Dopo 12 anni scattano 8 arresti AGRIGENTO. Quando si dice l'ironia della sorte: nel 1993 si adoperò per tenere prigioniero nell'Agrigentino il piccolo Giuseppe Di Matteo. Due anni dopo fece la sua stessa fine e venne sciolto nell'acido insieme al suo fedele amico imprenditore, Antonio Costanza di Favara. Si chiamava Antonio Di Caro, non era uno qualsiasi. Suo padre Giuseppe era - come di dice - un pezzo da novanta, fedelissimo di Riina, Bagarella e Provenzano con i quali ha scritto (insieme ai Ferro) pagine miliari della storia della mafia di Canicattì. Lui mafioso lo è diventato per derivazione biologica: era simile al padre per carattere e temperamento. A queste qualità, intrise fin dentro i cromosomi, aveva poi aggiunto una laurea in Agraria e per questo veniva chiamato 'u dutturi. Era, insomma, un colletto bianco. Venne ucciso insieme all'amico il 25 giugno del 1995, l'accusa era la più infamante: alto tradimento. Dodici anni dopo la direzione distrettuale di Palermo ha scoperto mandanti ed esecutori. I provvedimenti sono stati notificati, in diverse carceri, a Giuseppe Vetro di Favara, Leoluca Bagarella di Palermo, Giuseppe Gambacorta di Porto Empedocle, Arturo Messina di Agrigento, Giovanni Aquilina e Vincenzo Licata, entrambi di Grotte, Giuseppe Fanara di Santa Elisabetta. Determinanti le rivelazioni fatte dal boss di Porto Empedocle Luigi Putrone (reo confesso), diventato collaboratore di giustizia dopo essere stato catturato nella repubblica Ceca. I provvedimenti sono stati notificati dalla Squadra Mobile e dal Reparto Operativo dei carabinieri di Agrigento. Ulteriori particolari sulla vicenda, e sul contesto in cui i due delitti maturarono, verranno resi noti stamattina dal procuratore della Dda Annamaria Palma e dal sostituto Costantino De Robbio che hanno condottole indagini. Secondo quanto è emerso dalla indagini, suffragate anche dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, l'omicidio di Antonio Di Caro venne deciso da Cosa nostra perchè tra i boss si era sparsa la voce che il rampollo della famiglia di Canicattì avesse facilitato la cattura dell'ex capo di Cosa nostra agrigentina, Salvatore Fragapane, fermato dai carabinieri ad inizio del 1995 dopo un conflitto a fuoco in un casolare di campagna a Casteltermini. Ma ancor di più - lo rivela un pentito palermitano - avrebbe favorito anche la cattura di Leoluca Bagarella. Due atroci sospetti che giustificarono il ricorso alla violenza più efferata. Antonio Di Caro venne attirato in un tranello a Palermo insieme ad Antonio Costanza, considerato un complice. E per i due fu scelta la stessa fine. A quell'omicidio, secondo il racconto dei pentiti, avrebbe assistito (in una sorta di iniziazione mafiosa) anche Giovanni Riina, il figlio di Totò 'u curtu. Un'uccisione che ebbe anche dei momenti di rara crudeltà, come quando Brusca strappò dal polso di Di Caro, il cui corpo era stato appena immerso nell'acido, un orologio di grande valore, un Ebel. Per una strana coincidenza, sia le due vittime che buona parte delle otto persone raggiunte da custodia cautelare hanno avuto un ruolo nella carcerazio ne del piccolo Giuseppe Di Matteo. Una sorta di maledizione per chi ha profanato quel sangue innocente. Il piccolo venne consegnato da Giovanni Brusca ad Antonio Di Caro nell'area di servizio Tre Monzelli sulla autostrada Palermo-Catania. Luigi Putrone fu uno dei primi carcerieri, insieme a Giuseppe Gambacorta. Antonio Costanza fu quello che procurò, alle porte di Favara, la villetta-prigione dove il figlio di Santino Di Matteo venne tenuto incatenato alla sbarra del letto. Giuseppe Fanara è, invece, il succes- sore di Fragapane al vertice di Cosa Nostra, Arturo Messina il rappresentante del mandamento di Agrigento. Giovanni Aquilina e Vincenzo Licata sono invece uomini di spicco della consorteria agrigentina e fedelissimi dell'ex capo Maurizio Di Gati, diventato pentito dopo l'arresto. I corsi ed i ricorsi storici si ripetono. Nella recente operazione “Camaleonte” è stato arrestato Calogero Costanza, figlio di Antonio. Sulle orme del padre avrebbe iniziato a fare affari con la mafia. Secondo la Dda è l'uomo di punta dell'organigramma che pone al centro Giuseppe Falsone, il nuovo capo provincia di Agrigento. È latitante da otto anni.