. »
Pochi minuti dopo fui preso da un incredibile mal di pancia.
Dovevano essere state le cipolle.
« Dinger, amico, devo fare la cacca. »
Borbottando Dinger si issò in una posizione semisdraiata, con la mano sollevata,
in modo che potessi allontanarmi un po' da lui.
Combattei fieramente per tirarmi giù i pantaloni, cercando di non stringere troppo
le manette.
« Cazzo, sbrigati », gemette. « Cerchiamo di dormire. »
Alla fine mi misi in posizione e svuotai il culo. La merda liquida e scivolosa si
sparse dappertutto.
«Oh, cazzarola», protestò Dinger. «Qui siamo a casa mia, perché non lo hai fatto a
casa tua? »
Non riuscivo a trattenermi, continuava a uscire.
« Sei un bifolco ingrato... è così che si fa? Uno ti invita a casa sua, ti offre la cena
e come viene ripagato? Svuoti il tuo culo fetido sul suo miglior tappeto. »
Scoppiai a ridere così forte che ci ricaddi in mezzo, ma non potei far altro che
tirarmi su le braghe e tornare a sdraiarmi.
Non era la situazione ideale, ma c'erano almeno tre vantaggi.
L'avevo fatta nella sua cella, e non nella mia, mi scaldava le gambe, e adesso
sarebbe stato il suo turno.
Ci raggomitolammo sotto la coperta.
Durante la notte sentivamo le guardie andare e venire e le porte che sbattevano.
Ogni volta avevo il terrore che venissero a prenderci, ma passarono sempre oltre.
A un certo momento, in lontananza sentimmo una porta che si apriva con un
calcio e un seguito di urla soffocate, grida, gemiti e grugniti: evidentemente
qualcuno le stava buscando. Ci si sforza di ascoltare, ma si captano solo sporadici
frammenti. Sentire un'altra persona che soffre a quel modo è terribile: non tanto
perché potrebbe essere un tuo amico... questo non lo sai, e quindi non te ne
importa. Ma è molto demoralizzante, perché sei privo di difese e fra poco
potrebbe toccare a te.
Le voci dicevano: «Cattivo. In piedi! Cattivo, cattivo». Poi come il rumore di un
piatto scagliato attraverso una stanza che sbatteva sul cemento.
Era Stan il nome che avevano detto? Facemmo di tutto per sentire qualcosa di più,
ma il rumore cessò. Be', almeno nel casino c'era qualcun altro, anche se non
sapevamo se si trattava di uno di noi. Chiunque fosse, però, poteva rappresentare
una minaccia. Dinger e io eravamo soddisfatti che le nostre storie quadrassero, e
un'altra persona sulla scena - una persona con cui non potevamo comunicare -
poteva voler dire che il tappeto ci sarebbe stato strappato da sotto i piedi. Sentii
svanire tutta la contentezza. Salvo per il fatto che ero ancora insieme a Dinger.
Nota: In inglese, «in piedi» si dice stand, da cui l'equivoco col nome Stan.
(N.d.T.). Fine nota.
All'improvviso, come se li avessero mandati apposta per tranquillizzarmi, sentii il
gradito rumore dei bombardieri nel cielo, a circa due chilometri. Immediatamente
tornai a sperare. Se fossimo stati colpiti, avremmo potuto fuggire.
Passammo il resto della notte insieme. Ogni volta che sentivamo sbattere le porte
pensavamo che sarebbero venuti a separarci e ci salutavamo. Alla fine, era già
mattina, la porta effettivamente si aprì e io fui ammanettato, bendato e condotto
via.
Sapevo che mi stavano portando a un altro interrogatorio: mi ricordavo la strada.
Fuori dalla porta, svolta a destra, corridoio, a sinistra, acciottolato, gradino; poi
viottolo di fianco ai cespugli, ed eccomi in una stanza. Stabilii che era la stessa
dell'altra volta.
Mi fecero sedere su una sedia e mi tennero fermo.
«Buongiorno, Andy», disse la Voce. «Come va stamattina?»
«Bene, grazie infinite», risposi. «Grazie per la coperta. Fa molto freddo di notte. »
« Sì, fa molto freddo. Come puoi vedere, Andy, noi ci prendiamo veramente cura
di voi. Siamo generosi con le persone che ci aiutano. E tu ci aiuterai... vero,
Andy?»
«Sì, gliel'ho detto. Farò del mio meglio per aiutarvi.»
« Ci sono solo un paio di questioni che vogliamo chiarire questa mattina, Andy.
Vedi... non siamo completamente convinti che tu non sia ebreo. Abbiamo bisogno
di prove. Dicci subito se lo sei, perché ti risparmierà un sacco di dolori e disagi.
Qual è la tua religione? »
« La Chiesa anglicana. »
« Che cos'è la Chiesa anglicana? »
« E' una religione cristiana. » »
« In chi credi? »
« Credo in Dio. »
« Capisco. E chi è Gesù? »
Lo spiegai.
« Chi è Maria? »
Lo spiegai.
« Andy, capisci che tu e io crediamo nello stesso Dio? Io sono musulmano e
credo nel tuo stesso Dio. »
« Sì, lo capisco. »
« Sei religioso, Andy? »
« Sì, lo sono. Prendo la mia religione molto seriamente. »
« Dimmi come pregano i cristiani. »
«Possiamo pregare in ginocchio, possiamo pregare in piedi... dipende, non
importa, E' una questione molto personale. »
Quando ero un novellino a Shorncliffe, tutte le domeniche c'era una parata
religiosa del battaglione. Bisognava indossare la divisa migliore e gli stivali, e
marciare inappuntabilmente dalla base alla chiesa della guarnigione. Era una
menata, perché da novellino ti danno solo un giorno libero alla settimana, la
domenica, e solo se nella corsa campestre del venerdì non arrivi dietro l'ufficiale
comandante: altrimenti la domenica ti devi fare un'altra corsa. Comunque, andare
a casa era impossibile, perché non si può uscire prima delle nove del mattino e
devi rientrare prima delle otto di sera. Per farla breve, non ero molto felice di
partecipare alla parata domenicale, e non ho mai fatto troppo caso a quello che
succedeva. Adesso stavo disperatamente cercando di rimettere insieme un po' di
pezzi di funzioni religiose per sembrare il più devoto baciapile dai tempi di Billy
Graham.
« Quando digiunate? Quando digiunano i cristiani? »
Digiunavamo? Non lo sapevo.
« Ma noi non digiuniamo. »
Il suo tono cambiò. «Ci stai mentendo, Andy. Stai mentendo!
Noi sappiamo che i cristiani digiunano. »
Mi parlò della Quaresima. To', non si finisce mai di imparare... non sapevo che i
cattolici digiunassero.
« Io sono protestante », dissi. « E' diverso. », Sembrò calmarsi.
«Parlami delle feste. Quali cibi mangiate? Quali non mangiate?»
Mi sforzai di ricordarmi i menù di Natale e Pasqua.
« I protestanti mangiano di tutto. In realtà noi celebriamo il fatto di mangiare tutto
quello che possiamo, quando possiamo. E' una religione molto liberale. »
« Allora non dovete astenervi dalla carne di maiale? »
« No. »
«Senti, Andy, confessa che sei un ebreo... ci basta questo. Lo sai che se ci stai
mentendo sarai punito. »
Intervenne un altro tizio alla mia destra, anche lui in un buon inglese. Mi disse
che era stato a Sandhurst.
« Quand'è la festa di san Giorgio? »
Non ne avevo la più pallida idea.
« E quella di san Swithin? »
Stessa risposta.
« Come seppellite i morti? Come portate il lutto? Per quanto tempo? »
Per due ore mi arrabattai alla bell'e meglio.
Alla fine la Voce disse: « Cosa te ne parrebbe, Andy, se ti dicessi che sappiamo
che siete ebrei, e che posso dimostrartelo? »
« Lei si sbaglia. Io non sono ebreo. »
«Bene. Dimmi tutto quello che sai dell'ebraismo.»
«Ci sono gli ebrei ortodossi che portano i cernecchi e non mangiano maiale. E'
tutto. Noi non ci mescoliamo con la comunità ebraica. »
«Bene... ora dimmi, hai mai avuto una ragazza ebrea? Conosci qualche ebreo in
Inghilterra? Dimmi i loro nomi, e dove abitano.
Come hai fatto a sapere che erano ebrei? »
« Non ho mai avuto niente a che fare con donne ebree. »
«Perché, Andy? Sei forse omosessuale?»
« No, non sono omosessuale, ma in Inghilterra abbiamo gruppi razziali ben
definiti, e non c'è molta mescolanza. La comunità ebraica sta per conto suo e non
è facile avere contatti, perché si isolano molto. »
« Quant'è grande la comunità ebraica in Inghilterra? »
« Non ne ho idea. Non ci mescoliamo. »
Le domande continuarono, e le risposte che potevo dare diventavano sempre
meno convincenti. Mi stavano incastrando... Poi all'improvviso ebbi una pensata:
chissà perché non mi era venuta in mente prima.
« Posso dimostrare di non essere ebreo. »
«E come?»
« Perché ho il prepuzio. »
«Che cosa? Che cos'è il prepuzio?»
Sentii una fitta conversazione in arabo, e un rumore di fogli che frusciavano.
Forse stavano controllando sul dizionario.
« Ve lo posso mostrare », dissi in tono conciliante. « Se mi liberate le mani, vi
mostrerò che cos'è il prepuzio. »
Non riuscivano ancora a capire di cosa parlavo.
« Come si scrive prepuzio? »
Sentii il tizio che scriveva. Due soldati mi afferrarono per le spalle e qualcuno mi
aprì le manette.
« Che cosa hai intenzione di fare, Andy? Prima devi dirci che cosa vuoi fare. »
«Be', mi abbasserò la lampo dei pantaloni, tirerò fuori il pene e vi mostrerò che ho
il prepuzio. »
Mi alzai in piedi ed estrassi l'uccello. Afferrai il prepuzio, e lo tirai su più che
potei.
« Vedete? Ho il prepuzio. La religione impone agli ebrei che vengano circoncisi.
Gli tolgono la pelle del prepuzio. »
Nella stanza ci fu un'esplosione di risate. Si rotolavano dal ridere. Mentre mi
risistemavo, fui di nuovo sbattuto sulla sedia e ammanettato.
Stavano ancora ridendo come matti per questa storia del prepuzio.
« Vorresti qualcosa da mangiare, Andy? »
« Sì, grazie mille, mangiare qualcosa mi piacerebbe proprio », risposi. E visto che
erano tutti di così buon umore, soggiunsi: «E vorrei anche qualcosa da bere, se
possibile, per favore».
Una mano mi mise in bocca un dattero.
Continuarono a ridere come se non ci fossi. Meglio così, certo, però da bere non
ottenni niente. Rimasi lì seduto con il nocciolo del dattero in bocca chiedendomi
cosa avrei dovuto farne. Non lo volevo inghiottire, perché mi si sarebbe
conficcato in gola e non avevo niente per mandarlo giù. L'ufficiale che era stato a
Sandhurst dovette capire il mio problema, perché urlò a una guardia che mi mise
una mano sotto la bocca, facendomi sputare il nocciolo.
Poi mi venne un colpo: non sapevo com'erano gli altri della pattuglia, se avevano
il prepuzio o no. Pensai che Bob era scuro di pelle e aveva un aspetto
mediterraneo. Se avessero trovato il suo cadavere avrebbero potuto scambiarlo
per ebreo e noi ne avremmo pagato le conseguenze.
«Naturalmente i cristiani possono anche farsi circoncidere per ragioni sanitarie»,
spiegai. «Alcuni genitori fanno circoncidere i figli alla nascita. Quindi non sono
solo gli ebrei a essere circoncisi. »
« Continua, Andy. Mi hai detto che gli ebrei vengono circoncisi alla nascita.
Adesso mi dici che vengono circoncisi anche i cristiani. Non ti capisco più. Ci stai
mentendo? »
« No. Dipende dai genitori. Alcuni pensano che sia più igienico. »
Trovarono la cosa ancora più divertente, e io fui felice che continuassero a ridere
ancora un po'. Mi domandavo solo come potevo farli continuare.
«Ci parleremo ancora molto presto, Andy», disse la Voce.
Fui rimesso in piedi e riportato alla mia vecchia cella. Ancora una volta ero solo e
ammanettato.
Poco dopo sentii che riportavano Dinger nella sua cella. Fummo lasciati per conto
nostro per un certo numero di ore.

Quel pomeriggio tornarono a prendermi.


«Parlaci ancora dell'elicottero, Andy», disse la Voce, mentre mi bloccavano sulla
sedia. « Che tipo di elicottero era? »
« Era un Chinook. »
« Perché un Chinook? »
«Non lo so perché. So solo che il tipo di elicottero era quello. »
« Dove siete atterrati? »
«Non ho idea di dove siamo atterrati. Era notte. Siamo soldati di sanità, non
navigatori. Rimaniamo seduti dietro. »
«Sai se l'elicottero è decollato di nuovo?»
«Non ho idea di cosa sia successo all'elicottero.»
« Se si è schiantato al suolo, e se tu sapessi dov'è e noi lo trovassimo, forse
potremmo recuperare il resto dei tuoi amici. »
Ci fu una breve pausa, poi proseguì: « Senti, Andy. Noi non riusciamo a trovare
nessun apparecchio. O è decollato lasciandovi a terra, oppure tu menti ».
«Non sto mentendo.»
Ripetei nuovamente la mia storia. Mentre parlavo, mi interruppe in continuazione.
«Andy, te lo domanderò un'altra volta. Sai dove siete atterrati?»
«No, non ho idea di dove sono atterrato. Gliel'ho già detto.
Non le posso dire altro. Non so nient'altro. Perché continua a chiedermelo? Non lo
so davvero. Voglio aiutarvi. Io voglio solo tornare in Inghilterra. »
Ora il suo tono stava cambiando, era diventato più severo.
« Quanto carburante tiene un elicottero? »
« Non ne ho idea. Non ne so niente di queste cose. Io mi limito a salire sugli
elicotteri, non so niente di come sono fatti. »
Più o meno era vero: non ho mai imparato dettagli tecnici che non mi fossero di
immediata utilità. Nel caso di un'arma, voglio sapere solo come funziona, che tipo
di munizioni spara e cosa devo fare quando si inceppa. Non voglio conoscere la
velocità iniziale e cose del genere, perché sono astratte. Miri, premi il grilletto, fa
bang e spara un colpo. Lo stesso principio vale per gli elicotteri e le altre
apparecchiature. Come la maggior parte dei soldati di mestiere, diffido di
chiunque salti fuori a snocciolare tutti i dati statistici. A volte, la gente li usa per
mascherare le proprie inadeguatezze: puoi pure essere un'enciclopedia vivente,
ma poi è la mano che conta. ,, , Queste domande erano irrilevanti: volendo,
avrebbero trovato tutte le informazioni sul Jane 's. Intanto però passava del tempo,
il che non poteva essere negativo; e soprattutto non mi stavano picchiando. D'altra
parte, cominciavano a essere meno amichevoli e mi accusavano di non
collaborare, Ma dovevo sembrargli sincero per forza, perché lo ero. Di elicotteri
non ne sapevo un tubo.
« Come fa a scendere la rampa? » ' « Qualcuno schiaccia un bottone. »
« E dov'è situato il bottone? »
«Non lo so...»
Si arresero, e mi riportarono in cella. Era buio. Mi avevano tolto la benda, ma
avevo ancora le manette. Da tempo avevo perso ogni sensibilità nelle dita e nelle
mani: avevo i polsi così gonfi che quasi nascondevano gli anelli, e le mie mani
sembravano mongolfiere.
Dopo essersi lavorato Dinger, tornarono da me. Era il terzo interrogatorio nel
volgere, credo, di ventiquattro ore. Fu il più pauroso, perché mi portarono in un
luogo dove era buio pesto.
Prima la Voce ritornò sulla questione dell'elicottero. Poi mi fecero domande sulla
strategia di guerra.
« Schwarzkopf e i suoi alleati... come hanno intenzione di invaderci? »
« Non lo so. »
«Invaderanno l'Iraq?»
« Non lo so. » ' «Quanti aerei avete?»
«Non lo so.»
« Quanti soldati siriani si stanno preparando a invaderci dalla Siria?»
« Non lo so. »
«Ritieni ragionevolmente possibile che invadano l'Iraq dalla Siria?»
« Non lo so. » ' ' « Israele invaderà l'Iraq? »
« Non lo so. »
« Bene... quanti soldati britannici ci sono al fronte? »
«Questo lo so. L'ho letto sui giornali. Da quaranta a cinquantamila, mi pare. Non
me ne importa niente, io ho paura. »
« Quanti carri armati sono pronti per invadere il Kuwait e l'Iraq? »
« Non lo so. »
«Quanti aerei?»
« Non lo so. »
« Bush si rende conto che sta uccidendo le nostre donne e i nostri bambini? »
Era uno strano interrogatorio, ma da baciarsi i gomiti: almeno non mi
picchiavano, e non tiravano in ballo che gli avevamo fatto fuori molti uomini
durante gli scontri.
Ci furono ancora molte pause, poi la conclusione: « Andy, tu non mi stai
aiutando. Devi saperlo quanti sono gli aerei ».
Ero stanco morto. Dormire era stato quasi impossibile, e avevo fame e sete. Non
so cosa avrei dato per un bicchiere d'acqua.

Alla luce del giorno, le guardie aprirono la porta con il solito calcione e mi
portarono una brocca d'acqua. Era un liquido maleodorante e disgustoso, che
sembrava essere stato raccolto da una fogna, ma pazienza. Era bagnata. E anche
se mi dava il voltastomaco, almeno mi stavo reidratando... a parte il rischio di
vomitare tutto quanto.
Volevano portare via subito la brocca, quindi dovetti bere tutto d'un fiato. Per la
prima volta dall'interrogatorio mi tolsero la benda, mi aprirono le manette e
rimasero ad aspettare mentre seduto sul pavimento alzavo la brocca con entrambe
le mani.
Cominciai a bere. I miei denti rotti esplosero di dolore quando l'acqua fredda
colpì i monconi. Guardando in corridoio, oltre le loro gambe vidi Stan. Stan è alto
circa un metro e novanta, e veniva trascinato da uomini che gli arrivavano alle
ascelle. Aveva tutta la testa, barba compresa, macchiata di un appiccicoso rosso
scuro. Il suo cuoio capelluto era solcato da una vasta ferita, aperta e luccicante; i
pantaloni chiazzati di sangue, fango e merda. Teneva gli occhi chiusi, stava
gemendo. Era completamente andato, piegato in due e praticamente inerte, ben
oltre il limite della finzione. Mi fece sentire come se fossi appena uscito da un
istituto di bellezza. Era la prima volta che lo vedevo da quando avevamo cercato
di contattare gli aviogetti con il radiofaro tattico.
Mi ricordai della notte in cui Dinger e io avevamo sentito le guardie comandare a
qualcuno di alzarsi in piedi. « In piedi, cattivo, in piedi! » Forse avevano davvero
storpiato il suo nome.
Le guardie si voltarono e, vedendo che guardavo, dettero un calcio alla brocca,
che si rovesciò; poi continuarono a prendermi a calci. »
«No guardare! » strillarono. «No guardare! »
Erano i primi calci che ricevevo dall'interrogatorio iniziale, e ne avrei fatto
volentieri a meno. Chissà se avevano lasciato aperta la porta per errore o di
proposito.
Mi raggomitolai sul cemento umido. I denti mi facevano impazzire, ma guardai la
metà piena del bicchiere: le guardie si erano dimenticate di rimettermi le manette.
Avevo la nausea, ma cercavo disperatamente di trattenere il cibo. Non volevo
disidratarmi. Alla fine, non potei evitarlo e vomitai. Tutti i preziosi liquidi che
avevo bevuto andarono persi di nuovo.
Sentii che spostavano Dinger, ma non sentii riportare indietro Stan. Poco dopo
vennero a prendermi. Solita routine: mi bendarono, mi ammanettarono e mi
trascinarono fuori senza dire una parola.
Dopo che mi ebbero fatto sedere ci fu un lungo, lunghissimo silenzio. Sentivo lo
scalpiccio di piedi e lo scricchiolio delle penne, e gli stessi odori di sempre.
Non successe nulla, credo, per un'ora.
Poi, all'improvviso: «Andy, oggi vogliamo che tu ci dica la verità ».
Era sempre la Voce, ma il tono era cambiato. Fermo, adesso, impaziente, come
dire: niente stronzate.
« Sappiamo che ci hai mentito. Abbiamo cercato di aiutarti. Tu non stai affatto
aiutando noi. Perciò ti tireremo fuori la verità con altri sistemi. Capisci cosa
intendo? »
« Sì, capisco, ma non so cosa vuole. Le ho detto tutto quello che sapevo. Sto
cercando di aiutarvi. »
«Bravo. Perché ti trovi in Iraq?»
Attaccai la solita storiella, ma prima che terminassi, lui si alzò e si mise a
camminare per la stanza. .
« E' tutto quello che so », dissi infine, cercando di intuire in che punto si trovasse.
« Ci stai mentendo! » mi urlò in faccia. « Lo sappiamo! Lo sappiamo che stai
mentendo! »
Mi alzarono la faccia e la Voce cominciò a darmi schiaffi violentissimi. Quando si
interruppe mi gridò, così da vicino che sentivo il suo alito sulla mia guancia:
«Come sappiamo che stai mentendo? Perché abbiamo il tuo addetto alle
trasmissioni in ospedale, ecco perché. E' stato catturato, e ci ha detto tutto ».
Era possibile. Forse Legs era ancora vivo, e nelle condizioni in cui si trovava
avrebbe potuto dire di tutto... o tutto. Ma la Voce non mi spiegava cosa gli aveva
rivelato Legs. Era un bluff?
« Tu stai mentendo, vero, Andy? »
«No, non sto mentendo. Non vi posso aiutare di più. Sto cercando, ma non so
niente. »
Facevo il supplichevole perché avevo una paura tremenda.
Cercai di pensare a come avevano potuto inventarsi la storia di Legs.
Altri ceffoni, e caddi. Mi rialzarono e mi tolsero le manette.
Prima che mi potessi chiedere il perché, cominciarono a spogliarmi: ecco, adesso
mi avrebbero tagliato l'uccello.
Mi strapparono la camicia e mi abbassarono i pantaloni. Bene, pensai, allora mi
inculano.
Ma mi rimisero sulla sedia tenendomi la testa in avanti; trassi un profondo respiro
e aspettai.
Doveva essere un pezzo di legno, o la parte terminale di un remo o roba simile.
Aaagh! Lo choc di quella cosa che mi colpiva.
Aaagh! Aaagh! Gridai come un idiota. Mi batterono sistematicamente tutta la
schiena e la testa. Credo di essere svenuto prima di toccare il pavimento.
Rinvenni gemendo e mugolando: loro mi sollevarono per rimettermi sulla sedia.
« Ci dirai tutto, Andy. Stai sicuro. Sappiamo che cosa è successo. Abbiamo il tuo
addetto alle trasmissioni. Ce lo ha detto lui, che era il tuo marconista. »
Sì, doveva proprio essere Legs. Era lui il trasmettitore. Era in ospedale?
Negai, negai, negai.
Ancora pugni e schiaffi, ancora una scarica di colpi di remo sulla schiena. Poi si
fermarono cinque minuti, come per riprendere le forze.
«Perché ti stai facendo del male, Andy? Dicci solo quello che vogliamo sapere. »
Ricominciarono un'altra volta.
A un tratto fui colpito con quella che sembrava una palla metallica posta
all'estremità di un bastone, una specie di mazza medievale. Mi arrivava sul collo,
sulle braccia e sulle reni con una precisione micidiale. Caddi di nuovo, urlando
come un forsennato.
Questa era una cosa da pazzi. Mi avrebbero ucciso.
Appena stramazzai sul pavimento, quelli alle mie spalle ricominciarono con i
calci.
La Voce mi strillò: « Stai mentendo! Ci dirai tutto! »
Non so per quanto tempo continuarono. Mi davano calci, mi ritiravano su, mi
prendevano a schiaffi, poi mi picchiavano con la palla di metallo e con il remo. Li
sentivo respirare affannosamente per lo sforzo.
La Voce urlava e io gli urlavo di rimando.
« Cazzo. Non lo so, non so niente, porca puttana! »
Lui urlò qualcosa in arabo ai ragazzi che ricominciarono a darmi calci.
Continuavo a cadere. , - .
Dolore su dolore. , Faceva male, faceva un male del diavolo.
Smisero di scalciarmi e mi rialzarono. Fui trascinato fuori della stanza, a petto
nudo, con i pantaloni ancora calati alle caviglie.
Non appena uscimmo in cortile, trovai il comitato di accoglienza.
Mi diedero calci e pugni per tutto il percorso. Mi beccai un calcio in culo così
forte che pensai mi avesse spaccato il retto. Pensai anche che mi sarebbero usciti
gli intestini e caddi a terra grugnendo come un maiale.
Mi buttarono in cella, bendato, ammanettato e nudo. Avevo il respiro molto
debole. Quando mi ripresi a sufficienza per mettermi a sedere, controllai se avevo
le ossa rotte. Mi attaccai al ricordo della conferenza di quel pilota di marina
americano. In sei anni di prigionia, i vietcong gli avevano spezzato tutte le ossa
principali del corpo. Al confronto, il mio era un picnic.

Mi avevano detto che più fai il duro, prima ti lasciano perdere.


Presto scoprii che non era vero. Possono fare di te quello che vogliono. La sola
cosa che non possono spezzarti è il cervello. Sei solo tu che puoi lasciarlo
crollare. La mia mente restò lucida; ogni giorno mi ripetevo: « Che vadano a farsi
fottere ». Ecco cosa mi ha salvato.
Il mio corpo era in condizioni molto migliori di quanto non fosse stato quello del
pilota americano, e la mia mente era lucidissima. Perciò: che andassero pure
affanculo!

Di nuovo in cella al buio.


Sentivo gridare nell'altra stanza, ma non ci feci molto caso perché ero troppo
assorbito dal mio piccolo mondo, il mio piccolo universo di dolore, lividi e denti
rotti.
Gli altri ne avrebbero prese quanto me, ma erano mondi a parte, non mi
riguardavano. Rimasi ad aspettare di nuovo il mio turno.
Da allora, e per qualche giorno, continuò così. Ora dopo ora, giorno dopo giorno,
pestaggio dopo pestaggio, a turno con gli altri due, sdraiato, raggomitolato,
infreddolito e dolorante, aspettando il frastuono della porta spalancata a calci, il
rumore più tremendo che abbia mai sentito.
«Andy, è la tua ultima possibilità... dicci quello che vogliamo sapere. »
« Non so nulla. »
Invece una cosa la sapevo: sapevo che gli altri due non stavano cedendo, perché
altrimenti i miei interrogatori sarebbero cessati.
Continuavo a ripetermi: non sarò io, non li abbandonerò, non sarò quello che
trascinerà gli altri nella merda.
Non capivo più niente. Due o tre interrogatori ogni ventiquattro ore. Giorno dopo
giorno. Sempre la stessa roba, ma sempre un po' più dura da sopportare.
Poi trovarono altri metodi per farmi male. Un paio di volte mi immobilizzarono a
testa abbassata sulla sedia e mi sferzarono con una frusta dai grossi nodi. Quando
ebbero finito, gli altri ricominciarono con il remo e la mazza.
Alla fine di una battuta ero lì seduto, nudo come sempre, con la mente annebbiata
per il dolore. La Voce mi sussurrò all'orecchio in tono complice.
« Andy, dobbiamo parlare. Sei in condizioni pessime. Morirai molto presto,
eppure ancora non ci vuoi aiutare. Non riesco a capire. Vi strapperemo le
informazioni, sai che ci riusciremo. Uno di voi ce le darà, non ci sono problemi.
Perché vuoi peggiorare le cose? Senti... vuoi proprio che ti mostriamo quanto
sappiamo essere cattivi? »
All'interno della coscia avevo una piaga rossa di circa sei centimetri di diametro,
infetta e purulenta, rossa di carne viva. Sentii un tintinnio di metallo, poi il sibilo
della stufa a cherosene aumentò: avevano alzato la fiamma. Delle mani mi
afferrarono per le spalle e mi inchiodarono alla sedia.
Il dorso del cucchiaio era rovente quando me lo passarono sulla piaga. L'odore
della carne bruciata mi fece venire i conati di vomito. Ululai come un cane.
Cucchiaio. Urlo. Cucchiaio. Urlo.
Me lo sfregò descrivendo dei circoletti e delle piccole griglie incrociate.
Balzai in piedi con tale violenza che i beduini non riuscirono a trattenermi. Urlai e
urlai, tentando di buttar fuori il dolore.
Mi rimisero sulla sedia.
« Vedi, Andy? E' inutile. Dicci quello che vogliamo sapere. »
Col cazzo che Legs aveva spifferato tutto. Non mi avrebbero fatto tutto questo
solo per avere conferma delle sue informazioni.
E non mi avevano neanche detto che informazioni Legs gli aveva dato. Erano
tutte stronzate. Se ce l'aveva fatta lui, potevo resistere anch'io.

11.

A QUESTO punto c'era un andirivieni continuo dalle celle, con colonna sonora di
urla e gemiti strazianti, più il terrificante sbattere delle porte di metallo.
Le guardie dovevano fare i turni di pestaggio. All'incirca ogni due ore entrava
gridando una squadra per darci una manica di botte. Eravamo sempre bendati e
ammanettati.
«In piedi! Seduti! »
Mentre cercavi di obbedire, ti prendevano a calci e pugni. A volte, dopo pochi
pugni, piombavo in uno stato di semincoscienza, a volte me ne restavo lì
ansimando a prenderle tutte. In altre occasioni, mi picchiavano sulle reni e sulla
schiena con un tubo che mi faceva un male boia. Avevo il corpo sempre più
massacrato, ma la cosa peggiore era sentire i pestaggi nelle celle di Stan e Dinger.
Volevano dire che dopo sarebbe toccato a me.
Una volta, per cambiare un po', l'interrogatorio cominciò in un tono abbastanza
civile.
« Stai molto male, vero, Andy? »
« Sì, sto malissimo. »
Avevo la bocca così piena di tagli e di vesciche che quasi non riuscivo a parlare.
«Come vanno i denti? Mi pare che prima ti dessero problemi.»
« Ho alcuni molari rotti. Mi fanno male. » Continuavo a fare la parte del povero
testa di cazzo: tanto a quel punto ero comunque fuori gioco. I denti erano una
tortura: peggio, molto peggio di qualunque mal di denti che avessi mai avuto.
« Ho fatto venire una persona per sistemarteli », disse la Voce in tono mellifluo. «
Qui abbiamo un dentista. Sai, ha lavorato per nove anni al Guy's Hospital di
Londra... E' uno dei migliori. »
Mi tolsero la benda; comparve il dentista che mi salutò gentilmente, mi fece aprire
la bocca e guardò dentro con aria premurosa e rassicurante. Sembrava
sinceramente preoccupato mentre estraeva da una borsa i suoi strumenti.
«Per favore, Andy... apri bene», mi ordinò in perfetto inglese.
«Oh, povero me, che disastro... ma adesso te li sistemo io.»
Avevo dei sospetti, ma non potevo far niente. Aprii la bocca il più possibile e quel
figlio di una troia afferrò con le pinze il primo moncone e lo girò con forza.
Urlai, mentre il sangue mi usciva dalla bocca a fiotti.
« Credi davvero che ti aiuteremo? » La Voce scoppiò a ridere.
« Credi davvero che ti aiuteremo, o stronzo pezzo di merda? Potremmo solo
lasciarti morire, per noi non conti un tubo, sai. Chi pensi che ti aiuterà, Andy? Il
tuo governo? Non puoi credere una cosa simile. John Major se ne frega degli
stronzi merdosi come te. No, Andy, l'unico che può aiutarti sei tu stesso. Perché ti
stai facendo tanto male? Stai sopportando tutto questo per niente. Sei uno stupido,
stupido idiota, e ti strapperemo i denti uno per uno. »
Non riuscii a rispondere. Stavo urlando: sapevo che sarei morto, e sapevo che non
sarebbe successo in modo né pulito né rapido.

Eravamo senza vestiti ormai da molti giorni, e ci lasciavano esposti al freddo


umido e pungente. Ci picchiavano regolarmente e ci torturavano fino a farci
svenire. In cella dovevamo stare in posizioni scomode, bendati e ammanettati, e
quando cadevamo entravano e ci picchiavano. Insomma, un macello.
Tutte le notti c'erano bombardamenti, a volte molto vicini. In un'occasione tutto il
posto tremò dalle fondamenta e le guardie correvano qua e là urlando.
Io ero sdraiato sul pavimento ad ascoltare il rumore e sentii me stesso gridare con
tutto il fiato che avevo in corpo: «Forza! Cazzo, bombardatemi! Sono quaggiù! »
Pensavo davvero che avrebbero continuato in quel modo fino alla mia morte:
adesso volevo che finisse, volevo che il dolore cessasse.
Nel cadere, le bombe pesanti fanno una specie di fischio: concentravo la mia
attenzione su ciascun fischio e pregavo che la bomba cadesse sulla mia cella.
L'edificio rimbombava e tremava; sentivo le onde d'urto dell'esplosivo ad alto
potenziale. Era la prima volta che desideravo morire e volevo, volevo che mi
colpissero. Ero al punto più basso della mia vita.
Una notte, per un quarto d'ora, trovai Dio. L'Essere Supremo era nell'angolo
destro in alto della cella ed ebbi una piccola discussione con lui.
« Vieni ad aiutarmi adesso », lo supplicai. « Se mi aiuti, sarò il tuo miglior amico
per sempre. Se ci sei, be', cazzo... fai qualcosa.
Abbiamo bisogno del tuo aiuto, adesso, noi tutti. Se ci sei, aiutaci e ti metterò i
soldi nella cassetta dell'elemosina tutti i giorni. »
Recitai tutte le preghiere che ricordavo dalla scuola, ma non successe nulla. Dio
non esisteva.
Stavo morendo lentamente. Il corpo te lo dice. La mia cella era inondata di merda
e piscio: ci dormivo dentro, mi ricopriva.
Ogni tanto mi portavano da bere.
Una notte entrò un gruppo di guardie.
«Tel Aviv! Tel Aviv! » disse uno.
« No, britannico », bofonchiai, « sono britannico. »
« Prepuzio », ordinò. Chiaro che aveva sentito la storia e voleva vederlo
personalmente.
Indicai che non potevo fare nulla perché avevo le manette, e loro le aprirono.
Sempre bendato, pasticciai con le dita gonfie e insensibili per trovare il mio
uccello. Tirai fuori il prepuzio e quelli esplosero in una risata.
Due di loro mi bloccarono le braccia dietro le spalle. Uno davanti a me stava
sbattendo qualcosa sul palmo della mano. Sentii un rapido guizzo, poi tutto il mio
mondo fu dolore. Mi tremarono le ginocchia. La guardia davanti a me aveva in
mano una specie di frustino da cavallo, e lo batteva con forza contro la punta del
mio uccello. Urlavano di giubilo mentre io gridavo e mi rotolavo a terra.
Si chinarono su di me e mi scrutarono e tastarono i coglioni.
Mi domandai di nuovo se mi avrebbero inculato, ma la differenza era che stavolta
non me ne fregava più un cazzo. Ma non era quello che avevano in mente. Dopo
un ultimo calcio nelle palle che mi lasciò a vomitare di dolore, mi ammanettarono
e se ne andarono, sempre ridendo a crepapelle.
Un giorno entrarono nella mia cella urlando. Uno di loro aveva un giornale.
L'articolo in prima pagina che mi sbattè sotto il naso parlava dei bombardamenti
degli alleati del giorno prima. Gli iracheni avevano allineato tutti i corpi dei
bambini uccisi. C'era una foto delle madri disperate che piangevano sopra i
corpicini. Le guardie cominciarono a prendermi a pugni come se fossi
personalmente responsabile dell'accaduto. La cosa si sviluppò in un normale
pestaggio, seguito da un periodo di dieci minuti per riprendermi e da un altro
pestaggio. Poi svenni e se ne andarono.
Quando rinvenni, vidi che avevano lasciato il giornale. Strisciai a controllare la
prima pagina, alla ricerca di una cosa che ricordavo da un precedente viaggio in
Medio Oriente. Trovai quello che cercavo. Il solo segno leggibile in tutta la
pagina era in alto, vicino al titolo: il numero 4.
Era il 4 febbraio.
Questo significava che ci stavano torturando da cinque giorni.
Indossavo solo le calze e un paio di mutandoni larghi che mi avevano dato
quando ero arrivato in Arabia Saudita. Adesso erano neri, imbrattati di merda e
sempre bagnati di piscio.
Giacevo tremante sul cemento, ammanettato e bendato.
Entrarono alcune guardie nella cella e mi punzecchiarono con le armi finché non
ragliai come un asino; dopo mi scalciarono per un po'.
« Bush, maiale », dissero. « Thatcher, maiale. »
Dovetti ripetere. Ridevano e sghignazzavano, prendendomi in giro. A volte si
sedevano contro il muro, mi tiravano indietro la testa e mi strizzavano le guance
sbraitandomi sulla faccia. Ma ormai era come acqua fresca.
Ci fu tuttavia un significativo cambiamento nella loro tattica.
Non mi facevano più male alla faccia. Mi davano dei ceffoni, ma non mi
deturpavano più con pugni o colpi di canna del fucile.
Fui trascinato fuori della cella in calze e mutandoni per un altro interrogatorio. Da
giorni non riuscivo più a stare in piedi senza l'aiuto di qualcuno.
Dapprima, non successe nulla: ci fu un lungo, lunghissimo silenzio.
Seguirono dei sospiri e qualcuno mi disse: «Oh, povero me!... che cosa faremo di
te, Andy? Non vuoi proprio aiutarci, vero? »
« Sto cercando di aiutarvi, invece », bofonchiai. « Ma non so nulla. »
Ormai, a furia di ripeterlo, anch'io mi ero convinto che fosse vero.
« Sai, Andy, che abbiamo uno di voi in ospedale? Gli abbiamo trasfuso un litro di
sangue iracheno e adesso dovrebbe essere fiero di trovarsi fra noi. Gli abbiamo
dimostrato che non siamo barbari, lo abbiamo aiutato. Ma non possiamo aiutare
te, perché tu non aiuti noi. »
Era possibile che ci fosse qualcuno in ospedale: mi balenò il ricordo di un
episodio, quando le guardie erano entrate, avevano indicato i miei piedi e avevano
detto bang, bang. In quell'occasione avevo pensato che mi avrebbero sparato ai
piedi. Dopo tutto, facevano tanti giochetti con me, come per esempio farmi
prendere in bocca la canna del fucile mentre mettevano il colpo in canna. Ma
forse volevano dire soltanto che uno di noi era stato ferito a un piede.
Non sapevo se credergli o meno. «Grazie infinite», dissi.
« Sono contento che lo abbiate salvato. »
« Tu devi dirci cosa stava succedendo, Andy. Perché eravate in Iraq? Tutti i tuoi
amici ci hanno detto cosa stava succedendo, ma noi lo vogliamo sentire da te. Hai
intenzione di aiutarci? Non abbiamo più tempo per te, sai. Ti lasceremo morire.
Tu non sei niente per noi. Pensaci. »
Mi riportarono nella mia cella.
Era vero? Avevano davvero qualcuno in ospedale? Non poteva essere Legs: era
assiderato, non avrebbe avuto bisogno di sangue.
Forse qualcun altro era sopravvissuto a uno scontro a fuoco?
Molto improbabile.
Durante la giornata avevo sentito portar via Stan e Dinger, poi verso sera vennero
a prendere me. Questa volta non ci furono parole, solo una bella battuta con
un'asse.
Caddi a terra semisvenuto.
« Tu sei il solo che non ci sta aiutando, Andy », ripetè la Voce.
« Noi dobbiamo sapere la verità da tutti, e tu non ci stai aiutando.
Ti abbiamo detto che alcuni dei tuoi sono in ospedale e siamo disposti a lasciarli
morire. »
Non risposi.
«Per essere esatti, abbiamo in ospedale due uomini, e se tu non ci dici quello che
abbiamo bisogno di sapere, li lasceremo semplicemente morire. Non ci saranno
conseguenze per noi. Se sono vivi, è solo merito nostro. Quindi possiamo
ucciderli, e possiamo uccidere anche te. Non ci sono problemi. Nessuno sa che sei
qui. Tu non hai firmato niente per la Croce Rossa quando te ne abbiamo offerto la
possibilità, perciò non abbiamo detto alla Croce Rossa che sei con noi. E' colpa
tua, Andy. Tutti gli altri hanno firmato dei documenti. »
Non gli credetti.
« Se non mi dici quello che abbiamo bisogno di sapere, Andy, lasceremo morire i
tuoi amici. Sai che il tuo marconista è in ospedale... te l'ho già detto. E sai anche
che a uno dei tuoi uomini è stato trasfuso un litro di sangue. Adesso li lasceremo
morire, e sarà colpa tua, Andy. E farai morire anche tutti gli altri. Cinque uomini
morti, solo per la tua cocciutaggine.
« Sappiamo che sei tu il comandante », soggiunse impaziente la Voce. «
Sappiamo che sei sergente, che sei al comando di queste persone. Adesso sta a te
dircelo, altrimenti lasceremo morire i tuoi uomini. Capisci?»
« Sì, capisco, ma non posso aiutarvi perché non so niente. »
Non era arroganza, la mia. Al contrario. Avevo solo bisogno di tempo per
pensare: sapevano che ero il comandante e stavano cambiando tattica. Adesso
tutto dipendeva da me, perché dagli altri non riuscivano a ottenere nulla.
« Bene, allora non possiamo fare più niente per te. Quello che accadrà sarà colpa
tua. Ricordatelo. Sei responsabile della loro morte. »
Mi raccolsero e mi trascinarono di nuovo in cella. Quando fummo sulla soglia, mi
scagliarono contro il muro. Io mi accasciai sul pavimento.
« Stupido, stupido, sei stupido », gridarono le guardie.
Mi lasciarono solo tutta la notte, e cominciai a valutare le possibilità. A mio
giudizio, saremmo tutti morti entro un paio di giorni. Stan probabilmente anche
prima. Quindi tutto si riduceva a questo: io ero il comandante e io dovevo
decidere. Il momento era arrivato.
Che noi tre fossimo in prigione era un dato di fatto, e dovevo presumere che altri
due fossero in ospedale. Dinger aveva visto Legs portato via in barella, e forse
avevano ricoverato anche qualcun altro. Pian piano mi convinsi che, se gli avessi
dato un contentino, i nostri aguzzini ci avrebbero risparmiato la vita.
Giunsi alla conclusione che avevamo stretto i denti abbastanza. Dalla cattura
erano passati otto giorni, un tempo sufficiente perché alla base aerea avanzata
fossero in grado di valutare i danni. Adesso era ora di pensare a noi stessi, la
sicurezza delle operazioni non era più un problema nostro.
Fu una decisione difficile. L'orgoglio si fece sentire, anche se non avrebbe dovuto.
E allora, cosa potevo raccontargli? Avrei tenuto fuori il Reggimento per non
metterci in guai peggiori. Di sicuro sapevano che noi non scherziamo affatto: lo
sapevano perché ci avevano visto in azione, e dai mass media. Anche loro
guardavano la CNN, come tutti.
Da quando ero stato catturato, nessuno mi aveva mai parlato del Reggimento, e
non avevo avuto sentore di sospetti che fossimo truppe speciali. Bene così. Ma
che cosa avrei detto? Per loro, noi eravamo una pattuglia di otto uomini sorpresa
sulla strada principale di rifornimento. Dovevo venir fuori con una storia
coerente. Che cosa ci facevamo là?
Più o meno ogni ora sentivo le urla di Dinger e Stan che venivano pestati, ma io
fui lasciato in pace. Le guardie entrarono due volte e mi minacciarono, ma non mi
picchiarono.
La seconda volta, alle prime ore del mattino, gli dissi che volevo vedere un
ufficiale. Non capirono.
« Ufficiale », ripetei. « Devo vedere un ufficiale. »
Forse pensarono stessi dicendo che ero un ufficiale, ed ero disgustato per il loro
trattamento. Scoppiarono a ridere ed entrarono nella cella per prendermi a calci.
Quando li sentii mettersi sull'attenti e farmi un finto saluto, mi resi conto che quei
trogloditi non erano in grado di capire. Dovevo solo lasciar perdere e aspettare.
Durante la giornata venne una guardia e mi si rivolse in un discreto inglese:
«Andy, sei molto stupido... perché non ci aiuti?»
« Ma io voglio aiutarvi. Voglio parlare con un ufficiale. »
« Vedremo. »
Un'ora più tardi, un'altra guardia mi urlò dalla finestra: « Che cosa vuoi? »
«Ho bisogno di parlare con un ufficiale. Forse ho da dirgli qualcosa che vuole
sapere. »
« Forse. »
Due o tre ore dopo fui portato nella solita palazzina, ma in una stanza nuova.
Faceva molto freddo. Fui spinto su una sedia. Sentii una voce diversa dalle solite.
«Andy, cosa vuoi dirmi? Perché hai aspettato tanto? Perché hai sopportato
stupidamente tutto questo dolore tuo e dei tuoi uomini? Non capiamo. Perché l'hai
fatto? »
« Ieri mi hanno detto che ci sono alcune persone in ospedale, e sono preoccupato
per la loro sicurezza e per la nostra. Spero solo che vi prenderete cura di queste
persone. »
«Ma certo... cosa pensi? Che le uccideremo? Non essere sciocco. Se ci aiuti, tutto
andrà bene. Te l'abbiamo detto subito.
Allora è per questo che lo fai... per gli altri membri della tua pattuglia? »
« Sì, non voglio che muoiano. »
« Via, Andy, non ti preoccupare per loro. Devi farlo per te stesso, per la tua
famiglia. Non pensare agli altri. Tu ci aiuti e noi ci prenderemo cura di te. »
« Be', sono preoccupato per quelli in ospedale. Non voglio che muoiano. »
«Pensa a te stesso, Andy. Fallo per te stesso. Adesso, dicci... perché ti trovi in
questo Paese? »
« Faccio parte di un plotone di osservazione ravvicinata. »
Sentii un mormorio in arabo.
«Che cos'è un plotone di osservazione ravvicinata?»
« Un plotone di osservazione ravvicinata. Ogni battaglione di fanteria ne ha uno.
Eseguono perlustrazioni per il battaglione.
Ci hanno portato in volo, ci hanno detto di raggiungere la strada principale, di
contare i veicoli militari che passavano nelle opposte direzioni e riferirlo. »
Non capivo se la stessero bevendo o no. In teoria quella era una missione
plausibile per un plotone di osservazione ravvicinata, a parte il fatto che non
sarebbe mai stata effettuata dietro le linee nemiche. Ma suonava bene, e ai vari
interrogatori erano stati presenti ufficiali addestrati a Sandhurst e allo Staff
College. Forse avrebbero confermato le mie dichiarazioni.
Sentii ancora parlottare, e un rumore di persone che uscivano e rientravano nella
stanza.
« Perché avrebbero voluto avere una simile informazione? »
«Non lo so. A noi dicono solo quello che ci è indispensabile sapere. Come
certamente saprete, in testa al foglio degli ordini c'è scritto QUELLO CHE si
DEVE SAPERE. A noi non spiegano tanti perché, siamo solo militari di truppa. »
Capii che assentiva.
« Quanti giorni intendevate restare in questo Paese? »
Dovevo supporre che avessero recuperato tutta la nostra attrezzatura e l'avessero
frugata a fondo. Se non era stato saccheggiato nulla, dalle razioni avevano dedotto
la durata prevista della nostra permanenza.
« Al massimo quattordici giorni », risposi.
«In quanti eravate?»
Altro particolare facile da stabilire dal numero degli zaini abbandonati.
« In otto. »
« Dove siete atterrati, Andy? »
« Se mi togliete la benda e le manette e mi date una carta geografica, ve lo dirò. »
Ci fu un'accalorata discussione. ' «Ti toglieremo la benda e le manette, ma
capiscimi, Andy... noi vi reputiamo uomini molto pericolosi, e se tenterai di fare
cose strane ti spareremo. D'accordo, Andy? »
«D'accordo.»
Anche se avessi voluto fare qualcosa, non avevo più le forze.
Mi tolsero la benda e, seduto davanti a me, vidi un ufficiale in divisa verde oliva.
Un altro ufficiale seduto nell'angolo sinistro della stanza indossava una giacca
mimetica sopra un completo da aviatore. Invece degli anfibi, portava i soliti
stivaletti Chelsea che sembravano piacere proprio a tutti.
Era quello in verde oliva che conduceva l'interrogatorio. Sentivo la sua voce per
la prima volta, ma parlava un inglese eccellente. Sembrava una versione araba di
Richard Pryor, con i capelli lisci ravviati all'indietro e una divisa molto pulita, ben
stirata ed elegante. C'erano altri tre o quattro militari seduti, che fumavano
sigarette e bevevano tè da piccoli bicchieri. Tutti indossavano uniformi brutte e
malfatte.
Mi trovavo di fronte a una finestra, oltre la quale si vedevano alcuni alberi e un
muro. Il sole inondava la stanza.
Avevo ai fianchi due guardie: una mi teneva una pistola puntata alla testa, nel
caso mi fossi messo a correre vibrando colpi di karaté o facendo chissà cosa.
Sul tavolo c'era una delle nostre carte per la fuga.
« Posso alzarmi e avvicinarmi al tavolo? »
« Alzati. »
Le guardie mi sollevarono e mi portarono al tavolo, ma senza mai staccarmi la
pistola dalla testa.
Indicai genericamente l'area dove eravamo atterrati. ' « Sì, Andy, è giusto. Lo
sappiamo. Sappiamo quando siete atterrati perché vi abbiamo sentiti. Siete
atterrati due notti prima, vero? Ci stai aiutando. Molto bene. »
Alcune delle balle che gli avrei raccontato sarebbero state basate sulla realtà,
come lo sono sempre le balle fatte bene. Questo non mi veniva solo
dall'addestramento: era una lezione che avevo imparato da bambino. ' « Facci
vedere dove vi siete nascosti. »
Indicai la curva sulla strada principale di rifornimento.
« Sì, bene, questo lo sappiamo. Bravo, Andy, ci stai aiutando.
In quanti hai detto che eravate? »
« Otto. »
« Dimmi i nomi di qualche tuo compagno. »
Fin qui tutto bene. Lo sapevano che eravamo in otto. Se in effetti avevano beccato
cinque di noi - vivi o morti - avrebbero saputo i nostri nomi, perché portavamo
tutti le piastrine di identificazione. Il futuro non potevo prevederlo: avrei potuto
perdere totalmente il controllo della situazione o dover continuare a rispondere
alle loro domande per giorni e giorni. Ma a quel punto non avevo scelta. Dovevo
andare a vedere il loro bluff per scoprire se continuavano con le minacce? Meglio
darlo per buono.
Dissi i nomi, e loro li trascrissero. /
« Li conosciamo. »
Non sapevo se questo voleva dire che ci avevano presi tutti o era un bluff. Calcai
la mano sulla mia preoccupazione riguardo ai compagni in ospedale e mi mostrai
umile e spaventato, ma intanto la mia mente galoppava per pensare a quello che
avevo detto e che stavo per dire.
« Per favore, prendetevi cura delle persone in ospedale. »
« Dicci qualcosa di più sul plotone di osservazione ravvicinata.
Quali sono i vostri compiti?»
« Riferiamo e basta. »
« Questo significa che l'esercito britannico ha intenzione di invadere l'Iraq?»
«Non lo so. Non ce lo dicono mai. A noi dicono soltanto di eseguire una certa
missione. Non ci dicono perché. Siamo solo soldati di truppa. »
« Quanti plotoni di osservazione ravvicinata avete? »
«Ce n'è uno per ogni battaglione.» ./
« Quanti battaglioni ci sono qui? »
« Non lo so, non mi sono mai informato. Per me non ha nessuna importanza.
Sono solo un soldato. » , , , Meno male che non avevamo portato mezzi. Eravamo
stati sfortunati a non averli con noi quando eravamo stati scoperti, ma adesso era
una fortuna, perché i veicoli avrebbero potuto farci collegare al Reggimento.
A questo punto, sapevo che poteva sorgere un nuovo problema: magari avrebbero
chiamato gli altri due e gli avrebbero chiesto: « Bene, sappiamo cosa stavate
facendo. Adesso ripetetecelo voi ». Comunque le possibilità erano remote. I
ragazzi non avevano detto nulla fino a quel momento... perché mai tutt'a un tratto
avrebbero dovuto cantare?
Se non gli avessi detto niente, qualcuno di noi sarebbe morto, o tutti, magari. Se
avessi detto loro qualcosa, e poi avessero scoperto che era un'altra valanga di
stronzate, come minimo avrei condannato tutti a subire di nuovo lo stesso
trattamento, e sarebbe stato fatale. Non so che altro avrei potuto fare.
« Molte grazie per averci aiutato, Andy. Adesso per te la situazione può
migliorare. Se scopriamo che ci stai mentendo, allora no. Ma la tua situazione può
migliorare. Sono felice che abbia avuto il buon senso di aiutarci. »
Le sue parole mi fecero sentire una merda totale. Avevo davvero fatto la scelta
giusta? Gli interrogatori sarebbero continuati? O mi avrebbero usato? Mi
avrebbero mandato alla TV mostrandomi come «il bravo inglese che ci ha
aiutato»? Pensai al Vietnam, ai soldati americani processati dopo il ritorno a casa.
Uomini marchiati come collaborazionisti da gente che non aveva idea delle
circostanze in cui erano avvenuti i cosiddetti tradimenti.
E qui c'era Richard Pryor che mi diceva che eravamo diventati amici per la pelle...
be', non fu facile da sopportare.
« Hai fatto bene, Andy. Molto bravo. »
Sapevo di aver fatto bene a prendere sul serio le loro minacce.
Da come ci avevano trattato, non mi sarei stupito se avessero ucciso quelli in
ospedale. Avevano dieci anni di esperienza in queste pratiche.
« Vuoi una sigaretta? »
«No, io non fumo. Ma il mio amico Dinger, sì.» "
« Forse un giorno potremo dargli una sigaretta. »
« Adesso che vi ho detto tutto, sarebbe possibile avere dei vestiti e magari
qualcosa di caldo? Abbiamo molto freddo. »
« Sì... non sarà un problema, perché adesso siamo amici, Andy, e forse le cose
cambieranno. Nel frattempo, controlleremo tutto. »
Mi bendarono, mi ammanettarono e mi riportarono in cella.
Mezz'ora dopo, tornarono e mi gettarono dei vestiti togliendomi la benda e le
manette. Ma non avevano ancora finito con i loro giochetti. Mentre cercavo di
rivestirmi, continuavano a spintonarmi.

Al risveglio ricominciai a chiedermi se avevo agito per il meglio.


Ero sdraiato nel solito angolo. Si tende a restare sempre nello stesso posto, forse
perché ti fa sentire più sicuro.
Entrarono le guardie accompagnate da un sergente maggiore che parlava inglese
benissimo.
«Ah... Andy, Andy, il nostro amico Andy», disse, con la bocca piena di pistacchi.
«Io mi chiamo Mr Jihad.»
Sputò un po' di gusci sul pavimento.
« Buongiorno, Mr Jihad. » Sapevo che non poteva essere il suo nome, ma
abbozzai.
« E' bello vedere che ti hanno ridato i vestiti e che ti senti meglio. Ti senti
meglio?»
« Sì. » ' « Sfortunatamente non possiamo prestarti cure mediche perché non
ne abbiamo nemmeno per noi. I nostri bambini stanno morendo sotto i
bombardamenti, dobbiamo prima curare loro. Capisci? »
« Sì, capisco. »
« Sono Bush, la Thatcher e Major. Impediscono tutti i rifornimenti di medicinali.
Però questa mattina abbiamo del cibo per te.
Vorresti qualcosa da mangiare? »
« Grazie mille. Vorrei qualcosa da mangiare. »
Mi portarono dell'acqua e un cubetto di tre centimetri di margarina in un
involucro di carta. Lo aprii e cominciai a mangiare.
« A proposito di fuga, Andy... sei qui da molto tempo e forse avresti voglia di
scappare. Be', non sarebbe una buona cosa. Sei a Baghdad. Non puoi andare da
nessuna parte. E poi io e te siamo amici, vero, Andy? »
Annuii e dissi di si, con la bocca vischiosa di grasso.
« Se permetti, ti faccio vedere cosa succede quando la gente tenta di scappare. »
Mr Jihad si tirò su i pantaloni e mi mostrò un'enorme cicatrice. «Quando ero
ragazzo, sono stato sei mesi in una prigione iraniana. Il mio amico e io siamo
fuggiti, ma il giorno dopo ci hanno ripresi. Ci hanno riportato al campo e hanno
deciso di dare un esempio. Ci hanno buttati per terra a faccia in giù, e due soldati
con le baionette ci hanno trapassato le ginocchia da dietro facendo uscire la rotula.
Se cerchi di scappare, Andy, ti farò la stessa cosa. »
Non sarei andato da nessuna parte. Riuscivo a stento a reggermi in piedi.
Sorrisi. « Voglio soltanto tornare a casa dalla mia famiglia. »
« Questa cella è molto sporca, sai, Andy? Forse voi amate vivere in questa
maniera, ma noi musulmani siamo molto puliti.
Devi pulire per bene. »
« E come? »
« Con le mani, Andy. Su, forza, pulisci. Noi non viviamo nel sudiciume. »
Rimase a osservarmi mentre in ginocchio ammucchiavo con le mani tutta la mia
merda. Poi mi dette due pezzi di cartone per ricoprirla e uscì.
Guardai le pareti e vidi delle macchie di sangue fresco: erano mie. Almeno avevo
contribuito alla tinteggiatura della cella.
Cominciai a sentirmi ansioso. Che cosa sarebbe successo, ora?
Saremmo andati via? Saremmo rimasti?
Richard Pryor mi aveva detto: «L'Inghilterra è un bel posto.
Ci sono stato quindici anni fa. Ho frequentato il College a Londra. Conosco bene
Londra. Forse un giorno ci ritornerai ».
Sì, forse.

12.

A UN certo punto, il pomeriggio del 6 febbraio, entrarono, mi ammanettarono e


mi bendarono di nuovo; quindi mi sollevarono, e pensai che mi avrebbero
condotto a un altro interrogatorio. Uscii e cominciai a seguire l'itinerario solito,
ma questa volta facemmo una strana svolta e mi ritrovai sul sedile posteriore di
un'auto.
Mi chinai in avanti, a testa in giù, per allentare la pressione sulle mani. In
macchina c'era un piacevole calduccio, e sentii cantare gli uccellini. Il tempo era
fantastico, ma avevo una paura folle.
L'auto era grande: pensai che doveva essere un vecchio cassone americano, come
quasi tutte del resto.
«Se cerchi di scappare», mi avvertì qualcuno, «uccideremo gli altri due. E se
scappano loro, uccideremo te. Vedi bene che è inutile. »
Significava che venivano anche Dinger e Stan? Aspettai che salisse qualcun altro,
ma non arrivò nessuno. Entrambe le porte furono chiuse. Dietro ero solo: davanti
c'erano due tizi che parlavano bene l'inglese.
«Sai dove stiamo andando adesso, Andy?» chiese il condu cente quando
partimmo.
« No, non ne ho idea. »
«Ti portiamo all'ambasciata britannica. Adesso andrai dalla tua famiglia. Non c'è
problema. »
« Grazie mille. »
Cominciarono a ridere tra loro e io li assecondai, facendo la parte dell'idiota.
«No... stiamo solo scherzando, Andy. Un giorno o l'altro tornerai a casa, ma non
ancora. Sarà fra molto tempo. »
Per qualche minuto proseguimmo in silenzio.
« Hai mai sentito parlare di Ali Babà? » mi chiese poi uno dei due.
« Sì, è un vecchio film che danno di solito a Natale. Fanno sempre vedere Ali
Babà e i quaranta ladroni. »
« Sì, eh?... Be', adesso sei nella loro terra: sei nella terra di Ali Babà, a Baghdad. I
ladri di Baghdad. Una città bellissima. Ma ora non più, perché tutti stanno
morendo. Voi venite qui a bombardare le nostre case. I bambini muoiono, intere
famiglie stanno morendo. Non è più il grande paese di Ali Babà, è tutto distrutto.
Ma quando avremo vinto ricostruiremo, non c'è problema. E' una terra fantastica,
quella di Ali Babà. »
Annuii energicamente. Loro accesero la radio e cercarono di sintonizzarla. Le
stazioni sembravano tutte uguali: propaganda aggressiva e lamentose canzoni
arabe. Si stavano divertendo, guidavano con i finestrini abbassati, fregandosene di
tutto e di tutti.
Rimasi ad ascoltare i rumori della città. Ci fermavamo ai semafori, loro urlavano
e la gente anche. La musica usciva dai negozi e c'era il solito brusio di una
qualsiasi città. All'improvviso i due beduini cominciarono a ridere e a
chiacchierare.
« Stiamo guardando i tuoi due amici davanti a noi », disse uno di loro. « Sono
appoggiati l'uno contro l'altro e dormono. Devono proprio essere molto amici. »
Perfetto. Questo confermava che Dinger e Stan erano con me.
Quei due cominciarono a fumare, sempre trattandomi con giovialità.
Proseguimmo per un'altra mezz'ora.
«Andiamo da un'altra parte di Baghdad. Vedrai che ti piacerà.
Un ottimo posto. Stavamo solo scherzando sull'ambasciata. »
Quando giungemmo a quella che, mi annunciarono, era una prigione militare, un
po' di gente allungò le mani all'interno dei finestrini dandomi ceffoni sulla testa e
tirandomi i baffi. Niente di grave, ordinaria amministrazione.
Sentii sollevarsi delle barriere e aprirsi dei cancelli. Avanzammo un po', quindi ci
fermammo. Mi tirarono fuori dalla macchina e mi misero in testa una coperta: poi
mi introdussero attraverso una porta in un ampio corridoio con il pavimento in
cemento.
C'erano echi di gente che parlava, che apriva lucchetti e li chiudeva, tintinnio di
chiavi e catene.
Il posto non era umido, ma terribilmente freddo. Mi portarono in una cella, fui
fatto sedere a terra e mi tolsero le manette e la benda. Vidi soldati in divisa verde
oliva e basco rosso che portavano le vecchie buffetterie in canapa modello 1937 e
le ghette, il tutto bianco candido. Erano della polizia militare. Individuai un
ufficiale e un paio di tizi in abiti civili. Chiusero la porta e mi lasciarono solo.
La porta della cella era come quelle dietro cui ti chiudono gli sceriffi nei film
western. Le sbarre erano oscurate da una coperta per impedirmi di guardare fuori.
C'era una luce al neon proprio nel mezzo del soffitto, alto circa tre metri; sopra si
apriva una finestrella da cui filtrava un raggio di luce. La parte inferiore delle
pareti era dipinta in rosso, l'altra metà in beige chiaro. Era tutto quello che c'era da
vedere a una prima occhiata. Poi scorsi le scritte sui muri, in arabo. C'erano altri
disegni di colombe con catene attorno alle zampe e il ritratto di una donna.
Misurai con i passi la cella: era circa tre metri e sessanta per due e settanta.
Ero sicuro che anche Dinger e Stan fossero stati rinchiusi lì: be', almeno eravamo
tutti nello stesso posto e, rispetto alla topaia in cui ci avevano interrogati, questo
era Buckingham Palace.
Avevano finito con noi o cosa? Non lo sapevo, ma in realtà non me ne importava
molto. Quel posto mi piaceva, era meraviglioso.
Quindici minuti dopo, le porte si riaprirono: pensai che fosse ora di riprendermi e
mostrare un po' di rispetto. Per ribaltare la situazione a proprio vantaggio bisogna
fare uno sforzo, riuscire a instaurare una specie di amicizia.
Mentre mi alzavo lentamente in piedi, combattendo con tutti i miei malanni, entrò
in cella un nuovo personaggio. Indossava abiti civili, ma con sopra una giacca
mimetica da combattimento.
Era alto sul metro e sessanta e aveva i capelli bianchi; portava un paio di occhiali
molto spessi, e sfoggiava un sorriso raggiante.
«Vorresti stare con i tuoi amici?» mi chiese.
« Oh, sì, mi piacerebbe moltissimo. »
Mi prese per il braccio e mi condusse in un'altra cella, tre porte più avanti: era
vuota.
Sì, pensai, bella stronzata! Per alcuni istanti ero stato felicissimo al pensiero che
avrei visto Stan e Dinger. Mi sedetti sul pavimento cercando di non tradire la mia
delusione.
Due minuti dopo la porta si aprì ed ecco Dinger. Ci abbracciammo forte e ci
stringemmo la mano. Quindi, dopo un altro paio di minuti, entrò barcollando
Stan, sorretto da due guardie. Con la mano reggeva un vassoio di riso. Quando le
guardie ci rinchiusero e se ne andarono, ci guardammo increduli, poi
cominciammo a parlare.
« Chris e Vince? » domandai.
«Vince è morto», rispose Stan. «Assiderato. Mi sono diviso da Chris e non so
cosa gli sia successo. E gli altri tre? »
Gli dissi che Mark era morto e che probabilmente lo erano anche Legs e Bob,
malgrado quello che mi avevano detto gli iracheni.
Scese il silenzio e ci mettemmo a mangiare, quindi sentimmo il rumore di passi e
chiavi in corridoio e ci alzammo di nuovo in piedi. La porta si aprì ed entrò un
maggiore, che si presentò come il direttore della prigione.
« Io non sono responsabile di ciò che vi è accaduto nel posto in cui eravate »,
dichiarò in un inglese migliore del mio. « Sono solo responsabile della vostra
permanenza qui. Vi nutriremo e ci prenderemo cura di voi. Se vi comportate bene,
noi ci comporteremo bene con voi. Se creerete problemi, sarete puniti. »
Era alto poco più di uno e sessanta e di corporatura esile, ma vestito
elegantemente, ben pettinato e profumato. Sembrava sincero. Mentre parlava,
però, non potei fare a meno di notare che le guardie alle sue spalle non
sembravano avere sui volti lo stesso sorriso benevolo. Sembravano brutali come i
carcerieri cui ci eravamo abituati. Erano molto giovani, e si sarebbero sentiti in
dovere di mostrare i muscoli. Non dubitavo che, in assenza del gatto, quei topi
avrebbero ballato.
Una volta che il maggiore si fu allontanato, prendemmo alcune importanti
decisioni basate sull'esperienza, l'addestramento e i consigli del pilota dei marines
prigioniero di guerra.
Avremmo continuato a recitare la parte degli uomini grigi, senza mai reagire o
diventare troppo fiduciosi. Non eravamo ancora fuori dalla merda, chissà quanto
tempo ci sarebbe ancora voluto.
Avremmo mostrato rispetto nei confronti delle guardie che, essendo giovani
bastardi, sicuramente se fossimo stati sfacciati e arroganti ne avrebbero subito
approfittato. Invece, leccandogli un po' il culo, magari ci saremmo procurati
qualche informazione e avremmo fatto qualche passo verso l'obiettivo di
instaurare una forma di rapporto. Non sapevamo quanto tempo saremmo rimasti
lì: potevano essere giorni, settimane o anni. Avremmo cercato di creare un
minimo di cameratismo, basato sul fatto che eravamo tutti soldati, riuscendo forse
a farci portare medicine, cibo e qualche altro piccolo conforto. , Avremmo usato
il tempo nella miglior maniera possibile per sistemarci e prepararci alla fuga,
riprendendoci fisicamente e mentalmente. Io e Dinger avevamo ancora la carta
geografica e la bussola. Fisicamente, ci saremmo rimessi in sesto grazie a una
somministrazione più ragionevole di cibo, e mentalmente avremmo passato più
tempo possibile a studiare le carte geografiche.
Sapevamo di essere a Baghdad: perciò, se mai fossimo riusciti a evadere,
memorizzando la zona circostante avremmo avuto qualche possibilità. Le carte
non erano sufficientemente dettagliate per indicarci le vie della città, ma
segnalavano le principali caratteristiche del terreno come i fiumi, i laghi salati e
gli altipiani. Dovevamo solo uscire da Baghdad.
La prima cosa da fare, come sempre, era sintonizzarsi con il nuovo ambiente,
sperando di creare innocue routine. Non volevamo mandare a farsi fottere il
vantaggio di trovarci tutti insieme: avremmo usato il sistema, invece di
combatterlo.

Durante il primo giorno e la prima notte, le guardie andarono e vennero senza


sosta, e ogni volta ci alzavamo in piedi e restavamo impalati davanti a loro. In
maggioranza avevano meno di vent'anni, il che li rendeva più autoritari e
prepotenti. Non si presentavano mai in meno di tre, e portavano sempre la pistola.
Erano molto circospetti nei nostri confronti. In una delle visite ci portarono via gli
anfibi e li sostituirono con scarpe bianche senza lacci.
Chiesi dell'acqua, e ritornarono con una brocca e un bicchiere.
Ne bevemmo un po' e poi rimettemmo la brocca sul pavimento, come se quello
fosse il suo posto. Non si opposero.
« Come si fa per andare in bagno? » domandò Stan.
« Ci andate quando ve lo diciamo noi. »
«Abbiamo la diarrèa e il mal di stomaco, quindi vomitiamo.
Ci serve un secchio, o roba del genere. »
Comparve un secchio. Erano piccole vittorie, ma ci incoraggiarono. Passammo la
notte in allegria, ridacchiando e sfottendoci a vicenda. Sentivamo dei mormorii
vicino a noi, e immaginammo ci fossero altri prigionieri. Alla fine capimmo che
erano nella cella accanto. Non avremmo saputo dire quanti erano.
Proprio in fondo al corridoio c'era una porta, e una volta che la chiudevano in
teoria non ci avrebbero più sentiti mormorare.
Nessuno ci aveva detto che non si poteva parlare, ma era più sano presumerlo.
Battendo contro il muro con il nostro bicchiere di latta, sviluppammo un semplice
codice di identificazione per stabilire se la persona nella cella attigua era un
alleato. Solo un occidentale avrebbe riconosciuto la sequenza che si batte
amichevolmente con le nocche sulla porta di casa di un amico: tap, taptap!, top
tap, cui naturalmente si risponde: tap tap. Ottenemmo la risposta che speravamo.
Il contatto fu ottimo per il nostro morale, e probabilmente anche per il loro. Era
una bella sensazione che succedesse qualcosa la prima notte che eravamo lì.
Cominciammo a riflettere sulla nostra situazione. Dov'erano gli altri membri della
pattuglia? Quella attuale era solo una tappa? Saremmo rimasti lì per tutto il
tempo?
«Non sapevamo dove diavolo eravate finiti voi, ragazzi », disse Stan. « Vince
blaterava qualcosa sugli aerei e sul radiofaro tattico, e Chris e io ci ricordammo di
avere sentito passare degli aviogetti. Capimmo che Vince stava cercando di dirci
che vi eravate fermati e avevate provato a stabilire un contatto. Allora ci sedemmo
sull'altopiano cercando di vedervi con gli infrarossi, ma non c'era nessun segno di
voi. Provammo a contattarvi con il radiofaro tattico: nessuna risposta. Alla fine
decidemmo di procedere, sperando che aveste mantenuto la direzione di marcia, e
che prima o poi ci saremmo incontrati. »
Continuarono per circa quattro ore, poi apparvero le prime luci dell'alba. Chris e
Stan temevano di essere beccati allo scoperto.
Vince era impossibilitato a prendere qualunque decisione; rimase a barcollare
sotto il vento e la pioggia, mentre gli altri correvano alla ricerca di un posto dove
nascondersi.
Stan trovò una buca per carri armati profonda un metro e ottanta da cui si
allontanavano tracce di cingoli che gli arrivavano più o meno alle ginocchia.
Condussero Vince in una delle tracce e si sdraiarono ai suoi lati. Durante la notte
Chris e Stan fecero i turni per dormire. Chi era sveglio controllava Vince.
Arrivò l'alba e Stan dette una rapida occhiata intorno, scoprendo con orrore che la
trincea del carro armato era ad appena seicento metri da una specie di postazione
nemica: forse una baracca, o un veicolo a forma cubica con antenne, difficile da
dire.
A quel punto rimasero bloccati finché non fece buio.
Cominciò a nevicare e presto la neve divenne nevischio e la traccia del carro
armato si riempì di fanghiglia. Erano bagnati fradici, la temperatura si abbassava.
Era avanzato ben poco da mangiare, solo un paio di pacchetti di biscotti fra tutti e
tre. Il resto era rimasto negli zaini.
Verso sera strisciarono nella trincea e si alzarono in piedi.
Erano rimasti sdraiati per dodici ore nell 'acqua gelida. Stan aveva perso tutta la
sensibilità nelle mani e nei piedi; Chris aveva le articolazioni rattrappite. Si
mossero in cerchio, trascinando Vince. Quando calò l'oscurità e fu il momento di
andarsene, avevano tanto freddo che il solo modo di portare le armi era
appoggiarsele sopra le braccia.
Ben presto Vince rimase indietro. A un certo punto si fermò e richiamò gli altri.
Si lamentava delle mani, mormorando che gli erano diventate nere. Chris le
guardò e vide che indossava un paio di guanti di pelle nera. «Se te le metti in
tasca miglioreranno presto, amico », gli disse.
Quando si fermarono per la seconda volta, Vince ormai diceva cose senza senso.
Stan e Chris cercarono di scaldarlo, ma servì a ben poco. Dovevano continuare a
marciare altrimenti sarebbero morti congelati. Erano su un altopiano, dovevano
scavalcare rocce nude e ampie aree innevate. Chris precedeva con la bussola, ma
il freddo lo stava sopraffacendo: faceva tutto al rallentatore.
I tre si divisero mentre oltrepassavano un 'altura a velocità diverse. Stan si fermò
per permettere a Vince di superarlo: voleva tenerlo d'occhio. Ma Vince non
comparve. Stan si voltò: Vince non si vedeva da nessuna parte. Allora Stan
richiamò Chris ed entrambi tornarono indietro. Tornarono sui loro passi sotto la
neve, con un vento accecante e la visibilità ridotta a qualche metro. Giunsero in
una vasta zona di grandi rocce e non riuscirono a trovare la pista per scendere dall
'altra parte.
Dovevano prendere una decisione, perché rischiavano entrambi l'ipotermia.
Restare fermi era un tormento: dovevano rimettersi in marcia. Alla fine, dopo
essersi scambiati uno sguardo, si voltarono e proseguirono verso la collina.
Stan e Chris camminarono tutta la notte scendendo dall 'altopiano verso le 05.30.
Giunsero a uno uadi basso, profondo meno di un metro, e si raggomitolarono
l'uno vicino all'altro. Quando giunse l'alba, il tempo migliorò, uscì il sole e
finalmente risentirono un pò ' di calore sui loro volti.
Verso le 14.00 udirono il rumore delle capre, e furono sicuramente individuati da
un vecchio pastore che indossava un cappotto di tweed tutto lacero. Stan non potè
fare a meno di pensare quanto doveva essere caldo quell 'indumento, e come
sarebbe stato bello mangiarsi un pò ' di capra arrostita.
Il vecchio indicò la direzione est con aria molto amichevole.
Disegnò sulla sabbia del cibo, una casa, un 'auto. Chris guardò Stan. Dovevano
ucciderlo? In teoria sarebbe stato più sicuro, ma forse qualcuno lo stava
aspettando.
Stan era disposto a dare un 'occhiata all'automobile. « Vado giù, la prendo e ce la
filiamo. Arriveremo al confine prima di stanotte. »
Stabilirono un punto d'incontro, prepararono l'azione e i segnali di avvertimento e
Stan partì verso est con il vecchio e le sue capre. Lasciò a Chris il suo cinturone
per apparire meno minaccioso e si avvolse la sciarpa attorno alla testa.
Dopo un pò ' il pastore si allontanò in un 'altra direzione, ma continuando a
indicare l'est. Stan proseguì.
La baracca si trovava esattamente dove aveva detto il vecchio, ma fuori erano
parcheggiate due auto invece di una. Stan rimase a controllare per una ventina di
minuti, ma nulla si mosse. Se le chiavi fossero state sull 'automobile, l'avrebbe
presa e sarebbe partito. In caso contrario, sarebbe entrato nella baracca. Arrivato
alla porta, le avrebbe dato un calcio, prendendo qualunque cosa ci fosse.
Quando cominciò ad avvicinarsi ai veicoli, dalla baracca uscì un soldato iracheno.
Sembrò sorpreso quanto Stan, ma raggiunse il primo veicolo e cercò di prendere
un 'arma. Stan lo abbattè con il suo 203, e il corpo rimbalzò sul sedile del
conducente. La casa era a meno di venti metri di distanza, con la porta aperta. Ne
uscirono sei o sette soldati correndo in tutte le direzioni. Stan sparò tre colpi e poi
l'arma si inceppò. Mancava il tempo per sistemarla. Corse verso l'auto più vicina,
quella con sopra il moribondo. Il soldato stava ancora gemendo. Sul cruscotto,
nessuna chiave. Provò a cercarla nelle tasche del ferito, ma si sentì la canna di un
fucile puntata nelle costole.
Stan si voltò a guardare i beduini. Erano rimasti cinque soldati: sembravano molto
indisciplinati, urlavano l'uno contro l'altro. Spararono in aria e per terra vicino ai
suoi piedi. Stan pensò che era morto. Avanzarono cautamente finché uno non
trovò il coraggio di dargli un colpo con il calcio del fucile. Allora gli altri si
avventarono su di lui.
Lo misero sull 'altro veicolo e lo condussero a una caserma vicino all'Eufrate,
dove entrò nella fase di interrogatorio tattico.
Fu interrogato quasi tutta la notte, ammanettato e bendato. Gli inquisitori
parlavano perfettamente l'inglese. Alcuni erano stati addestrati in Gran Bretagna.
Un maggiore che aveva frequentato Sandhurst gli disse: «Siamo tutti tristi per te,
in questo momento.
Vogliono ucciderti». ,"
Stan non disse niente eccetto le BigFour. Lo picchiarono come una bestia finché
non perse i sensi. Quando rinvenne, cominciò a raccontare la storia di copertura.
Disse che aveva preso una laurea in medicina in Australia e poi era andato a
Londra. Grazie alle sue conoscenze mediche si era fatto strada nella territoriale ed
era diventato membro di una squadra di ricerca e soccorso.
« Voglio collaborare il più possibile », disse. « Sono solo un dottore che hanno
mollato a terra. »
Fu interrogato sulle tecniche mediche, chiamarono anche un dottore per
esaminarlo. Questa parte andò bene, ma il resto del racconto cominciava a fare
acqua. Setacciarono la zona dove Stan aveva detto che l'elicottero aveva fatto un
atterraggio di fortuna, ma non riuscirono a trovare alcun relitto. « Forse
l'elicottero è decollato di nuovo », disse a questo punto, ma loro sembravano
dubbiosi.
Due o tre giorni più tardi, Stan fu trasferito a un centro di interrogatori. Il
comitato di accoglienza lo picchiò a bastonate; fu fatto inginocchiare davanti al
gruppo degli inquisitori e battuto con tubi, fruste e un palo. A un certo punto, gli
tirarono indietro la testa e gli misero davanti agli occhi un attizzatoio rovente.
Non misero in atto la minaccia di accecarlo, ma usarono l'attizzatoio su altre parti
del suo corpo.
Raccontammo a Stan le nostre storie, e alla fine cademmo addormentati. Mi
svegliai nel cuore della notte con lo stomaco che pulsava. Da quando eravamo
arrivati, avevamo tutti cagato liquido già quattro o cinque volte. Ci stavamo
disidratando velocemente, ma almeno adesso potevamo compensare la perdita di
liquidi.
Era buio pesto e lì, sdraiato sul pavimento, relativamente tranquillo, cominciai a
pensare a casa.
In lontananza ci fu un'altra incursione aerea: attraverso la finestrella vedemmo dei
lampi luminosi. Come sempre, gli scoppi delle bombe erano piuttosto gradevoli,
ci davano un senso di sicurezza, la sensazione di non essere soli. Senza contare
che, se avessero colpito la prigione, ci avrebbero dato una reale possibilità di fuga.
Poco dopo l'alba, sentimmo che la porta di metallo della cella attigua si apriva e
alcune persone parlavano e camminavano. Un secchio di metallo fu gettato sul
pavimento e il manico sbattè ricadendo sul fianco.
Poi una voce: «Russell! Russell! »
Seguì un mormorio di risposta.
Verso il fondo del corridoio si ripetè lo stesso sbattere di secchi. Poi: «David!
David!»
Quest'ultimo era decisamente americano. Quando sentì chiamare il proprio nome,
rispose con un tonante: « Yo!»
Le guardie stavano gridando contro questo David. Poi chiusero la sua porta e
vennero da noi. Erano in tre: uno piccolo, che ci disse che dovevamo chiamarlo
Jeral, uno grasso con gli occhiali e un ragazzino giovanissimo dai capelli biondi e
ricci. Jeral portava un secchio, mentre gli altri lo coprivano con le pistole spianate.
Sembravano ansiosi di mostrare la loro importanza a noi nuovi arrivati.
«Nomi?» chiese il grasso.
« Dinger, Stan e Andy », rispose Dinger.
Ci passò tre ciotoline di plastica e vi versò dal secchio una razione striminzita di
riso e acqua. Ci dettero altri due bicchieri e ci versarono del tè nero freddo da un
vecchio bollitore scassato.
Pensai che era Natale.
Quando se ne andarono, avemmo la prima vera possibilità di osservare la cella
alla luce del giorno. In alto nella parete era piantato un gancio che sporgeva dal
cemento per circa cinque centimetri. Decidemmo che avrebbe potuto farci
comodo e io, che ero il più leggero, venni sollevato e lo scuotei finché riuscii a
svellerlo. Dinger lo usò per segnare dove la luce batteva sul muro: come una
specie di orologio o meridiana.
Mentre mangiavamo il riso leccando le ciotole e sorbivamo il tè freddo,
riflettemmo su cosa sarebbe potuto accadere a quel punto. Dieci minuti dopo le
stesse tre guardie tornarono con il maggiore.
« Adesso siete nella mia prigione », ribadì il maggiore. « Non voglio nessuna
insubordinazione da parte vostra. Se mi causate problemi, ricambierò la cortesia.
Siete insieme solo perché ieri l'ufficiale ha deciso così. Dice di informarvi che
sappiamo che siete pericolosi, e che se avremo qualche problema con voi
dovremo uccidervi subito. »
Forse gli avevano riferito la storia del plotone di osservazione ravvicinata, che ci
rendeva soggetti anomali rispetto agli aviatori cui erano abituati. O forse lo aveva
impressionato il nostro aspetto da abominevoli uomini delle nevi con le barbe
incrostate, le cicatrici e i lividi.
« Se provate a scappare o a infastidirci, vi spariamo. Semplice, no?»
«C'è possibilità di svuotare il bugliolo, signore?» domandai.
« Abbiamo mal di pancia, e si sta riempiendo. »
Disse qualcosa a uno dei ragazzi, quindi a noi: « Sì, prendete il secchio ». Stan lo
raccolse e seguì una guardia.
Il maggiore proseguì: « Sarete nutriti, e siete fortunati che vi diamo da mangiare,
perché siete venuti qui a uccidere i nostri bambini. Non si deve sentire nessun
rumore... non si parla, non si grida. Capito? »
Mentre ci faceva la filippica, Dinger notò sotto la sua camicia la forma di un
pacchetto di sigarette.
« Mi scusi, signore, sarebbe possibile avere una sigaretta? »
Dinger sorrideva apertamente. Chi non risica, non rosica. Cercavamo di fare del
nostro meglio per mostrarci cordiali, carini, educati e gentili. Il maggiore si
sbottonò la camicia ed estrasse il pacchetto dalla tasca di una maglietta. Passò una
sigaretta a Dinger, ma non gli dette da accendere, così Dinger era fottuto.
Trascorse il resto della giornata a guardarla con bramosia, tenendosela sotto il
naso.
Stan aveva cercato di raccogliere tutte le informazioni che poteva. Riuscì a dirci
soltanto che in diverse celle con le porte sigillate c'erano coperte o sacchi di riso
su cui, per ironia della sorte, stava scritto DALL'ASSOCIAZIONE RISIERA
AMERICANA AL POPOLO DELL'IRAQ. In fondo al corridoio c'era un
cancello, poi un altro corridoio che finiva in un cortile chiuso da un'altra porta di
metallo. Non era riuscito a vedere di più. Tutto sembrava compreso in una sola
unità, con un'unica entrata e uscita.
Apparentemente dividevamo la zona bagni con le guardie. La loro biancheria era
appesa ai fili. In un angolo c'era un grande barile da petrolio pieno d'acqua;
inoltre, un lungo lavandino di cemento, con quattro o cinque rubinetti e alcune
normali turche, intasate come al solito. Stan riferì che il posto puzzava molto.

Passò una settimana. Certi giorni entravano nella nostra cella tre volte, altri due,
ma c'erano dei giorni in cui venivano anche sei o sette volte. Sentivamo i soldati
andare avanti e indietro di continuo, o per fare il bucato o semplicemente per
bighellonare.
Ci nutrivano in modo irregolare. A volte ci portavano il secchio all'ora di
colazione, a volte nel tardo pomeriggio, a volte al tramonto. I pasti consistevano
sempre di zuppa di riso o riso bollito, una sbobba nauseante piena di fango e
sporca. Ci dicevano sempre che eravamo fortunati a poter mangiare. Una volta ci
dettero ossi già masticati da altri. Li divorammo affamati.
Dovevano aver visto uno di quei film carcerari in cui i prigionieri vengono
indottrinati per radio, perché ogni mattina all'alba accendevano un apparecchio
che blaterava alle nostre finestre.
Era come avere in cella un altoparlante che sputava propaganda, interrotta di tanto
in tanto da qualche parola inglese tipo Bush o America. Seguivano le preghiere,
quindi la propaganda riprendeva. Si fermava soltanto al tramonto, ci faceva
impazzire.
Tutte le notti c'erano bombardamenti. Si sentivano sempre partire dalla città colpi
sporadici di contraerea: una batteria era sul nostro tetto, che tremava per i colpi
mentre i mitraglieri litigavano e gridavano. Non sembrarono mai capire che,
quando lo senti, un aereo è già fuori tiro.

La notte del 13 febbraio, nelle strade adiacenti alla prigione ci fu un imponente


scontro a fuoco che continuò venti o trenta minuti.
« Che cazzo sta succedendo qui? » disse Dinger.
Lui e Stan mi sollevarono sino alla finestrella, e io riuscii ad alzare la testa appena
a sufficienza per vedere un tracciante correre in orizzontale. Rimbalzava
dappertutto.
« Dev'essere una rivoluzione, o una specie di colpo di Stato.
C'è un incendio molto grosso.»

Alcune notti dopo, decidemmo che avremmo cercato di stabilire un contatto con
quelli delle altre celle. Sapevamo che il tale dentro la cella accanto si chiamava
David ed era americano. Non eravamo certi di Russell. Decidemmo di avviare un
contatto. Se fossimo stati sorpresi, rischiavamo un pestaggio o peggio ancora, ma
ne valeva la pena. Se loro fossero stati rilasciati o fossero riusciti a fuggire,
avrebbero potuto riferire i nostri nomi.
Quando le guardie smontavano, come ultima cosa chiudevano il cancello
principale del corridoio e uscivano in cortile. In quel momento mi avvicinai alla
porta e chiamai aiuto. Se avesse risposto una guardia, avrei solo detto che uno di
noi stava male e aveva bisogno di cura.
Nessuna risposta.
Chiamai: « David! David! »
Ci furono dei fruscii, poi: « Che cosa? Che cosa? »
« Da quanto tempo sei qui? »
« Da qualche giorno. »
Disse che lui e un'altra conducente, una donna, avevano sconfinato e gli avevano
sparato addosso. Lui era stato ferito all'addome, ma non aveva idea di cosa fosse
successo alla donna.
«Chi c'è laggiù?»
« Un aviatore dei marines di nome Russell. »
«Russell! Russell!»
Lui rispose e ci scambiammo i nomi. , - . , « Cosa hai saputo? » gli chiesi.
Russell Sanborn era stato abbattuto da un missile contraereo mentre volava a
tremila metri sopra il Kuwait. Era in prigione solo da un paio di giorni.
Concludemmo che non c'erano altri prigionieri e prendemmo accordi per cercare
di parlarci ancora.

Una mattina, forse il 15 o il 16, entrarono le guardie, e noi come al solito ci


alzammo in piedi sorridenti. Avevamo instaurato una specie di routine.
Dicevamo: « Buongiorno », e loro rispondevano: « Buongiorno », poi uno di noi
usciva a svuotare il secchio.
Quel mattino non ci furono sorrisi. Le guardie erano accompagnate da un giovane
ufficiale che indicò me e mi ordinò: « Tu, seguimi ».
Mi bendarono con un panno bianco. Mi ammanettarono con le mani davanti e mi
misero una coperta in testa. Scortato dalle guardie, l'ufficiale cominciò a
condurmi fuori della prigione.
Mi teneva sotto braccio e mi trascinava. Attraverso la benda guardavo in basso e
vedevo il terreno. Superammo il cancello, lui si fermò un po' a parlare con
qualcuno, poi proseguimmo.
Ci stavamo spostando rapidamente quando mi fece sbattere contro un palo della
luce. Per la sorpresa caddi a terra, mentre cominciava a sanguinarmi il naso. Si
sentiva un furbone. Entrammo in un edificio, salimmo le scale e ci ritrovammo in
una stanza.
Fui spinto contro un tabellone e mi dissero di sedermi a gambe incrociate, con la
faccia al muro. La porta si chiuse. Non avevo la più pallida idea di che cosa
sarebbe avvenuto a quel punto, ma temetti il peggio. Un minuto dopo mi
strapparono la coperta e la benda, dicendomi di alzarmi in piedi e di voltarmi.
Ero in un ufficio; la luce era forte da dare fastidio. C'era una sedia contro un muro
e una videocamera di fronte, con un microfono su un'asta. Adesso sapevo perché
avevano smesso di picchiarmi sulla faccia.
Davanti a me c'era il direttore della prigione. Quando vide in che stato era il mio
naso, si incazzò con il giovane ufficiale. Avevo comunque un aspetto di merda,
quindi non capivo che differenza poteva fare un po' di sangue dal naso. Mi
portarono in un'altra stanza, accanto a un lavandino, e mi dissero di lavarmi.
Come asciugamano usai la benda. Poi mi dettero un pettine e uno specchio e mi
dissero di sistemarmi i capelli. Non potevo farci nulla: erano troppo incrostati di
sangue secco.
Era la prima volta che vedevo la mia faccia da quando avevamo lasciato la base
aerea avanzata. Assomigliavo a Willy Coyote dopo che si è preso una badilata in
faccia. Avevo la barba sudicia e ispida, la pelle desquamata. La mia bocca era
piena di croste, mi sembrò pazzesco che mi avessero scelto per un video. Mi pulii
un po' per farli contenti, ma non troppo: non volevo apparire troppo in forma al
mio pubblico.
Mi sedetti davanti alla videocamera pensando intensamente a un modo
appropriato di mostrare che mi costringevano contro la mia volontà. Ho già detto
che durante la guerra del Vietnam i prigionieri rilasciati tornavano negli Stati
Uniti e venivano processati per aver firmato qualche carta o aver detto qualcosa
per salvare la propria vita o quella di altri. Così abbiamo imparato Che, quando si
viene esibiti ai mass media, bisogna fare qualcosa di anomalo, come firmare con
la mano sinistra, così chi ti conosce sa che c'è qualcosa che non va. - ' Decisi che,
per quanto potevo, avrei tentato di tenere l'indice della mano destra teso, e lo avrei
costantemente sollevato per toccarmi l'occhio sinistro, con la scusa che mi faceva
male dopo la botta contro il palo della luce.
Sedetti e aspettai. Arrivò un soldato con tre bicchieri di tè e me ne offrì uno.
«Ti faremo alcune domande, Andy», annunciò il maggiore.
«Voglio che tu risponda la verità davanti alla videocamera.
Poi, chissà... forse presto potresti andare a casa. »
«Oh, la ringrazio. »
Mi fece tutte le domande che mi avevano già fatto. Nome, matricola, grado, data
di nascita, religione. Dettagli sull'elicottero e sul plotone di osservazione
ravvicinata, e che cosa facevamo in Iraq. Dietro la videocamera, al di là delle luci,
c'era un tale con gli occhiali scuri: non lo vedevo bene in faccia. Parlava in arabo
al microfonino del video, poi faceva la domanda in inglese.
Io rispondevo e lui traduceva. Continuai a sfregarmi l'occhio sinistro con il dito e
non guardai mai direttamente nel video. Cercai di mostrarmi sempre stordito e
incoerente. Valeva la pena di tentare... o me la sarei cavata, o mi avrebbero dato
qualche schiaffone. In realtà sembrarono non accorgersene nemmeno.
«Ecco fatto», disse il maggiore dopo circa venti minuti.
« Adesso puoi andare. »
Mentre mi alzavo in piedi, il tizio con gli occhiali scuri mi disse: « Lo sai che non
vincerete mai la guerra, vero, Andy? »
« Perché? »
« Perché siete troppo tecnici. »
Fui bendato e ricondotto in prigione, ma in un'altra cella, da solo. Ero depresso.
Pensavo che, adesso che avevano girato il film, avrei passato da solo il resto della
mia vita.
Le guardie entrarono nella cella con una benda e dissero a Dinger: « Tocca a te ».
Dinger dette un'occhiata al sangue sulla benda ed esplose: « Cazzo! » Pensava che
mi avevano sgozzato, o che sarebbe ricominciato tutto da capo. In entrambi i casi,
se dovevano fargli qualcosa, voleva che iniziassero subito, lì in cella. Ci fu quello
che in seguito Stan definì «un piccolo parapiglia», finché non entrarono altre
guardie, puntarono loro la pistola alla testa e portarono via Dinger.
Davanti alla telecamera gli dettero una sigaretta. Solitamente Dinger fumava da
duro, tenendo la sigaretta fra pollice e indice, ma di fronte alla telecamera si
atteggiò elegantemente con l'indice e il medio della mano sinistra, come i
personaggi di una commedia di Noel Coward.
Stan decise che si sarebbe toccato in continuazione i capelli e avrebbe guardato
fisso a terra. Mentre lo filmavano, fui trasferito di nuovo con Dinger. Cercammo
di capire perché avessero girato quei video. Pregammo che li mostrassero ai mass
media, così a casa avrebbero saputo che eravamo vivi.

Con le guardie parlavamo il più possibile delle loro famiglie.


« Quanti figli hai? Senti la loro mancanza? Li vedi? »
Con Jeral andai a segno. Era magrissimo e giovanissimo, sui vent'anni. Parlava un
ottimo inglese, sempre come se si scusasse, sollevando le spalle.
« In realtà io sono un batterista », disse. « Suono in un gruppo che si chiama
Queen, al Meridien Hotel di Baghdad. »
I suoi cantanti preferiti erano Boney M e Michael Jackson, e ogni volta che mi
vedeva attaccava: «He's crazy like...»
«Oh, Andy, ho voglia di venire a Londra», mi confidò un giorno. «Quando verrò,
me la farai visitare? Voglio suonare in un grande albergo di Londra. »
« Sì, certo. » Scrollai le spalle. «Una volta che la guerra sarà finita potremo
diventare amici. Potrai venire a Londra. »
« Sì, Andy, ti voglio bene. » Mi fissò con occhi colmi di desiderio. « Ti amo. Tu
mi ami? »
« Sì, anch'io ti amo, Jeral. »
Quando se ne andò, mi beccai dagli altri due una mastodontica presa per il culo.
« Se mi lasci guardare, ti darò il mio stipendio di un mese », attaccò Dinger.
« In cambio del tuo stipendio di un anno, non lo dirò allo squadrone », fece Stan
di rincalzo.
Jeral era una rottura di coglioni, ma da lui ottenevamo un po' di pane in più e
qualche informazione. A un certo punto ci fu un'iniziativa del Cremlino e Jeral
disse: « La guerra finirà presto.
Penserà a tutto Gorbaciov ».
In effetti ci doveva essere stata qualche iniziativa di pace, perché sentimmo
cantare nelle strade, e colpi di arma da fuoco. Entrarono alcune guardie tutte
eccitate e Jeral annunciò: « La guerra è finita! »
« Come lo sai? » chiesi.
« Saddam Hussein ha firmato un trattato. Ha spiegato alla nazione che non
possiamo permettere che muoiano così tanti nemici. E' un uomo misericordioso. »
' ' ' Avremmo avuto la riprova che diceva stronzate se quella notte ci fossero stati
altri bombardamenti. In effetti ci furono. Quella volta Jeral si era sbagliato, ma
poi fu lui a dirci che era iniziata la guerra terrestre.
Stan andava abbastanza d'accordo con un sergente maggiore che non sapeva una
parola d'inglese. C'era una specie di affinità tra loro, e Stan gli parlava attraverso
un'altra guardia. Gli chiese quanti figli aveva e venne fuori che aveva due mogli e
cinque figli. Stan commentò: «Oh, un uomo molto forte», e il sergente ne fu
orgogliosissimo.
Qualche problemino con le guardie l'avevamo. Di tanto in tanto ci pestavano
quando andavamo a svuotare il bugliolo. Si assicuravano che tu fossi solo e ti
saltavano addosso. Una volta fecero fare a Dinger la danza della luna di Michael
Jackson. Noi li lasciavamo fare: erano solo calci e qualche pugno. Ci buttavamo a
terra, loro si facevano una risatina e tutto finiva lì.
Un'altra volta, i bagni erano intasati di merda. Mi condussero là e me la fecero
tirare fuori con le mani, dopo di che mi obbligarono a leccarmi. A loro sembrò
una trovata eccezionale.
Una mattina Stan andò al reparto bagni con il bugliolo, e quando fu pulito gli
offrirono di riempirlo con l'acqua del barile di petrolio. Ringraziandoli per la loro
gentilezza, calò il secchio nel barile e ricevette una potentissima scossa elettrica
che lo mandò a sbattere contro il muro. Sentimmo le sue urla e il loro riso isterico.
Il generatore era in funzione, e avevano collegato il barile ai cavi principali.

Baghdad veniva ancora attaccata tutte le notti. Se una bomba cadeva troppo
vicino o qualcuno perdeva un amico o un familiare, le guardie venivano da noi e
si accertavano che lo sapessimo.
Nei cessi cominciarono a mollarci pedate molto pesanti. Facemmo un patto per
cui, se lo avessero fatto quando eravamo tutti e tre insieme, non lo avremmo
tollerato.
Una notte, durante un bombardamento, un colpo esplose vicino alla prigione.
Dall'inizio, avevamo stabilito che, se mai nella cella si fosse aperto un varco
abbastanza grande per passarci, lo avremmo fatto. Con le bombe che cadevano
così vicino, se non ci muovevamo avremmo comunque finito per restare uccisi... e
per di più dalle nostre bombe.
Quella notte ci furono molti feriti. Sentivamo le grida e i gemiti, le onde d'urto e
tutte le finestre della zona che tremavano.
La città di Ali Babà se la stava vedendo davvero brutta. Qualcuno urlò vicino al
cancello che dava sul cortile esterno; seguì il rumore di un cancello che si apriva.
Potevamo immaginare quello che sarebbe successo. Ovviamente arrivarono le
guardie e dettero una battuta a David e Russell.
Quindi vennero nella nostra cella due tizi che facevano ondeggiare le loro
lampade ad acetilene e urlavano. Indossavano gli elmetti e i cinturoni, avevano le
armi a tracolla e degli sfollagente.
Ci alzammo in piedi, sapendo che con quegli arnesi avrebbero potuto ucciderci:
basta un colpo ben assestato in testa. Nei film, l'eroe viene picchiato fino
all'incoscienza e poi, dopo pochi minuti, rinviene e va a salvare il mondo; ma
nella realtà, se alzi un braccio per proteggerti, te lo spezzano. Qualcosa nei nostri
occhi doveva aver fatto capire loro che eravamo pronti a combattere. Si
fermarono e ci fissarono, noi li fissammo e loro indietreggiarono fino alla porta.
Rimasero sulla soglia, urlando e fingendo di caricare le armi, poi fecero
retromarcia e si sbatterono la porta alle spalle. Non potevamo crederci. Saremmo
scoppiati a ridere, se non avessimo sentito i gemiti e i mugugni degli altri
prigionieri lungo il corridoio.
La stessa scena si verificò un'altra volta, anche se in quell'occasione a scatenare il
tutto non fu un bombardamento, ma un americano. Sembrava che avessero un
desiderio incredibile di comunicare con i loro connazionali, anche se farlo gli
procurava qualche bastonata. Adesso gli americani nella nostra palazzina
sapevano che ce n'erano altri e andarono completamente fuori di testa.
David gridò: « Ucciderei qualcuno per un Burger King ».
Una guardia che per caso si trovava nel lavatoio lo sentì e pochi minuti dopo i
carcerieri entrarono. Ma fu Russell che le prese, non David. Probabilmente si
sbagliarono perché la sua cella era più vicina ai bagni. Russell si buscò una
pestata coi fiocchi e fu trascinato in una cella di punizione, poi ritornarono e
dettero un po' di sberle a David; infine arrivarono da noi.
Erano in tre, con gli elmetti e i manganelli. Li salutammo con uno sguardo che
diceva: « Su, venite avanti ».
Indietreggiarono urlando: « Vi divideremo ». La minaccia era più orribile di
qualunque pestaggio.
Miracolosamente non successe nulla e concludemmo che quelle guardie non
avevano riferito l'incidente nel timore che emergesse la loro mancanza di
coraggio.
Diventammo fenomeni da baraccone. Le guardie portavano dentro amici e
dignitari locali e battevano i piedi mostrando la loro autorità, caricando le armi e
puntandole. Un giorno arrivò un bastardo grosso e grasso armato di pistola
Makharov. La caricò, la sollevò, la puntò contro Dinger e premette il grilletto. Il
cane battè sulla camera di sparo vuota. Le guardie impazzirono e il pallone
gonfiato cominciò a ridere; tutti i suoi amici cominciarono a ridere e ridemmo
anche noi. Poi Dinger in qualche modo riuscì a volgere la situazione a proprio
vantaggio facendosi dare una sigaretta che gli valse la giornata.
Continuammo a effettuare ogni pomeriggio i nostri rilevamenti sul terreno con la
carta geografica, cercando di memorizzare ogni particolare, in modo che, quando
fossimo fuggiti e ci fossimo allontanati dalla zona abitata, avremmo avuto
qualche possibilità di stabilire la nostra posizione. Credo che alla fine eravamo
diventati così bravi che alla vista del primo segnale stradale avremmo saputo dove
ci trovavamo.
Lo studio delle carte occupava molto tempo, ma nei momenti di ozio stavamo lì
seduti a chiacchierare. Ripetei un sacco di volte la storia della mia vita, finché
tutti conobbero Peckham e le mie tre ex mogli quasi quanto me. Stan parlava del
periodo passato in Rhodesia con la sua famiglia. Avevano asini cui dipingevano
gli zoccoli a colori vivaci. Ci raccontò una storia particolarmente carina. Un
giorno vide arrivare una mandria di elefanti che si misero a mangiare le mele
autunnali di un frutteto. I frutti erano così vecchi che avevano cominciato a
fermentare e non passò molto che gli elefanti si accasciarono completamente
sbronzi.
Mentre smaltivano la sbornia dormendo, comparve un gruppo di scimmie che si
mangiarono le mele superstiti. Dopo il banchetto si arrampicarono sugli alberi per
riposare e in breve furono sbronze anche loro. Una scimmia lo era a tal punto che
cadde dal ramo trascinandone con sé altre due. Atterrarono sulla testa di un
elefante ubriaco, che rinvenne di colpo e partì alla carica.
Un'altra storia era molto più fosca. I genitori di Stan avevano un giovane
domestico che viveva con la sua famiglia in un piccolo bungalow nella proprietà.
Una notte, un gruppo di ribelli lo rapì e lo uccise perché lavorava per l'uomo
bianco. Riportarono il corpo al bungalow e lo lasciarono sui gradini a mo' di
ammonimento per il resto della famiglia. L'ammonimento fu preso sul serio. Poco
dopo, Stan si arruolò nell'esercito, entrando nella forza di reazione rapida. Quando
fu dichiarata l'indipendenza, Stan lasciò quella terra disperata.
Cercammo di educare Stan all'ascolto della migliore musica punk. Ci vollero tre
giorni per ricordare tutte le parole della canzone dei Jam Down in thè Tube
Station at Midnight, e poi tentammo di insegnargliela. Si arrese in fretta. «Non
capisco tutte queste mode da inglesi», si lamentò. «Voi ragazzi non ne sapete
niente di Rolf Harris? »
Povero Stan. Aveva la mania di conservare il cibo: anche se aveva fame, cercava
di metterlo via per un momento peggiore. Si ingegnava al massimo per
nasconderlo alle guardie, e poi al mattino quando ci svegliavamo lo
convincevamo regolarmente a dividerlo con noi. Dopo tutto, perché esistono gli
amici?
Passavamo il tempo anche facendo esercizio fisico e curandoci le ferite. Ero
molto preoccupato per il pessimo stato dei miei denti. Le guardie sputavano quasi
sempre dentro il nostro cibo e io mi immaginavo terribili batteri iracheni che
attaccavano i miei denti rotti e li facevano marcire, facendo poi cadere tutti gli
altri come tessere del domino.
Tenevamo il conto dei giorni, e il 24 mi sentii particolarmente di merda. Non
potevo fare a meno di pensare a come avrei passato la giornata se fossi stato in
Inghilterra. Katie sarebbe stata con noi o le avrei soltanto telefonato per farle gli
auguri di buon compleanno?

Verso fine mese, il maggiore cominciò a farsi vedere più spesso, solitamente
prima del tramonto. Ci parlava molto di quanto era bello essere iracheni dopo la
rivoluzione. C'era un sistema sanitario efficientissimo, spiegò, e tutti, quando si
ritiravano dal lavoro, avevano una bella pensione. Inoltre Saddam forniva
l'istruzione gratuita a tutti fino al livello universitario, anche se questo significava
andare a studiare all'estero.
« I nostri bambini a scuola leggono Shakespeare », disse una volta mostrandoci
una copia dell'Amleto. « Ieri sera, mentre tornavo a casa, è caduta una bomba
appena dietro di me. Essere o non essere... è il volere di Allah, no?»
Nessuno di noi aprì bocca, e dopo un breve silenzio lui mormorò: « Tutto
sommato, qui siete stati trattati bene ».
Fu l'indizio decisivo che la guerra stava per finire. Non gli riferimmo ciò che le
sue guardie facevano quando lui voltava le spalle: avrebbe solo peggiorato la
situazione.
«Ricordatevi solo che io non c'entro niente con quanto vi è accaduto prima»,
ribadì. Doveva aver capito che la guerra stava volgendo a loro sfavore e si stava
parando il culo.

Una notte sentimmo aprirsi i cancelli, poi gemiti e mugugni.


Era chiaro dai rumori che stavano portando un prigioniero in una cella. Seguirono
molti mormorii, poi all'improvviso un lungo grido acuto. La notte successiva
stabilimmo un contatto con lui. Si chiamava Joseph Small, nominativo radio
Alleycat, maggiore di aviazione dei marines americani. Povero bastardo... lo
avevano abbattuto in quello che - ci spiegò - era stato l'ultimo giorno della guerra
terrestre. Aveva fatto un brutto atterraggio con il paracadute, restando appeso a un
albero. Si era procurato una frattura esposta a una gamba, e gli iracheni si erano
limitati a steccargliela.
Fu meraviglioso sentire notizie. Non solo la guerra terrestre era cominciata: era
quasi finita, e l'Iraq era in ginocchio. Ma c'era un problema legato all'arrivo di
Joseph Small: quanti più erano gli americani, tanto maggiori erano le chiacchiere.
Loro non si assicuravano che non ci fossero in giro le guardie: attaccavano a
parlare all'improvviso, con brutte conseguenze per tutti. Temevo sempre che
potessero separarci.
Joseph era piuttosto divertente perché moriva dalla voglia di una sigaretta e la
chiedeva sempre, ma lo faceva in modo aggressivo, e loro lo mandavano
affanculo. Invece Dinger, vero modello di diplomazia, ogni volta che passava il
maggiore riusciva a scroccargli una sigaretta.
Alla fine decidemmo di non attaccar più discorso con gli americani. Li
lasciavamo cominciare e aspettavamo eventuali reazioni da parte delle guardie. Se
non succedeva niente, ci univamo alla conversazione, sempre cercando di ottenere
più informazioni che potevamo. Chiedemmo se era stato riferito il nome di
qualcuno alla Croce Rossa. Pensavano che fossimo morti? Oppure sapevano che
eravamo vivi?
Small non fu in grado di dirci niente sulla Croce Rossa: eravamo stati classificati
come dispersi in azione. Bush aveva detto che, se non fossero stati rilasciati tutti i
prigionieri, gli alleati avrebbero distrutto Baghdad. Bene: almeno stavamo
vincendo e c'erano buone probabilità che ci liberassero. Sapevamo però che gli
iracheni avevano contatti con l'OLP. Saremmo diventati i migliori amici di Terry
Waite, avremmo diviso il calorifero con lui?
Però c'era anche un aspetto divertente.
« Chi siete? » tuonò una voce.
« Maggiore Joseph Small, corpo dei marines. »
« Russell Sanborn, capitano del corpo dei marines. »
«Pilota?»
« Signorsì, signore! »
Era davvero buffo, proprio come in Top Gun.
Il giorno dopo l'arrivo di Joseph Small, fu portato dentro in barella un sergente di
sanità di nome Troy Dunlap, con delle lesioni spinali. Era con un ufficiale medico
donna che si era rotta entrambe le braccia ed era stata fatta prigioniera anche lei. Il
resto dell'equipaggio del Black Hawk era morto in seguito all'abbattimento
dell'apparecchio. Inevitabilmente gli americani stabilirono subito un contatto
anche con lui.
« Il maggiore Small? Il maggiore Joseph Small? Merda, signore, io facevo parte
della missione di salvataggio per lei! »
Ci assicurammo che anche lui imparasse i nostri nomi, nel caso fosse stato
rimpatriato presto per le ferite.
In quel periodo, i bombardamenti cessarono, il che confermò il racconto di Small.
Usavamo i bombardamenti come barometro: se fossero ricominciati, avremmo
saputo che le cose erano andate a puttane. Nel pomeriggio esplosero due colpi in
rapida successione. Quando gli uccelli furono volati via facendo il solito casino,
sentimmo molte grida e le nostre speranze di un rapido rilascio svanirono con
l'eco dello scoppio.
Cercavo di essere ottimista. A quel punto, gli iracheni si stavano pigliando dei bei
calci nel culo dalle truppe terrestri. Le informazioni di Small facevano pensare
che la fine fosse questione di giorni, più che di settimane. Per di più, anche
durante le incursioni non avevo sentito il fuoco della contraerea. Jeral mi
confermò che era passato sulla città un aviogetto supersonico: nostro o loro, non
sapeva dire.

All'alba del 3 marzo, si aprì il cancello esterno del cortile della prigione
principale. Udimmo un tintinnio di molte chiavi e delle grida. La cella di David fu
aperta, e ci sforzammo tutti di origliare.
Sentimmo le parole: «Vai a casa».
Ci guardammo l'un l'altro, e Stan disse: « Cazzo, ragazzi, questa è una bella
notizia! »
La nostra porta si spalancò e comparve sulla soglia una guardia con una
lavagnetta in mano. « Stan, Dinger. Adesso andate a casa. Aspettate qui. »
Andy, niente. Fu uno dei peggiori momenti della mia vita: le nostre paure erano
state confermate. Avrebbero trattenuto alcuni ostaggi.
Mi voltai verso Dinger e gli dissi: « Se arrivi a casa, per favore, ti raccomando di
parlare con Jilly ».
Prima di partire, Dinger e Stan mi strinsero la mano, dicendomi un inutile: « Non
ti preoccupare ».
Non ti preoccupare? Ma se stavo sbattendo le braccia come ali per volare via!

Da solo in cella, passai le prime due ore ad autocommiserarmi.


Ero contento per i ragazzi che se ne andavano, ma questo non mi impediva di
sentirmi abbandonato. Dopo tante settimane di compagnia, l'improvvisa solitudine
fu quasi un dolore fisico.
Mi sforzai di valutare le varie possibilità. La guerra doveva essere finita, non c'era
dubbio. Sapevamo che la missione di Small era stata praticamente l'ultima
dell'aviazione, e aveva avuto luogo già da alcuni giorni. Ma allora perché avevano
liberato solo tre di noi? Li avrebbero veramente rilasciati?
Nel pomeriggio arrivò il maggiore con tutto il suo staff. « Sì, è vero », confermò,
« i tuoi due amici sono andati a casa e molto presto saranno di nuovo riuniti alle
loro famiglie. Forse anche tu partirai presto. Forse fra un giorno, o forse fra due...
non lo so. Ma ricordati: quello che ti è successo nell'altro posto non ha nulla a che
vedere con me. Io ho la responsabilità di quello che è successo qui. Siete stati
curati bene. »
Annuivo e confermavo come un dannato. Mi dette due arance che mangiai appena
se ne fu andato, con la buccia e tutto quanto.
Cominciavo a sentirmi meglio.
Quello stesso pomeriggio fui trascinato fuori e lasciato in cortile, al sole. Rimasi lì
seduto per un po' a godermi i raggi, poi fui raggiunto da due guardie che
cominciarono a parlare di musica pop. Erano indietro di circa vent'anni, ma mi
guardai bene dal farglielo notare, discutendo invece i meriti dei vari Boney M e
degli Abba, annuendo fin dove potevo senza farmi cadere la testa. Erano tutti
gentili, perciò capii che c'era nell'aria qualcosa.
Mi crogiolai per un'ora e fu una sensazione stupenda. Quando il sole calò, mi
riportarono dentro, ma mi sentivo sempre più speranzoso.

Quella notte capitò qualcosa di strano a Joseph Small. Ero sdraiato sul pavimento
quando sentii che qualcuno entrava nella sua cella. Ci furono dei mormorii e poi,
circa un minuto dopo, la porta si richiuse e i rumori svanirono. Al tramonto le
guardie ci lasciarono soli: cominciammo a parlare, e io chiesi a Small cosa gli era
successo.
« E' entrato nella mia cella un soldato iracheno », spiegò. « Era in mimetica,
piuttosto male in arnese. Aveva la barba ispida, il cinturone, l'elmetto e gli anfibi
sdruciti. E' entrato, mi ha guardato, mi ha fatto il saluto militare e se n'è andato.
Strano, Andy, cazzo, strano. »
Riuscimmo solo a pensare che si fosse ritirato dal Kuwait e per qualche strana
ragione desiderasse vedere un prigioniero.
Passammo la mezz'ora seguente a cercare di capire come mai se ne fossero andati
già due gruppi e noi no, ma non arrivammo molto lontano. Per la seconda notte
consecutiva non dormii: la precedente perché ero depresso, e ora causa
l'eccitazione con cui aspettavo la mattina. ' '

All'alba del 5 marzo si aprirono i cancelli esterni: saltai in piedi, al colmo


dell'ansia.
Si aprì per prima la porta di Russell.
« Russell Sanborn? Vai a casa. »
Poi la porta di Joseph.
« Joseph Small? Vai a casa. »
L'ultimo ero io.
« Andy McNab? McNab? Sì, andrai a casa presto. »
Ci ammanettarono e ci condussero uno per uno fuori delle celle. Attraversammo i
cancelli che portavano al cortile e poi, oltre i cancelli, fummo fatti salire su un
autobus. Per la prima volta vidi le persone cui appartenevano le voci delle altre
celle. Joseph Small era molto più vecchio di quanto avessi immaginato: sembrava
sui quarantacinque anni, di bell'aspetto considerando le ferite. Di Russell Sanborn
avevo visto solo un occhio e un dito che abbassava un lembo di coperta per
vedere le persone che passavano davanti alla sua cella di rigore. Aveva una voce
profonda, tonante e autorevole, per cui mi aspettavo una montagna d'uomo.
In realtà era molto minuto.
Discesero il corridoio dell'autobus e ci bendarono tutti. Percorremmo altri
venticinque metri di strada, poi ci fermammo.
Sembrava dovessimo raccogliere un altro gruppo di prigionieri, sauditi a giudicare
dalle voci. Probabilmente eravamo stati prigionieri in un unico carcere con ali
simmetriche.
Proseguimmo per circa quaranta minuti, poi ci fermammo e sentii un rombo di
motori d'aereo. Grande, pensai: ora si vola e vaffanculo a tutti quanti. Ma scesero
solo i sauditi, dopo di che le guardie cominciarono a chiamarci per nome.
Sempre bendato, quando mi chiamarono mi feci avanti e fui condotto all'interno
di un edificio. Dagli echi si doveva trattare di una struttura bassa, immaginai che
fosse un hangar. Fummo schierati in una lunga fila. C'era un forte sibilo di
lampade ad acetilene, e strepito di soldati che si muovevano. Sentivo il respiro dei
vicini. Ci tennero lì a lungo. Mi gorgogliava lo stomaco e mi sentivo debole. Mi
chinai in avanti, ma sfregai il naso contro un muro di mattoni.
Un'improvvisa serie di ordini mi fece raddrizzare di colpo.
Sentii una sinistra eco metallica di armi che venivano caricate.
Bene... ecco che ci siamo, mi dissi. Invece di rilasciarti, ti faranno fuori. Trassi un
profondo respiro e aspettai la fine.
Naturalmente non accadde nulla. Restammo in piedi in assoluto silenzio per
cinque minuti: tutti trattenevamo il fiato.
Mi sentivo sempre peggio, finché caddi in ginocchio.
« Devo andare in bagno », dissi.
Qualcuno mi afferrò per le braccia e mi spinse via, ma prima di arrivare al bagno
mi sporcai tutto di roba liquida. Fui riportato in fila.
Ci condussero a uno a uno in celle minuscole e ci tolsero le manette: allungando
le braccia toccavo le pareti opposte. Ma c'erano tre coperte - un vero lusso - e una
finestrella. Durante la notte, ebbi la necessità di chiamare ogni cinque minuti.
Tutte le volte, arrivava una guardia che mi trascinava fino al bagno e stava in
piedi accanto a me mentre svuotavo l'intestino.
All'alba ci dettero una buona colazione con uova, marmellata, pane e tè nero
bollente. Guardai fuori della cella e vidi pile di vecchie uniformi sistemate sul
pavimento e pigiami gialli da prigioniero di guerra, con relative scarpe. Pensai: è
fatta.
Un'ora dopo la colazione, la porta della mia cella si aprì e fui condotto lungo un
corridoio in una stanza con una sedia, un tavolo, uno specchio, acqua e un rasoio.
Il « barbiere » cominciò a radermi così maldestramente che mi tagliò in diversi
punti. Il sangue mi colava lungo il mento.
« Posso farlo da solo? » gli chiesi.
«No, tu sei pericoloso.»
Dopo non mi lasciarono nemmeno risciacquare la faccia, e dovetti asciugarmi
sangue e sapone con la camicia.
Fui riportato in cella da due soldati che mi dissero di spogliarmi. Mi dettero una
delle uniformi gialle e si portarono via i miei vestiti. Detti un silenzioso e triste
addio alla mia carta geografica e alla bussola.
«Nome?» ' ' »
« McNab. »
« Vai a casa oggi. Molto presto. »
Mi rimisero la benda.
Le celle furono aperte una alla volta. Un soldato controllò i nostri nomi, ci tolse le
bende e uscimmo in fila. Qualcuno sopraggiunse alla mia sinistra e mi afferrò con
entusiasmo la mano.
« Mi chiamo John Nichol », si presentò raggiante.
Gli strinsi la mano: si accorse che osservavo la polo della RAF sotto la sua giacca
gialla.
«Quindicesimo gruppo», disse. «Tornado.»
Ero davvero felice, ma non alle stelle come gli americani. Loro si comportavano
come se fossero già negli Stati Uniti, e alcune guardie si stavano scocciando. Io
cercavo di mantenere il controllo. Ero alla fine del tunnel, vedevo la luce... ma chi
poteva dire che non fosse un'altra guardia che veniva verso di noi con una
lampada ad acetilene?
Fummo bendati di nuovo e marciammo a serpentone. Dopo pochi metri ci
fermarono di nuovo e un soldato percorse la fila spruzzandoci di profumo da
donna. Digrignai i denti. Il profumo era anche sopportabile, ma l'alcol mi pungeva
il volto mal rasato.
Salimmo a bordo di un autobus e dopo mezz'ora ci dissero che potevamo toglierci
le bende. L'autobus aveva le tendine, ma riuscii a sbirciare oltre e vidi ponti ed
edifici bombardati: però la vita quotidiana andava avanti. Sull'autobus c'era
un'atmosfera gioiosa. I piloti si salutavano calorosamente e la guardia li lasciava
fare.
Poteva ancora essere un colossale bluff: quindi decisi di restare sulle mie.
Ci fermammo davanti alle porte del Nova Hotel. Il posto brulicava di soldati e di
cameramen, c'era una quantità di mezzi della Croce Rossa. Cominciai a sentirmi
più fiducioso.
L'ingresso principale era affollato da quelli che lì per lì scambiai per iracheni, ma
si rivelarono membri di uno staff medico algerino. Una clausola dell'accordo tra
Saddam e la Croce Rossa prevedeva che quest'ultima fornisse personale sanitario
per Baghdad. Gli algerini abitavano nell'albergo e davano una mano negli
ospedali locali. Nell'albergo mancavano il riscaldamento, gli ascensori e l'acqua
calda. C'era l'elettricità, ma la Croce Rossa si era portata dietro tutto il resto, cibo
compreso.
Era la prima volta che la Croce Rossa aveva nostre notizie dagli iracheni, e
comunque gli elenchi erano deliberatamente imprecisi. Era un'infrazione agli
accordi previsti dalla Convenzione di Ginevra, ma piuttosto modesta in confronto
a quello che avevamo passato.
Ero ansioso di ritrovare Stan e Dinger.
« Sono stati rilasciati altri prigionieri prima di noi? » domandai a una donna.
Il personale della Croce Rossa andava dalle ragazze di venticinque anni fino agli
uomini di quasi sessanta: era gente incredibilmente coraggiosa e professionale.
«Sì. Sono usciti attraverso la Giordania.»
« Non riesce a dirmi i nomi dei britannici? »
Controllò un elenco, trovando i cognomi di Dinger e Stan: non ce n'erano altri che
conoscessi.
La ragazza mi confermò che eravamo gli ultimi. Quindi dovevamo essere i soli tre
dopo tutto, pensai. Tutte le storie sul marconista ferito dovevano essere una balla
gigante, un buon bluff che mi aveva convinto a parlare. Legs era morto dove lo
aveva lasciato Dinger.
Una volta espletate le formalità amministrative, ci dettero un biglietto della Croce
Rossa e un numero, e gli europei furono condotti al terzo piano. Notai che le
uscite di sicurezza erano sprangate, permettendo un unico passaggio lungo la
scalinata centrale.
Tutto ciò di cui avevamo bisogno era al terzo piano. Un cameriere della Croce
Rossa ci disse che ci avrebbe portato tutto quello che volevamo, purché l'avesse.
Mangiammo uova sode che non erano ben sode, ma furono le migliori della mia
vita. Gli altri proseguirono con i croissant e il cioccolato, ma a quel punto ero già
in bagno a vomitare. Ricominciai con lo stomaco vuoto, scegliendo una bottiglia
di birra e un po' di pane. Rimanemmo seduti a parlare, e io sentivo tutti che
dicevano: «Bene, è fatta, adesso ce ne andiamo ».
Non riuscivo a credere a quello che sentivo: dopo tutto quello che avevamo
passato, quelli ancora credevano alla parola degli iracheni.
Dissero che dovevamo restare in albergo un paio d'ore, per poi essere condotti in
una base aerea. Uno della Croce Rossa chiese se qualcuno aveva freddo. ' «
Cazzo, altroché », fu la risposta. ,.
Due ore dopo tornò con un maglione per ciascuno di noi: erano andati a comprarli
in città. Avevano disegni assurdi, ma erano caldi.
Arrivò il capo della missione della Croce Rossa. « E' qui Andy McNab?»
« Sono io. »
« Di sotto c'è qualcuno che vuole vederla. »
Mentre scendevamo le scale gli chiesi: « Partiamo oggi pomeriggio? »
«Non lo sappiamo, per via del tempo. E' possibile un ritardo perché l'aereo deve
ritornare dall'Arabia. E' molto diffìcile avere comunicazioni, gli iracheni non mi
permettono di installare il mio satellite. Ricevo solo informazioni di terza mano,
per cui sto qui e aspetto. E' una situazione pesantissima, loro non mi aiutano per
niente. Abbiamo portato tutto questo personale sanitario algerino per aiutarli con
le vittime civili, ma loro hanno spostato i civili dagli ospedali di Baghdad
mandandoli a casa, per lasciare i letti ai soldati che tornano dal fronte. C'è tanto
malumore che devono dare la priorità ai soldati.
« E' per questo che siamo al terzo piano. Abbiamo messo gli algerini da basso
perché loro non corrono rischi, poi di sopra ci siete voi e il personale della Croce
Rossa, perché vi danno la caccia. Vogliono prendere alcuni ostaggi per avere
potere contrattuale. Dovete scendere da queste scale solo con me o con un altro
membro della Croce Rossa.
«Non possiamo trasportare i feriti gravi al terzo piano perché gli ascensori non
funzionano e non riusciamo a trasportarli a braccia. Purtroppo devono stare da
basso. E' possibile che facciano un'incursione per portarne via qualcuno. L'unica
difesa che abbiamo è il nostro status di Croce Rossa. »
Andammo nell'ingresso principale, dove vidi due arabi dall'aria sinistra seduti al
banco della reception.
«Polizia segreta», mi avvertì.
Se non avessero rappresentato una terribile minaccia, sarebbero stati irresistibili,
con le loro giacche cascanti, i pantaloni col risvolto, i calzini bianchi e i capelli
pieni di brillantina.
« Che lei ci creda o no », proseguì il funzionario, « i soldati là fuori vi stanno
proteggendo. »
Questa era bella. Vidi i soldati fermare altri due tizi ingiacchettati che volevano
entrare. Dal modo in cui si fronteggiavano si capiva che c'era dell'attrito. Correva
voce che cinquanta generali fossero stati giustiziati dopo un fallito tentativo di
rovesciare Saddam.
Attraversammo l'ingresso.
«Quando entrerà in quella stanza», mi indicò il funzionario, « dovrà restarci. Se
vuole uscire, chieda a uno di noi di accompagnarla. »
Una ragazza della Croce Rossa era seduta su una sedia, bloccando la porta. Stava
leggendo tranquillamente un libro, e sul pavimento accanto a lei aveva una
bottiglietta di vino e un po' di pane e formaggio. Che fegato incredibile!
Sulle barelle c'erano quattro o cinque persone. Riconobbi Joseph Small e Troy
Dunlap, e li salutai: poi, scrutando la fila, vidi Mark.
«Ho detto il nome di tutti per sapere se qui c'era qualcuno di voi », disse
sorridendo.
Volevo abbracciarlo e dirgli: «E' bellissimo rivederti», ma le parole non mi
uscirono e non potei fare altro che stringergli la mano.
«Che cosa ti è successo?» gli chiesi trattenendo a stento lo stupore.
Portava un caffetano: il suo corpo sembrava massacrato, portava ancora i lividi e
le cicatrici di una serie infinita di pestaggi.
«Quando c'è stato l'ultimo contatto e ci siamo buttati giù tutti e due, io sono
andato a sinistra e sono rimasto coinvolto in una sparatoria. C'erano uomini
dappertutto, per cui mi sono sdraiato in un canale di scolo. Si sono messi a darmi
la caccia, a un certo momento erano a trenta centimetri da me. Poi mi sono
spostato un po', cercando di strisciare fuori. Dopo mezz'ora ho visto delle torce e a
un certo punto mi hanno beccato con il fascio di luce.
C'è stato un grosso casino e mi sono beccato un colpo in un piede e uno al gomito.
Guarda. »
Sollevò il caffetano: il colpo gli aveva trapassato il gomito, ed era stato
incredibilmente fortunato, perché era un proiettile da 7.62, avrebbe potuto
staccargli il braccio di netto. .
«E' stata la ferita al piede che mi ha fottuto», proseguì. «Non riuscivo a
muovermi. Mi hanno dato un bel po' di calci, trascinandomi su un camion e
portandomi in un posto. Era terribile, cazzo. Il piede ballava sul pavimento del
camion perché non riuscivo a controllarlo, e urlavo come un pazzo. Loro lo hanno
trovato divertente. Ridevano a crepapelle. »
Raccontò che aveva perso un sacco di sangue e pensava che sarebbe morto. Non
ricevette alcuna cura medica per il piede: la ferita gli fu fasciata e lasciata guarire
da sola. Fu ammanettato nudo a un letto per tutto il tempo in cui rimase in
prigione, sostanzialmente lasciato lì a marcire. Sopportò il nostro stesso sistema di
interrogatori, con la sola differenza che lo torturavano nella sua stanza.
«Mi scavavano nella ferita», spiegò, «e mi scuotevano la gamba in modo che il
piede mi ballava. Era terribile. Ma la cosa divertente era che avevano
ammucchiato i miei vestiti sul pavimento vicino al letto. Ogni giorno vedevo l'oro
avvolto nel nastro adesivo, e quegli stronzi l'hanno trovato solo a metà della mia
prigionia. Avevo ancora la carta geografica e la bussola e tutto quanto. »
Due tizi venivano a portarlo fuori per farlo cagare. Li chiamava Salute e Igiene,
perché erano vecchi stronzi luridi e puzzolenti. Quando era solo, per pulirsi la
ferita usava la brocca dell'acqua. Il buco era ostruito da pelle e croste, e cercava di
guarire da solo. Aveva il piede gonfio come un melone.
« A volte li chiamavo dicendo che avevo bisogno di cagare e allora venivano, mi
mettevano una ciotola sotto il culo e la lasciavano per ore. Il piscio mi andava
dappertutto perché non riuscivo a sistemarmi, e riempivo la ciotola di merda fino
all'orlo. »
Fu picchiato dalle guardie un bel po' di volte. Quelli entravano, giocherellavano
con il suo piede e di solito gliela facevano passare brutta. Durante un
interrogatorio, qualcuno riconobbe il suo accento neozelandese e lo accusarono di
essere un mercenario degli israeliani.
Gli dissi che Stan e Dinger erano liberi e presto sarebbero arrivati a casa; poi gli
spiegai le nostre teorie sulla sorte degli altri.
Ascoltandomi, concluse che doveva essersi trovato nella nostra prigione, perché
sicuramente era stato bombardato quanto lo eravamo stati noi.
La Croce Rossa ci preparava ettolitri di caffè; a un certo punto comparve una cena
calda.
Anche Mark aveva i pidocchi come tutti noi, e puzzava. Ma il suo fetore era
particolare, temeva che potesse trattarsi di cancrena. Parlammo dei possibili
sviluppi della nostra situazione, ma continuavamo a tornare ai nostri orrendi
ricordi, come in una gara di nefandezze.
Stavo parlando a Mark della polizia segreta che ci faceva la posta quando entrò
uno della Croce Rossa annunciando che c'era un ritardo. Non potevamo partire
prima dell'indomani per via dell'aereo, che era andato in Arabia a prendere dei
prigionieri per uno scambio, ma a causa delle condizioni meteorologiche non
sarebbe ritornato fino al mattino dopo.
Quelli della Croce Rossa erano tesi: misero sentinelle nei corridoi e a ogni
ingresso, provvedendole di candele e cibo. Era evidente che si aspettavano una
notte durissima.
Mark e io bevemmo una birra e mi accomiatai. In realtà pensavo di dormire per
terra accanto alla sua barella, casomai la situazione si ingarbugliasse: ma non
andò così. Salii di sopra per prendere cibo e cioccolato e mi addormentai secco su
una sedia.
Uomini e donne della Croce Rossa vegliarono tutta la notte seduti in mezzo a noi
a gruppi di due o tre.
Mi svegliai presto. In breve comparve un funzionario che con un sorriso ci
annunciò che era ora di andare a casa. Adesso Mark e io avevamo un problema di
sicurezza, perché agli uomini del Reggimento si richiede assolutamente di tenere
nascosto il proprio volto alla stampa. Andai di sopra per parlare con i piloti e
spiegare le mie preoccupazioni a quelli della Croce Rossa.
«Nessun problema», mi rassicurarono. «Appena l'autobus arriva davanti
all'albergo, le ambulanze andranno sul retro, perché possiamo portare fuori le
barelle solo nell'area di servizio. Lei può fare il trasferimento in ambulanza con il
suo amico. »
I piloti accettarono di inscenare un diversivo per i mass media, mettendosi in testa
dei maglioni per attirare le macchine fotografiche.
In tutto il mondo andò in onda un servizio sulle truppe speciali che non gradivano
le foto.
Ci muovemmo in convoglio. Alla guida dell'ambulanza c'erano due della Croce
Rossa, e durante il tragitto uno ci disse: « Se lo gradite, vi illustreremo le bellezze
di Baghdad. Alla vostra sinistra », continuò, facendo il verso alle guide turistiche,
« potete ammirare il ministero dell'Informazione. Era un intero complesso di
edifici e ne è stato fatto saltare uno solo. Un vero bombardamento chirurgico. Alla
vostra destra, il ministero del... »
In ogni strada c'erano manifesti di Saddam e mezzelune musulmane. C'erano
macerie dappertutto, ma apparentemente i bombardamenti di precisione erano
stati veramente efficaci. Senza dubbio avevano colpito gli obiettivi militari,
mentre gli edifici civili erano praticamente intatti.
Cominciò a parlare dello scambio di prigionieri tra Iran e Iraq cui aveva
partecipato. Disse che avevano scambiato prigionieri ventenni che dimostravano
quarant'anni, tanto se l'erano passata male. Uomini finiti. Avevano alcune ferite
orribili, tagli aperti che erano stati lasciati infettare.
«In effetti, questo finora è lo scambio migliore», proseguì il cicerone, «e penso
che dipenda dalle pressioni delle gerarchie militari che rivogliono indietro i loro
uomini. Ci sono molte preoccupazioni per la stabilità, sembra imminente un colpo
di Stato.
Prima ce ne andremo, meglio sarà. »
« Sottoscrivo », commentò Mark. ' ' Lessi i cartelli stradali che indicavano
l'aeroporto internazionale di Baghdad e, mentre scorrevano i chilometri, la mia
ansia cresceva. Sembrava che ci fossero molti intoppi burocratici perché per un
po' andavamo e poi ci fermavamo, proseguivamo e ci fermavamo di nuovo. Non
vedevo nessun aereo.
« E' sempre così », spiegò il conducente. « La burocrazia è allucinante. »
Svoltammo a una curva e vedemmo un convoglio di autobus pieni di prigionieri
iracheni. Non sembravano molto felici. Il terminal principale era deserto. Ci
sciroppammo due ore di controlli prima di essere chiamati all'imbarco.
I prigionieri in grado di camminare salirono la scala sul davanti dei due 727 della
Swissair. Quelli in barella furono trasportati nel retro. Io rimasi con Mark.
L'equipaggio della Swissair ci salutò come se fossimo VIP e saltò subito fuori il
caffè, con la panna. Era nettare.
Quando l'aereo si sollevò dalla pista, esplodemmo come una folla allo stadio.
Guardai Mark e sorrisi. Questa volta stavamo veramente andando a casa.

13.

Si presentò al microfono il capo del contingente americano, un colonnello. Voleva


orchestrare la cosa in modo che tutti i suoi uomini fossero vestiti in tenuta da
prigionieri di guerra per apparire davanti alle telecamere. Dovettero togliersi i
maglioni. Li fece schierare in modo che uscissero in ordine di grado. Non potevo
crederci. Erano appena usciti dalle prigioni irachene e lui voleva già
irreggimentarli.
Mark e io ce ne fregammo bellamente di questa stronzata perché sapevamo che
non avremmo lasciato l'aereo finché i giornalisti non si fossero allontanati. Ci
stavamo districando tra bricche appiccicose e caffè quando il capitano annunciò
che presto i nostri due 727 avrebbero avuto una scorta di F-15 e Tornado.
Non aveva finito di parlare che arrivarono due F-15 americani, volando
sovrapposti a brevissima distanza. Manovrarono fino a trovarsi in rotta
direttamente sopra le ali del nostro aereo. Gli yankee erano alle stelle e lanciavano
un sacco di urli. Un pilota rispose togliendosi la maschera e facendo con il braccio
il vecchio segnale di « Avanti così, ragazzi! » Poi accelerò come un fulmine e si
inclinò in virata. Era davvero uno spettacolo fantastico.
Poi i piloti fecero le loro evoluzioni acrobatiche. Uno fece un «tonneau» (vite
orizzontale) della vittoria portandosi sull'altro fianco del nostro aereo, poi tutti e
due gli F-15 si misero accanto all'ala sinistra.
Adesso era il turno dei Tornado della RAF. Si avvicinarono al punto che riuscii a
vedere gli occhi del pilota. Un altro pilota si tolse la maschera e mormorò la
parola «segaioli!» accompagnandola con il classico gesto del polso. John Nichol,
il prigioniero della RAF che mi aveva stretto la mano, andò davanti e parlò via
radio con i colleghi. Poi si misero anche loro a fare evoluzioni: be', pensai, i nostri
ragazzi sono più bravi degli yankee.
« Questi piloti da caccia pensano di saper volare solo loro », commentò il nostro
capitano; «perciò allacciate le cinture e tenetevi forte! »
Detto questo, virò decisamente e ci mise in perfetta posizione di «tonneau».
L'altro jet della Swissair si portò al nostro fianco ed entrambi gli apparecchi
volarono in cerchi concentrici, incontrandosi di nuovo nel centro.
Quando entrammo nello spazio aereo saudita ci fu una nuova esplosione di
giubilo; poi tutti i jet di scorta scesero, cabrarono sganciando pagliuzze antiradar e
si allontanarono con i propulsori fiammeggianti.

Atterrammo a Riyad, dove ci aspettava un tumultuoso benvenuto.


C'erano giornalisti di tutto il mondo e tutti gli alti comandi, Stormin' Norman
compreso. Mark e io spiammo da dietro le tende e vedemmo che c'erano anche
alcuni dei nostri. Si trattava solo di aspettare. Prima sbarcarono i sauditi, seguiti
dall'esodo ordinato degli americani vestiti per la TV. Quindi aprirono il portellone
posteriore e le barelle furono caricate sulle ambulanze. I nostri salirono a bordo.
«Vi caricheremo su un'ambulanza», disse uno di loro. «Poi svolterete l'angolo per
salire direttamente su un C-130. Decolleremo verso un altro aeroporto e
prenderemo un VC-10 che vi porterà subito a Cipro, dove sarete ricoverati in
ospedale. »
Salimmo sul C-130, dove ci raggiunsero gli altri britannici.
Volammo circa venti minuti, poi atterrammo e prendemmo la coincidenza per
Cipro. L'interno dell'aereo era stato intelligentemente riadattato disponendo i
sedili l'uno di fronte all'altro. Dettero a ciascuno di noi un sacchetto che conteneva
un walkman, pile di riserva, schiuma da barba, un rasoio, mutande, sapone e un
orologio sia digitale sia analogico.
Era buio quando atterrammo alla base aerea della RAF di Akrotiri. Di nuovo
trovammo i nostri ad accoglierci e a ciascuno fu assegnata una guida che
conoscevamo. La mia era un vecchio compagno, Kenny. Le sue prime parole
furono: « Sono veramente incazzato che tu sia vivo. In settembre avrei preso il tuo
posto ».
Ci furono calorose strette di mano e subito circolò una bottiglia di gin. Un
sergente mio amico di nome Mugger aveva la responsabilità generale della
missione di recupero dei SAS. Per apparire più autorevole era andato in giro per
Riyad a fare le sue ricerche con al polso i gradi da maresciallo presi in prestito,
dato che nel Reggimento nessuno portava nulla che indicasse il grado o il reparto.
« Avrei preferito che steste via ancora un po' », berciò, « perché sono andato in
giro facendo il maresciallo reggimentale. E' maledettamente forte. »
Fummo messi su un autobus e portati direttamente a un reparto protetto
dell'ospedale militare.
La sagoma massiccia e imponente di Stan uscì dall'ombra, seguita da Dinger con
la sigaretta in mano. Stan aveva preso l'epatite e non stava bene, mentre Dinger
era in forma smagliante.
« Ho telefonato a Jilly », mi informò. « Ho sistemato tutto. Non ti preoccupare per
le carte telefoniche. I nostri ragazzi hanno stabilito una linea diretta con la Gran
Bretagna. »
Mugger andò giù in città in cerca di qualche video per intrattenerci, poi comparve
il sergente maggiore dello squadrone B con un carrello da ospedale carico di roba
da bere destinata a una bella sbronza. Fummo condotti segretamente in una
biblioteca, dove tirammo il collo a qualche bottiglia.
Gordon Turnbull, psicologo e consulente della RAF, era arrivato a Cipro per
sovrintendere alla fase di recupero.
« Che cosa c'è in quel sacchetto? » chiese a Mugger quando lo vide dirigersi verso
la biblioteca.
« Video per i ragazzi. »
« Le dispiace se do un'occhiata? »
A Turnbull quasi venne un infarto. Mugger ci aveva comprato Terminator, Driller
Killer e Nightmare on Elm Street. « Ma lei è diventato matto! » strillò. «Quei
ragazzi sono traumatizzati! »
« Traumatizzati? » domandò Mugger. « Direi piuttosto sbronzi marci. Venga a
vedere. »
Turnbull ci vide e si incazzò.
«Non si preoccupi», lo tranquillizzò Mugger. «Ne avevano una voglia da leccarsi
il buco del culo. »
Aiutai Mark a fare il bagno, e dal foro nel suo piede cadde un grumo di pelle delle
dimensioni del tappo della vasca. Poi andai a cercare il nostro telefono speciale.
La guardia armata mi condusse alla chetichella in cantina, dove due trasmettitori
stavano facendo la guardia al telefono per mandar via gli scrocconi.
La linea funzionava perfettamente e parlai subito con Jilly.
Dopo una serie di « ti amo » tornai barcollando a letto. Non appena la mia testa
toccò il cuscino, mi resi conto che era il primo vero letto in cui dormivo dopo otto
settimane e tre giorni.
Nei due giorni che seguirono ci fecero radiografie ed esami, e il dentista mi
sistemò provvisoriamente la bocca. Con Gordon Turnbull ci sottoponevamo a
sedute post-traumatiche che duravano pochi minuti. Povero Gordon... con tutti
questi traumatizzati di ritorno dalla prigionia gli sembrava Natale. Nel suo lavoro
era bravo, ma la mentalità dei ragazzi li spingeva ad approfittare di altri tipi di
intrattenimento. I nostri avevano organizzato una visita in città, e la Croce Rossa
ci aveva dato un sacco di soldi. Volevamo fare shopping al duty free prima che
sparisse tutto.
La Croce Rossa andava in giro chiedendo se avevamo qualche richiesta speciale:
sarebbero andati in città e avrebbero fatto gli acquisti per conto nostro.
« Perché non ci date i soldi, che ci pensiamo noi ? » chiesi a una distinta signora
sulla sessantina.
« Puoi andare a farti fottere », mi rispose ridendo. « Credi che sia nata ieri? »
Tuttavia, alla fine cedette. Mi comprai jeans, magliette, video e una valigia dove
mettere tutto. Avevamo il raptus delle compere. In capo a un'ora i soldi erano
quasi finiti e Kenny era agitato perché gli avevamo chiesto un prestito di seicento
sterline.
Sapeva che prima che gliele restituissimo sarebbe passato molto tempo.
I belgi come contributo alla guerra avevano inviato uno staff sanitario.
Organizzarono un grande barbecue d'addio, e Mugger ci fece invitare tutti. La
notte passò tra meravigliosi fumi alcolici.
Il giorno dopo mi confermarono che avevo l'epatite. Certo, il fatto che ci avessero
fatto mangiare merda poteva avere avuto la sua importanza. Ulteriori controlli
medici stabilirono che avevo la spalla lussata, alcuni muscoli della schiena
strappati, tessuto cicatriziale nei reni, bruciature sulle cosce e perdita di abilità in
entrambe le mani; ma io non vedevo l'ora di tornare in Inghilterra.

Il 10 marzo facemmo i bagagli e salimmo a bordo di un VC-10.


Sfortunatamente non andava diritto a Brize Norton: avremmo preso l'equivalente
aereo di un autobus urbano.
Volammo prima a Laarbruch per lasciare a terra parecchio personale della RAF.
Noi restammo in coda con le tende abbassate, mentre il comandante della RAF in
Germania - chiunque fosse salutava i suoi ragazzi di ritorno dalla guerra. Senza
dubbio dovette essere una bella cosa solenne. Dopo la cerimonia, il pezzo grosso
salì in macchina. La sua prossima meta, e anche la nostra, era a un'ora circa di
volo, così dovemmo aspettare sull'aereo a Laarbruch per dargli tempo di arrivare a
Bruges. Quando atterrammo lui era impegnato a salutare il secondo gruppo di
prigionieri della RAF. L'intera cerimonia fu ripetuta. Tirammo fuori qualche
bottiglia e ci sbronzammo.
Finalmente arrivammo a Brize Norton, e mentre l'aereo spegneva i motori
sentimmo il rumore familiare dei nostri elicotteri Agusta 109 che atterravano. Si
avvicinarono all'aereo. A bordo c'erano il comandante del mio squadrone e la
sorella di Mark, che viveva e lavorava a Londra. Dopo una breve riunione,
salimmo sull'elicottero diretto a Hereford.
La base era deserta. Due squadroni erano ancora nel Golfo e altre squadre erano
sparse nel mondo in altre missioni.
All'eliporto ci accolse l'aiutante maggiore. ' «Bentornati», disse. «Venite in
ufficio.»
Stappò una bottiglia di champagne, e mentre versava disse a Mugger: « Bene, tu
per le sei di domani mattina devi essere di ritorno perché ti rispediamo subito in
missione. C'è bisogno di te in Arabia».
« Porca troia, » commentò Mugger, veramente depresso. Aveva sognato di
passare qualche notte a casa con la signora Mugger.
A noi convalescenti, invece, l'aiutante maggiore disse con sublime generosità: «Al
momento non c'è fretta. Prendetevi un paio di giorni di vacanza».
L'ufficiale addetto alle famiglie mi dette un passaggio, ma quando arrivai in vista
della mia casa gli chiesi di fermarsi.
« Da qui proseguo a piedi », gli dissi. « Ho bisogno di fare un po' d'esercizio. »
,.

14.

Ci ACCORDARONO la bellezza di due giorni di permesso.


Lunedì Jilly e io andammo a fare un giro in città. Indossavo i miei vecchi vestiti
che adesso mi andavano molto più larghi. Volevamo solo gironzolare, senza far
niente di particolare, ma finimmo per incontrare un sacco di ragazzi abbronzati
che si raccontavano storie dell'orrore.
Martedì arrivò Katie e passammo il tempo a guardare la cassetta di Robin Hood e
a esercitarci nel ballo.
Mercoledì tornai al lavoro.
Il Reggimento voleva sapere che cosa era successo e perché, e se c'era qualche
insegnamento da ricavare per le future operazioni.
Noi cinque ci sedemmo con le carte geografiche e le fotografie aeree ricostruendo
tutti i dettagli dei nostri spostamenti dal momento in cui avevamo ricevuto gli
ordini fino al rilascio.
Facemmo visita alle vedove e alle famiglie. Stan e Chris andarono dalla moglie e
dai fratelli di Vince, raccontando cos'era successo e cercando di consolarli. Io
andai dalla moglie di Legs e la trovai molto realista e su di morale. Parlarle mi
servì, perché potei rievocare quello che era successo senza dovermi mostrare
troppo forte.
Il 16 marzo andammo per un paio di giorni a Aberdovey, il primo posto dove Jilly
e io eravamo stati insieme, e lei mi aveva dettò che era stata la più bella vacanza
della sua vita. Si aspettava una replica, ma stavolta fu diverso per tutti e due. Non
capivamo esattamente il perché, ma la situazione era un po' tesa. Accorciammo il
viaggio e andammo a Bognor a trovare la madre e la sorella di Bob. La perdita del
figlio e fratello le aveva sconvolte. Non sapevano nemmeno che faceva parte del
Reggimento. Né lo sapeva suo padre, divorziato, che dovette smettere di gestire il
suo ristorante a Londra. Si ammalò - fisicamente - di dolore.
Gli interrogatori a missione compiuta durarono circa tre settimane. Quindi
ricevemmo un'altra visita di Gordon Turnbull con una seduta di due ore nella
mensa ufficiali. Lui e uno dei suoi colleghi ci sottoposero a un semplice test a
punti per valutare il nostro livello di stress. Se il tuo punteggio era superiore a 10,
avevi subito uno choc. Noi reduci totalizzammo tutti 11, Gordon 13.
Concludemmo che mogli e fidanzate erano state traumatizzate dagli eventi più di
noi. Avevano dovuto sopportare molte tensioni: il dolore dell'incertezza che non
avevano potuto condividere con nessuno, e poi la tristezza di sentirsi dire che
eravamo quasi sicuramente morti; e all'improvviso, qualche giorno dopo, avevano
visto le facce di alcuni di noi alla televisione. Gordon Turnbull tenne una seduta
speciale con loro, spiegando in particolare i sintomi del disordine da stress post-
traumatico.
Una volta terminati gli interrogatori, ci annunciarono che avremmo raccontato
tutto davanti all'intero Reggimento. Facemmo un sacco di prove perché ci
tenevamo a fare bella figura. Non si era mai sentito che la gente volesse assistere
a un resoconto di missione, ma quando ci presentammo ci trovammo davanti un
mare di facce. C'erano tutti: dagli equipaggi degli elicotteri al coordinatore delle
squadre di ricerca e soccorso. Il generale Sir Peter de la Billière - DLB, come lo
chiamano tutti - era seduto in prima fila con un corteggio di alti papaveri.
Parlammo per due ore. Spiegai le fasi iniziali di preparazione e continuai fino al
momento in cui fummo sorpresi, con la conseguente divisione del gruppo. Poi
ognuno raccontò la sua storia personale e gli insegnamenti che ne aveva tratto.
Chris fu l'ultimo: aveva da raccontare una storia incredibile.
Quando Stan partì alla ricerca di un veicolo con il vecchio pastore, avevano
concordato che, se non fosse tornato entro le 18.30, Chris sarebbe andato via,
lasciandosi dietro il cinturone di Stan e alcune munizioni. Così fece, dirigendosi
con la bussola a nord, verso l'Eufrate. Erano passate trentasei ore da quando aveva
finito l'acqua. -, Chris era in marcia da un quarto d'ora quando dietro di sé,
nell'area del punto di sosta, vide i fari di un veicolo. Cominciò a correre a ritroso,
pensando che Stan fosse riuscito a prendere un veicolo e stesse arrivando al punto
d'incontro con lui. Poi vide un 'altra coppia di fari e gli caddero le braccia.
Camminò tutta la notte. C'era un cielo lìmpido, una buona luce ambiente per la
visione notturna, ma faceva ancora molto freddo. Verso le 04.30, con il binocolo,
vide sotto di sé il fiume.
Qua e là tra i campi c'erano case isolate, e si sentivano i cani abbaiare.
All'improvviso si ritrovò nelfango fino alla vita. Annaspò, e gli ci volle molto
tempo prima di riuscire a liberarsi. Stanco e guardingo, strisciò per il resto del
percorso fino al bordo dell'acqua. Riempì le borracce, bevve, poi le riempì di
nuovo.
L'acqua era fangosa.
A quel punto era quasi l'alba. Trovò un piccolo uadi per nascondersi, ma troppo
tardi si rese conto che era a circa cinquecento metri da un piccolo villaggio e la
sommità dello uadi era visibile. Era bloccato. Cercò di dormire, ma faceva così
freddo che, ogni volta che si appisolava, dopo pochi minuti si svegliava tremando.
Controllandosi i piedi, scoprì che aveva perso tutte le unghie e le piaghe sui piedi
si erano unite in lunghe ferite purulente. Lo stesso valeva per i suoi scarponcini da
montagna da cento sterline.
Subito dopo il tramonto uscì di nuovo e presto dovette aggirare postazioni militari
e civili. Sembrava che ce ne fossero a centinaia, e il risultato fu che tra le 18.30 e
le 05.00 del mattino percorse solo dieci chilometri.
Per il suo punto di sosta seguente, Chris si arrampicò sulla cima di uno sperone
roccioso di circa duecento metri. Si sdraiò in una crepa della roccia a osservare la
vita del villaggio sulla riva opposta: bambini che correvano, donne in abiti neri,
persone che lavavano e pescavano.
Al calare del sole si incamminò di nuovo, ritrovandosi stretto tra il fiume a destra
e una strada a sinistra. Attraversare su e giù gli uadi gli costava tanta fatica che
finì praticamente per camminare sulla strada. A un certo momento sentì il rumore
di un veicolo e saltò nel fossato. Attraverso il binocolo notturno vide un
convoglio di Scud che avanzava. Prese nota dell 'ora, del posto e proseguì.
Poco dopo, passò un altro veicolo i cui fari illuminarono un cartello stradale
davanti a lui. Chris lo lesse e gli venne un accidente: era lontano dal confine
cinquanta chilometri più di quanto non avesse creduto. Ciò equivaleva ad altre
due notti di viaggio.
Quando spuntò l'alba, Chris non riusciva a trovare un punto di sosta decente e
cominciò ad aver paura. Dopo una lunga corsa, alla fine entrò in un grosso canale
di scolo sotto la strada principale. Sembrava un buon posto, ma a un certo punto
sentì il rumore familiare e sinistro delle campanelle delle capre.
Un gregge stava risalendo lungo il canale di scolo per dirigersi, immaginò, nei
campi dall'altra parte. Chris si spostò dal nascondiglio e riuscì ad arrampicarsi due
metri lungo la scarpata prima che comparisse un vecchio pastore, seguito da un
asino e un 'infinità di pecore con due cani. Lo avrebbero sicuramente fiutato.
Aveva una frazione di secondo per decidere se uccidere il vecchio o mettersi a
correre. Furono i cani a prendere la decisione al posto suo, superandolo di corsa
con la massima indifferenza. Il resto della processione li seguì senza batter ciglio,
Chris non poteva crederci. Era stato a un passo da loro... forse i cani erano stati
ingannati dall'odore delle capre o dall'immondo caffetano del vecchio.
Tuttavia, sarebbero sicuramente ritornati per la stessa strada prima del tramonto,
quindi Chris sapeva che doveva muoversi.
Cominciò a strisciare lungo uno uadi, abbassandosi ogni volta che passava un
'auto, cioè molto spesso. A quel punto il terreno era cambiato, dalla vegetazione
lussureggiante e ben irrigata a sistemi di uadi e collinette ricoperti di cespugli
spinosi. Era durissimo procedere. Dopo circa dieci chilometri trovò un grande
avvallamento e si fermò per il resto della giornata.
Chris aveva consumato tutta la sua riserva di acqua fangosa e si stava
pericolosamente disidratando. Sapeva, tuttavia, che doveva tenersi lontano dall
'Eufrate, poiché sembrava che in ogni capanna ci fosse un cane. Avrebbe dovuto
procedere sperando di trovare acqua altrove.
Al tramonto si alzò e si diresse verso ovest, camminando per diverse ore. A un
certo punto davanti a lui scattò un allarme aereo, e vide con il binocolo una
postazione con antenne radio e sentinelle di pattuglia. Aggirò la base giungendo a
un ruscelletto che scorreva sulle rocce bianche. Senza perdere neanche un
secondo, aprì le borracce e le riempì rapidamente. Poi proseguì.
Continuò a incontrare attività nemica, finché si trovò a un incrocio di strade, tra
un blocco stradale e una postazione antiaerea. Era quasi l'alba, quindi strisciò in
un canale sotto la strada che veniva usato come discarica. Il puzzo era
ammorbante.
A quel punto aveva i piedi in condizioni disastrose, ma non poteva far niente per
curarli. Si consolò sdraiandosi sulla spazzatura e bevendo una generosa sorsata
dalla borraccia.
Nell'istante in cui il liquido le sfiorò, le labbra gli bruciarono riempiendosi di
piaghe. Quasi urlò per il dolore. La postazione doveva servire per difendere un
impianto chimico, e il ruscelletto era un canale di spurgo. Chris non aveva niente
per sciacquarsi la bocca, e le borracce erano ormai inutilizzabili. Pensò che fosse
la fine.
Poi valutò la situazione. Non beveva da due giorni, e ora aveva bisogno di cure
per la bocca. Alcuni tagli sulle mani si erano infettati e i piedi erano in uno stato
tale che riusciva a malapena a stare diritto. Non gli restava molto tempo.
La sera, quando partì, il cielo era molto nuvoloso e scuro: avrebbe potuto superare
il posto di blocco senza essere notato.
Inoltre, trovò un terreno coperto. Dopo aver proseguito faticosamente per un 'ora,
all'improvviso vide un lampo nel cielo e si gettò a terra, pensando di avere
innescato una mina a scatto. Poi sentì alcune esplosioni e, guardandosi sopra le
spalle, capì che si trattava di un'incursione aerea nell'area dello stabilimento
chimico.
A quel punto capì di essere vicino al confine e cercò le torri gemelle sull
'altopiano. In lontananza vide una città ben illuminata, e presto arrivò a una
barriera di filo spinato. La città era già in Siria oppure si trovava ancora dalla
parte irachena, e il filo spinato era una falsa frontiera?
Passò una pattuglia di veicoli, il che sembrò confermare che quello era il confine,
per cui Chris decìse di oltrepassarlo. Trovò un punto con dei pali che reggevano il
filo spinato e cominciò a scavalcare. Si graffiò braccia e gambe, ma ci riuscì. Si
sedette dall'altra parte e cominciò a riflettere: la città sembrava nel posto
sbagliato, ma comunque andare a ovest non aveva senso.
Chris era al limite della resistenza. Barcollava, era molto disidratato. Non aveva
più saliva in bocca e la lìngua gli si era appiccicata all'interno della guancia.
Mentre camminava, la testa gli si riempì di un forte rumore gracchiante, come di
elettricità statica.
Vide un lampo bianco e probabilmente perse i sensi. Quando rinvenne si rimise in
piedi e cercò di proseguire, ma gli successe di nuovo la stessa cosa. Questa volta
però rinvenne con la faccia in un lago di sangue, perché era atterrato bocconi su
una pietra e si era rotto il naso. Arrivò a uno uadi vicino e si addormentò.
Si svegliò all'alba sentendo Stan che gridava di uscire, che dietro l'angolo c'erano
tutti. Si alzò in piedi e cominciò a barcollare verso il punto da cui proveniva la
voce: era così felice che la pattuglia si fosse riunita. Uscendo dallo uadi, si rese
subito conto di avere avuto le allucinazioni. Se non avesse bevuto in fretta
qualcosa, sarebbe morto.
Lì vicino c'era una piccola casa, probabilmente l'abitazione di un pastore. Chris
decise che, anche se fosse stato ancora in Iraq, doveva entrare e farsi dare un po'
d'acqua: con la forza, se necessario.
Trovò una donna che faceva da mangiare accanto a un fuoco.
Intorno a lei stavano giocando alcuni bambini, e più in là c'era un gregge di capre.
Mentre Chris si dirigeva verso il fuoco, un ragazzo sui vent'anni uscì dalla casa e
lo salutò. Il ragazzo era cordiale, gli strinse la mano e gli sorrise.
«Dove siamo?» gli chiese Chris.
Il ragazzo non capì e lo fissò perplesso, poi sorridendo cominciò a indicare alle
sue spalle: «Iraq! Iraq!»
Chris comprese: strinse di nuovo la mano al ragazzo ed esclamò: « Grazie, porca
puttana! »
Fu invitato a entrare e gli offrirono una ciotola piena d'acqua. Lui la ingollò d'un
fiato, e ne chiese subito un'altra. In un angolo della stanza una vecchia donna con
la faccia tatuata che stava dando da mangiare a un bambino gli rivolse un sorriso
sdentato. C'erano coperte per tutta la famiglia e la paglia per gli animali. Chris si
avvicinò a una stufa, naturalmente a cherosene, per immagazzinare un pò ' di
calore. I bambini che stavano giocando rientrarono in casa e gli mostrarono i
disegni che avevano fatto su un pezzetto di carta: cieli pieni di aerei e carri armati
in fiamme.
La donna arrivò con una fetta di pane caldo e la offrì a Chris, che si commosse.
Naturalmente il pane era destinato alla famiglia. Ne mangiò un boccone e si sentì
subito pieno perché il suo stomaco doveva essersi ristretto molto. Il ragazzo gli
portò del tè caldo e dolce: fu la migliore bevanda che Chris avesse gustato in vita
sua.
Cercò di spiegare che doveva parlare con un poliziotto; il ragazzo sembrò capire e
gli disse che glielo avrebbe portato. Chris si tolse la giacca, il cinturone e il 203
per apparire meno pericoloso. Avvolse le sue cose nella casacca e infilò il tutto
dentro un sacco di plastica per fertilizzante che gli dette il ragazzo. Poi partirono
tra saluti e sorrisi, il ragazzo con il sacco e Chris zoppicando sui piedi doloranti. I
bambini li accompagnarono finché la casetta non fu quasi scomparsa dalla vista.
Dopo un 'ora di cammino passò una Land Cruiser e il conducente si offrì di
portarli in città. Si sedettero sul retro e il conducente e il ragazzo si scambiarono
qualche battuta, ma per la maggior parte del tempo viaggiarono in silenzio. Di
tanto in tanto, Chris sorprese il conducente a fissarlo dallo specchietto retrovisore.
Appena giunsero in città, il veicolo si fermò davanti a una casa e il conducente
gridò qualcosa a qualcuno all'interno. Ne uscì un arabo sulla quarantina, vestito di
nero da capo a piedi. I due ebbero una lunga discussione, alla fine della quale il
conducente ordinò all'amico di Chris di scendere. Lui obbedì con riluttanza, e
Chris notò che, mentre lo salutava, sembrava molto preoccupato.
Proseguirono, e il conducente, che sembrava conoscere l'inglese meglio di quanto
avesse dato a intendere fino allora, cominciò a parlare della guerra e ad agitarsi.
«Non dovresti essere qui», disse. «Questa non è la nostra guerra. » Il concetto di
fondo era: « Vaffanculo, bianco, tornatene in Iraq ».
Chris gli mostrò il suo biglietto di ricompensa con scrìtto in arabo che chiunque
avesse lasciato il portatore a un 'ambasciata britannica o presso le forze alleate
avrebbe ricevuto una ricompensa di cinquemila sterline. L'arabo dette un 'occhiata
al pezzo di carta, quindi se lo infilò nel taschino della camicia. Chris gli spiegò
che il pezzo di carta non serviva a nulla da solo, che ci voleva una persona viva e,
tanto per chiarire, gli lanciò qualche occhiata minacciosa.
Si fermarono fuori da un garage. Un altro arabo, che sembrava conoscere il
conducente, uscì dall'officina e dette un 'occhiata a Chris, poi girò sui tacchi e
corse dentro. Chris temette che volessero ucciderlo e cominciò a tirare fuori
l'arma dalla borsa. Il conducente lo afferrò per il braccio, ma luì gli sferrò una
gomitata. Saltò giù dalla macchina mentre l'arabo si allungava sul sedile per
afferrarlo. Dopo aver chiuso la portiera con un calcio che la mandò a sbattere sul
collo dell 'uomo, Chris si mise a correre, o meglio, in marcia rapida.
Svoltò a un angolo e individuò un uomo in uniforme, armato di Kalashnikov, di
guardia all'esterno di un bungalow.
« Polizia? » gridò Chris.
« Sì. »
«Aviatore britannico!»
L'uomo lo fece entrare in fretta nell'edificio, che poi era la stazione di polizia: gli
agenti oziavano nella sala in giacche di pelle e occhiali da sole: nel complesso,
avevano un 'aria sinistra.
Pochi minuti dopo, entrò il conducente della Land Cruiser, massaggiandosi il
collo e maledicendo tutti gli inglesi. Chris sfilò il biglietto dalla tasca dell 'uomo e
lo mostrò alla polizia. Quando lessero quello che e 'era scritto risero; Chris
cominciava ad avere la sensazione di essere nei guai. Proprio mentre stava
valutando la possibilità di evadere dalla stazione di polizia con la forza, uno dei
poliziotti si avvicinò al conducente e gli dette una gran botta in testa. Gli altri si
alzarono e lo trascinarono fuori.
«Stupido coglione», disse Chris agli agenti sogghignando, « ha appena buttato via
cinquemila sterline. »
Prima di portare Chris nell'ufficio del capo, frugarono nel suo equipaggiamento. Il
capo non parlava una parola di inglese - come del resto tutti gli altri -, ma fece
scrivere a Chris il suo nome e altri particolari su un foglio di carta. Chris fornì le
sue esatte generalità, ma dichiarò di essere un sanitario appartenente a una
squadra di ricerca e soccorso.
Il capo sollevò il telefono. Dettò a qualcuno lettera per lettera tutto quello che
Chris aveva scritto. Poi fece un 'altra telefonata, che dal numero dei tasti premuti
Chris immaginò fosse interna.
Comparve uno dei poliziotti con un caffetano e una kefiah, e disse a Chris di
indossarli. Lo fecero salire in macchina fra due agenti. Chris capì che era loro
prigioniero, e non aveva la più pallida idea di dove lo stessero portando. Per
quanto ne sapeva, potevano benissimo consegnarlo agli iracheni.
Proseguirono per quasi un 'ora lungo un 'autostrada deserta, e alla fine si
fermarono dietro due Mercedes nere parcheggiate lungo il ciglio. Alle macchine
erano appoggiati sei individui, tutti con gli occhiali scuri: e uno di loro impugnava
una Makharov.
Chris fu bendato e fatto inginocchiare sull'asfalto. Gli spinsero in avanti la testa e
lui pensò: ecco, ci siamo, adesso mi fanno fuori. Era veramente incazzato con se
stesso per essere caduto nella trappola.
Per alcuni secondi non successe nulla. Poi lo fecero alzare e lo spinsero sul retro
di una delle Mercedes. Forse si erano solo divertiti un pò '. Procedettero per altre
due ore e Chris vide un grande cartello con una freccia e la parola BAGHDAD.
Uno degli uomini con gli occhiali disse: « Sì, andiamo a Baghdad. Sei un
prigioniero di guerra. Siamo iracheni ».
Stava scendendo la sera, e il sole tramontava davanti a loro. A questo punto Chris
era così confuso che non riusciva a ricordare se il sole tramontava a ovest o a est.
Ripensò alla sua infanzia nel l'Yneside, e alle mattine che aveva osservato il sole
salire dalla costa. Se saliva a est, ragionò, allora loro si stanno dirigendo a ovest.
Capì di non essersi sbagliato alla vista dei primi cartelli che indicavano
DAMASCO. Era già buio quando arrivarono alla periferia della città: gli
sconosciuti spensero le sigarette e si aggiustarono la cravatta. Poi si fermarono
dietro un'altra macchina, da cui scese un uomo che venne a sedersi vicino al
conducente della macchina di Chris. Era uno di mezz 'età, ben vestito, e parlava
un inglese eccellente.
« Va tutto bene? » gli chiese.
« Sì, grazie, sto bene. »
« Bene. Non ti preoccupare. Manca poco. »
Chris si accorse che praticamente gli altri due tizi sulla macchina se la facevano
addosso per la paura dell 'ultimo arrivato.
Quando si fermarono davanti a un complesso cintato, scesero entrambi e gli
aprirono la portiera. Chris cercò di uscire, ma cadde in ginocchio: i suoi piedi
avevano gettato la spugna. L'uomo schioccò le dita e Chris fu trasportato
all'interno del recinto.
Fu condotto in un grande ufficio e salutato da un uomo in giacca da yachtman,
camicia a righe e cravatta. L'uomo gli strinse la mano e disse qualcosa.
« Benvenuto », tradusse un interprete.
L'ufficio era una sciccheria: mobili in tek di Harrods, un AK47 placcato d'oro
appeso alla parete, tutto quanto. Chris pensò che fosse il quartier generale della
polizia segreta.
Attraverso l'interprete, il capo chiese a Chris se voleva fare un bagno. Lui non
vedeva l'ora, e fu condotto attraverso una stanza in un bagno adiacente a una
palestra. Prima di andarsene, l'uomo infilò nel rasoio una lametta nuova e aprì una
confezione di shampoo e una di sapone.
Chris stava cominciando a spogliarsi quando entrò un giovane con un metro.
Glielo passò intorno al petto, quindi gli prese le altre misure. Chris sperò che lo
misurassero per un abito e non per la bara.
Non appena entrò nella vasca, l'acqua divenne nera, quindi ne fece scorrere altra.
Apparve un nuovo inserviente e offrì a Chris una tazza di caffè: era buonissimo.
Cominciava a sentirsi sempre più al sicuro. Se avessero voluto ucciderlo, non
avrebbero sprecato del caffè.
L'interprete tornò e gli fece altre domande: Chris rispose con la storia di
copertura. L'arabo sembrò dubbioso, ma non commentò. Chris uscì dal bagno e si
guardò allo specchio: non riusciva a credere a quanto era dimagrito. Aveva i
bicipiti sottili come i polsi. Entrò un 'altra persona con dei vestiti. Fu fantastico
rimettersi un paio di mutande pulite, quindi una camicia bianca con tanto di
cravatta, le calze, le scarpe e - tocco di classe - un completo a righe nuovo di
zecca che doveva essere stato confezionato nell'ultima mezz'ora - mentre lui si
lavava - benché fossero nel cuore della notte. I pantaloni gli erano un pò ' larghi in
vita, e il capo fece un cazziatone spaventoso al ragazzo che gli aveva preso le
misure. Il ragazzo fece segno a Chris di togliersi i pantaloni e scomparve con i
medesimi sul braccio.
Entrò un dottore che medicò e bendò i piedi di Chris. Mentre stava terminando,
tornò il ragazzo con i pantaloni. Questa volta gli andavano a pennello.
Il capo chiese a Chris se aveva voglia di mangiare qualcosa e lo accompagnò alla
sua sala da pranzo. La tavola scricchiolava sotto il peso di bistecche, kebab,
verdura, frutta e pane appena cotto. Chris si scolò un litro d'acqua, ma poi si
bloccò su una bistecca: potè mangiarne solo qualche boccone.
Il capo ci stava davvero prendendo gusto e gli offrì una notte in città.
« Mi spiace », rispose Chris, « ma temo di dovere andare il più presto possibile
all'ambasciata britannica. »
Il capo sembrò davvero deluso mentre telefonava all'ambasciata e disponeva che
qualcuno venisse a prenderlo. Probabilmente pregustava già una notte brava a
nostre spese.
Quando arrivò, anche l'autista dell'ambasciata fece l'inchino al capo. Poi prese
l'equipaggiamento sporco di Chris e lo portò in macchina, mentre Chris stringeva
la mano al suo benefattore.
L'ambasciata mandò subito un messaggio al Comando Interfase di High
Wycombe e a Riyad e organizzò la partenza in aereo di Chris per la sera
successiva. Dal giorno dell 'infiltrazione era la prima volta che si avevano notizie
di Bravo Two Zero.
Nelle otto notti della sua fuga Chris aveva percorso più di trecento chilometri.
Durante tutto quel tempo, non aveva avuto niente da mangiare tranne i due
pacchettini di biscotti che aveva diviso con Vince e Stan, e non aveva quasi
bevuto. Aveva perso moltissimo peso, e la sua sopravvivenza fu attribuita al fatto
che il suo organismo si era nutrito della propria carne.
Ci vollero due settimane prima che Chris riuscisse a camminare discretamente, e
sei prima che gli ritornasse la sensibilità nelle dita dei piedi e delle mani. Il luogo
dove aveva riferito di aver trovato l'acqua era un impianto di lavorazione
dell'uranio. L'acqua del fiume gli provocò seri problemi al sangue e al fegato, ma
poco dopo ritornò al lavoro. Fu una delle imprese più notevoli mai effettuate da
un uomo del Reggimento, e personalmente la giudico anche più notevole della
leggendaria marcia attraverso il deserto nordafricano di Jack Sillitoe, uno dei
primi SAS di David Stirling, nel 1942.
Nella zona avevamo incontrato molte più truppe di quante non ci aspettavamo. In
effetti, apprendemmo successivamente che quella dove ci eravamo ficcati era una
grande area di riserva militare: tra il confine e il nostro primo punto di sosta erano
accampate due divisioni corazzate irachene. E per giunta, ogni uomo, donna e
bambino nell'area era stato incaricato di cercarci. Ai bambini era stato concesso
un giorno di vacanza da scuola per darci la caccia. Comunque avevamo dato una
buona prova di noi stessi: fu calcolato dal controspionaggio che ci eravamo
lasciati alle spalle duecentocinquanta iracheni tra morti e feriti.
La base aerea avanzata aveva ricevuto il nostro rapporto sulla situazione il 23
gennaio, ma in forma molto frammentaria e corrotta, il che li aveva confusi.
Quando fummo scoperti - il 24, alle 16.00 ora locale -, ricevettero un altro segnale
incomprensibile.
In seguito raccolsero un altro debole segnale dal radiofaro tattico e si resero conto
che eravamo nei guai. Era tutto quello che avevano udito fino al 31 gennaio,
quando Chris comparve in Siria.
In seguito all'interruzione delle trasmissioni e ai segnali interni, furono
organizzate per noi due missioni di ricerca e soccorso.
La prima, il 26 gennaio, dovette rientrare subito dopo aver varcato il confine
perché il pilota del Chinook stava malissimo. Fu fatto un secondo tentativo il 27,
e questa volta si trattò di uno sforzo congiunto anglo-americano. Ingannati dal
debole segnale del radiofaro tattico, volarono sul corridoio meridionale,
naturalmente senza risultato. Inoltre, dallo spionaggio americano giungevano
rapporti secondo cui forse c'era stato un attacco israeliano sul confine della Siria.
Eravamo noi, ma si ritenne che gli incursori andassero a sud, e non fu fatto nessun
collegamento con Bravo Two Zero.
Che cosa era successo alla radio di pattuglia? Niente. In qualsiasi parte del mondo
funzionano solo certe frequenze, che comunque vanno sempre cambiate durante il
giorno sulla base dei mutamenti nella ionosfera. Per colmo di sfortuna, le
frequenze che ci avevano dato erano sbagliate. Fu un errore umano, che bisognava
sperare non accadesse più.
E del tanto decantato tempo di risposta di quindici secondi degli AWACS? Chissà
come, eravamo trecento chilometri fuori della loro portata. Ci fu un piccolo
intasamento nelle comunicazioni da qualche parte lungo la linea... altra cosa che
si sperava non accadesse mai più. Il pilota americano con cui stabilimmo un
contatto con il radiofaro tattico riferì l'incidente, ma il rapporto arrivò ai nostri
della base aerea avanzata soltanto tre giorni dopo.
Stabilimmo che la mia decisione di andare verso il confine siriano piuttosto che al
punto d'incontro con l'elicottero era stata corretta. La parola « bruciati » arrivò
intera: tuttavia, senza altre informazioni, cosa poteva significare? Il colonnello
mancava delle informazioni sufficienti per agire, ma dovette sedersi a decidere se
mandare o no un elicottero al punto d'incontro e decise di non farlo, anche se i
ragazzi dello squadrone facevano la fila per salirci e gli fecero passare un brutto
momento. Ma aveva ragione.
Perché rischiare undici uomini - l'equipaggio con i ragazzi della squadra - più un
apparecchio per andare a cacciarsi chissà dove?
Fui contento di non aver dovuto prendere io quella decisione. Come avevamo
appreso dai nostri inquisitori, il Chinook infiltrato era stato scoperto
all'atterraggio, quindi fu un'ottima cosa non averne inviato un altro al punto
d'incontro. L'unica misura che avrebbe potuto servire al momento in cui ci
avevano scoperto era un'incursione di caccia-bombardieri. Avremmo potuto
contattarli con il radiofaro tattico e guidarli contro le postazioni contraeree, quindi
organizzare un rientro ordinato.
Nelle settimane seguenti facemmo un rapporto di fine missione per tutti.
Tenemmo un rapporto ben sunteggiato di un'ora a Lord Bramall, il colonnello in
comando del Reggimento, che dopo ci offrì un pranzo. Mi impressionò, perché
era un uomo molto sveglio... sordo come una campana, ma molto sveglio.
Schwarzkopf arrivò con i suoi e passammo due ore con lui.
« Mi spiace per quello che è successo », ci disse. « Se avessi saputo com'era la
situazione laggiù, voi non ci sareste andati, neanche per sogno. »
Cenammo alla grande con lui, che molto gentilmente ci firmò le carte geografiche
di seta rubate dalla briefing room di Riyad.
L'ultimissimo rapporto fu per lo squadrone B. Pochi giorni dopo il loro ritorno in
Gran Bretagna, la maggior parte dei ragazzi avevano cominciato a prepararsi per
altre missioni o erano già partiti, ma in agosto riuscimmo a ritrovarci insieme per
la prima volta quell'anno, e a fare un consuntivo delle nostre attività. Le incursioni
dei SAS oltre le linee nemiche erano state fondamentali. Il 26 gennaio, dopo nove
soli giorni di guerra, non furono più lanciati Scud dal settore dell'Iraq orientale
che era stato assegnato al Reggimento: un'area di centinaia di chilometri quadrati.
Mugger aveva preso parte a una di queste missioni. Il suo gruppo - mezzo
squadrone - aveva operato dietro le linee nemiche dal 20 gennaio. Il 6 febbraio gli
fu assegnato il compito di attaccare un impianto trasmissioni di vitale importanza
per le operazioni degli Scud.
Il piano doveva partire al tramonto del 7, a un chilometro dal bersaglio, e
compiere una perlustrazione ravvicinata, dando ordini di conferma e attacco.
L'obiettivo, si scoprì, era protetto da un muro di cemento alto due metri e mezzo,
con una barriera interna di un metro e ottanta; e c'erano bunker nemici a destra e a
sinistra. Quattro uomini ricevettero l'ordine di distruggere i due bunker con missili
anticarro e fuoco di supporto dagli automezzi. Otto uomini si portarono sul
bersaglio attraversando duecento metri di terreno piatto scoperto, ma non
riuscirono a trovare l'interruttore di innesto per colpa dei danni inflitti dai
bombardamenti alleati. Perciò Mugger fu incaricato di far saltare il traliccio
d'acciaio. Lui e il suo gruppo riuscirono a piazzare dei timer con cariche a due
minuti, ma nel ritirarsi si trovarono sotto il fuoco.
Il gruppo dei demolitori si rifugiò nella zona del bersaglio: erano ben consapevoli
di avere poco tempo prima che tutto saltasse in aria. Secondo Mugger, man mano
che passavano i secondi i ragazzi urlavano sempre più: « I timer! Abbiamo
bisogno di copertura! Abbiamo bisogno di copertura! »
«Copertura?» gridò di rimando Mugger, preoccupato delle tonnellate di acciaio
che stavano per cadergli intorno. «Avrete tutta la vostra fottutissima copertura fra
un minuto! »
Mentre parlava, il gruppo del fuoco di supporto a bordo delle jeep colpì i suoi
bersagli e, una volta neutralizzati temporaneamente i nemici, Mugger e i suoi si
alzarono e si misero a correre.
Si ritrovarono ai veicoli con l'altro mezzo squadrone e riuscirono con successo a
farsi largo tra le postazioni nemiche. Quando le cariche detonarono ci fu un lampo
accecante seguito da una formidabile onda d'urto. Il traliccio era caduto.
I veicoli e le attrezzature avevano subito molti danni, ma non c'erano feriti. Il
giorno dopo, però, si scoprì che non erano stati solo Mugger e i suoi a vedersela
brutta: due degli altri ragazzi trovarono fori di proiettile nelle loro casacche.
In un'altra occasione, uno dei comandanti di pattuglia aveva annullato una
missione alla vista del terreno piatto e senza rilievi.
Ritenendo impossibile raggiungere l'obiettivo dal punto in cui si trovavano, fece
risalire i suoi sull'elicottero e rientrò alla base. In questo modo rischiò la propria
reputazione, ma personalmente penso sia stata una delle azioni più coraggiose
della guerra. Mi piacerebbe avere la stessa stoffa.
Gli iracheni trovarono il cadavere di Vince Phillips e lo consegnarono alla Croce
Rossa che lo fece trasportare in Gran Bretagna. Sullo stesso volo c'erano anche i
corpi di Steve Legs Lane e di Bob Consiglio.
A Legs fu assegnata una medaglia alla memoria per quelle che il necrologio
ufficiale definì « indefettibili doti di comando». Secondo me le aveva dimostrate
veramente, durante gli scontri a fuoco, e ancor più nella fuga. Era stato Legs a
volere che trovassimo un punto più adatto a un'imboscata per dirottare il veicolo;
e meno male che lo aveva fatto, altrimenti al posto di un vecchio taxi americano
avremmo fermato due camion pieni di soldati. Ed era stato Legs a spingere Dinger
in acqua, quando nuotare per cinquecento metri nelle acque fredde dell'Eufrate era
l'ultima cosa che desiderava. Questo è saper comandare.
Anche Bob quella sera ricevette una medaglia. Che l'abbia fatto deliberatamente o
perché costretto dalle circostanze, lui avanzò come un invasato e cercò di sottrarsi
al contatto combattendo.
Così si attirò una quantità incredibile di fuoco nemico e, senza dubbio, questa
diversione aiutò noi a fuggire. Fu colpito alla testa da un proiettile che gli aveva
trapassato l'addome facendo scoppiare una bomba al fosforo nel suo cinturone.
Morì istantaneamente.
Secondo consuetudine, tenemmo l'asta degli oggetti dei morti.
Tutto l'equipaggiamento fu venduto al miglior offerente, e il ricavato donato ai
parenti prossimi o al fondo dello squadrone.
Questa prassi non è macabra: è la cultura del Reggimento. Se ci preoccupassimo
perché qualcuno viene ferito o ucciso, vivremmo di antidepressivi. Per allentare la
pressione prendiamo per il culo tutto e tutti. Una volta, mentre eravamo in
montagna, uno dei ragazzi cadde in un crepaccio e ci vollero tre ore per riportare
il suo cadavere alla base. Un elicottero scese a prenderlo e un tizio si gettò subito
sulle cose del morto per prendersi il rum e tutto il resto.
«Be', cazzo! Adesso a lui non servono più, no?» disse, e aveva ragione. Prima che
chiunque dicesse qualcosa si infilò il maglione del morto e prese tutto. Quando
tornammo a Hereford, tutto l'equipaggiamento preso in prestito fu restituito e
messo all'asta. Si fa così, e non vuol dire che in realtà non si soffra. Il morto non
se ne preoccupa, e comunque ha partecipato alle aste degli altri e ha fatto
esattamente la stessa cosa.
Bob aveva nel suo armadietto un grande sombrero messicano, un tipico souvenir
turistico che sapevo per certo essergli costato solo dieci dollari, perché quando lo
aveva comprato ero presente.
Lo avevo preso per il culo un sacco di volte per aver sprecato soldi per una
cazzata del genere. All'asta, qualche idiota offrì più di cento sterline. Lo tenni a
casa per un po', poi glielo portai sulla tomba con i nastrini delle medaglie al
valore per lui e per Legs.
Al funerale collettivo a Hereford ci fu qualche problema.
Legs fu cremato, mentre Vince e Bob vennero sepolti nel cimitero del
Reggimento. Alla fine partecipammo a una festa al circolo, con salatini e
bevande. Alcuni parenti maschi di Vince mi fecero qualche rimostranza. Secondo
loro, non era possibile che un uomo così duro e addestrato potesse morire di
ipotermia. Cercai di spiegargli che non importa quanto uno sia bravo o forte: se si
viene colpiti dall'ipotermia, c'è poco da fare. Capisco che il dolore colpisce le
persone in modi diversi, ma spero che col tempo i parenti di Vince riusciranno ad
accettare la realtà.
La settimana seguente, approfittando dell'offerta della British Airways « due per
uno » per i soldati in servizio nel Golfo, Jilly e io andammo in campeggio in
California. Fu una vacanza fantastica, che mi aiutò davvero a gettarmi tutto alle
spalle.
Due settimane dopo, ritornai al lavoro. Mark era in un centro di riabilitazione da
cui entrò e uscì per i sei mesi successivi prima di riprendere servizio nello
squadrone. Chris fu assegnato al reparto addestramento come istruttore incaricato
della selezione.
Dinger era già partito per un lavoro di un anno all'estero. Anche Stan dopo due
mesi era via e, una volta che i medici mi sistemarono le mani e i denti, partii
anch'io.

EPILOGO.

DA quando sono tornato, abbiamo pagato bollette del riscaldamento spaventose.


Si sta tanto bene al caldo. Adesso, quando piove e sono in casa, mi preparo una
tazzona di tè e mi siedo vicino alla finestra a pensare ai poveracci inchiodati in
cima a una collina.
Come il punteggio del mio test aveva mostrato, non sono emotivamente turbato
da ciò che è successo. Certo non ho incubi. Siamo adulti e vaccinati, e
conosciamo le regole del gioco. Avevamo già visto tutti la morte in faccia prima
di allora. Si sopporta.
Non si vorrebbe che succedesse, naturalmente, ma a volte... ecco, sono gli incerti
del mestiere.
Stranamente, sono quasi contento di avere fatto l'esperienza irachena. Non vorrei
ripeterla, naturalmente, ma mi ha insegnato molto.
Alcune ossessioni però resteranno per sempre con me.
Il tintinnio delle chiavi.
Lo stridere del chiavistello.
Il frastuono del metallo.
Un odio per gli zoo.
L'odore della carne di maiale.
Mi sono arruolato nell'esercito per uscire dalla merda in cui mi ero messo con la
legge, ma non ho mai avuto intenzione di restarci per tutti e ventidue gli anni
previsti. Sono stato molto fortunato. Ho girato il mondo, facendo cose
assolutamente pazzesche, ma altre molto divertenti. Adesso è ora di cambiare
mestiere.
Ho trentatré anni, e mi sembra di averne ancora diciassette perché sono sempre
stato troppo occupato a giocare alla guerra. Adesso voglio fare le altre cose che ho
sempre desiderato.
Il nostro tormentone carcerario era: « Be', almeno non possono metterci incinti »,
e ho imparato che niente è mai così terribile come sembra. Un sacco di
sciocchezze che in passato potevano darmi fastidio, adesso sono come acqua
fresca: l'auto che non va, il vino rosso versato sul tappeto chiaro, la lavatrice che
allaga la casa, un oggetto prezioso che si perde. Adesso conosco meglio i miei
limiti, eppure mi sento più ottimista e sicuro. Non do per scontato più niente.
Apprezzo maggiormente le piccole cose di tutti i giorni; invece di andare in città
in automobile, mi sforzo e faccio una camminata attraverso il parco.
Il Reggimento aveva la precedenza, il lavoro veniva sempre prima di tutto.
Adesso, se è il giorno in cui Katie fa sport a scuola, faccio di tutto per esserci,
così è contenta.
Durante il periodo a Baghdad, e anche al mio ritorno, ho continuato a ripensare
alle mie decisioni, cercando di capire se avevo fatto bene o male. La conclusione
cui sono arrivato è che alcune erano buone, altre sbagliate e altre indifferenti. Ma
se non prendi decisioni, sei un uomo morto. Ho fatto bene a proseguire fino al
confine invece di nascondermi? La risposta è: assolutamente sì.
Ho fatto bene a mostrarmi sottomesso agli iracheni? Di nuovo sì, so di avere agito
per il meglio. Tatticamente e moralmente.
E' giusta o sbagliata la guerra? Be', non ci ho mai riflettuto troppo. Ero un soldato
e venivo pagato per questo. Era molto eccitante, mi riempiva di adrenalina.
Quanto agli uomini che mi hanno interrogato, se domani incontrassi qualcuno di
loro per strada e pensassi di farla franca, li ammazzerei.

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