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@ponteallegrazie
www.illibraio.it
Ove non altrimenti specificato, le traduzioni italiane dei testi
dall’armeno, dal francese e dall’inglese sono a cura dell’Autrice.
In copertina: foto © Descordes/photocuisine/Corbis
Grafica: GrafCo3
Ponte alle Grazie è un marchio
di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
© 2009 Adriano Salani Editore – Milano
ISBN 978-88-6833-325-6
Ham des ham des ghazànë ges: erano queste le parole di mia madre
quando, da bambini, per vedere cosa c’era di buono da mangiare in
cucina scoperchiavamo le pentole e guardavamo il contenuto,
assaggiando e scappando di corsa a lavarci le mani prima di sederci a
tavola.
Non pensavo, a quell’età, che fosse lo stesso detto che risuonava
nelle case degli armeni di Urfa, l’antica Edessa, la città di origine della
famiglia dei miei genitori. Ma è confortante sapere che un modo di dire
ancora molto in uso provenga da una storia così vicina e così lontana al
tempo stesso. Ho visto di recente in un vecchio libro una fotografia di
Urfa, nella descrizione della foto si specificava che l’immagine ritraeva
il quartiere armeno; vi ho cercato subito un segno, cercavo in verità
mia nonna, la cercavo affacciata alla finestra della sua casa nell’atto di
salutare o chiacchierare con la vicina, volevo trovare un particolare,
qualcosa che mi aiutasse a identificare le case dei nonni, sebbene fossi
già consapevole che nessuno avrebbe potuto, né potrà, aiutarmi a
segnare con un cerchio in quella immagine la casa dei miei cari.
È la cosa più semplice al mondo realizzare questo desiderio, non è
vero? Basta prendere un aereo, andare a Urfa, oggi Şanliurfa
(Turchia), e cercare la casa natale dei nonni; e poi chiedere un po’ in
giro, per ritrovare i vecchi vicini: ci sarà pur qualcuno che si ricorderà
qualcosa! Dove abitava il giovane Garabèd Dervishoglù? L’abile fabbro,
figlio di Baghdasàr, che un giorno sparì con tutta la sua numerosa
famiglia senza più dare notizie. E la moglie? Come mai la lasciarono in
ospedale malata e se ne andarono senza più cercarla? Potrebbe
sembrare semplice, anzi affascinante, intraprendere la ricerca delle
proprie origini, alla stregua di ciò che fanno i figli o i nipoti degli
emigrati quando vengono a caccia dei loro parenti rimasti in Italia, o
dei luoghi d’origine della loro famiglia di cui tanto hanno sentito
parlare. Ma la nostra realtà di Armeni della diaspora è del tutto
differente: e capisco che possa risultare di difficile comprensione.
Essere figli dei superstiti di un genocidio – e per di più di un genocidio
non ancora riconosciuto dagli eredi dei responsabili – è tutta un’altra
faccenda. Mettersi in cerca delle proprie radici non è per noi un
poetico viaggio proustiano à rebours. Vuol dire confrontarsi con un
dolore senza nome e senza tempo. E la denegazione di quelle atrocità
da parte di chi le ha commesse è un altro doloroso tassello che si
aggiunge.
“Ciao zia, volevo sapere come si fa quella cosa per cui la nonna usa il
bulghùr e la carne, quelle cose che sembrano mattonelle. Che buone!
Prima si mette la carne macinata e poi si aggiunge il bulghùr?”
“Cos’è? Lonza? Buona!”
“No! Non è lonza e non è carne di maiale. Si chiama bastërmà”.
Queste e altre domande del genere hanno sempre accompagnato
piacevolmente le cene e i pomeriggi trascorsi in compagnia degli
amici. Io stessa ho avuto spesso la necessità di telefonare più volte a
mia madre o alle zie per avere chiarimenti su come procedere nella
preparazione di un piatto tradizionale armeno.
“Mamma, quanto prezzemolo si mette nel či-köftè? In che senso ‘un
po”? Non capisco ” Sebbene avessi visto cucinare mia madre e spesso
l’avessi aiutata in cucina, alle prese per la prima volta con pietanze
elaborate era d’obbligo telefonarle per chiarire i dubbi. Mia madre mi
ripeteva ogni volta: bìdi yepvìs gheraguròv, che tradotto letteralmente
significa che bisogna “cuocersi” assieme al cibo. In sostanza, occorre
vegliarlo, accudirlo e non abbandonare la pentola sul fuoco e distrarsi.
Queste parole mi riportavano immediatamente a quanto mio padre
soleva ripeterci per confortarci: hamperànkë giànk è e cioè “la
pazienza è vita”, in ricordo di quella biblica di Giobbe. Ciò detto, non
può mancare all’appello un’altra espressione, che prende spunto da
quanto accade in cucina e cioè: epèl tapèl.
Epèl tapèl (lett. “cuocere e buttare”, nel senso di gettare gli
ingredienti nella pentola quasi a casaccio): si dice a proposito
della massaia che cucina senza criterio, intendendo così che
cucinare non è solo mettere insieme degli ingredienti.
Leggevo la ricetta dal libro che avevo trovato in casa, Armenian
Recipes,1 ma c’erano tante cose che mia madre non aveva mai fatto e
anche nomi di spezie che a Roma non trovavamo: ad esempio quella
definita in inglese “allspice” e che noi chiamavamo con il termine
arabo baharàt. Non sapevamo allora quali fossero queste spezie, dato
che il nome suonava come una miscela. Abbiamo in seguito scoperto
che si trattava di una sola spezia, il pimento. E in effetti anche il
termine arabo per indicare le spezie in generale – baharàt – deriva da
bahàr, il nome di una sola spezia e cioè il pepe.
Ecco quindi man mano aumentare il desiderio di appuntare delle
note e compilare una lista di ingredienti che, devo confessare,
variavano di volta in volta a seconda della zia o della parente
interpellata. La confusione però sembrava aumentare: si accavallavano
i consigli, variavano le dosi delle spezie e dei vari ingredienti. Infine,
dopo alcuni anni di raccolta e di confronto delle ricette, di ricerche
storiche ed etnografiche, di traduzioni di testi fatti giungere
appositamente dalla Repubblica d’Armenia, sono venuta più o meno a
capo della faccenda. Il presente libro è il risultato di questo lungo
cammino.
Vorrei infine attirare l’attenzione sulle dosi indicate nelle ricette: gli
ingredienti sono spesso proposti non a peso ma in unità di misura
molto casalinghe, in tazze, bicchieri e cucchiai. Senza dubbio si
potrebbe pesare il contenuto della tazza e ricavarne il peso
corrispettivo, ma la scelta è stata quella di lasciare inalterata
l’espressione di chi mi ha suggerito di volta in volta le ricette. In ogni
caso è bene sapere che in linea di massima il peso netto del contenuto
di una tazza o di un bicchiere oscilla dai 120 ai 140 grammi.
Tutte le dosi si riferiscono a un numero di sei, massimo otto persone:
sta a voi decidere se preparare molti squisiti stuzzichini o se
concentrare la vostra attenzione, ad esempio, su un piatto unico.
Un ultimo avvertimento infine riguarda le dimensioni delle uova;
nelle ricette il riferimento è a uova di dimensioni normali. Nel caso
quelle che si hanno a disposizione non ci sembrino sufficientemente
grandi bisognerà aumentarne il numero in proporzione.
Cucina armena: integrazione e tradizione ritrovata
Potremmo situare il centro alimentare dell’Oriente nella zona a
sud del Caucaso, esattamente dove nacquero le prime civiltà
urbane 6000 anni fa. Questa regione oggi semidesertica che
raggruppa la Turchia e l’Iran, 3000 anni fa era il regno di Urartu a
nord dell’Assiria, prima di diventare il paese dei Medi, ed essere
infine incorporata all’Iran da Dario, andando a formare il regno
d’Armenia, poco prima dell’era cristiana.2
Parlare oggi di Armenia potrebbe generare qualche confusione nel
lettore. Per le vicende storiche che il popolo armeno ha vissuto –
vicende ahimè poco note ai più – si impone innanzitutto un piccolo
chiarimento.
Attualmente esiste una Repubblica d’Armenia, nata nel 1991. Entro i
suoi confini vivono, ovviamente, i cittadini della Repubblica d’Armenia,
già provincia autonoma dell’impero sovietico divenuta in seguito
indipendente. Tutto il resto – ovvero la maggior parte della
popolazione armena, originaria per lo più dell’area occidentale
dell’Armenia storica – è andato disperdendosi ai quattro lati del
mondo, dando vita a quella grande diaspora del popolo armeno dovuta
alle continue vessazioni dei governi turchi succedutisi nei decenni e
culminate nel genocidio perpetrato dal governo dei Giovani Turchi nel
1915.
In questo libro i termini “Armenia” o “Armenia storica” (quella che
ufficialmente viene definita dagli storici la “Grande Armenia”) si
riferiscono alla totalità del territorio armeno prima del genocidio del
1915, mentre con “Armenia Orientale” si indica l’attuale Repubblica
d’Armenia.
Gli studiosi hanno stabilito che sin dall’inizio del XVI secolo e per
lungo tempo, l’Armenia si trovò divisa fra due stati musulmani nemici:
l’Impero ottomano, sunnita, da un lato e la Persia safavide, sciita,
dall’altro. Tre secoli più tardi le armate russe raggiunsero il Caucaso e
conquistarono la maggior parte dell’Armenia persiana. Da allora si
suole distinguere tra “Armenia occidentale” (la porzione di territorio
all’interno dell’Impero ottomano) e “Armenia orientale” (le terre
conquistate dai Russi, che oggi coincidono in linea di massima con il
territorio dell’attuale Repubblica d’Armenia).3
Fino al 1915, quindi, gli Armeni vivevano, più o meno pacificamente
e da tempo immemorabile, nella loro patria e occupavano grosso modo
l’area geografica situata fra l’Eufrate e il Caucaso, ovvero la parte
orientale dell’attuale Repubblica di Turchia, compresa la porzione di
territorio dell’attuale Repubblica d’Armenia. Per questa sua posizione
strategica, e per il fatto di essere l’ultima propaggine della cristianità
orientale in quell’area, tale zona è stata da sempre considerata come
una sorta di ponte verso l’Oriente.
Questa definizione, fatta propria con fierezza dal popolo armeno, ha
consentito agli Armeni di svolgere tale ruolo con grande impegno
nonostante la loro storia travagliata e dolorosa, punteggiata da
frequenti invasioni e razzie continue.
L’incessante viavai di genti ha reso però più ricche, variegate e
composite le consuetudini di questo grande popolo; e in particolare la
cucina tradizionale, proprio in virtù della sua naturale funzione di
“ponte”, ha ricevuto e senza alcun dubbio anche regalato molto alle
culture culinarie dei popoli occupanti.
D’altronde l’arte culinaria è un laboratorio in cui le innovazioni sono
sempre benvenute, a patto che esaltino il gusto delle pietanze cui si è
per cultura abituati. Senza contare che la vera cuoca sarà molto
orgogliosa di poter ripetere, con la stessa maestria e abilità, un piatto
assaporato in un paese diverso.
Quella che segue è una descrizione delle pietanze più diffuse nelle
case armene e, al tempo stesso, una raccolta di indicazioni e di consigli
su come si cucinano. Sono informazioni tratte dalla viva voce e
dall’esperienza diretta di tante persone che, nate in paesi diversi e
lontani, hanno mantenuto le proprie radici culinarie come meglio
potevano, aggiungendo o variando alcuni ingredienti a seconda della
loro reperibilità nei mercati dei paesi ospitanti. Sono qui infatti citate
alcune pietanze tipiche di altre culture che hanno ospitato gli esuli
scampati al genocidio; in particolare il riferimento è al Vicino Oriente,
territorio in cui molti armeni hanno trovato rifugio e calorosa
ospitalità.
Nella diaspora la tradizione si è paradossalmente conservata con
maggior forza: era necessario, per poter sopravvivere malgrado tutto,
conservare e tramandare il ricordo, rievocare i sapori e gli odori della
casa dell’infanzia, ripetere i gesti antichi delle nonne per mantenerli in
vita. Conservare e trattenere tutto ciò nella ripetizione dei gesti
quotidiani significava evocare amorevolmente un intero universo
famigliare e collettivo, al fine di non farlo svanire per sempre
dall’orizzonte della memoria.
Non mancano in questo libro riferimenti alla civiltà culinaria e alle
tradizioni presenti nell’odierna Repubblica d’Armenia, dove pure la
tradizione si è contaminata, evoluta e talvolta distorta col passare degli
anni. Nella diaspora, dunque, alcune pietanze vengono preparate tali e
quali in luoghi diversi e lontanissimi l’uno dall’altro, mentre nella
Repubblica d’Armenia la contaminazione è stata più incisiva, anche per
ragioni storico-economiche: il regime sovietico promuoveva fortemente
una dieta alimentare identica per tutti i paesi dell’Unione e l’Armenia
non è stata risparmiata. L’intensificazione del consumo del pane
prodotto con farine industriali a scapito del pane tradizionale, il largo
consumo di patate e l’ampia diffusione del cavolo sottaceto e dei
würstel hanno snaturato la cucina armena di tradizione, contribuendo
alla cancellazione di un elemento culturale importante e di remota
origine.
Ho voluto inoltre consegnare al lettore alcune narrazioni più antiche
e fornirgli le ricette di diverse pietanze derivanti dall’importante
influsso, nella diaspora, delle cucine dei paesi ospitanti, pietanze che
sono state tuttavia integralmente incorporate e fatte proprie dalle
famiglie, tanto da confondersi con l’autentica, originaria tradizione
armena.
Come per molte famiglie armene in esilio, anche nella nostra casa la
cucina era il luogo dove tutte le guerre e i risentimenti razziali avevano
fine; il luogo in cui le pietanze di popoli in eterna lotta tra loro
convivevano pacificamente. Su questo terreno ciascuno poteva dire la
sua e tutti erano ben felici di ascoltare: Armeni e Turchi, Palestinesi e
Israeliani, Russi e Arabi, chiunque era ben accetto alla soglia della
nostra cucina.
Mia nonna materna Nvart morì giovanissima lasciando tre figlie. Mia
madre Arshalùys aveva dunque imparato a cucinare fin da bambina e
la sua passione innata per la cucina aveva fatto il resto.
La nostra è una tipica famiglia di Armeni della diaspora. Da noi si
mantenevano per lo più intatti i piatti tradizionali armeni della città di
Urfa, da cui provengono le famiglie dei miei genitori. E si erano
parallelamente acquisiti i piatti della Libia, dove vivevamo, la cui
cucina tradizionale, assai saporita, si fondava su couscous, shakshùka
bazín, osbàn e haràymi: quest’ultimo, proveniente dalla tradizione
della comunità ebraica locale, era ormai entrato in pianta stabile nella
nostra cucina e in quelle della piccola comunità armena tripolina. La
numerosa comunità italiana, rimasta a vivere in Libia a seguito
dell’avventura coloniale, regalava ugualmente a noi tutti le lasagne, i
ravioli, gli spaghetti e tante altre leccornie. Inoltre, dato che mio padre
era impiegato nella base militare americana di Tripoli, avevamo
imparato a conoscere il gusto dei cakes, dei doughnuts e degli
hamburgers americani, comprese le patatine fritte complete di tutti i
necessari condimenti che mia madre preparava in casa per noi. Non ci
mancavano le insalate russe, i millefoglie o il tronchetto di castagne
che la gentildonna Nelly – nostra vicina di casa, una russa bianca
fuggita prima in Venezuela ed emigrata poi in Libia per ragioni di
lavoro – ci aveva insegnato. Mia madre, armena nata in Libia e
cresciuta a contatto con la comunità italiana, aveva imparato a tirare
la sfoglia e a fare dei gustosissimi gnocchi, mentre mio padre, armeno
nato in diaspora a Gerusalemme, portava in dote le magnifiche
tradizioni degli antipasti orientali: l’hommus, la crema di ceci, i ful, le
caratteristiche fave stufate, i falafel, le aromatiche polpette di ceci o
fave senza contare i meravigliosi atàif, e infine il mio piatto preferito, il
maqlube, a base di riso carne e verdure, una specie di sartù di riso
orientale.
Questa mescolanza deve far riflettere e far capire che per un popolo
costretto all’esodo, pur restando fermi alcuni capisaldi della tradizione,
far proprio qualcosa di non tradizionale significa “armenizzarlo” e
sentirsi comunque a casa. In questo modo i confini della memoria si
ampliano, fino a rendere (ovvero a considerare) armeno un cibo che
armeno non nasce.
Gli antipasti orientali di cui parlavo poc’anzi sono tipici dei paesi
Shami. Con questo termine gli arabi definiscono il medioriente, l’area
che comprende Giordania, Siria, Libano, e i territori palestinesi.
Mentre Iraq, Arabia Saudita ed Emirati sono una realtà diversa e fanno
parte della cosiddetta Jazira Arabia, cioè “l’isola araba”; qui queste
gustose preparazioni sono arrivate in seguito all’emigrazione degli
arabi mediorientali ma non sono ancora parte integrante della
tradizione locale. Lo stesso vale per i paesi arabi che si affacciano sul
Mediterraneo, cioè Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, definiti in arabo
Magreb al’Arabi e che si differenziano per la peculiare tradizione
culinaria: sono consumatori di couscous. Al di fuori dei paesi del
Maghreb il couscous sparisce dalle tavole. L’Egitto in tutto questo resta
un’isola a sé.
Naturalmente, da bambina di buon appetito, non pensavo all’origine
delle pietanze: mangiavo felice e la cosa finiva lì. Solo più tardi,
raggiunta l’età della ragione, ho iniziato a capire che quello che c’era
sulla nostra tavola era il risultato delle traversie storico-politiche che
la mia famiglia, in quanto armena, aveva dovuto subire: tra le altre
conseguenze, senza alcun dubbio, c’era un arricchimento del menù di
casa
Urfa, la città dei miei nonni, Gerusalemme, dove mio padre è nato,
Amman, dove la mia nonna paterna ha vissuto a lungo e che ho visitato
nel corso delle estati dell’infanzia, e Roma, il luogo dove da ragazza
sono arrivata: queste sono le città in cui ho girovagato, ora fisicamente
ora idealmente. Ma c’è un altro punto fermo, indelebile, nella mia vita:
il mio luogo di nascita, Suk-el-Giuma, un sobborgo di Tripoli, in Libia.
Esso prende il suo nome dal “mercato del venerdì”, un grande mercato
all’aperto destinato principalmente alla compravendita di cammelli.
Stampato su tutti i miei documenti, Suk-el-Giuma è sempre con me, mi
ha seguito ovunque, lungo tutte le frontiere e in tutti gli uffici,
suscitando molto spesso curiosità e necessità di lunghe spiegazioni.
Non ho mai assaggiato la carne di cammello: mi è sempre stata
descritta come coriacea e dolciastra; credo che se mai mi dovesse
capitare, per solidarietà non mi nutrirò delle sue carni: il cammello,
con la sua aria simpatica e con quel sorriso sempre stampato sulle
labbra, preferisco osservarlo da lontano.
Una pietanza che mia madre aveva imparato a cucinare durante le
lunghe permanenze presso la famiglia di suo marito, ad Amman e a
Gerusalemme, è il maalube come l’ho sempre chiamato; in verità si
dovrebbe pronunciare maqlube, ma quella “q” è un suono difficile e un
po’ evanescente, sicuramente ostico alle mie orecchie di bambina.
Molto più tardi avrei scoperto anche che “maqlube” non era solo un
nome, un dolce suono, con la sua “a” allungata, ma aveva un preciso
significato: voleva dire “rovesciata” o “rivoltata”, ovvero l’ultima
operazione necessaria prima di servire il piatto a tavola. Quindi il mio
piatto preferito apparteneva alla tradizione del popolo palestinese e
non alla tradizione culinaria armena. Le vicende di quel popolo non
erano troppo dissimili da quelle del nostro. Mio padre, armeno della
diaspora nato a Gerusalemme, non ha mai avuto una cittadinanza, era
ed è stato fino alla fine dei suoi giorni in possesso di un lasciapassare
dalla copertina verde chiaro su cui c’era scritta in inglese la seguente
dicitura: “Palestinian Refugee in Libya”, cioè profugo palestinese
rifugiato in Libia. Il maqlube è dunque il mio piatto paterno, un filo che
mi lega alla terra di Palestina indissolubilmente. L’atto del
“rovesciare”, inoltre, evoca le patrie rovesciate a forza e svuotate dei
suoi abitanti, ricorda il “rovesciare il mondo”, il “mondo alla rovescia”,
quella spinta vitale necessaria per combattere, opporre resistenza,
sopravvivere.
Per quanto riguarda l’Italia, la presenza degli armeni è di antica data,
ma le comunità vere e proprie si sono costituite in seguito alla
diaspora nel 1915. All’epoca dell’arrivo di questi nuclei famigliari non
esistevano mercati in cui reperire spezie e prodotti ortofrutticoli
provenienti dal resto del mondo. Oggi, con l’avanzare della
globalizzazione, i mercati sono ricchi di prodotti che arrivano da quasi
tutto il pianeta e per assurdo questa nuova realtà ci permette di
tornare agli autentici, antichi sapori presenti nelle cucine di un tempo.
La struttura famigliare era la base portante della società armena;
nel termine “ëndanìk”, ad esempio, è racchiuso tutto il calore
famigliare: esso indica la famiglia ristretta, cioè i genitori e i figli.
Meno in uso al giorno d’oggi è invece la parola “kerdastàn”, in cui oltre
ai genitori sono compresi i quattro nonni. Un vocabolo assai usato da
un popolo sradicato dalla propria terra è “ask”, che un tempo
comprendeva soprattutto il concetto di religione e di nazione. Col
passare del tempo, il significato ha subito una variazione e nel parlare
comune indica molte famiglie imparentate tra loro, un termine che
potremmo avvicinare alla parola italiana “stirpe”.
Si pensi agli armeni della diaspora, ai deportati che si erano
miracolosamente salvati dal genocidio, specie ai primi che vennero
proiettati in terre sconosciute, circondati da popolazioni non armene e
non cristiane, i cui usi e costumi erano diversi e che parlavano una
lingua che spesso loro non comprendevano. Venivano considerati degli
estranei. Giungevano in Siria, in Egitto, in Libano e non sapevano
l’arabo. Per questi rifugiati gli “altri” erano chiamati “ail ask”, cioè
“quegli altri, diversi da noi”. Così, con questa definizione adattata alla
condizione difficile e spesso pericolosa di rifugiato, ci si metteva al
riparo e si evitava di pronunciare l’indicazione geografica e la religione
dell’altro, contribuendo a proteggere le proprie sparute comunità di
profughi. Un altro termine interessante è “odàr”, che definisce più
precisamente lo “straniero”.
La famiglia e la solidarietà tra parenti, quella rete di relazioni
affettive e funzionali che si articolava nei piccoli paesi dell’Anatolia
insieme ai legami di affinità, ebbero un’immensa rilevanza e un ruolo
decisivo: dopo il genocidio, in molti casi gli orfani e le vedove furono
adottati e presi in carico dai nuclei dei sopravvissuti.
La famiglia tradizionale armena prevedeva il rispetto assoluto del
patriarca fondatore della famiglia, in genere il più anziano di tutti; era
lui a giudicare i comportamenti dei membri della comunità, mentre a
sua moglie spettava il compito di mantenere l’armonia all’interno della
casa dove convivevano più famiglie; la ripartizione delle mansioni e il
mantenimento del quieto vivere erano di sua competenza. Spesso era
lei l’unica a detenere le chiavi della dispensa comune, anche se tutti
contribuivano col loro lavoro a rifornirla di ogni bene.
Una figura importante era il padrino del battesimo. Secondo alcune
testimonianze non doveva essere un consanguineo e il suo ruolo era
ereditario: ciò indica che il legame tra le famiglie poteva perpetuarsi
nel tempo, generazione dopo generazione.4
Quando i legami sociali sono messi alla prova, i proverbi che
affermano i legami di consanguineità di solito prevalgono: “Il
sangue è più denso dell’acqua”; o, come dicono gli arabi, “Il
sangue è più denso del latte”. Queste massime così enigmatiche si
riferiscono a precedenti istituzioni di parentele adottive nel Vicino
Oriente, mettendo a confronto il sangue della parentela di nascita
con l’acqua del battesimo o “parentela spirituale,” come avviene
nel Cristianesimo, e l’allevamento infantile (dare a balia) o
“parentela di latte” nell’Islam. Altri detti ( ) suggeriscono che il
nutrimento di tale parentela adottiva può corrispondere o
prevalere sulla parentela di nascita, proprio come per il padrino
battesimale che si credeva creasse una cognizione spirituale
superiore a quella della mera appartenenza di carne e sangue.5
I miei baci: ecco il titolo di una poesia tratta da un libro armeno di
prima elementare del 1920. Si vede qui come il fratello maggiore fosse
indicato quale futuro capofamiglia da amare e rispettare. Era lui il
responsabile del domani della famiglia e con la sua sposa avrebbe
dovuto farsi carico dei beni famigliari assistendo, vigilando e
consigliando i suoi fratelli, nel segno della preservazione della stirpe.
Yerèk hampiùr unìm dalìk
anùsh, hamòv yerèk bacìg,
en khoshòrn e im mètz yekhpòr,
en ujòv im parì hòr,
pàitz en yergàrn, kidèk, orì?
An mayrigìn g’vigjiagnì.6
(Ho tre baci da dare
tre dolci e deliziosi baci:
quello grande a mio fratello maggiore
quello forte al mio caro padre
ma quello più lungo sapete a chi?
Quello appartiene alla mamma.)
Una cultura del grano e del riso
Considerando la posizione geografica dell’Armenia, è facile
comprendere come la sua cucina abbia subito influssi sia da oriente
che da occidente. L’avvicendarsi delle dominazioni persiana e
bizantina, due culture di grande ricchezza, ha indubbiamente
impreziosito anche l’arte culinaria autoctona. Grano e riso vi regnano
sovrani.
Attraverseremo dunque la cucina armena in un viaggio ideale tra
profumi di aglio e cipolla che soffriggono, di carni arrostite, tra i
rumori delle stoviglie. Il mio pensiero va al suono del mortaio di casa
quando ancora l’uso del mixer non era diffusissimo e mia madre
doveva preparare delle pietanze speciali: nessun altro strumento come
il mortaio di legno col suo pestello può schiacciare a dovere l’aglio
riducendolo in poltiglia. Da bambina era quello il mio compito in
cucina e mi piaceva tanto guardare gli spicchi d’aglio che via via si
frantumavano; poi, dietro suggerimento di mia madre, aggiungevo un
po’ di sale, e ancora pestavo e schiacciavo, schiacciavo e pestavo
Gar u cigàr, “c’era e non c’era”: così iniziano le fiabe armene, ma nel
caso della cucina possiamo dire che c’era e c’è ancora la cucina di
tradizione, sebbene a causa del genocidio e della conseguente diaspora
quell’Armenia non ci sia più. Sappiamo che non ci sono più quegli
ingredienti, quelle mele, quegli ortaggi, quell’acqua, quel grano. Non
ci sono più neanche quegli abitanti che coltivavano quelle terre
Ero un albero:
ero un albero di cotogno
germogliato da un macigno;
son venuti a sradicarmi
e m’hanno trapiantato in un orto straniero,
con acqua inzuccherata
m’hanno innaffiato.
Fratelli, venite a riportarmi alla mia terra,
innaffiatemi con l’acqua delle nevi.7
Non è possibile dunque parlare di cucina armena al singolare, ma
dobbiamo necessariamente riferirci ad almeno due cucine armene: una
più strettamente connessa alla tradizione dell’Armenia storica e l’altra
più diffusa nell’Armenia Orientale. Un pensiero va anche alle comunità
armene che per via di antiche vicende storiche hanno avuto come
patria le terre dell’antica Persia: questo viaggio però ci porterebbe in
luoghi affascinanti ma molto, troppo lontani.
In realtà, a ben vedere, le cucine armene sono tante quante sono le
famiglie e le cuoche armene e questo naturalmente non vale solo per
gli armeni. Anche in Italia si cucina a seconda della propria tradizione
famigliare e, al di là delle spiccatissime differenze regionali, ci sono
tante cucine quante cuoche. Ecco il punto cruciale su cui vale la pena
insistere: parlare di cucina è parlare anche di tradizioni, di tanti gesti,
di tanti fatti che si concretizzano mentre si prepara una pietanza. Tutte
queste azioni messe insieme formano la tradizione, alimentare e non
solo, di un popolo. In nessun luogo come in cucina si realizzano quelle
sovrapposizioni e quegli scambi culturali che danno vita al moderno
melting pot (un’espressione che abbiamo ormai accolto e che non a
caso contiene la parola pot, “pentola”, per significare mescolanza di
cose eterogenee in un unico contenitore).
Ma queste cucine armene, quelle degli Armeni della parte orientale
e quelle della zona occidentale, usano gli stessi ingredienti? Direi che
la risposta è molto semplice: a volte sì, a volte no.
Ricordiamo che gli Armeni, per tradizione, erano abili commercianti
e dunque grandi viaggiatori, e che da sempre hanno avuto l’abitudine
al confronto e allo scambio. Certamente queste pietanze dovevano da
un lato nutrire e dall’altro essere saporite, e – come spesso accade per
le cucine di antica tradizione, in cui la sapienza combinatoria e la
conoscenza degli ingredienti non sono casuali – contenevano anche
una serie di elementi (spezie, erbe, semi) i cui vari principi agivano
anche come medicinali, ora digestivi, ora stimolanti, ora energizzanti.
La lavorazione e la trasformazione dei cibi sono stati per tradizione
un affare di quasi esclusiva competenza delle donne, che hanno
tramandato la loro sapienza alle generazioni successive: i gesti
quotidiani, i canti di lavoro, le narrazioni epiche, i metodi di
conservazione e di preparazione, l’amore, il rispetto e la dedizione ai
propri cari fanno parte di quegli elementi che hanno reso possibile la
conservazione della nostra memoria. Naturalmente gli Armeni non
erano un popolo isolato dal resto del mondo: la loro cucina rientra
senza dubbio in quella grande famiglia orientale dove i profumi e i
colori hanno prevalentemente lo stesso timbro, seppur con alcune
sfumature a volte più incisive e caratterizzanti. Bisogna infatti
ricordare che gli Armeni – popolo di antica tradizione cristiana – hanno
da sempre vissuto circondati da genti di religione musulmana per le
quali il divieto di consumare la carne di maiale ha influito non poco
sulla tradizione culinaria.
Il sapere contadino è un sapere frenato, non accelerato. La sua
circolarità, la sostanziale omogeneità delle sue esperienze sono
tutte riconducibili allo spazio del vissuto e del praticato (dai figli e
dagli antenati) nella casa e nel campo. La sua stessa trasmissione
è domestica, genealogica. Esso costruisce un modello culturale
ripetitivo, seriale, stereotipato, trasmettitore di paradigmi di
lunga durata tendenti a riprodursi e a prolungarsi
indefinitamente.8
Come per gran parte delle popolazioni orientali, anche per gli Armeni i
pasti sono prevalentemente composti da piatti unici: carne, riso e
verdure costituiscono il pasto e si mangiano nello stesso piatto. La
consuetudine di consumare il primo e poi il secondo è essenzialmente
un’usanza d’importazione. La cottura degli alimenti, come in molte
altre culture alimentari, avviene in genere con un piccolo soffritto
iniziale a cui viene aggiunto del liquido, anche semplicemente
dell’acqua o del brodo, e la conseguente fase della stufatura. Parecchie
sono anche le pietanze che si cucinano al forno, magari dopo una
prima e parziale cottura in pentola sul fuoco.
I nomi delle pietanze seguono la storia del popolo armeno e ahimè
dei suoi elastici confini: alcuni sono di origine esclusivamente armena,
altri derivano perlopiù dalla lingua turca o dall’arabo.
Il dolmà del digiuno, il basùtz dolmà, un involtino di foglie di vite, è
composto dal vocabolo armeno bas (“digiuno”) e dolmà, che in turco
significa “riempito”.
Questo piatto è anche detto sud dolmà, da “sud” che in armeno
significa “finto”, a indicare la mancanza di carne. Naturalmente nella
lingua armena non manca il verbo “riempire”, ma per tradizione quella
pietanza ha mantenuto questo nome ibrido.
Molti altri nomi derivano da espressioni turche, come ghaburghà,
spalla di agnello ripiena al forno, bughlamà, agnello bollito, börèg,
tortelli di pasta ripieni, yahnì yuvallàh, brodo con palline di grano e
carne, iskembèh, zuppa di trippa, solo per citarne alcuni.
Con il termine arabo shorbà9 si indica la minestra; per cui il vospòv
shorbà è una minestra di lenticchie, da vosp, “lenticchie” appunto. In
armeno il termine esatto per indicare la minestra è abùr, che viene
impiegato alternativamente a shorbà a seconda della regione di
provenienza delle famiglie.
Un altro esempio che dà conto di questa mescolanza è il nome sinì
köftè che indica le polpette al forno, da sinì, “teglia” o “vassoio” in
turco, e dall’arabo kuftà,10 “polpetta”, che diventa per noi köftè. Non è
però così semplice uscire da questo groviglio linguistico in quanto sia il
termine sinì che kuftà vengono comunemente impiegati sia nella lingua
araba che in quella turca; queste sovrapposizioni lessicali sono dovute
alla contiguità, alla coabitazione tra popoli diversi: non scordiamo che
le terre in cui gli Armeni vivevano erano divenute parte integrante
dell’Impero Ottomano. Anche quando gli Armeni si rifugiarono, in
seguito al genocidio, in zone limitrofe – in Libano, in Siria, in Palestina
– si trovarono a vivere, con l’eccezione della Persia, in paesi nei quali
per circa cinque secoli aveva dominato la Sublime Porta.
In un recente studio è stato scoperto che alcuni beduini della
Giordania, pur non parlando la lingua armena, si presentano e si
definiscono come arman. Hanno un chiaro ricordo delle uova colorate
della Pasqua e sono a conoscenza delle vicende orribili di una terra
lontana che le madri raccontavano loro, e dichiarano orgogliosi di
essere discendenti diretti di eccezionali donne armene.11
Districandosi tra i vari nomi delle pietanze e pensando alla loro
possibile origine, il pensiero non può non andare all’imàm bayëldì, una
delizia a base di melanzane onnipresente nelle case degli Armeni della
diaspora, il cui nome tradotto letteralmente significa “l’imàm è
svenuto”: nome assai curioso per una pietanza, anche per il fatto che vi
compare una figura religiosa islamica, l’imàm appunto. Come si
spiega? Sono essenzialmente due le interpretazioni circa l’origine del
bizzarro nome di questo piatto, entrambe popolari in Oriente: una
suggerisce che l’imàm, dopo aver assaggiato, svenne per la bontà della
pietanza; l’altra sostiene che il sant’uomo svenne non appena seppe il
prezzo degli ingredienti e la quantità di olio impiegato.
Pur se conosciuto, apprezzato e preparato dalle comunità della
diaspora armena, non sapremo probabilmente mai quale sia la vera
origine dell’imàm bayëldì, né se è veramente un piatto di origine turca
come il nome farebbe pensare, dato che i cultori della cucina greca
sostengono, a loro volta, che quell’imàm che svenne viveva in Grecia
Con il termine armeno ghapamà (“zucca”) si indica un piatto
tradizionale molto celebrato. Si tratta di una grande zucca ripiena di
riso, frutta secca e aromi. La zucca così farcita viene sottoposta a
lunga cottura in forno e servita in speciali occasioni di festa. Per
esempio, nella Repubblica d’Armenia si offre il giorno dopo le nozze: la
madre della sposa, davanti a tutti gli ospiti, taglia e serve il ghapamà
agli sposi augurando che il loro futuro sia dolce come il gusto
dolciastro della pietanza.12 A questo piatto, notissimo a tutti gli armeni,
corrisponde un altrettanto celebre canto popolare; si tratta di una
curiosa ode dedicata alla pietanza, che inizia pian piano lodando la
zucca: hey djan ghapamà, hamòv hodòv ghapamà, “cara zucca,
saporita e profumata”. Poi si descrivono tutte le qualità del piatto, la
sua preparazione, e infine si racconta come, attratti dal profumo che
emana dal forno, arrivino in una frenetica corsa, cucchiaio alla mano,
tutti i parenti prossimi e non, ad accaparrarsene almeno una porzione.
Molte preparazioni culinarie secondo alcuni sono da considerarsi di
origine indubitabilmente armena: è però assai difficile stabilire una
verità assoluta in questa materia senza scontrarsi con le vicende
storiche. Ancora oggi si discute sull’origine degli spaghetti: sono stati
inventati in Cina o è stato Marco Polo ad averli introdotti in quel
lontano paese? A parte i primati, capire il corso della storia è utile e
serve a comprendere meglio il perché a volte una pietanza non sia
diffusa sul territorio in modo uniforme. Si pensi ad esempio che mentre
nella parte occidentale l’imàm bayëldì è una pietanza molto nota, nella
parte orientale è pressoché sconosciuta, e ciò è dovuto anche al fatto
che l’influsso della cucina ottomana e l’adozione di questo piatto nella
tradizione armena non raggiunge la parte più a est, al contrario del
ghapamà che invece è presente in entrambe le aree.
Anche nella cucina armena alcune antiche preparazioni tradizionali –
come in Italia la polenta cotta sul fuoco del camino, la cui memoria si è
conservata – restano vive pur avendo perduto la giusta collocazione
spazio-temporale. Mio nonno cucinava ancora in Libia quello che un
tempo era il pasto del cacciatore o del pastore, una pietanza di nome
khash (letteralmente “bollito”).13 Faceva bollire le zampe di vitello
tagliate in tre parti in abbondante acqua fino alla fuoriuscita del
midollo. Le mie zie ricordano quanto amassero da piccole rosicchiare
quegli ossi stracotti per gustare il midollo che ne usciva ancora
fumante; infine, nel brodo che ne risultava, prima di consumarlo si
metteva dell’aglio pestato e del succo di limone.14
Tutte le antiche tradizioni che si mantengono vive in ambito rurale a
patto che restino invariate le condizioni di vita, subiscono delle
variazioni in concomitanza con la nascita delle città e la conseguente
urbanizzazione. Ecco allora che da una cucina tipicamente rurale si
passa a quella cittadina. Anche la tradizione culinaria armena è
cambiata; il pane non si cuoce più nel forno di casa, ma si porta a
cuocere nel forno del rione, e in seguito si compra direttamente nei
forni industriali della città, cancellando così anche i residui dell’arte
della panificazione casalinga.
Lo yogurt che un tempo veniva preparato esclusivamente in casa,
col latte dell’animale appena munto, inizia a essere prodotto dal lattaio
o da mastri yogurtieri.
I meravigliosi millefoglie, i tradizionali pakhlavà le cui sfoglie un
tempo erano fatte in casa dalle donne, oggi si possono trovare e
acquistare nei negozi specializzati: ed è una fortuna che sia così, visto
che questi dolci necessitano di una preparazione poco compatibile con
i tempi e i ritmi di una donna di città.
Anche altri ingredienti di base come il bulghùr e le foglie di vite si
trovano oggi in vendita in comode confezioni, pronti per l’uso: sarebbe
oltremodo difficile, se non impossibile, avventurarsi nella preparazione
del bulghùr, che oggi si trova in commercio già mondato e molato in
varie misure; e le foglie di vite, che un tempo venivano raccolte dalla
vigna casalinga e conservate accuratamente in acqua e sale per fare il
sarmà, in città sono sostituite da foglie di varia provenienza e vendute
in barattoli già pronti che possiamo acquistare conservate sotto sale:
basta scottarle in acqua bollente o sciacquarle con acqua prima
dell’uso.
Tutte queste conquiste della modernità lasciano comunque intatti i
fondamenti della preparazione dei pasti. Le spezie, che non sono
certamente usate a caso, mantengono ancora il ruolo e il sapore del
passato. Ed è indubitabile che nella cucina armena, così come in altre
cucine, la tradizione assolve ancora ad alcune funzioni dietetiche
importanti: si pensi alle proprietà digestive e lenitive della menta, del
peperoncino e di altre erbe aromatiche usate in abbondanza sia cotte
che crude, o alla funzione antibatterica e antispastica della cannella, in
armeno darčìn.
Col passare del tempo le materie grasse impiegate nella cottura e
nel condimento dei cibi, probabile retaggio di una vita nomade in cui
una certa consistente razione di grassi nell’alimentazione era
necessaria, subiscono delle notevoli variazioni e per diversi motivi
vengono sostituite con elementi più facilmente reperibili e forse anche
più digeribili. Il burro, la margarina e l’olio d’oliva e di semi prendono
il posto dello strutto e del grasso di pecora: e nelle ricette di questo
libro si troveranno più diffusamente citati tra gli ingredienti.
La pesca e la caccia
Sebbene l’Armenia sia ricca di corsi d’acqua e di laghetti (citati spesso
anche nelle fiabe popolari, che mettono in scena pescatori, pesci e
rane parlanti), la cucina di tradizione non contiene grandi specialità
ittiche: fa eccezione l’ishkhàn tzug, la trota salmonata, presente nel
lago di Seva15 e considerata una vera prelibatezza da offrire con
fierezza e orgoglio all’ospite d’onore. Questo pesce però deve ora
competere con le carpe che a partire dagli anni Ottanta sono state
introdotte nel lago.
Altre varietà di pesci, tra cui lucci e altre specie di trote, popolano
principalmente i fiumi della giovane Repubblica: il più diffuso è il
cosiddetto garmrakhàit (letteralmente “picchiettato di rosso”), ovvero
la trota Fairo la cui livrea rosso mattone varia fino a raggiungere
sfumature argentate, e che prospera nei gelidi torrenti d’alta
montagna.
La cucina delle classi nobiliari, specie nel medioevo armeno, era
sontuosa e doveva anche ostentare opulenza. Da un resoconto
dell’epoca sappiamo che nei banchetti dei nobili la terza portata era a
base di pesce. La pesca non era molto amata dai signori, in quanto
considerata un’attività per gente indolente, e il suo compito era
lasciato ai contadini.
Era usanza che fossero i bimbi dei contadini a portare le ceste piene
di pesce ai signori, i quali andavano loro incontro per ricambiare con
della cacciagione.
Ma se la pesca era reputata un’attività poco virile e poco divertente,
il pesce era molto amato dagli aristocratici armeni, tanto che come
narra lo storico Fausto di Bisanzio, il re Arshag aveva ordinato la
creazione di una sorta di vivaio-acquario chiamato tzgnadesànk,16
affinché la sua tavola non fosse mai priva del prelibato prodotto.
Il pesce, fin dalle più antiche testimonianze, veniva arrostito e cotto
allo spiedo sulla brace, o lessato in acqua, o fritto in padella con l’olio.
La quarta portata dei banchetti era costituita da uova di uccelli
selvatici e da uccelli ancora implumi che i figli dei pescatori
raccoglievano durante i loro giochi, aggirandosi tra le isolette
disabitate del fiume Arasse o Aras (Arax o Yerashk in armeno) mentre i
padri erano impegnati nella pesca. In aggiunta, si consumava anche
una ricca serie di latticini e formaggi, alcuni dei quali stagionavano nei
canestri della dispensa.
Anche la cacciagione non sembra avere particolare rilievo nella cucina
di tradizione. Non ho trovato ricette specifiche in cui sia presente, per
esempio, la carne di cinghiale, di lepre o di altri animali selvatici, ma
non posso escludere che questo o altro tipo di selvaggina potesse
essere impiegata per l’alimentazione in alcune zone rurali. Bisogna
tenere presente, inoltre, i divieti imposti dalla religione – poi divenuti
consuetudine – che hanno indirizzato il consumo su alcuni cibi
piuttosto che su altri. Queste imposizioni vengono però a decadere in
caso di necessità e di forza maggiore: nessun essere umano, infatti,
rifiuterebbe di mangiare carne di animali non comuni o “proibiti” in
casi di grave carestia. La discriminazione dei cibi è più o meno
presente in diverse culture. Da un conoscente della comunità armeno-
iraniana vengo a sapere che in quel contesto si usava andare a caccia
di cinghiale, le cui carni tuttavia venivano poi consumate
esclusivamente dagli armeni. Come avviene per i pescatori, anche in
questo caso la cultura tradizionale tiene in grande considerazione la
figura del cacciatore e dell’animale selvatico, il genius loci abitante dei
boschi e delle foreste: ne sono testimonianza le innumerevoli fiabe di
tradizione che narrano di incontri tra abili cacciatori e fiere parlanti.
Nei banchetti dei nobili e nelle corti medievali la tavola era riccamente
imbandita. Anche i fiori facevano la loro comparsa: rose e gigli, tralci
di gelsomini, papaveri e tuberose ornavano le tavole. Le portate
potevano arrivare fino a sette. Si iniziava, come voleva la tradizione,
con una minestra, che fin dalle più antiche testimonianze è chiamata
tan (solo più tardi, nel medioevo, verrà chiamata anche abùr). Essa
consisteva in un brodo di legumi o di carne e serviva a stuzzicare
l’appetito: akhorjàg badrastelù, in lingua armena. Seguivano quindi i
cibi più solidi: dapprima la carne, preferibilmente di animali selvatici
come il capriolo, il cervo, il cinghiale e l’onagro. Il pasto proseguiva
con altre portate, dove facevano la loro comparsa i pesci prelibati e i
volatili come la pernice, il francolino, il pellicano, l’oca e polli ruspanti
dalle carni saporite.
Sebbene in tempi più recenti nella Repubblica d’Armenia il maiale
sia d’uso comune – tanto che nel ripieno per il dolmà si unisce anche
una metà di carne di maiale – nella comunità della diaspora l’uso di
questa carne nella preparazione di pietanze tradizionali è assente.
L’uso del maiale si deve probabilmente all’influenza della
sovietizzazione della cultura alimentare originaria: gli Armeni infatti
hanno sempre abitato zone a forte presenza musulmana in cui
l’allevamento e la commercializzazione dei suini era assolutamente
vietata.
Ecco la testimonianza di un viaggiatore nell’Armenia del 1887.
Siamo nella pianura dell’Eufrate, in una cittadina chiamata Gop:
“Uno de’ principali Armeni di Gop assisteva al mio pasto: vedendomi
mangiare di gusto delle sardine all’olio mi chiese di assaggiarne una,
pareva che la gradisse moltissimo. Ma quando il mio dragomanno gli
disse che l’olio era grasso di porco, il disgraziato armeno manifestò
viva ripugnanza, e uscì immediatamente”.19
Non si può concludere questo rapido percorso senza citare un altro
elemento interessante: il madzùn, cioè lo yogurt. Le minestre a base di
yogurt sono per gli Armeni una prelibatezza. Anche in questo caso la
materia prima è molto importante: in Italia oggi si trovano ottimi
yogurt provenienti dalla Grecia e in alcuni grandi supermercati quelli
confezionati in Germania, che ricordano molto da vicino gli yogurt fatti
in casa.
Flan fstkh: con questo termine si indica, nel parlare popolare, un
insieme omogeneo di cose varie: equivale all’italiano “eccetera”. Ma in
questo composto si ritrova la parola “pistacchio”, fstkh, dall’arabo
fustuq, che indica quel meraviglioso miscuglio di semi salati di
anguria, di zucca e di girasole, composto anche di pistacchi, mandorle,
nocciole e noccioline. Questa mescolanza è chiamata in armeno
semplicemente gud cioè “semi”, che – tostati e salati – sono
onnipresenti nelle case dei paesi orientali. Non si tratta di un
antipasto, ma piuttosto di un lontanissimo parente di ciò che
accompagna i nostri aperitivi e che è possibile sgranocchiare a tutte le
ore del giorno, specie nei lunghi pomeriggi estivi.
Lo storico Fausto di Bisanzio (460 c.a.) ci racconta che l’aghantèr
era un cibo che non poteva mancare nella dieta dei soldati e che era
conservato nei depositi delle armi al seguito degli eserciti. Fausto
definisce l’aghantèr come “cibo secco”: “Servirono, quando era giunta
l’ora, al sovrano Arshag frutta, mele, cetrioli e amìdj20 e insieme a essi
un coltello”.21
Secondo le testimonianze di altri storici, sembra che ci fosse
addirittura un momento prestabilito durante la giornata in cui
consumare l’aghantèr. Questo termine, che sa di antico, ha assunto col
tempo una pluralità di significati. Per alcuni armeni definisce
l’aperitivo o l’antipasto, per altri è quello che si consuma al pomeriggio
insieme o subito dopo il caffè o ciò che si serve dopo cena e che
accompagna le ultime chiacchiere e i resoconti della giornata. Si può
così comprendere lo spirito conviviale di una società in cui il tempo
non ha lo stesso valore che ha in occidente: sorseggiare il caffè
tranquillamente seduti dopo i pasti, e seguitare ad assaporare ancora
una serie di leccornie dolci e salate continuando a conversare del più e
del meno, significa considerare il tempo come prezioso spazio da
condividere con gli altri.
In alcune regioni armene aghantèr indica il miscuglio di frutta
secca: mele cotogne, albicocche, pere, more di gelso, che insieme a
pistacchi, semi di zucca salati, mandorle tostate, uvetta uniti e a piccoli
dolcetti nutrienti, le nonne e le mamme preparavano e portavano con
loro nelle odà22 le sere d’inverno e che tutti insieme, ascoltando i
racconti delle nonne, gustavano.
Questa usanza era così diffusa che nelle fiabe tradizionali una delle
strofette conclusive recita:
Le nostre mani, le nostre mani, la fiaba voleva degli aghantèr
e la padrona di casa risponde:
Dalle mie parti ha soffiato il vento e quella usanza è terminata.23
Parte prima
La cucina armena: i principali alimenti, i piatti
tipici, la ritualità
Non quel che mangi, ma quel che non mangi fa bene alla tua
salute, l’una e l’altra.
Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo
I digiuni rituali
Il calendario religioso armeno prevedeva digiuni o astinenze dal cibo,
rituali dettati da precise regole che la stragrande maggioranza del
popolo, oltre a mangiare bene e a fare kef,24 ha sempre rispettato e
seguito scrupolosamente.
In un anno si contavano circa centosessanta giorni di astinenza
suddivisi in periodi, che andavano da un giorno, una settimana, ai
quaranta giorni della Quaresima, definita anche con il termine
popolare aghuhàtz, cioè letteralmente “pane e sale”.
Naturalmente negli anni queste regole si sono via via modificate:
lentamente ma inesorabilmente ci si è adeguati a un diverso stile di
vita e l’astensione dal cibo si è man mano ridotta.
Nella lingua armena, due sono le parole che definiscono la tipologia
del digiuno: con dzom si indica il digiuno vero e proprio, mentre con
bahk si indica l’astinenza da alcuni cibi che non avevano tutti il
medesimo valore e che, secondo l’importanza del giorno di astinenza o
digiuno, subivano più o meno restrizioni.
In genere ci si asteneva dal consumare la carne e tutti i prodotti che
contenevano proteine animali e si privilegiava l’uso del miele e di tutti
i frutti della terra. Mi ha sempre affascinato questo aspetto: si viene
ritualmente invitati a consumare ciò che la terra dona, quello che
spunta, i germogli, i frutti, le foglie e le radici commestibili. Nutrirsi
della terra a partire da quello che si vede, le fronde delle piante, i
frutti, fino a ciò che è nascosto nel suo ventre, i tuberi e altro.
Sebbene molte di queste pratiche siano ormai assai poco in uso, la
tradizione mantiene l’osservanza dell’astinenza da alcuni cibi almeno
la sera prima di alcune importanti festività, come la Pasqua e il Natale.
L’astinenza dal cibo, oltre a purificare il corpo, serve a mondare
l’anima; questa fase di attenzione a ciò che si mangia è un invito alla
sospensione della routine e induce al raccoglimento, alla meditazione e
alla preghiera.
Krikòr Tadevatzì – teologo del monastero di Tatèv, morto nel 1409 –
divide i digiuni in tre categorie: bahk, astensione dal consumare la
carne e incremento nell’uso della frutta e della verdura; srpabàhk,
astinenza alimentare del periodo quaresimale, quando si evitavano,
oltre alla carne, anche i fluidi provenienti dalle piante con fusto,
ovvero vino, olio d’oliva ecc.; dzomabàhk, cioè il digiuno vero e
proprio, che consisteva semplicemente nell’astenersi dal grano e
dall’acqua e, come dice la nostra fonte, mashelòv sovòv yev dzaravòv,
cioè “consumarsi nella fame e nella sete”.25
A volte il popolo faceva dei bahk per mondare i peccati del re.26
L’astinenza dal cibo come purificazione dell’anima era così diffusa e
presente nella vita religiosa che il sacerdote Vartàn Vartabèd,
responsabile del monastero di Surp Garabèd, uno dei centri della
cristianità armena e meta di pellegrinaggio, imponeva che prima delle
nozze l’intera famiglia dello sposo e della sposa facessero bahk per una
settimana; altrimenti “gorusìn zbsaghn”,“ il matrimonio è annullato”
diceva.27
L’astinenza quaresimale per la chiesa armena inizia il lunedì
successivo al pun Paregentàn, il carnevale, che cade di domenica, e
non il mercoledì delle Ceneri come si usa nella chiesa cattolica, e dura
fino alla sera del venerdì che precede la domenica delle Palme.
La Quaresima, Medz bahk, è spesso chiamata dal volgo Medz bas ed
è sempre coincisa con l’astinenza alimentare più solennemente seguita
dalla popolazione; essa è interrotta dal cosiddetto mičìnk, il
“ventiquattresimo giorno” dall’inizio dell’astinenza dal cibo. In questa
occasione viene cotto un pane non lievitato, il paghàrč, altrimenti detto
gatà, al cui interno si inserisce un segno – una moneta, un fagiolo: chi
lo trova avrà buona fortuna.
Oltre al venerdì e al mercoledì, i fedeli si astenevano da alcuni cibi
alla vigilia di importanti ricorrenze religiose (Natale, Trasfigurazione,
Ascensione, ecc.) e in occasione dei giorni consacrati ad alcuni santi
particolarmente importanti.
In particolare, il giorno dell’Esaltazione della Croce, in armeno
Khačveràtz, è una ricorrenza religiosa molto antica e molto sentita dal
popolo. La posizione nel calendario di questa giornata dedicata alla
glorificazione della Croce (all’inizio della stagione autunnale, insieme
all’obbligo religioso dell’astinenza alimentare) coincideva con l’avvio
del nuovo ciclo invernale.
Il tonìr, l’ojàkh
Dùnë nersèn g’shinvì: la casa si costruisce da dentro
(detto armeno)
Le parole hanno un’anima? Si direbbe di sì. E per un popolo sempre
minacciato dalle invasioni straniere il termine “focolare” è senz’altro
uno dei più cari. Non a caso la lingua armena ha ben due vocaboli per
indicare il luogo che serba il fuoco: tonìr e ojàkh. Il tonìr conserva il
significato di “luogo dove si cuoce”, mentre l’ojàkh è più legato alla
casa paterna.
Tonìr è una parola di derivazione sanscrita, una delle più nobili e
antiche lingue di quella famiglia indoeuropea da cui trae le sue origini
anche l’idioma armeno. L’assonanza con il termine tandoori della
lingua hindi è immediata e ci ricorda il pollo cucinato nel forno dei
ristoranti indiani. Dalla stessa radice sanscrita deriva anche la parola
athanor, il forno degli arabi, un termine che ci trasporta nella fornace
del laboratorio alchemico.28
Se entriamo in una antica, solida casa armena in pietra e ci
guardiamo intorno cercando un camino, un forno classico, un fornello,
non troveremo nulla di tutto ciò: è per terra che bisogna cercare. Nella
terra scavata la casa trova le sue fondamenta e nel ventre della terra si
accende e arde il fuoco della casa del padre.
Il tonìr, quindi, è un forno interrato, scavato nel suolo e posto in
genere al centro della stanza principale. Un tempo la casa sorgeva
attorno al fuoco, e quelle che noi oggi chiamiamo stanze erano locali
che per comodità si andavano via via aggiungendo intorno al centro in
cui il fuoco ardeva. Il fuoco raccoglieva tutti intorno a sé, d’inverno la
grande famiglia si radunava e dopo aver steso i materassi si riposava al
tepore che emanava dalla brace rovente.
La costruzione di un tonìr non è cosa semplice: non si tratta soltanto
di scavare un buco e cucinarvi dentro. Probabilmente questa tecnica di
cottura ha subito nel corso del tempo molti cambiamenti e si è adattata
e raffinata seguendo i bisogni e le esigenze della comunità. Nella
cavità (del diametro di circa mezzo metro, profonda circa un metro)
vengono calati una serie di anelli di terracotta, posti uno sopra l’altro.
Poi si sistema la canna fumaria, organizzando un sistema di aerazione
per regolare le fiamme. Il fuoco viene acceso in fondo alla cavità ed è
attizzato a seconda delle necessità.
Shpàdzk: così si definiva il mal di testa provocato dal calore
eccessivo del tonìr.
Non si può pensare al fuoco domestico delle case armene ignorando il
termine ojàkh, che tuttavia nei dizionari etimologici armeni non
compare, in quanto prestito turco. Ha molte sfumature: è
principalmente sinonimo di focolare domestico, ma ricorda anche la
casa paterna, il calore dell’infanzia, il pane di casa, la lanterna nelle
notti fredde: insomma, è una parola carica di una nostalgia profonda.
Inoltre l’ojàkh indica il nucleo famigliare e racchiude e comprende
tutta la famiglia, partendo dal più antico fondatore della stirpe. Tanto
che, per conoscere il numero dei nuclei famigliari di un paese o di un
villaggio, si contavano i camini degli ojàkh. Un tempo i censimenti
nello stato russo si facevano contando il numero dei fumaioli e a
seconda degli abitanti si imponeva un dazio al villaggio. Cosa accadeva
quindi nei villaggi armeni? Per pagare di meno, la popolazione toglieva
i fumaioli dai tetti.29
“Fuoco” in armeno classico si dice hur, bellissima parola che ricorre di
frequente nelle fiabe. Uno dei protagonisti per eccellenza è infatti il
cavallo di fuoco, che è potente come solo il fuoco sa essere.30 Il fuoco
addomesticato e portato nel cuore della vita quotidiana rappresenta
quindi per gli armeni il centro della casa e della famiglia.
Quando gli Armeni non erano ancora cristiani, la divinità più
importante del loro pantheon era Mihr, simbolo del fuoco universale, e
la forza di questo elemento era così importante per le comunità che
fino a epoche recenti ha continuato a mantenere un carattere sacro.
Nelle regioni più isolate e lontane dalle chiese, oltre a dispensare
calore e fiamme per cuocere i cibi, il tonìr ha conservato la funzione di
testimone sacro nei giuramenti e nei matrimoni: Sanasàr e Baltasàr, i
due eroi dell’epopea armena David di Sassùn, nati in prigionia insieme
alla madre Dzovinàr e impossibilitati a uscire dal luogo della loro
detenzione, vengono battezzati proprio sul fuoco del tonìr.31
Da un resoconto etnografico dei primi del Novecento si comprende
quanto fosse ancora vivo il rispetto del fuoco e del tonìr:32 quando un
figlio si sposava, prendeva dal tonìr della casa paterna un pugno di
brace e lo poggiava nel fondo del suo nuovo tonìr per significare la
continuità della stirpe.
A volte persino le unioni matrimoniali tra vedovi avvenivano solo
presso il tonìr, mentre in alcune zone rurali gli sposi tornati a casa dal
matrimonio celebrato in chiesa venivano esortati comunque in segno di
buon auspicio a girare intorno a esso.33
In sostanza, il luogo del passaggio dal crudo al cotto non poteva che
essere carico di rispetto e significato sacro. La fiamma era dunque al
centro dell’abitazione armena, una casa costruita con la pietra estratta
dalle montagne circostanti, luoghi tanto venerati dal popolo armeno e
testimoniati dal grande regista e documentarista Artavazd Peleshian
nel film Noi siamo le nostre montagne in cui ritrae amorevolmente lo
spirito della tradizione armena più profonda.
La casa di pietra è il rifugio al cui centro sta appunto la cavità
“femmina”, il tonìr, entro cui s’accende il fuoco “maschio”. Ecco che il
primo nucleo prende forma nella casa: ancor prima degli uomini che la
abiteranno vi sono custoditi i due elementi-chiave della vita famigliare.
Nel tonìr oltre al pane si cucinavano i pasti e si arrostiva la carne. Il
fuoco si poteva controllare a piacimento, veniva attizzato o affievolito a
seconda dell’esigenza del momento.
Mio nonno, nativo di Urfa, figlio di abili artigiani del rame,
raccontava che quando da ragazzo fu deportato in Libia, si costruì da
solo una sorta di tonìr portatile. In quei momenti di sofferenza e stenti
la sua cultura tradizionale non lo abbandonò e un utensile che poteva
essere usato come forno e fornello in un’unica soluzione gli fu molto
utile. Non ho purtroppo avuto la fortuna di vedere in funzione questo
rudimentale tonìr: quando ero nell’età della ragione, mio nonno si era
già da tempo avvezzato alle comodità della moderna cucina a gas. Ma
il ricordo rimaneva vivo. E oggi, chi desideri vedere in funzione un
tonìr deve necessariamente visitare la Repubblica d’Armenia.
Il pane
Il pane, in armeno hatz, è l’alimento base della cucina armena. Come
avviene un po’ in tutto il mondo, gli ingredienti, la preparazione e la
forma del pane sono variabili e definiti dalle abitudini e dalle tradizioni
locali. Un tempo, il pane veniva modellato in alcuni periodi dell’anno,
specie a Capodanno, con forme diverse e ben auguranti, oppure era
posto a rappresentare il pericolo o un nemico da scongiurare e veniva
alla fine mangiato e dunque ritualmente sconfitto. Spesso i pani di
paese erano impastati con farine diverse, talvolta miscelate con semi
aromatici. Ancora oggi la superficie viene cosparsa di semi diversi; tra
i più comuni quelli di papavero, di cumino, di anice, di nigella e di
sesamo che oltre ad arricchire il gusto del pane, lo rendono ancora più
nutriente e salutare.
Anche in Occidente, all’epoca delle grandi carestie, si producevano
pani con farine di cereali vari con l’aggiunta di semi interi; si pensi al
pane papaverino, impastato con semi vegetali diversi, i cui effetti
erano ben conosciuti da coloro che per necessità vivevano a stretto
contatto con la natura: la saggezza popolare e la conoscenza delle virtù
delle erbe medicinali sono servite nelle epoche passate persino come
strumenti “che consentivano il passaggio da una condizione umana alle
soglie dell’invivibilità a una dimensione stupefattiva e paranoide che
non è forse azzardato ritenere non tanto programmata dall’alto (come
talvolta si può supporre) quanto voluta e ricercata dalle stesse plebi,
macerate dai morbi, dalla fame, dalle paure notturne e dalle ossessioni
notturne”.34
Il pane tradizionale armeno è principalmente di farina di grano
tenero: solo in caso di carestia si usavano il miglio, l’oglio, l’orzo o altri
cereali. Di forma rotonda o ovale, rigorosamente piatto, è una sottile
sfoglia da intingere nelle pietanze; vi si può anche adagiare sopra del
cibo e arrotolarlo come un tappeto.
Il pane piatto, grande o piccolo che sia, richiama alla mente il pane
dei popoli non stanziali, in quanto facilmente trasportabile. Molto
simile al pane carasau sardo, si secca in fretta ma una volta inumidito
si può consumare come fresco. Anticamente gli si attribuiva un valore
enorme, perché si trattava dell’alimento principale, frutto della fatica
nei campi, e per lungo tempo ha rappresentato il “pasto” per
antonomasia; si diceva infatti “mangiare del pane” (hatz udel, in
armeno) per indicare il pranzare e ancora oggi è così: hatz udel
significa mangiare in generale, sedersi a tavola, fare la prima
colazione, pranzare, cenare. Inoltre il termine hatzì tzaìn dal, cioè
“dare voce al pane”, in senso figurato significa dare notizia, avvisare
che si sta arrivando a pranzo o a cena. Questa antica espressione si
riferisce a quando i contadini mandavano avanti i loro figli più giovani
per avvisare le donne di casa del loro imminente arrivo.
In tutto il mondo la forma e la consistenza dei pani sono varianti
dovute all’utilizzo di farine particolari, alla forma, alla cottura e alla
lievitatura. Anticamente in Armenia la denominazione del pane era
molto precisa. Dalla pasta lievitata si ottenevano le focacce nganàgs, e
il pane piatto krdàgs; mentre dalle focacce del paghàrč, la pasta non
lievitata, derivava il ban, termine con cui si definivano i pani di
qualsivoglia forma vuoti all’interno. In seguito sarà il metodo di
impasto e cottura usato a definire i vari tipi di pane, tanto che il
paghàrč e il ban saranno quei pani cotti al forno nel cui impasto si
utilizzerà anche l’olio d’oliva. C’era anche il plit, un pane sottile e
morbido che a volte era cotto in una padella con l’olio, e il lavàsh, col
suo sinonimo lavsh.
Nell’Armenia sovietica degli anni Trenta il pane venne usato come
mezzo di propaganda politica e si incoraggiò la produzione su ampia
scala di un pane chiamato madnakàsh che doveva servire, secondo le
autorità, a dare un tocco di modernità e di rinnovamento alla giovane
Repubblica socialista. Anche la foggia del pane serviva a questo scopo:
venne stabilito che dovesse somigliare a un terreno arato con filari e
solchi.35 Questo pane di pasta lievitata è piatto, ovale o tondo con un
bordo piuttosto alto e largo a significare il confine del campo arato,
mentre al centro, a mo’ di decorazione, ci sono delle linee che
richiamano i filari o i campi coltivati. Il nome di questo pane contiene
in sé la parola “dito” e il verbo “tirare”, quasi a suggerire l’idea del
“trascinare con le dita”, in riferimento ai solchi e alle linee che
compaiono sulla superficie, che paiono appunto come rigati con i
polpastrelli.
La neve viene conservata in cielo come la farina; quando ce n’è
bisogno, gli angeli la spingono con i piedi e la fanno cadere sulla
terra.
Nonostante la presenza di uomini in casa, erano le donne a occuparsi
del fuoco: erano loro a preparare il pane e a badare che il focolare
fosse sempre acceso.
Fino a oggi si sono mantenute principalmente due grandi famiglie di
pane tradizionale: il lavàsh e lo yughahàtz.
Il lavàsh, come abbiamo detto, ricorda il pane carasau sardo e
consiste in una sottile sfoglia entro cui il cibo viene contenuto e
avvolto. All’impasto del lavàsh si può aggiungere anche un po’ di
lievito, ma in genere questo tipo di pane ne è privo. Nella chiesa
apostolica armena, un tempo, veniva spezzettato e distribuito ai fedeli
a guisa di ostia per l’eucaristia. Il lavàsh ha forma ovale ed è grande
circa quanto la superficie di un giornale. Viene cotto nel tonìr quando
le fiamme si sono affievolite e la brace è bella rossa: è allora che il
calore si concentra e si inizia a cuocere il pane. Per evitare che si
asciughi troppo, viene avvolto in un panno umido. Il clima secco
dell’altopiano armeno impedisce la formazione di muffe e il pane si
conserva bene e a lungo. Si produce oggi nella Repubblica d’Armenia,
dove si trovano ancora dei tonìr in funzione nonostante negli anni si sia
iniziato a panificare diversamente, soprattutto nell’era sovietica. In
alcune regioni il lavàsh ha un primato assoluto anche simbolico: basti
pensare che si è mantenuta viva l’usanza di poggiarlo sulle spalle degli
sposi affinché benedica il matrimonio.
L’altro pane tradizionale, lo yughahàtz (termine che contiene la
parola yugh, a indicare una varietà di materie grasse, dall’olio d’oliva a
vari altri grassi di origine animale), è un pane di forma rotonda assai
più piccolo del lavàsh ma ugualmente piatto e ricorda un po’ la forma
della piadina romagnola. Viene cotto in piano su una lastra rovente. Il
procedimento è rapido. Sembra proprio un pane dei pastori migranti,
molto adatto a un popolo errante e privo di tonìr.36
In un testo che descrive la lavorazione del pane nella zona di Mush
(oggi MusÎ), si nota come la tradizione si è conservata fino a tempi
recenti.
La sua preparazione presenta analogie con altre tradizioni di
panificazione. Il fornaio, la sera precedente, prepara l’impasto con
farina, acqua, sale e lievito: “In genere si consumava pane di grano,
grano coltivato in loco e raramente, in caso di carestia, il pane di orzo
o miglio. Il contadino sapeva distinguere a colpo d’occhio la farina
buona che avrebbe ben lievitato da quella di qualità inferiore. Era il
grano cresciuto vicino all’acqua che era ottimo e lievitava bene”.37
Dopo aver fatto un buon impasto lo si sistemava in un mastello, si
incideva una croce sulla superficie, si copriva e si attendeva che
lievitasse. La mattina successiva, quando il tonìr aveva raggiunto la
giusta temperatura, si stendeva un telo di cuoio su cui veniva poggiato
un piano di legno. A quel punto l’aiutante del fornaio ricavava dalla
massa lievitata delle piccole palle e le gettava sul piano di legno: se le
palline venivano troppo grandi toglieva un po’ di pasta che
immediatamente riusava, dato che era vietato gettare via gli avanzi
perché si credeva che ciò avrebbe inibito la successiva lievitatura; si
credeva inoltre che quando un pezzo d’impasto cadeva per terra era in
arrivo un ospite. Sul piano di legno l’aiutante stendeva la pasta col
mattarello e la passava al fornaio. Questi, aprendola ancora con le
mani, poggiava il disco sul ratafà38 o patatì e recitava una preghiera:
Detto ciò, il fornaio schiacciava subito il ratafà sulle pareti roventi del
tonìr. Questo spiega perché a volte in armeno si dice “schiacciare il
pane”, hatz gokhèl, anziché “infornare il pane”, hatz tkhèl.
Un altro pane importante e conosciuto è il paghàrč, originariamente
un pane non lievitato e privo di materie grasse che un tempo aveva un
alto significato religioso: era infatti, come abbiamo già visto, il pane
del digiuno, delle offerte, della carità. Nel giorno dedicato a san Biagio
era questo il pane che i padri armeni un tempo distribuivano ai fedeli.
Si diceva che la bravura e la qualità del mugnaio stesse tutta nella
sua capacità di fare un buon paghàrč a ogni ora del giorno. La figura
del mugnaio un tempo rivestiva un ruolo chiave, specie nelle comunità
rurali. Il mulino era un luogo importante e il mugnaio – che faceva
anche il pane – era stimato e la sua fama si riverberava anche molto
lontano, qualora fosse onesto e generoso. Ma si sottolineava il fatto
che buon mugnaio era solo “colui che distribuiva il paghàrč caldo a
tutti i passanti senza distinzione di razza o religione, a chiunque
passando davanti al suo mulino augurasse il buongiorno”.40 Qui si nota
l’animo ospitale e il valore che veniva attribuito alla solidarietà anche
verso gli sconosciuti e i viandanti. Probabilmente si tratta di usanze
diffuse in località poco raggiungibili, dove l’afflusso di pellegrini o
viaggiatori non era così frequente e in cui l’accoglienza aveva un
valore importante, diverso da quello che gli si attribuisce ai nostri
giorni. E diversa era anche la situazione delle città popolose di allora
dove “i fornai erano odiatissimi dai poverelli e, additati da tutti come
profittatori e affamatori, si vedevano di frequente le botteghe prese
d’assalto dalla folla e saccheggiate”.41
Oggi con lo stesso termine paghàrč si definiscono molte varietà di
pani, sia dolci sia salati, confezionati con o senza lievito, a seconda
delle usanze locali.
Dopo la messa solenne di Pasqua e Natale, per tradizione il
sacerdote o un suo aiutante poggia sull’altare un piatto colmo di ostie
non consacrate ma benedette, che a volte possono avere la forma di
piccoli pani, detti mas. Il popolo dei fedeli si avvicina e ne preleva a
piacere per portarli ai propri cari che per vari motivi non hanno potuto
assistere alla messa solenne. Anche mio padre, che lavorava all’estero
e tornava da noi in Italia solo alle feste comandate, si metteva in fila
per prendere il mas e portarlo con sé come simbolo di devozione e
benedizione.
L’origine di questa parola si presta a varie interpretazioni. Sebbene
il termine mas ricordi indubbiamente il termine greco maza, che indica
l’impasto del pane, non si può ignorare che mas in armeno significa
“porzione”, “parte di”, con evidente richiamo alla condivisione
dell’Agape.
I pani semplici
Arshaluysì yughahàtz
Yughahàtz di Arshalùys
500 g di farina • un pizzico di sale • 1 cucchiaio da tavola di olio d’oliva
Ohannesì paghàrč
Paghàrč di Ohannès
Anche mio nonno materno, Ohannès-Uanìs-Giovanni,42 faceva un
saporito paghàrč secondo la tradizione della sua città, Urfa, e questa è
la ricetta originale. A piacere potete sostituire il grasso d’agnello con
del guanciale.
Questo pane, come quelli che troverete di seguito, è di antica
memoria: un tempo costituiva il pranzo del contadino o del pastore che
nelle lunghe giornate di lavoro era impossibilitato a far ritorno nella
propria casa.
500 g di farina • 250 g di burro • 150 g di grasso d’agnello, o pancetta • 1/2 cucchiaino di sale
fino • pepe
Hatz köftè
Polpette di pane
Una delle nostre merende preferite, sia d’estate che d’inverno, era il
hatz köftè, le polpette di pane. Questa semplice preparazione esalta il
profumo del pane raffermo, spruzzato d’acqua e aromatizzato con
cipolla e menta fresca. Ricordo quanto eravamo fortunati ad avere
nell’aiuola del nostro giardino in Libia diverse lussureggianti piante di
menta. Cercate anche voi di procurarvi della menta fresca per
assaporare come si deve questa semplicissima pietanza, le cui dosi
variano a seconda dei commensali. Le indicazioni qui sotto sono per sei
persone circa.
600 g di pane sminuzzato (meglio se raffermo) • 2 o 3 pomodori rossi e sodi • 2 rametti di
menta (solo le foglie e preferibilmente fresca) • 1 cipolla media o 1 cipollotto fresco di cui
userete anche la parte verde • olio d’oliva • sale • a piacere 1 peperoncino verde piccante
I pani farciti
Nella città di Urfa si preparava il semsèk, la pizza armena a base di
carne. Mia nonna Khanùm era una vera maestra nel prepararla.
L’impasto è quello tradizionale, identico a quello della pasta della
pizza; qui però invece del pomodoro e della mozzarella si usa la carne
tritata, precedentemente condita con pomodori, prezzemolo, aglio,
cipolla, un pezzetto di peperone verde, sale, pimento e se piace
peperoncino. Il semsèk ha la forma delle pizzette, ma non si cuoce al
forno bensì si frigge nell’olio. Oggi sia il nome che la preparazione
sono quasi scomparsi del tutto per lasciare posto a una pizza che si
cuoce al forno, molto conosciuta nei paesi del Medioriente, che si
chiama lahmagiùn o lahmadjìn o lahma bi’l ajin, il cui nome deriva
probabilmente da lahm, in arabo “carne”, e tagin che sta per “teglia”.
Trovate qui di seguito le ricette del semsèk e del lahmadjìn.
Semsèk
Pizzette di carne
Per la pasta:
1 kg di farina • 1/2 cubetto di lievito • 1/2 bicchiere di olio d’oliva • 1 cucchiaino di sale
Per il ripieno
1 kg di carne tritata due volte, preferibilmente rosa di vitellone • 1 tuorlo • 1 spicchio d’aglio •
2 cucchiai rasi di farina • 1 cipolla media • 5 cucchiai di prezzemolo tritato finemente • 1
cucchiaio raso di pimento in polvere • 1 cucchiaino di cannella in polvere • peperoncino
piccante in polvere a piacere • sale • pepe • olio d’oliva
Khanumì lahmadjìn
Lahmadjìn di Khanùm
Per la pasta:
600 g di farina • 2 cucchiai d’olio d’oliva • 1/2 cubetto di lievito • sale
Per il ripieno:
600 g carne macinata (agnello o rosa di vitellone) • 1 scatola di pelati • 2 o 3 pomodori freschi
• 1 mazzetto di prezzemolo • 1 grosso spicchio d’aglio • 1 cipolla media • 3 cucchiai di olio
d’oliva • 1/2 cucchiaino da caffè di pimento in polvere • sale • pepe
Misòv börèg
Böreg di carne
Una vera ghiottoneria sono i börèg, appetitosi fagottini di pasta sfoglia
ripieni di carne, di formaggio, di verdure o di uova. Sono diffusi in
tutta l’area mediorientale: il procedimento per l’impasto, così come la
loro forma, ora triangolare, ora a mezzaluna o a sigaro, varia a
seconda delle preferenze locali. Avendo una diffusione così ampia,
anche il loro nome subisce una serie di variazioni, a volte anche a
seconda del ripieno: börèg, borèk, brik, sambusàk,46 spanakopitta
(quest’ultimo ripieno di spinaci). Un impasto di sola acqua e farina
farcito di carne tritata lo si trova nella vicina Georgia, e si chiama
khinkalì, dalla forma più simile al raviolo cinese.
Nella mia famiglia questi panzerotti si sono sempre chiamati börèg,
sia che fossero ripieni di carne sia di verdure, e mia madre, a suo
piacere, li faceva ora a forma di triangolo ora di mezzaluna. Fare la
pasta in casa non è particolarmente complicato ma premetto che,
personalmente, non avendo molto tempo a disposizione e non volendo
rinunciare a queste prelibatezze, spesso uso fare i börèg con la pasta
fillo. Sistemo delicatamente una sfoglia sul tavolo, la spennello appena
con del burro fuso e la farcisco con i ripieni tradizionali. Poi,
preriscaldato il forno, spennello di burro la superficie dei börèg e li
lascio cuocere per circa 20 minuti a 180 gradi. Servo ben caldi i börèg
a cui ho dato la forma di un lungo sigaro.
Ricordate che la pasta fillo si asciuga molto rapidamente, per cui
organizzatevi e lavorate velocemente. Se vi allontanate per qualche
tempo abbiate cura di avvolgerla nella carta oleata o copritela con un
panno umido, altrimenti diventerà assolutamente inutilizzabile. Quella
che segue è la ricetta dei börèg ripieni di carne che ho ereditato da
mia madre, a cui aggiungo una variante per il solo impasto.
Per circa 12 pezzi di media dimensione
Per la pasta:
500 g di farina • 3 cucchiai di olio d’oliva • burro • 1 cucchiaino raso da caffè di sale
Variante:
2 tazze di farina • 60 g di burro • 2 cucchiaini di lievito in polvere • 2 vasetti di yogurt intero
Per il ripieno di carne:
700 g di carne tritata due volte, altrimenti passatela nel mixer • 4 cipolle medie • 180 g di
margarina • 1 cucchiaio da caffè di pimento • sale • pepe • 1 uovo
Baniròv börèg
Börèg di formaggio
Candidi come la neve, chiamati in armeno germàg banìr (letteralmente
formaggio bianco), di latte ovino o caprino, sono i nostri comuni
formaggi cosiddetti di “primo sale”, e costituiscono l’ingrediente
principale dei börèg. Chi ha la possibilità di andare a Parigi può
trovare facilmente in commercio questo genere di formaggio sotto il
nome di hallùm:47 venduto in comode confezioni sottovuoto, ad
esempio presso il negozio di specialità orientali Heratchian Frères (in
Rue Lamartine, 6 - métro Cadet), l’hallùm occhieggia dal banco
frigorifero. Questo formaggio delicatamente aromatizzato alla menta,
quando è crudo risulta molto salato all’assaggio, ma vi assicuro che
una volta cotto, sprigionerà tutto il suo profumo e si addolcirà.
Tritatelo o grattugiatelo finemente, aromatizzatelo appena con pepe,
un cucchiaino di semi di nigella e prezzemolo macinati e aggiungetevi,
volendo, un uovo sbattuto, per amalgamare meglio il tutto. Se non
avete a disposizione quest’ingrediente, utilizzate il più comune “primo
sale”. Molti nostalgici, pur di conferire al börèg quel particolare sapore
antico, usano il formaggio greco feta lasciato per un paio d’ore o più in
acqua per dissalarlo. Va da sé che tutti questi prodotti, pur di ottima
qualità, nulla hanno a che spartire con l’autentico prodotto fresco il cui
sapore antico e il cui delizioso profumo ci riportano immediatamente
con nostalgia a quelle dimore perdute che un popolo in esilio ha nel
cuore.
Per la pasta e il procedimento usate le indicazioni per i börèg di carne.
Per il ripieno
500 g di formaggio • 2 uova • prezzemolo tritato • pepe
Spanakhòv börèg
Börèg di spinaci
Per la pasta
500 g di farina • 1/2 cubetto di lievito • 1 cucchiaio di olio d’oliva • 1/2 cucchiaino di sale
Per il ripieno
500 g di spinaci freschi • 1 cipolla • 1 spicchio d’aglio • olio d’oliva • una manciata di olive
nere, meglio se del tipo di Gaeta • sale
Unite alla farina il sale, l’olio e il lievito che avrete fatto sciogliere in
mezza tazza di acqua tiepida. Impastate bene e lasciate lievitare il
composto coperto da un telo, sistemandolo in un luogo riparato.
In una padella fate stufare le cipolle, facendo ritirare bene il liquido
di cottura. Quando sono cotte, toglietele dal fuoco e unitele al
formaggio che avrete sbriciolato con una forchetta, quindi sbattete
l’uovo e aggiungetelo al composto amalgamando bene.
Stendete la pasta, e a piacere ricavate dei rettangoli o dei dischi che
farcirete con un cucchiaio del composto. Chiudete bene l’involucro: se
il bordo fatica a restare chiuso, aiutatevi inumidendo i polpastrelli con
un po’ d’acqua. Decorate il bordo della chiusura schiacciando, ma non
troppo, con le punte della forchetta. Volendo, potete spennellare i
börèg con il tuorlo d’uovo e spolverizzare la superficie con il sesamo.
Infornate in forno preriscaldato a 180 gradi per circa quindici-venti
minuti. Questa preparazione va preferibilmente servita calda.
Su börèg
Sfoglie di pasta al forno
Un piatto tradizionale e assai elaborato è il su börèg. Sebbene su
significhi “acqua” in turco, e si riferisca probabilmente al fatto che le
sfoglie vengono precotte nell’acqua, è considerato tradizionalmente un
piatto armeno. Il procedimento per la preparazione della pasta è assai
simile alla sfoglia per la pasta fresca che viene scottata in acqua
bollente e poi cotta in forno. Oggi si trovano in vendita anche delle
strisce di pasta secca che, condite a dovere, si possono mettere in
forno senza precottura. Preparando il su börèg nel modo tradizionale
faremo una pietanza antica usando la pazienza e la dedizione alla
cucina delle nostre nonne.
Per la pasta
5 tazze di farina • 4 uova • 5 cucchiai d’olio d’oliva • 2 cucchiai d’acqua • 1 cucchiaino di sale
Per il ripieno
500 g di formaggio bianco hallùm o altri tipi di formaggio bianco • 1 piccolo mazzetto di
prezzemolo pari a 4 cucchiai colmi di prezzemolo tritato • 1 uovo sbattuto • burro • 1/2
cucchiaio di pepe
Se avete notato che all’assaggio il formaggio è troppo salato, lasciatelo
a bagno in acqua anche per una notte intera, e prima dell’uso
strizzatelo.
In un recipiente capace sbattete le uova, aggiungete il sale, l’olio e
lentamente versate la farina e man mano i due cucchiai d’acqua.
Lavorate a lungo la pasta ricavandone un impasto sodo, aggiungendo
se necessario altra farina. Coprite e fate riposare per un paio d’ore in
un luogo riparato. Nel frattempo preparate la farcitura: mescolate al
formaggio, che avrete sminuzzato con la forchetta, il prezzemolo
finemente tritato, l’uovo sbattuto e il pepe.
Dividete la pasta in piccole palline e iniziate a stenderle una dopo
l’altra su un piano ben infarinato. Farete meno fatica se userete la
macchina per stendere la pasta: in caso contrario lavoratela con il
matterello fino a farla più sottile che potete. Man mano che le sfoglie
sono pronte sistematele su un canovaccio umido e ricopritele, per
evitare che si secchino mentre ultimate il lavoro.
Portate a ebollizione dell’acqua in una pentola capace e salatela.
Quando bolle immergetevi le sfoglie e lessatele per un minuto circa.
Con la schiumarola, aiutandovi con le mani, toglietele dall’acqua e
passatele per un momento in una terrina colma di acqua fredda per
eliminare del tutto i residui della bollitura, quindi scolatele, e ponetele
nella teglia ben imburrata in cui avrete già sistemato uno strato di
sfoglie non bollite che proteggeranno la preparazione rendendola più
compatta. Ogni volta che sistemate uno strato di sfoglie, spennellatele
con poco burro. Quando avrete inserito la metà delle sfoglie, versate il
formaggio e distribuitelo su tutta la superficie. Continuate ricoprendo
con le restanti sfoglie sempre spennellando di burro fuso. Da ultimo
metterete una o due sfoglie non bollite. Spennellate ancora di burro la
superficie e procedete tagliando la pasta come più vi aggrada, in
grandi quadrati o a losanghe. Preriscaldate il forno e cuocete a 180
gradi per almeno trenta minuti: quando la superficie sarà ben dorata, è
segno che il piatto è pronto. Servite ben caldo.
Due suggerimenti:
Potete evitare di spennellare ogni strato di sfoglie e farlo ogni due o
tre strati. Potete anche poggiare su un telo ben pulito le sfoglie dopo
averle scolate per eliminare per bene l’acqua.
Mantiabùr
Minestra con tortelli di Kùir Antoinette48
I mantì sono dei veri e propri piccoli tortelli che si preparano con un
impasto di acqua e farina o con la pasta all’uovo e si farciscono con un
ripieno di carne e spezie. La loro particolarità sta nel fatto che non
vanno chiusi, bensì si lasciano aperti come delle minuscole barchette.
Si possono passare al forno prima di cuocerli in un saporito brodo di
gallina.
Si servono nel piatto con poco brodo e si gustano con tanto madzùn
skhtòr, la salsa a base di yogurt, aglio pestato e sale. La versione che
segue è una delle varianti del mantì; prevede la preparazione della
pasta all’uovo e il burro (e non l’olio) per la teglia.49
Per la pasta
4 bicchieri di farina • 2 uova • un pizzico di sale
Per il ripieno
400 g di carne macinata due volte (manzo, agnello o vitella) • 2 cipolle • 100 g di burro o
margarina • 1/2 cucchiaino di pimento • sale • pepe
In una casseruola fate rosolare la carne a fiamma vivace fino a quando
prenderà un bel colore bruno; aggiungete dunque le cipolle tritate e
fate andare ancora per un paio di minuti a fuoco vivo, unite quindi la
margarina o il burro e mescolate. Abbassate di poco la fiamma e con la
forchetta separate la carne se tende a raggrumarsi. Dovete ottenere
un bel macinato senza grumi. Salate, pepate e aggiungete il pimento.
Quando ha preso un bel colore scuro, spegnete il fuoco.
Annaì mantì
Mantì della zia Anna
Per la pasta
300 g di farina • 1 pizzico di sale
Per il ripieno
300 g di macinato di vitello • 2 grosse cipolle • 5 cucchiai di olio d’oliva • 1 punta di
cucchiaino di pimento in polvere • brodo vegetale • sommacco • sale • pepe
Pirintzì pilàf
Pilàf di riso
Al contrario del risotto (che va cucinato unendo lentamente del liquido)
o del riso lessato (che si cuoce in abbondante acqua salata) per la
cottura del pilàf c’è una regola ferrea: a ogni bicchiere di riso devono
corrispondere due bicchieri di acqua e non bisogna mescolarlo fino a
cottura ultimata. Si ricordi che un bicchiere di riso è sufficiente per
due persone. Un volta pronto, il pilàf si conserva bene in frigorifero
per alcuni giorni. Sebbene sia una pietanza semplice, la sua
preparazione varia a seconda delle tradizioni del luogo e della famiglia.
Si usa generalmente iniziare la cottura soffriggendo nel burro un po’ di
pastina del tipo “capelli d’angelo”, a cui segue l’aggiunta di vari tipi di
carne o di legumi.
Abùr gér, tùrë el, pilàf ger lèrë el55 (in armeno è in rima): ovvero
“mangia la minestra ed esci sull’uscio, mangia il pilàf e va’ in
montagna”. Ciò significa che chi mangia la minestra fa poca strada
perché gli torna subito fame, mentre chi mangia il riso può andare più
lontano, salire in montagna e sentirsi sazio a lungo: il detto ha la sua
spiegazione nel ruolo importante del burro nella preparazione del
pilàf!
L’insalata di riso, che prepariamo prevalentemente d’estate, non
trova posto nella cucina di tradizione armena. Sarebbe anzi
considerato da barbari portare in tavola un piatto di riso freddo: è una
cosa che un armeno, e un orientale in genere, non gradisce.
Il pilàf, dunque, viene servito caldo e accompagnato da vari tipi di
intingoli a base di carne e di verdure.
Per 4 persone
2 tazze di riso parboiled • 80 g di burro non salato • 3 cucchiai di pastina del tipo “capelli
d’angelo” • sale • pepe
Dolmà
Involtini di foglie
In Libia la mia famiglia aveva una casa con giardino e un piccolo
pergolato; mia madre coglieva personalmente dai rami della vite le
foglie per il dolmà. Erano le più tenere, le ultime spuntate. Il periodo
giusto era tra luglio e agosto. Nel resto dell’anno il nostro dolmà era
costituito solo da melanzane, smpùg, zucchine, tutùm, peperoni verdi,
ganandj bibèr, foglie di cavolo cappuccio, lahanà, mentre la lattuga,
hazàr o khas,56 nel nord Africa era troppo tenace e croccante e dunque
non adatta all’uso. Non c’erano all’epoca in commercio foglie di vite
confezionate e mia madre non usava conservare per l’inverno le nostre
foglie, in quanto il sapore che prendevano nel corso del tempo non era
gradito. Come tutte le famiglie di quel tempo, consumavamo solo la
frutta e la verdura della stagione corrente. Oggi le abitudini sono
notevolmente cambiate, anche per via dei conservanti che preservano
a lungo gli alimenti, magari a scapito del loro autentico sapore e del
loro valore nutritivo. E, visto che attualmente è molto difficile trovare
in Italia una vigna non irrorata di anticrittogamici, ci si è dovuti
adeguare. A casa nostra, pur sapendo che il vocabolo sarmà indicava
solo quello fatto con le foglie di vite, la parola dolmà veniva usata
indifferentemente per entrambe le preparazioni.
Il dolmà si serve tradizionalmente accompagnato da un buon
madzùn skhtòr, che altro non è che yogurt naturale battuto con un po’
d’aglio pestato nel mortaio con una presa di sale.
Durante il primo periodo della nostra permanenza in Italia, negli
anni Settanta, mia madre, non trovando le foglie di vite a Roma, usava
farcire le foglie del lahanà, il cavolo cappuccio.57
Posto che il ripieno è lo stesso sia per le foglie di vite sia per le altre
verdure, ecco un’unica ricetta.
Impastate bene tutti gli ingredienti del ripieno, poi con il composto
ottenuto farcite le melanzane, le zucchine e i peperoni come indicato
nella ricetta di base del dolmà.
Disponeteli nella pentola, copriteli di acqua e fate cuocere a fiamma
media per quarantacinque minuti circa. Gustateli accompagnati da
succo di limone o yogurt.
Basùtz dolmà
Dolmà del digiuno
Una preparazione adatta al periodo della Quaresima è il basùtz dolmà,
che viene farcito appositamente senza carne. È però così ben condito
con erbe fresche e spezie che diventa gustoso e non ha nulla da
invidiare alla preparazione classica. Un piatto povero che si può
consumare anche freddo, al contrario di quello con la carne che va
consumato preferibilmente caldo.
È un piatto antico, che ricorda il periodo in cui i pastori, al seguito
delle loro greggi, traevano dalla bisaccia qualche pugno di grano che
aromatizzavano con erbe profumate raccolte sugli alti pascoli e sugli
altopiani e lo cuocevano avvolto in tenere foglie di vite. In genere, per
tradizione, questo tipo di dolmà si fa preferibilmente con le foglie di
vite. Potete variare a vostro piacimento e usare al posto del bulghùr il
riso.
Per 4 persone
1 confezione di foglie di vite • 2 tazze da tè di bulghùr • 1 tazzina da caffè di olio d’oliva • 2
cipolle grosse • 2 cucchiai colmi di pinoli • 2 cucchiai di uvetta di Corinto • 1 cucchiaio colmo
di menta secca • 2 cucchiai di prezzemolo tritato (se piace) • sale • pepe
Midjèddere
Riso e lenticchie
Questa preparazione viene generalmente gustata con un’insalatina di
pomodori (vedi paragrafo “I legumi e le verdure”) ed è una pietanza
molto diffusa nei paesi orientali, pur prestandosi a parecchie varianti.
Questa versione proviene dalla famiglia di mio padre. Anche la mia
nonna materna la cucinava, ma la serviva accompagnata da ciotoline
colme di salsa di limone.
1 tazza di lenticchie • 1 tazza di riso parboiled • 1 grossa cipolla • olio d’oliva • sale
Vospòv shorbà
Zuppa di riso e lenticchie
Per 6 persone
1 tazza da tè di lenticchie rosse decorticate • 1/2 tazza di riso (non parboiled) • 1 grossa
cipolla dorata • olio d’oliva • sale
Bulghurè pilàf
Pilàf di bulghùr
Questo pilàf accompagnato da una insalatina di pomodori, cipolle e
cetrioli è considerato un pasto nutriente e completo.
Per 6 persone
3 tazze da tè di bulghùr a grana grossa • 120 g di burro • pimento in polvere • sale • pepe
Tutumičùg o Eshkilìk
Bulghùr agropiccante
Mia madre e le sue sorelle, da bambine, venivano portate spesso al
bagno turco di Tripoli, soprattutto in prossimità delle festività natalizie
e pasquali.
L’ingresso ai bagni era concesso alle donne solo una volta alla
settimana. L’evento era considerato un rito e veniva preparato in ogni
minimo dettaglio. Per le bambine era un’occasione per uscire e
incontrare gran parte del parentado, cugine e cuginette, zie e nonne;
per le donne, un modo per svagarsi in un’epoca in cui il teatro e il
cinema non erano così diffusi. Il gineceo si accordava sul giorno
deputato e tutte insieme si recavano al bagno. Non sempre le bambine
amavano quella scampagnata, dato che le strigliate col tradizionale
kesè (un pezzo di stoffa ruvida) delle “donne lavatrici” erano
abbastanza dolorose e la loro pelle delicata era messa a dura prova
dallo shalàg (termine di origine turca che indica il vigoroso massaggio
con la striglia sulle spalle e sulla schiena). Inoltre le più sensibili
pativano per l’alta temperatura dell’ambiente e attendevano con ansia
le pause ristoratrici.
L’eshkilìk o tutumičùg (entrambe le denominazioni contengono il
termine “aspro”, sia in turco che in armeno), che veniva preparato con
molto peperoncino e avvolto in foglie di vite o lattuga, era una pietanza
che nel cestino della merenda faceva compagnia ad altre prelibatezze
da portare ai bagni. Siccome il bagno turco rende fiacchi, dentro la
stessa sporta trovavano sistemazione anche le spremute di frutta di
stagione. Arshalùys, mia madre, ricorda ancora in particolare il
profumo delle arance succose.
Quando le bimbe si lamentavano del bruciore del piccante, perché il
sugo colava loro sul mento e urticava la pelle i cui pori erano aperti
grazie all’azione del vapore caldo, la nonna passava pazientemente sui
loro visi un pezzetto di buccia d’arancia, dalla parte bianca, e calmava
così le lamentazioni delle piccole. Mia zia Vittoria, la maggiore delle
sorelle, ricorda che si passava sul mento addirittura un po’ della sua
razione di gassosa per calmare il fastidio.
La dose qui indicata per preparare questa pietanza di antica
memoria è per circa 4 persone.
1 bicchiere e 1/2 di bulghùr fino • foglie di vite o di lattuga • 1 grossa cipolla • olio d’oliva •
succo di limone • 1 cucchiaio da tavola raso di concentrato di pomodoro • sale • peperoncino
piccante
Ič
Insalata fredda di bulghùr
È una delle innumerevoli pietanze che si preparano con il bulghùr, che
le zie portavano al bagno turco. Molto simile al tabbuleh, la
preparazione a base di bulghùr assai diffusa in Libano e nei paesi
vicini. Il nome classico più comune per questo piatto, che somiglia più
a un’insalata fredda di bulghùr, è ič e viene servito in una capace
terrina da cui si attinge a generose cucchiaiate.
2 tazze di bulghùr fino • 2 pomodori succosi • 4 tazzine da caffè di olio d’oliva • 1 cipolla
media • 1 mazzetto di prezzemolo • 4 cucchiai da tavola di foglie di menta fresca tritata • il
succo di 1 limone • sale • cipolline verdi fresche (a piacere) • peperoncino in polvere (a
piacere)
Questa fresca insalatina racchiude i preziosi sapori dell’orto e molte
profumate erbette: il pomodoro, la cipollina fresca, il prezzemolo e la
menta punteggiata dai chicchi del grano tritati finemente; d’estate,
condita con tanto succo di limone, rinfresca il palato.
Mettete a bagno per una quindicina di minuti il bulghùr, poi
scolatelo bene e sistematelo in una insalatiera. Versatevi una cipolla
tritata finemente che avrete fatto soffriggere nell’olio. Aggiungete il
trito di prezzemolo, le cipolle verdi tagliate, i pomodori a pezzetti, la
menta e salate. Infine irrorate col succo di limone e il peperoncino in
polvere. Mescolate bene e lasciate riposare per una quindicina di
minuti affinché i sapori si amalgamino a dovere.
Prima di servire aggiungete a piacere un bel peperoncino verde
piccante tagliato a rondelle.
Couscous
A base di grano, arrivava nella cucina della nostra casa di armeni di
Tripoli una pietanza tradizionale libica assai elaborata, il couscous, in
cui la semola di grano si accompagnava a verdure e carne. Questo
piatto contiene ingredienti molto diffusi nell’Africa del nord; saranno
solo le disponibilità economiche della famiglia a stabilire quantità e
qualità delle verdure e della carne impiegate. Una cosa però non deve
assolutamente mancare, ed è la zucca.
1 kg di semola per couscous • 1 kg di spalla o coscio d’agnello • 2 kg di cipolle • 3 tazzine da
caffè di olio d’oliva • 3 scatole piccole di concentrato di pomodoro • 200 g di ceci • 5 patate •
2 fette di zucca • 1 cucchiaino colmo di chiodi di garofano in polvere • 2 cucchiaini colmi di
cannella in polvere • sale • peperoncino in polvere
Per cuocere le verdure:
1/2 cucchiaino di cannella • 1/2 cucchiaino di chiodi di garofano in polvere • 1 cucchiaio di
concentrato di pomodoro • 1 cipolla
Khash
Zampetti di vitello in zuppa
Questa pietanza, diffusa in Armenia e in Georgia dove è chiamata
khashi, è eccezionalmente nutriente; consumata la mattina presto e
accompagnata da fiumi di vodka, si cucina solo in quei mesi che in
lingua armena contengono le lettera “erre” e cioè gennaio, febbraio,
marzo, aprile, settembre, ottobre, novembre, dicembre, una
restrizione, questa, sconosciuta nella vicina repubblica di Georgia. In
Armenia, dunque, il khash non si prepara mai nei mesi più caldi. Dopo
aver trascorso le notti gelide nei pascoli o nei boschi di montagna, i
pastori e i cacciatori rientravano a casa all’alba. Le donne avevano già
pronto per loro il khash: la calda e corroborante zuppa a base di zampe
di vitello.
Nella zona armena si prepara ancora, secondo tradizione, almeno
una volta l’anno.
Se ci fosse una lista dei cibi femminili e maschili, questa pietanza
sarebbe senz’altro compresa nella seconda categoria: tra gli Armeni si
dice con una battuta che il khash non ama la compagnia né del vino né
delle donne. Ma le donne, buongustaie quanto gli uomini, dopo essersi
sobbarcate la lunga e laboriosa preparazione, naturalmente se lo
mangiano con piacere anche loro.
Per le dosi, regolatevi a seconda dei commensali. Per sei persone
saranno sufficienti quattro zampe di vitello, che in armeno si chiamano
totignèr, tagliate in due.
zampe di vitello • aglio • pane lavàsh • sale
Khashlamà-Bughlamà
Stufato di agnello
Questo piatto viene chiamato khashlamà in armeno e bughlamà in
turco. Le varianti e le dispute intorno a questa preparazione si
concentrano sulla durata della cottura. In sostanza è un piatto
completo di carne e verdure molto nutriente, dunque adatto alle fredde
giornate invernali. Gli ingredienti variano a seconda delle possibilità
economiche dei nuclei famigliari, sebbene la ricetta originale richieda
la spalla d’agnello nel cui brodo poi cuoceranno le verdure.
Si tratta di una pietanza spesso preparata in grandi quantità e
consumata insieme a parenti e amici in occasioni di lieti eventi e
ricorrenze o nella giornata dedicata al santo patrono. Questo è un cibo
che necessita di una cottura prolungata; ma, mentre cuoce, nessuno
perde tempo e si preparano i mezè, cioè gli antipasti, mentre gli altri
danzano e intonano canti popolari.
1 kg di spalla d’agnello tagliata a pezzi • 4 patate medie • 2 coste di sedano • 2 cipolle • 2
peperoni verdi • 1 peperone giallo o rosso • 1 mazzetto di prezzemolo • 4 pomodori maturi
spellati • sale • pepe
Harissà
Purea di carne e grano
La harissà62 è uno dei piatti dei giorni di festa, il cui nome pare derivi
dal verbo armeno harèl, “battere”. Si prepara in occasione di
importanti feste religiose, ad esempio per il giorno dell’Ascensione, in
armeno Baydzaragherbuttiùn, o per il giorno dedicato a Surp Sarkìs,
cioè san Sergio, e, a seconda delle tradizioni famigliari, per il
Capodanno o per eventi particolarmente importanti nella vita della
comunità. Anche mio nonno Ohannès preparava una minestra simile,
che chiamava keshkègh o dzedzerèn. Questa preparazione all’origine è
tipica delle zone geografiche orientali e più specificatamente degli
armeni di Cilicia.63 Pur se conosciuta e apprezzata da tutti gli Armeni,
questa pietanza resta oggi indissolubilmente legata alla memoria del
dramma dei sette villaggi del Mussa Ler.
Nel 1915 gli abitanti della regione del Mussa Ler,64 situata
nell’odierna Turchia in prossimità del confine siriano, dopo aver
rifiutato la deportazione imposta dai Turchi, decisero di ritirarsi sulla
sommità del loro monte, il Mussa Ler appunto, dove attuarono una
eroica resistenza alle armate turche per quaranta giorni, fino a che il
tanto atteso aiuto dall’esterno arrivò. Parte dei sopravvissuti giunse in
Armenia dopo alterne vicende e si stabilì in una zona presso
Ečmiadzìn, a cui diedero il nome del loro paese d’origine.
Così questo cibo, consumato dai resistenti sul monte e preparato con
ingredienti molto nutrienti (oltre alla carne vi è il grano), viene ad
assumere un nuovo e particolare significato, perché diventa il “cibo
degli eroi”.
Nell’avvincente romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del
Mussa Dagh, in cui si narra la vicenda di quegli eroi, vi è una bella
descrizione dell’importanza di questa pietanza: “Harissà è il nome di
un cibo nazionale degli Armeni già da tempi immemorabili. Come
avviene in tutto ciò che è antichissimo e risale oltre la memoria delle
generazioni, anche intorno a questo cibo e alla sua preparazione
aleggiava un’aura di solennità religiosa. Per questa ragione il solo
parlare di una festa di harissà diffuse nel popolo imbronciato una
cordiale serenità. [ ] harissà era un cibo di festa [ ] La gioia di
harissà non consisteva soltanto nel mangiare, ma anche e assai più
nella cerimonia della lunga preparazione”.65
In particolare, per i mussalertzì66 della Repubblica d’Armenia ogni
terza domenica di settembre di ogni anno è una giornata speciale che
serve a non dimenticare il proprio passato e il sacrificio dei cari
scomparsi. La harissà viene preparata in grandi recipienti di rame, il
grano e la carne cuociono sotto la stretta vigilanza prevalentemente
degli uomini. Ci vogliono almeno dodici ore di lenta cottura per
ottenere una buona harissà. Per tutta la notte i mussalertzì si danno il
cambio e sorvegliano i paioli sul fuoco. In quelle ore notturne i racconti
e i ricordi riaffiorano e il buio della notte li accoglie e li serba fino
all’anno successivo.
Una volta cotto, il composto viene battuto con possenti bastoni, i
tntotz, per amalgamare bene la carne al bulghùr.
Allo spuntar del sole, all’aperto, si preparano le tavolate e ci si
organizza per ricevere i pellegrini che giungono per l’occasione da
molte parti della piccola Repubblica e anche dall’estero. I presenti
sono invitati a mangiare la harissà che viene offerta a tutti coloro che
si fanno avanti. Se avrete l’opportunità di visitare la Repubblica
d’Armenia, questa è un’occasione da non perdere anche per vedere da
vicino le famose danze del Mussa Ler che grandi e piccini, uomini e
donne ripetono invariate nel tempo.
La preparazione di questo piatto tradizionale prevede l’impiego di
grano e, a seconda delle possibilità economiche, di carne di pollo o di
agnello. La cottura lunga a fuoco basso per una notte intera fa sì che il
grano si sfaldi e la carne pure. La ricetta che vi propongo è tratta da
un raro volume armeno dedicato alla tradizione culinaria del Mussa
Ler.67
3 bicchieri di grano pestato nel mortaio • 1 kg di carne di agnello (preferibilmente la parte del
musetto o del collo) • 1 cucchiaio di sale grosso
Misòv prasà
Spezzatino con i porri
Gli spezzatini, con il loro gustoso sughetto, accompagnano bene tutti i
pilàf. In mancanza di riso o di bulghùr si possono consumare con tanto
pane.
500 g di carne a cubetti (agnello, vitella o manzo) • 4 porri • 7 cucchiai di olio d’oliva • 1
cipollina • 100 g di ceci lessati • 1 cucchiaio raso di salsa di pomodoro • sale • pepe
Fate cuocere la carne nella pentola a pressione per venti minuti con
una presa di sale.
In una casseruola soffriggete nell’olio la cipollina tagliata a rondelle,
unite i porri tagliati a pezzi di 2-3 cm, mescolate e dopo qualche
minuto aggiungete nell’olio la salsa, il sale, il pepe, la carne, i ceci
lessati e un bicchiere d’acqua. Fate cuocere prima a fiamma alta e una
volta raggiunto il bollore a fuoco lento per circa venticinque minuti.
I porri si possono anche cuocere in umido; in questo caso non
aggiungete la salsa, e riducete a una manciata la quantità di ceci
lessati.
Misòv bàmia
Spezzatino con i bàmia
Altrimenti detti gombo, okra o lady’s fingers, i bàmia, ortaggi in
apparenza simili a dei peperoncini verdastri (ma assolutamente non
piccanti) necessitano solo di una bella lavata e vanno puliti asportando
tutt’intorno delicatamente con un coltellino la parte più tenace del
picciolo. È preferibile che siano di piccole dimensioni: nei mercati dei
paesi orientali le donne lottano col venditore nel tentativo di scegliere
solo i più piccoli. Ecco una ricetta tipica, molto adatta ad esaltarne il
delicato sapore.
600 g carne per spezzatino • 300 g di bàmia • 7 cucchiai d’olio d’oliva • 1 cipolla piccola • 1
cucchiaio raso di salsa di pomodoro • il succo di 1 limone • sale • pepe
Fate cuocere nella pentola a pressione la carne per venti minuti con
una presa di sale.
Fate soffriggere la cipolla nell’olio, aggiungete la salsa, il sale, il
pepe, la carne scolata, i bàmia e un bicchiere d’acqua e lasciate
cuocere prima a fiamma alta e poi bassa per circa quindici minuti.
Variante n. 1: i bàmia possono anche cuocere in umido, senza
l’aggiunta della salsa. In Oriente si usa spremervi sopra, prima di
servire, del succo di limone.
Variante n. 2: dopo aver soffritto in olio la cipollina, aver aggiunto la
salsa di pomodoro e averla diluita, unite la carne e subito dopo i bàmia.
Versate il tutto in una vaschetta di alluminio, badando che il liquido
copra appena il contenuto, rivestite con carta argentata e mettete in
forno; dopo circa mezz’ora, togliete la carta argentata e ultimate la
cottura. Prima di servire irrorate di succo di limone
Misòv bazelià
Spezzatino con piselli
Il procedimento è identico a quanto descritto sopra. Al posto dei
bàmia, utilizzate i piselli e profumate lo spezzatino con dell’aneto
fresco.
La grande aiuola davanti alla nostra cucina, in Libia, era una riserva
preziosa di erbe aromatiche. In particolare gli steli dell’aneto, shbt in
arabo, svettavano tra tutte le altre erbe.
Misòv lupià
Spezzatino con fagioli
Questo spezzatino al profumo di cumino è particolarmente saporito. La
sua origine è probabilmente ebraica e la ricetta proviene dalla
comunità armena della Libia.
800 g di carne di vitellone (meglio se la pezza o la rosa tagliata a dadi) • 300 g di fagioli
cannellini lessati • 1 cipolla piccola • 2 spicchi d’aglio • 3/4 di una scatola piccola di
concentrato di pomodoro • una punta di cucchiaino di cumino in polvere • un pezzetto di
peperoncino • olio d’oliva • sale • pepe
Cuocete la carne nella pentola a pressione con poco sale per trenta
minuti o fino a che non sia cotta.
A parte fate soffriggere in poco olio la cipolla, l’aglio tagliato a metà
e unite 3/4 di un barattolo piccolo di concentrato di pomodoro (potete
usare anche il concentrato in tubetto ma il colore dello spezzatino non
sarà di un bel rosso vivo); poi mescolate e aggiungete un poco d’acqua,
il cumino, peperoncino, sale e pepe.
Quando il sughetto è denso, aggiungete la carne e fatela andare per
dieci, quindici minuti. Unite poi i fagioli e fate sobbollire per cinque
minuti ancora. Se usate i fagioli in scatola, ricordatevi di scolarli e
sciacquarli bene.
Variante: lo stesso sughetto si può fare sostituendo la carne con
della trippa ben pulita. Potete anche unire i due ingredienti: in questo
caso dimezzate la quantità di fagioli.
Zadigì hav
Pollo arrosto con ripieno per la Pasqua
La carne d’agnello a casa nostra non era particolarmente gradita,
specie a mio padre, e dunque per Pasqua mia madre, che volentieri
avrebbe messo al forno il kharuf uatani (l’agnello locale libico, dalle
carni magre e saporitissime) cucinava, suo malgrado e contravvenendo
alla tradizione, un bel pollo. Certo, si trattava di un volatile piuttosto
speciale, in quanto veniva acquistato presso lo spaccio militare della
base americana dove mio padre lavorava. Erano polli enormi e
saporitissimi, quasi delle dimensioni di un tacchino.
1 pollo grande • 150 g di tritato di polpa di manzo (a piacere aggiungete fegatini di pollo) • 1
cipolla piccola • 40 g di margarina • 1 tazza di riso parboiled • burro • 1 cucchiaino da caffè di
pimento • sale • pepe
Ghaburghà
Spalla d’agnello ripiena per la Pasqua
Più tradizionale, invece, per la Pasqua è l’agnello ripieno. Se le
possibilità economiche non permettevano di disporre di un agnellino
intero, la tradizione veniva onorata riempiendo e cuocendo una spalla
d’agnello. Era proprio quello che faceva mio nonno Ohannès e questa è
la sua ricetta.
1 spalla d’agnello • 1 pugno di riso • 250 g di macinato (manzo, agnello o vitella) • 1 grossa
cipolla • 80 g di burro o margarina • 1/2 cucchiaino di pimento • sale • pepe • 1 pugno di
mandorle • 1 pugno di pinoli
Shish kebàb
Spiedini di carne alla brace
Shish kebàb68 (come viene chiamato dagli Armeni della diaspora) o
khorovàdz69 (come si chiama la stessa pietanza nella Repubblica
d’Armenia), è il comune spiedino di carne. Questa preparazione è
talmente apprezzata che un’intera via di Yereva70 è dedicata al rito del
khorovàdz: qui gli spiedini cotti a puntino sulla brace si possono
consumare sul posto oppure avvalersi dell’organizzato take away.
Per questi spiedini – che in Grecia prendono il nome di suvlakia, e
che nel resto del Caucaso si chiamano shashlik – la tradizione indica
l’impiego di carne d’agnello, ma sia la polpa di manzo o di vitella sia
del buon pollo sono eccellenti sostituti. La scelta della carne varia da
famiglia a famiglia, così come i vari condimenti impiegati per la
marinata sono a discrezione delle tradizioni locali e famigliari. Ho
assistito a lunghe discussioni sul fatto se sia più giusto inserire il succo
di limone o meno, se si debba salare prima della cottura, se ci vada la
cipolla oppure l’aglio, lo yogurt invece dell’olio d’oliva, la salvia o il
rosmarino.
Kebàb, in sostanza, è tutto ciò che viene arrostito sulla brace, dalle
costolette di agnello a tutte le verdure che si possono sistemare su una
griglia.71
Per la cottura alla brace bisogna procurarsi la legna giusta o la
carne sulla griglia prenderà profumi indesiderati; bisogna evitare legni
resinosi come il pino. Scelta la legna e sistemata a dovere, si accende il
fuoco. Mio padre poneva sulla fiamma accesa una sorta di canna
fumaria ricavata da un barattolo di latta a cui aveva tolto sia la
copertura superiore sia quella inferiore. Metteva la sua canna fumaria
sul fuoco e, una volta che tutta la legna era bruciata, la toglieva e con
dei colpetti sistemava la brace in piano in modo da poter infine posare
la griglia.
Per la quantità della carne, regolatevi a seconda della vostra
esperienza: in genere si calcolano 200 g di carne a persona. Sulle
varianti del condimento la scelta è libera. Questa è la descrizione di
come veniva condita la carne in casa nostra.
1,2 kg di carne (polpa di vitella o manzo) • 1 spicchio d’aglio • 1 grossa cipolla • origano • olio
d’oliva • sale • pepe
Či-köftè
Polpettine di carne cruda
Si tratta di carne tritata, condita e lavorata a lungo con il bulghùr; si
mangia cruda ed è una vera squisitezza. Gli abitanti armeni di Urfa ne
facevano largo uso sebbene il či-köftè (altro nome di dubbia origine
armena: in turco çi significa “crudo”) sia un piatto assai impegnativo
da preparare.
600 g di macinato di vitellone (preferibilmente la pezza) • bulghùr a grana fine • 1/2
cucchiaino da caffè di pimento • 1/2 cucchiaino da caffè di peperoncino in polvere • 1 ciuffo di
prezzemolo • 1 cipollotto • sale
Osbàn
Budello farcito
Una pietanza tipicamente libica, che probabilmente arriva dalla locale
tradizione pastorale-nomade in cui si afferma il principio che
dell’animale si mangia tutto e non si butta via nulla, e che le budella
sono degli utili contenitori. Questo piatto è stato ben accolto nelle case
della piccola comunità armena di Libia.
Per preparare l’osbàn, dall’arabo “legare”, bisognava innanzitutto
procurarsi un budello di pecora o di capra.
Ora, pensiamo ai macellai di una volta, quando non si andava molto
per il sottile e le norme igieniche erano sconosciute ai più. Immaginate
i mercati di un tempo, dove nel negozio del macellaio si vedevano i
polli spennati appesi al gancio a testa in giù, a dondolare accanto ai
capretti e agli agnellini scuoiati. Ricordo ancora il piccolo grumo di
sangue che si formava sul pavimento sotto le teste dei capretti, degli
agnellini e delle galline appese. All’epoca se chiedevi il budello per
fare l’osbàn, ti vendevano budelli non ancora del tutto puliti.
Da bambina mi affascinava la laboriosa preparazione successiva,
anche se poi non mettevo in bocca neanche un pezzetto di osbàn. Era
come un gioco interessante per me stare a guardare mia madre mentre
pazientemente liberava il budello dai residui degli escrementi della
pecora. La mamma lo riempiva di acqua e poi lo svuotava liberandolo
del suo eventuale contenuto; e così, alternando per molte volte di
seguito l’acqua bollente a quella fredda, puliva alla perfezione il
prezioso contenitore.
1 budello ovino di 3-4 centimetri di diametro • 400 g di polmone, fegato, milza e cuore • 100 g
di carne tritata • 1 cucchiaio raso di salsa di pomodoro • 1 pugno di riso • 1 cipollotto • 1
ciuffo di prezzemolo • 4 cucchiai di olio d’oliva • una punta di cucchiaino di cannella •
peperoncino a piacere • sale • pepe
Kubbeh
Arancini di carne
Kubeba o kubbeh è il nome arabo di una sorta di delizioso arancino di
bulghùr ripieno di carne speziata, in armeno mičòv kntig o mičugòv
köftè. Il solo ripieno viene detto in arabo ghiyma, e in armeno mičùg.
Diffusi e apprezzati in tutto il Medio Oriente, a casa mia sono sempre
stati chiamati kubbeh.
L’origine di questo nome mi ha sempre incuriosito, e le persone a cui
nel corso degli anni chiedevo di volta in volta spiegazioni in proposito
rispondevano che la loro forma era ispirata alle cupole delle moschee.
Solo una volta qualcuno mi ha detto che il nome deriva dal pestello in
pietra dei vecchi mortai usati per battere la carne e il bulghùr nella
preparazione della pietanza. Qualunque sia l’interpretazione corretta,
una cosa è certa: per i kubbeh ci vuole la mano giusta affinché durante
la frittura non si aprano lasciando fuoriuscire il ripieno. Un segreto è
quello di inserire più carne tritata rispetto al bulghùr: ciò faciliterà la
frittura ed eliminerà in parte il pericolo che i kubbeh si disfino.72
In genere la carne usata a casa nostra per fare questi saporiti
kubbeh è quella di vitellone.
Per l’involucro
600 g di carne tritata due volte (è preferibile la pezza di vitellone) • 3 tazze di bulghùr fino • 1
cipolla • 1 cucchiaino di pimento • sale • pepe
Per il ripieno
1/2 kg di carne tritata • 600 g di cipolle • 4 cucchiai di margarina o burro • 1 cucchiaino di
pimento • 1 punta di cucchiaino di pepe in polvere • 1/2 litro di olio di mais per friggere • 1/2
tazza di pinoli (facoltativo)
Lkhlkhì
Kubbeh al grasso di rognone
Una seconda variante del ripieno del kubbeh, la preferita di mio nonno
Ohannès, è il lkhlkhì, che viene farcito con una pallina di grasso di
rognone d’agnello, aromatizzato con spezie varie. Questo piatto –
tipico della zona di Urfa – necessita di una certa abilità nel
maneggiarlo, in quanto al primo morso il grasso, che con il calore della
cottura si è ormai sciolto, cola via. Occorrono misure preventive, un
po’ come succede a Roma per i bucatini all’amatriciana, che in diversi
ristoranti vengono serviti accompagnati da un tovagliolo di dimensioni
speciali che si annoda al collo.
500 g di grasso di rognone • 1 peperoncino rosso piccante • 3 cucchiai di menta secca
Girdelè
Kubbeh alla brace
Ferida, la mia bisnonna materna nativa di Kilìs, usava fare con lo
stesso impasto e lo stesso ripieno del kubbeh il girdelè, ovvero un
kubbeh dalla forma triangolare e schiacciata che veniva poi cotto con
maestria sulla brace.
Prendete una porzione dell’impasto dell’involucro, posatela sul
palmo della mano e, facendo spazio, inserite la pallina di ripieno e
datele una forma triangolare.
Sistemate i triangoli sulla brace che avrete preparato, uno accanto
all’altro, e una volta cotti serviteli immediatamente. Ecco una pietanza
che ci riporta ancora una volta alle abitudini dei popoli migranti, che
sapevano come fare di necessità virtù: bastava un poco di carne e di
grano, qualche spezia e un fuoco ardente per approntare un pranzetto
nutriente e saporito.
Sinì köftè
Tortino di carne e grano
Personalmente vi consiglio una versione di kubbeh altrettanto diffusa e
saporita ma più semplice da realizzare, in cui l’impasto del kubbeh
viene steso nella teglia e cotto al forno. Questa preparazione prende
ancora una volta nomi diversi a seconda delle località medio orientali
in cui le comunità della diaspora si trovano: sinì köftesì, sinì köftè,
kibbeh bil sanieh o kubeba; in italiano possiamo definirla “tortino di
carne e grano”.
Per l’involucro
500 g di carne di vitellone macinata due volte • 1 cipolla piccola • 2 tazze e 1/2 di bulghùr fino
• burro • sale • pimento • pepe
Per il ripieno
500 g di macinato (vitellone o agnello) • 2 cipolle molto grosse • 125 g di burro o margarina •
1/2 cucchiaino di pimento • sale • pepe
Misòv kednakhntzòr
Patate e polpette al forno
Per 6 persone
1/2 kg di carne tritata • 5 o 6 patate di forma allungata • 1 uovo • 2 fette di pane a cassetta •
1 cipolla • prezzemolo • 1 punta di cucchiaino da caffè di pimento • 1 cucchiaio di concentrato
di pomodoro • olio d’oliva • sale • pepe
Maqlube
Timballo di riso con carne e melanzane
700 g di carne di vitella (la ricetta originale è con l’agnello) • 1 kg di melanzane • 3 tazze di
riso parboiled • 120 g di burro • olio d’oliva • 1 cucchiaino colmo di pimento • sale • pepe
Dalàgh
Milza ripiena
In armeno “milza” si dice paidzagh ma questo tipico e gustoso piatto
da mezè74 è conosciuto con questo termine di origine turca.
Procuratevi una milza di vitella, apritela da un lato e farcitela con
prezzemolo, aglio, cipolla e peperoncino tritati. Irroratela di olio
d’oliva e cuocetela al forno per circa trenta minuti. Servitela tagliata a
fette, come stuzzicante antipasto.
Porodikì shorbà
Zuppa di frattaglie
Ci sono una serie di piatti che mia madre e le mie zie ancora ricordano
e che talvolta cucinano, ma che sono lontani dai gusti di oggi. I tempi
cambiano e sembra quasi un’impresa impossibile riuscire a evocare la
memoria dei sapori di un’infanzia remota nel tempo e nello spazio.
Sono piatti che hanno un’origine molto antica e anche i loro nomi
sono andati perduti assieme a tanti dettagli della quotidianità della vita
famigliare. Mio nonno, rimasto vedovo con tre figlie in tenera età, non
aveva mai voluto risposarsi e si dedicava volentieri alla cucina. Ecco un
piatto che aveva portato con sé dalla sua Urfa e che preparava spesso
per le sue bimbe.
Zia Vittoria ricorda che suo padre macinava il polmone con il
tritacarne (forse perché è piuttosto faticoso tritarlo a mano), mentre la
milza, che è molto fragile, la riduceva in piccoli pezzi con il coltello.
500 g di frattaglie miste (polmone, milza, cuore e fegato) • 1 cipolla • olio d’oliva • 1 cucchiaio
di salsa di pomodoro • prezzemolo • peperoncino piccante • succo di limone • sale
Krshàk
Fagottini di trippa farciti
Pietanza a base di trippa, di cui mia madre e le sue sorelle conservano
a malapena la memoria del nome: krshàk. Ricordano invece che il
padre prendeva della trippa intera, la nettava ben bene fino a
sbianchirla, la tagliava in grossi quadrati di circa quindici centimetri di
lato e la farciva con un trito di cipollotto, prezzemolo, menta e
peperoncino. Poi, con un grosso ago e filo cuciva i bordi, e la cuoceva
in acqua bollente. La trippa dev’essere cucita senza stringere troppo i
bordi, perché nel corso della cottura tende a gonfiarsi e se si cuce
troppo stretto l’involucro potrebbe lacerarsi provocando la fuoriuscita
del ripieno. Dopo circa un’ora e mezza di cottura la trippa si toglie
dalla pentola e dopo aver oliato una teglia la si passa al forno,
aggiungendo un po’ di pomodoro e poca acqua, oppure si gusta
semplicemente condita con un saporito sugo ristretto o con dello
yogurt.
Iskembèh
Trippa con cipolle
Altro piatto a base di trippa, a tutt’oggi chiamato iskembèh nelle
comunità armeno-orientali.
300 g di trippa • 2 cipolle • 2 spicchi d’aglio • peperoncino piccante in polvere a piacere •
aglio pestato • succo di limone a piacere • sale • pepe
Dunì čemèn
Čemèn casalingo
3 cucchiai di fieno greco in polvere • 2 cucchiai di paprika • 2 spicchi d’aglio • sale • pepe •
peperoncino in polvere a piacere
Havgitòv bastërmà
Bastërmà con le uova
In una padella ponete alcune fettine di bastërmà e non appena iniziano
a scaldarsi, rompetevi sopra quattro uova. Cuocete a vostro piacere e
servite.
Dak bastërmà
Bastërmà caldo
Tagliate a fettine il bastërmà e fatelo scaldare in una padella
antiaderente, girandolo da un lato e dall’altro. Prendete del pane
lavàsh tagliato in piccoli pezzi e avvolgetevi la fettina calda.
Bastërmaì pattugnèr
Bastërmà con la pasta fillo
Una variante appetitosa per gustare il bastërmà.
1 confezione di pasta fillo • bastërmà • burro
Dak sudjùkh
Sudjùkh caldo
Tagliate il sudjùkh a fettine e fatelo rosolare in una padellina
antiaderente, ora da un lato ora dall’altro, eliminando il grasso che si
scioglierà. Servite le fettine calde col pane lavàsh. Potete anche
procedere come per il bastërmà con le uova.
Il pesce – Tzug
Un detto antico recita così: tzùgë čurùm bazàr en anùm, cioè a
dire che il pesce è ancora in acqua (non è stato ancora pescato) e
già sono in corso le trattative sul prezzo di vendita.
Le terre armene non avevano sbocco sul mare, perciò un tempo la
popolazione consumava solo il pesce d’acqua dolce che si pescava nei
laghi o nei fiumi della regione. I pescatori alternavano nella loro dieta
alimentare pesci gustosi e teneri alle carni degli agnelli che
pascolavano sui bordi dei corsi d’acqua. Così come si lasciava
essiccare la frutta per l’inverno, anche il pesce veniva spesso
conservato, sia essiccato che affumicato. Lunghe file di pesci stesi
ordinatamente l’uno accanto all’altro punteggiavano un tempo il
paesaggio delle verdi vallate d’Armenia.
È il lago di Sevan (detto anche “mare di Ghegham”, che si trova a
2000 metri sul livello del mare e a una sessantina di chilometri da
Yerevan) a conservare nelle sue dolci acque l’ishkhàn tzug, cioè, come
dice il nome stesso, “il principe dei pesci” – da ishkhàn, “principe” in
persiano, e tzug, “pesce” in armeno. Si tratta di una trota salmonata
che pesa dai duecento ai quattrocento grammi. In genere viene cotta
alla brace. Le sue carni gustose erano note oltre i confini della piccola
Repubblica e, all’epoca in cui l’Armenia era ancora sovietica, il pesce
appena pescato veniva spedito direttamente al Cremlino per la gioia
degli alti funzionari del Partito, assieme al cognac e alle meravigliose
albicocche armene.
Grazie alla prelibatezza delle sue carni, questo pesce dalle squame
rosse e nere era, in alcune regioni, tenuto in grande considerazione dal
popolo armeno, che gli attribuiva anche virtù medicinali. Si pensava
infatti che “ammorbidisse” le ossa, permettendo di ridurre in modo
naturale le fratture.81
Di questo pesce, che si catturava con le mani o con un bastone alla
cui sommità era legata una cesta, gli Armeni si cibavano
comunemente, cuocendolo alla brace e gustandolo con pane lavàsh,
non senza aver aggiunto alcune foglioline di tarkhùn, il dragoncello,
l’erba aromatica che cresce abbondante sulle montagne della
Repubblica d’Armenia. L’ishkhàn dalle carni rosate viene anche
consumato fritto e servito con fettine di limone e chicchi di melagrana,
e naturalmente al forno, dopo essere stato salato e pepato,
aromatizzato col tarkhùn, spennellato con un po’ di burro fuso e
avvolto in un foglio di pane lavàsh.
Ma l’ishkhàn non era il solo abitante delle acque; molte altre varietà
erano e sono presenti nei corsi d’acqua e nei laghetti: il luccio, il pesce
gatto, la carpa e il garmrakhàit, una specie di trota fairo. Nonostante
ciò, la cucina di tradizione non è molto ricca di ricette a base di pesce,
che resta in ogni caso un alimento piuttosto raro.
Quelle qui presentate sono principalmente ricette di pesce d’acqua
dolce: il pesce di mare è un’acquisizione successiva, ma comunque
presente, ad esempio, nella cucina tradizionale degli Armeni di Libia.
Khashàdz tzug
Misto di pesce lesso
1 kg di pesce misto di acqua dolce (storione, pesce gatto, pesce persico) • 1 cipolla • 1 kg di
patate • alloro • succo di limone • olio d’oliva • sale • pepe
Tzugì kebàb
Pesce alla brace
1 kg di pesce misto • 2-3 limoni • burro • dragoncello • sale
Tzugì arkanàg
Zuppa di pesce
Il termine arkanàg è riservato esclusivamente ai brodi di carne. Varie
sono le ipotesi sull’origine della parola, ma l’etimologia non è certa.
Alcuni studiosi la fanno risalire al termine ark, arkàh, da cui deriva il
termine “sovrano”, “regnante” ma la questione resta sostanzialmente
irrisolta.
Questa antica ricetta, che sembra uscire da un libro dedicato alla
nouvelle cuisine, ci indurrebbe a credere che possa trattarsi della
bizzarria di una ristretta cerchia di bohémien. Essa invece trae
probabilmente origine da tempi di carestia.
Cuocere con i sassi è un retaggio di antiche culture. Anche i sassi
dei fiumi e dei laghi, infatti, erano utili durante i periodi di carestia,
per insaporire l’acqua che, con l’aggiunta di poche erbe raccolte,
diventava il pasto principale della giornata.
Anche in Italia, in particolare nella zona di Livorno (ma pure in
Abruzzo), ho trovato un “brodo di sassi” – questa volta di mare – che,
raccolti dalle massaie, venivano aggiunti all’acqua con tutte le piccole
alghe attaccate sopra, per insaporirla ulteriormente insieme alle
cipolle e a qualche altra erba aromatica. Il brodo così ottenuto veniva
filtrato e vi si cuoceva la pastina.
400 g di pesce • sassi di fiume • dragoncello • olio d’oliva • sale
Haràymi
Pesce in guazzetto
Questa ricetta, tipica della comunità ebraica della Libia, è entrata
altresì nella cucina della locale comunità armena. È un ottimo modo di
cucinare il pesce, perché il cumino ne esalta il sapore e l’aglio fa il
resto. È un’acquisizione di mio nonno Ohannès, che la imparò dai suoi
vicini di casa. Mia madre e le mie zie la preparano ancora oggi tale e
quale come allora.
Per 4 persone
1 cernia tagliata a tranci (o del pesce analogo) • 2 spicchi d’aglio • 1/2 cucchiaino di cumino in
polvere • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro • 6 cucchiai d’olio d’oliva • peperoncino in
polvere • sale
Pestate nel mortaio l’aglio con il sale e fatelo appena dorare nell’olio.
Aggiungete il cumino, il concentrato, quindi il pepe. Mescolate, poi
aggiungete i tranci di pesce e cuocete per circa mezz’oretta. Se il
sughetto è molto concentrato, allungatelo con un po’ d’acqua per
ultimare la cottura del pesce.
Il latte e i suoi derivati
Lo svuotamento forzato delle terre d’Armenia dai suoi abitanti e la
cancellazione di un popolo intero in seguito al genocidio del 1915
hanno comportato la perdita di una gran parte delle tradizioni legate
fortemente al territorio, come la produzione di formaggi e altri prodotti
derivati dal latte. La loro memoria è conservata nelle trascrizioni degli
etnografi che, pur descrivendo dettagliatamente tutte le operazioni
compiute dai nostri avi, non possono restituire vita né a quei gesti né
agli strumenti usati per il lavoro agricolo e pastorale, perduti per
sempre.
Come molti popoli d’Oriente, anche gli Armeni sono stati e sono
tuttora consumatori di madzùn, lo yogurt. Questo alimento è molto
apprezzato e si usa per insaporire il cibo oltre che come ingrediente di
saporite zuppe e minestre.
Nella zona di Tersìm la mungitura avveniva due volte al giorno: le
pecore venivano munte alla sera e a mezzogiorno, le mucche la
mattina e la sera, dato che nel corso della giornata erano fuori a
pascolare. Il latte, dopo essere stato filtrato una prima volta, si
versava in recipienti di rame e veniva portato a ebollizione a fuoco
lento sul tonìr.
Il latte di pecora non veniva mescolato ad altri e veniva girato
spesso con un mestolo di legno perché era molto denso, mentre il
latte vaccino e caprino era spesso mischiato, specie se il secondo
era scarso. Dopo la bollitura veniva versato in recipienti di
terracotta e lasciato raffreddare fino a quando, mettendovi dentro
un dito, si riusciva a sopportare il calore: era quello il segno che
era giunto il momento di procedere.
Con molta cautela si toglieva la panna che si era formata in
superficie e la si metteva da parte. Col resto del latte si facevano
vari prodotti: lo yogurt, il burro, il tan, il djadjëgh e il čortàn e
anche una varietà di formaggio di fossa.82
Madzùn - Yogurt
Lo yogurt (madzùn in armeno, da madzèl, termine che probabilmente
si ricollega al mayà, ossia il lievito vivo) conserva nella tradizione un
posto d’onore. Questo latte fermentato va protetto, tenuto al riparo
dalle correnti d’aria e dagli spifferi, da quell’aria che nelle fiabe
armene è satura di minacce, il veicolo preferito dai demoni, il refolo
maligno attraverso cui si manifestano, il movimento rotatorio della
polvere che spinta dal vento gira su se stessa ed è portatrice di
sortilegi. Una volta fermentato – sarebbe meglio dire in questo caso
“fecondato” – il latte va posto al riparo e al caldo, nel calore “uterino”
della casa, il luogo che l’antica saggezza ha scavato nelle viscere della
terra, nelle cantine debitamente preparate (come per il formaggio di
fossa, che necessita di un più lungo periodo di gestazione).
A casa nostra era mio padre a fare lo yogurt. La sera, quando noi
bambini eravamo già a letto, lo sentivamo armeggiare in cucina. Era
lui che con pazienza e gesti tranquilli preparava il nostro amato yogurt
quotidiano. Eravamo ghiotti di madzùn ed era un problema controllare
che non arrivassimo a consumare anche l’ultimo fondo di yogurt che
mia madre metteva da parte come fermento per la successiva
produzione. In quelle occasioni, appena sentiva che il frigorifero veniva
aperto, ci avvisava: “Non mangiate l’ultimo barattolo: è il
damaslëgh!”83 e poi correva a salvare un paio di cucchiai della preziosa
sostanza bianca, consegnandoci il resto.
Questo prodotto casalingo è, come il miele, considerato alla stregua
di un medicamento. Unito al riso lessato serve per curare lo stomaco in
subbuglio, è rinfrescante nel periodo estivo e nutriente in inverno,
viene usato molto frequentemente come lenitivo sulla pelle arrossata,
specie sulle scottature estive: non è difficile vedere nelle case armene
qualcuno sdraiato sul letto a pancia in giù con la schiena bruciata dal
sole ricoperta da uno strato di yogurt fresco. Naturalmente in questi
casi si parla di yogurt preparato in casa, non certo di quello prodotto
industrialmente: lo yogurt – quello della mia infanzia in Libia, fatto in
casa da mio padre – non ha nulla a che spartire con quelli in vendita
nei supermercati. Era bianco come la porcellana e, se si capovolgeva il
bicchiere, non si muoveva; quando affondavi il cucchiaino aveva la
consistenza di un budino; era trasparente, mai colloso né cremoso e
assolutamente non grasso come il pur saporito yogurt greco.
Per fare lo yogurt in casa
1 l di latte vaccino intero • 2 cucchiai di yogurt intero
Tan
Bevanda di yogurt
Una bevanda gustosa a base di yogurt, molto dissetante e fresca,
particolarmente indicata nelle calde giornate estive. Oggi il termine
indica comunemente lo yogurt diluito con l’acqua, ma un tempo lo
yogurt attraversava diverse fasi di una – diciamo così – “stagionatura”
che gli conferiva più o meno acidità.
1 vasetto di yogurt • 1 pizzico di sale
Madzùn skhtòr
Salsa di yogurt e aglio
Questa salsa servirà da accompagnamento a numerose pietanze: nelle
case armene non può mancare se vengono servirti i dolmà, i mantì e
molte altre gustose preparazioni.
1 vasetto di yogurt da 250 g • 1 spicchio d’aglio • 1 presa di sale
Tarkhanà
Yogurt secco
Sebbene non sia consigliabile farsi lo yogurt secco in casa, e per
quanto lo yogurt fresco ai giorni nostri non manchi, presento
comunque un paio di ricette che possono avvicinare il lettore al modo
tradizionale armeno di conservare alcuni ingredienti senza i quali
anticamente era oltremodo difficile nutrire il nucleo famigliare.
Potremo definire il tarkhanà una variante del čortan. Qui lo yogurt
viene unito a varie qualità di farine e, in un caso, arricchito con le
uova. In uno dei libri-cardine86 della cultura culinaria armena della
diaspora si trova una ricetta che spiega bene il procedimento da
seguire per ottenere un preparato pronto per l’uso. Oggi in alcuni
grandi centri commerciali statunitensi il tarkhanà è venduto in
pratiche confezioni. Le dosi indicate qui di seguito servono a preparare
una notevole quantità di tarkhanà, al fine di conservarlo per le
necessità della famiglia durante l’anno.
900 g di farina (zero) • 900 g di fior di farina (doppio zero) • 2 l di yogurt • 1 dl di latte • 5
uova
Tarkhanabùr
Minestra con il tarkhanà
Con il tarkhanà essiccato mediante questo secondo procedimento si
passa infine a preparare la minestra.
1 cipolla • 1 cucchiaio di menta secca sbriciolata • 1 cucchiaio di burro o una tazzina da caffè
di olio d’oliva • 2 cucchiai di tarkhanà • sale • pepe
Hatz madzùn
Pane e yogurt
Un’usanza molto diffusa tra gli Armeni è quella di mangiare pane e
yogurt. Un nutrimento leggero, sano e adatto a tutte le ore del giorno.
500 g di yogurt naturale intero • 2 fette di pane casereccio, meglio se raffermo • erba cipollina
• sale
Kaladjòs
Pane bagnato nello yogurt
Con lo yogurt o il tan mio nonno Ohannès serviva alle sue figliolette
una merenda gustosa e nutriente. Si tratta del kaladjòs, assai veloce da
preparare.
1 grossa cipolla • yogurt o tan • fette di pane • olio d’oliva • noci tritate
Pandjarabùr
Zuppa di yogurt e biete
1/2 l di yogurt • una manciata di foglie di bieta • 5 cucchiai di riso • 1 cucchiaio di menta
secca • 1 cipolla • olio d’oliva • sale
Kamàdz madzùn
Crema di yogurt
L’espressione armena significa letteralmente “yogurt spremuto”. Per
ottenere questa crema di yogurt non c’è che l’antico sistema di versare
lo yogurt in un telo fine, legarlo al rubinetto del lavandino della cucina
e lasciarlo sgocciolare, oppure prendere un setaccio, stendervi un telo
fine, versarvi lo yogurt e lasciarlo sgocciolare. In questo modo lo
yogurt perde tutta la parte liquida diventando kamàdz madzùn, un
denso, candido “formaggio”, ottimo per essere consumato condito con
sale e un filo d’olio d’oliva e a piacere spolverizzato di pepe, menta
secca sbriciolata o paprika, oppure condito con un buon miele o dei
pezzetti di frutta fresca tagliata a dadini. Una sana colazione, una
buona merenda, un ottimo antipasto e un fantastico mezè.
Djadjëgh
Yogurt con cetrioli
250 g di yogurt intero • 1 spicchio d’aglio • sale
Garàk - Burro
Tra le materie grasse usate per l’alimentazione nelle regioni a
economia prevalentemente pastorale, la fa da padrone il burro, in
armeno garàk. Nella cultura pastorale armena oltre al burro si usava
anche l’olio d’oliva o di altri frutti oleosi, per esempio le mandorle,
specie nei periodi dell’astinenza rituale. Ma non c’è dubbio che il burro
restasse il grasso più diffuso e le zangole,91 utensili artigianali per
eccellenza, venivano usate quotidianamente nel periodo di massima
produzione di latte, quando il burro era preparato in grandi quantità e
conservato per l’inverno.
Nella tradizione armena antica il burro veniva impiegato
principalmente nella preparazione dei cibi, mentre l’uso del burro
fresco era riservato ai bambini. Erano le donne di casa che si
occupavano di chiarificarlo e di conservarlo in appositi vasi nella
dispensa. Diluivano il burro su una fiamma tenue e, munite di grandi
cucchiai, toglievano la patina bianca, la caseina e altre impurità dalla
superficie, ottenendo un burro chiaro che subito versavano negli
appositi vasi. Oltre che per le pietanze, il burro veniva usato nella
preparazione dei dolci, specie per rendere deliziosamente saporite le
sfoglie dei dolcetti come i pakhlavà.
Questo alimento-base era infine impiegato in alcune occasioni
religiose speciali, ad esempio quale unico ingrediente che poteva
essere aggiunto alla polenta rituale nel giorno di Surp Sarkìs, San
Sergio. Insieme al miele, il burro era considerato uno dei rimedi
naturali contro il mal di gola.
Banìr - Formaggio
I formaggi tipici erano prevalentemente preparati con latte di pecora,
di capra o latte vaccino. La comunità pastorale seguiva il gregge negli
alti pascoli e lì raccolto il latte, subito si procedeva all’immediata
trasformazione in formaggio oltre che in burro. Considerato il pane dei
poveri, era lavorato e conservato e completava il pasto invernale, in
alternativa alle pietanze preparate con la carne del ghavurmà.
All’inizio del Novecento, in Armenia occidentale92 una famiglia
poteva possedere varie tipologie di bestiame – buoi, pecore, capre
e animali da cortile – e traeva gran parte delle sue risorse dal
latte. La cura e l’accudimento degli animali era una delle
principali attività della giornata. In inverno il bestiame
condivideva la casa con la famiglia, mentre in estate spesso veniva
condotto ai pascoli in alta montagna, dove la pioggia manteneva
l’erba verde. Ciò liberava le famiglie dall’incombenza di dover
coltivare il pascolo, specie nelle zone in cui la terra arabile
scarseggiava. Spesso le donne seguivano il bestiame nei pascoli di
montagna per poter procedere alla lavorazione del latte all’aria
aperta.
Subito dopo la mungitura, bollivano il latte, poi lo sbattevano o
lo facevano fermentare. Dalla sbattitura ottenevano il burro e
dalla fermentazione lo yogurt e il formaggio; tutti questi prodotti
erano poi conservati in vasi di terracotta nel maràn, la cantina.
[ ] Dallo yogurt si ricavava una ricca varietà di formaggi bianchi.
Il procedimento era molto semplice: una volta ottenuto lo yogurt,
si faceva filtrare e con la crema che rimaneva si formavano delle
palline che, essiccate, si conservavano per tutto l’inverno. Se allo
yogurt si aggiungeva del sale, le palline non si facevano seccare,
ma si stipavano così, ancora morbide, nei vasi. Queste creme di
yogurt si potevano aromatizzare con varie spezie, origano, pepe,
menta.”93
Attualmente nella Repubblica d’Armenia i formaggi sono prodotti in
prevalenza con latte di capra o di pecora. Aromatizzati a dovere con
spezie, pepe ed erbe fresche o essiccate, finocchietto selvatico e
dragoncello, si consumano freschi o stagionati. I semi, o le erbette
aggiunte, oltre ad aromatizzare facilitano la digestione di questo
prodotto assai nutriente che il sale aggiunto rende più saporito e meno
deperibile.
Il formaggio più comune nella Repubblica d’Armenia è il lorì, che
trae il suo nome dalla regione di produzione. Numerosi e molto saporiti
sono i formaggi di fossa, chiamati horàdz banìr e prodotti con latte
bovino e ovino. Ma il formaggio più antico e prelibato è il cosiddetto
motàl di latte di capra aromatizzato alle erbe: un formaggio conservato
in recipienti di terracotta sigillati con la cera o con il lavàsh, o ancora
con le foglie di noce, che viene fatto riposare in locali sterilizzati
mediante l’accensione di fuochi.94
Purtroppo questi formaggi non sono ancora reperibili nei nostri
mercati, ma con un po’ di fortuna si possono assaggiare nell’ambito di
alcune fiere e manifestazioni internazionali dedicate a questo alimento:
un presidio di Slow food ha in corso un progetto di collaborazione con
alcuni piccoli produttori armeni di motàl.
Un altro prodotto tradizionale derivato dal latte bovino è lo hyusvàdz
banìr, formaggio dalla forma bizzarra: è infatti formato da lunghi
filamenti candidi e sodi che gli danno l’aspetto di una grande matassa
di filo di cotone.95 È particolarmente salato e viene spesso
aromatizzato con semi di nigella. La sete che stimola è prontamente
spenta dall’oghì, l’acquavite armena che sui tavoli dei mezè non può
mancare.
I formaggi armeni di tradizione sono in genere piuttosto salati:
venivano posti in salamoia in modo da essere conservati a lungo, anche
durante l’inverno, quando la produzione di latte è scarsa; per questo,
prima dell’uso, alcuni di essi vanno tenuti in acqua per qualche ora.
Il formaggio a pasta dura più diffuso veniva tagliato a pezzi e
stipato, spargendo del sale tra uno strato e l’altro, in orci di terracotta
che venivano poi calati nelle grotte o in esse interrati. L’imboccatura
del recipiente era poi chiusa ermeticamente con uno strato di cera o di
grasso. Ecco dunque la necessità di lavarlo con abbondante acqua per
togliere il sale.
Sono i nemici della salute, almeno fino a quando non verranno
scoperti i formaggi magri che al momento non esistono. E questo
perché – ha spiegato recentemente uno degli ayatollah della
disintossicazione – rimangono in bocca tre secondi, nello stomaco
quattro ore, nei glutei e nei fianchi per tutta la vita.
[ ] Sembra ormai arrivare da remote lontananze la voce di quei
medici del primo Novecento i quali, a proposito del formaggio,
saggiamente ammonivano che “al mattino è d’oro, a mezzogiorno
di argento e alla sera di piombo”.96
Le uova
Le uova sode sono le grandi protagoniste della Pasqua nelle case degli
Armeni. Un tempo, da noi, le uova di gallina avevano il guscio candido.
Mia madre, qualche giorno prima, si dilettava a colorarle e poi le
riponeva in alcuni bei recipienti in attesa della domenica di Pasqua.
A parte la Pasqua, le uova di gallina sono spesso presenti nella
cucina tipica armena. La ricetta che segue è una gustosa frittata della
mia bisnonna Ferida.97
Eggiè
Frittata al prezzemolo
La bisnonna cuoceva questa frittata saporita in un’apposita padella
suddivisa al suo interno in tante piccole forme, per cui con una sola
padellata si producevano diverse frittatine. Il nome eggiè è di
derivazione turca e significa semplicemente “frittata”.
6 uova • olio d’oliva • 1 bel mazzetto di prezzemolo • 1 cipollotto • sale • pepe nero
Sbattete le uova, poi unite al composto tutti gli altri ingredienti tritati
finemente. Mettete un po’ d’olio nella padella e fatelo scaldare, quindi
versatevi dentro il composto e cuocete a fiamma moderata finché si
sarà rassodato, poi girate la frittata e terminate la cottura.
Nei paesi di montagna si allevavano polli e colombi.
I polli per fornirsi di uova e carne, i colombi per fare il madàgh.
Non lontano dalle stalle, gom, e dalle scuderie, akhòr, c’erano i
pollai.
Nel pollaio trovavano posto sia le galline, nell’area bassa, sia i
colombi che occupavano la zona più alta ed entravano e uscivano
dalle aperture del tetto.
I colombi non si uccidevano. Li tenevano per fare il madàgh in
onore dei santi. Il sangue lo facevano uscire da un’incisione nella
zampa destra e lasciavano così nel santuario decine di corpi.
Colombi e galline venivano nutriti allo stesso modo. Spesso i
colombi però si alimentavano anche del cibo trovato nei campi e
non tornavano più, unendosi ai colombi selvatici. O al contrario
tornavano, portando con sé i selvatici. Il colombo era considerato
santo e si credeva che l’anima dell’uomo morto giovane entrasse
nel suo corpo e volasse all’orizzonte. Se capitava che un colombo
guardasse dentro il fumaiolo di una casa o entrasse nella casa,
subito si faceva un’offerta ai poveri, nella convinzione che si
trattasse del figlio morto giovane che veniva a fare visita ai suoi.98
L’uovo al servizio del formaggio. Quando, un tempo, il formaggio
veniva prodotto in casa, un piccolo accorgimento era quello di
introdurre nell’acqua un uovo: se galleggiava, la proporzione di
sale utilizzata era giusta.
Mkhlì o avinàt
Frittata con cipolle
Questa frittata con le cipolle anticamente nella zona di Mush (oggi
MusÎ) prendeva il nome di mkhlì; se vi si aggiungeva lo yogurt con
l’aglio, il nome diventava avinàt.
6 uova • 1 grossa cipolla • 8 cucchiai di olio d’oliva • 1 tazza e 1/2 di madzùn skhtòr • sale •
pepe
Havgitòv köftè
Uova lavorate in polpette
Un piatto che una volta di più richiama alla mente le montagne armene
e che viene preparato con gli ingredienti a portata di mano,
sapientemente dosati. Al contrario dell’epèl tapèl, quel modo di dire
che indica la cuoca che getta a casaccio gli ingredienti nella pentola,
qui si uniscono in dosi stabilite da secoli di pratica i diversi ingredienti
a disposizione.
1 tazza di bulghùr • 3 o 4 pomodori ben maturi • 1 peperone verde • 1 cipolla • 1 cucchiaio di
concentrato di pomodoro • 1 ciuffetto di prezzemolo • 2 cipollotti • 4 uova • olio d’oliva • sale
• pepe • peperoncino
Shakshùka
Uova all’occhio di bue con cipolle
Spesso in Libia, per le vie delle città, il profumo dei peperoncini verdi
che soffriggevano pervadeva le strade e si diffondeva nelle case,
penetrando in ogni stanza. Tutte le comunità locali, arabe, ebraiche e
italiane indistintamente, cucinavano questa veloce e profumata
pietanza.
Questa ricetta, diffusa anche nelle case della comunità armena di
Libia, resta un ricordo d’infanzia a me particolarmente caro.
La ricetta originale prevede che i peperoncini siano piccantissimi.
6 uova • 3 peperoncini verdi piccanti • 1 grossa cipolla • 500 g di pomodori freschi tagliati a
pezzetti • olio d’oliva • sale
Vospòv bulghùr
Lenticchie e bulghùr
Ancora un modo per cuocere molto semplicemente le lenticchie e il
grano spezzato. L’aroma dell’aglio e del limone renderanno questo
piatto semplice e digeribile. L’uso del succo di limone non deve
sorprendere: è molto diffuso in tutta l’area mediorientale e viene
impiegato a volontà nei sughi e negli intingoli a base di pomodoro.
2 tazze di lenticchie • 1 tazza di bulghùr • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro • menta
secca • 1 limone • aglio • sale • peperoncino
Vospòv abùr
Minestra di pasta e lenticchie
Questa minestra saporita un tempo veniva preparata aggiungendo lo
shariè, una semplice pasta fatta in casa. Questa aggiunta rende più
saporita e cremosa la minestra.
Per lo shariè
1 tazza di farina • sale
Spanàkh havgitòv
Spinaci con le uova
600 g di spinaci • 2 spicchi d’aglio • 6 uova • olio d’oliva • sale • pepe
Paklà
Fave in umido
Paklà, dall’arabo baqla, sono le fave: un alimento diffuso in tutto il
Medio Oriente. Gli Armeni, oltre a cuocerle sgranate, preparano un
piatto delizioso con le fave più tenere cotte con tutto il baccello, da cui
sprigiona un gusto ricco di profumi di erbe primaverili.
Per il suo legame col culto dei morti, nei secoli la fama “negativa” di
questo alimento è andata via via crescendo: si fantasticava sugli
innumerevoli inconvenienti che il suo consumo eccessivo poteva
arrecare, del fatto che rendesse ciechi, che favorisse la nostalgia, che
impedisse addirittura la facoltà di pensiero e via strologando. Ma il
popolo, benché incline a conformarsi a infinite credenze e
superstizioni, ha sempre continuato ad alimentarsi con le fave e a
cucinarle in grandi quantità e in tanti modi diversi.
Per 6 persone
800 g di fave fresche e tenere con tutto il baccello • 2 grossi spicchi d’aglio • 7 cucchiai da
tavola di olio d’oliva • sale
Fate cuocere il bulghùr in acqua salata con l’aggiunta dei ceci lessati.
Unite a piacere una mezza tazza di pasta fatta in casa, portate a
cottura e servite. Porterete sulla tavola, come accompagnamento, delle
ciotoline colme di tahìn e aglio pestato con una presa di sale.
Nivìg
Minestra asciutta di ceci e bietola
Per fare questo gustoso piatto vegetariano sono necessarie delle
bietoline tenerissime.
un kg di bietoline o spinaci • 1 cipolla • 1 tazza di ceci già cotti • 5 cucchiai di olio d’oliva • 2
cucchiai di concentrato di pomodoro • sale • pepe • peperoncino
Hommus
Crema di ceci
Sebbene quella che segue non sia una ricetta tradizionale della cucina
armena, fa comunque parte di quei prestiti e di quegli scambi di
cultura alimentare così frequenti nella vasta area mediorientale, ed è
ormai presente sulla tavola di moltissime famiglie armene.
Questa appetitosa salsa a base di ceci, hommus in arabo, è
largamente diffusa nella Mezzaluna Fertile e a casa nostra si fa ancora
molto spesso. Servitela come contorno a una carne o come stuzzichino
prima del pasto. Qui si indica la maniera più spiccia per prepararla,
cioè con i ceci già cotti, ma potete anche lessarli voi stessi dopo averli
messi a bagno per una notte intera.
Per 4 persone
1 scatola di ceci lessati • 1 grosso spicchio di aglio • 2 cucchiai di tahìn • 1 o 2 limoni a
seconda del contenuto di succo e del tasso di acidità. • olio d’oliva • sale
Mettete nel frullatore i ceci dopo averli passati sotto un getto d’acqua
corrente, unite l’aglio, frullate fino a ottenere una crema densa.
Toglietela dal frullatore e ponetela in una ciotola. Aggiungete il tahìn e
mescolate bene, diluendo col succo di limone.
Se il frullatore non dovesse amalgamare bene, aggiungete un po’ di
succo di limone. Assaggiate e solo adesso salate (i ceci in scatola in
genere sono già salati). Lasciate riposare almeno un’ora. Prima di
servire, assaggiate di nuovo e aggiustate di sale e di limone. Prima di
servire versate un filo d’olio e guarnite a piacere con striature di
peperoncino in polvere.
Ricordate che prima dell’uso il tahìn va un po’ mescolato perché
l’olio contenuto nei semi di sesamo tende a venire in superficie e a
separarsi dalla polpa.
Loligì salàd
Insalatina di pomodori
Aghdzàn, il termine armeno per indicare l’insalata, in casa nostra non
era usato: gli si preferiva il termine salàd, anch’esso peraltro molto
diffuso nelle case armene.
Le insalate di verdure fresche sono molto indicate per
accompagnare i pilàf, la carne e molto di ciò che viene servito in
tavola. Possiamo dire a ragione che sono il corrispettivo delle crudités,
con l’unica differenza che questi ortaggi spesso sono tagliati e conditi
variamente. Pomodori, cetrioli, cipolle, cipollotti, prezzemolo, ravanelli
e rucola vengono presentati nei modi più disparati. I cetrioli croccanti
sono spesso tagliati a rondelle, salati e irrorati di succo di limone; i
cipollotti ben lavati vengono tritati sui pomodori affettati o lasciati
interi; spesso anche le comuni cipolle bianche o rosse, lavate e tagliate
in quattro, sono in bella vista sulla mensa. A seconda del tempo e dello
stato d’animo di chi le prepara, tutte queste verdure possono essere
combinate insieme a piacere e consumate ben condite.
Questa insalatina accompagna molte pietanze; provatela per
esempio con il midjèddere.101
2 pomodori da insalata rossi e ben sodi • alcune foglie di menta fresca • 1 ciuffetto di
prezzemolo • 1 piccola cipolla o cipollotto fresco • limone • olio d’oliva • sale
Lupiaì salàd
Insalata di fagioli
500 g di fagioli lessati • 1 cipolla • sale • succo di limone • prezzemolo • olio d’oliva • pepe
Baghdanusìye
Crema di tahìn e prezzemolo
Anche questa crema acquisita della cucina mediorientale accompagna
bene tutte le carni e il pesce. Spesso è servita come antipasto nel
mezè.
1 bel ciuffo di prezzemolo • 1 spicchio d’aglio • 1 limone • 2 cucchiai di tahìn • peperoncino •
olio d’oliva • sale
Imàm bayëldì
Melanzane stufate
Questa che segue è una ricetta a base di melanzane. Piccole,
piccolissime e grandi, grosse e fini, viola scuro e viola chiaro, le
melanzane sono diffusamente usate nella cucina armena. Se ne
trovano anche di minuscole che, farcite di aglio e spezie e messe
sott’olio, entrano di diritto a far parte dei più deliziosi mezè.
Le melanzane più adatte per l’imàm bayëldì devono essere lunghe e
sottili, e vanno tagliate in due o tre parti. Nei mercati italiani è molto
difficile trovare delle melanzane con queste caratteristiche, per cui
usate quelle di cui disponete.
4 melanzane • 4 spicchi d’aglio • 7 cucchiai di olio d’oliva • 2 cucchiai rasi di salsa di
pomodoro diluita • sale
Babaghannùsh
Crema di melanzane
Le melanzane, in armeno smpùg, a casa nostra sono sempre state
chiamate col termine arabo badinjàn. Questo nome ha un curioso
significato: deriva dal termine arabo bâdal-jân, che significa “il djìn
(cioè “il demonio”) vi ha deposto le uova”. Sono stati gli Arabi a
introdurre la melanzana in Italia, dove il termine badinjàn viene
incrociato con la parola mela, da cui melangiàn e infine “melanzana”.
Ma secondo un’altra interpretazione, questo ortaggio – che non può
essere consumato crudo – venne definito “mela insana”, da cui il nome.
Resta il fatto che, qualunque sia l’origine del suo appellativo, si tratta
di un ottimo ortaggio che ci accompagna per tutta l’estate e che nella
cucina armena, come in quella mediterranea, è presente e gustato in
molti modi: fritto, ripieno, alla brace, in insalata, al forno.
L’appetitosa crema che si presenta qui, a seconda delle zone di
diffusione viene chiamata in alcuni paesi arabi anche mutàbbal.
2 melanzane viola medie • 2 cucchiai da tavola di tahìn • 2 spicchi d’aglio • 1 limone • olio
d’oliva • sale
Dabgvàdz badinjàn
Melanzane fritte
2 grosse melanzane • 1 spicchio d’aglio • 1 ciuffetto di prezzemolo • qualche foglia di menta •
olio d’oliva • aceto
Kednakhntzorì salàd
Insalata di patate
Un contorno gustoso che accompagna bene la carne alla brace.
5 patate • 1 ciuffo di prezzemolo • 1 cipolla • sottaceti misti • olio d’oliva • sale • pepe
Mičugòv gangàr
Carciofi ripieni di carne
6 carciofi • 500 g di macinato di vitellone • 1 ciuffo di prezzemolo • 1 cipolla • 1 spicchio
d’aglio • 1 uovo • un po’ di mollica di pane • olio d’oliva • sale • pepe
Ghapamà
Zucca ripiena
1 zucca di medie dimensioni • 2 tazze di riso lessato • 1 manciata di uvetta • 2 cucchiai di
mela a pezzetti • 2 cucchiai di prugne gialle secche a pezzetti • 2 cucchiai di zucchero o miele
• 1 bicchiere di mandorle o noci tritate • cannella in polvere • 150 g di burro • olio d’oliva •
sale
Krčìg
Zuppa di cavolo
Un piatto di magro molto diffuso nella Repubblica d’Armenia è il krčìg,
il cui sapore predominante è quello della verza sottaceto. Questo
ingrediente sembra essere un elemento acquisito in epoca sovietica,
prodotto nelle case di campagna e conservato per l’inverno in barili di
legno, accanto ai mucchi di patate. Il krčìg è stato per molti anni il
pasto principale delle classi lavoratrici. Spesso questo piatto è
arricchito con cipolle e aglio, due aromi eccellenti per profumo e
sapore.
1 cavolo medio • 1 grossa cipolla • 3 patate • 2 spicchi d’aglio • 1 cucchiaio di pomodoro
concentrato • un paio di cucchiai di olio d’oliva • 1 l di acqua o brodo (di pollo, carne o
vegetale) • sale • pepe
Turshì - Sottaceti
Con questa parola presa in prestito dal persiano, gli armeni in diaspora
chiamano i sottaceti. Rape, carote, peperoncini verdi piccanti, cimette
di cavolfiore e cetriolini, onnipresenti al momento del mezè,
accompagnano spesso anche un frugale pasto. Nella Repubblica
d’Armenia il termine che indica i sottaceti è tëtvàdz. A casa di mia
nonna, ad Amman, i turshì per antonomasia erano i meravigliosi
sottaceti fatti con le rape bianche.
Shoghkamì turshì
Rape sottaceto
Si trattava di una merenda saporitissima, e valeva la pena di
arrampicarsi fino ai vasi di vetro che nella cucina di nonna Khanùm
erano ben disposti su un alto ripiano. Questi sottaceti dal colore rubino
accompagnano bene le zuppe, e sono un delizioso stuzzichino da
consumare accanto alla carne.
5 grosse rape bianche • 1 piccola barbabietola • 5 dl di aceto • 3 grossi spicchi d’aglio • 2
cucchiai di sale fino
Zeytùn - Olive
Quando arrivavano le prime olive in città, mio padre acquistava
preferibilmente quelle grosse e verdi, ed era bellissimo per noi
bambini aiutare i grandi a metterle sotto sale. Dunque ci si
organizzava così: dopo che mia madre le aveva sciacquate per togliere
qualche residuo di terra, mio fratello e io, con un grosso pestello o un
piccolo martello, dovevamo schiacciarle una a una dando loro un colpo
secco. Quindi si mettevano in un grande vaso di vetro colmo di acqua e
sale. La quantità di sale era regolata dall’immersione di un uovo: se
galleggiava era salata a dovere, se andava a fondo si continuava a
salarla. Poi il vaso veniva riposto in un luogo buio; dopo una settimana
circa la salamoia si rinnovava, le olive avevano già perso il loro sapore
amarognolo e di tanto in tanto cominciavano a comparire sulla tavola.
Aglio e prezzemolo erano i condimenti basilari di queste meravigliose
olive.
Spezie ed erbe aromatiche
Il fumo degli antichi sacrifici, l’essenza dell’animale sacrificale che
saliva in alto verso gli dèi, o l’incenso che viene donato al Bambino
Gesù, sono elementi che ci introducono in quel mondo di profumi che,
col passare del tempo, si sono aggiunti e mescolati sulle braci dei
templi e sulle are sacrificali.
L’uso di spezie ed erbe aromatiche deriva da un’antica, profonda
conoscenza della natura e del territorio. Come si accendevano i fuochi
nelle cantine per prepararle ad accogliere il formaggio, così il fumo
profumato dei balsami bruciati serviva a scopi terapeutici. La presenza
nella cucina e nella medicina tradizionale di alcuni aromi ci fornisce
informazioni preziose sulla vegetazione presente nei vari paesi, mentre
la presenza di elementi estranei – cioè non legati a quel territorio
specifico – suggerisce l’influenza di una rete di scambi e relazioni con i
territori confinanti.
Molte erbe e bacche costituivano rimedi che, tramandati dal
passato, sono ancora oggi in uso presso tante famiglie armene: una
sorta di medicina di tradizione a cui molti ancora si affidano per
alleviare piccoli malesseri. Circa le piante officinali si sa che erano
tenute in grande considerazione e venivano coltivate per le loro
proprietà fin da epoche remote. Gli storici raccontano che i sovrani
d’Armenia ordinavano di prestare particolare cura nella coltivazione di
molte di queste preziose piante, tra cui figurano la Bryonia alba e la
Nigella sativa, a cui erano riservate specifiche aree dei loro giardini.103
Agh - Sale
Sebbene non si possa considerare una spezia, questo elemento
fondamentale dell’alimentazione umana quotidiana è ritenuto nella
tradizione armena essenziale e purificatore. Il sale è ciò che l’animale
sacrificale deve mangiare prima del sacrificio per rendersi pronto
all’offerta. Nella tradizione armena l’agh viene solennemente definito
ashkharì hàm, “il sapore del mondo”. Sulla tavola imbandita, un tempo
si conservava entro alcuni curiosi contenitori di terracotta o ceramica
o legno. Oggi queste saliere tradizionali si trovano in vendita nella
Repubblica d’Armenia, nei mercati all’aperto e nei negozi di souvenir;
la loro forma è per lo più quella di una donna panciuta, secondo alcuni
incinta,110 che nel ventre conserva il più candido e prezioso frutto della
terra, il salgemma, diffusissimo nelle profondità della terra armena.
Nel corso del suo viaggio in Armenia, nella primavera del 1930, anche
Mandel’stam non può fare a meno di notare queste tradizionali saliere
dalla strana foggia:
“A B’jurakan comprai una grossa saliera di terracotta che poi mi
diede un bel po’ di grattacapi. Immaginate una rozza forma per dolci –
una donna in crinolina o robe ronde con una testina da gatto e una
grossa bocca rotonda poprio al centro della gonna, un’apertura in cui
si poteva agevolmente infilare la mano.
“Una fortunata trouvaille della peraltro ricca famiglia di oggetti di
questo genere. Ma la carica simbolica che la fantasia primitiva le aveva
impresso non sfuggiva neanche alla superficiale attenzione dell’uomo
di città”.111
Prima di coricarsi non mangiavano aglio, per non disgustare
l’angelo custode e non farlo allontanare.112
Frutti prelibati
Si sa che la piana dell’Ararat era una terra fertile e veniva
amorevolmente lavorata dai suoi abitanti. Fin dall’antichità l’Armenia
era ricca di molte varietà di frutta: uva, fichi, mele cotogne, corniole
(da cui si ricava ancor’oggi una grappa profumata), more di gelso,
pesche, melograni, meloni, angurie e prugne, comprese le tamòn, una
prelibata varietà di Damasco. E ancora: albicocche, arance e giuggiole,
senza contare le pere e le mele che erano le più degne di comparire in
tavola e che nel Medioevo armeno venivano servite con solennità nei
fastosi banchetti di corte. Nello stesso periodo, particolarmente
prezioso era ritenuto il melone, mentre la mela cotogna si usava più
per scopi curativi e veniva di solito consumata essiccata. Un posto
specifico aveva sulla tavola la frutta secca, detta cir, che si serviva a
fine pasto.
L’anguria, o cocomero – in armeno tzumerùg – è un frutto molto
apprezzato perché dissetante e zuccherino. Dalla descrizione di
William Saroyan, là dove parla del cocomero, possiamo capire molto di
più sull’importanza che aveva e che ha tuttora questo frutto. “Avevo
undici o dodici anni, forse di più, poco importa; ad ogni modo lavoravo
nello studio di mio zio come ragazzo d’ufficio. Tutto il mio lavoro
consisteva nell’andar fuori a prendergli un cocomero freddo che lui poi
tagliava sopra il mio tavolo. Lui mangiava la metà più grossa e dava da
mangiare a me la metà più piccola. Se un cliente veniva a trovarlo
mentre si mangiava il cocomero, io dicevo al cliente che mio zio era
molto occupato e lo pregavo di aspettare nella sala d’aspetto o di
tornare di lì a un’ora”. Saroyan descrive poi la visita presso lo studio di
suo zio del generale Antranig, eroe della resistenza armena all’epoca
del genocidio, e di come lo zio si preoccupò di offrirgli
immediatamente un bel cocomero rosso.113
Nelle comunità pastorali e contadine, quando non esistevano i
negozi di frutta e verdura e nella stagione invernale i contatti con le
altre comunità erano difficoltosi, l’estate era la stagione dedicata alla
preparazione delle conserve per l’inverno.
Albicocche, mele, prugne, pere e more di gelso erano i principali
frutti conservati. Sui candidi lenzuoli di mussolina, sotto i raggi del
sole, c’era stesa ad asciugare la polpa cotta di molti frutti succosi; si
preparava così il bastègh che, una volta asciutto, veniva tagliato a
pezzi e conservato per l’inverno. A seconda della tradizione famigliare,
lo spessore di questa “conserva” poteva essere più o mento alto. Oggi
in commercio si trova il bastègh in sfoglie sottili. Il mio preferito è
quello di salòr, la prugna; ma ottimo è anche quello di tziràn,
l’albicocca armena, di un caldo color arancio. Con il succo d’uva inoltre
si prepara l’anùsh sudjùkh, il delicato dolce farcito di noci fragranti, un
sistema per preservare a lungo questi due preziosi prodotti della
natura.
Attraversando i villaggi della Repubblica d’Armenia non sarà difficile
scorgere sulle terrazze o sui balconi lunghe collane appese che
ricordano un po’ le trecce dei fichi secchi del sud Italia, farciti di
mandorle, legati l’uno all’altro e appesi ad asciugare.
Tziràn - Albicocca
Il suo nome scientifico è Armeniaca vulgaris o Prunus Armeniaca e
furono i romani a introdurla in Europa quando arrivarono in Armenia
per combattere al fianco del re Tigrane degli Arshaguni. La
chiamarono così per la sua vaga somiglianza con la prugna e la
portarono a Roma. Non solo saporito ma anche profumato, così
scriveva Plinio di questo frutto prelibato: Ab extrema gente Armeniaca,
quae sola et odore commendatur.114
Gli Arabi invece la paragonarono alla mela, chiamandola tuffah el
armani, cioè l’Armeniacum malum, mentre nei dintorni di Napoli è
detta “mela d’oro”; a Roma, ancora oggi, in qualche mercatino
compaiono dei cartelli scritti col gessetto in cui si dà a questi frutti
dorati il nome di “armene”.115
Nella tradizione armena l’albicocca è un frutto particolarmente
amato, probabilmente per le sue molteplici proprietà curative. Gli
alberi e i frutti di albicocco sono citati nei canti popolari, ed è sotto la
folta fronda carica di frutti d’oro che sbocciano gli amori. Le gote
vellutate delle giovani fanciulle a cui si dedicano canti sono paragonate
proprio alle albicocche.
Tziranì kodì, letteralmente “cintura di albicocco”, indica
l’arcobaleno, dziadzan, richiamando così le sfumature della buccia del
frutto, che vanno dal color porpora all’arancione.
Nella narrazione del mito della nascita del dio Vahàgn, una tra le
divinità più importanti dell’Armenia precristiana, fin dai primi versi
compare il termine tzirani, per descrivere la colorazione purpurea del
mare e della terra in quel magico momento:
Bastègh
Dolci sfoglie di frutta
Si prepara tradizionalmente facendo bollire del succo di albicocche o
di prugne120 con zucchero o miele; quando è sufficientemente denso, si
stende su un telo e lo si lascia seccare al sole. Una volta rappreso
bene, lo si taglia in piccoli pezzi e lo si conserva per l’inverno. La
ricetta che riportiamo qui è la preparazione casalinga che produce una
gustosa e saporita sfoglia. È un procedimento che richiede tempo e
spazio per riporre e attendere l’essiccatura della frutta.
2 kg di albicocche • 1,4 kg di zucchero
Nur - Melagrana
Questo frutto dal colore rosso intenso è il simbolo stesso di tutta
l’Armenia, ed è spesso rappresentato negli antichi manoscritti, oltre a
essere raffigurato nei khačkàr121 insieme all’uva e ai suoi tralci. Frutto
unico nel suo genere, rosseggia tra le fronde verdi dell’albero,
maestoso e regale. Secondo una credenza diffusa, il frutto contiene
esattamente 365 grani, uno per ogni giorno dell’anno.
Il grande regista armeno Sergeij Paradjanov,122 che ha sempre
lavorato intorno alle radici più profonde della raffinata cultura armena
antica, nel suo capolavoro Il colore della melagrana – Sayàt Novà,
amato da tutti i cinefili, mette in scena fin dall’inizio proprio la
melagrana, quasi a voler indicare la temperatura simbolica di questo
frutto per gli Armeni. Il film si apre infatti con l’immagine di un
pugnale che, fendendo una melagrana, ne fa schizzare il succo, che a
sua volta intride di rosso sanguigno il telo posto sotto il frutto; la
macchia si dilata disegnando i confini dell’Armenia lacerata, mentre i
chicchi si sparpagliano oltreconfine: è un riferimento trasparente al
genocidio, al sangue versato e alla diaspora.
Nel folklore armeno, la melagrana è legata ai concetti di
abbondanza e fertilità. Non a caso la novella sposa, secondo la
tradizione, la lancia su una parete, disperdendone i chicchi.
In cucina, i suoi grani brillanti dal sapore asprigno decorano i pilàf
dei giorni di festa, e le caraffe con il suo succo dissetante color rubino,
poggiate sulla tavola, sono ancora oggi nutrimento e gioia per gli
occhi.
Nurì hyùt
Succo di melagrana
3 melagrane • 200 g circa di zucchero
Khaghògh - Uva
L’uva (khaghògh in armeno), i cui tralci ornano gli antichi manoscritti e
le facciate in pietra delle chiese, è il frutto che per tradizione gli
armeni non mangiano prima dell’Haghoghorntiàn, la cosiddetta
“benedizione dell’uva”.
Si tratta di uno dei tanti riti saldamente radicati nella cultura
popolare che risalgono ad antiche tradizioni e che fanno parte del
calendario liturgico armeno. Questa cerimonia deriva molto
probabilmente da un’antica festa dedicata ad Anahìt, la dea della
fertilità venerata dagli Armeni prima della conversione al
cristianesimo. Non sappiamo quando nasce la consuetudine dell’offerta
rituale dei primi frutti maturi al Signore, ma sappiamo che nelle
province armene meridionali, dove la vigna era precocemente carica di
grappoli maturi, questo rito coincideva con la festa del Vartavàr (la
Trasfigurazione, festa mobile, che cade in genere verso i primi di
agosto). Attualmente questo rito si celebra verso la metà del mese di
agosto, e coincide nel calendario liturgico armeno con l’Assunzione di
Maria.123 Prima di allora gli Armeni, per consuetudine, non consumano
uva. Tuttavia al giorno d’oggi, con la pratica della coltivazione in serra
e la conseguente reperibiltà della frutta in ogni momento dell’anno,
diventa sempre più complicato mantenere viva questa tradizione.
Riguardo al rito in sé, sappiamo che anticamente il sacerdote
camminava per la vigna con un paio di forbici nella mano destra e un
crocifisso nella sinistra e chiedeva al Signore di benedire le vigne e di
salvarle dalla siccità, dal gelo, dalla grandine, dai venti e dagli insetti
dannosi. Alla fine di questa breve cerimonia i partecipanti si
scambiavano i migliori auguri per un buon raccolto, e si usava anche
riservare agli uccellini alcuni grappoli, che venivano appesi a tale
scopo sulla sommità di alte pertiche.
Oggi, specie nelle grandi città e nelle comunità della diaspora, i
fedeli portano l’uva nella loro chiesa e la dispongono sull’altare. I
sacerdoti officianti e tutto il popolo pregano il Signore di benedire il
frutto, i campi e tutte le terre dove gli Armeni lavorano e vivono.
Alla fine della cerimonia l’uva benedetta viene distribuita ai fedeli.
In questa occasione di festa, nella Repubblica d’Armenia si prepara,
se il tempo lo permette direttamente nei campi all’aperto, il
tradizionale shpòt, la farina cotta nel latte o nel toshàp, un ingrediente
simile al mosto d’uva che viene poi irrorata a piacere con burro fuso e
che, a seconda dei gusti, si può salare o zuccherare.
L’uso del succo d’uva era assai diffuso nella tradizione antica. Con
questo succo si preparavano diverse leccornie, come per esempio il
bastègh d’uva: al succo si univa della farina, si faceva cuocere e, una
volta raggiunta una certa consistente densità, si stendeva su teli di
lino, si livellava a un’altezza di circa mezzo centimetro e si lasciava
asciugare, poi il foglio di succo ormai rappreso si arrotolava su se
stesso e lo si conservava in appositi canestri.
L’anùsh sudjùkh è uno dei modi tradizionali per conservare il succo
d’uva. Possiamo avvicinare questa delizia armena al più conosciuto
lokhùm, il dolce così diffuso in Medioriente.
Il lokhùm è un dolce delicatissimo diffuso in tutto il Medioriente,
ed è farcito tradizionalmente con frutta secca, in particolare
pistacchi, mandorle e noci. In genere è aromatizzato alla rosa o
alla mastica, un gusto tra i più classicamente orientali, soave e
con delicate note di incenso. La mastica, conosciuta anche come
“mastice di Chio” perché cresce soprattutto sulle pendici rocciose
di questa isola, è la tradizionale “gomma da masticare” dei greci:
una resina che si estrae incidendo la corteccia dei fusti e dei rami
di una particolare pianta, e che viene masticata per profumare
l’alito. Oltre ad avere un sapore gradevolissimo, la mastica
possiede proprietà curative eccezionali.
Oggi anche da noi in Occidente i negozi di delicatessen
internazionali sono spesso provvisti di molte varietà di lokhùm,
aromatizzate con i frutti più stravaganti. Ne ho visto persino uno
al cocco e uno alla fragola! È impressionante notare come alcune
ricette tradizionali vadano incontro, per il tramite delle mani di
abili commercianti, a trasformazioni che nessuno un tempo
avrebbe osato nemmeno immaginare. Torna alla mente a questo
proposito il celebre “gelato al puffo”, dal colore blu intenso, che
andava tanto di moda qualche anno fa, proposto persino nei
“templi” riconosciuti del gelato italiano di tradizione
Anùsh sudjùkh
Sudjùkh dolce
Procuratevi innanzitutto delle ottime noci sgusciate, secche ma non
troppo, con la buccia fine ma che non tenda all’amaro. Dividetele in
tante metà e fatene una collana infilandole una per una con l’ago in un
filo di cotone e immergete il tutto per qualche istante nel succo d’uva,
che sarà stato fatto bollire fino a raggiungere una notevole densità.
Estraete la “collana” e attendete che lo sciroppo si rapprenda un po’.
Ricominciate da capo e ripetete il procedimento finché attorno alle
noci non si sia formato uno spesso strato di succo d’uva. Rifinite con
polvere di pshòd (un frutto dalla polpa secca, “polverosa” e
zuccherina) e lasciate asciugare in un luogo aerato. Conservate al
fresco e all’asciutto. Una versione ugualmente diffusa consiste
nell’avvolgere le noci in un morbido strato di sciroppo d’uva seccato,
preparato come per il bastègh (vedi sopra): si otterrà così un rotolo
dolce che, sistemato su un vassoio e coperto con un telo fine, servirà
per un più rapido consumo. L’anùsh sudjùkh, per essere considerato
davvero eccellente, deve mantenere una certa morbida consistenza.
Khntzòr - Mela
“Che dal cielo cadano tre mele: una per chi ha narrato, una per chi ha
ascoltato e una per il mondo intero”: così si concludono le fiabe
tradizionali armene, facendo scendere sull’intero uditorio infantile
questa antica formula di benedizione. In queste fiabe, d’altronde, tutti
gli eroi, i principi e le fanciulle sono alla continua ricerca delle “mele
dell’immortalità”. È sul melo del giardino del re che il serpente arriva
per mangiarle non appena sono mature, ed è da lì che si snoda
l’avventura dell’eroe che deve sconfiggere il demone-serpente e
salvare il prezioso raccolto. Le mele dell’immortalità saranno citate
persino da Alessandro Magno, il quale, giunto in India alla ricerca
dell’acqua della vita, narra di mele capaci di prolungare la vita dei
sacerdoti fino a quattrocento anni.
Il melo o “pomo” – come si definiva la mela in tempi antichi – è forse
l’albero più conosciuto al mondo, e anzi per molte culture rappresenta
l’albero per eccellenza. Non fa eccezione naturalmente la tradizione
cristiana, in cui il frutto proibito dà inizio addirittura alla vita terrena
dell’uomo che, infranto il tabù, viene cacciato dall’Eden.
Da simbolo di vita eterna a simbolo di potenza: i regnanti armeni
usavano porre in cima allo scettro un pomo finemente cesellato, che in
seguito farà la sua comparsa sul bastone pastorale dei vescovi armeni;
la croce poggia infatti su una base rotonda chiamata khntzòr, cioè
“mela”.
È dell’XI secolo una leggenda secondo cui la pera, invidiosa della
mela e della sua posizione regale, le disse: “Sei un frutto così comune!
Come mai i re ti hanno messo sul loro scettro?” E la mela indispettita
rispose: “Io sono rotonda e profumata! Non mi invidiare: anche se tu
fossi stata d’oro, non ti avrebbero messo sulla tavola dei signori!”124
La mela, in particolare quella rossa, mantiene un posto d’onore nei
canti tradizionali. Quale armeno non ricorda i primi versi della canzone
Khntzorìn dzarìn dagë, Sotto l’albero del melo, che evocano i momenti
felici dell’innamoramento?
Ed è questo stesso frutto che i giovani offrivano alle fanciulle come
segno del loro amore: “Un tempo i ragazzi in età di matrimonio
passeggiavano lungo le rive del fiume Eufrate e, lontani da sguardi
indiscreti, incontravano presso la fontana la loro amata intenta a
riempire d’acqua la brocca. Il giovane, senza proferire parola, faceva
rotolare ai piedi della prescelta una mela rossa come segno del suo
amore”. E un canto raccolto dalla viva voce di alcuni abitanti delle
campagne recita: “Ho una mela morsicata / Nel punto del morso è
d’argento / Mio fratello l’ha voluta ma non gliel’ho data / L’ho data al
mio amore”.125
Ancora ai nostri giorni, nella Repubblica d’Armenia è viva l’usanza, da
parte della famiglia dello sposo, di inviare alla famiglia della sposa,
passato qualche giorno dalle nozze, un vassoio con delle belle mele
rosse per manifestare simbolicamente la gioia e l’apprezzamento per il
nuovo membro della famiglia.
Armàv - Datteri
Per fare questa conserva i datteri devono essere maturi, freschi, sodi e
profumati. Cercate nei negozi di frutta e verdura tra le primizie e
scegliete quelli più belli.
Se vedete che esternamente non sono puliti, passateli velocemente
sotto l’acqua, anche se in realtà sarebbe meglio non farlo. Se sono
buoni si sbucceranno facilmente tenendoli tra il pollice e l’indice e
spingendo fuori la polpa. Altrimenti spellateli delicatamente aiutandovi
con un coltellino affilato. Non li schiacchiate e non deformate la polpa.
Con un utensile sottile (ad esempio l’impugnatura di un cucchiaino:
anche se noi usavamo a questo scopo una matita non temperata),
spingendo da un’estremità, possibilmente dall’attaccatura al picciolo,
togliete il nocciolo e inserite al suo posto una mandorla grande. Se le
mandorle sono piccole potete inserirne più di una.
A parte fate uno sciroppo con un paio di bicchieri d’acqua e lo
zucchero e unitevi la cannella. Quando lo zucchero è completamente
sciolto e inizia a bollire, unitevi i datteri e a fiamma dolce fateli
cuocere. Una volta cotti (verificate la cottura con uno stuzzicadenti),
sistemateli uno per uno in un vaso, versate anche lo sciroppo e
chiudete bene. Non è necessario che lo sciroppo copra completamente
i datteri. Infine aspettate almeno due settimane per offrire la conserva
ai vostri ospiti.
Questi datteri sono ottimi a fine pasto o all’ora del tè. Serviteli con
una forchettina da dolce mettendone in un piattino uno o due e
versandovi sopra un cucchiaino dello sciroppo.
Anùsh ëlla: che ti sia dolce.
È il modo di dire più comune tra gli armeni quando il
commensale apprezza il cibo offerto. In esso è contenuta tutta la
cura che si deve a una persona cara come un ospite, che trova
rifugio momentaneo nella nostra casa e a cui viene offerta una
parte del nostro cibo, non importa se ricercato o comune. È allo
spirito, più che al corpo, che questa formula vuole riferirsi: “che ti
sia dolce dentro”.
Alcune formule di cordialità:
Parì egàk: siate i benvenuti
Hrametzèk: prego, servitevi; accomodatevi
Parì akhorjàg: buon appetito
Saluti alla partenza degli ospiti:
Yertàk paròv: andate col bene
e la risposta:
Mnàk paròv: restiate nel bene.
Complimenti molto diffusi degli ospiti alla padrona di casa per la
bontà dei suoi piatti:
Tzerkèrt ganadjìn: che le tue mani siano sempre fertili.
Tzerkèrt talàr: che le tue mani rechino sempre l’abbondanza.
Nella letteratura i termini bazmakàn o bazmazàn designano i
tappeti annodati e questa stessa designazione introduce la
nozione di prendere posto o di mettersi a tavola. Oggi il termine
indica il commensale, il convitato e si riferisce al tappeto in
quanto spazio sacro, luogo d’autorità al quale l’ospite conferisce
un significato alto.126
L’ospitalità armena è notoria, l’accoglienza dello straniero – ospite per
eccellenza – è un tratto del carattere del nostro popolo. In virtù di
questo profondo senso dell’ospitalità, non esistono in armeno
espressioni paradossali di saluto come quella, diffusa tra gli Abkhazi,
che suona: bziala cheaabeit! Questa espressione significa all’incirca:
“Che il nostro incontro sia un evento felice! Che il vostro arrivo sia
piacevole!” Non si tratta tuttavia di un semplice saluto, ma di
un’originale formula incantatoria che permette di prevedere la
condotta degli sconosciuti; se costoro vengono con intenzioni cattive, a
quel saluto possono rispondere con una minaccia: “Quale che sia il
modo in cui ci consideriate, male o bene, siamo venuti!”127 Per gli
Armeni l’ospite è sacro e viene ricevuto nella casa con sincero piacere.
A lui sono destinati i migliori prodotti della dispensa e la condivisione
del pasto assume un particolare sapore di letizia e di felicità. Ecco una
dettagliata descrizione di Alexandre Dumas che visitando la città di
Astraka128 gode dell’ospitalità di una famiglia armena la quale, per
onorare l’ospite, offre le più deliziose confetture di frutti prelibati. “La
prima famiglia alla quale fummo presentati o, piuttosto, che ci venne
presentata, era armena: era composta dal padre, dalla madre, da tre
figlie femmine e da un maschio. Questa brava gente aveva fatto molte
spese per riceverci. Trovammo il maschio impegnato alla brace [ ]
Mentre le tre ragazze e la madre avevano riempito la tavola di
confetture d’ogni sorta e di uva di tre o quattro tipi diversi. Mi avevano
assicurato che ad Astrakan si potevano trovare ben quarantadue
qualità diverse di uva. Quanto alle confetture, dubito che ci sia al
mondo un popolo che sappia fare meglio degli armeni. Ne ho mangiate
di cinque tipi: confettura di rose, confettura di zucca, confettura di
ravanello nero, confettura di noci e confettura di asparagi. Forse non vi
spiacerà sapere come si fanno queste confetture. Eccovi le ricette:
Confettura di rose. Si fanno sbianchire i petali di rosa nell’acqua
calda; poi si fanno bollire i petali bianchi nel miele fino a che non siano
cotti, cioè quando sono diventati gialli. Allora si aggiunge la cannella in
polvere e si versa il tutto nei vasi.
Confettura di zucca. Si fanno sbianchire i tranci di zucca in acqua e
calce per tre giorni; poi per altri sei giorni si lasciano a bagno
nell’acqua fredda, che si cambia due volte al giorno; li si insaporisce
con la cannella, li si fa cuocere nel miele, e li si sistema nei vasi.
Confettura di ravanello nero. Si gratta la radice, come si fa per il
rafano; si lascia in ammollo per tre giorni in acqua, cambiandola due
volte al giorno. Il quarto giorno, lo si sbianca nell’acqua calda, lo si
schiaccia con un tovagliolo per far fuoriuscire tutta l’acqua, fino
all’ultima goccia, quindi lo si insaporisce con la cannella e lo si fa
cuocere nel miele.
Confettura di noci. Si prendono le noci verdi, si toglie il mallo fino al
guscio, si mettono i gusci nell’acqua con la calce per tre giorni, poi si
tolgono e si lasciano sei giorni nell’acqua fresca e un giorno nell’acqua
calda; infine si fanno cuocere nel miele con la cannella.
Confettura di asparagi. Si grattugiano gli asparagi [ ], quindi si
mettono nell’acqua lasciandoli bollire per dieci minuti; poi li si
immerge nell’acqua fredda e li si lascia per due giorni, rinnovando
l’acqua due volte al giorno; infine si insaporiscono di cannella e si
fanno cuocere nel miele.
Come si può notare, la cannella è un ingrediente indispensabile.
Tutti gli orientali adorano la cannella e non possono farne a meno,
come i russi per il finocchio, i tedeschi per il rafano, e noi francesi per
la senape. Quanto al miele, lo si impiega a causa dell’alto costo dello
zucchero, che viene venduto a circa tre franchi la libbra. Ma non c’è
bisogno di dire che la confettura a base di zucchero è di qualità
superiore rispetto a quella a base di miele”.129
Era una tradizione diffusa in tutto il Medio Oriente, quindi anche
nella nostra famiglia, quella di non restituire mai vuoto il piatto
colmo di cibi che i vicini di casa ci avevano inviato per condividere
con noi la gustosa pietanza. Si rimandava il piatto pulito e sempre
colmo di qualche dolcetto fatto in casa, di caramelle o di frutta
fresca.
Nush - Mandorla
Come poter descrivere il profumo delle mandorle tostate che si
diffonde nella casa? È segno inequivocabile di qualcosa di ottimo in
preparazione. Le mandorle sono un frutto molto amato dagli Armeni,
usate sia nei dolci che nei cibi salati e per insaporire e decorare i pilàf.
Ecco la ricetta delle mandorle salate che mio padre amava fare in casa.
Čorèg
Pane dolce di Pasqua
700 g di farina • 150 g di burro • 3 uova • 1 tuorlo • 1 tazza di latte • 1 tazza di zucchero •
mezzo cubetto di lievito • 1 cucchiaino di maleppo macinato131 • 1 cucchiaino di semi di anice
macinati • semi di sesamo
Pakhlavà
Sfoglia reale
Il pakhlavà è il dolce delle feste e delle liete ricorrenze. Dopo un buon
pasto la padrona di casa farà il suo ingresso trionfale portando un bel
vassoio di questi fragranti dolcetti noti e apprezzati in tutto il Medio
Oriente.
A seconda della forma e della farcitura, il pakhlavà prende nomi
differenti ed esotici. A casa nostra si sono sempre fatti a forma di
rombo, ripieni di noci e mandorle, e li abbiamo sempre chiamati con lo
stesso nome. Dato che le ricette viaggiano e viaggiando mutano, la
ricetta che segue è stata occidentalizzata da mia madre per ottenere
una nota meno dolce: questi pakhlavà, infatti, non vengono immersi
nello sciroppo di zucchero come vorrebbe la tradizione, bensì irrorati
di miele, ed è stata loro cambiata anche la forma.
La pasta fillo acquistatela pronta per l’uso: non è cosa semplice fare
la pasta fillo in casa. La mia bisnonna Ferida preparava tutto da sé, a
iniziare dall’amido che serve per la sfoglia (faceva bollire le patate,
filtrava l’acqua e la lasciava evaporare al sole. Poi conservava l’amido
ottenuto in un vaso e al bisogno ne prendeva un po’ in un telo di
mussolina e lo distribuiva sulla sfoglia del suo pakhlavà). Non essendo
all’altezza di questa antica maestria, ho sempre fatto ricorso al più
vicino negozio di prodotti alimentari orientali
1 confezione di pasta fillo • 100 g di noci • 100 g di mandorle • 150 g di burro • 2 cucchiai di
zucchero a velo non vanigliato • 1 cucchiaio di cannella in polvere • miele • essenza di rosa o
di acqua di fiori di arancio
Impastate tutti gli ingredienti, a esclusione del burro, con l’acqua che
verserete pian piano fino a ottenere un impasto morbido ed elastico.
Lasciate riposare la pasta per tutta la notte in un luogo fresco o
nella parte meno fredda del frigorifero, ben avvolta in un telo
infarinato.
Il giorno successivo dividete la pasta in piccole porzioni e stendetela
ricavando delle sfoglie sottili. Spennellate ciascuna sfoglia con burro
fuso. Formate uno strato di sfoglie – in genere sono di numero dispari,
sette, nove, undici, ecc. – e distribuitevi sopra la farcitura ottenuta
mescolando gli ingredienti indicati; ricoprite con le sfoglie rimaste,
spennellandole man mano con burro fuso. Tagliate il dolce a rombi o
quadrati e irrorate gli spazi fra un taglio e l’altro con il burro, se ne è
avanzato. Infornate a 200 gradi e fate cuocere fino a che la superficie
non sarà ben dorata.
A parte preparate lo sciroppo sciogliendo lo zucchero in un bicchiere
d’acqua e facendolo bollire per circa una decina di minuti. Fate
attenzione a non farlo bollire eccessivamente perché otterreste dello
zucchero caramellato. Una volta pronto lo sciroppo, potete aggiungere
un paio di cucchiai di acqua di fiori d’arancio.
Lasciatelo raffreddare, versatelo sul dolce appena sfornato e lasciate
riposare per qualche istante prima di servire.
Personalmente non userei troppo sciroppo: rende molto dolce il
pakhlavà e, se non dosato bene, ammorbidisce la sfoglia togliendole
croccantezza.
Il canto dell’ape
Alla luna nuova, nella sagra della Croce,
mi han soffiato fumo negli occhi;
m’han preso il miele bianco bianco;
non ne han punto lasciato, pei piccini cari.
S’io parli perderò la vita;
se taccio, perderò i miei piccini;
preferisco perdere la vita
al perdere i figliuoli133
Nel mese di maggio-giugno mettevano davanti all’alveare un
serpente ucciso. Dopo un’ora ne restava solo la pelle. Il miele fatto
con la carne del serpente lo conservavano a parte per curare il
mal di stomaco.
E per scongiurare il malocchio e il maligno appendevano fuori
dall’ingresso dell’alveare una sorta di collana blu, una lumaca,
una testa d’aglio e un ferro di cavallo. Per scongiurare le malattie
promettevano al monastero più vicino una certa quantità di miele,
in genere un ottavo del raccolto.134
Tel gatà
Pakhlavà a capelli d’angelo
1 confezione di pasta katàif in vendita nei negozi di specialità orientali (consiste in finissimi
filamenti di pasta pronta all’uso) • 200 g di burro
Per lo sciroppo (per mezzo chilo di pasta)
400 g di zucchero • qualche goccia di succo di limone, e se vi piace qualche goccia di essenza
di fiori d’arancio o di rose
Gatnabùr
Minestra dolce di latte
Il gatnabùr (da gat, “latte”) e l’anushabùr (da anùsh, “dolce”) sono più
o meno la stessa cosa, a seconda che nelle diverse tradizioni famigliari
si voglia porre l’accento sul latte o sul caratteristico sapore
zuccherino.
Il gatnabùr, dolce tipico del periodo festivo, è una sorta di crema o
budino molto diffuso in Medio Oriente. In Palestina, ad esempio,
prende il nome di muhallabiye.Ve ne sono molte versioni, alcune a base
di semolino, altre a base di orzo.
La preparazione che segue è a base di riso, e nella notte di
Capodanno a casa del nonno Ohannès non poteva mancare.
1/2 l di latte • 1 bicchiere di riso parboiled • 3 cucchiai di zucchero • 1 bustina di vanillina o 1
stecca di vaniglia • noci, nocciole e mandorle tostate e tritate grossolanamente • uva passa •
cannella
Anushabùr
Zuppa dolce
Per circa una decina di persone
L’anushabùr, letteralmente “zuppa dolce”, si può consumare a fine
pasto o come merenda nutriente per i bambini. Nei giorni di festa non
può mancare sulle tavole. Qui di seguito una deliziosa variante che
trae il suo aroma caratteristico dall’impiego dell’orzo perlato.
1 tazza di orzo perlato • 1 stecca di cannella • cannella in polvere • 1 tazza di zucchero •
mandorle e pinoli e noci tritate grossolanamente e tostate • uvetta di Corinto • 1 bicchiere di
albicocche secche tritate • acqua di fiori d’arancio o di rose
Guràibya
Palline di pasta frolla con le mandorle
La ricetta di questi gustosissimi dolci orientali viene da Sylvie, una
cara amica araba di mia madre che, pur nata in Egitto, visse a lungo in
Libano. Nella versione originale araba si lavorano senza unire
all’impasto le mandorle tritate che vanno invece posate intere su
ciascun dolcetto. Ma per tradizione famigliare abbiamo sempre
utilizzato la ricetta suggeritaci da Sylvie, collaudatissima e assai più
appetitosa.
Per circa 25 dolcetti
150 g di burro • 250 g di farina • 80 g di mandorle spellate • 1 bustina di vanillina • 100 g di
zucchero a velo
Yeprugì baksimàt
Biscotti della zia Epruhì
2 uova • 1 bicchiere di olio di semi • 1/2 bustina di lievito in polvere • 1 bicchiere di zucchero
• 1 bustina di vanillina • la scorza grattugiata di 1 limone • farina • semi di sesamo,
possibilmente scuri
Impastate bene tutti gli ingredienti tranne il sesamo. Ricavate
dall’impasto dei grissini lunghi circa 5 cm e rotolateli nel sesamo,
badando che risultino ben ricoperti di semini: prima di procedere,
infornate per qualche minuto i semi di sesamo, di modo che riprendano
la loro fragranza, e usateli solo dopo che si sono ben raffreddati.
Infornate i biscotti a 200 gradi: saranno pronti quando avanno preso
un bel colore bruno.
Mamùl di Khanùm
Dolci farciti di datteri
La ricetta ci è stata tramandata dalla mia nonna paterna Khanùm: è da
lei che mia madre ha imparato a preparare questi dolci che nel mondo
arabo vengono fatti in genere con la farina; Khanùm, invece, avendo
vissuto a Gerusalemme, città dove si rifugiò all’epoca del genocidio, ha
imparato a farli à la mode palestinese, cioè con il semolino. Sono i
dolci tradizionali della Pasqua dei cristiani di Terrasanta acquisiti
anche dalle altre comunità religiose presenti nella regione.
Le forme classiche sono prevalentemente due: una ciambellina, in
genere ripiena di datteri, o una piccola cupola, più spesso ripiena di
noci.
La ciambella rappresenta la corona di spine posta sul capo di Gesù,
mentre la piccola cupola è la spugna intrisa di aceto usata dai carnefici
per bagnargli le labbra.
Per circa 15 mamùl rotondi
500 g di semolino • 1/2 cubetto di lievito • 1 bicchiere e 1/2 di burro fuso • 300 g di datteri •
olio d’oliva • 1 cucchiaino di cannella • zucchero a velo
Khanumì kulundjì
Piccoli pani aromatici
Questi dolcetti prendono il nome dalla parola araba kulundjì,
“nigella”135 e sono tipici della città di Urfa. Mia nonna li preparava
spesso, farcendoli ora con una purea di datteri ora con una mistura di
noci, zucchero e cannella.
4 tazze e 1/2 di farina • 1 tazza di burro • 1 tazza di zucchero • 1/2 l di latte • 15 g di lievito
fresco • 2 uova • 1/2 cucchiaino di semi di finocchio • 1/2 cucchiaino di semi di nigella • 1/2
cucchiaino di semi di maleppo
Zadigì gatà
Piccoli pani di Pasqua
Secondo alcune testimonianze questi dolcetti sarebbero tipicamente
natalizi, mentre per altri sarebbero legati alla Pasqua. A seconda delle
tradizioni locali, il gatà ha forma rotonda e si serve tagliato a fette,
oppure viene preparato in piccole forme singole. Inoltre spesso i
termini gatà e nazùk vengono usati in zone geografiche anche
limitrofe, come ad esempio la Repubblica d’Armenia e la comunità
armena dell’Iran, per definire ora l’una ora l’altra preparazione. C’è da
aggiungere inoltre che gatà sono chiamati anche alcuni pani: questo
uso scambievole del termine ricorda da vicino l’ampio alone semantico
della parola “pizza”, che in Italia definisce sia quella dolce che quella
salata. Come si è visto, anche il paghàrč ha una versione dolce e una
salata. Secondo alcune fonti, il gatà o i nazùk si servono nel mičìnk,
ovvero la pausa della Quaresima, occasione nella quale si inserisce
nell’impasto il cosiddetto “segno della fortuna”.136 Entrambi sono
comunque dolci dei giorni di festa. Non essendo tipico della nostra
tradizione famigliare, vi propongo alcune ricette di gatà scelte tra le
tante versioni. È importante ricordare infine che questo dolce va
lasciato riposare e freddare bene per una notte intera prima di
consumarlo.
Per la pasta
4 tazze di farina • 1/2 di tazza di zucchero • 1 tazza di latte • 1/2 cubetto di lievito • 1 tazza di
burro fuso • 1 bustina di vanillina • 1 tuorlo d’uovo • 1 pizzico di sale
Per il ripieno
1/2 tazza di burro • 1/2 tazza di farina • 1/2 tazza di zucchero • 1 moneta • a piacere 1/2 di
tazza di noci tritate • 1 puntina di cannella
Nazùk
Dolcetti dei giorni di festa
Il procedimento per preparare i nazùk arriva da molto lontano. Come
abbiamo già avuto modo di vedere, le ricette qui presentate sono tratte
dall’esperienza diretta delle mamme, delle zie e delle nonne che a loro
volta hanno via via appreso in famiglia. Questa ricetta giunge dalla
lontana città di Tabriz in Persia, dove la nutrita comunità armena ha
continuato a vivere mantenendo le proprie antiche tradizioni; sono dei
dolci gustosi, che la signora Tzoghìk – madre di due mie carissime
amiche – preparava a Roma in occasione delle feste, e che aveva a sua
volta imparato da sua mamma. Oggi, seguendo la stessa ricetta, le sue
figlie preparano i nazùk a Parigi, dove ormai vivono da anni.
Per la pasta
Poco più di 1 kg di farina* • 300 g di burro • 1 bicchiere di zucchero • 4 uova • 1 tuorlo d’uovo
• 200 g di yogurt (2 vasetti) • 2 cubetti di lievito fresco (sciolto in poca acqua tiepida) oppure
lievito in polvere per 1 kg di farina • 3 cucchiaini di lievito in polvere • 1/4 di cucchiaino di
sale
Per il ripieno
250 g di burro fuso • 2 bicchieri e 1/2 di zucchero • Poco più di 1/2 kg di farina138
In una grande ciotola lavorate lo zucchero con 200 g di burro fuso fino
a ottenere una crema omogenea, quindi inserite quattro uova e
continuate a lavorare finché la crema avrà raggiunto una colorazione
chiara.
Aggiungete il lievito sciolto in mezzo bicchiere d’acqua tiepida, il
lievito in polvere per dolci, il sale, lo yogurt e la farina setacciata. La
quantità della farina sarà sufficente quando l’impasto si staccherà
dalle mani e dal recipiente di preparazione.
Impastate bene, quindi formate una palla, ricopritela e lasciatela
lievitare per sette ore in un luogo caldo. Dopodiché, riprendete la
pasta lievitata, lavoratela rapidamente e dividetela in sei palle uguali
che ricoprirete con un telo.
Per preparare il ripieno, lavorate lo zucchero col burro fino a
ottenere una crema soffice. Aggiungete a poco a poco la farina sempre
lavorando l’impasto e sbriciolandolo con la punta delle dita. Poco più di
mezzo chilo di farina basterà per avere un ripieno ben sbriciolato e
nello stesso tempo morbido. Dividete il ripieno in sei palle uguali e
coprite con un telo.
Sciogliete i 100 g di burro restanti e teneteli a disposizione in un
pentolino che di volta in volta, se sarà necessario, riscalderete per
scioglierlo.
Prendete una palla di pasta e lavoratela energicamente con le mani
sul piano infarinato. Appiattitela al massimo con un mattarello fino a
ottenere un disco più o meno regolare. Capovolgete il disco e stendete
di nuovo col mattarello. Ripetete quest’operazione più volte cercando
di ridurre la sfoglia a uno spessore minimo senza bucarla o strapparla;
durante quest’operazione bisognerà infarinare di tanto in tanto la
spianatoia. Con un pennello da pasticceria imburrate il disco di pasta,
quindi prendete una delle palle del ripieno e sbriciolatela sopra
uniformemente, lasciando però un margine di un paio di cm dal bordo.
Arrotolate il disco farcito formando una salsiccia ben stretta.
Appiattite la salsiccia premendo delicatamente con le mani, quindi
schiacciate piano facendovi scorrere sopra il mattarello fino a darle
una larghezza di circa otto centimetri.
Spennellate col tuorlo d’uovo e passate su tutta la lunghezza una
forchetta per creare un motivo decorativo a righe. Ritagliate poi, con
una rondella dentellata, i nazùk in forma di rombi o triangoli.
Disponeteli su una teglia ricoperta di carta da forno e infornate a
180 gradi per trenta minuti circa, finché avranno preso un bel colore
dorato. Lasciateli ben freddare prima di consumarli.
Agrahadìg
Grano dolce condito
La comparsa del primo dentino dei bambini è occasione di festa nelle
case armene. Nella circostanza si invitano parenti e amici (un tempo la
festa era riservata unicamente alle donne e ai bambini) e si offre
l’agrahadìg, da agrà, “dente” e hadìg “chicco”. La ricetta che segue è
della zia Anna, che ha mantenuto questa tradizione prima per i suoi
figli e poi per i nipotini. L’usanza vuole che vengano posti di fronte al
bambino alcuni oggetti che si riferiscono a determinate professioni, ad
esempio una penna (sarà studioso e letterato), un paio di forbici (farà il
sarto), un coltello (diventerà chirurgo) e così via. Dal primo oggetto
che il bambino spontaneamente afferrerà, si potrà indovinare la sua
futura professione.
300 g di grano a chicchi interi • 150 g di zucchero • 1 cucchiaio di cannella in polvere • 1/2
tazza di chicchi di melagrana • 1/2 tazza di un misto di mandorle, nocciole e noci tritate • 3
cucchiai di uva passa
Khashìl
Polenta
1 tazza di farina di grano • 1/2 tazza di burro fuso
Halvà
Dolce con le mandorle
Un dolce molto apprezzato dai bambini e di facile preparazione, che
tuttavia non va confuso con l’omonimo dolce diffuso presso gli Arabi e
il cui principale ingrediente è invece il sesamo.
Mio nonno era maestro nel cucinare l’halvà: le zie ricordano ancora
il profumo che proveniva dalla cucina in quelle occasioni. Si tratta
dunque di un dolce casareccio, che può ricordare molto vagamente il
castagnaccio. La ricetta di base può essere arricchita da vari altri
ingredienti, ad esempio pinoli, noci e altra frutta secca.
1 tazza di farina • 100 g di mandorle tritate • 1/2 tazza di zucchero • 1/2 tazza di acqua • 1/2
tazza di latte • 60 g di burro
Anùsh tarkhanà
Budino con uva e orzo
Quello che oggi ci appare come una sorta di budino, peraltro ottimo (il
cui nome, tarkhanà, richiama alla mente il procedimento per la
conservazione dello yogurt), viene in realtà preparato con del succo
d’uva fatto in casa passando al passaverdure dell’uva preferibilmente
bianca. Un tempo questo prezioso dolce veniva tagliato in quadrati o in
triangoli e conservato nei vasi per l’inverno. Era una merenda
nutriente e un dolce che facilmente si poteva portare in viaggio.
Sebbene oggi non sia molto diffuso, la ricetta di questo tarkhanà viene
qui presentata a testimonianza di come le donne dedicassero tanta
parte del loro tempo a preparare qualsiasi tipo di pietanza dolce o
salata, semplicemente con ciò che avevano a disposizione.
Conservata dalla memoria di tante nonne, è riportata in un bel libro,
uno dei primi testi di cucina della diaspora armena d’America, da cui la
traggo integralmente.140
1 l di succo d’uva • 1 bicchiere d’acqua • 1 bicchiere e 1/2 di orzo perlato • 1/2 tazza di
zucchero • 1/2 tazza di noci tritate • 1 cucchiaino di cannella in polvere • 1/2 cucchiaino di
pepe di Giamaica • 50 g di burro
Čur - Acqua
L’affetto che gli Armeni riservano a questo elemento è commovente.
L’acqua, in armeno čur, tra gli elementi fondamentali della vita è forse
quello più amato e venerato. Fuoriesce dalle viscere della terra,
serbando il mistero dei suoi benefici poteri. Il culto dell’acqua era
diffuso anticamente in tutta l’Armenia e le fonti, i ruscelli e i fiumi
erano considerati sacri. Sia le credenze popolari sia le fiabe sono
ricche di citazioni che narrano di fonti miracolose che donano
l’immortalità, di laghi abitati da fate, di acque cristalline che ridanno la
vista ai ciechi e curano mali misteriosi. La “sorgente di luce” che si
trovava presso il monastero di San Daniele, poco più a Nord di Mush,
era meta di pellegrinaggio e i fedeli vi conducevano i sofferenti; con
quell’acqua venivano lavati gli occhi degli infermi in ricordo delle gesta
leggendarie narrate nella fiaba mitologica di Ara il Bello: l’eroe
popolare che dopo infinite peripezie troverà l’acqua miracolosa.
L’importanza dell’acqua e dell’umido è uno degli elementi che
uniformano l’universo culturale e tradizionale armeno. “L’estinzione e
l’annullamento venivano dal secco (alíbantes, nel mondo antico, erano i
morti, i rinsecchiti o disidratati), la vita al contrario germinava nel
liquido, nel molle, nel bagnato”.144 Il rapporto tra questi due elementi
si può dire che sia una costante, nelle credenze popolari. Nutrire la
terra come fanno i contadini armeni con il gatnabùr, irrorando i loro
campi di una crema di latte, ci conferma come questa pratica sia
“indissolubilmente connessa al latte nella sensibilità arcaica, nella
mentalità magica e nell’inconscio collettivo, l’acqua, material principio
di tutti i composti (Talete), s’integra con la donna, umida come la luna,
le rugiade e le piogge, s’identifica con l’archetipo femminile e materno
che secerne il latte”.145
La concezione dell’acqua come sorgente di vita appare molto
chiaramente nell’episodio descritto all’interno dell’epopea armena
David di Sassùn.146 Fu in occasione della festa dell’Ascensione che
Dzovinàr, passeggiando con le sue ancelle lungo le rive del lago di Van,
sentì una gran sete, pregò il Signore e fu esaudita: subito, infatti,
scorse uno zampillo sul bordo del lago. Per non bagnarsi si svestì e
andò a bere. Bevve un palmo pieno d’acqua, e un secondo pieno a
metà: la fonte si estinse. Con quei sorsi Dzovinàr – narra la leggenda –
concepisce Sanasàr e Baltasàr. L’area del lago di Van (oggi in Turchia),
sito altamente simbolico per la cultura armena, è il luogo dove il
liquido che sgorga dalle rocce è un liquido fertile: concetto vicino
all’oscillazione ambivalente acqua/latte presente nell’Avesta.147
D’altronde nella letteratura popolare armena sono spesso citate “fonti
di latte”, gatnakhpyùr, da cui il candido liquido sgorga dolce come lo
zucchero.
Secondo antiche tradizioni, l’acqua pura era un eccellente mezzo
divinatorio. Un testimone racconta di una pratica molto semplice, in
cui si usano due elementi considerati puri, l’acqua e un fanciullo, due
innocenti che la vita non ha ancora segnato:
“Versavano in un recipiente di stagno un bicchiere d’acqua pura. Poi
chiamavano un fanciullo dagli occhi azzurri e gli chiedevano di fissare
l’acqua; dopo qualche minuto lo interrogavano e gli ponevano
domande del tipo: chi ha rubato la tal cosa? Oppure: quel tale che si
trova a Tiflis sta bene? Quando torna?”148
Ancora oggi è viva tra gli Armeni la credenza che porti bene gettare
dell’acqua dietro a un famigliare che si allontana da casa per un
viaggio o per un incontro importante. Ho visto con i miei occhi, in
visita presso alcuni parenti, gettare un bicchiere d’acqua dietro a un
figlio che si metteva in viaggio, in segno di buon augurio. Alcuni
conoscenti della Repubblica d’Armenia, invece, mi hanno raccontato
che i loro parenti di campagna usano gettare un secchio colmo d’acqua
fuori dall’uscio di casa quando il temporale si fa oltremodo minaccioso:
tale pratica dovrebbe far cessare la forte pioggia e la grandine.
Ancora a proposito dell’acqua, tra gli Armeni si usa incoraggiare i
piccoli studenti a imparare la lezione, fino a che non la ripetano
čurì bes, “bene proprio come l’acqua”, cioè in modo “scorrevole”.
“L’arte del trovatore è un mulino, non gira senza acqua, senza
fiume”.149
Gran parte delle sorgenti portano nomi che il popolo ha loro attribuito
a seconda delle credenze locali, della bontà e qualità delle acque. Le
proprietà curative di alcune fonti erano note nei villaggi più remoti;
spesso si trovavano nei pressi dei monasteri, meta di pellegrinaggi, e il
popolo dei credenti cercava conforto anche in quelle acque miracolose.
Il convento di Surp Garabèd, cioè Giovanni il Precursore, è noto anche
col nome armeno di Innakeàn vank, ovvero “Convento delle nove
sorgenti”, e si trovava nei pressi di Mush. Secondo la leggenda, questo
luogo sacro, meta per secoli di pellegrinaggio, venne costruito da san
Gregorio l’Illuminatore che vi depose anche le reliquie di san Giovanni
Battista, portate con sé da Cesarea (il luogo, in seguito alle leggi
turche che nel 1915 stabilirono la deportazione di tutti gli abitanti
armeni della regione, è oggi ridotto a povere rovine).150
Oltre a tutte queste fonti benefiche, ve n’erano tuttavia alcune dove
si diceva vivessero demoni terribili, i dev, e presso cui la gente aveva
paura di recarsi o addirittura di passarvi vicino, così come nelle acque
di certi fiumi abitavano i mostruosi pesci-draghi, i vishàp.151
Acque abitate, dunque: un mondo fatato, ora minaccioso ora amico
dell’uomo, un mondo enigmatico la cui conoscenza è appannaggio e
patrimonio di tutti; gli abitanti dei luoghi conoscono il territorio, lo
dominano, sanno che i “mostri” a volte possono uscire dalle acque e
fecondare giovani giumente e bufale. D’altronde, come abbiamo visto,
il tonìr che conserva il fuoco sacro è il fulcro essenziale della vita
collettiva; ma nell’epopea di David di Sassùn, Sanasàr e Baltazàr,
battezzati poi sul tonìr, nascono fecondati dall’acqua della fonte.
Vartì osharàg
Sciroppo di rose
La rosa, fiore adorato dagli antichi Armeni, è tuttora tenuta in grande
considerazione. Il nome di persona “Rosa”, Vart, è molto diffuso nelle
comunità, in tante varianti. Ecco un breve componimento su un amore
che sboccia e del quale la “festa delle rose”, il Vartavàr, è testimone
eccellente: “La rosa è sbocciata nei giardini di Van / Per amor di Dio,
manda qualcuno per condurmi colà / O mia leggiadra, o mia piccina, di
chi sei tu? / Tutti sanno che sei mia / La rosa è sbocciata; il gallo
mattutino ha cantato / La mia diletta se ne sta nel giardino con le mani
sul seno / La rosa è sbocciata sotto la rugiada del mattino / La mia
diletta nel giardino della rugiada / La rosa è sbocciata la domenica
della Festa delle rose / Il tuo amore è sorto nel fuoco, nel piccolo bosco
del mio cuore / O mia leggiadra, o mia piccina, di chi sei tu? / Tutti
ormai sanno che sei mia”.152
Il fiore, coltivato amorevolmente e curato con attenzione, viene
conservato e trasformato in vari modi: oltre a farne sacchetti profumati
per la biancheria, si usa per preparare marmellate, per farne aceto, olii
essenziali (in particolare un lenitivo per piaghe, brufoli e mal di ventre)
o infusioni preziose come l’acqua di rose, usata per profumare i dolci e
lenire il mal di denti e d’orecchio.
Le caraffe colme di sciroppo di rose sono presenti quotidianamente
sulle mense, accanto allo sciroppo di melagrana e al candido tan. In
particolare è molto gradito il succo della rosa canina, masurì hyùt, ora
prodotto anche industrialmente nella Repubblica d’Armenia.
1/2 bicchiere di acqua di rose • 2 bicchieri di zucchero • il succo di 1/2 limone
Hankaì čur
Acqua minerale
Potrebbe sembrare inutile dedicare un paragrafo all’acqua minerale.
Ma l’Armenia, come abbiamo detto, è terra ricca d’acque. Il fiume più
importante è l’Arax,154 quello che segna oggi il confine con la Turchia,
ma nasce al di là del confine, in contrade un tempo armene, e che
insieme al monte Ararat è venerato dagli Armeni e celebrato nei
racconti leggendari e nei canti popolari.
Data la conformazione di un territorio in cui si alternano picchi
montuosi, altopiani e pianure estese, i fiumi scorrono ora lentamente
in canali forgiati da millenni, formando suggestivi paesaggi, ora
impetuosi quando trovano più spazio per le loro acque. È per questo
che è possibile trovare anche nel territorio della piccola Repubblica
d’Armenia immensi canyon e gole profonde di cui non si indovina il
fondo.
Le precipitazioni nevose e la pioggia alimentano i fiumi, ma è il
sottosuolo stesso a essere ricco di acque. Il grande fiume Mezamòr, ad
esempio, è alimentato da fonti sotterranee.
A seconda delle rocce entro cui scorrono prima di affacciarsi alla
luce del sole, queste acque possiedono differenti virtù curative e hanno
sapori e qualità diversi: alcune acidule e frizzanti, altre calde o
addirittura bollenti.
La più diffusa e nota nella Repubblica d’Armenia è l’acqua minerale
proveniente da Jermùk, sede di una stazione termale, un’acqua
benefica che alla fonte raggiunge i 64 gradi centigradi.
Altre acque imbottigliate, commercializzate e molto apprezzate per
le loro virtù digestive, sono quelle di Arznì, Sevàn, Dilijiàn e Bjnì.155
Kinì - Vino
Mègë lav, yergùsë pav, yeròrtë tzav: è un antico detto armeno,
riferito al numero dei bicchieri di vino: “uno va bene, il secondo è
sufficiente, il terzo sono dolori”.
In lingua armena “vino” si dice kinì, una parola di radice indoeuropea.
Dunque se in tempi tanto lontani c’era già in Armenia una parola per
definire il vino e la vite, evidentemente la viticoltura e la vinificazione
erano pratiche conosciute fin dalla più remota antichità. Dagli scavi
archeologici sono emerse delle brocche per il vino di bellissima fattura,
e alcune iscrizioni ci informano circa l’alto livello raggiunto
dall’agricoltura dell’epoca nella regione: un’iscrizione in particolare
(siamo intorno al 700 a.C.) dice che “Rusa, figlio di Argishti, dichiara
che nella valle di Kuturlini la terra non era mai stata lavorata. Allora
per ordine di Haldi, ho piantato questo vigneto e ho seminato i campi
intorno alla città”.156 Ma a parte le testimonianze locali, la fama del
vino armeno giunse fino a Erodoto e a Senofonte, che menzionano la
sua bontà. Senofonte narra che gli abitanti della valle dell’Ararat
conservavano il vino in fosse stuccate con l’argilla e Strabone parla dei
“vini vecchi e profumati degli Armeni” e del “vino di uva secca”.157
Certo, non sapremo mai con precisione dove sia nata la prima vigna
sulla Terra, né chi per primo abbia prodotto il vino, ma è interessante
seguire il racconto della Genesi, dove si narra che l’arca di Noè si
fermò proprio sul monte Ararat, la montagna sacra degli Armeni. Le
Scritture narrano che Noè, dopo aver fatto scendere tutti gli animali
dall’Arca, iniziò a lavorare la terra e piantò una vigna. Allora forse fu
Noè dopo il diluvio a portare la vite e il vino in Armenia?
Leggenda a parte, l’area caucasica è una zona di tradizione vinicola
importante: “La coltivazione della vite è iniziata 6000 anni fa in
un’area di crescita spontanea che va dal Mar Nero al Khorasan,
costeggiando il Sud del Caucaso e del Mar Caspio”.158
Terre di antica cultura come la Georgia e la Persia non possono
essere certo ignorate dal punto di vista della coltivazione della vite e
della produzione vinicola. Georges Charachidzé, eminente studioso di
origine georgiana, afferma in un articolo che “il vino fa parte della
nostra cultura, del nostro patrimonio. Si beve in gruppo, secondo un
cerimoniale”.159 Meravigliosi sono inoltre i corni da vino georgiani che
devono essere vuotati d’un fiato all’ordine del tamadà160 di turno.
Senza contare le lodi del vino celebrate nelle quartine del grande
poeta persiano Omar Khayyam.161
Erodoto nelle Storie riporta: “Per il vino i Persiani hanno una vera
passione. A loro è vietato vomitare e urinare di fronte ad altri; e
rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l’abitudine di
discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisioni
eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri,
dal padrone della casa in cui si trovano a discutere.”162
Il diffondersi del divieto coranico di consumare bevande alcoliche
arriverà in epoca successiva, ma il consumo e il commercio non sarà
vietato alle popolazioni cristiane ed ebraiche.
L’esportazione in epoca antica di alcuni vitigni armeni ha suscitato
l’interesse di ricercatori ed enologi italiani, in quanto sembra che
alcuni ceppi originari della Calabria siano simili a quelli diffusi nel
Caucaso e in particolare in Armenia.163
Dobbiamo dunque ringraziare Noè se oggi nella Repubblica
d’Armenia si producono ottimi vini, sia rossi che bianchi? Di certo il
vino armeno che gode del maggior prestigio internazionale è oggi
l’Arenì, dal colore rosso rubino, un vino che accompagna bene le carni
d’agnello e il pecorino stagionato, due prodotti per buongustai raffinati
che accomunano al più alto livello di eccellenza di produzione l’Italia e
l’Armenia. Tra i bianchi spicca l’Arax, dal nome del fiume tanto amato
dagli Armeni, un vino piacevole sui 10-12 gradi, ma anche i vini dolci
prodotti nella Repubblica d’Armenia sono di ottima qualità.
La funzione di questa bevanda inebriante ha avuto un ruolo
importante nel corso della storia anche nell’ambito dei banchetti di
corte. Spesso gli storici armeni raccontano di come gli invitati d’alto
rango venissero fatti ubriacare e poi, indeboliti dai fumi dell’alcol, resi
prigionieri o sconfitti. Ad esempio, il vino gioca un brutto scherzo a un
funzionario di corte noto per la sua malvagità, il quale, visitando le
terre del patriarca Nersés e colpito dalla bellezza e dalla ricchezza
della natura di quei luoghi, venne colto da profonda invidia. Ricevuto
alla mensa del patriarca con i dovuti onori, e infine ubriacatosi, iniziò a
mostrare disprezzo e a ingiuriare in vino veritas il re, minacciando di
conquistare e distruggere le terre del patriarca. Questi, conoscendo la
fama del malvagio personaggio e i suoi grandi peccati, lo affidò alla
giustizia divina che – narra lo storico Fausto di Bisanzio – non tardò ad
arrivare.
Il vino fu inoltre causa della morte del re armeno Arshàg, prigioniero
del re persiano Shapúr. Arshàg aveva un fedele governatore di nome
Drastamàt, che per varie vicende aveva combattuto valorosamente al
fianco dello stesso Shapúr. Il re persiano, venuto a conoscenza di
queste prodezze, mandò a chiamare il governatore armeno per lodarlo
ed esaudire i suoi desideri. Fu così che Drastamàt chiese di poter
rendere visita al suo vero sovrano rinchiuso in una fortezza, desiderio
che venne esaudito. Il fedele servitore si mise in viaggio e arrivato alla
prigione “Sciolse Arshak164 dai vincoli di ferro, dalle manette, dai ferri
dei piedi e dal giogo di catene e lacci del collo. Gli lavò il capo e gli
fece il bagno. Lo vestì con un elegante abito di gala, gli preparò dei
cuscini e lo fece sedere, dispose davanti a lui una cena secondo le
consuetudini dei re, pose davanti a lui del vino come era consuetudine
dei re; lo scosse dal torpore, lo confortò, e lo rallegrava con i musicanti
[ ] Ma quando Arshak ebbe bevuto e il vino gli ebbe offuscato la vista,
si ubriacò e si inorgoglì. Dice: “Ahimè Arshak, sono proprio io? E in
queste condizioni? E mi sono accadute queste sciagure?” E dicendo ciò
si conficcò nel cuore il coltello che aveva in mano [ ] Là si uccise e
morì all’istante, mentre stava sul cuscino. E quando Drastamat vide
ciò, si lanciò, estrasse da lui quel medesimo coltello e se lo conficcò nel
fianco, e anch’egli morì all’istante”.165
Riguardo alla tradizione e alla cultura del vino e del bere,
un’attenzione speciale va riservata al tamadà, figura essenziale nei
banchetti e nelle riunioni degli Armeni, specie nella Repubblica
d’Armenia. Nel corso dei pranzi egli è il “sovrano” della tavola, cui va
l’onore di declamare i ghenàz, i brindisi (letteralmente “alla salute”);
se gli altri commensali desiderano dedicare un brindisi in favore o alla
memoria di qualcuno devono innanzitutto chiedere il permesso a lui.
Fare il tamadà è senz’altro un onore che comporta anche oneri: non si
devono annoiare i presenti con brindisi banali o prolissi, bisogna
essere all’altezza della situazione e conoscere pregi e difetti dei
commensali al fine di prodursi in brindisi veramente ad hominem.
Insomma, non ci si improvvisa tamadà: ci sono norme precise sulla
successione dei brindisi, una sorta di “scaletta” che li regola.
In genere si inizia col brindare al padrone di casa, poi si onorano i
suoi ospiti e in successione si brinda alla Patria e agli avi; ma un bravo
tamadà non dimenticherà di dedicare uno speciale brindisi alle
mamme.
Il tamadà declama i suoi brindisi alzandosi in piedi e, nel caso di un
brindisi particolarmente importante, chiederà a tutti i presenti di
alzarsi, eccezion fatta per il dedicatario del brindisi.
In un banchetto nuziale, la sua prosa elogerà le qualità dello sposo e
della sposa, proseguirà con le lodi dei loro parenti per poi giungere
agli argomenti più disparati, relativi ai vari aspetti della vita sociale e
politica della nazione. Per il bene della patria, egli augurerà alla coppia
una prole numerosa e non mancherà di concludere il brindisi in modo
classico, augurando loro di “invecchiare sullo stesso cuscino”.
Una prosa diversa e più consona a un uditorio misto composto da
giovani e anziani e che contiene un messaggio di rispetto della natura
e delle cose “vecchie” può produrre un brindisi come questo: “C’era
una volta un piccolo bosco di rovere nel quale, in mezzo ai vecchi
alberi, stava un giovane virgulto. Dimorava nel bosco anche una serpe,
che un bel giorno ascoltò la giovane quercia dire al boscaiolo di
tagliare gli alberi più vecchi, e la redarguì: ‘Non dire così! Fai male, e
vedrai che finirai stupidamente e peggio!’. La giovane quercia le
rispose: ‘Sei stupida tu, invece. Questi vecchi rami mi tolgono il sole e
le vecchie radici prosciugano l’acqua con cui mi devo nutrire. Io ho
bisogno di spazio!’. La quercia giovane non ascoltò i consigli della
saggia serpe e andò a finire che il boscaiolo tagliò gli alberi più vecchi.
Dopo qualche giorno sopraggiunse una tempesta che spezzò il giovane
virgulto: esso non poteva difendersi da solo dalla forza dell’uragano.
Beviamo quindi affinché la gioventù sappia apprezzare gli anziani e
ricordi quanto sia in debito con loro e quanto, in qualsiasi momento,
potrebbe averne bisogno”.166
L’eloquio corretto, la più giusta retorica specifica nel porgere i
brindisi sono molto importanti e niente affatto marginali nell’ambito
della festa o della celebrazione: ecco perché la fama di alcuni tamadà
oltrepassa i confini della Repubblica d’Armenia. La precondizione per
una buona riuscita è naturalmente che il tamadà non beva troppo e
resti sufficientemente sobrio fino alla fine del pranzo: “Quando mi
riempiono il bicchiere, chiedo sempre di riempirne metà di modo che
possa colmarlo delle dolci parole che andrò a dire. Molti dicono che
bisogna riempire il bicchiere fino all’orlo, lasciando solo il posto per le
labbra, ma non dobbiamo forse finire di colmarlo anche con gli
auguri?”167 Così pensa un anziano tamadà, forte della sua esperienza.
Egli sostiene inoltre che l’alcol ha un sapore amarognolo e che sono i
dolci discorsi del brindisi a renderlo più gradevole al palato. Confessa
che quando declama il brindisi tutti lo ascoltano fissando il bicchiere
colmo che hanno poggiato davanti, e anch’egli fissa il proprio calice
perché il vetro trasmette ai tamadà una forza speciale e li aiuta a
trovare le parole giuste. Dopo la conclusione del brindisi, i convitati
fanno tintinnare i bicchieri, bevono e mormorano anùsh, cioè “(che il
vino ti sia) dolce”. Nel caso di occasioni tristi, la tradizione armena
vuole che dopo il brindisi i bicchieri vengano appoggiati capovolti sul
tavolo; e quando si beve in memoria di un defunto (non prima che
siano passati quaranta giorni dalla sua morte, perché si pensa che fino
ad allora la sua anima sia ancora sulla terra) i bicchieri non si fanno
tintinnare tra loro.168
Fare il tamadà nella Repubblica d’Armenia, come nella vicina
Repubblica di Georgia, oltre a essere un onore è spesso anche una
professione: la fama dei migliori tamadà spazia in lungo e in largo per
l’intero paese e i più bravi passano da un banchetto all’altro senza
sosta.
Anche per questo, il nostro testimone tamadà dice che non beve mai
troppo e che conserva sotto il tavolo della festa una bella bottiglia di
acqua minerale.
Oltre al tamadà, che parla in prosa, la tavolata viene spesso allietata
anche dai tradizionali canti di brindisi: brevi composizioni musicali di
carattere conviviale e di contenuto augurale, eseguite nel corso di
occasioni e banchetti in cui si fa kef, cioè “festa”.
Anche se con l’avvento del cristianesimo le regioni caucasiche hanno
subìto cambiamenti profondi, si può ipotizzare che i canti dei brindisi
attuali si siano sovrapposti ad alcuni più antichi dedicati alla divinità di
turno. Il caso più importante riguarda naturalmente il calice della
messa cristiana, in cui il vino è simbolo del sangue di Cristo. Una delle
culture tradizionali che con notevole sensibilità spirituale hanno
celebrato il vino e il brindisi in musica è appunto quella della Georgia.
In questa bella regione caucasica (bella quanto sconosciuta ai più, pur
essendo una delle culle più nobili e pure dell’antica civiltà cristiana) il
vino rosso, prodotto localmente soprattutto nelle zone orientali, è
oggetto di un vero e proprio “culto”. Tale culto trova la sua origine
leggendaria nel IV secolo della nostra era: santa Nina portò il
cristianesimo in Georgia recando con sé una croce costruita con due
pezzi di legno di vite tenuti insieme da una ciocca dei suoi capelli. Da
allora l’uva venne simbolicamente accostata al cristianesimo e il legno
della vite acquisì un valore sacro: chiese e monasteri furono decorati
con immagini di grappoli, ramoscelli e tralci di vite, e la pratica del
bere vino divenne un atto rituale che superava i tradizionali confini
della funzione sacramentale del culto cristiano. Questo
particolarissimo culto “enologico” è stato, nei secoli, oggetto di
attenzione anche da parte dei tradizionali nemici musulmani della
Georgia, che in ogni epoca hanno tentato invano di spezzare – anche
simbolicamente – l’unità di questo popolo fiero e diverso, proprio
attraverso la distruzione dei vigneti. È così che ancora oggi la musica
popolare georgiana presenta un ricco repertorio di canti polifonici da
eseguirsi nel contesto di banchetti e di occasioni importanti, veri e
propri “brindisi” che preludono a una libagione in onore di qualcuno, o
– più frequentemente – in onore del vino stesso. Nel canto tradizionale
Turpani Skhedan viene celebrata con accenti ieratici la bellezza di una
giovane donna presente al banchetto: si paragonano le doti della
ragazza alla limpida sincerità, alla schiettezza del vino rosso
georgiano, forte e generoso (“e come questo vino scorre lieto e potente
/ raccontandoci la storia delle sue origini / questi begli occhi neri
rivelano a tutti le verità dell’animo tuo”).
Una certa continuità con quello che con ogni probabilità fu il ruolo
“religioso” del vino nell’antichità classica è a tutt’oggi riscontrabile
anche nel repertorio tradizionale armeno: molti canti popolari,
trasmessi oralmente di padre in figlio, celebrano la funzione
purificatrice e di coesione comunitaria del vino, sovrapponendo spesso
al riferimento più o meno diretto alla ritualità cristiana delle origini
l’impronta di un sentimento arcaico e sacrale della bevanda alcolica.169
Aram Khaciaturian, uno dei principali compositori armeni dell’era
sovietica, non disdegnò di musicare un canto dedicato al vino che
porta il titolo di Hayastanì garmìr kinì, ovvero “Vino rosso d’Armenia”.
E in effetti tra i molti canti della tradizione popolare armena ve ne
sono alcuni riservati proprio al vino, “inni” di laica e gioiosa sacralità
che tutti, grandi e piccini, intonano a piena voce. Uno in particolare
invita a riempire i calici: “Letznènk ëngernèr pajagnèrë li / Togh hayòtz
kinìn, mez anùsh linì” (“Riempiamo, amici, i bicchieri / che il vino degli
Armeni ci sia dolce”).
Il vino scorreva a volontà anche in epoca medioevale; nei
banchetti non potevano mancare i gusàn, i trovatori che
allietavano con i loro canti e con il virtuosismo musicale le
gozzoviglie dei signori.
Tra essi compaiono anche delle figure di donne musiciste che
suonavano e intrattenevano gli ospiti talvolta anche con dei canti.
Come terminassero i banchetti dei nobili è facile immaginarlo: si
alzavano da tavola ubriachi, se riuscivano ad alzarsi
Mechitharine: questo è il nome del prezioso liquore d’erbe
medicinali che viene prodotto a Vienna dai Padri Mechitaristi
seguendo le indicazioni contenute in un manoscritto del XVII
secolo, e che conserva l’antica sapienza riguardo alle proprietà
digestive di erbe, radici e spezie.
Oghì - Grappa
Con il termine oghì s’intende principalmente il distillato d’uva; lo
stesso termine, seguito dal nome del frutto da cui è prodotto, indica
tutte le altre grappe.
Nella Repubblica d’Armenia queste acqueviti sono per lo più
prodotte in casa. Una delle più gradite è la grappa di mora di gelso,
tutì oghì, prodotta sia dalla mora nera che da quella bianca, ma molto
apprezzate sono anche la grappa di corniolo e quella di albicocca. Con
lo stesso nome gli Armeni chiamano anche il distillato aromatizzato
all’anice che nei paesi del Medio Oriente si chiama aràk, in Turchia
rakì e in Grecia ouzo. Tale distillato, trasparente come l’acqua, si
consuma schietto o con l’aggiunta di un po’ d’acqua e ghiaccio: questa
aggiunta muterà la sua originaria limpidezza in un colore opalescente
vicino al bianco del latte, come avviene nel tradizionale pastis
francese.
Agli abitanti di Tokàt piacevano molto i dolci e ogni donna di casa
sapeva stendere la sfoglia a suo modo. Era noto il loro börèg.
Anche i derivati del latte erano parte della loro alimentazione.
Alcuni avevano le mucche e producevano latte e burro e i derivati
del madzùn. Nella loro alimentazione i vegetali erano poco
consumati sia per il clima sia per consuetudine. Come sempre in
autunno si facevano le scorte e si riempivano i magazzini,
innanzitutto con quello che serviva per fare il pane, la farina; poi
con quello che si doveva ardere nel fuoco. Infine veniva il turno
del vino e della grappa che si preparava in casa.
Si preparava del buon oghì (grappa di uva), con le scorie
dell’uva usata per fare il vino, si filtrava in filtri di rame e la
grappa pian piano gocciolava; nelle vinacce si mettevano rose per
aromatizzarle alla rosa, o menta per farla alla menta. Si usava
aromatizzarla anche con il limone.171
Garečur - Birra
“Le abitazioni di questi villaggi sono sotterranee; hanno l’ingresso che
sembra la bocca di un pozzo, ma le stanze interne sono spaziose. Le
bestie vi entrano attraverso accessi appositamente scavati, gli uomini
vi discendono servendosi di scale. Vi si allevano capre, pecore, vacche,
galline con la loro prole; tutto il bestiame viene nutrito esclusivamente
con fieno. Conservano presso di sé frumento, riso, legumi e vino d’orzo
in crateri; in alcuni crateri si vedono galleggiare grani d’orzo, che si
dispongono agli orli; possiedono cannucce vuote all’interno, di
maggiore e minore grandezza, per cui chi ha sete e vuol bere si serve
aspirando dal cratere. Il vino d’orzo è molto forte se non lo si mescola
con l’acqua, ma chi vi è abituato lo beve schietto e ne gusta tutta
l’amabilità”.172
Così Senofonte narra nell’Anabasi di avere incontrato, nei pressi
delle fonti dell’Eufrate, gli Armeni produttori di birra;173 da quell’epoca
lontana a oggi restano nella Repubblica d’Armenia sostanzialmente tre
birre locali prodotte e commercializzate: la kotàyk, la erebunì,
dall’antico nome della capitale, e la giligià che trae anch’essa il nome
dal Regno armeno di Cilicia.
Tey o chay - Tè
Il tè è in Oriente una bevanda diffusa quanto il caffè in Occidente.
Nelle case della diaspora armena viene chiamato tey, con un termine
che deriva chiaramente dall’originale inglese, oppure chay, a seconda
dell’origine di provenienza delle famiglie. In casa nostra era
abitualmente detto chay, seguendo la dizione araba, e spesso
accompagnava il pasto serale, specie in inverno. Il termine tè o tey si
usava in relazione alla provenienza dei nostri ospiti: se venivano
dall’Iran, ad esempio, offrivamo il tey, se erano europei il tè o il tea. In
genere usavamo un buon tè di Ceylon, che all’epoca si trovava
confezionato in bellissimi pacchetti di carta stagnola con una gran
fascia di carta rossa decorata con magnifici draghi. Già solo la
confezione evocava un mondo fiabesco
Ricordo ancora il suo profumo e vedo di fronte a me tutte le cose
buone che mettevamo sulla tavola: il pane tostato, il formaggio, le
olive, la marmellata, i biscotti.
È ormai inutile, persino qui in Italia, fornire spiegazioni sulla
corretta preparazione domestica del tè, ma se volete provare a fare un
buon tè “all’armena” con il samovàr e non ne possedete uno, fatevi da
soli un samovàr casalingo, simile a quello presente in molte case
orientali. Portate a ebollizione l’acqua in un bollitore d’alluminio dalla
larga apertura superiore. Quindi versate un po’ d’acqua bollente in una
cuccuma in cui avrete messo il vostro tè, seguendo la regola di un
cucchiaino per ciascuna persona e uno per la teiera, coprite la
cuccuma e ponetela a mo’ di coperchio sulla bocca larga del bollitore.
Lasciate il bollitore su una fiamma bassissima. Pian piano il tè
sprigionerà il suo buon profumo. Controllate dopo un po’ che le foglie
del tè nella cuccuma si siano posate tutte sul fondo: allora spegnete la
fiamma perché il tè è pronto. Versate un po’ di tè, non più di un dito,
nelle tazze o nei bicchieri: il tè che avrete ottenuto è molto forte e
dovrete dunque allungarlo con l’acqua del bollitore. Con questo
sistema potrete berlo durante l’intera giornata.
Nanayòv tey
Tè verde alla menta
La menta, in armeno ananùkh, viene comunemente chiamata na’na’
dalle comunità armene che vivono in Oriente e nell’area del
Mediterraneo, dal nome della profumatissima varietà di menta che
cresce in quei paesi.
Per 1 persona
1 cucchiaio di tè verde • qualche foglia di menta piperita fresca
Arapagàn tey
Tè arabo con le cacauiye
In casa nostra facevamo un gustoso tè con le cacauiye, le arachidi o in
mancanza di queste con le mandorle. Sebbene non fosse una ricetta
tradizionale armena, questo tè tradizionale della Libia e diffuso in tutto
il Nordafrica era stato ben accolto nella comunità armena locale.
Ogni occasione era buona per decidersi a fare un tè con le arachidi.
Certo, la nostra era una versione casalinga che non poteva competere
con il meraviglioso tè tradizionale che i libici sapevano fare alla
perfezione, seguendo precise regole dettate dalla cultura autoctona.
Per 4 persone
150 g di arachidi • 5 cucchiai di tè nero • zucchero a piacere • menta o malva
Haygagàn surdj
Caffè all’armena
Come il tè, anche il caffè si prepara in vari modi. Quello tradizionale, il
più diffuso sia in Armenia che nelle comunità mediorientali, è senza
dubbio la polvere di caffè fatta bollire nell’acqua insieme allo zucchero.
Questo caffè ha una tostatura e macinatura diversa dal caffè che
conosciamo qui in Italia: è una polvere fine come la cipria. Potete
acquistarlo nei negozi specializzati, viene commercializzato con il
nome di “caffè arabo” ed è disponibile in due versioni: semplice o
aromatizzato al cardamomo.
Se non possedete un gezvèh, l’ibrìk o un brìki (questi i nomi
rispettivamente in turco, arabo e greco della caffettiera originale che
consiste in un pentolino dal fondo largo e il collo più stretto, dotato di
un unico lungo manico e un beccuccio adatto per versare il caffè
direttamente nelle tazzine), per prepararlo servitevi di un semplice
pentolino in cui verserete un cucchiaio di caffè per ciascuna persona,
zuccherate a seconda del vostro gusto, aggiungete l’acqua, una tazzina
colma a persona più una per il pentolino, mescolate e portate a
ebollizione sul fuoco a fiamma media. Appena bolle, togliete dal fuoco
e fate esaurire il bollore, riponetelo sul fuoco e fate riprendere il
bollore: ripetete l’operazione per tre volte. Adesso spegnete la fiamma
e versate subito il caffè fino all’orlo delle tazzine. Servitelo caldo, ma
non bevetelo immediatamente: lasciate riposare per qualche minuto
affinché la polvere si depositi sul fondo. In Oriente la pausa per il caffè
è una vera pausa e non, come da noi, il tempo di un espresso.
Una volta che la polvere si è depositata sul fondo potete
sorseggiarlo, ma fate attenzione a non svuotare del tutto la tazzina:
rischiereste di assaporare la polvere densa che si è accumulata sul
fondo.
Se siete in una casa armena, dopo aver bevuto il caffè rovesciate la
tazzina sul piattino con un colpo secco e attendete che qualcuno si
offra di leggervi il fondo del caffè. È una vera arte. Molte giovani
donne si siederanno amabilmente vicino a voi e vi mostreranno le
figure da cui trarre le notizie sul vostro prossimo futuro. Vi diranno per
esempio che in tre settimane o tre mesi o tre giorni riceverete
un’importantissima notizia, o che una persona anziana a voi molto cara
vi pensa. Queste sono alcune delle pietre miliari (sempre le stesse, con
poche variazioni ) della lettura del destino segnato nella vostra
tazzina.
Ricordo ancora con quanta ansia con le mie amiche si aspettava il
proprio turno, tra le risate e l’allegria. In particolare era atteso il
momento in cui con l’anulare – e non era un dito a caso – bisognava
premere sul fondo della tazzina: lì era segnato il destino dell’amore, e
la cosa peggiore era che la responsabilità del segno ricadeva
interamente sul proprio dito.
A fine lettura, che il verdetto ci piacesse o no, era usanza riempire la
tazzina di acqua fino all’orlo affinché i buoni auspici, che a fatica erano
stati individuati in quella ragnatela di caffè secco, potessero avverarsi.
Se si vuole oltremodo onorare l’ospite, questo caffè può essere
aromatizzato con dei semi di cardamomo, in arabo hel.
Parte seconda
Le occasioni del cibo
Un tempo gli dèi e gli uomini, e anche i Padri bevevano insieme (al
sacrificio): era il loro comune banchetto. Allora li si vedeva,
quando venivano al banchetto; oggi vi assistono ancora, ma sono
invisibili.175
Un tempo le case armene erano abitate da più nuclei famigliari; ciò era
dovuto al fatto che i figli maschi, una volta sposati, continuavano ad
abitare nella casa paterna e, se mancava lo spazio, si costruiva una
nuova stanza: questo non significava vivere separati dal resto della
famiglia, ma solo che la casa paterna si dotava di un nuovo ambiente.
La famiglia era come un’impresa e tutti lavoravano per un’unica
dispensa, contribuendo al benessere dell’intero nucleo famigliare.
La vita familiare era scandita, per gli uomini, dal lavoro fuori casa,
in genere nei campi, sulle alture in cerca di pascoli più ricchi o in
attività artigianali, oppure in brevi viaggi per vendere e scambiare
piccole merci. Le donne invece si occupavano della casa: cucinavano,
andavano a prendere l’acqua al pozzo, coltivavano l’orto, badavano alle
galline e agli altri animali da cortile, si occupavano del bucato,
facevano il pane e crescevano i figli.
La famiglia si riuniva alle ore dei pasti, che erano consumati in
comune, ma questo non era l’unico momento di ritrovo collettivo e di
condivisione.
Durante il rigido inverno, dopo il lavoro, la sera le famiglie spesso si
riunivano nell’odà,176 che spesso si trovava in un angolo del fienile o
della cantina. Qui le nonne raccontavano le fiabe, mentre i più giovani
approfittavano per aggiustare gli attrezzi e le mamme rammendavano
o ricamavano. C’era sempre in bella vista un vassoio colmo di dolcetti
e frutta secca che ben si accompagnavano al tè, al caffè o alla grappa.
A volte si materializzavano anche gli ashùgh, i cantastorie erranti, che
raccontavano di eroi, di imprese e di antiche leggende.
Questa antica forma del ritrovarsi oggi si è perduta e le odà non
esistono più, ma ogni scusa è buona per fare festa (noi diciamo “fare
kef”) e stare insieme a parenti e amici in serenità e allegria.
Quando gli adulti giocano
Il domino
Un altro gioco, molto meno rumoroso del tavlì, e che ricordo con molta
tenerezza, è il domino. Mio nonno Ohannès, abile artigiano del rame,
ne aveva costruito uno con le sue mani. È con lui e con il suo domino
che da bambina ne ho imparato le regole.
Per quanto possa sembrare strano, il domino è un gioco molto
diffuso tra gli adulti in Oriente e richiede molta abilità nell’indovinare
le tessere in possesso degli sfidanti per prevedere in anticipo le loro
mosse.
È divertente osservare come ciascun giocatore serbi gelosamente le
sue tessere nell’incavo del palmo della mano o come accuratamente le
disponga a semicerchio davanti a sé, celandone i valori agli avversari.
Anche in questo gioco vi è una forte componente di casualità che
risulta dalla distribuzione delle tessere con cui ciascun giocatore deve
fare i conti per trarne il maggior vantaggio.
L’astràgalo
L’astràgalo (antico dado a quattro facce, in armeno djan) è l’osso della
capra situato poco sopra lo zoccolo.177 Un tempo era impiegato come
rudimentale dado in alcuni giochi infantili;178 mio padre ne conservava
un paio nel fondo di un cassetto, probabilmente in ricordo dei tempi
dell’infanzia.
Anche nella fiaba tradizionale armena il djan è presente e gioca un
ruolo di vitale importanza. Quando il re si trova davanti al messaggero
proveniente da un paese lontano che traccia un cerchio intorno al
trono e si siede silenzioso, nessuno dei ministri può risolvere l’arcano,
dunque gli araldi cercano in tutto il reame. Sarà il saggio tessitore con
l’ausilio dei suoi djan a vincere la sfida:
San Sergio, vieni a passare la notte in casa nostra;
chiudi la porta con la tua spada;
copri la finestrella col mantello;
chi si avvicini alla porta resti di sasso;
chi sale sul tetto, cada privo di sensi.213
Paregentàn, il Carnevale
Al digiuno del Surp Sarkìs seguivano i giorni del Paregentàn,214 il
Carnevale degli Armeni, giorni di festa e di abbondanza alimentare la
cui gioia spensierata veniva poi evocata nel corso del periodo
quaresimale, che seguiva di lì a poco.
Come in molte tradizioni, anche nel Carnevale armeno i ruoli sociali
venivano sovvertiti, tanto che anche gli adulti, finito il lavoro, si
divertivano a giocare. Oltre al gioco con la palla – un tempo realizzata
con stracci e lana – si usava portare in processione per le stradine del
villaggio, tra grida e risate, il tulkhagìr, un fantoccio o più spesso
addirittura un paesano in carne e ossa che, vestito in modo bizzarro
(spesso da sposa), camminava tra l’ilarità e i lazzi generali. Dopo la
messa e dopo aver mangiato la tradizionale harissà, le donne vestivano
da sposa un manico di scopa, ornandolo con i loro stessi gioielli, e lo
portavano di casa in casa o lo sistemavano in un angolo del loro cortile,
ballando e cantando per tutta la notte.
A Maràsh il giorno deputato per questa passeggiata folle era il
mercoledì, quando si faceva lo stesso tulkhagirì sposànk, cioè il
matrimonio di tulkhagìr, in sostanza “le nozze per ridere”. La parola
tulkhagìr, che significa “prendere in giro”, “deridere”, è dialettale e
pur esistendone da regione a regione e da villaggio a villaggio infinite
varianti linguistiche, il suo senso resta immutato. Oltre a questa
bizzarra processione c’erano diverse altre forme rituali legate al
periodo del Carnevale.
Il mercoledì, in alcune regioni, le donne si astenevano dai lavori
domestici e si riposavano dicendo: “È la Festa del lupo”, per far sì che
la belva non si avvicinasse alla loro casa e al loro cammino.
Il venerdì della Settimana Santa era chiamato la “Festa dei topi”:
per scongiurare la presenza dei roditori nel corso dell’anno, le donne
in quella occasione si astenevano dal cucire e dal filare, cosicché i topi,
durante l’anno, sarebbero stati lontani dalle dispense e non si
sarebbero intrufolati in cucina. In alcune zone le donne non
cucinavano nemmeno, e si giustificavano sostenendo di farlo per
indurre i gatti affamati a fare piazza pulita del loro nemico giurato.
Anche in occasione della cosiddetta “Festa dell’ubriaco” (o “Lunedì
del pane e sale”) le donne non filavano, ma questa volta per evitare di
incontrare uomini ubriachi e rischiare di perdere il proprio onore.
Inoltre si cucinava e si mangiava solo una minestra dal sapore agro,
poi si faceva il bucato e si finivano le pulizie. Le macchie d’olio erano
molto temute, perché se si sfioravano durante il periodo della
Quaresima tutta l’astinenza alimentare perdeva il suo valore: si era
digiunato invano.
La settimana che precedeva la Quaresima era scandita dal cibo. A
Maràsh, per esempio, il martedì si servivano tre tipi di pietanze
diverse, il mercoledì cinque, il sabato sette e la domenica si arrivava a
più di dodici.
A queste grandi scorpacciate seguivano feste in cui tutti danzavano
allegramente al suono dei dhol e degli zurnà,215 i maschi travestiti da
donna e le donne da uomini. Persino i preti godevano di una sorta di
dispensa temporanea dai doveri legati al loro ruolo e potevano
anch’essi – semel in anno – rompere le rigide leggi della vita clericale.
In questo periodo compariva inoltre la figura di un personaggio
mascherato che si aggirava per il paese ed era ritualmente autorizzato
a prendersi gioco di tutto e di tutti tra le risate dei paesani.
La domenica, tornati a casa dopo la messa, si mangiava una speciale
minestra chiamata hadìg, arricchita a volte con un po’ di mandorle o
noci sbriciolate, oppure si metteva del grano nella zuppa di lenticchie,
a cui si aggiungevano anche fave e ceci.
A Maràsh in particolare, dopo mangiato la gente si recava in
pellegrinaggio al santuario di San Teodoro, Surp Toròs: lì c’era un
albero solitario sotto il quale la leggenda diceva che il santo avesse
sostato a riposare qualche giorno, e a quest’albero ciascun fedele
legava un filo o un pezzo di stoffa.216
A seconda delle usanze locali alcune famiglie, due sere prima
dell’inizio di un digiuno che sarebbe durato sette settimane, cenavano
insieme e per ultimo mangiavano un uovo sodo a testa; “per chiudere
la bocca”, si diceva, affinché il giorno di Pasqua la potessero riaprire
ancora una volta con un uovo. I giovani non amavano questa usanza,
visto che il giorno dopo era lunedì ed era ancora un giorno di festa, in
cui peraltro abbondavano gli avanzi alimentari del Paregentàn.
Un tempo, durante questa fase carnevalesca si celebravano i
matrimoni e i fidanzamenti: dopo di allora, per lunghe settimane, non
sarebbe stato più possibile festeggiare.
Zadìg, la Pasqua
Tra gli Armeni la Pasqua è la festa più importante dell’anno. Dopo la
messa ci si scambiano gli auguri in questo modo: alla frase Khristòs
hariàv i merelòtz, “Cristo è morto e risorto” l’altra persona risponde:
Orhneàl e harutyùn Khristosì, e cioè “Sia benedetta la Resurrezione di
Cristo”.
Ma non sarà ancora vera Pasqua per gli Armeni se tornando a casa
non si giocherà con le uova colorate e non si mangerà un pezzetto di
čorèg, il pane pasquale a forma di grande treccia, profumato, ben
lievitato, con la sua magnifica superficie lucida, tagliato a fette sottili,
imburrato e cosparso di marmellate saporite.
Le uova colorate verranno mangiate dopo la battaglia a colpi di
uova, una battaglia che coinvolge grandi e piccini e che ha delle regole
precise: ciascun giocatore stringe in mano il proprio uovo sodo
colorato che avrà scelto con cura, osservandolo, toccandolo e
saggiandone la solidità. Il giocatore tiene l’uovo con delicatezza tra il
pollice e l’indice e lo protegge con il resto della mano; a volte, nel
porgerlo all’avversario per riceverne il colpo, non ne mostra che un
piccolo puntino colorato, tanto la mano è stretta attorno all’uovo per
dare all’avversario la minor superficie possibile da colpire.
I due sfidanti, uno di fronte all’altro, cercano a turno con dei colpetti
ben assestati di incrinare il guscio dell’uovo dell’avversario. Un gioco
semplice, in fin dei conti, eppure questa sfida pasquale appassiona e
diverte tutti.
Il gioco accompagna insieme al mezè l’attesa del pranzo di Pasqua,
su cui domina l’agnello ripieno: e sulla tavola non mancheranno il pilàf
di riso, ancora uova sode, il pesce e varie verdure di contorno.
Un tempo il madàgh, cioè il sacrificio di sangue, era una pratica
molto diffusa nel giorno di Pasqua.222 Sebbene la regola della chiesa
imponesse di consumare la carne sacrificale sempre e solo bollita, e
vigeva il divieto assoluto di preparare con essa qualsiasi tipo di
pietanza, il giorno di Pasqua si poteva invece arrostire l’agnello e dare
ai preti la loro parte come offerta a Dio. Così stabiliva Nerses
Shnorhali223 spiegando che a Pasqua si poteva consumare questa carne
accompagnandola con altri cibi.
Circa la cottura e la consumazione tradizionali della carne pasquale
sono state raccolte varie testimonianze; una di queste racconta che:
“La domenica di Pasqua la messa inizia molto presto, verso le sette del
mattino, e dura fino alle nove. Uscita dalla funzione la gente prende un
po’ di questo madàgh224 e mangiandolo interrompe anche il digiuno di
sette settimane, durante il quale è vietato nutrirsi di carne e dei
prodotti del latte. Dopo questa distribuzione, ciò che rimane viene
regalato ai poveri, i quali però hanno già ricevuto una porzione di
carne cruda per poter festeggiare questi giorni festivi. Il brodo rimasto
nelle pentole lo prende liberamente chi vuole”.225
Una tradizione particolarmente sentita e conservata è quella del
giorno successivo alla domenica di Pasqua; al contrario della Pasquetta
occidentale, giorno di festa e di allegria dedicato alle scampagnate,
per gli Armeni questo è il giorno della commemorazione dei defunti:
tutti si recano al cimitero dove è uso benedire, incensare e accendere
dei lumi sulle tombe dei propri cari. Un tempo, presso i luoghi di
sepoltura, gli uomini bevevano alla memoria dei loro cari dell’oghì o
del vino e consumavano i cibi portati da casa, lasciando bicchieri e
avanzi di cibo sulla pietra tombale. Il pasto che segue il funerale si
chiama, invece, hokehankìst o hokè djash, il “riposo” o il “pasto”
dell’anima.
Kna merì egur sirèm, cioè, “va’ e muori; torna e ti vorrò bene”: un
detto popolare armeno che mostra un certo sarcasmo nei
confronti della vita, della morte e delle vicende umane.
Quando gli Armeni ancora abitavano le loro terre occidentali,226 si
racconta che dalle parti di Mush la domenica di Pasqua si offriva
la carne del madàgh ai vicini di casa. Per far ciò, prima portavano
l’animale davanti alla chiesa e gli davano il sale benedetto; una
volta uccisolo, segnavano col sangue del sacrificio la lapide dei
loro cari al cimitero, o il muro della loro casa. Inoltre su ogni
porta di casa appendevano il guscio dell’uovo sodo colorato di
rosso, come antidoto contro i mali da cui occorreva difendersi.227
Vartavàr, la Trasfigurazione
Pur con l’avvento del Cristianesimo, in Armenia non fu possibile
abolire diverse feste antiche, radicate e molto sentite dalla
popolazione. “I Padri armeni non hanno voluto sopprimere le usanze
pagane innocenti: le hanno bensì cristianizzate, e così è stato per il
Vartavàr e la benedizione dell’uva”.232 Anche dopo tanti secoli di
cristianità, il Vartavàr resta intatto nella memoria degli armeni e,
sebbene i Padri fondatori della Chiesa armena vi sovrapposero la festa
della Trasfigurazione di Gesù Cristo, la giornata conserva la medesima,
antica denominazione. È il giorno in cui, secondo una tradizione
immutata, nelle comunità ci si bagna vicendevolmente con acqua. La
felicità e l’eccitazione per il Vartavàr ha fatto sì che la Trasfigurazione
del Signore sia una ricorrenza celebrata con gioia tra gli Armeni più
che presso altri popoli cristiani. “In questo giorno” spiegano alcuni
fedeli, “l’acqua si getta in memoria dell’Arca del diluvio e vengono
liberati i colombi in memoria del gesto di Noè”.
Molto probabilmente le ragioni di questa festa e del suo legame con
l’acqua traggono origine da antichi riti dedicati al culto delle acque e
da quelli riservati in epoca più tarda alla dea Anahìt. A essa si
attribuiva il dono della saggezza e della forza, ed era considerata la
tutrice della prosperità degli uomini e della fertilità della terra.
Soprannominata “Fonte della vita” e “Madre della saggezza”, Anahìt
era oggetto di un culto diffuso e celebrato in tutto il paese e che
raggiungeva il suo culmine nel corso dell’estate, quando le rose erano
ancora in fiore. Di qui l’espressione Vartavàr, da vart, “rosa” e var,
“accesa”: dunque “splendente di rose”, come la dea più amata.
Così importante è il culto di Anahít che san Gregorio di Narèk,
vissuto in Armenia attorno al X secolo, dedica un’ode alla festa del
Vartavàr e a questa antica tradizione armena, descrivendo la vita della
rosa (che definisce gohàr vart, “gemma preziosa”) e lodando il
Creatore per il dono fatto agli uomini.
Nel giorno deputato ai fasti rituali, il tempio e la statua della dea,
emblema della bellezza e del rinnovamento periodico, erano ornati di
rose e con le rose si abbellivano anche le facciate delle case, le strade
e i palazzi pubblici. Ancora per lungo tempo dopo l’avvento della
religione cristiana, in alcune regioni il popolo ha continuato a decorare
le chiese con le rose e a spruzzarsi a vicenda l’acqua, simbolo di vita
nascente; e a lungo si è continuato, come nei tempi antichi in memoria
di Anahìt, a liberare colombi.
Dopo la cristianizzazione, in occasione del Vartavàr il popolo andava
in pellegrinaggio presso vari monasteri; una volta conclusi i riti
religiosi, seguiva una festa popolare con sfide a cavallo, gare di abilità,
balli e canti al suono di zurnà e dhòl.233 Quello che si è conservato fino
a oggi nella memoria degli anziani è il pellegrinaggio verso il
Monastero di Surp Garabèd (cioè San Giovanni Battista), che sorgeva
non lontano da Mush, dove si teneva la famosa gara tra ashùgh,234 che
appassionava il popolo e la cui fama giunge fino ai nostri giorni.
Ecco alcuni versi di una lunga preghiera dedicata a surp Garabèd:
“Nel Giordano dal corso sinuoso / si gettavano molti peccatori / i
peccati dei peccatori tu li lavasti con l’acqua del fiume / Tu possiedi
mille muli per numerose carovane / vacche e pecore a mille a mille / tu
esaudisci i voti degli ashùgh, surp Garabèd, tu che esaudisci i nostri
voti”.235
In alcune località, nella stessa ricorrenza si intrecciavano con le
spighe delle figurine umane, dette khačbùr o kskrànks che, appese in
casa, tenevano lontano il malocchio, e se messe in prossimità dei
vigneti o dei frutteti proteggevano i raccolti e il bestiame nelle stalle.
Quel giorno i pastori ornavano la fronte delle loro bestie con i
daghdghàn, le decorazioni in legno benedette nel corso della messa del
Vartavàr. E il khntùm dogh, il “portatore di gioia”, troneggiava sulle
tavole della festa: si trattava di un oggetto che le donne di casa
confezionavano con grande cura. Formavano una croce con due
pezzetti di legno, e poi la decoravano con frutti densi di significati
simbolici. Alla fine veniva posta sulla tavola imbandita e rifinita con
profumati boccioli di rosa.236 Si dice che secondo tradizione era
proibito mangiare le mele prima del giorno del Vartavàr.
Nelle comunità dei mussalertzì, gli anziani ricordano ancora che a
Yoghùn Olùk, Khederbèk e Vakèf, tre villaggi sulle pendici del
monte, si riunivano per il Vartavàr sotto il pioppo più maestoso del
villaggio e con danze e musica festeggiavano tra spruzzi d’acqua
la giornata di festa.
Oltre ad Anahít, nel pantheon armeno antico figurano altre due
importanti divinità femminili: Nané, protettrice della maternità e
della famiglia, e Astghìg, “piccola stella”, la dea della bellezza e
della saggezza nonché custode delle vergini. I loro nomi risuonano
ancora oggi per le strade della Repubblica d’Armenia e nelle
comunità armene sparse nel mondo. Sono tra i nomi femminili
preferiti dai genitori per le bambine.
Harsanìk, il matrimonio
Darosë kezì, “il prossimo turno a te” (cioè, la fortuna toccherà te),
è la formula augurale che risuona il giorno delle nozze e in
occasioni di particolare felicità. In questo caso, è la madre della
sposa che augura la medesima felice sorte della figlia agli invitati
presenti alla festa. Una specie di lancio del bouquet che colpisce
indiscriminatamente tutti i presenti.
Nella società contadina i matrimoni venivano celebrati una volta
conclusi i lavori nei campi, principalmente d’inverno. Anche tra gli
Armeni i giovani sposi, un tempo, non godevano di molta libertà di
scelta: erano infatti i genitori a decidere o suggerire la sposa o lo
sposo con cui convolare a nozze.
Il giorno del matrimonio, Harsanikì or, era un giorno di festa per
l’intera comunità.
Harsì bes, cioè “come una sposa”, si dice in armeno per intendere
una posizione di privilegio in cui una donna è servita e riverita. Questa
condizione per le donne armene è assai rara; sono loro infatti che si
prendono cura della grande famiglia patriarcale e a cui non capita
spesso di starsene con le mani in mano.
Il giorno delle nozze, la sposa sta seduta al centro della stanza: tutti
la osservano e contemplano la sua bellezza e lei si fa ammirare senza
fare altro, ma per l’intera giornata non deve far mostra di essere felice.
Il distacco dalla casa paterna, la partenza verso la casa del marito,
l’acquisizione di una nuova famiglia e di una nuova madre (la suocera)
e nuove sorelle (le cognate) segna per la donna il passaggio definitivo
dalla fanciullezza all’età adulta. Deve imparare le regole che il nuovo
ruolo le impone, e deve accudire il marito e i figli che verranno. Se la
sposa è la moglie del primo figlio maschio sarà fortunata, perché sarà
la prima in ordine di tempo a entrare nella casa del marito; inoltre la
moglie del fratello maggiore ha un maggiore peso sulla conduzione
della famiglia, anche se è comunque subordinata alla suocera. Così,
sebbene in alcuni canti compaia l’appellativo di “regina” riferito alla
sposa, i canti femminili sono per lo più di lamento e doglianza per il
distacco dalla casa paterna.
La denominazione di hars, “sposa”, segue le diverse tradizioni
famigliari: a volte l’appellativo è appannaggio unico della prima sposa
entrata in famiglia, altre volte è così che si chiamerà anche l’ultima
sposa. E tale resterà il suo nome anche col passare degli anni: il
termine italiano che più si avvicina all’armeno hars è quello di
“sposina”.
Il protagonista della giornata è però soprattutto lo sposo, che viene
chiamato “re”, e in parte sua madre, che apre la porta della casa e
accoglie in casa i due giovani.237
Fin dalle più antiche testimonianze per la festa del matrimonio
risulta indispensabile la presenza di cibi speciali e di buon auspicio:
sulla mensa nuziale non devono quindi mancare le melagrane e le mele
rosse o giallo chiaro, colori che ricordano il naròd, il nastro bicolore
che nel corso della cerimonia nuziale cinge il capo degli sposi e li
unisce, simulando e augurando l’unione e la prosperità del matrimonio.
In alcune fonti è citata anche la presenza di uova colorate di rosso,
sebbene per tradizione le uova colorate siano esclusive del giorno di
Pasqua e della ripetizione del suo mistero: la vita, la morte, la
Resurrezione.238 E naturalmente il tel gatà, il dolce tipico del
matrimonio.
I canti di nozze tradizionali oggi risuonano in parte soltanto sui nastri
registrati dagli etnologi. Nelle città se ne è perduta memoria, mentre
nei paesi solo alcuni hanno avuto una vita più lunga. Tuttavia, da
questi documenti di cultura orale possiamo dedurre alcuni dei
significati profondi del rito matrimoniale armeno di tradizione.
La festa del matrimonio durava tre o quattro giorni. Due giorni
prima delle nozze i parenti dello sposo, con l’aiuto dei vicini di casa e
degli anziani, preparavano il tel gatà.
Dopo aver procurato grandi quantità di farina, d’olio e di zucchero,
gli anziani preparavano il ripieno (khorìtz) e dopo aver confezionato il
dolce lo inviavano al forno per cuocerlo.
Appena pronti i tel gatà, i parenti più giovani dello sposo, riempite le
bisacce, salivano sui cavalli e si recavano a visitare tutti i parenti e gli
amici portandolo in dono: esso fungeva infatti da invito a partecipare
alla festa di nozze. Porgendo il delizioso dolce, il messaggero ripeteva
una formula tradizionale: “Vi porgo il tel gatà / ve lo do in segno delle
nozze / Mio padre e mia madre vi porgono i loro saluti / e vi invitano a
casa nostra”.
Tra canti e bicchieri di oghì, la grappa che gli ospiti offrivano ai
giovani messaggeri, la sera si concludeva a casa dello sposo, dove
arrivavano i suonatori di zurnà e kamančà239 per continuare la festa.
Dapprima si ballava in groppa ai cavalli nel cortile, in seguito ci si
introduceva a fatica nell’abitazione dello sposo spronando i cavalli,
creando scompiglio e nell’euforia generale si continuava a danzare e
cantare senza mai scendere da cavallo.
All’alba del giorno delle nozze, i parenti e gli amici dello sposo si
radunavano e insieme ai musicisti si recavano a casa del kavor, una
figura importante e distinta dal testimone di nozze, che ha il ruolo di
protettore dello sposo: si occupa di raccogliere doni in denaro e
ricopre speciali funzioni nel giorno del matrimonio, vigilando affinché
tutto sia svolto nel modo giusto e onorevole per il suo protetto. Gli
amici dello sposo dunque con grande solennità e rispetto
accompagnavano in processione il kavòr e sua moglie (la kavorgìn) in
casa dello sposo.
Qui iniziava la vestizione del futuro sposo che, in piedi, attorniato
dagli amici, veniva abbigliato con gli abiti nuziali: la tradizionale
camicia e il corpetto con i bottoni d’argento stretto in vita da una
cintura larga e rossa, calzoni e scarpe nuove e per finire il fazzoletto,
sempre di colore rosso, legato al collo.
Durante questa cerimonia i presenti intonavano canti tradizionali
tesi a incoraggiare il kavòr – che nel corso della cerimonia consegnava
i suoi doni al giovane – a elargire una consistente somma di denaro al
figlioccio, o canti di diverso tenore che vedevano protagonista la futura
sposa la quale, sebbene mai nominata direttamente, era paragonata a
un uccello infreddolito che bisognava riscaldare, vestire, nutrire e
proteggere.
Una volta terminata la vestizione, lo sposo danzava lo zkestavormàn
bar, il “ballo della vestizione”; non si poteva sedere e in piedi
attendeva un segno dal kavòr per recarsi presso la dimora della
promessa sposa. Ciò avveniva una volta conclusa la cerimonia della
consegna dei doni. Il corteo diretto a casa della sposa era aperto dallo
sposo, tenuto per mano dal figlio del kavòr che stringeva nell’altra un
grande cero ornato di rose rosse. Assieme agli amici si cantava “il ballo
delle nozze”, harsnarì bar. Una volta giunti a casa della sposa, la metà
del rito era compiuta; adesso il promesso sposo, tenendo la futura
moglie con la mano sinistra (e con la destra sempre stretta a quella del
figlio del suo kavòr), si recava in chiesa seguito dal resto degli invitati.
Finito il rito religioso, tutti tornavano nella casa paterna del novello
sposo, mentre gli amici cantavano ancora un canto speciale fino a che
non scorgevano la madre dello sposo la quale, in piedi presso la soglia,
attendeva tenendo in mano due colombi, che infine liberava sulle teste
dei due giovani accogliendoli in casa. Con questo ingresso i canti
tacevano.240
Si usava offrire un particolare sacrificio madàgh per il buon auspicio
di un matrimonio, e nella testimonianza che qui riportiamo viene posto
l’accento sulla funzione del sangue sacrificale. Nella zona di Borčàl (la
parte orientale dell’Armenia storica) e in molte altre province armene,
in occasione di feste nuziali si procedeva all’uccisione rituale di un
bovino. Quando la bestia veniva sacrificata, la madre dello sposo
bagnava nel primo zampillo di sangue un pezzo di filo rosso e lo
conservava con cura fino alla prima notte nuziale, affinché lo sposo
non perdesse la propria forza virile. Inoltre la fronte dello sposo veniva
tracciata una croce sulla fronte con lo stesso sangue, al fine di tenerlo
lontano dalle disgrazie. Il venerdì mattina, giorno del matrimonio, il
padre dello sposo conduceva un bue, gli legava le zampe e gli volgeva
il muso verso Oriente; il macellaio, msakòrz, con un coltello gli faceva
il segno della croce sulla gola e lo uccideva. La madre della sposa
intingeva la mano nel sangue e tracciava una croce sulla porta della
casa come scongiuro contro il malocchio.241
Come si è visto, il rapporto col mondo animale era spesso dominato da
codici ben fissati, la caccia era regolata e l’allevamento e il pascolo
avevano norme precise finalizzate all’ottenimento di prodotti buoni e
abbondanti. Un animale che gode di un particolare prestigio nel mondo
arcaico è il cavallo: è sul cavallo che Surp Sarkìs si aggira per i
villaggi, è il cavallo di fuoco la cavalcatura dell’eroe delle fiabe
popolari, ed è questo il mezzo privilegiato dal messaggero che porta la
notizia delle nozze nei villaggi circostanti e da cui non dovrà mai
scendere. Tuttavia l’uso delle bestie da soma come mezzo di trasporto
per l’uomo è assai raro: gli animali venivano infatti sfruttati soprattutto
per il trasporto delle merci, mentre il padrone camminava lentamente
al fianco della bestia, quasi a voler condividere la fatica del carico. Per
il trasporto dei prodotti dei campi si utilizzavano ceste di varie fogge e
dimensioni, che ben si potevano adattare di volta in volta alla preziosa
merce.
Le bestie erano gli aiutanti dell’uomo, servivano per il lavoro e
non era usanza cavalcarli. Se una famiglia, per qualsiasi motivo,
doveva fare un breve viaggio, all’animale veniva legato il carro e
in esso si sistemavano i vari membri della famiglia.
Nei paesi che sorgevano al limitare dei boschi le bisacce a due
tasche poste sul dorso degli animali da soma servivano
principalmente per trasportare la legna. Si usava il cavallo come
mezzo di trasporto di persone solo per piccoli tratti e in caso di
feste particolari. La donna non cavalcava; se lo faceva era solo in
caso di pellegrinaggi su stradine di montagna, dove il carro non
poteva passare.242
Il khurgìn è la tradizionale sacca a due tasche di stoffa o di lana
tessuta che si sistemava sul dorso del cavallo o dell’asino. Oltre a
contenere piccole merci, poteva servire in casi estremi anche per
il trasporto di un bambino piccolo. Altri contenitori adatti alla
cavalcatura erano i cesti – di rami intrecciati in pianura, e di cuoio
o lana in montagna.
Si usavano cesti alti fino a un metro e mezzo, con cui si
trasportavano frutta, verdura e foraggio. La realizzazione di questi
cesti era artigianale e tradizionalmente di competenza degli
uomini, che usavano preferibilmente alcuni tipi particolari di rami
di salice, di olmo, d’acero e perfino di alcuni alberi da frutta come
il melograno e il cotogno. Queste ceste sostenevano il peso di
trenta/cinquanta chili di frutta e di dieci/quindici chili di verdura o
foraggio. Avevano nomi diversi a seconda di ciò che erano
destinati a trasportare.243
9. Per alcuni autori questo termine deriva dal persiano e anticamente indicava acqua
salata o brodo.
10. C’è da dire però che i termini köftè-kuftè-kuftà e pilàf derivano dalla lingua persiana,
adottati poi anche nella lingua turca.
11. Mike Derderian, Armenians of Jordan: A community with duel [sic] identity, in The
Star, May 2, 2003.
12. Questo modo di cuocere, cioè farcire un contenitore che, in questo caso, è la zucca,
ci riporta molto indietro nel tempo, quando i contenitori naturali dei cibi che si
cominciavano a considerare come commestibili erano ortaggi, foglie e animali,
scuoiati e riempiti della loro stessa carne tagliata in piccoli pezzi.
13. Questa pietanza con alcune varianti è chiamata nei paesi del medioriente pasha.
14. Mio nonno Ohannès sosteneva che il khash era un antidoto naturale contro l’artrite
in quanto ricco di cartilagini.
15. Il più grande lago della Repubblica d’Armenia. Meta di turismo specie nella stagione
estiva, si estende a un’altezza di 2.000 metri e fornisce l’energia elettrica alla
capitale Yerevan che si trova mille metri più a valle. Molti altri sono i laghetti sparsi
sugli altopiani armeni, ma nessuno è di dimensioni così imponenti come il Sevan.
16. V. Hac‘uni, Čašer ew xnčoyk‘ hin Hayastani mēǰ (Pranzi e banchetti nell’antica
Armenia), Venezia-San Lazzaro 1912, p. 182.
19. Teofilo Deyrolle, Viaggio nell’Armenia e nel Lazistan, Milano, Treves, 1877.
20. Il vocabolo amìdj, spiega il dizionario etimologico dello studioso Ačaṙean, compare
nelle fonti armene soltanto due volte. Non si è attualmente in grado di comprendere
l’esatta natura di questo cibo, ma pare assodato che non si tratti di frutta. Gli
studiosi sono ora più propensi a ritenere che il termine indichi piuttosto un cibo a
base di carne, se si segue la variante iranica della radice. Consultando alcuni
dizionari armeni con l’aiuto di padre Grigoris, studioso mechitarista dell’isola
veneziana di San Lazzaro, mi sembra di poter convalidare questa ipotesi: carne, e
più probabilmente selvaggina.
23. In sostanza il narratore vuole dei dolcetti, e in una sorta di gioco verbale gli viene
risposto che quella usanza non c’è più, che le cose sono cambiate (comunicazione
personale di Verjiné Svazlian).
Note Parte prima A
26. Così avvenne quando il re armeno Arshag II, per contrastare e rafforzare il suo
esercito contro le minacce del re persiano Shapur II, fondò la città di Arshagavar e la
popolò di delinquenti a cui concesse l’immediata liberazione. Gli araldi vennero
inviati in tutte le pubbliche piazze del regno a diffondere dappertutto il decreto
regio: “Tutti coloro che sono indebitati con qualcuno, coloro che hanno danneggiato
qualcuno dove che sia, o coloro che sono debitori di giudizio a qualcuno, vengano
tutti quanti nella borgata a costruire. Chiunque abbia versato sangue, abbia recato
danno a qualcuno, abbia portato via la moglie a qualcuno, sia debitore, abbia preso i
beni di qualcuno, abbia timore di qualcuno, venga in questo luogo: non ci sarà né
processo né giudizio. Ma se qualcuno deve qualcosa a un altro e il creditore verrà in
questo luogo, lo prenderanno, senza processo e senza giudizio, e sarà cacciato fuori”
(P‘awstos Buzand, Storia degli Armeni, a cura di Gabriella Uluhogian, Milano,
Mimesis, 1997, p. 104). Questo gesto venne considerato senza fede anche dalla
nobiltà armena, tanto che il Catholicòs Nersès il Grande, tornato in Armenia dopo
l’esilio forzato in un’isola deserta, affrontò il re armeno e, dopo averlo severamente
redarguito per il comportamento lascivo e peccaminoso, gli suggerì: “Per i tuoi
peccati diamo ordine al popolo che in tua vece faccia il bahk” (V. Hac‘uni, Čašer ew
xnčoyk‘ hin Hayastani mēǰ, cit., p. 444).
28. Anche quando dico “stella”, in armeno astghr, penso a quanto questa lingua sia
prossima al latino, entrambe figlie del sanscrito. Lo stesso vale per gark, cioè
“carro”. Pensate che il treno anche oggi è per gli armeni il carro a vapore, cioè lo
shokegàrk.
29. Cfr. P. Der Movsessian, Das armenische Bauernhaus, Wien 1892; anche in arm. Hay
giwłakanǝ, Vienna, 1894.
32. Gli uomini commettevano un grave peccato se orinavano sul fuoco. Il fuoco e la
brace erano degni di rispetto.
35. Irina Petrosian, David Underwood, Armenian Food: Fact, Fiction & Folklore, Yerkir
Publishing, Bloomington, Indiana, 2006, p. 35.
36. Nella mia famiglia originaria di Urfa era quest’ultimo pane, rotondo, piatto e
saporito a essere preparato e consumato con il cibo di tradizione. La bisnonna Ferida
lo preparava una volta alla settimana per la sua grande famiglia. Mia madre ricorda
alla perfezione la ricetta, mentre io ricordo il sapore eccezionale di questo antico
pane di casa.
38. Cuscino su cui si mette la pasta del pane per poi sbatterla contro la parete del tonìr.
42. Il nome armeno di mio nonno era Ohannès, tradotto in italiano è Giovanni, mentre gli
arabi lo chiamavano Uanìs.
44. A. Alpōyačean, Patmut‘iwn Evdokioy Hayoc‘ (Storia degli Armeni di Tokat), Il Cairo,
1952, p. 1476.
45. In tutto l’oriente, fedele compagno dei pasti è il limone, che si spreme a volontà
anche sul lahmadjìn. Per avere un saporito lahmadjìn è fondamentale scegliere una
buona qualità di carne. Se usate la carne di agnello, questa sarà già naturalmente
grassa, ma se usate un altro tipo di carne, aggiungete nell’impasto almeno una
tazzina da caffè d’olio per renderla più morbida.
48. Kùir Antoinette è la gentile suora armena depositaria dei deliziosi segreti della
cucina del convento delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione di Roma, che
nel corso di un pomeriggio d’estate mi ha spiegato dettagliatamente alcune delle sue
ricette, tra cui questa.
49. Questa preparazione particolare trova nella vicina Georgia un parente prossimo, il
khinkalì, che però è più simile al raviolo cinese.
50. René Guénon, Simboli della scienza sacra, Milano, Adelphi, 1990.
51. L’uso delle foglie per arrotolare e tenere insieme vari ingredienti ci porta a una
riflessione sull’antica scienza dell’unire elementi diversi per rendere completo,
nutriente e utile all’organismo il preparato: “[ ] il consumo di vegetali a forte
proprietà antiossidante è antico quanto i cambiamenti sopraggiunti da alcuni milioni
di anni nel genere homo. Se si considera che l’aumento progressivo delle dimensioni
del cervello e la trasformazione del sistema nervoso hanno richiesto l’assimilazione
di lunghe catene di acidi grassi polinsaturi di origine animale, anche il consumo
crescente di antiossidanti è dovuto aumentare per ridurre lo stress ossidante. In
questo senso, un comportamento generale farmacogeno – a quanto pare già
affermato tra gli ominidi – ha potuto essere fortemente selezionato, o in alternativa
appreso, come strumento per accedere agli antiossidanti delle piante e alle altre
molecole che regolano gli effetti incrociati di un regime più energetico, di un
cervello che consuma ossigeno, della cottura del cibo e della longevità”: Christian
Boudan, Le cucine del mondo, cit., p. 30.
52. Typha latifolia, pianta di palude, una pianta acquatica con le cui foglie in passato si
imbottivano cuscini e materassi.
57. Per quanto questo piatto sia radicato nella cultura e apprezzato in tutte le stagioni
dell’anno, nel racconto di un sopravvissuto al genocidio permane un triste lontano
ricordo legato al dolmà. Il testimone ormai anziano ricorda che in seguito al suo
rapimento da parte di un turco si venne a sapere che anche sua madre era stata
rapita e viveva in un villaggio vicino al suo. Il suo padrone turco gli permise di
renderle visita:
“Mia madre Areknàs era una donna molto bella ed era stata rapita da un altro turco.
Il mio padrone un giorno mi fece andare da mia madre perché la vedessi. Io andai e
quando arrivai vidi tre o quattro donne, tutte le mogli del turco, mia madre era
seduta tra loro. Tutte erano intente ad arrotolare le foglie di vite, preparavano i
dolmà. Mia madre mi vide, non disse niente né fece niente, intinse solo una foglia
nell’acqua e me la diede perché la mangiassi. Io molto triste e avvilito tornai dal mio
padrone”. (Testimonianze di sopravvissuti al genocidio armeno, a cura di Sonya
Orfalian, di prossima pubblicazione).
58. Grano spezzato di cui parleremo diffusamente più avanti, a partire da p. 72.
60. Spesso, specie nella dizione armeno-orientale, il bulghùr viene chiamato anche
dzavàr. Quest’ultimo termine inoltre, a seconda delle zone geografiche, indica sia il
grano sia il grano sgranato ma non ancora spezzato. Un altro termine presente nei
parlari armeno-orientali è gorgòd, che, in alcuni casi, definisce il grano spezzato
crudo.
61. Alessandro de Bianchi, Viaggi in Armenia, Kurdistan e Lazistan, Argo Editore, Lecce,
2005.
62. Secondo alcune fonti, è originaria della Persia col nome haleem o harrisèh, si è poi
diffusa in Anatolia e parte dell’Iraq ed è arrivata fino in India. Cfr. Christian Boudan,
Le cucine del mondo, cit., p. 136.
63. Questa regione situata a sud-ovest della Grande Armenia, di fronte all’isola di Cipro,
venne popolata nel corso del medioevo dagli Armeni che, in fuga dalla persecuzione
dei Selgiuchidi, vi trovarono rifugio. Fondato dal principe Ruben (1076-1095 ca.),
questo principato raggiungerà il massimo splendore con Leone I il Grande, detto il
Magnifico, che lo trasformerà nel 1198 nello splendido reame di Cilicia. Qui
fioriranno le arti e la letteratura e si avranno grandi innovazioni in ambito politico e
religioso. Marco Polo, attraversando il regno, rimarrà impressionato dai commerci di
spezie e tessuti che la città di Laiazzo (l’antica Egea, oggi in Turchia) manteneva con
Venezia, Genova e altri paesi: “Ancora sappiate che sopra mare hae una villa ch’ha
nome Laias, la quale è di grande mercanzia, e quivi si posano tutte le spezierie che
vengono di là entro, e gli mercatanti di Vinegia e di Genova e d’altre parti quindi
levano loro mercatanzie e gli drappi di là e tutte l’altre care cose; e tutti i
mercatanti, che vogliono andare infra terra, prendono via da quella villa”. Marco
Polo, Il Milione, a cura di Marcello Ciccuto, Biblioteca Universale Rizzoli, 2006,
Milano, p. 106.
64. Letteralmente “la montagna di Mosè” nota anche come Mussa Dagh. Ler e dagh
sono rispettivamente i due modi di definire “montagna”, ler in armeno e dagh in
turco.
71. Si conserva nella memoria anche un kebàb chiamato “del pastore”. Si sceglieva un
capretto o un agnello di sei mesi e, riempitane la pelle della sua stessa carne, lo si
seppelliva in una buca, lo si ricopriva con la sabbia e si faceva cuocere per molte ore.
Poi si toglieva dalla terra e, spazzolando l’esterno, lo si gustava in allegria. Questo
tipo di cottura richiama la preparazione del porceddu in Sardegna, che interrato e
ricoperto con frasche aromatiche come il mirto viene cotto nel ventre della terra.
Svariate sono le spiegazioni che si sono date a questo tipo di cottura, senz’altro
molto antica; una delle principali è che essa non provoca fumo e la presenza del
gruppo di persone che cuoce non viene rivelata e resta nascosta. L’altra è che con
questo tipo di cottura, che necessita di molte ore, il resto della comunità può
allontanarsi a procacciare nuova selvaggina senza dover governare il cibo. Detto
questo, non deve essere un modo molto comodo per cuocere, data la sua scarsa
diffusione nel mondo!
72. Una regola generale per le dosi del bulghùr e della carne, se capiterà di non avere
una bilancia sottomano, è quella di usare l’occhio: ponete la quantità di carne che
avete a disposizione e inserite una quantità di bulghùr pari a una volta e mezza il
volume della carne. È un metodo infallibile.
73. Salah Jamal, Sapori arabi: ricette e racconti del Vicino Oriente, Milano, Guido
Tommasi Editore, 2005.
74. “[ ] dal mondo iranico viene la parola mez, un termine che significa giubilo,
all’origine dei mézés orientali”: Christian Boudan, Le cucine del mondo, cit., p. 170.
75. Impasto di acqua e farina da cui si ricava una speciale pastina. La ricetta è a pag.
130.
Note Parte prima B
80. Čemèn è il fieno greco, un’erba che cresce spontanea nei prati del bacino del
Mediterraneo. Per la sua preponderante presenza indica la marinata stessa in cui si
fa insaporire la carne. Per la carne di un bovino servivano un chilo e mezzo di
polvere di Čemèn, tre chili di peperoncino rosso e 6-7 kg di aglio sbucciato. Tutti gli
ingredienti venivano mescolati fino a ottenere un impasto omogeneo.
81. “Il pesce appena pescato veniva pestato ben bene e legato sul punto fratturato o
contuso, cambiando la fasciatura ben due volte al giorno. La cura durava per tre
giorni, poi con dei movimenti ben assestati la frattura veniva ricomposta. Lo stesso
facevano nel trattamento dei dolori muscolari”: Hay azkagrut‘yun ev
banahyusut‘yun, cit., vol. 5, pp. 164 e ss.
83. “Damaslëgh”: il fermento lattico naturale, che in casa nostra era costituito da una
porzione di yogurt della precedente preparazione.
84. Le mele dell’immortalità, fiabe armene, a cura di Sonya Orfalian, Milano, Guerini e
Associati, 2000.
85. Un simile modo di conservazione del latte in una cultura in cui questo è uno degli
alimenti principali non si discosta molto dalle tradizioni dei popoli confinanti, seppur
di diversa etnia e credo religioso. Marco Polo incontrando le tribù dei nomadi
dell’Asia centrale riportava con stupore: “Egli hanno ancora loro latte secco come
pasta, e mettono di quel latte nell’acqua e disfannolovi dentro, e poscia il beono”
(Piero Camporesi, Le vie del latte, Milano, Garzanti, 2006, p. 41).
Affascinante è la considerazione riguardo il cibo e il carattere dei popoli. In italiano
esiste un detto che recita parla come mangi, che non ha nessuna attinenza con
l’analisi del cibo ingerito: ci si vuole in questo modo riferire a un certo modo di
parlare forbito, e il riferimento all’alimentazione non è però casuale; in genere
l’esortazione suona come un invito a parlare più schietto e semplice. Ma l’esempio
del cibo e della comunicazione ci riporta a quella affascinante considerazione che
vuole che ci sia una “segreta relazione fra le rapide aggregazioni e le altrettanto
veloci separazioni di genti e tribù, fra l’improvviso coagularsi di popoli in imperi (e il
loro quasi repentino disfarsi) e la dieta delle steppe. Come se passasse un filo
misterioso e invisibile fra la fermentazione delle secrezioni equine, il coagularsi dello
yogurt, l’addensarsi e il montare della panna acida (la smetàna dei Russi), lo
spumare del kumyss e del kefir, tra la condensazione del latte essiccato al sole, lo
sminuzzamento e lo scioglimento della farina lattea e la frantumazione polverosa dei
loro inquieti e stabili domini. La recente implosione e il disfacimento del colosso
sovietico sembrano legarsi a una costante storica e a una ciclica vicenda biologica,
non solo ad una catastrofe istituzionale e politica”: Piero Camporesi, ibidem, p. 28.
A parte le considerazioni sulla consequenzialità cibo-società è certamente vero che
in alcune favole armene l’eroe riesce addirittura a comprendere con che latte è stato
nutrito un cavallo, e questo a mio avviso la dice lunga sulla cultura arcaica di cui
poco in verità fino a oggi ancora sappiamo.
93. Susie Hoogazian Villa e Mary Kilbourne Matossian, Armenian village life before
1914, cit.
94. Il fuoco e il fumo: due elementi che l’uomo utilizza per proteggere il luogo dove il
formaggio verrà posto per un certo periodo affinché la trasformazione sia completa.
Non è un caso che sono le viscere della terra le prescelte a cui viene affidato il
preparato; è necessario che il latte in trasformazione scenda nelle profondità, che
resti protetto e che la trasformazione avvenga al buio e nell’umido, prima che sia
pronto al consumo.
97. Nata a Kilis, da Aleppo arriva in Libia nel 1932 con i suoi figli, dopo essere
miracolosamente scampata al genocidio nel 1915, per ricongiungersi con sua figlia
Nvart, mia nonna.
100. Leblebì o lablabì in Turchia e nei paesi arabi sono i ceci arrostiti. È un termine assai
diffuso anche tra le comunità armene d’Oriente.
101. Vedi.
102. Questo divertente racconto l’ho ricevuto per lettera dalla zia Margareth, che vive a
Philadelphia; Margareth è la figlia di Mariam, sorella della mia nonna materna
Nvart. Questo racconto le veniva narrato spesso dalla sua mamma, sopravvissuta al
genocidio, emigrata dalla Siria negli Stati Uniti d’America negli anni Trenta.
Evidentemente le gesta del khodjà (il cui nome completo è Nasr Eddin Khodja),
l’irriverente e bizzarro eroe leggendario che sarebbe vissuto in Turchia nel XIII
secolo, venivano narrate per far divertire i bambini.
103. S. Vardanian, Medicine in Armenia, in J.A.C. Greppin et al. (eds.), The Diffusion of
Greco-Roman Medicine into the Middle East and the Caucasus, Delmar, N.Y., 1999,
pp. 185-198; anche in ital. La medicina in Armenia, in A. Sirinian, S. Mancini
Lombardi, L.D. Nocetti (a cura di), Le scienze e le arti nell’Armenia medievale
(Quaderni del Dipartimento di Paleografia e Medievistica, Convegni, I), Bologna,
2003, pp. 113- 124.
106. Il capo spirituale supremo della chiesa armena che risiede a Ečmiadzìn (Repubblica
d’Armenia).
107. Boghos Levon Zekiyan, Le colonie armene del medioevo in Italia e le relazioni italo-
armene (Materiale per la storia degli Armeni in Italia), in Atti del Primo Simposio
Internazionale di Arte armena (Bergamo, 28-30 giugno 1975), San Lazzaro-Venezia,
1978, pp. 803-946.
108. Il riferimento è a quanto è narrato nelle Sacre Scritture; cfr. Genesi, capitolo 30.
109. Ł. Ališan, Haybusak kam haykakan pusabaṙut‘iwn (La flora armena), Venezia-San
Lazzaro, 1895.
110. Riguardo un contenitore usato per le salature, il cui uso è ricordato ancora oggi in
Francia, si ha questa descrizione che singolarmente richiama la forma delle “donne
saliere” armene:
“Ampio come il ventre di una donna incinta, recipiente in gres che può contenere un
prosciutto intero o un quarto di cinghiale con la sua salamoia [ ] Da millenni i vasai
producono forme a un tempo tornite, dunque a simmetria assiale e che offrono un
volume massimo con un ingombro minimo, adatte allo stoccaggio, che si avvicinano
quindi alla forma più piena in assoluto. [ ] L’arte del vasaio, molto prossima al
mestiere del bottaio e all’abilità del paneraio, è altrettanto antica di millenni e, al
pari di quelli, al servizio della quotidianità, ma anche della sopravvivenza”. Pierre
Laszlo, Storia del sale, Roma, Donzelli Editore, 2004.
115. Per la verità antiche testimonianze riconducono l’origine dell’albicocco a terre da noi
assai lontane: “Proveniva invece dalla Cina settentrionale dove ancora oggi cresce
anche spontaneo. È così antico che già ne parlava il Chan-hai-king, il “Libro dei
monti e dei mari”, attribuito all’imperatore Yu il Grande, vissuto verso il 2200 a.C.: il
suo ideogramma cinese è un alberello in un vaso, quasi che esso sia stato
considerato l’albero per antonomasia”. Alfredo Cattabiani, Florario, Milano, 1996, p.
635.
Secondo una leggenda armena vi era un tempo in cui questo albero era usato come
pianta ornamentale per la sua verdeggiante fronda e per la bellezza dei suoi fiori. Fu
allora che a causa di una carestia il paese venne circondato e si diede ordine di
abbattere tutti gli alberi sterili per farne legna da ardere. Una giovane fanciulla
molto affezionata al suo albicocco chiese di passare un’ultima notte sotto le amate
fronde e tra i lamenti e i pianti arrivò l’alba; fu allora che con grande sorpresa si
accorse che era colmo di frutti meravigliosi.
Per l’origine armena che gli si attribuiva erroneamente, l’albicocco ha ispirato molti
poeti e letterati italiani che definivano questo albero con il nome di “Armellino”. Così
Pietro Bembo: “Caro Armellin, ch’innocente si giace/Vedendo, al cor mi riede/Quella
del suo pensier gentile e strano/Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento”; o
Giovanni Pascoli in La cinciallegra: “Avevi i piedi ignudi su la soglia,/tremavi come un
armellino in fiore/che trema tutto al vento che lo spoglia”. Cfr. Alfredo Cattabiani,
Florario, cit., p. 636.
116. B.L. Zekiyan, La porpora in Armenia tra mito, folklore, arte e religiosità: dall’inno di
Vahagn al bolo armeno, in La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico.
Atti del Convegno di Studio (Venezia, 24 e 25 ottobre 1996), a cura di O. Longo,
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, 1998, pp. 276-297.
117. Ibidem.
118. Nel 2008 la posta della Repubblica d’Armenia ha emesso una serie di dieci
francobolli dedicati alle dieci principali varietà di albicocca armena: Voskì, Yerevanì,
Ghevondì, Garmìr Nakhitčevanìg, Teghìn Nakhičevanìg, Khosrovenì Garmìr,
Teghnanu‘sh vaghahàs, Vaghahàs vartakùyn, Garmrenì o Satenì Teghìn.
119. Recentemente, nel novembre del 2005, questo strumento-principe della musica
armena è stato dichiarato dall’unesco patrimonio dell’Umanità.
120. La bontà delle prugne armene era notoria: ogni anno duemila libbre di prugne da
Mardin arrivavano nelle cucine del palazzo di Mehmet IV. Cfr. Le Sérail des
empereur turcs, Relation manuscrite du sieur de La Croix à la fin du règne du sultan
Mehmet IV, édité par Corinne Thépaut-Cabasset, Paris, 2007.
121. Lett. “croci di pietra”. Sono stele di pietra sulla cui superficie sono scolpiti simboli
sacri. Su tutti compare la croce decorata ai cui lati vi sono sovente tralci di vite e
melograni. Oltre che per pietre tombali erano utilizzati per proteggere i campi e per
segnare i confini.
122. Il nome armeno è Sarkis Paradjanian, nato a Tiblisi nel 1924 e morto a Yerevan nel
1990. Venne condannato nel 1974 ai lavori forzati, perché le tematiche dei suoi film
disturbavano il regime sovietico. Una campagna di sensibilizzazione riuscì a farlo
tornare libero nel 1978. Considerato un vero maestro del cinema, nella trilogia Il
colore della melagrana (Sayat Nova), La leggenda della fortezza di Suram e Ashik
Kerib ha infuso tutta la sua sincera passione per il Caucaso, i suoi miti, i personaggi
leggendari, i poeti, i pastori, le credenze religiose.
123. “Oggi nella settimana di Ferragosto si celebra l’Assunzione della Beata Vergine
Maria, ovvero la sua morte e Assunzione in cielo. In Spagna le si dedica non solo il
15, ma tutta la settimana successiva, fra banchetti, danze, spettacoli, fuochi
d’artificio in un’atmosfera carnascialesca poco consona alla solennità religiosa e
pregna di elementi pagani. Che la ricorrenza del 15 si sia innestata su un substrato
precristiano lo potrebbe confermare la sua origine nel Vicino Oriente dove, in questo
periodo, era festeggiata una Grande Madre, la dea siriana Atargatis, metà donna e
metà pesce, considerata la patrona della fertilità e dei lavori nei campi.
Probabilmente la sua funzione di protettrice delle attività agricole fu trasferita alla
Vergine nei primi secoli, durante il processo di evangelizzazione, tant’è vero che in
Armenia ancora oggi all’Assunta si benedicono i primi grappoli d’uva matura”: cfr.
Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Mondadori, 2003, p. 260.
128. Astrakan, che sorge sul fiume Volga, nel XVIII sec. divenne crocevia russo verso
l’Oriente. Molti mercanti armeni e persiani vi si stabilirono.
129. Le Voyage en Russie. Anthologie des voyageurs français aux XVIIIème et XIXème
siècles, Robert Laffont, Paris, 1990.
130. “Queste donne avevano conservato il loro segreto. Senza nulla rivelare né ai loro
figli, né ai nipoti, avevano mantenuto viva la tradizione, non avevano dimenticato il
giorno santo che celebravano scambiandosi delle visite”: Fethiye Cetin, Le livre de
ma grand-mère, Éditions l’Aube, 2006; ed. it.: Fetiye Cetin, Heranùsh mia nonna,
Padova, Alet, 2007.
131. Il maleppo è una spezia orientale che si ricava dalle minuscole mandorle contenute
nei noccioli di una particolare varietà di ciliegio. Vedi.
135. Kulundjì, in arabo, kalonji in hindi, nigella o cumino nero, è chiamata familiarmente
dagli Armeni sev kntìg, cioè “puntini neri”. Ha molte caratteristiche benefiche, tanto
che il profeta Maometto la consiglia dicendo che “cura tutte le malattie fuorché la
morte”.
136. Una moneta o un fagiolo: chi lo troverà avrà molta fortuna. A seconda delle credenze
la fortuna durerà per la sola giornata o fino alla fine dell’anno. Questa credenza
ricorda la pratica diffusa in Francia di inserire nel pane natalizio un segno simile a
questi; il fortunato verrà definito re o regina, e per tutta la giornata sarà considerato
con benevolenza, rispetto e onore.
137. Così è chiamato il ripieno di questi dolci, con un antico termine che definiva la farina
impastata con burro e miele, sinonimo di focaccia o dolce in cui il burro e il miele
erano gli ingredienti principali.
138. È bene avere sottomano un paio di chili di farina per la preparazione dell’impasto,
del ripieno e per la lavorazione dei nazuk.
139. Vedi.
141. Sivàs o Svàs, l’antica Sebaste, oggi in Turchia, sorge a circa 1.300 metri slm. Città
della Cappadocia, è luogo fondamentale per il popolo armeno, poiché nei suoi
immediati dintorni, ed esattamente nel piccolo borgo di Hulluklùk, nasce nel 1676
Mechitàr (il Consolatore), fondatore nel 1700 dell’ordine dei Mechitaristi, che
otterrà dal Senato veneziano in perpetuo l’isola di San Lazzaro, tuttora sede della
congregazione.
145. Ibidem, p. 8.
149. Così canta il poeta Sayat Nova in un verso del 1758 per descrivere la sua arte,
paragonandola al mulino sul fiume, e l’acqua è sovente presente nei suoi versi
d’amore: Cfr. Igor Dorfmann-Lazarev, Sayat Nova: Hortus Conclusus di un
menestrello del Caucaso, in Revue des études arméniennes, 2003-2004, tome 29, pp.
89-98.
150. Cfr. Paolo Cuneo, Architettura armena, Roma, De Luca editore, 1988, p. 400.
151. Secondo una leggenda, alcuni cacciatori, impegnati a inseguire un orso nei pressi di
Manaskèrd, lo videro cadere nelle acque del fiume Arazanì. Dopo qualche minuto
improvvisamente la bestia schizzò fuori con la pelliccia strappata, il fiume ribollì di
sangue e apparve sulla superficie dell’acqua un terribile pesce vishàp dalla pancia
squarciata. Era così grande che i cacciatori, dopo averlo caricato su un carretto, lo
portarono in città e ne distribuirono le carni alla popolazione. Hay azkagrut‘yun ev
banahyusut‘yun, cit., vol. 3, p. 54.
153. Sull’isola di San Lazzaro nella Laguna di Venezia, sede della Congregazione Armena
dei Padri Mechitaristi, si trova un magnifico roseto; i Padri al momento della fioritura
preparano la marmellata secondo un’antica ricetta tradizionale. In vendita
esclusivamente sull’isola, i preziosi barattoli racchiudono tutta la fragranza delle
rose.
157. Fin dall’antichità la valle dell’Ararat fu celebre per la lavorazione del ferro.
Probabilmente i canali costruiti dai re urartei erano destinati allo sviluppo di
quell’attività, oltre che all’irrigazione di campi e vigne. Nel racconto di Noè (Gen. 20,
21) si sottintendono queste attività nella valle, e le iscrizioni cuneiformi sembrano
confermarle: cfr. Ai Piedi dell’Ararat, Artaxa e l’Armenia ellenistico- romana, a cura
di Antonio Invernizzi, Firenze, Le Lettere, 1998.
160. Così anche in Georgia è chiamato il capotavola, a cui spetta l’onore e l’onere di
proporre i brindisi.
163. Per maggiori informazioni cfr. Orlando Sculli, I palmenti di Ferruzzano. Archeologia
del vino e testimonianze di cultura materiale in un territorio della Calabria
Meridionale, Edizioni Palazzo Spinelli, Firenze, 2002.
164. Si è mantenuta nella citazione l’originale traslitterazione dei termini e nomi armeni.
P’awstos Buzand, Storia degli Armeni, cit., p. 169.
165.
166. Jacek Kunicki, I vini rossi d’Armenia, trad. di Mario Crosta, in Rynki Alkoholowe,
gennaio-febbraio-marzo 2004.
168. Ibidem.
169. Grazie a Riccardo Giagni per queste informazioni sulla cultura del vino in Georgia.
174. Nelle case armene, come per la piantina di basilico sul balcone per il Mezzogiorno
d’Italia, non possono mancare la malva e la menta fresca. Così dunque nel giardino
della nostra casa c’era un’intera aiuola che profumava di menta, di àtr (in arabo)
malva e di shbt (in arabo) aneto. Queste erbe sono lenitive per il mal di pancia e di
stomaco e ottime per la digestione.
Note Parte seconda
175. In Charles Malamoud, Cuocere il mondo, rito e pensiero nell’India antica, Milano,
Adelphi, 1994.
177. Piu precisamente: “L’astràgalo è l’osso breve del tarso, di forma irregolarmente
cuboidea, articolantesi con la tibia e il perone, il calcagno e lo scafoide”. Cfr.
Giampaolo Dossena, Giochi da tavolo, Oscar Mondadori, 1990, Milano, p. 9.
178. Per i giochi con i djan cfr. Hay azkagrut‘yun ev banahyusut‘yun, cit., vol. 11, p. 124.
181. Cfr. Cesare Brandi, Le chiese di cristallo, Corriere della Sera, 5 luglio 1968.
182. Il 301 è ormai convezionalmente indicato quale anno ufficiale di questa imponente
decisione del re Tiridate, sebbene molti studiosi siano perplessi. È possibile indicare
un’oscillazione tra il 288 e il 315. Sembra infatti assai improbabile che Tiridate
potesse prendere una decisione di tale portata, essendo ancora sotto la protezione di
Roma anticristiana, mentre già fra il 305 e il 307 le condizioni politiche a Roma
erano cambiate ed egli con tutta probabilità avrebbe potuto fare la sua libera scelta.
Jean Pierre Mahé, Il primo secolo dell’Armenia Cristiana (298-387) dalla letteratura
alla storia, catalogo Roma-Armenia, a cura di Claude Mutafian, Edizioni de Luca,
1999, pp. 64-72.
183. “I nostri avi per ben circa dieci secoli hanno parlato soltanto l’armeno, una lingua
che non aveva grafemi. Parlavano in armeno e scrivevano in aramaico, in greco, in
latino. Una volta ottenuta la scrittura, i nostri predecessori sono stati
immediatamente colti da un irrefrenabile desiderio di scrivere. La magia dei grafemi,
ma soprattutto un alfabeto così ben costruito sulla lingua, li spinge a scrivere. Ma lo
scriba si premura di lasciare una traccia di sé, quasi per un’esigenza personale: così
nascono i colofoni, che contengono notizie dettagliate su chi ha scritto, su chi ha
ordinato di scrivere, sulle difficoltà e sui procedimenti della copiatura o traduzione.
Questo fervore è vitale per la cultura armena; l’alfabeto diventa strumento di
sopravvivenza della cultura e della sua trasmissione”. Claude Mutafian,
comunicazione personale. Per saperne di più cfr. Arménie. La Magie de l’écrit, a cura
di Claude Mutafian, Paris 2007.
188. “[ ] sul piano ideologico: in quanto ‘Sole di Giustizia’, Cristo eredita tutti gli
attributi gloriosi dell’antico dio solare Areg-Mihr. Esattamente come l’Aurora,
Arshalùys, madre del sole visibile, è una ‘santa vergine senza macchia’ (surb kuys
anaràt), anche Cristo è nato da una vergine. [ ] Così, anziché trasformare l’antico
ordine, il cristianesimo vi è semplicemente impiantato al posto della religione
precedente. [ ]. Jean-Pierre Mahé, Il primo secolo dell’Armenia Cristiana (298-387)
dalla letteratura alla storia, cit., pp. 64-72.
189. Ł. Ališan, Hin hawatk‘ kam het‘anosakan krōnk‘ Hayoc‘ (L’antica fede o la religione
pagana in Armenia), Venezia, 1910.
190. I sacerdoti armeni, sia quelli appartenenti alla comunità cattolica di rito orientale
che quelli appartenenti alla Chiesa Apostolica Armena, possono prendere moglie.
191. G. Galustean, Maraš kam Germanik ew heros Zēyt‘un (Marash o Germanik e l’eroica
Zeithun), New York, 1934.
192. “L’artemisia o amarella (Artemisia vulgaris) è una pianta lunare, come testimonia
anche il suo nome che secondo Plinio deriverebbe da Artemide Ilizia, ‘per il fatto che
cura in particolare le malattie delle donne’. Ma secondo altri studiosi deriverebbe
dall’aggettivo artémes, sano, in buona salute o da artemìa, buona salute [ ]. A Roma
la si portava sul corpo o sul capo in forma di corona per difendersi dagli spiriti e
dagli influssi maligni. Secondo una leggenda cristiana germogliò nel Paradiso
terrestre, lungo il sentiero percorso dal serpente, per tentare di ostacolarlo nel suo
cammino verso Eva che egli voleva indurre in peccato. ‘Tale origine’ sottolinea
Manlio Barberito ‘comporta conseguenze altrettanto straordinarie. Innanzi tutto
questa pianta, nata su una strada così carica di destini, nel tentativo di precludere
l’uomo dal peccato, origine della morte e di ogni altro male, non poteva non avere
potenti riflessi su tutto ciò che riguarda strade, viaggi e cammini dell’uomo, in senso
fisico e spirituale’. [ ] Giacché le sue foglie erano sempre volte a nord, simbolo del
costante orientamento verso il divino, si diceva che la piantina fosse spiritualmente e
materialmente propizia; e come si opponeva alle opere del Tentatore, così difendeva
a livello materiale dal fulmine se se ne metteva un mazzetto dietro l’uscio. Ma
favoriva anche l’incorruttibilità delle cose: lo testimonia l’antichissimo uso di
mescolare all’inchiostro succo di artemisia affinché la carta fosse preservata dalle
tarme”. Alfredo Cattabiani, Florario, cit., pp. 227-228.
194. Sembra che questa pianta, che stimola l’appetito e che cresce sui fianchi del monte
Ararat, venisse raccolta e fatta essiccare dagli Armeni della regione e poi distribuita
in tutta l’Armenia. Il nkadzaghìg diventava così il simbolo dell’unificazione nazionale
degli Armeni.
197. Cfr. Daniel Varoujan, Chants païens et autres poèmes, La Différence, Paris, 1994.
201. Con questo termine dalla connotazione affettuosa ci si rivolge ancora oggi alle donne
anziane. Oltre a riflettere etimologicamente un legame con l’antica dea Anahìt,
questo appellativo viene messo in stretta analogia con le figure di Demetra e Erda
(cfr. David de Sassoun, épopée en vers, cit.).
204. “Lo spidgùg o dzamèr: proprio lei, Maria, lo aveva raccolto, quella era la sua
verdura”. Così raccontavano le donne con fervore e attribuivano a questa pietanza
virtù miracolose: credevano infatti che passandone un po’ sul seno delle loro
figliolette e leccandone una parte avrebbero scongiurato la crescita di peli superflui.
Hay azkagrut‘yun ev banahyusut‘yun, cit., vol. 3, p. 40.
206. Daniel Varujan, Il Canto del pane, a cura di Antonia Arslan, Milano, Guerini e
Associati, 1997.
207. Farina di grano o d’orzo arrostita e poi lavorata con acqua e zucchero.
209. Jacques Chahan De Cirbied, Mémoire sur le gouvernement et la religion des anciens
Arméniens, Paris, 1820.
210. La leggenda vuole che Sarkìs, generale a capo dell’esercito del re persiano Shapùr,
convertisse molti soldati al cristianesimo. Il re persiano, in seguito a una disputa,
uccise il figlio di Sarkìs, Mardiròs, e condannò a morte Sarkìs. Così nelle chiese è
facile trovare l’immagine di questo santo che, vestito da soldato, a cavallo del suo
destriero, tiene in braccio il giovane figlio.
211. L’offerta votiva, il sacrificio. I credenti armeni offrono, secondo un rituale ben
stabilito dai canoni della chiesa, un animale, in genere una pecora, per la
realizzazione di un voto o per una grazia ricevuta.
214. Con il termine Paregentàn, che significa “vivere bene”, “in felicità”, la Chiesa
armena designa tutte le giornate che precedono un periodo di digiuno. In questo
caso la giornata del Carnevale viene definita dalla Chiesa Pun Paregentàn, (il vero o
principale carnevale) ma per il popolo è sottinteso che Paregentàn è il Carnevale.
223. “San Nersès Shnorhalì (1102-1173), Catholicos dal 1166. A lui si deve almeno un
quarto dell’innario ufficiale armeno, e la sua produzione appartiene senz’altro, in
massima parte, a quanto di più bello, di più profondo, di più permeato dall’unzione
dello Spirito la Liturgia armena offra”. Cfr. Boghos Levon Zekiyan, La spiritualità
armena – Gregorio di Narek, Edizioni Studium, Roma, 1999.
224. Si tratta di un pezzo di pane lavàsh contenente una porzione di carne sacrificale.
228. Vicak sta per Vidjàg. Si mantiene nel testo citato la traslitterazione originale.
229. A.M. Cirese, L’assegnazione collettiva delle sorti nel gioco di Ozieri, in Folklore e
analisi differenziale di cultura, a cura di Diego Carpitella, Roma, Bulzoni, 1976, p.
233. Una testimonianza simile è citata in Hay azkagrut‘yun ev banahyusut‘yun, cit.,
1972, vol. 3, p. 45.
236. Cfr. Gayané Mkrtchyan, Drenched in History: Vardavar’s Meaning Goes Beyond a
Summer Soaking, in ArmenianNow Reporter, July 01, 2005.
237. Canto di lode allo sposo: “Vieni a sederti, o fratel nostro re / perché noi ti lodiam da
capo a piedi / Direm de’ tuoi capelli / Che somigliano a tanti fili d’oro / Direm poi del
tuo viso / Che somiglia all’alone della luna / poi direm de’ tuoi occhi / che somigliano
a bruma fiammeggiante / Poi direm dei tuoi denti / Che somigliano a una fila di perle
/ direm poi della persona che somiglia a un cipresso”. Canti popolari armeni, cit., p.
43.
241. M.H. Bart‘ikyan, Haykakan matał T‘rakiayum (Il matał armeno in Tracia), E¯jmiacin,
1958, pp. 57-61.
244. Cfr. Sonya Orfalian, Ricerche storico-linguistiche su un antico rito armeno, Tesi di
Laurea, Università degli Studi di Roma, 1986-87.
246. F.C. Conybeare, The Survival of Animal Sacrifice Inside Christian Church, in
American Journal of Theology, n. 7, 1903, pp. 62-90.
248. Khashlamà indica il bollito, si riferisce al modo di cottura della carne e non alla
pietanza del khashlamà che è arricchita con verdure e aromi.
250. I Sassùntzi sono i sopravvissuti al genocidio della città di Sassùn (oggi in Turchia);
una buona parte di loro vive attualmente nella Repubblica d’Armenia. La danza dei
Sassùntzi è impressa nella memoria di tutto il popolo armeno in quanto rappresenta
un atto estremo di orgogliosa resistenza nei confronti dei Turchi durante il genocidio
del 1915. Accerchiati dalle armate turche, allo stremo delle forze, gli abitanti della
città di Sassùn decisero di eseguire il loro ballo tradizionale, una danza a
semicerchio in cui ci si tiene l’un l’altro per le braccia: in tal modo, quando i Turchi
sparavano essi potevano sorreggere i compagni morti e continuare a danzare fino
all’ultimo rimasto vivo.
251. Cfr. Sonya Orfalian, Ricerche storico-linguistiche su un antico rito armeno, cit.
252. Ibidem.
253. Ibidem.
Note Conclusioni
Agrahadìg
Annaì mantì
Anùsh sudjùkh
Anùsh tarkhanà
Anushabùr
Arapagàn tey
Arshaluysì yughahàtz
Atàif di zia Vittoria
Babaghannùsh
Baghdanusìye
Baniròv börèg
Baniròv sinì börèg
Basbùsa della zia Anna
Bastègh
Bastërmaì pattugnèr
Basùtz dolmà pandjaròv
Basùtz dolmà
Boranì della zia Sonà
Bulghurè pilàf
Či-köftè
Čorèg
Couscous
Dabgvàdz badinjàn
Dak bastërmà
Dak sudjùkh
Dalàgh
Derevì dolmà bulghuròv
Dikranì aghòv nush
Djadjëgh
Djvdjvìg o Dapgvàdz liàrt
Dolmà
Dunì čemèn
Eggiè
Feridaì sud köftè
Gangàr voshkharì goghigòv
Gatnabùr
Ghaburghà
Ghapamà
Girdelè
Guràibya
Halvà
Hankaì čur
Harissà
Haràymi
Hatz köftè
Hatz madzùn
Havgitòv bastërmà
Havgitòv köftè
Haygagàn surdj
Hokkùr Eghsapetì köftè
Hommus
Ič
Imàm bayëldì
Iskembèh
Kaladjòs
Kamàdz madzùn
Kednakhntzorì salàd
Khanumì badinjanì salad
Khanumì kulundjì
Khanumì lahmadjìn
Khash
Khashàdz tzug
Khashvàtz kubbeh
Khashìl
Khashlamà-Bughlamà
Kiniòv ishkhàn tzug
Krčìg
Krshàk
Kubbeh
Lavashòv Ishkhàn tzug
Lkhlkhì
Loligì salàd
Lupiaì salàd
Madzùn skhtòr
Mamùl di Khanùm
Mantiabùr
Maqlube
Midjèddere
Misòv bazelià
Misòv bàmia
Misòv börèg
Misòv kednakhntzòr
Misòv lupià
Misòv prasà
Misòv yev pirintzòv köftè
Mičugòv gangàr
Mkhlì o avinàt
Nanayòv tey
Nazùk
Nivìg
Nurì hyùt
Ohannesì paghàrč
Ohannesì tahinòv paghàrč
Osbàn
Pakhlavà
Paklà
Pandjarabùr
Pirintzì pilàf
Porodikì shorbà
Semsèk
Shakshùka
Shish kebàb
Shoghkamì turshì
Sinì köftè
Siserì abùr
Sokhòv baniròv börèg
Spanàkh havgitòv
Spanakhòv börèg
Spanakhòv sinì börèg
Su börèg
Surp Ghazarì vartačur
Surp Vlasì hatz
Tahinòv anùsh hatz
Tanabùr – Spass – Madzùnov abùr
Tan
Tarkhanabùr
Tarkhanà
Tel gatà
Topìg o Siserì köftè
Tutumičùg o Eshkilìk
Tzugì arkanàg
Tzugì kebàb
Urfà kebàb
Variante: Bulghuròv dolmà
Vartì osharàg
Vospòv abùr
Vospòv bulghùr
Vospòv shorbà
Yeghnì o yahnì yuvallàh
Yeprugì baksimàt
Yeprugì nushòv armàv
Zadigì gatà
Zadigì hav
Elenco delle ricette italiane
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Introduzione
Parte prima. La cucina armena: i principali alimenti, i piatti
tipici, la ritualità
I digiuni rituali
Il tonìr, l’ojàkh
Il pane
I pani semplici
Arshaluysì yughahàtz
Yughahàtz di Arshalùys
Ohannesì paghàrč
Paghàrč di Ohannès
Ohannesì tahinòv paghàrč
Paghàrč con tahìn di Ohannès
Tahinòv anùsh hatz
Pane con tahìn
Surp Vlasì hatz
Pane di san Biagio
Hatz köftè
Polpette di pane
I pani farciti
Semsèk
Pizzette di carne
Khanumì lahmadjìn
Lahmadjìn di Khanùm
Misòv börèg
Böreg di carne
Baniròv börèg
Börèg di formaggio
Baniròv sinì börèg
Tortino di börèg con formaggio
Spanakhòv börèg
Börèg di spinaci
Sokhòv baniròv börèg
Börèg con cipolle e formaggio al forno
Spanakhòv sinì börèg
Börèg di spinaci con tahìn al forno
Su börèg
Sfoglie di pasta al forno
Mantiabùr
Minestra con tortelli di Kùir Antoinette48
Annaì mantì
Mantì della zia Anna
Il riso o pirìntz
Pirintzì pilàf
Pilàf di riso
Dolmà
Involtini di foglie
Derevì dolmà bulghuròv
Dolmà di foglie con bulghùr
Variante: Bulghuròv dolmà
Dolmà con bulghùr
Basùtz dolmà
Dolmà del digiuno
Basùtz dolmà pandjaròv
Basùtz dolmà con foglie di bieta
Midjèddere
Riso e lenticchie
Vospòv shorbà
Zuppa di riso e lenticchie
Il bulghùr o grano spezzato
Bulghurè pilàf
Pilàf di bulghùr
Tutumičùg o Eshkilìk
Bulghùr agropiccante
Ič
Insalata fredda di bulghùr
Feridaì sud köftè
Finte polpette di Ferida
Couscous
Le carni
Yeghnì o yahnì yuvallàh
Brodo di carne con palline di grano
Misòv yev pirintzòv köftè
Polpettine di riso e carne in brodo
Khash
Zampetti di vitello in zuppa
Khashlamà-Bughlamà
Stufato di agnello
Harissà
Purea di carne e grano
Misòv prasà
Spezzatino con i porri
Misòv bàmia
Spezzatino con i bàmia
Misòv bazelià
Spezzatino con piselli
Misòv lupià
Spezzatino con fagioli
Zadigì hav
Pollo arrosto con ripieno per la Pasqua
Ghaburghà
Spalla d’agnello ripiena per la Pasqua
Shish kebàb
Spiedini di carne alla brace
Urfà kebàb
Spiedini di carne tritata
Či-köftè
Polpettine di carne cruda
Osbàn
Budello farcito
Kubbeh
Arancini di carne
Khashvàtz kubbeh
Kubbeh bolliti
Lkhlkhì
Kubbeh al grasso di rognone
Girdelè
Kubbeh alla brace
Sinì köftè
Tortino di carne e grano
Misòv kednakhntzòr
Patate e polpette al forno
Maqlube
Timballo di riso con carne e melanzane
Dalàgh
Milza ripiena
Djvdjvìg o Dapgvàdz liàrt
Fegato fritto
Porodikì shorbà
Zuppa di frattaglie
Krshàk
Fagottini di trippa farciti
Iskembèh
Trippa con cipolle
Le carni secche
Dunì čemèn
Čemèn casalingo
Havgitòv bastërmà
Bastërmà con le uova
Dak bastërmà
Bastërmà caldo
Bastërmaì pattugnèr
Bastërmà con la pasta fillo
Dak sudjùkh
Sudjùkh caldo
Il pesce – Tzug
Khashàdz tzug
Misto di pesce lesso
Kiniòv ishkhàn tzug
Ishkhàn al vino
Lavashòv Ishkhàn tzug
Fagottini di Ishkhàn
Tzugì kebàb
Pesce alla brace
Tzugì arkanàg
Zuppa di pesce
Haràymi
Pesce in guazzetto
Garàk - Burro
Banìr - Formaggio
Le uova
Eggiè
Frittata al prezzemolo
Mkhlì o avinàt
Frittata con cipolle
Havgitòv köftè
Uova lavorate in polpette
Shakshùka
Uova all’occhio di bue con cipolle
I legumi, le verdure
Hokkùr Eghsapetì köftè
Polpette di lenticchie della zia Elisabetta
Vospòv bulghùr
Lenticchie e bulghùr
Vospòv abùr
Minestra di pasta e lenticchie
Spanàkh havgitòv
Spinaci con le uova
Paklà
Fave in umido
Siserì abùr
Minestra di ceci
Nivìg
Minestra asciutta di ceci e bietola
Boranì della zia Sonà
Zuppa di verdure, legumi e carne
Topìg o Siserì köftè
Polpette di ceci e patate farcite
Hommus
Crema di ceci
Loligì salàd
Insalatina di pomodori
Lupiaì salàd
Insalata di fagioli
Baghdanusìye
Crema di tahìn e prezzemolo
Imàm bayëldì
Melanzane stufate
Babaghannùsh
Crema di melanzane
Khanumì badinjanì salad
Crema di melanzane di Khanùm
Dabgvàdz badinjàn
Melanzane fritte
Kednakhntzorì salàd
Insalata di patate
Gangàr voshkharì goghigòv
Carciofi con le costolette di agnello
Mičugòv gangàr
Carciofi ripieni di carne
Ghapamà
Zucca ripiena
Krčìg
Zuppa di cavolo
Turshì - Sottaceti
Shoghkamì turshì
Rape sottaceto
Zeytùn - Olive
Spezie ed erbe aromatiche
Agh - Sale
Frutti prelibati
Tziràn - Albicocca
Bastègh
Dolci sfoglie di frutta
Khntzòr - Mela
Armàv - Datteri
Yeprugì nushòv armàv
Datteri in conserva della zia Epruhì
Nush - Mandorla
Dikranì aghòv nush
Mandorle salate di Dikràn
I dolci
Čorèg
Pane dolce di Pasqua
Pakhlavà
Sfoglia reale
Tel gatà
Pakhlavà a capelli d’angelo
Basbùsa della zia Anna
Torta di semolino
Gatnabùr
Minestra dolce di latte
Anushabùr
Zuppa dolce
Guràibya
Palline di pasta frolla con le mandorle
Yeprugì baksimàt
Biscotti della zia Epruhì
Mamùl di Khanùm
Dolci farciti di datteri
Khanumì kulundjì
Piccoli pani aromatici
Zadigì gatà
Piccoli pani di Pasqua
Nazùk
Dolcetti dei giorni di festa
Agrahadìg
Grano dolce condito
Khashìl
Polenta
Halvà
Dolce con le mandorle
Anùsh tarkhanà
Budino con uva e orzo
Atàif di zia Vittoria
Frittelle farcite
Le bevande
Čur - Acqua
Vartì osharàg
Sciroppo di rose
Surp Ghazarì vartačur
Acqua di San Lazzaro profumata alle rose
Hankaì čur
Acqua minerale
Kinì - Vino
Haygagàn cognac - Cognac armeno
Oghì - Grappa
Garečur - Birra
Tey o chay - Tè
Nanayòv tey
Tè verde alla menta
Arapagàn tey
Tè arabo con le cacauiye
Haygagàn surdj
Caffè all’armena
Conclusioni
Per saperne di più
Ringraziamenti
Elenco delle ricette
Elenco delle ricette in italiano
Note
Note Introduzione
Note Parte prima A
Note 3 Parte prima B
Note Parte seconda
Note Conclusioni
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