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Classici della libertà

12
Frédéric Bastiat

La legge

IBL Libri
Titolo originale
La loi (1850)

Traduzione dal francese


Giuseppe M. Vatri

Copertina
Timothy Wilkinson

Copyright © IBL Libri, 2013

IBL Libri
Via Bossi, 1
10144 Torino
info@ibl-libri.it
www.ibl-libri.it

Novembre 2013
ISBN: 978-88-6440-180-5
Indice

Sull’autore

La legge

Date
Vita e opere
Bibliografia
Sull’autore

«Bastiat è il più superficiale e di conseguenza il più rappresentativo apologeta


dell’economia volgare» (Karl Marx).

«Avevo circa sedici anni quando mi accadde di leggere due autori di indole
contraria, cioè il Bossuet e il Bastiat. Il primo mi dispiacque fieramente; il
secondo soddisfece interamente i miei sentimenti» (Vilfredo Pareto).

«Il più brillante giornalista economico che sia mai vissuto» (Joseph
Schumpeter).

«Egli è stato il più efficace difensore del libero scambio, della libertà
economica e del laissez-faire che si sia mai visto. E come questi ideali sono
divenuti sempre più fuori moda nella nostra generazione di interventisti,
keynesiani e socialisti, Bastiat è divenuto fuori moda assieme a loro» (Henry
Hazlitt).

«Bastiat è il mio economista preferito» (Ronald Reagan).

«Dato che colloca l’uomo al centro dei fenomeni sociale; dato che opera
seguendo il principio che l’azione umana è razionale; e dato che sa che la
società è basata sullo scambio – insomma, dato che è un prasseologo in
anticipo rispetto ai tempi (anzi, prima ancora che il termine stesso fosse
coniato), Frédéric Bastiat fu in grado di realizzare un eccezionale lavoro
teorico durante gli ultimi cinque anni di vita. Il fatto che tutto ciò sia stato
realizzato in un arco temporale tanto breve, invece che essere una causa di
derisione dovrebbe essere un titolo di merito» (Gérard Bramoullé).

«Bastiat è stato senza dubbio uno scrittore di straordinaria lucidità, i cui


brillanti saggi e le cui argute favole continuano a rappresentare formidabili e
devastanti critiche del protezionismo e di ogni genere di sussidio e controllo
governativi. Fu il geniale difensore di un vero libero mercato» (Murray N.
Rothbard).
La legge

La Legge pervertita! La Legge – e di conseguenza tutte le forze collettive


della nazione – la Legge, dico, non solamente sviata dal suo scopo, ma
applicata a perseguire uno scopo direttamente contrario! La Legge divenuta
strumento di tutte le cupidigie, invece di esserne il freno! La Legge che
esercita essa stessa l’iniquità che aveva la missione di punire! Certo, questo è
un fatto grave, se è vero, un fatto sul quale deve essermi permesso di
richiamare l’attenzione dei miei concittadini.
Noi abbiamo ricevuto da Dio il dono che per noi tutti li racchiude, la Vita – la
vita fisica, intellettuale e morale.
Ma la vita non si sostiene da sola. Chi l’ha data ci ha lasciato l’impegno di
mantenerla, di svilupparla, di perfezionarla.
Per questo, ci ha fornito un insieme di Facoltà meravigliose; ci ha immerso in
un ambiente di elementi diversi. Con l’applicazione delle nostre facoltà a
quegli elementi si realizza il fenomeno dell’Assimilazione,
dell’Appropriazione, attraverso cui la vita percorre il circolo che le è
assegnato.
Vita, Facoltà, Assimilazione – in altri termini, Persona, Libertà, Proprietà, –
ecco l’uomo.
Di queste tre cose si può dire, al di fuori di ogni sottigliezza demagogica, che
sono anteriori e superiori a ogni legislazione umana.
Non è perché gli uomini hanno emanato delle Leggi che la Persona, la Libertà
e la Proprietà esistono. Al contrario, è perché la Persona, la Libertà e la
Proprietà preesistono, che gli uomini fanno le Leggi.
Che cos’è dunque la Legge? Come ho detto altrove,[1] è l’organizzazione
collettiva del Diritto individuale di legittima difesa.
Ciascuno di noi riceve certamente dalla natura, da Dio, il diritto di difendere
la sua Persona, la sua Libertà, la sua Proprietà, poiché sono i tre elementi che
costituiscono o conservano la Vita: elementi che si completano l’un l’altro e
che non si possono comprendere l’uno senza l’altro. Infatti, cosa sono le
nostre Facoltà se non un prolungamento della nostra Personalità, e cosa è la
Proprietà se non un prolungamento delle nostre Facoltà?
Se ogni uomo ha il diritto di difendere, anche con la forza, la sua Persona, la
sua Libertà, la sua Proprietà, molti uomini hanno il Diritto di mettersi
d’accordo, di intendersi, di organizzare una Forza comune per provvedere
regolarmente a questa difesa.
Il Diritto collettivo trova quindi il suo principio, la sua ragion d’essere, la sua
legittimità, nel Diritto individuale; e la Forza comune non può aver
razionalmente altro scopo e altra missione che quella stessa delle forze isolate
alle quali si sostituisce.
Così, come la Forza di un individuo non può legittimamente attentare alla
Persona, alla Libertà o alla Proprietà di un altro individuo, per la stessa
ragione la Forza comune non può essere legittimamente applicata a
distruggere la Persona, la Libertà o la Proprietà degli individui o delle classi.
Poiché questa perversione della Forza sarebbe, in un caso come nell’altro, in
contraddizione con le nostre premesse. Chi oserà dire che la Forza ci è stata
data non per difendere i nostri Diritti ma per annientare gli identici Diritti dei
nostri fratelli? E se questo non è vero di ogni forza individuale, che agisca
isolatamente, come potrebbe essere vero della forza collettiva che è solo
l’unione organizzata delle forze isolate?
Perciò, se c’è una cosa evidente, è questa: la Legge è l’organizzazione del
Diritto naturale di legittima difesa; è la sostituzione della forza collettiva alle
forze individuali, per agire nell’ambito in cui queste hanno il diritto di agire,
per fare ciò che queste hanno il diritto di fare, per garantire le Persone, le
Libertà, le Proprietà, per mantenere ciascuno nel suo Diritto, per far regnare
tra tutti la GIUSTIZIA.
E se esistesse un popolo costituito su questa base, mi sembra che l’ordine vi
prevarrebbe nei fatti come nelle idee. Mi sembra che questo popolo avrebbe il
governo più semplice, più economico, meno pesante, meno sentito, meno
caricato di responsabilità, più giusto, e di conseguenza il più solido che si
possa immaginare, qualunque fosse la sua forma politica.
Poiché, sotto un tale regime, ciascuno comprenderebbe bene che ha tutta la
pienezza come tutta la responsabilità della sua Esistenza. A condizione che la
persona fosse rispettata, il lavoro libero e i frutti del lavoro garantiti contro
ogni ingiusto danno, nessuno avrebbe niente a che spartire con lo Stato. È
vero che, felici, non dovremmo ringraziarlo dei nostri successi; ma anche che,
infelici, non ce la potremmo prendere con lui per i nostri rovesci, non più dei
nostri contadini che di certo non gli attribuiscono la grandine o le gelate. Noi
non lo conosceremmo che per l’inestimabile beneficio della SICUREZZA.
Si può affermare ancora che, grazie al non intervento dello Stato negli affari
privati, i Bisogni e le loro Soddisfazioni si svilupperebbero nell’ordine
naturale. Non si vedrebbero le famiglie povere cercare l’istruzione letteraria
prima di avere del pane. Non si vedrebbe la città popolarsi a scapito delle
campagne, o le campagne a scapito delle città. Non si vedrebbero quei grandi
spostamenti di capitali, di lavoro, di popolazione, provocati dalle misure
legislative, spostamenti che rendono così incerte e precarie le fonti stesse
dell’esistenza, e aggravano in questo modo, in così grande misura, la
responsabilità dei governi.
Purtroppo, la Legge non è rimasta ferma nel suo ruolo. Neppure se ne è
discostata solamente su questioni neutrali e discutibili. Essa ha fatto peggio:
ha agito contrariamente al proprio fine; ha distrutto il proprio scopo; si è
applicata ad annientare quella Giustizia che doveva far regnare, a cancellare,
tra i Diritti, quel limite che era sua missione far rispettare; la Legge ha messo
la forza collettiva al servizio di coloro che vogliono sfruttare, senza rischio né
scrupolo, la Persona, la Libertà o la Proprietà altrui; ha convertito la
Spoliazione in Diritto, per proteggerla, e la legittima difesa in crimine, per
punirla.
Come si è compiuta questa perversione della Legge? Quali sono state le
conseguenze?
La Legge si è pervertita sotto l’influenza di due cause ben differenti:
l’egoismo ottuso e la falsa filantropia.
Parliamo della prima causa.
Conservarsi, svilupparsi, è aspirazione comune a tutti gli uomini, in tal modo
che se ciascuno avesse il libero esercizio delle proprie facoltà e della libera
disponibilità del proprio prodotto, il progresso sociale sarebbe incessante,
ininterrotto, infallibile.
Ma c’è anche un’altra aspirazione comune a tutti gli uomini. È vivere e
svilupparsi, quando possono, a spese gli uni degli altri. Non si tratta di
un’accusa azzardata, che nasce da uno spirito triste e pessimista. La storia la
dimostra con le guerre continue, le migrazioni dei popoli, le oppressioni
clericali, l’universalità della schiavitù, le frodi industriali e i monopoli di cui
gli annali sono riempiti.
Questa disposizione funesta nasce dalla costituzione stessa dell’uomo, da
quel sentimento primitivo, universale, invincibile, che lo spinge verso il
benessere e gli fa fuggire il dolore.
L’uomo non può vivere ed essere felice che attraverso un’assimilazione e
un’appropriazione perpetua, cioè attraverso una continua applicazione delle
sue facoltà alle cose, cioè attraverso il lavoro. Da qui la Proprietà.
Ma, in effetti, l’uomo può vivere e godere anche assimilando e
appropriandosi del prodotto delle facoltà del suo simile. Da qui la
Spoliazione.
Ora, poiché il lavoro è per se stesso una pena e poiché l’uomo è per natura
portato a fuggire le pene, ne segue, la storia è lì a provarlo, che ovunque la
spoliazione sia meno onerosa del lavoro, essa prevale; essa prevale senza che
né religione né morale possano, in questo caso, impedirlo.
Quando si ferma la spoliazione? Quando diventa più onerosa e più pericolosa
del lavoro.
È ben evidente che la Legge dovrebbe aver lo scopo di opporre il potente
ostacolo della forza collettiva a questa funesta tendenza; che essa dovrebbe
prender partito per la Proprietà contro la Spoliazione.
Ma la Legge è fatta, la maggior parte delle volte, da un uomo o da una classe
di uomini. E giacché la Legge non esiste senza una sanzione, senza
l’appoggio di una forza superiore, non si può escludere che essa non metta in
definitiva questa forza nelle mani di chi legifera.
Questo fenomeno inevitabile, combinato con la funesta inclinazione che
abbiamo constatato nel cuore dell’uomo, spiega la perversione quasi
universale della Legge. Si capisce come, invece di essere un freno
all’ingiustizia, essa ne divenga uno strumento, anzi il più invincibile
strumento. Si comprende che, secondo la forza del legislatore, essa distrugge
a suo profitto e in diversi gradi, presso il resto degli uomini, la Personalità
con la schiavitù, la Libertà con l’oppressione, la Proprietà con la spoliazione.
È nella natura degli uomini reagire contro l’iniquità di cui sono vittime.
Quando dunque la Spoliazione è organizzata dalla Legge, a profitto delle
classi che la fanno, tutte le classi vittime di spoliazione tendono, per vie
pacifiche o per vie rivoluzionarie, a partecipare in qualche modo alla
produzione delle Leggi. Queste classi, secondo il grado di lumi cui sono
giunte, possono proporsi due scopi ben differenti quando perseguono la
conquista dei loro diritti politici: o vogliono far cessare la spoliazione legale,
o aspirano a prendervi parte.
Infelici, infelicissime le nazioni dove quest’ultimo pensiero domina nelle
masse, nel momento in cui esse s’impadroniscono a loro volta del potere
legislativo!
Fino a quel momento la spoliazione legale era esercitata dai pochi a danno
dei molti, come si vede presso i popoli dove il diritto di legiferare è
concentrato in poche mani. Appena quel diritto diventa universale, si cerca
l’equilibrio nella spoliazione universale. Invece di estirpare ciò che la società
conteneva d’ingiustizia, si generalizza. Appena le classi diseredate hanno
recuperato i loro diritti politici, il primo pensiero che le assale non è di
liberarsi della spoliazione (ciò supporrebbe in esse dei lumi che non possono
avere), ma di organizzare, contro le altre classi e a proprio detrimento, un
sistema di rappresaglia, come se occorresse, prima che arrivi il regno della
giustizia, che una crudele punizione venisse a colpirle tutte, le une per la loro
iniquità, le altre per la loro ignoranza.
Non poteva perciò introdursi nella Società un cambiamento e una sfortuna
più grandi di questa: la Legge che si converte in strumento di spoliazione.
Quali sono le conseguenze d’un tale disastro? Ci vorrebbero volumi per
descriverle tutte. Contentiamoci di indicare quelle più importanti.
La prima è cancellare nelle coscienze la nozione del giusto e dell’ingiusto.
Nessuna società può esistere se il rispetto delle Leggi non vi regna in qualche
grado; ma la cosa più sicura, affinché le Leggi siano rispettate, è che siano
rispettabili. Quando la Legge e la Morale sono in contraddizione, il cittadino
si trova nella crudele alternativa o di perdere la nozione di Morale o di
perdere il rispetto della Legge, due disgrazie altrettanto grandi e tra le quali è
difficile scegliere.
È talmente nella natura della Legge il far regnare la Giustizia, che Legge e
Giustizia son tutt’uno nello spirito delle masse. Abbiamo tutti una robusta
predisposizione a guardare ciò che è legale come legittimo, al punto che molti
fanno erroneamente derivare la giustizia dalla Legge. Basta perciò che la
Legge ordini e consacri la Spoliazione perché la spoliazione sembri giusta e
sacra a molte coscienze. La schiavitù, la restrizione, il monopolio trovano
difensori non solamente in coloro che ne traggono profitto, ma anche in
coloro che ne soffrono. Provate a proporre qualche dubbio sulla moralità di
queste istituzioni. «Siete – vi diranno – un innovatore pericoloso, un utopista,
un teorico, un dispregiatore delle leggi; fate vacillare la base sulla quale posa
la società». Tenete un corso di morale, o di economia politica? Si troveranno
delle rappresentanze ufficiali per far pervenire al governo questo voto:
– Che la scienza sia ormai insegnata non più dal solo punto di vista del
Libero Scambio (della Libertà, della Proprietà, della Giustizia), come è stato
finora, ma anche e soprattutto dal punto di vista dei fatti e della legislazione
(contraria alla Libertà, alla Proprietà, alla Giustizia) che regge l’industria
francese.
– Che nelle cattedre pubbliche pagate dal Tesoro, il professore si astenga
rigorosamente dal nuocere al rispetto dovuto alle leggi in vigore,[2] ecc.
In modo che se esiste una legge che consente la schiavitù o il monopolio,
l’oppressione o la spoliazione, in qualunque forma, non bisognerà neanche
parlarne; poiché come parlarne senza far vacillare il rispetto che essa ispira?
Di più, bisognerà insegnare la morale e l’economia politica dal punto di vista
di quella legge, cioè nella supposizione che essa sia giusta per il solo fatto
che sia una Legge.
Un altro effetto di questa deplorevole perversione della Legge è di dare alle
passioni e alle lotte politiche e, in generale, alla politica propriamente detta,
una importanza esagerata.
Potrei provare questa affermazione in mille maniere. Mi limiterò, come
esempio, a confrontarla con l’argomento che ha recentemente occupato tutte
le menti: il suffragio universale.
Qualunque cosa ne pensino gli adepti della Scuola di Rousseau, la quale si
dice molto avanzata e che io credo arretrata di venti secoli, il suffragio
universale (prendendo questa parola nella sua accezione precisa) non è un
dogma sacro, verso il quale l’esame e il dubbio siano dei crimini.
Si possono opporre a esso alcune gravi obiezioni.
Prima di tutto la parola “universale” nasconde un grossolano sofisma. In
Francia ci sono trentasei milioni di abitanti. Affinché il diritto di voto sia
universale, bisognerebbe che fosse riconosciuto a trentasei milioni di elettori.
Nel sistema più largo, non lo si riconosce che a nove milioni. Tre persone su
quattro sono dunque escluse e, in più, sono escluse da quel quarto. Su quale
principio si fonda questa esclusione? Sul principio di Incapacità. Suffragio
universale vuol dire suffragio universale dei capaci. Restano delle questioni
oggettive: chi sono i capaci? l’età, il sesso, le condanne giudiziarie sono i soli
segni dai quali si possa riconoscere l’incapacità?
Se si guarda da vicino, si riconosce molto presto il motivo per cui il diritto di
voto riposa sulla presunzione di capacità – mentre il sistema più allargato non
differisce a questo riguardo dal più ristretto che per la valutazione dei segni
dai quali questa capacità può riconoscersi, cosa che non rappresenta una
differenza di principio, ma di grado.
Questo motivo è che l’elettore non decide per sé ma per tutti.
Se, come pretendono i repubblicani del colore greco e romano, il diritto di
voto ci fosse toccato in sorte con la vita, sarebbe iniquo per gli adulti negare
il voto alle donne e ai bambini. Perché glielo s’impedisce? Perché si
presumono incapaci. Perché l’Incapacità è motivo d’esclusione? Perché
l’elettore non ha la responsabilità del suo solo voto; perché ogni voto
impegna e interessa la comunità tutta intera; perché la comunità ha il diritto
di esigere delle garanzie sulla costruzione delle leggi da cui dipendono il suo
benessere e la sua esistenza.
So quel che si può rispondere. So anche quel che si potrebbe replicare. Non è
questo il luogo per esaurire una tale controversia. Ciò che voglio far
osservare è che persino questa controversia (così come la maggior parte delle
questioni politiche) che agita, appassiona e sconvolge i popoli, perderebbe
quasi tutta la sua importanza se la Legge fosse sempre stata quello che
dovrebbe essere.
Infatti, se la Legge si limitasse a far rispettare tutte le Persone, tutte le
Libertà, tutte le Proprietà, se essa fosse solo l’organizzazione del Diritto
individuale di legittima difesa, l’ostacolo, il freno, il castigo opposto a tutte le
oppressioni, a tutte le spoliazioni, pensiamo forse che disputeremmo molto,
tra noi cittadini, a proposito della maggiore o minore universalità del
suffragio? Crediamo che esso metterebbe in questione il più grande dei beni,
la pace pubblica? Crediamo che le classi escluse non attenderebbero
pacificamente il loro turno? Crediamo che le classi ammesse sarebbero gelose
del loro privilegio? E non è evidente che, essendo l’interesse identico e
comune, gli uni agirebbero senza grandi problemi per gli altri?
Ma appena quel principio funesto si introduce, con il pretesto di organizzare,
di regolamentare, di proteggere, di incoraggiare, la Legge può prendere agli
uni per dare agli altri, pescare nella ricchezza acquisita da tutte le classi per
aumentare quella di una sola classe; una volta quella degli agricoltori,
un’altra quella dell’industria, o dei negozianti, degli armatori, degli artisti,
degli attori; oh, certo, in questo caso, non vi è classe che non pretenda, e con
ragione, di mettere la propria mano sulla Legge; che non rivendichi con
furore il suo diritto di voto e di eleggibilità; che non sia disposta a
sconvolgere la società se non l’ottiene. Persino mendicanti e vagabondi vi
proveranno che hanno titoli incontestabili. Vi diranno: «Non compriamo mai
vino, tabacchi o sale senza pagare l’imposta e una parte di questa imposta è
data per legge in incentivo o in sovvenzione a uomini più ricchi di noi. Altri
si servono della Legge per alzare artificialmente il prezzo del pane, della
carne, del ferro, dei tessuti. Dato che ciascuno sfrutta la Legge a proprio
profitto, vogliamo farlo anche noi. Vogliamo ottenere il Diritto
all’assistenza, che è la parte di spoliazione del povero. Per questo, occorre
che siamo elettori e legislatori, affinché possiamo organizzare in grande
l’Elemosina per la nostra classe, come voi avete organizzato in grande la
Protezione per la vostra. Non diteci che ci darete la nostra parte, che ci
getterete, secondo la proposta del signor Mimerel,[3] una somma di 600.000
franchi per farci tacere, o come un osso da rosicchiare. Abbiamo altre pretese
e, in ogni caso, vogliamo decidere per noi, come le altri classi hanno deciso
prima per loro stesse!».
Cosa si può rispondere? Sì, fintanto che sarà accettato in linea di principio
che la Legge possa esser sviata dalla sua vera missione, che essa possa
violare le proprietà invece di garantirle, ogni classe vorrà fare la propria
Legge, sia per difendersi dalla spoliazione, sia per organizzarla a proprio
profitto. La questione politica sarà sempre pregiudiziale, dominante,
assorbente; in una parola, ci si batterà sulla porta del Palazzo legislativo. La
lotta non sarà meno accanita all’interno. Per convincersene, è appena
necessario guardare ciò che accade nelle Camere in Francia e in Inghilterra;
basta sapere come la domanda è posta.
C’è bisogno di provare che quest’odiosa perversione della Legge è causa
continua di odio e discordia, e che può arrivare fino alla disorganizzazione
sociale? Guardate gli Stati Uniti. È il paese del mondo nel quale la Legge
resta di più nel suo ruolo, che è di garantire a ciascuno la sua libertà e la sua
proprietà. Ed è anche il paese al mondo dove l’ordine sociale sembra posare
sulle basi più stabili. Tuttavia, persino negli Stati Uniti ci sono due questioni,
solo due, che dalle origini hanno messo più volte in pericolo l’ordine politico.
Quali sono? Quella della Schiavitù e quella dei Dazi, cioè proprio le due sole
questioni in cui, contrariamente allo spirito generale di quella repubblica, la
Legge ha preso il carattere della spoliazione. La Schiavitù è una violazione
dei diritti della Persona stabilita dalla legge. La Protezione è una violazione,
perpetrata dalla legge, del diritto di Proprietà. Certo, è notevole che in mezzo
a tanti altri dibattiti, questo doppio flagello legale, triste eredità del mondo
antico, sia il solo che possa condurre, e forse condurrà, alla rottura
dell’Unione. Infatti, non si potrebbe immaginare, in una società, un fatto più
considerevole di questo: la Legge divenuta strumento d’ingiustizia. E se
questo fatto genera conseguenze così formidabili negli Stati Uniti, dov’è
un’eccezione, che cosa dev’essere nella nostra Europa, dov’è un Principio, un
Sistema?
Montalembert,[4] appropriandosi d’una famosa dichiarazione di Carlier,[5]
diceva: occorre fare la guerra al Socialismo. – E per Socialismo, occorre
credere che, secondo la definizione di Charles Dupin,[6] intendesse dire la
Spoliazione.
Ma di quale Spoliazione egli voleva parlare? Poiché ce ne sono due tipi. C’è
la spoliazione illegale e la spoliazione legale.
Quanto alla spoliazione illegale, quella che si chiama furto o truffa, quella
definita, prevista e punita dal Codice penale, in verità, non penso che la si
possa onorare del nome di Socialismo. Non è quella che minaccia
sistematicamente la società nelle sue basi. D’altra parte, la guerra contro
questo genere di spoliazione non ha atteso il segnale di Montalembert o di
Carlier. È combattuta dall’inizio del mondo; la Francia vi aveva provveduto,
molto tempo prima della rivoluzione di febbraio, molto tempo prima
dell’apparizione del Socialismo, con tutto un apparato di magistratura, di
polizia, di gendarmeria, di prigioni, di carceri e di patiboli. La Legge stessa
conduce questa guerra, e cosa che sarebbe secondo me desiderabile, la Legge
dovrebbe mantenere sempre quest’atteggiamento verso la Spoliazione.
Ma non è così. La Legge prende qualche volta partito per la Spoliazione.
Qualche volta la esegue con le proprie mani, per risparmiarne al beneficiario
l’onta, il pericolo e lo scrupolo. Qualche volta mette tutto un apparato di
magistratura, polizia, gendarmeria e prigioni al servizio dello spogliatore, e
tratta da criminale lo spogliato che si difende. In una parola, è la spoliazione
legale, ed è di questa senza dubbio che parla Montalembert.
Questa Spoliazione può, nelle leggi d’un popolo, non essere che una macchia
eccezionale e, in questo caso, ciò che è meglio fare, senza tante declamazioni
e geremiadi, è cancellarla il più presto possibile, nonostante il clamore degli
interessati. Come riconoscerla? È facile. Occorre esaminare se la Legge
prende agli uni quello che loro appartiene per dare agli altri quello che loro
non appartiene. Occorre esaminare se la Legge, a profitto di un cittadino e a
danno di altri, compie un atto che quel cittadino non potrebbe compiere da
solo senza incorrere in un reato. Affrettatevi ad abrogare quella Legge. Essa
non solo è iniqua, ma è una fonte feconda d’iniquità, poiché invita alle
rappresaglie; e se non fate attenzione, il fatto eccezionale si estenderà, si
moltiplicherà e diverrà sistematico. Senza dubbio, il beneficiario lancerà alte
grida, invocherà i diritti acquisiti. Dirà che lo Stato deve Protezione e
Incentivo alla sua industria; sosterrà che è bene che lo Stato lo arricchisca
perché chi è più ricco spende di più, e sparge così una pioggia di salari sui
poveri operai. Guardatevi dall’ascoltare questo sofista poiché proprio
attraverso la sistematizzazione di questi argomenti si sistematizzerà la
spoliazione legale.
È quello che è accaduto. La chimera del giorno è arricchire tutte le classi a
spese le une delle altre; è generalizzare la Spoliazione con il pretesto di
organizzarla. Ora, la spoliazione legale può esercitarsi in una moltitudine
infinita di maniere; da qui una moltitudine infinita di progetti: dazi,
protezione, incentivi, sovvenzioni, incoraggiamenti, imposta progressiva,
istruzione gratuita, Diritto al lavoro, Diritto al profitto, Diritto al salario,
Diritto all’assistenza, Diritto agli strumenti di lavoro, gratuità del credito, ecc.
Socialismo è il nome dell’insieme di tutti questi progetti, in ciò che hanno in
comune, la spoliazione legale.
Ora, così definito il Socialismo, costituente un corpo dottrinario, quale guerra
volete fargli contro, se non una guerra di dottrina? Trovate questa dottrina
falsa, assurda, abominevole. Confutatela. Ciò sarà tanto più facile quanto più
essa è falsa, assurda e abominevole. Soprattutto, se volete essere forti,
cominciate con l’estirpare dalla vostra legislazione tutto ciò che vi si è
insinuato di socialismo – e l’opera non è da poco.
Si è rimproverato a Montalembert di voler volgere contro il Socialismo la
forza bruta. Si tratta di un rimprovero dal quale va esonerato, poiché ha detto
formalmente: occorre fare al socialismo la guerra che è compatibile con la
legge, l’onore e la giustizia.
Ma come, non si accorge Montalembert che si colloca in un circolo vizioso?
Volete opporre la Legge al Socialismo? Ma il Socialismo invoca
precisamente la Legge. Esso non aspira alla spoliazione illegale, ma a quella
legale. È della Legge stessa, sull’esempio dei monopolisti di ogni sorta, che
esso pretende di farsi uno strumento; e una volta che avrà la Legge per sé,
come potrete girargli contro la Legge? Come volete tenerlo sotto la minaccia
dei vostri tribunali, dei vostri gendarmi e delle vostre prigioni?
Che fate allora? Volete impedirgli di metter mano alla produzione delle
Leggi. Volete tenerlo fuori dal Palazzo legislativo. Non ci riuscirete, oso
predirvelo, finché all’interno di quel Palazzo si faranno leggi sul principio
della Spoliazione legale. È troppo iniquo e assurdo.
Occorre assolutamente che tale questione della Spoliazione legale finisca, e
non ci sono che tre soluzioni:
– Che il piccolo numero spogli il grande.
– Che tutti spoglino tutti.
– Che nessuno spogli nessuno.
Spoliazione parziale, Spoliazione universale, assenza di Spoliazione, occorre
scegliere. La Legge può perseguire uno solo di questi tre risultati.
Spoliazione parziale: è il sistema che ha prevalso fin quando l’elettorato è
stato parziale, sistema al quale si torna per evitare l’assalto del Socialismo.
Spoliazione universale: è il sistema dal quale siamo stati minacciati quando
l’elettorato è divenuto universale e la massa ha concepito l’idea di legiferare
sul principio dei legislatori che l’hanno preceduta.
Assenza di Spoliazione: è il principio di giustizia, di pace, di ordine, di
stabilità, di conciliazione, di buon senso che io proclamerò con tutta la forza,
ahimè insufficiente, dei miei polmoni e fino al mio ultimo respiro.
E, sinceramente, si può chiedere altro alla Legge? La Legge, che ha per
sanzione necessaria la Forza, può essere ragionevolmente impiegata per altro
che per mantenere ciascuno nel limite del suo Diritto? Sfido a farla uscire da
quest’ambito, senza stravolgerla e, di conseguenza, senza volgere la Forza
contro il Diritto. E siccome si tratta del più funesto e illogico sconvolgimento
sociale che si possa immaginare, occorre riconoscere che l’autentica e tanto
ricercata soluzione del problema sociale è racchiusa in queste semplici
parole: LA LEGGE È LA GIUSTIZIA ORGANIZZATA.
Ora, notiamolo bene: organizzare la Giustizia per mezzo della Legge, cioè
per mezzo della Forza, esclude l’idea di organizzare per mezzo della Legge o
della Forza qualunque attività umana: Lavoro, Carità, Agricoltura,
Commercio, Industria, Istruzione, Belle Arti, Religione; poiché non è
possibile che uno di questi ordinamenti secondari non finisca con l’annientare
l’ordinamento essenziale. Come immaginare, infatti, che la Forza prenda
un’iniziativa sulla Libertà dei cittadini, senza mettere a rischio la Giustizia,
cioè senza agire contro il proprio scopo?
Qui mi scontro con il più popolare pregiudizio della nostra epoca. Non si
vuole solamente che la Legge sia giusta; si vuole anche che sia filantropica.
Non ci si accontenta che essa garantisca a ogni cittadino il libero e
inoffensivo esercizio delle sue facoltà, applicate al suo sviluppo fisico,
intellettuale e morale; si esige da essa che sparga direttamente sulla nazione il
benessere, l’istruzione e la moralità. È il lato seducente del Socialismo.
Ma, ripeto, queste due missioni della Legge si contraddicono. Occorre
scegliere. Il cittadino non può al tempo stesso essere libero e non esserlo.
Lamartine mi scriveva un giorno: «La vostra dottrina non è che la metà del
mio programma; voi vi siete fermato alla Libertà, io sono arrivato alla
Fraternità». Gli risposi: «La seconda metà del vostro programma distruggerà
la prima». E, in effetti, mi è assolutamente impossibile separare la parola
“fraternità” dalla parola volontaria. Mi è impossibile concepire la Fraternità
legalmente imposta, senza che la Libertà sia legalmente distrutta, e la
Giustizia legalmente calpestata.
La Spoliazione legale ha due radici: l’una, l’abbiamo appena visto, è
nell’Egoismo umano; l’altra è nella falsa Filantropia.
Prima di andar oltre, credo di dovermi spiegare sulla parola “Spoliazione”.
Non la prendo, come si fa troppo spesso, in un’accezione vaga,
indeterminata, approssimativa, metaforica: me ne servo in senso del tutto
scientifico e come termine che esprime l’idea opposta a quella di Proprietà.
Quando una porzione di ricchezza passa da colui che l’ha acquisita, senza il
suo consenso né compensazione, a colui che non l’ha creata, che sia per forza
o con astuzia, io affermo che si tratta di attentato alla Proprietà, che c’è
Spoliazione. Dico che è proprio quello che la Legge dovrebbe reprimere
dappertutto e sempre. Se la Legge compie essa stessa l’atto che dovrebbe
reprimere, affermo che è sempre Spoliazione e, socialmente parlando, con
circostanza aggravante. Solamente, in questo caso, non ne è responsabile chi
trae profitto dalla Spoliazione ma la Legge stessa, il legislatore e la società:
questo ne costituisce il pericolo politico.
È spiacevole che questa parola abbia qualcosa che ferisce. Ne ho invano
cercata un’altra, perché in nessun caso, e oggi meno che mai, vorrei mettere
in mezzo una parola irritante. Così, lo crediate o no, dichiaro che non intendo
accusare né le intenzioni né la moralità di chicchessia. Attacco un’idea che
credo falsa, un sistema che mi sembra ingiusto, e lo faccio senza intenzione
che ciascuno di noi ne tragga profitto senza volerlo e ne soffra senza saperlo.
Bisogna scrivere sotto il peso dello spirito di partito o della paura, per mettere
in dubbio la sincerità del Protezionismo, del Socialismo e anche del
Comunismo, che sono una sola e medesima pianta, in tre periodi diversi della
crescita. Tutto ciò che si potrebbe dire è che la Spoliazione è più visibile nel
Protezionismo[7] per la sua parzialità e per la sua universalità nel
Comunismo; da cui segue che dei tre sistemi il Socialismo è ancora il più
vago, il più indeciso e, di conseguenza, il più sincero.
Come che sia, convenire che la spoliazione legale abbia una delle radici nella
falsa filantropia è, con evidenza, mettere le intenzioni fuori causa.
Chiarito questo, esaminiamo ciò che vale, da dove viene e dove va a finire
quest’aspirazione popolare che pretende di realizzare il Bene generale per
mezzo della Spoliazione generale.
I socialisti ci dicono: dal momento che la Legge organizza la giustizia, perché
non può organizzare il lavoro, l’insegnamento o la religione?
Perché? Perché non potrebbe organizzare il lavoro, l’insegnamento o la
religione, senza mettere in disordine la Giustizia.
Ricordate poi che la Legge è la Forza, e che, di conseguenza, il campo della
Legge non potrebbe legittimamente oltrepassare il legittimo campo della
Forza.
Quando la Legge e la Forza mantengono un uomo nel dominio della
Giustizia, non gli impongono altro che una pura negazione. Gli impongono
l’astensione dal nuocere ad altri. Non attentano né alla sua Personalità, né alla
sua Libertà, né alla sua Proprietà. Salvaguardano invece la Personalità, la
Libertà e la Proprietà altrui. Si tengono sulla difensiva; difendono il Diritto
eguale di tutti. Adempiono una missione la cui innocuità è evidente, l’utilità
palpabile e la legittimità non contestata.
Ciò è così vero che, come uno dei miei amici mi faceva notare, dire che lo
scopo della Legge è di far regnare la Giustizia, è servirsi di un’espressione
abbastanza inesatta. Occorrerebbe dire: Lo scopo della Legge è di impedire
all’Ingiustizia di regnare. Infatti, non è la Giustizia ad avere un’esistenza
propria, ma l’Ingiustizia. La Giustizia si realizza solo quando l’Ingiustizia è
assente.
Ma quando la Legge – attraverso l’intermediazione del suo agente necessario,
la Forza – impone un modo di lavorare, un metodo o una materia di
insegnamento, una fede o un culto, essa agisce sugli uomini non più in modo
negativo, ma positivamente. Essa sostituisce la volontà del legislatore alla
loro volontà, l’iniziativa del legislatore alla loro iniziativa. Essi non devono
più consultarsi, comparare, prevedere; la Legge fa tutto per loro.
L’intelligenza diviene un soprammobile inutile; essi cessano di essere
uomini; perdono la Personalità, la Libertà e la Proprietà.
Cercate di immaginare una forma di lavoro imposta con la Forza che non sia
un pericolo per la Libertà; un trasferimento di ricchezza imposto con la Forza
che non sia un pericolo per la Proprietà. Se non ci riuscite, allora siete
d’accordo che la Legge non può organizzare il lavoro e l’industria senza
organizzare l’Ingiustizia.
Quando, dal fondo del suo studio, un saggista fa spaziare il suo sguardo sulla
società, egli è colpito dallo spettacolo di diseguaglianza che gli si offre. Geme
sulle sofferenze che sono la sorte di così tanti nostri fratelli, sofferenze il cui
aspetto è reso ancor più rattristante dal contrasto con il lusso e l’opulenza.
Forse dovrebbe domandarsi se un tale stato della società non abbia per causa
Spoliazioni antiche, esercitate con la conquista, e nuove Spoliazioni,
esercitate per mezzo delle Leggi. Forse dovrebbe domandarsi, data
l’aspirazione di tutti gli uomini verso il benessere e il perfezionamento, se il
regno della giustizia sia sufficiente per realizzare il massimo Progresso e la
massima Uguaglianza compatibili con quella responsabilità individuale che
Dio ha disposto come giusta retribuzione delle virtù e dei vizi.
Non solo non ci pensa. Il suo pensiero si porta verso combinazioni,
accomodamenti, sistemi legali o artificiosi. Egli cerca il rimedio nella
permanenza e nell’esagerazione di ciò che ha prodotto il male.
Fuori della Giustizia che, come abbiamo visto, è un’autentica negazione, c’è
tra quegli accomodamenti legali uno che non contenga il principio della
Spoliazione?
Voi dite: «Ecco degli uomini che non hanno ricchezze» – e vi rivolgete alla
Legge. Ma la Legge non è una mammella che si riempia da sola, o le cui vene
lattifere vadano a pescare altrove che nella società stessa. Nulla entra nel
tesoro pubblico, in favore di un cittadino o di una classe, se non ciò che gli
altri cittadini e le altre classi sono stati costretti a mettervi. Se ciascuno non vi
attinge che l’equivalente di ciò che vi versa, la vostra Legge, è vero, non è
spogliatrice, ma non fa niente per quegli uomini che non hanno ricchezze,
non fa niente per l’eguaglianza. Essa non può essere uno strumento di
eguaglianza se non per quanto prende agli uni per dare agli altri; e allora è
uno strumento di Spoliazione. Esaminate da questo punto di vista la
Protezione dei dazi, gli incentivi, il Diritto al profitto, il Diritto al lavoro, il
Diritto all’assistenza, il Diritto all’istruzione, l’imposta progressiva, la
gratuità del credito, l’opificio nazionale: a loro fondamento troverete sempre
la Spoliazione legale, l’ingiustizia organizzata.
Voi dite: «Ecco uomini che non hanno lumi» – e vi rivolgete alla Legge. Ma
la Legge non è una fiaccola che spanda una luce propria. Essa si libra su una
società nella quale ci sono uomini che sanno e altri che non sanno; cittadini
che hanno bisogno di apprendere e altri che sono disposti a insegnare. Essa
non può fare che una di queste due cose: o lasciar operare liberamente questo
genere di transazioni, lasciar soddisfare questa natura di bisogni; oppure
costringere le volontà e prendere agli uni ciò con cui pagare professori
incaricati di istruire gratuitamente gli altri. Non può far sì che non ci sia,
secondo i casi, un danno alla Libertà e alla Proprietà, una Spoliazione legale.
Voi dite: «Ecco degli uomini che mancano di moralità o di religione» – e vi
rivolgete alla Legge. Ma la Legge è la Forza, e ho forse bisogno di spiegare
quanto sia idea violenta e folle far intervenire la Forza in queste materie?
Sembra che il Socialismo, qualunque tolleranza abbia verso se stesso, al
fondo dei suoi sistemi e dei suoi sforzi non possa fare a meno di intravedere il
mostro della Spoliazione legale. E cosa fa? Lo maschera abilmente agli occhi
di tutti, anche ai suoi, con nomi seducenti come Fraternità, Solidarietà,
Organizzazione, Associazione. E siccome noi non chiediamo tanto alla Legge
perché non esigiamo da essa che la Giustizia, il Socialismo suppone che
respingiamo la fraternità, la solidarietà, l’organizzazione, l’associazione, e ci
getta in faccia l’epiteto di individualisti.
Che sappia allora che ciò che noi respingiamo non è l’organizzazione
naturale, ma l’organizzazione forzata.
Non è l’associazione libera, ma le forme associative che esso pretende di
imporci.
Non è la fraternità spontanea, ma la fraternità legale.
Non è la solidarietà provvidente, ma la solidarietà artificiosa che non è che
uno spostamento ingiusto della Responsabilità.
Il Socialismo, come la vecchia politica dalla quale deriva, confonde il
Governo e la Società. Ecco perché, ogni volta che noi non vogliamo che una
cosa sia fatta dal Governo, esso ne deduce che noi vogliamo che questa cosa
non sia fatta del tutto. Noi respingiamo l’istruzione di Stato, quindi non
vogliamo l’istruzione. Noi respingiamo una religione di Stato, quindi non
vogliamo la religione. Noi respingiamo l’eguaglianza di Stato, quindi non
vogliamo l’eguaglianza, ecc. È come se ci accusassero di non volere che gli
uomini mangino perché respingiamo la coltivazione statale del grano.
Come ha potuto prevalere, nel mondo politico, l’idea bizzarra di far derivare
dalla Legge ciò che non ne fa parte, come il Bene, in modo positivo, la
Ricchezza, la Scienza, la Religione?
I saggisti moderni, particolarmente quelli della scuola socialista, fondano le
loro differenti teorie su un’ipotesi comune, sicuramente la più strana e la più
orgogliosa che possa sorgere in un cervello umano.
Essi dividono l’umanità in due parti. Tutti gli uomini meno uno formano la
prima parte; il saggista, da solo, forma la seconda, di gran lunga la più
importante.
Infatti, essi cominciano con il supporre che gli uomini non portino in sé né un
principio di azione, né un mezzo di discernimento; che siano sprovvisti
d’iniziativa; che siano materia inerte, molecole passive, atomi senza
spontaneità, al più dei vegetali indifferenti alla propria esistenza, che possono
ricevere, da una volontà o da una mano esterna, un numero infinito di forme
più o meno simmetriche, artistiche, perfezionate.
Poi ciascuno di loro, chiamandosi Organizzatore, Rivelatore, Legislatore,
Istitutore, o Fondatore, suppone senza tanti complimenti di essere lui stesso
quella volontà e quella mano, un impulso universale, una potenza creatrice la
cui sublime missione è di riunire in una società quei pezzi sparsi che sono gli
uomini.
Prendendo le mosse da questo principio, proprio come un giardiniere secondo
il suo gusto pota gli alberi a piramide, a ombrello, a cubo, a cono, a vaso, a
spalliera, a fuso, a ventaglio, così ogni socialista, inseguendo la sua chimera,
modella la povera umanità in gruppi, in serie, in centri, in sotto-centri, in
alveoli, in opifici sociali, armonici, contrastati, ecc., ecc.
E come un giardiniere per potare gli alberi ha bisogno di asce, seghe, roncole,
forbici, così il saggista, per accomodare la sua società, ha bisogno di forze
che può trovare solo nelle Leggi; legge di Dogana, legge d’imposta,
dell’assistenza, dell’istruzione.
È così vero che i socialisti considerano l’umanità come un materiale per
l’ingegneria sociale che, se per caso non sono sicuri del successo delle loro
teorie, reclamano almeno una parte di umanità come materia da esperimenti:
si sa quant’è popolare tra di loro l’idea di sperimentare tutti i sistemi, e si è
sentito uno dei loro capi chiedere seriamente all’Assemblea Costituente un
Comune con tutti i suoi abitanti, per fare la sua prova.
Così ogni inventore fa la sua macchina in piccolo prima di farla in grande;
così il chimico sacrifica qualche reagente; così l’agricoltore sacrifica un po’
di semente e un angolo del suo campo per provare un’idea.
Ma quale distanza incommensurabile c’è tra il giardiniere e i suoi alberi, tra
l’inventore e la sua macchina, tra il chimico e i suoi reagenti, tra l’agricoltore
e le sue sementi...! Il socialista crede in buona fede che la stessa distanza lo
separi dall’umanità.
Non bisogna stupirsi che i saggisti del diciannovesimo secolo considerino la
società come una creazione artificiale uscita dal genio del Legislatore.
Questa idea, frutto dell’educazione classica, ha dominato tutti i pensatori e
tutti i grandi scrittori del nostro paese.
Tutti hanno visto tra l’umanità e il legislatore, la stessa relazione che esiste
tra l’argilla e il vasaio.
Ben di più, se hanno riconosciuto nel cuore dell’uomo un principio d’azione e
nella sua intelligenza un principio di discernimento, essi hanno pensato che
con quei principi Dio avesse fatto agli uomini un dono funesto; essi hanno
stabilito che l’umanità, a causa di quei due motori, tendeva fatalmente alla
sua degradazione. Essi hanno concluso che abbandonata alle sue inclinazioni
l’umanità non si occuperebbe di religione che per sboccare nell’ateismo, di
istruzione che per arrivare all’ignoranza, di lavoro e di scambio che per finire
nella miseria.
Secondo quegli stessi autori, per la fortuna di tutti ci sono alcuni uomini,
chiamati Governanti o Legislatori, che hanno ricevuto dal cielo, non solo per
se stessi ma per tutti gli altri, delle tendenze opposte.
Mentre l’umanità inclina al Male, loro inclinano al Bene; mentre l’umanità
cammina verso le tenebre, loro aspirano alla luce; mentre l’umanità è
trascinata verso il vizio, loro sono attratti dalla virtù. Deciso questo,
reclamano la Forza affinché li metta in grado di sostituire le loro tendenze a
quelle del genere umano.
Basta aprire a caso un libro di filosofia, di politica o di storia, per vedere
quanto sia molto radicata nel nostro paese l’idea, figlia degli studi classici e
madre del Socialismo, che l’umanità sia una materia inerte che riceve dal
potere la vita, l’organizzazione, la moralità e la ricchezza – oppure, il che è
ancor peggio, che per se stessa l’umanità tenda alla degradazione e sia
fermata su questa china solo dalla mano misteriosa del Legislatore. Il
Convenzionalismo classico ci mostra ovunque, dietro la società passiva, una
potenza occulta che, con il nome di Legge o di Legislatore, o con
l’espressione più comoda e più vaga del pronome impersonale “si”, muove
l’umanità, la anima, la arricchisce e la moralizza.
BOSSUET: «Una delle cose che SI (chi è il soggetto?) imprimeva più
fortemente nello spirito degli Egiziani era l’amor di patria... Non era
permesso essere inutile allo Stato; la Legge assegnava a ciascuno il suo
lavoro che si perpetuava di padre in figlio. Non se ne poteva avere due né
cambiare di professione. Ma c’era un’occupazione che doveva essere
comune, lo studio delle leggi e della saggezza. L’ignoranza della religione e
della politica del paese non era scusata in nessuno Stato. Per il resto, ogni
professione aveva il suo posto che le era assegnato (da chi?)... Tra buone
leggi, ciò che vi era di meglio era che tutti erano nutriti (da chi?) nello spirito
di osservarle... I loro mercuri hanno riempito l’Egitto di invenzioni
meravigliose e non avevano lasciato ignorare niente di ciò che poteva rendere
comoda e tranquilla la vita».[8]
Così secondo Bossuet gli uomini non traggono nulla da loro stessi:
patriottismo, ricchezze, attività, saggezza, invenzioni, agricoltura, scienze,
tutto veniva loro dall’opera delle Leggi o dei Re. Non si trattava per loro che
di lasciarsi fare. A questo punto Bossuet contesta Diodoro, che ha accusato
gli Egiziani di rifiutare la lotta e la musica. Com’è possibile, dice, poiché
queste arti erano state inventate da Trismegisto?
La stessa cosa presso i Persiani:
«Una delle prime cure del principe era di far fiorire l’agricoltura… Come
c’erano cariche stabilite per la guida degli eserciti, ce n’erano anche per
vegliare sui lavori della campagna… Il rispetto che SI ispirava ai Persiani per
l’autorità regia andava fino all’eccesso».
I Greci, benché pieni di spirito, erano altrettanto estranei al loro destino al
punto che, da soli, non si sarebbero elevati, come i cani e i cavalli, all’altezza
dei giochi più semplici. Nel mondo classico è un fatto accettato che ai popoli
tutto provenga dall’esterno.
«I Greci, per natura ricchi di spirito e di coraggio, erano stati educati presto
da Re e da colonie venute dall’Egitto. È in questo modo che essi avevano
imparato gli esercizi del corpo, la corsa a piedi, a cavallo e sui carri... Ciò
che gli Egiziani avevano loro insegnato di meglio era a rendersi docili, a
lasciarsi formare da leggi per il bene pubblico».
FÉNELON: Nutrito dallo studio e dall’ammirazione dell’antichità, testimone
della potenza di Luigi XIV, Fénelon non poteva sfuggire all’idea che
l’umanità sia passiva e che le sventure come le prosperità, le virtù come i
vizi, le provengano da un’azione esterna, esercitata su di essa dalla Legge o
da chi ne è l’autore. Così, nella sua utopica città di Salento, egli mette gli
uomini, con i loro interessi, le loro facoltà, i loro desideri e i loro beni, alla
discrezione assoluta del Legislatore. In qualunque materia non sono mai loro
che giudicano per se stessi, è il Principe. La nazione è una materia informe di
cui il Principe è l’anima. In lui risiedono il pensiero, la previdenza, i principi
di ogni organizzazione e di ogni progresso e, di conseguenza, la
Responsabilità.
Per provare quest’asserzione, occorrerebbe che trascrivessi qui tutto il
Decimo libro del Télémaque. Vi rinvio il lettore e mi contento di citare alcuni
passaggi presi a caso dalla celebre opera alla quale, sotto altri punti di vista,
sono il primo a render giustizia.
Con quella credulità sorprendente che caratterizza i classici, Fénelon
ammette, nonostante l’autorità del ragionamento e dei fatti, la felicità
generale degli Egiziani, che attribuisce non alla loro saggezza, ma a quella
dei loro Re.
«Non potevamo gettare l’occhio sulle due rive senza vedere città opulente,
case di campagna situate in modo gradevole, terre coperte tutti gli anni da
messi dorate, senza mai riposare; praterie piene di greggi; lavoratori oppressi
sotto il peso dei frutti che la terra effondeva dal suo seno; pastori che
facevano ripetere i dolci suoni dei flauti e delle cornamuse a tutti gli echi dei
dintorni. Felice, diceva Mentore, il popolo che è guidato da un saggio Re.
In seguito Mentore mi faceva notare la gioia e l’abbondanza diffuse ovunque
nelle campagne dell’Egitto, dove si contavano quasi ventiduemila città. Mi
faceva notare la giustizia esercitata in favore del povero contro il ricco; la
buona educazione dei bambini che erano stati abituati all’obbedienza, al
lavoro, alla sobrietà, all’amore delle arti e delle lettere; l’esattezza di tutte le
cerimonie della religione, il disinteresse, il desiderio d’onore, la fedeltà per
gli uomini e il timore per gli dei che ogni padre ispirava ai suoi figli. Non si
stancava di ammirare questo bell’ordine. Felice, diceva, il popolo che un
saggio Re guida così».[9]
Fénelon costruisce su Creta un idillio ancor più seducente. Poi aggiunge,
sulla bocca di Mentore:
«Tutto quello che vedrete su quest’isola meravigliosa, è frutto delle leggi di
Minosse. L’educazione che egli faceva impartire ai bambini rende il corpo
sano e robusto. Li SI abitua dapprima a una vita semplice, frugale e laboriosa;
SI suppone che ogni piacere infiacchisca il corpo e la mente; mai SI propone
loro altro piacere che quello di essere invincibili nella virtù e di acquisire
molta gloria... Qui SI puniscono tre vizi che restano impuniti negli altri
popoli, l’ingratitudine, la dissimulazione e l’avarizia. Per il fasto e la
mollezza, non SI ha mai bisogno di reprimerli poiché sono sconosciuti a
Creta... Non SI tollerano né mobili preziosi, né abiti magnifici, né festini
deliziosi, né palazzi dorati».
Così Mentore prepara il suo allievo a spremere e manipolare il popolo di
Itaca, senza dubbio in un’ottica filantropica, e, per maggior sicurezza, gliene
dà l’esempio a Salento.
Ecco come riceviamo le nostre prime nozioni politiche. Ci insegnano a
trattare gli uomini più o meno come Olivier de Serres[10] insegna agli
agricoltori a trattare e mescolare le terre.
MONTESQUIEU: «Per mantenere lo spirito del commercio, occorre che tutte
le leggi lo favoriscano; che quelle stesse leggi, per loro disposizione,
dividendo le fortune man mano che il commercio le ingrossa, mettano ogni
cittadino povero in un’agiatezza sufficiente a poter lavorare come gli altri e
ogni cittadino ricco in una tale mediocrità che abbia bisogno di lavorare per
conservare o acquisire».[11]
Così le Leggi possono decidere di tutte le fortune.
«Benché in democrazia l’anima dello Stato sia l’eguaglianza reale, tuttavia
essa è così difficile da stabilire che un’assoluta esattezza non sarebbe sempre
conveniente. Basta che SI definisca un censo che riduca o fissi le differenze a
un certo punto. Dopo di che tocca a leggi particolari livellare per così dire le
disuguaglianze, con il carico che impongono ai ricchi e il sollievo che
concedono ai poveri».
Ecco ancora l’eguagliamento delle fortune per mezzo della legge, con la
forza.
«C’erano in Grecia due sorte di repubbliche. Le une erano militari, come
Sparta; le altre erano commerciali, come Atene. Nelle une SI voleva che i
cittadini fossero oziosi; nelle altre SI cercava di trasmettere l’amore per il
lavoro».
«Prego di dedicare un poco d’attenzione all’estensione del genio che occorse
a questi legislatori per vedere che urtando tutti gli usi consueti e confondendo
tutte le virtù, essi avrebbero mostrato all’universo la loro saggezza. Licurgo,
mescolando il plagio con lo spirito di giustizia, la più dura schiavitù con
l’estrema libertà, i sentimenti più atroci con la più grande moderazione, diede
stabilità alla città. Sembrò toglierle tutte le risorse, le arti, il commercio, il
denaro, le mura: c’è ambizione senza speranza di stare meglio; ci sono
sentimenti naturali, e non ci sono né figli, né mariti, né padri; persino il
pudore è tolto alla castità. È su questa strada che Sparta è condotta alla
grandezza e alla gloria».
«Questo straordinario che si vedeva nelle istituzioni della Grecia noi
l’abbiamo visto nella feccia e nella corruzione dei tempi moderni. Un
legislatore onesto ha formato un popolo nel quale la probità sembra così
naturale come il coraggio presso gli Spartiati. Penn[12] è un autentico
Licurgo e, benché abbia avuto come obiettivo la pace mentre l’altro la guerra,
essi si assomigliano per la strada singolare in cui hanno messo i loro popoli,
per l’ascendente che hanno avuto su uomini liberi, per i pregiudizi che hanno
vinto e le passioni che hanno sottomesso».
«Il Paraguay può fornirci un altro esempio. Si è fatto un criminale contro la
Società, di chi vede il piacere di comandare come il solo bene della vita; ma
rimarrà sempre bello governare gli uomini rendendoli più felici».
«Coloro che vorranno fare delle istituzioni simili stabiliranno la comunità
dei beni della repubblica di Platone, imporranno il rispetto che egli
domandava per gli Dei, manterranno la separazione dagli stranieri per
conservare i costumi, e infine stabiliranno che sia la città a fare il commercio
e non i cittadini; ci daranno le nostre arti senza il nostro lusso, e i nostri
bisogni senza i nostri desideri».
L’infatuazione volgare avrà un bel gridare: è Montesquieu, dunque è
magnifico! Sublime! avrò il coraggio della mia opinione e dirò:
Cosa? Avete la sfacciataggine di trovarlo bello?
Ma è spaventoso! Abominevole! Queste citazioni, che potrei moltiplicare,
mostrano che nelle idee di Montesquieu, persone, libertà, proprietà, l’umanità
tutta, sono solo materiali adatti a esercitare la saggezza del Legislatore.
ROUSSEAU: Benché questo scrittore, suprema autorità dei democratici,
faccia posare l’edificio della società sulla volontà generale, nessuno ha
ammesso così chiaramente l’ipotesi della totale passività del genere umano di
fronte al Legislatore.
«Se è vero che un grande principe è un uomo raro, cosa sarà di un grande
legislatore? Il primo non ha che da seguire il modello che il secondo deve
proporre. Questo è il meccanico che inventa la macchina, quello è solo
l’operaio che la monta e la fa funzionare».[13]
E che cosa sono gli uomini in tutto questo? La macchina che si monta e che
funziona, o meglio la materia prima di cui la macchina è fatta!
Così tra il Legislatore e il Principe, tra il Principe e i sudditi, ci sono gli stessi
rapporti che tra l’agronomo e l’agricoltore, e l’agricoltore e la terra. A quale
altezza sopra l’umanità è quindi posto lo scrittore che comanda gli stessi
Legislatori e insegna loro il mestiere in termini imperativi:
«Volete dare consistenza allo Stato? Avvicinate i gradi estremi per quanto è
possibile. Non sopportate né genti opulente né pezzenti.
Se il suolo è ingrato o sterile, o se il paese è troppo piccolo per gli abitanti,
rivolgetevi all’industria e alle arti, le cui produzioni scambierete con le
derrate che vi mancano... Se su una buona terra vi mancano gli abitanti,
dedicatevi all’agricoltura che moltiplica gli uomini e cacciate le arti che non
farebbero che portare a termine lo spopolamento del paese... Occupatevi di
rive estese e comode, coprite il mare di navi, e avrete un’esistenza brillante e
breve. Se sulle vostre coste il mare non bagna che rocce inaccessibili, restate
barbari e nutritevi di pesce, vivrete più tranquilli, migliori forse e di sicuro
più felici. In una parola, oltre alle massime comuni a tutti, ogni popolo porta
in sé qualche causa che lo ordina in un modo speciale e rende la sua
legislazione adatta a esso solo. Così gli Ebrei in altri tempi e recentemente gli
Arabi hanno avuto per obiettivo principale la religione; gli Ateniesi le lettere;
Cartagine e Tiro il commercio; Rodi la marina; Sparta la guerra e Roma la
virtù. L’autore de Lo spirito delle Leggi ha mostrato con quale arte il
legislatore diriga l’istituzione verso ciascuno di questi obiettivi… Ma se il
legislatore, sbagliando nel suo progetto, segue un principio differente da
quello che nasce dalla natura delle cose, che l’uno tenda alla servitù e l’altro
alla libertà, l’uno alle ricchezze l’altro alla popolazione, l’uno alla pace l’altro
alle conquiste, si vedranno le leggi indebolirsi poco alla volta, la costituzione
alterarsi e lo Stato non cesserà di essere agitato fino a quando sarà finito
distrutto o cambiato e la natura invincibile avrà ripreso il suo impero».
Ma se la natura è abbastanza invincibile per riprendere il suo dominio,
perché Rousseau non ammette che essa non aveva bisogno del Legislatore
per prendere questo dominio fin dall’origine? Perché non ammette che
obbedendo alla propria iniziativa gli uomini si rivolgeranno per conto loro
all’agricoltura su terreni fertili o al commercio su rive estese e comode, senza
che un Licurgo, un Solone, un Rousseau, s’immischino a rischio di
sbagliarsi?
Come che sia, si comprende la terribile responsabilità che Rousseau fa pesare
su inventori, istitutori, condottieri, legislatori e manipolatori di Società. Per
questo è molto esigente a loro riguardo.
«Colui che osa intraprendere l’istituzione di un popolo deve sentirsi in grado
di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo che
per conto suo è un tutto perfetto e solitario, nella parte di un tutto più grande
da cui questo individuo riceve, in tutto o in parte, la vita e l’essere; di alterare
la costituzione dell’uomo per rinforzarla, di sostituire un’esistenza parziale e
morale a quell’esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuto dalla
natura. In una parola, occorre che egli tolga all’uomo le forze proprie, per
dargliene altre che gli siano estranee».
Povera specie umana, che farebbero della tua dignità gli adepti di Rousseau?
RAYNAL: «Il clima, cioè il cielo e il suolo, è la prima misura del legislatore.
Le sue risorse gli dettano i suoi doveri. Dapprima deve studiare la sua
situazione locale. Una popolazione gettata su coste marittime avrà leggi
concernenti la navigazione... Se la colonia è portata sulla terra, un legislatore
deve prevedere sia il suo tipo sia il suo grado di fecondità».[14]
«In modo speciale nella distribuzione della proprietà brillerà la saggezza della
legislazione. In generale, e in tutti i paesi del mondo, quando si fonda una
colonia occorre dare terra a tutti gli uomini, vale a dire a ciascuno
un’estensione sufficiente al mantenimento di una famiglia».
«In un’isola selvaggia che SI popolasse di bambini, non SI dovrebbe far altro
che lasciar schiudere i germi della verità con lo sviluppo della ragione... Ma
quando SI stabilisce un popolo già vecchio in un paese nuovo, l’abilità
consiste nel non lasciargli che quelle opinioni e abitudini nocive dalle quali
non si può guarirlo né correggerlo. Se si vuol impedire che esse si
trasmettano, SI veglierà sulla seconda generazione con un’educazione
comune e pubblica dei figli. Un principe, un legislatore, non dovrebbero mai
fondare una colonia senza inviarvi prima degli uomini saggi per l’istruzione
della gioventù... In una colonia nascente tutte le possibilità sono aperte alla
precauzione del Legislatore che voglia purificare il sangue e i costumi di un
popolo. Se egli ha genio e virtù, terre e uomini che avrà nelle mani
ispireranno alla sua anima un progetto di società che uno scrittore non potrà
mai tracciare se non in modo vago e soggetto all’instabilità delle ipotesi, le
quali variano e si complicano con una infinità di circostanze troppo difficili
da prevedere e combinare».
Non sembra di sentire un professore di agraria dire ai suoi allievi: – Il clima è
la prima regola dell’agricoltore? Le sue risorse gli dettano i suoi doveri. È
dapprima la sua situazione locale che egli deve consultare. Se è un suolo
argilloso, egli deve comportarsi in tal modo. Se è alle prese con la sabbia,
ecco come egli deve fare. Tutte le possibilità sono aperte all’agricoltore che
vuol pulire e migliorare il suo suolo. Che abbia dell’abilità, e le terre e i
fertilizzanti che egli avrà nelle sue mani gli ispireranno un piano di
sfruttamento che un professore non potrà mai tracciare che in modo vago e
soggetto all’instabilità delle ipotesi, che variano e si complicano con
un’infinità di circostanze troppo difficili da prevedere e combinare...
Ma, oh sublimi scrittori, volete ricordare qualche volta che quell’argilla,
quella sabbia, quel concime di cui disponete così arbitrariamente, sono
Uomini, vostri simili, esseri intelligenti e liberi come voi, che come voi
hanno ricevuto da Dio la facoltà di vedere, prevedere, pensare e giudicare per
contro proprio?
MABLY: (Suppone che le leggi siano consumate dalla ruggine del tempo e
dalla negligenza di chi le protegge, e così prosegue):
«In queste circostanze occorre essere convinti che le energie del governo si
siano allentate. Date loro una nuova tensione (Mably si rivolge al lettore) e il
male sarà guarito... Pensate meno a punire gli errori che a incoraggiare la
virtù di cui avete bisogno. Con questo metodo restituirete alla vostra
repubblica il vigore della gioventù. Non avendola conosciuta, i popoli liberi
hanno perso la libertà! Ma se i progressi del male sono tali che i magistrati
ordinari non possono rimediarvi efficacemente, fate ricorso a una
magistratura straordinaria, il cui tempo sia breve e la potenza considerevole.
L’immaginazione dei cittadini ha bisogno allora di esser colpita».[15]
E tutto secondo questo tono per venti volumi. C’è stata un’epoca in cui, sotto
l’influenza di tali insegnamenti, che sono la base dell’educazione classica,
ognuno ha voluto porsi al di fuori e sopra l’umanità per accomodarla,
organizzarla e istituirla a modo suo.
CONDILLAC: «Ergetevi, Signore, a Licurgo o a Solone. Prima di continuare
a leggere di questo scritto, divertitevi a dare leggi a qualche popolo selvaggio
d’America o d’Africa. Stabilite in dimore fisse questi uomini erranti;
insegnate loro a nutrire greggi...; lavorate a sviluppare le qualità sociali che la
natura ha posto in loro...; ordinate loro di cominciare a praticare i doveri
dell’umanità... Avvelenate con castighi i piaceri che promettono le passioni e
vedrete questi barbari, a ogni articolo della vostra legislazione, perdere un
vizio e prendere una virtù».[16]
«Tutti i popoli hanno avuto leggi; ma pochi tra loro sono stati felici. Qual è la
causa? È che i legislatori hanno spesso ignorato che lo scopo della società è
unire le famiglie per mezzo di un interesse comune».
«L’imparzialità delle leggi consiste in due cose: stabilire l’eguaglianza dei
cittadini nella fortuna e nella dignità... A mano a mano che le vostre leggi
stabiliranno una maggior eguaglianza, esse diventeranno più amate da ogni
cittadino... Come potrebbero l’avarizia, l’ambizione, la voluttà, la pigrizia,
l’ozio, l’invidia, l’odio, la gelosia, agitare uomini uguali nella fortuna e nella
dignità, e ai quali le leggi non lasciano speranza di rompere l’eguaglianza?».
(Segue l’idillio.)
«Ciò che vi è stato detto della Repubblica di Sparta deve darvi grandi lumi su
questa questione. Nessun altro Stato ha mai avuto leggi più conformi
all’ordine della natura e dell’eguaglianza».
Non è sorprendente che il diciassettesimo e il diciottesimo secolo abbiano
considerato il genere umano come materia inerte in attesa che riceve tutto,
forma, figura, impulso, movimento e vita da un gran Principe, da un gran
Legislatore, da un gran Genio. Questi secoli sono nutriti dallo studio
dell’antichità, e l’antichità, in effetti, offre dappertutto, in Egitto, in Persia, in
Grecia, a Roma, lo spettacolo di alcuni uomini che manipolano a loro
gradimento l’umanità asservita con la forza o con l’impostura. Che cosa
prova questo? Che, poiché l’uomo e la società sono perfettibili, l’errore,
l’ignoranza, il dispotismo, la schiavitù, la superstizione, devono accumularsi
di più all’inizio dei tempi. Il torto degli scrittori che ho citato non è d’aver
constatato il fatto ma di averlo proposto come regola all’ammirazione e
all’imitazione dei popoli futuri. Il loro torto è di avere, con un’inconcepibile
mancanza di critica e con la fede in un convenzionalismo puerile, ammesso
ciò che è inammissibile, cioè la grandezza, la dignità, la moralità e il
benessere di quelle società artificiali del mondo antico; di non aver compreso
che il tempo produce e propaga la luce; che a mano a mano che la luce
aumenta, la forza passa dalla parte del Diritto e la società riprende possesso di
se stessa.
D’altro canto, cos’è il lavorio politico al quale assistiamo? Nient’altro che lo
sforzo istintivo di tutti i popoli verso la libertà. E cos’è la Libertà, parola
capace di far battere i cuori e di agitare il mondo, cos’è se non l’insieme di
tutte le libertà, libertà di coscienza, d’istruzione, di associazione, di stampa,
di movimento, di lavoro, di scambio; in altri termini il franco esercizio, per
tutti, di tutte le facoltà inoffensive; in altri termini ancora l’eliminazione di
tutti i dispotismi, anche del dispotismo legale, e la riduzione della Legge al
suo unico attributo razionale, quello di dare regole al Diritto individuale di
legittima difesa e di reprimere l’ingiustizia?
Bisogna convenire che questa tendenza del genere umano è grandemente
contrariata, particolarmente nella nostra patria, dalla funesta disposizione
comune a tutti gli studiosi – frutto dell’insegnamento classico – di porsi sopra
l’umanità per accomodarla, organizzarla e istituirla a loro modo.
Poiché, mentre la società si agita per realizzare la Libertà, i grandi uomini che
si pongono alla sua testa, imbevuti dei principi del diciassettesimo e
diciottesimo secolo, non pensano che a piegarla sotto il dispotismo
filantropico delle loro creazioni sociali e a farle sopportare docilmente,
secondo l’espressione di Rousseau, il giogo della felicità pubblica, così come
loro l’hanno immaginata.
Si vide bene nel 1789. Appena il vecchio regime di leggi fu distrutto, la
nuova società fu sottomessa a nuovi accomodamenti artificiali, sempre
muovendo da un punto comune: l’onnipotenza della Legge.
SAINT-JUST: «Il Legislatore comanda all’avvenire. Sta a lui volere il bene.
Sta a lui rendere gli uomini ciò che egli vuole che siano».[17]
ROBESPIERRE: «La funzione del governo è di dirigere le forze fisiche e
morali della nazione verso lo scopo della sua istituzione».[18]
BILLARD-VARENNE: «Occorre ricreare il popolo che si vuol rendere alla
libertà. Poiché occorre distruggere antichi pregiudizi, cambiare antiche
abitudini, perfezionare gli affetti depravati, restringere i bisogni superflui,
estirpare vizi inveterati; occorre quindi un’azione forte, un impulso
veemente... Cittadini, l’inflessibile austerità di Licurgo divenne a Sparta la
base incrollabile della Repubblica; il carattere debole e fiducioso di Solone
ripiombò Atene nella schiavitù. Questo parallelo racchiude tutta la scienza
del governo».[19]
LEPELLETTIER: «Considerando a qual punto la specie umana sia degradata,
mi sono convinto della necessità di operare una piena rigenerazione e, se così
posso esprimermi, di creare un nuovo popolo».[20]
Lo si vede, gli uomini non sono nient’altro che vili materiali. Non sta a loro
volere il bene – ne sono incapaci – sta al Legislatore, secondo Saint-Just. Gli
uomini sono ciò che egli vuole che siano.
Seguendo Robespierre, che copia letteralmente Rousseau, il Legislatore
comincia con assegnare lo scopo dell’istituzione della nazione. Poi i governi
non hanno più che da dirigere verso questo scopo tutte le forze fisiche e
morali. La nazione stessa permane passiva in tutto questo e Billaud-Varenne
ci insegna che essa deve avere solo i pregiudizi, le abitudini, gli affetti e i
bisogni che il Legislatore autorizza. Arriva fino a dire che l’inflessibile
austerità di un uomo è la base della repubblica.
Si è visto che, nel caso in cui il male è così grande che i magistrati ordinari
non possono rimediarvi, Mably consigliava la dittatura per far fiorire la virtù.
«Fate ricorso – dice – a una magistratura straordinaria, il cui tempo sia breve
e la potenza considerevole. L’immaginazione dei cittadini ha bisogno allora
di esser colpita».[21] Questa dottrina non è andata perduta. Ascoltiamo
Robespierre:
«Il principio del governo repubblicano è la virtù, e il mezzo per stabilirlo il
terrore. Nel nostro paese noi vogliamo sostituire la moralità all’egoismo, la
probità all’onore, i principi agli usi, i doveri alle buone maniere, l’impero
della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezzo della
sventura, la fierezza all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore
della gloria all’amore del denaro, le brave persone alla buona compagnia, il
merito all’intrigo, il genio al bello spirito, la verità al fulgore, il fascino della
felicità alle noie della voluttà, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei
grandi, un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo amabile, frivolo,
miserabile. Cioè vogliamo sostituire tutte le virtù e tutti i miracoli della
Repubblica a tutti i vizi e a tutto il ridicolo della monarchia».[22]
A quale altezza sopra la restante umanità si colloca Robespierre! E notate la
situazione nella quale parla. Non si limita a formulare il voto di un grande
rinnovamento del cuore umano; non attende nemmeno quello che verrà da un
governo regolare. No, vuole operare: egli stesso e con il terrore. Il discorso,
da cui è estratto questo puerile e laborioso ammasso di antitesi, aveva per
oggetto di esporre i principi di morale che devono dirigere un governo
rivoluzionario. Notate che, quando Robespierre domanda la dittatura, non è
solo per respingere lo straniero e per combattere le fazioni; è proprio per far
prevalere con il terrore, e prima del gioco della Costituzione, i suoi principi di
morale. La sua pretesa è niente di meno che estirpare dal paese, con il terrore,
l’egoismo, l’onore, gli usi, le buone maniere, la moda, la vanità, l’amore del
denaro, la buona compagnia, l’intrigo, il bello spirito, la voluttà e la miseria.
Solamente dopo che lui, Robespierre, avrà compiuto questi miracoli – come
li chiama a ragione –, egli permetterà alle leggi di riprendere il loro impero. E
voi! Miserabili che vi credete così grandi, che giudicate l’umanità così
piccola, che volete riformare tutto, riformate voi stessi da voi stessi, questo
compito vi basta.
Tuttavia, in generale, i signori Riformatori, Legislatori e Saggisti non
domandano di esercitare sull’umanità un dispotismo immediato. No, sono
troppo moderati e troppo filantropi per questo. Non reclamano che il
dispotismo, l’assolutismo, l’onnipotenza della Legge. E aspirano solamente a
fare la Legge.
Per mostrare come questa disposizione strana degli spiriti sia stata universale,
in Francia, come mi sarebbe stato necessario copiare tutto Mably, tutto
Raynal, tutto Rousseau, tutto Fénelon e lunghi passi di Bossuet e
Montesquieu, così mi occorrerebbe anche riprodurre per intero i verbali delle
sedute della Convenzione. Lo evito e vi rinvio il lettore.
È evidente che quest’idea dovesse sorridere a Bonaparte.[23] Egli l’abbracciò
con ardore e la mise energicamente in pratica. Considerandosi un chimico,
nell’Europa non vide che materia per esperimenti. Ma presto questa materia
si manifestò come un potente reagente. Per tre quarti disilluso, Bonaparte a
Sant’Elena parve riconoscere che vi è qualche iniziativa nei popoli e si
mostrò meno ostile alla libertà. Ciò non gli impedì tuttavia di lasciare nel
testamento questa lezione al figlio: «Governare è diffondere la moralità,
l’istruzione e il benessere».
È ora necessario mostrare con fastidiose citazioni da dove partono Morelly,
[24] Babeuf,[25] Owen,[26] Saint-Simon,[27] Fourier?[28] Mi limiterò a
sottoporre al lettore alcuni estratti dal libro di Louis Blanc[29]
sull’organizzazione del lavoro.
«Nel nostro progetto la società riceve impulso dal potere».[30]
In che cosa consiste l’impulso che il Potere dà alla società? Nell’imporre il
progetto del signor Blanc.
D’altra parte, la società è il genere umano. In definitiva, dunque, il genere
umano riceve impulso da Blanc. Libero di farlo, si dirà. Senza dubbio il
genere umano è libero di seguire i consigli di chicchessia. Ma Blanc non
intende così la cosa. Egli vuole che il suo progetto sia convertito in Legge e,
di conseguenza, imposto di forza dal potere.
«Nel nostro progetto lo Stato non fa che dare al lavoro una legislazione
(scusate se è poco) in virtù della quale il movimento industriale può e deve
compiersi in tutta libertà. Esso (lo Stato) non fa che porre la libertà su un
piano inclinato (niente di meno) che essa scende, una volta che vi è posta, con
la sola forza delle cose e come naturale conseguenza del meccanismo
stabilito».[31]
Qual è questo piano inclinato? – Quello indicata da Blanc. – Non conduce
all’abisso? – No, conduce alla felicità. – Perché allora la società non ci si
mette per conto proprio? – Perché non sa né cosa vuole né che abbia bisogno
di un impulso. – Chi le darà questo impulso? – Il potere. – E chi darà impulso
al potere? – L’inventore del meccanismo, il signor Blanc.
Non usciamo mai dal cerchio di un’umanità passiva e un grand’uomo che la
muove grazie alla Legge.
Una volta su questa discesa, la società godrà almeno di qualche libertà? –
Senza dubbio – E cos’è la libertà?
«Diciamolo in modo definitivo: la libertà consiste non solamente nel
DIRITTO accordato, ma nel POTERE dato all’uomo di esercitare, di
sviluppare le sue facoltà, sotto l’impero della giustizia e sotto la protezione
della legge».
«E non è questa una distinzione vana: il senso è profondo, le conseguenze
immense. Poiché se si ammette che l’uomo ha bisogno, per essere veramente
libero, del Potere di esercitare e sviluppare le sue facoltà, ne risulta che la
società deve a ciascuno dei suoi membri l’istruzione necessaria, senza la
quale lo spirito umano non può dispiegarsi, e gli strumenti di lavoro senza i
quali l’attività umana non può avere libero corso. Ora, con l’intervento di chi
la società darà a ciascuno dei suoi membri l’istruzione conveniente e gli
strumenti di lavoro necessari, se non per l’intervento dello Stato?».[32]
Così la libertà è il potere. – In che cosa consiste questo Potere? – Nel
possedere l’istruzione e gli strumenti di lavoro. – Chi darà l’istruzione e gli
strumenti di lavoro? – La società. – Con l’intervento di chi la società darà
strumenti di lavoro a coloro che non ne hanno? – Con l’intervento dello
Stato. – A chi li prenderà lo Stato?
Sta al lettore dare la risposta e vedere dove conduce tutto questo.
Uno dei fenomeni più strani del nostro tempo, e che stupirà probabilmente
molti nostri nipoti, è che la dottrina che si fonda su questa triplice ipotesi: I)
inerzia radicale dell’umanità, II) onnipotenza della Legge, III) infallibilità del
Legislatore; sia il credo sacro del partito che si proclama esclusivamente
democratico.
È vero che esso si dice anche sociale.
Come democratico, ha una fede senza limiti nell’umanità.
Come sociale, la mette nel fango.
Si tratta di diritti politici? Si tratta di far uscire dal suo seno il Legislatore?
Allora, secondo quel partito, il popolo ha la scienza infusa; è dotato di una
sensibilità ammirevole; la sua volontà è sempre retta, la volontà generale
non può sbagliare. Il suffragio non potrebbe essere troppo universale.
Nessuno deve alla società alcuna garanzia. La volontà e la capacità di sceglier
bene sono sempre presupposte. Può sbagliarsi il popolo? Non siamo noi nel
secolo dei lumi? E allora! Il popolo sarà eternamente sotto tutela? Non ha
conquistato i suoi diritti con abbastanza sforzi e sacrifici? Non ha fornito
abbastanza prove della sua intelligenza e della sua saggezza? Non è arrivato
alla sua maturità? Non è in condizione di giudicare per se stesso? Non
conosce i suoi interessi? Ci sono un uomo o una classe che osino rivendicare
il diritto di sostituirsi al popolo, di decidere e di agire per lui? No, no, il
popolo vuole essere libero, e lo sarà. Vuole dirigere i propri affari e li
dirigerà.
Ma quando il Legislatore è liberato dalle pastoie del voto grazie alla sua
elezione, oh sì! – allora il linguaggio cambia. La nazione rientra nella
passività, nell’inerzia, nel nulla, mentre il Legislatore prende possesso
dell’onnipotenza. A lui sia affidata l’invenzione, a lui la direzione, a lui
l’impulso, a lui l’organizzazione. L’umanità deve accettare supinamente;
l’ora del dispotismo è suonata. E notate come ciò sia fatale; poiché questo
popolo, prima così illuminato, così morale, così perfetto, non ha più alcuna
inclinazione, o, se ne ha, tutte lo trascinano verso la degradazione. E gli si
lascerà almeno un po’ di Libertà? Non sapete che, secondo Considerant,[33]
la libertà conduce fatalmente al monopolio? Non sapete che la libertà è
concorrenza? E che la concorrenza, secondo Blanc, è per il popolo un sistema
di sterminio, per la borghesia una causa di rovina? Quanto vale di fronte a
questo che i popoli siano tanto più sterminati e rovinati quanto più sono
liberi, testimoni la Svizzera, l’Olanda, l’Inghilterra e gli Stati Uniti? Non
sapete che, sempre secondo Blanc, la concorrenza conduce al monopolio, e
che, per la stessa ragione, le merci a buon mercato conducono
all’esagerazione dei prezzi? Che la concorrenza tende a esaurire le fonti del
consumo e spinge la produzione ad accrescersi e il consumo a diminuire; da
cui segue che i popoli liberi producono per non consumare; che essa è
contemporaneamente oppressione e demenza, e che occorre assolutamente
che Blanc se ne occupi?
Quale libertà, d’altronde, si potrebbe lasciare agli uomini? Forse la libertà di
coscienza? Si vedrebbero tutti approfittare del permesso per farsi atei. La
libertà d’insegnamento? I padri si affretterebbero a pagare professori per
insegnare ai loro figli l’immoralità e l’errore; d’altronde, a credere a Thiers,
[34] se l’insegnamento fosse lasciato alla libertà della nazione cesserebbe di
essere nazionale ed educheremmo i nostri figli nelle idee dei Turchi o degli
Indù, mentre, grazie al dispotismo legale dell’università, essi hanno la fortuna
di essere educati nelle nobili idee dei Romani. La libertà del lavoro? La
concorrenza avrebbe per effetto di lasciare tutti i prodotti non consumati, di
sterminare i popoli e di rovinare la borghesia. La libertà di scambio? Ben si
sa, i protezionisti l’hanno dimostrato a sazietà, un uomo si rovina quando
scambia liberamente, mentre per arricchire occorre scambiare senza libertà.
La libertà d’associazione? Secondo la dottrina socialista, libertà e
associazione si escludono poiché precisamente non si aspira a togliere agli
uomini la libertà che per forzarli ad associarsi.
Vedete dunque bene che i democratici-socialisti non possono, in buona
coscienza, lasciare agli uomini alcuna libertà, poiché, per propria natura e se
questi signori non vi mettono ordine, gli uomini tendono a tutti i generi di
degrado e di perdita di moralità.
Resta da indovinare, in questo caso, su quale fondamento si reclami per loro,
con tanta insistenza, il suffragio universale.
Le pretese degli organizzatori sollevano un’altra domanda che ho spesso
rivolto loro e alla quale, mi sembra, non hanno mai risposto. Poiché le
tendenze naturali dell’umanità sono abbastanza cattive perché debba esserle
tolta la sua libertà, com’è che le tendenze degli organizzatori siano buone? I
Legislatori e i loro agenti non fanno parte del genere umano? Si credono di
un’altra pasta rispetto al resto degli uomini? Dicono che la società,
abbandonata a se stessa, corra fatalmente verso l’abisso perché i suoi istinti
sono perversi. Pretendono di fermarla su questa china e d’imprimerle una
direzione migliore. Hanno dunque ricevuto dal cielo un’intelligenza e delle
virtù che li pongono al di fuori e sopra dell’umanità; se è così, che mostrino i
loro titoli. Vogliono essere pastori e vogliono che noi siamo gregge.
Quest’accomodamento presuppone in loro una superiorità di natura di cui
abbiamo ben il diritto di chiedere una prova preliminare.
Notate che ciò che contesto non è il diritto di inventare ingegnerie sociali, di
propagarle, di consigliarle, di sperimentarle su se stessi a loro spese e loro
rischio; ma contesto il diritto di imporle con il mezzo della Legge, cioè della
forza e dei contributi pubblici.
Domando che i Cabetisti, i Fourieristi, i Proudhoniani, gli Universitari, i
Protezionisti[35] rinuncino non alle loro idee speciali, ma a questa idea che è
loro comune di assoggettarci a forza ai loro gruppi e serie, ai loro opifici
sociali, alla loro banca gratuita, alla loro moralità greco-romana, ai loro
vincoli commerciali. Ciò che domando loro è di lasciarci la facoltà di
giudicare i loro piani e di non associarci a quelli, direttamente o
indirettamente, se credessimo che siano contro i nostri interessi o che
ripugnino alla nostra coscienza.
Poiché la pretesa di far intervenire il potere e l’imposta, oltre che oppressiva e
causa di spoliazione, implica sempre un’ipotesi pregiudiziale: l’infallibilità
dell’organizzatore e l’incompetenza dell’umanità.
Ma se l’umanità è incompetente a giudicare per se stessa, perché ci vengono a
parlare di suffragio universale?
Questa contraddizione nelle idee si è sfortunatamente riprodotta nei fatti.
Mentre il popolo francese ha superato tutti gli altri nella conquista dei suoi
diritti, o piuttosto delle sue garanzie politiche, ciò non di meno è rimasto il
più governato, diretto, amministrato, tassato, vincolato e sfruttato di tutti i
popoli.
È anche quello tra tutti in cui le rivoluzioni sono più vicine; e ciò accadrà.
Nel momento in cui si parte da questa idea, ammessa da tutti i nostri saggisti
e così energicamente espressa da Blanc con le parole: «La società riceve
impulso dal potere»; nel momento in cui gli uomini considerano essi stessi
come esseri sensibili ma passivi, incapaci di elevarsi con il proprio
discernimento e con la propria energia ad alcuna moralità, ad alcun
benessere, e ridotti ad attendere tutto dalla Legge; in una parola, quando essi
ammettono che i loro rapporti con lo Stato sono quelli del gregge con il
pastore, è chiaro che la responsabilità del potere è immensa. I beni e i mali, le
virtù e i vizi, l’eguaglianza e la diseguaglianza, l’opulenza e la miseria, tutto
deriva da quello. Di tutto è incaricato, tutto intraprende, tutto fa; di
conseguenza risponde di tutto. Se siamo felici, reclama a buon diritto la
nostra riconoscenza; ma se siamo miserabili, non ce la possiamo prendere che
con lui. Non dispone, per principio, delle nostre persone e dei nostri beni? La
Legge non è onnipotente? Creando il monopolio universitario, il potere si è
vantato di rispondere alle speranze dei padri di famiglia privati di libertà; e se
queste speranze sono deluse, di chi è la colpa? Regolando l’industria, il
potere si è vantato di farla prosperare, altrimenti sarebbe stato assurdo
toglierle la libertà; e se essa soffre, di chi è la colpa? Immischiandosi con il
gioco delle tariffe per equilibrare la bilancia commerciale, si è vantato di farla
fiorire; e se, lungi dal fiorire, muore, di chi è la colpa? Accordando agli
armamenti marittimi la propria protezione in cambio della loro libertà, si è
vantato di renderli lucrativi; e se sono in passivo, di chi è la colpa?
Così non vi è un dolore nella nazione di cui il governo non si sia
volontariamente reso responsabile. Bisogna stupirsi che ogni sofferenza sia
una causa potenziale di rivoluzione?
E qual è il rimedio che si propone? Allargare indefinitamente il campo della
Legge, cioè la Responsabilità del governo.
Ma se il governo s’incarica di elevare e regolare i salari anche quando non
può farlo; se s’incarica di dare assistenza a tutte le disgrazie e non può farlo;
se s’incarica di assicurare la pensione a tutti i lavoratori e non può farlo; se
s’incarica di fornire a tutti gli operai gli strumenti di lavoro e non può farlo;
se s’incarica di aprire a tutti gli affamati di prestiti un credito gratuito e non
può farlo; se, secondo le parole che abbiamo visto con rimpianto sfuggire alla
penna del signor de Lamartine,[36] «lo Stato si dà la missione di illuminare,
di sviluppare, di ingrandire, di fortificare, di spiritualizzare, e di santificare
l’anima dei popoli», e fallisce; non si vede che al fondo di ogni delusione –
ahimè! più che probabile – vi è una non meno inevitabile rivoluzione?
Riprendo la mia tesi e dico che, immediatamente dopo la scienza economica
e all’inizio della scienza politica,[37] si presenta una questione principale,
questa:
Cos’è la Legge? Che cosa deve essere? Qual è il suo campo? Quali sono i
suoi limiti? Dove si arrestano, di conseguenza, le attribuzioni del Legislatore?
Non esito a rispondere: La Legge è la forza comune organizzata per fare una
barriera contro l’Ingiustizia – e per abbreviare, LA LEGGE È LA
GIUSTIZIA.
Non è vero che il Legislatore abbia sulle nostre persone e sulle nostre
proprietà una potenza assoluta, poiché esse preesistono e la sua opera è
circondarle di garanzie.
Non è vero che la Legge abbia per missione di reggere le nostre coscienze, le
nostre idee, le nostre volontà, la nostra istruzione, i nostri sentimenti, i nostri
lavori, i nostri scambi, i nostri doni, i nostri piaceri.
La sua missione è impedire che in nessuna di queste materie il diritto dell’uno
usurpi il diritto dell’altro.
La Legge, giacché ha per sanzione necessaria la Forza, non può avere come
campo legittimo che il legittimo campo della forza, cioè la Giustizia.
E siccome ogni individuo non ha il diritto di ricorrere alla forza che nel caso
di legittima difesa, la forza collettiva, che non è altro che la riunione delle
forze individuali, non potrebbe essere razionalmente applicata ad altro fine.
La Legge è perciò solo l’organizzazione del preesistente diritto individuale
alla legittima difesa.
La Legge è la Giustizia.
È così falso che essa abbia il potere di opprimere le persone o spogliare le
proprietà, anche se con uno scopo filantropico, che la sua missione è di
proteggerle.
E non si dica che può esser filantropica a condizione che si astenga da ogni
oppressione e da ogni spoliazione; è contraddittorio. La Legge non può non
agire sulle nostre persone o sui nostri beni; se non li garantisce, li viola per il
solo fatto che agisce, per il solo fatto che c’è.
La Legge è la Giustizia.
Ecco ciò che è chiaro, semplice, perfettamente definito e delimitato,
accessibile a ogni intelligenza, visibile a ogni occhio, poiché la Giustizia è
una quantità data, immutabile, inalterabile, che non ammette né più né meno.
Uscite da quella misura, fate la Legge religiosa, fraterna, egualitaria,
filantropica, industriale, letteraria, artistica, subito siete nell’infinito,
nell’incerto, nello sconosciuto, nell’utopia imposta, o, peggio, nella
moltitudine delle utopie che combattono per impadronirsi della Legge e
imporsi; poiché la fraternità o la filantropia non hanno come la giustizia dei
limiti fissi. Dove vi fermerete? Dove si fermerà la Legge? L’uno, come Saint-
Cricq,[38] non estenderà la sua filantropia che su alcune classi industriali e
domanderà alla Legge che disponga dei consumatori in favore dei produttori.
L’altro, come Considerant, prenderà per mano la causa del lavoratori e
reclamerà per loro dalla Legge un MINIMO assicurato, il vestiario,
l’alloggio, il cibo e tutte le cose necessarie al mantenimento in vita. Un terzo,
Blanc, dirà con ragione che questa è una fraternità abbozzata e che la Legge
deve dare a tutti gli strumenti di lavoro e l’istruzione. Un quarto farà
osservare che un tal accomodamento lascia ancora posto alla diseguaglianza e
che la Legge deve far penetrare nei casolari più remoti il lusso, la letteratura,
le arti. Sarete condotti così fino al comunismo, o piuttosto la legislazione
sarà... ciò che già è – il campo di battaglia di tutte le fantasticherie e di tutte le
cupidigie.
La Legge è la Giustizia.
In questo limite si pensa a un governo semplice, incrollabile. E sfido a dirmi
da dove potrebbe venire il pensiero di una rivoluzione, di un’insurrezione, di
un semplice moto, contro una forza pubblica limitata a reprimere
l’ingiustizia. Sotto un tale regime ci sarebbe più benessere, il benessere
sarebbe più egualmente ripartito e quanto alle sofferenze inseparabili
dall’umanità nessuno penserebbe ad accusarne un governo che sarebbe
estraneo alle sofferenze come alle variazioni di temperatura. Si è mai visto il
popolo insorgere contro la Corte di Cassazione o fare irruzione nel palazzo
del giudice di pace per reclamare il salario minimo, il credito gratuito, gli
strumenti di lavoro, i favori dei dazi, o l’opificio sociale? Sa bene che queste
decisioni sono fuori dalla capacità del giudice e imparerebbe allo stesso modo
che sono fuori dalla capacità della Legge.
Ma fate la Legge sul principio di fraternità, proclamate che è da essa che
derivano i beni e i mali, che essa è responsabile di ogni dolore individuale, di
ogni diseguaglianza sociale, e aprirete la porta a una serie senza fine di
lamentele, di odi, di disordini e di rivoluzioni.
La Legge è la Giustizia.
E sarebbe davvero strano che potesse – mantenendosi equa - esser altro! La
giustizia non è forse il diritto? E i diritti non sono eguali? Come potrebbe
dunque la Legge intervenire per sottomettermi ai piani sociali di Mimerel,
Melun,[39] Thiers, Louis Blanc, piuttosto che per sottomettere questi signori
ai miei piani? Credete che io non abbia ricevuto abbastanza immaginazione
dalla natura per essere capace d’inventare anche un’utopia? È il ruolo della
Legge di fare una scelta tra tante chimere e di mettere la forza pubblica al
servizio di una di esse?
La Legge è la Giustizia.
E che non si dica, come si fa senza sosta, che così concepita la Legge, atea,
individualista e senza fegato, trasformerebbe l’umanità a sua immagine. È
una deduzione assurda, ben degna di questa infatuazione governativa che
vede l’umanità nella Legge.
Che cosa? Dal fatto che saremo liberi, deriva che cesseremo di fare? Dal fatto
che non riceveremo impulso dalla Legge, deriva che saremo privi d’impulso?
Dal fatto che la Legge si limiterà a garantirci il libero esercizio delle nostre
facoltà, deriva che le nostre facoltà saranno colpite dall’inerzia? Dal fatto che
la Legge non ci imporrà forme di religione, modi di associazione, metodi di
insegnamento, procedimenti di lavoro, direzioni di scambio, piani di carità,
deriva che ci affretteremo a immergerci nell’ateismo, nell’isolamento,
nell’ignoranza, nella miseria e nell’egoismo? Ne deriva che non sapremo più
riconoscere la potenza e la bontà di Dio, associarci, aiutarci reciprocamente,
amare e soccorrere i nostri fratelli sfortunati, studiare i segreti della natura,
aspirare ai perfezionamenti del nostro essere?
La Legge è la Giustizia.
Sotto la Legge di giustizia, sotto il regime del diritto, sotto l’influenza della
libertà, della sicurezza, della stabilità, della responsabilità, ogni uomo
arriverà al suo pieno valore e alla piena dignità del suo essere, e l’umanità
compirà con ordine, con calma, lentamente senza dubbio, ma con certezza,
quel progresso che è il suo destino.
Mi sembra di avere dalla mia la teoria; poiché qualunque questione
sottopongo al ragionamento, che sia religiosa, filosofica, politica o
economica; che si tratti di benessere, di moralità, di eguaglianza, di diritto, di
giustizia, di progresso, di responsabilità, di solidarietà, di proprietà, di lavoro,
di scambio, di capitale, di salari, di imposte, di popolazione, di credito o di
governo; a qualunque punto dell’orizzonte scientifico pongo il punto di
partenza delle mie ricerche, sempre invariabilmente giungo a questa
conclusione: la soluzione del problema sociale è nella Libertà.
Ho anche l’esperienza dalla mia parte. Gettate lo sguardo sul globo. Quali
sono i popoli più felici, più morali, più pacifici? Quelli dove la Legge
interviene di meno nell’attività privata; dove il governo si fa sentire di meno;
dove l’individualità ha più energia e l’opinione pubblica più influenza; dove
le rotelle dell’ingranaggio amministrativo sono meno numerose e meno
complicate; le imposte meno pesanti e meno diseguali; i malcontenti popolari
meno eccitati e meno giustificabili; dove la responsabilità degli individui e
delle classi è più attiva e dove, di conseguenza, se i costumi non sono perfetti
tendono invincibilmente a rettificarsi; dove le transazioni, le convenzioni, le
associazioni sono meno vincolate; dove il lavoro, i capitali, la popolazione,
subiscono i minori spostamenti artificiali; dove l’umanità obbedisce di più
alla propria inclinazione; dove il pensiero di Dio prevale maggiormente sulle
invenzioni degli uomini. Quelli, in una parola, che più si avvicinano a questa
soluzione: nei limiti del diritto, tutto per mezzo della libera e perfettibile
spontaneità dell’uomo; nulla per mezzo della Legge o della forza, se non la
Giustizia universale.
Occorre dirlo: ci sono troppi grandi uomini al mondo; troppi legislatori,
organizzatori, costruttori di società, condottieri di popoli, padri di nazioni,
eccetera. Troppa gente si colloca sopra l’umanità per comandarla, troppi
fanno professione di occuparsi degli uomini.
Mi si dirà: anche voi che parlate, ve ne occupate.
È vero. Ma si accetterà che è in un senso e da un punto di vista ben diverso,
perché se mi mescolo tra i riformatori, è unicamente per far loro lasciare la
presa.
Me ne occupo non come Vaucanson[40] del suo automa, ma come un
fisiologo dell’organismo umano: per studiarlo e ammirarlo.
Me ne occupo nello spirito che animava un celebre viaggiatore.
Questi arrivò tra una tribù selvaggia. Un bimbo era appena nato e una folla
d’indovini, stregoni e medicastri lo circondava, armati di anelli, di uncini e di
catene. Uno diceva: questo bambino non annuserà mai il profumo di un
calumet se non gli allungo le narici. Un altro: sarà privo del senso dell’udito
se non gli faccio scendere le orecchie fino alle spalle. Un terzo: non vedrà la
luce del sole se non do ai suoi occhi una direzione obliqua. Un quarto: non si
terrà mai in piedi se non gli curvo le gambe. Un quinto: non penserà se non
gli comprimo il cervello. Indietro, disse il viaggiatore. Dio fa bene ciò che fa;
non pretendete di saperne più di lui, e poiché egli ha dato degli organi a
questa fragile creatura, lasciate i suoi organi svilupparsi, fortificarsi con
l’esercizio, l’andare a tentoni, l’esperienza e la Libertà.
Dio ha posto nell’umanità tutto quello che occorre affinché essa compia il
suo destino. Vi è una fisiologia provvidenziale della società come vi è una
fisiologia umana provvidenziale. Gli organi della società sono costituiti in
modo da svilupparsi armonicamente all’aria aperta della Libertà. Perciò
indietro i medicastri e gli organizzatori! Indietro i loro anelli, le loro catene, i
loro uncini, le loro tenaglie! Indietro i loro mezzi artificiali! Indietro i loro
opifici sociali, i loro falansteri, il loro interventismo governativo, la loro
centralizzazione, i loro dazi, le loro università, le loro religioni di Stato, le
loro banche gratuite o le loro banche monopolizzate, le loro compressioni, le
loro restrizioni, la loro moralizzazione o il loro eguagliamento con l’imposta!
E poiché si sono vanamente inflitti al corpo sociale tanti sistemi, che si
finisca da dove si sarebbe dovuto cominciare, che si respingano i sistemi, che
si metta infine alla prova la Libertà – quella Libertà che è un atto di fede in
Dio e nella sua opera.
Date

1776: Adam Smith scrive la Ricchezza delle nazioni.

1803: Jean-Baptiste Say pubblica il Trattato d’economia politica .

1814: si aprono i lavori del Congresso di Vienna, che si chiuderanno l’anno


successivo e daranno l’avvio alla cosiddetta età della Restaurazione.

1830: giunge al trono Luigi Filippo, con il titolo di “Re dei francesi” e non
più di “Re di Francia” come i suoi predecessori.

1838: a Manchester su iniziativa di Richard Cobden viene costituita la Anti-


CornLaw League .

1840: Pierre-Joseph Proudhon pubblica Cos’è la proprietà?

1844: escono due volumi che raccolgono le principali opere di Turgot.

1846: Frédéric Bastiat e alcuni altri economisti liberali creano l’Association


du libre échange .

1848: a seguito dei moti rivoluzionari finisce il regno di Luigi Filippo e nasce
la Seconda Repubblica francese.

1848: Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il Manifesto del partito


comunista .

1848: John Stuart Mill pubblica i Principi di economia politica .


1851: dopo essere stato eletto Presidente della Seconda Repubblica francese,
Luigi Napoleone Bonaparte (poi, Napoleone III) assume poteri dittatoriali.

1856: esce il capolavoro di Alexis de Tocqueville sulla Francia


prerivoluzionaria, L’Ancien Régime et la Révolution .

1860: tra Francia e Regno Unito viene istituito il trattato di libero commercio
Cobden-Chevaller.

1871: a Vienna Carl Menger pubblica i Principi fondamentali di economia


politica, dando un contributo fondamentale alla rivoluzione marginalista.

1897: Vilfredo Pareto finisce il proprio Corso d’economia politica .

1912: muore Gustave de Molinari, a lungo direttore del Journal de


économistes ed erede spirituale di Bastiat.

1950: dopo che già nel diciannovesimo erano uscite in inglese varie
traduzioni di Bastiat, la Foundation for Economic Education pubblica The
Law (La legge), che diverrà un punto di riferimento fondamentale per tutta
l’area culturale conservatrice e libertaria americana.
Vita e opere

Nato il 29 giugno 1801 a Bayonne, nella Francia sud-occidentale, e morto a


Roma il 24 dicembre 1850, Frédéric Bastiat è uno tra i protagonisti di
quell’importante scuola di economisti liberali francesi a cui appartengono tra
gli altri anche Turgot, Jean-Baptiste Say e Charles Dunoyer.
Giudice di pace nel proprio cantone e assiduo frequentatore di un circolo di
studi economici, Bastiat trascorre la maggior parte della propria esistenza
lontano dai dibattiti della capitale e dall’intelligentsia alla moda. Inizia la
propria militanza a favore della libertà quando scopre l’esistenza delle
battaglie libero-scambiste condotte da Richard Cobden, da John Bright e
dalla “Anti-Corns Law League”. Dà avvio in tal modo a un apostolato
militante che non durerà più di sei anni, che si concretizzerà anche con la
costituzione, in Francia, di una “Associazione per il libero scambio” e che
sarà interrotto dalla morte.
Con brillanti articoli e ponderosi volumi (da Cobden et la ligue a Les
Harmonies économiques, dai Sophismes économiques ai Petits pamphlets),
Bastiat si batte contro i socialisti, favorevoli a una crescente
collettivizzazione dell’economia, e allo stesso tempo contro il nazionalismo
protezionista di chi rigetta il laissez-faire .
Eletto deputato nel 1848, quando la cacciata di Luigi Filippo porta
all’avvento della Seconda Repubblica, in quanto liberale siede nei banchi di
sinistra e al tempo stesso avvia una serie di contraddittori con gli esponenti
del socialismo francese del tempo. Memorabile rimane un suo duro confronto
con Pierre-Joseph Proudhon, avverso al prestito a interesse e fautore di un
interesse nullo. Brillante polemista, scrive articoli ancora oggi molto godibili:
uno dei più noti è l’umoristica petizione dei produttori francesi di candele,
esasperati dalla concorrenza “straniera” del sole, la cui colpa sarebbe di
impedire a tale industria di svilupparsi pienamente.
Un tratto che caratterizza questo autore è il ripudio di ogni utilitarismo. Ai
suoi occhi gli individui hanno diritti naturali assoluti che non devono essere
violati, perché preesistenti a ogni ordinamento positivo. Ne discende che il
nemico è uno solo: l’invadenza statale nella vita economica e sociale. I poteri
pubblici, in effetti, sovvertono l’ordine armonico che emerge spontaneamente
dove la proprietà è correttamente definita ed efficacemente tutelata. Di
conseguenza, lo Stato che vuole imporre la fraternità prosciuga la fonte stessa
della moralità personale e calpesta i diritti, introducendo la costrizione là
dove è indispensabile che vi sia la generosità, la liberalità, la volontaria
ricerca di ciò che è buono e salutare per chi è meno fortunato.
Per giunta, Bastiat rigettò sempre e con forza ogni centralizzazione dei poteri.
In materia fiscale, era favorevole a un sistema tributario basato sulle
comunità locali, convinto che «una contribuzione unica, proporzionale alla
proprietà realizzata, prelevata in famiglia e senza spese all’interno dei
consigli comunali, può bastare».
Benché celeberrimo in vita e anche oggetto di strali polemici da parte di Karl
Marx, per vari decenni del pensiero di Bastiat si sono quasi perse le tracce.
Nel corso del dopoguerra è stato però “reimportato” in Europa a seguito del
successo conosciuto negli Stati Uniti. Oltre Atlantico, in effetti, la versione in
lingua inglese di La loi è stata pubblicata in molte centinaia di migliaia di
esemplari. E oggi l’economista di Bayonne è a giusto titolo nel Pantheon dei
classici del liberalismo.
Bibliografia

Frédéric Bastiat, Armonie economiche, con una premessa di Agostino


Canonica e una introduzione di Francesco Ferrara, Torino, Utet, 1947.

Frédéric Bastiat - Gustave de Molinari, Contro lo statalismo, a cura di Carlo


Lottieri, Macerata, Librilibri, 1993 (questa edizione include: “Proprietà e
legge” e “Giustizia e fraternità”).

Frédéric Bastiat, Il potere delle illusioni, a cura di Antonio Falato, Napoli,


Guida, 1998 (questa edizione include: “Lo Stato” e “Ciò che si vede e ciò che
non si vede”).

Frédéric Bastiat, Il mercato e la Provvidenza. Pensieri liberali, introduzione


di Massimo Baldini, Roma, Armando Editore, 2002.

Frédéric Bastiat, Ciò che si vede e ciò che non si vede, e altri scritti, a cura di
Nicola Iannello, prefazione di Gérard Bramoullé, Soveria Mannelli-Treviglio,
Rubbettino-Leonardo Facco, 2005 (questa edizione include: “Ciò che si vede
e ciò che non si vede”, “Proprietà e legge”, “Giustizia e fraternità”, “La
legge”, “Lo Stato”, “Spoliazione e legge”, “Guerra alle cattedre di Economia
politica”, “Capitale e rendita”, “Maledetto denaro”).

In traduzione inglese

Frédéric Bastiat, The Bastiat Collection, 2 tomi, Auburn AL, The Ludwig
von Mises Institute, 2002: volume I (“That Is Which Seen, and That Which Is
Not Seen”, “The Law”, “Government”, “What Is Money?”, “Capital and
Interest”, “Economic Sophisms”) e volume II (“Harmonies of Political
Economy”).
Su Frédéric Bastiat

George Charles Roche III, Frederic Bastiat: A Man Alone, New Rochelle
NY, Arlington House, 1971.

Robert Leroux, Frédéric Bastiat. L'uomo e le idee. Società, economia e


politica, edizione italiana a cura di Diego Forestieri, Roma, Nuova Cultura,
2013.
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[1] Nel pamphlet del 1850 Spoliation et Loi, pubblicato nel volume V delle Oeuvres
Complètes Guillaumin [NdT].
[2] Consiglio generale delle manifatture, dell’agricoltura e del commercio (seduta del 6
maggio 1850).
[3] Pierre Auguste Remi Mimerel de Roubaix (1786-1871), industriale tessile a capo del
Comitato di difesa del lavoro nazionale che pubblicava il Moniteur Industriel. Deputato nel
1849, fu nominato senatore nel 1852 da Napoleone III [NdT].
[4] Charles Forbes conte di Montalembert (1810-1870), uomo politico francese, tra i
fondatori nel 1830 di l’Avenir che diede vita al cattolicesimo liberale. Membro della
Camera dei Pari, nel 1835 costituì un gruppo di deputati cattolici per la libertà di
insegnamento. Creò un Comitato per la difesa della libertà religiosa che nel 1846 fece
eleggere 140 deputati. Nel dicembre 1848 appoggiò l’elezione di Luigi Bonaparte alla
presidenza della Repubblica. Accademico di Francia dal 1851 [NdT].
[5] Pierre Carlier (1799-1858), uomo politico e funzionario dello Stato francese, a lungo
capo della polizia di Parigi, fu nominato Prefetto di polizia nel 1849 [NdT].
[6] Pierre Charles François Dupin (1784-1873), ingegnere navale, matematico, economista
e uomo politico francese [NdT].
[7] Se la protezione non fosse accordata, in Francia, che a una sola classe, per esempio, ai
padroni di ferriere, essa sarebbe così assurdamente spogliatrice che non potrebbe
mantenersi. Così vediamo tutte le industrie protette collegarsi, fare causa comune e anche
arruolarsi in modo da sembrare abbracciare l’insieme del lavoro nazionale. Esse sentono
istintivamente che la Spoliazione si dissimula generalizzandosi.
[8] Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), predicatore e panegirista, scrittore, teologo e
Vescovo cattolico, istitutore del Gran Delfino Luigi (1670-1680). La citazione proviene da
Discours sur l’Histoire Universelle (1681), III, cap. 3 e 5. (Ouvres complètes de Bussuet,
Paris, Louis Vivés Editeur, 1864, Vol. XXIV, pp. 579-80, 603 e 606 rispettivamente)
[NdT].
[9] François de Salignac de la Mothe-Fénelon (1671-1715). Vescovo cattolico, scrittore e
teologo, precettore del duca di Borgogna (1682-1712) figlio del Gran Delfino, fu infine
contrastato dal Bossuet che ne provocò l’allontanamento da corte. La citazione proviene da
Aventures de Télémaque, libro II e V (1699). (A. d. T., Paris, Lefèvre, 1824, Tome I, pp. 35,
38 e 129 rispettivamente) [NdT].
[10] Olivier de Serres (1539-1619), agronomo francese [NdT].
[11] Charles Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755),
magistrato e scrittore politico francese tra i massimi del suo tempo. Le citazioni
provengono da L’Esprit des Lois, lib. V, cap. V e VI (Oeuvres de Montsquieu, contenant
L’E. d. L., Paris, A. Bekin, 1817, pp. 39, 38, 29, 39 e 30 rispettivamente) [NdT].
[12] William Penn (1644-1718), fondatore della colonia di Pennsylvania, e scrittore
politico [NdT].
[13] Jean-Jacques Rousseau (1712-1788), musicista, scrittore, filosofo politico tra i
massimi del suo tempo. Le citazioni provengono da Du Contrat social ou principes du
droit politique, lib. II capp. VII e XI (Oeuvres complètes de J. J. R., Vol. V, Paris, Armand-
Aubrée, 1832, pp. 59, 71, 71-72 e 59-60 rispettivamente) [NdT].
[14] Guillaume-Thomas-François Raynal (1713-1796), sacerdote francese, lasciò poi
l’abito; la sua opera più famosa è la Storia filosofica e politica degli insediamenti e del
commercio degli Europei nelle due Indie, del 1770 e 1880, cui collaborò anche Diderot. Le
citazioni provengono appunto da Histoire philosophique et politique des établissements et
du commerce des europèens dans les deux Indes, Geneve, Jean-Leonard Pellet, 1780, vol.
IV p. 368 e vol. IX p. 232 [NdT].
[15] Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), politico e filosofo francese. La citazione
proviene da Des droits et des devoirs du citoyen, Paris, 1789, p. 353 [NdT].
[16] Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), economista, politico, enciclopedista e
filosofo politico, fratello minore di Mably. Le citazioni provengono da Etude de l’histoire
et logique (Oeuvres complètes de Condillac, XV, E. de l’H. et de L., Paris, Leconte et
Durey/Tourneux, 1822, pp. 24, 26, 28 e 29 rispettivamente) [NdT].
[17] Louis-Antoine Saint-Just (1767-1794), uomo politico francese, deputato giacobino
alla Convenzione nel 1792, con un celebre discorso chiese la condanna a morte di Luigi
XVI. Membro del Comitato di salute pubblica fu apologeta del Terrore. Coinvolto nel
crollo del potere di Robespierre, fu ghigliottinato. Cita il Discours sur la constitution à
donner à la France del 24 aprile 1793 (Oeuvres complètes, I, Paris, Charpentier et
Fasquelle, 1908, p. 422) [NdT].
[18] Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre (1758-1794), avvocato e politico
protagonista della Rivoluzione Francese. La citazione proviene dal Rapport sur les
principes du gouvernement révolutionnaire del 25 dicembre 1793 (Oeuvres de M. R., III,
Paris, 1840, p. 512) [NdT].
[19] Jean-Nicolas Billaud-Varenne (1756-1819), uomo politico francese, durante la
Rivoluzione fu seguace di Jacques René Hébert nel Comitato di salute pubblica,
sopravvisse al Terrore e morì in esilio a Haiti. La citazione proviene da un rapporto alia
Convenzione del 20 aprile 1794 (Convention Nationale, Rapport fait à la C. N. au du
comité de salut public le 1 Floréal an II, (senza altre indicazioni) p. 6) [NdT].
[20] Louis-Michel de Saint-Fargeon Lepelletier (1760-1793), uomo politico francese, votò
per la morte di Luigi XVI e fu ucciso da un monarchico la vigilia dell’esecuzione del re. La
citazione è del Plan d’éducation nationale de M. L. (Choix de rapports, opinions et
discours prononcés à la Tribune Nationale, Tome XIII, 1793, Paris, Alexis Eymery, 1820,
p. 317) [NdT].
[21] Vedi la nota 18 [NdT].
[22] Maximilien Robespierre, Rapport sur les principes de moral politique qui doivent
guider la convention Nationale dans l’administration intérieure de la République, 17
pluviôse 1794, Paris, Imprimerie Nationale, 1794, p. 7. Il primo periodo è citato “a
memoria” e imprecisamente [NdT].
[23] Bastiat parla qui di Napoleone Bonaparte (1769-1821). Nato sotto il Consolato nel
1801, Bastiat morì nel 1850 all’inizio dell’ascesa del nipote del Corso, Luigi Napoleone
Bonaparte (1808-1873), figlio di un fratello di Napoleone I, Luigi, re d’Olanda dal 1806 al
1810 [NdT].
[24] Morelly è uno scrittore francese del XVIII secolo della cui vita non si sa nulla, ma
sotto il cui nome apparvero opere divenute famose, come il Codice della natura, del 1755,
attribuito erroneamente anche a Diderot, che disegna una società egualitaria senza proprietà
privata. Il comunismo di Morelly influenzò gli altri utopisti del secolo [NdT].
[25] François Noël “Gracco” Babeuf (1760-1797), dopo aver lavorato al servizio di
aristocratici sposò posizioni egualitarie e comunistiche. Alla caduta di Robespierre fondò il
giornale Il tribuno del popolo. Incarcerato, conobbe il rivoluzionario italiano Filippo
Buonarroti col quale organizzò la “congiura degli eguali”. Processato e condannato a
morte, si uccise in carcere [NdT].
[26] Robert Owen (1771-1858), inglese, socialista utopista, imprenditore e sindacalista
[NdT].
[27] Claude-Henry de Rouvroy conte Saint Simon (1760-1825), fu filosofo politico e
fondatore del socialismo francese [NdT].
[28] François Marie Charles Fourier (1772-1837), fu filosofo politico, socialista utopista e
ispiratore di una sua versione comunitaria [NdT].
[29] Louis Jean Joseph Charles Blanc (1811-1882), storico, politico, economista e
socialista repubblicano [NdT].
[30] L. B., Organisation du travail, Paris, Cauville Frères, 4a ed., 1845, p. 126 [NdT].
[31] L. B., Organisation du travail, p. 125 [NdT].
[32] L. B., Organisation du travail, p. XXIV [NdT].
[33] Victor Prosper Considerant (1808-1893), fu scrittore, economista e filosofo socialista
utopista [NdT].
[34] Adolphe Thiers (1797-1877), storico e politico francese, partito da posizioni radicali,
passò con il tempo a idee più moderate e liberali in campo repubblicano [NdT].
[35] Elenco di ingegneri sociali dell’epoca: seguaci di Etienne Cabet (1788-1856), di
Fourier, di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1856), i sostenitori del protezionismo, ecc.
[NdT].
[36] Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790-1869), poeta, scrittore,
drammaturgo e uomo politico repubblicano francese [NdT].
[37] L’economia politica precede la politica; quella dice se gli interessi umani sono
naturalmente armonici o antagonistici; cosa che questa dovrebbe sapere prima di fissare le
attribuzioni del governo.
[38] Pierre-Laurent Barthélmy conte di Saint-Cricq, uomo politico francese, ministro del
Commercio tra il 1828 e il 1929, fu nominato senatore da Napoleone III [NdT].
[39] Armand de Melun (1807-1877), filantropo francese, a capo della Società di San
Vincenzo de’ Paoli [NdT].
[40] Jacques de Vaucanson (1709-1782), meccanico e inventore francese, guadagnò
reputazione in Europa con i suoi automi che riproducevano nei minimi particolari gli
organi e i movimenti degli esseri viventi [NdT].

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