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La nave di Teseo
Titolo originale: The Puttermesser Papers
© Cynthia Ozick, 1997
First published in the United States of America in 1997 by Alfred A.
Knopf, Inc.
© 2017 La nave di Teseo, Milano
ISBN 978-88-9344-201-5
Prima edizione digitale marzo 2017
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A Elaine, Esther, Francine, Gloria,
Helen, Johanna, Lore, Merrill,
Norma, Sarah, Susan, Susanne
Sommario
Puttermesser e Santippe
1. La breve vita amorosa di Puttermesser, le sue preoccupazioni, i suoi titoli
2. La caduta di Puttermesser e la storia del genere golem
3. Il golem cucina, pulisce e fa la spesa
4. Santippe all’opera
5. Perché il golem fu creato. Il fine di Puttermesser
6. Puttermesser sindaco
7. Il ritorno di Rappoport
8. Santippe malata d’amore
9. Il golem distrugge il suo creatore
10. Il golem preso al laccio
11. Il golem smantellato e le chiacchiere di Rappoport
12. All’ombra delle aiuole
Puttermesser in coppia
1. L’età del divorzio
2. I lettori notturni
3. L’indicibile gioia
4. La terribile discrepanza
5. La luna di miele
6. Il matrimonio
Puttermesser e la cugina moscovita
1. Un po’ di storia
2. Una barzelletta da Mosca
3. Una marziana sovietica
4. La grande esposizione
5. Ancora un po’ di storia
6. Colloqui
7. Un altro colloquio
8. Imprenditori
9. Gli idealisti
10. Il tè
11. L’addio
12. Lettere
Puttermesser in Paradiso
A differenza di Balzac, Flaubert non
costruisce i propri personaggi attraverso
descrizioni oggettive, esteriori; al
contrario, è così poco interessato al
loro aspetto fisico che in un’occasione
attribuisce a Emma occhi marroni; in
un’altra profondi occhi neri; e in un’altra
ancora occhi azzurri.
Commento della dott.ssa Enid Starkie,
citata (con disapprovazione)
da Julian Barnes
nel Pappagallo di Flaubert.
LE CARTE DELLA SIGNORINA PUTTERMESSER
Puttermesser e Santippe
Puttermesser in coppia
Puttermesser in Paradiso
Puttermesser: la vita professionale,
il lignaggio, la vita dopo la morte
Puttermesser aveva trentaquattro anni, avvocato. Era una specie di
femminista, non eccessiva, ma le dava fastidio che mettessero “Miss”
davanti al suo nome. Lo riteneva marcatamente discriminatorio: voleva
essere un avvocato fra gli avvocati. Sebbene non fosse vergine viveva da
sola, ma in modo stravagante: nel Bronx, sul Grand Concourse, fra
genitori altrui vecchi e in declino. I suoi si erano trasferiti a Miami Beach.
Con ai piedi un paio di pantofole di pelo che risalivano ai tempi del liceo,
Puttermesser vagava per l’appartamento infinitamente labirintico in cui
era cresciuta: le partiture invecchiate, ancora in cima al pianoforte
verticale, recavano le “X” poste dall’insegnante a indicare il punto fino a
cui l’allieva doveva arrivare. Puttermesser si era sempre spinta un po’
oltre il compito assegnatole, anche a scuola. Gli insegnanti ai tempi
dicevano alla madre che la figlia era “fortemente motivata”, “orientata al
risultato”. E anche che aveva un “impulso allo studio”. La madre si
annotava i vari commenti in un taccuino, che aveva conservato e portato
con sé in Florida, nel caso fosse morta lì. Puttermesser aveva una sorella
minore, anche lei fortemente motivata, ma che aveva sposato un indiano,
un farmacista parsi, ed era andata a vivere a Calcutta. Aveva già quattro
figli e sette sari di vari tessuti.
Puttermesser aveva continuato a studiare. Alla facoltà di Legge le
davano della sgobbona, della competitiva-compulsiva, della malata di
egocentrismo in cerca di espansione. Ma l’ego non c’entrava.
Puttermesser cercava la soluzione di qualcosa, di cosa non lo sapeva. In
fondo all’armadio della biancheria aveva trovato una pila di cartoni da
tintore che erano serviti per le camicie del padre (la madre era
parsimoniosa, tirchia: nei cassetti della cucina Puttermesser continuava a
trovare carta da forno usata e ripiegata in quattro, con milioni di pieghe
diventate bianche, che sapeva di formaggio e ospitava vermicelli non
meglio identificabili), e adesso, dietro alla colonna montante del bagno,
teneva pagine e pagine di cruciverba del “Sunday Times” graffettate a
quei cartoni e vi lavorava indiscriminatamente. Giocava a scacchi contro
se stessa e vinceva sempre contro il colore con cui aveva deciso di
identificarsi. Classificava casi di illecito civile servendosi di schedari. Non
che fosse sua intenzione ricordare ogni cosa: le situazioni – aveva la
tendenza a definire i problemi di natura intellettuale “situazioni” – le
scivolavano nella mente come burro nel collo di una bottiglia.
Le arrivò una lettera della madre, dalla Florida:
Cara Ruth,
lo so che non ci crederai ma ti giuro che l’altro giorno papà stava camminando sul viale e chi
ti incontra se non Mrs Zaretsky, quella magra di Burnside, non quella robusta di Davidson, ti
ricordi il suo Joel? Be’ è divorziato adesso niente figli grazie a dio è libero come un uccello
come si suol dire la ex moglie poverina non poteva avere bambini. Lui ha fatto gli esami ed è a
posto. È solo un ragioniere non abbastanza per te perché Dio mi è testimone non
dimenticherò mai il giorno in cui sei entrata nella “Law Review” ma dovresti venire da queste
parti giusto per vedere che tipo tenero è diventato. Ogni tragedia ha i suoi lati positivi Mrs
Zaretsky dice che adesso lui viene praticamente ogni volta che lei lo chiama e vive in un’altra
città. Papà ha detto a Mrs Zaretsky be’, un ragioniere, non ha fatto l’errore di farlo studiare
troppo suo figlio, con una figlia è diverso. Ma non prendertela tesoro papà è contento quanto
me dei tuoi successi. Perché non scrivi è un sacco che non abbiamo tue notizie capisco che sei
occupata ma i genitori sono i genitori.
Rappoport non la seguiva. Le tolse la mano dalla pancia. “Cosa c’è sotto,
Ruth?” le domandò.
“Esatto,” gli rispose Puttermesser.
“Esatto cosa?”
“È quello che c’è sotto che interessa a Socrate.”
“Sei troppo vecchia per questo genere di cose,” continuò Rappoport.
Aveva baffi rossicci di media grandezza, piuttosto squadrati, e denti
perfetti. I denti di Rappoport attraevano lo sguardo di Puttermesser più
dei suoi occhi, così timidamente pigmentati che parevano sbiancati, come
quelli incolori dei busti romani. Il naso, invece, era importante, eloquente,
e aveva narici grandi e profonde che parevano meditare. “Dacci un taglio,
Ruth. Sembri un’adolescente,” disse Rappoport.
“Tu non finirai mai in un pozzo,” gli rispose lei. “Non guardi mai in
alto.” Si sentiva sminuita. Quelle narici filosofiche l’avevano ingannata.
“Ruth, Ruth,” la implorò Rappoport. “Che cosa ho fatto?”
“Il punto è quello che non hai fatto. Non ti sei chiesto in che cosa
l’essere umano, per sua natura, debba distinguersi dagli altri esseri,”
concluse amaramente Puttermesser. Da femminista, stava attenta a non
parlare mai di natura dell’uomo. Parlava sempre di esseri umani e mai di
uomini. Scriveva sempre care e cari, invece di cari e basta.
Rappoport si stava mettendo i pantaloni. “Sei troppo vecchia per fare
sesso,” le disse con cattiveria.
La risposta di Puttermesser arrivò – socratica – all’istante: “Nel qual
caso non posso sembrare un’adolescente.”
“Lo sai che ho un aereo da prendere, come ti viene in mente di leggere
a letto?”
“È più comodo che al tavolo della cucina.”
“Ruth, io sono venuto per fare l’amore!”
“Volevo solo finire di leggere il Teeteto, prima.”
Adesso Rappoport si era messo il cappotto, e si stava accuratamente
annodando la sciarpa attorno alla gola per non lasciar entrare il freddo.
Era una notte d’inverno, ma Puttermesser vide in quel gesto un uomo che
all’età di cinquantadue anni obbediva ancora ai dettami della madre, per
quanto fossero vecchi di mezzo secolo. “Volevi solo finire il Teeteto!” le
urlò Rappoport strappandole il libro dalle ginocchia. “Comincia a pagina
847 e finisce a pagina 879, sono trentatré pagine...”
“Sono rapida nella lettura,” gli rispose Puttermesser.
La mattina Puttermesser si rese conto che Rappoport non sarebbe mai
tornato. Lo aveva ferito. Tanto, alla fine, l’avrebbe lasciata comunque:
aveva notato che prima o poi confessava sempre quello che provava alla
moglie. E non solo alla moglie. Era uno di quegli uomini che amano
chiacchierare.
La perdita di Rappoport non era l’unica preoccupazione di
Puttermesser. Le era venuta una paradontosi. Il dentista le aveva
annunciato – con una punta di piacere di fronte a quel disastro – la
perdita del sessanta percento dell’osso. La perdita dell’osso, la perdita di
Rappoport, la perdita dell’appartamento! “Le tasche sono fuori controllo!”
le aveva detto il dentista. E le aveva dato il nome di uno specialista cui
rivolgersi. L’aveva avvisata: era un’emergenza. Puttermesser aveva le
gengive gonfie e i denti che rischiavano di sradicarsi. Era come se nei
temibili inferi che si nascondevano sotto quelle visibili gengive vi fosse
un vulcano in attesa di esplodere. Sputò il sangue nel lavandino.
Era uno sfarzoso lavandino in falso marmo. Pesciolini blu nuotavano
lungo le piastrelle delle pareti. Sulla tavoletta del water c’era una grossa
sirena blu. Puttermesser detestava quel bagno. Detestava il suo nuovo
appartamento “di lusso”, con la cucina priva di finestre che pareva una
fessura, le due camerette impiccate, il bagno senza vasca, il box doccia
grande quanto un ditale e lo sciacquone con il pomello in plastica
azzurra. Il suo maestoso appartamento nel Bronx, sul Grand Concourse,
vasto come l’Alhambra, era stato devastato dai piromani. Ancora prima, i
vecchi affittuari erano morti o si erano trasferiti, uno dopo l’altro. Al loro
posto si erano insinuati i tossici, che avevano riempito corridoi vuoti di
giornali macchiati di sangue, bottiglie rotte e fiammiferi usati disposti in
file casuali, che parevano tracce lasciate dagli scarafaggi. Una sera
d’estate Puttermesser era rientrata a casa dall’ufficio e si era ritrovata
senza averi: le sue scarpe erano state ridotte in cenere, il pianoforte
anche, l’Ottimo scritto dall’insegnante a matita, a caratteri pieni ed
eleganti, accanto a Humouresque e alla frase di apertura di Per Elisa, era
svanito fra i lapilli. L’infanzia di Puttermesser era stata bruciata. La
madre si era dimostrata una veggente nel portare tutti i temi della figlia
in Florida! Ogni testimonianza della crescita mentale di Puttermesser
sarebbe altrimenti andata perduta in quella criminale conflagrazione.
Il nuovo appartamento era pieno di piante: Puttermesser, un tempo
affetta da quello che lei chiamava “pollice nero” – morbo che causava la
morte di ogni cosa verde su cui mettesse le mani –, aveva ora deciso di
farsi carico della vita. Aveva trascinato nell’appartamento grossi
recipienti di terracotta e sacchi di terriccio arricchito di sali minerali
comprato da Woolworth e aveva riempito vasi rossi di terra scura. Aveva
seminato e poi coscienziosamente innaffiato. Lo stesso Rappoport aveva
trascinato in casa, su un carrello dalle ruote in plastica, un lungo stelo
che pareva una scala di orecchie d’orso verdi: sosteneva fosse un avocado
che aveva fatto crescere a Toronto da un nocciolo. A Puttermesser
ricordava gli alberi della gomma torreggianti della madre,
nell’appartamento del Grand Concourse, quando al colmo dello sviluppo
sfioravano il soffitto. Ogni singolo davanzale del nuovo appartamento di
Puttermesser era contornato di fronde, fogliame e punte di foglie
svettanti o ricadenti. Nella camera da letto petali coriacei di coleus venati
di sangue filtravano il tramonto. Puttermesser, sbalordita, scopriva che se
prestava sufficiente attenzione aveva il potere di stimolare esplosioni di
verde. Lungo le pareti ombrose la vegetazione fioriva rigogliosa.
Eppure le giornate di Puttermesser erano aride. La vita in ufficio non
scorreva pacifica. Nulla fioriva per Puttermesser. Era precipitata. Il
sindaco aveva di colpo cacciato il vecchio commissario – il capo di
Puttermesser, colui che dirigeva il dipartimento Riscossioni e Pagamenti
– e l’aveva sostituito con un uomo che aveva sette anni meno di lei. Il
nuovo commissario aveva l’aria di un ragazzo stupido. Portava la cravatta
annodata morbida e il collo gli sporgeva dal colletto della camicia. Pareva
una tartaruga in posizione verticale. Anche gli occhi erano
impassibilmente tartarugheschi. Puttermesser era disposta ad ammettere
che forse, nonostante il collo che si allungava con lentezza e la testa
piatta, quell’uomo non assomigliava affatto a una tartaruga. Forse era
solo il nome – Alvin Turtelman – a evocare la vigile ponderatezza di
quell’immobile creatura della strada. Turtelman non era uno che si
pavoneggiava: Puttermesser si era accorta subito che, a dispetto di quella
studiata fissità, era più ambizioso dell’ultimo commissario, che si era
accontentato del mero prestigio e aveva usato l’ufficio alla stregua di una
tenda di seta decorata con visir e narghilè. Turtelman era paziente. Ai
suoi occhioni fissi e dolci non sfuggiva nulla della vasta traiettoria che
aveva davanti. Il nuovo commissario parlava di “ristrutturazione”,
“funzionalità”, “mete” e “passaggi intermedi”, “livelli di scopo” e “versus
equazioni”. Era infinitamente astratto. “Nulla di personale,” amava dire,
ma la voce arrivava come una sorpresa: era più malleabile di quanto
l’immobilità dello sguardo non lasciasse presagire. Turtelman allungava
le vocali come tutti i newyorchesi. Si era portato dietro una ventina di
subalterni per un’opera cui dava il nome di “pianificazione”. Costoro
cominciavano la giornata tardi e la finivano presto, spostandosi da una
celletta all’altra e raccogliendo curriculum. Conoscevano tutti male
l’ortografia e i loro promemoria, pieni di sgrammaticature, addoloravano
Puttermesser, perché i subalterni erano tutti avvocati e Puttermesser
adorava la legge e il suo linguaggio. Ne aveva cara la meticolosità.
Pensava alla legge come al carro di Apollo: aveva letto tutte le lettere del
giudice Oliver Wendell Holmes Jr. a Harold Laski (tre volumi) e a Sir
Frederick Pollock (due volumi). Una volta, in sogno, si era ritrovata
davanti a un capitano di nave ed era diventata la quinta moglie del
giudice William O. Douglas: erano andati a trascorrere la luna di miele
nella pampa argentina. Era difficile dire se i subalterni di Turtelman, poco
versati nell’ortografia, fossero rappresentanti del sindaco o solo del
nuovo commissario. Ma erano chiaramente ricognitori e spie.
Denunciavano ritardi e lassismo, lavoro arretrato e rinvii, carenze ed
eccessi, sprechi ed errori. Lanciavano avvertimenti e suonavano
campanelli d’allarme. Facevano pressione, minacciavano, diffidavano e
davano consigli. Erano vigili e invidiosi. Fu presto chiaro che non
capivano il tipo di lavoro che si faceva al dipartimento.
Non lo capivano perché, si scoprì, erano lì per ragioni politiche, ed
erano stati reclutati nel dipartimento di Igiene. Un gruppetto proveniva
dai Vigili del fuoco. Avevano alle spalle carriere di oligarchi della
nettezza urbana, delle fogne, dei canali e delle fossette di scolo, dei
pericoli del nevischio e del ghiaccio, dell’inclinazione della pioggia, del
gas, dei parassiti, della fumigazione, della disinfezione, della spalatura
della neve, della fornitura idrica, delle buche, della pulizia a vapore, della
rimozione degli odori, della ventilazione, della detersione,
dell’elutriazione. Quelli che provenivano dai Vigili del fuoco avevano in
precedenza brandito lo scettro degli incendi dolosi, degli idranti, delle
pompe, dei tubi di gomma (misurati in termini di peso, in chilogrammi),
delle bombe incendiarie, degli stivali di gomma, della cera per mobili,
della pittura rossa, dei falsi allarmi, degli sminatori e dei comandanti del
corpo. Avevano padroneggiato quella serie di materialità, ma non le
avevano capite. Continuavano a chiedere promemoria: erano degli
“amministratori”. Questo voleva dire che erano bravi negli arresti. Non
soltanto nel compiere arresti (i comandanti dei Vigili del fuoco, per
esempio), ma anche nel creare battute d’arresto, come il fuso nella Bella
addormentata nel bosco. Al loro cospetto il lavoro tratteneva all’istante il
respiro e si fermava, come un cavallo a cui si tirino le redini per
sottoporlo a un esame. Giravano attorno al lavoro rimuginando, facendo
speculazioni. Non erano in grado di giudicarlo: non lo capivano.
Ma sapevano a cosa serviva. Serviva per la quota di cariche. Il lavoro,
seppure impenetrabile agli occhi dei feudatari, brulicava di posti. I posti
producevano stipendi. Gli stipendi erano soldi. I soldi erano cariche. Il
sindaco allora in carica, Malachy (“Matt”) Mavett, al pari di coloro che lo
avevano preceduto, era un dispensatore di cariche, sebbene in pubblico,
ovviamente, si dichiarasse moralmente contro le tangenti. Aveva da
tempo distribuito le ricompense, le cariche maggiori. Tutti i commissari
erano amici politici del sindaco. A volte il sindaco aveva più amici che
posti da assegnare, e allora a questo o a quel commissario veniva
improvvisamente dato l’incarico di concepire un nuovo livello
amministrativo: un posatoio dai vari pioli che si collocava fra le altezze
dei protetti del sindaco e i gradini più nobili della pubblica
amministrazione. Quando ciò accadeva, Puttermesser si ritrovava di
colpo davanti una nuova truppa di referenti intermedi designati allo
scopo di bighellonare fra lei e il commissario. Passava intere settimane a
spiegare loro come funzionavano le cose: i referenti intermedi del
dipartimento Riscossioni e Pagamenti solitamente non sapevano cosa il
dipartimento facesse. Quando lo scoprivano, si erano già dileguati: erano
sempre in movimento, come sceicchi di minor prestigio diretti verso la
successiva oasi. E quando arrivava un nuovo commissario, subito dopo le
elezioni (o, di tanto in tanto, dopo quella che veniva ufficialmente
definita una “riorganizzazione – leggi sconvolgimento, bagno di sangue,
degradazione – interna” ), Puttermesser si ritrovava ancora una volta nel
santuario del commissario di turno, l’ufficio appartato con la moquette
screziata e il bagno personale, a illustrare zelante al nuovo signore i suoi
ricchi domini.
Puttermesser era ormai una veterana, del lavoro e dello scenario
burocratico. Aveva dimestichezza con ogni recesso e ogni precipizio. (Oh,
ma non si aspettava di precipitare a sua volta.) Assisteva alle varie
successioni dinastiche. (Oh, ma non si aspettava che qualcuno le
succedesse.) La burocrazia era un mondo feudale e avvizzito fatto di
territori, autorità e gerarchie: polveroso, a parte nei momenti topici di
rovesciamenti e pugnali. Puttermesser veniva considerata utile nell’intero
iter, fatto che spiegava la sua ascesa. Aveva infilato il mignolo in ogni
singolo anfratto di ogni singola variazione della legge pertinente. I
precedenti si susseguivano nella sua mente. I suoi titoli, mobili e fittizi, si
elevavano: era passata da assistente del capo dell’Avvocatura ad aggiunto
alla sezione di Diritto tributario, da aggiunto alla sezione di Diritto
tributario a vicedirettore agli Affari finanziari e da vicedirettore agli
Affari finanziari a Primo tesoriere. Nel frattempo si sentiva come Alice
che manda giù la pozione e si restringe o che mordicchia il fungo e si
allarga: ogni titolo era un morso, o un sorso, e non significava niente se
non l’apprezzamento della sua persona in termini di convenienza da
parte del capo di turno. I titoli di Puttermesser erano la poesia della
burocrazia.
La verità era che Puttermesser era diventata una sonda: era ormai in
grado di seguire il percorso recondito, oscuro e segreto del denaro della
città, le gallerie in cui rotolava, le trasmutazioni, gli investimenti, le
moltiplicazioni, le contrazioni, i rimpinguamenti e gli ingollamenti cui
veniva sottoposto. Sapeva dove arrivava e dov’era diretto. Conosceva le
abitudini, i nomi e le mogli irascibili di una trentina di dirigenti di banca
di vario livello. Aveva lei stessa acquisito una mezza dozzina di
subalterni: con loro era modesta, cortese. Sebbene si considerasse una
femminista, non vi era per Puttermesser ideologia di conquista che
tenesse. Non era aggressiva. Disprezzava l’assertività. La sua voce era
quella di Cordelia. A casa, a letto, continuava a leggere e a sognare.
Conservava, della pubblica amministrazione britannica al suo apice, una
visione romantica: gli Apostoli di Cambridge che diffondevano ai quattro
angoli del mondo gli atti probi di G. E. Moore, Leonard Woolf che serviva
la giustizia a Ceylon, il giovane e timido Forster che faceva lo stesso in
India. Integrità. Rettitudine. E tutto in nome dell’imperialismo, del
colonialismo! A New York Puttermesser perseguiva ancora il sogno
meritocratico dell’immigrato: la giustizia, solo la giustizia seguirai. Il
cuore le batteva per il diritto, persino per quello tributario: vedeva la
democratica plebe educata alla disciplina, murales, finestrini della
metropolitana che brillavano come piatti nuovi, parchi con le aiuole
fiorite, destrieri dipinti con campanelli al collo che si susseguivano in
giostre da capogiro.
Ogni giorno, fra i corridoi vasti e spogli del Municipal Building,
Puttermesser sognava una pubblica amministrazione ideale: la dedizione
alla polis, il commovente amore dei cittadini per la civitas, le norme
leggere della ragione e del buon senso. La città una nazione in miniatura
piena di patrioti: niente stolti o sciovinisti, solo patrioti sinceri e sereni.
Un atteggiamento di ironico affetto per le idiosincrasie della singola
patria di ognuno, ogni distretto una piccola terra natia, gaudio nel Bronx,
euforia nel Queens, oh Richmond felice! Bambini sui roller, e lungo il
ponte di Brooklyn il mosaico colorato dei joggers che respirano con forza
sulle acque verdi che abbracciano la patria.
2. La caduta di Puttermesser e la storia del genere golem
Gentilissimo Sindaco,
il commissario da lei recentemente nominato al dipartimento Riscossioni e Pagamenti, Alvin
Turtelman, ha privato un bravo funzionario di nobile carattere, di vasta e appassionata
esperienza, del suo lavoro. Quel funzionario sono io. Il commissario Turtelman ha distrutto
una carriera nel pieno della sua attività senza un’udienza, senza un debito processo, senza una
speranza di appello o di ricorso (a eccezione, signor Sindaco, della sua persona!). Avvalendosi
di un lessico esente da emozioni, ha brutalmente estromesso in un solo istante un funzionario
di alto livello, politicizzando un mestiere rimasto a lungo immune da avanzamenti esterni di
carriera. Onore, dignità e continuità sono state spazzate via in un solo istante! Sono stata
professionalmente ferita e personalmente umiliata. Sono stata resa inutile. La stesura di
queste righe, il cruciverba a cui lavoro, la penna che tengo in mano costano ai contribuenti il
mio intero stipendio. Nessuno mi degna di uno sguardo. Provano tutti imbarazzo e vergogna.
All’inizio un paio di ex colleghi sono venuti a farmi le condoglianze in questo ufficetto
abbandonato (in cui non faccio nulla), ma questo è accaduto solo all’inizio. È come assistere al
mio funerale, signor Sindaco, provi a immaginare!
Signor Sindaco, vorrei sottoporre alla sua attenzione parecchie questioni urgenti. Le sarò
grata del sollecito parere che vorrà darmi in merito a tali interrogativi, che riguardano le
amicizie politiche, le conoscenze e il potere.
1. È consapevole del trattamento iniquo cui è sottoposto il personale dell’ufficio Procedure
abbreviate del dipartimento Riscossioni e Pagamenti?
2. Se così è, è contento della natura dell’amministrazione che la rappresenta?
3. È veramente suo desiderio erodere e minare la professionalità della pubblica
amministrazione, uno degli strumenti più giusti ed equi del governo democratico?
4. L’azione perentoria del commissario Alvin Turtelman è veramente espressione della
sensibilità che le compete, così giusta ed esuberantemente umana?
Nella città, nello stato, nel mondo, signor Sindaco (è una cosa che ho avuto modo di osservare
per anni), il potere e le conoscenze non vengono mai chiamati potere e conoscenze. Vengono
chiamati principi. Vengono chiamati democrazia. Vengono chiamati discernimento. Vengono
chiamati fare del bene. Vengono chiamati ristrutturazione. Vengono chiamati esigenze.
Vengono chiamati miglioramento. Vengono chiamati funzionalità. Vengono chiamati bisogni
comuni. Vengono chiamati governo. Vengono chiamati gestione dell’ufficio, del dipartimento,
della città, dello stato, del mondo nell’interesse della gente.
Signor Sindaco, l’assegnazione delle cariche viene chiamata in tutti i modi tranne
assegnazione delle cariche!
Gentile Ms Puttermesser,
la prego cortesemente di mandarmi quanto segue appena le è comodo. Un elenco dei depositi
bancari municipali. La media di ogni conto negli ultimi tre anni. Una lista di contatti nelle
banche: nomi, titoli, numeri di telefono. Una lista di contatti per il dipartimento Riscossioni e
Pagamenti (cui mi riferirò in seguito con “noi” e il “nostro”) presso il gabinetto del Sindaco, il
Bilancio, le commissioni comunali di una certa rilevanza e il gabinetto del Responsabile del
controllo di gestione. Copie di tutte le valutazioni pubblicate nell’ultimo anno.
L’organigramma attuale del dipartimento, con le cariche, i titoli e lo stipendio di ognuno dei
dirigenti. Come mai non abbiamo le aste per aprire e chiudere le finestre? Dove sono finite?
Come si fa ad avere carta igienica e sapone con regolarità nei bagni dei capi? Che tipo di
documenti abbiamo da parte del Sistema di Gestione dell’Informazione sul valore stimato del
patrimonio immobiliare demaniale? Quanto è stato efficace il nostro ultimo Investors’ Tour? Ci
sono vecchi appunti che attestano una visita all’impianto di trattamento delle acque reflue, un
giro in elicottero, una dimostrazione del funzionamento dei battelli antincendio, un pranzo e
una sfilata di moda per le signore: come possiamo conquistarci la benevolenza di tali gonfie
tasche quest’anno? Di quali roventi vertenze concernenti la sezione Semigiudiziale dovrei
essere a conoscenza?
Gentile Mr Marmel,
le aste delle finestre sono preda delle segretarie più accaldate e sudate. Quelle ubicate
esattamente sopra l’impianto di riscaldamento ad aria, per esempio. Sebbene ultimamente
potrebbero incorrere nella tentazione anche quelle che vanno a fare jogging in pausa pranzo.
Una volta che hanno preso le aste, le nascondono. Controlli il bagno delle donne del secondo
piano.
L’aria fresca del candore è sempre richiesta quando l’ossigeno dell’onesta ammissione viene a
mancare. Nello specifico caso, PERCHÉ [“Maiuscolo,” precisò Puttermesser mentre dettava]
sono stata sollevata dal mio incarico? Nello specifico caso, PERCHÉ lei mi ha usurpato il posto?
Concediamoci un po’ di aria fresca!
In fede,
Avv. R. Puttermesser
Una città lavata, purificata. New York, la città (forse) di Serafino. Un paio
d’ali avevano sorvolato gli occhi di Puttermesser. Abbracciando il pesante
“Times” di Rappoport, Ruth si era tenuta stretta al petto l’insensibilità, il
disordine, la desolazione della tristezza, diecimila coltelli, l’odio dipinto
sulle pareti della metropolitana, colpi di arma da fuoco, bombe nelle
cattedrali dei trasporti e dell’industria, della Pennsylvania Station, del
Grand Central, del Rockefeller Center, il terrore nelle cabine radiofoniche
e televisive, con la loro animata attrezzatura e le loro voci provinciali e
allettanti, gli assalti agli aeroporti, il declino della pubblica
amministrazione, i mozziconi di sigaretta negli uffici degli alti dirigenti. Il
“Times” di Rappoport, ricettacolo di uno spaventoso carico! Ciò
nonostante, mentre riportava il giornale verso il letto, Puttermesser
aveva visto il Paradiso.
New York lavata, riformata, restituita.
“Santippe!”
Il golem, che aveva tolto il sugo degli spaghetti dai piatti sfregandoli e
immergendoli nella cascata di trombe d’acqua del rubinetto della cucina,
si asciugò le mani nella camicetta viola appena comprata, afferrò biro e
blocco e si precipitò da Puttermesser.
Puttermesser le domandò: “Quando ti sei risvegliata alla vita, cos’hai
provato?”
“Mi sentivo un embrione,” scrisse il golem.
“E cosa sapevi?”
“Sapevo perché ero stata creata,” scrisse Santippe.
“E perché sei stata creata?”
“Perché mia madre possa diventare ciò che è destinata a diventare,”
scrisse il golem.
“Portami quella roba con cui ti trastullavi in ufficio,” le ordinò
Puttermesser, ma il golem si era già fiondato verso l’armadio della
camera da letto e si era messo a rovistare fra le scatole e le borse con i
vestiti nuovi.
Puttermesser mise da parte i libri sulla storia e la natura del genere
golem e cominciò a meditare sulle pagine che Santippe aveva battuto a
macchina, nei due giorni precedenti, nella penosa celletta da lei condivisa
con Cracow – la celletta del suo demansionamento, della sua
denigrazione e della sua disgrazia – nel reparto Tassazione dell’ufficio
Procedure abbreviate del dipartimento Riscossioni e Pagamenti della città
di New York.
Il golem aveva stilato un PROGRAMMA. Puttermesser vi si riconosceva
pienamente. Era come se avesse già avuto quel PROGRAMMA fra le mani, a
cominciare dal linguaggio con cui il PROGRAMMA veniva espresso. Era
come se, nell’istante in cui le era venuto in mente di creare il golem,
Puttermesser avesse letto il PROGRAMMA in qualche vecchia pergamena.
Ah, la verità risaputa e inquietante era che non si ricordava come avesse
fatto a fabbricare il golem: si era imbattuta impotente in Santippe sdraiata
sul letto, senza volizione, come se il golem fosse un miraggio transitorio,
una congettura aggressiva oppure una mera apparizione frutto delle sue
proiezioni. Quella verità aveva tormentato il midollo allungato di
Puttermesser, con faticosa pervicacia, sin dalla prima volta che
Puttermesser l’aveva sviscerata, nel corso della sua desolante passeggiata
verso la YMCA. Era come una brocca che non si riempiva né si svuotava.
Ma adesso era chiaro come la concretezza della terra che il golem non era
un’apparizione. Le apparizioni non battevano a macchina, per dirla
nell’odioso gergo amministrativo, documenti funzionali ed esaustivi
concernenti le riforme civiche! Puttermesser ora sapeva: il PROGRAMMA
era partito da lontano, poi si era avvicinato, si era avvicinato sempre di
più fino ad affollarle il proencefalo con la sua forza importuna.
Puttermesser aveva appoggiato il “Times” di Rappoport – testimonianza
di molteplice caos e di urbana sventura – accanto al letto, sul pavimento,
dove già si trovava il Teeteto. Incalzata dalla febbre e dall’agitazione, era
passata da un davanzale all’altro spaccando i vasi di terracotta come
fossero uova e raccogliendo i tuorli germinativi della terra che
fuoriusciva. Aveva preso il tutto fra le mani e l’aveva sbattuto nella vasca
da bagno. Un mezzo giro di rubinetto era bastato per dare alla terra la
consistenza del fango, e allora era cominciata la vibrazione beata e
frenetica delle sue mani, che avevano plasmato e dato forma, accarezzato
e lisciato, impastato e tastato, raddrizzato e reso tondo, ma in fretta, in
fretta, lasciando il dettaglio (nel dettaglio c’è Dio) incompiuto, sfocato,
differendo il compimento, posticipando il piacere autentico della forma
finale delle narici, delle palpebre e soprattutto della bocca. Nella fessura
di quella faccia di argilla incompiuta Puttermesser aveva infilato un pezzo
di carta strappato al margine superiore del “Times” di Rappoport, su cui
aveva scritto con lo sputo due sillabe oracolari. Le sillabe aderivano alla
carta e si leggevano come fossero scritte nella luce. Poi Puttermesser
aveva tirato fuori dalla vasca l’imponderabile, umida, implacabile sagoma
d’argilla di una ragazza – una creatura biforcuta e inanimata che aveva le
sembianze di una ragazza –, aveva inalato l’odore del fango e aveva
messo la sagoma sul letto ad asciugare. La minima scossa cui quella
minima massa veniva sottoposta provocava la perdita di terra nei punti in
cui gli arti si univano al tronco, là dove vi si attaccava il collo e là dove le
orecchie affondavano i loro fragili peduncoli. La terra si sbriciolava e
cadeva. E si infilava sotto le unghie di Puttermesser.
Puttermesser aveva agito (aha, adesso la verità le martellava
rombencefalo e proencefalo, adesso Puttermesser lo vedeva, adesso
Puttermesser lo sapeva di nuovo!) spinta dall’agitazione e dalla febbre,
dalla landa desolata di cui il “Times” di Rappoport parlava. Perché quella
città depredata, male amministrata, scellerata non poteva risplendere
all’alba come pietra lavata? Tavole di civiltà con annotazioni ontologiche
incise in un’antica lingua. Puttermesser era bramosa. Bramosa di ripulire
quella landa desolata, bramosa di cancellare ogni nera istanza di
ingiustizia, bramosa di eliminare ogni oltraggio. In preda a quella
bramosia, aveva elaborato – dal nulla – un PROGRAMMA.
Adesso lo sfogliava, lo aveva fra le mani:
PROGRAMMA
DI RIANIMAZIONE,
RIFORMA,
RINVIGORIMENTO
E REDENZIONE
DELLA CITTÀ DI NEW YORK
PER ORDINE
DI RUTH PUTTERMESSER
SINDACO
DELLA CITTÀ DI NEW YORK
“Sciocchezze. Ti sei spinta troppo oltre. Io non ho mai pensato a una cosa
del genere.”
“Dormici sopra,” scrisse il golem.
“Questa è un’idea tua. Ce l’hai infilata tu, lì dentro.”
“Il creatore e il creato,” scrisse il golem, “si fondono.” Quest’ultima
parte la scarabocchiò alzando le spalle. Le cuciture strappate della
camicetta viola cedettero ancora di più.
Onorevole Malachy Mavett
Sindaco della Città di New York
City Hall
Gentile Sindaco,
il cittadino ha del suo gabinetto l’idea di un’istituzione che “risponde”, e non è rispettoso di
tale idea ignorare la lettera che le ho mandato in merito a possibili assegnazioni di cariche e
altri abusi. Il suo comportamento è ancora meno rispettoso della mia persona in quanto essere
vivente ed (ex) funzionario (licenziato). Si vergogni!
I miei più cordiali saluti,
ONOREVOLE
RUTH PUTTERMESSER
PROGRAMMA
DI RIANIMAZIONE,
RIFORMA,
RINVIGORIMENTO
E REDENZIONE
DELLA CITTÀ DI NEW YORK
Ogni giorno tribuni arringano le folle dai gradini della City Hall:
quando la polizia li caccia, spariscono per dieci minuti e poi ricompaiono.
Le folle ribollono, barcollano, ridono sguaiate.
Puttermesser redige una lettera per l’ex sindaco Malachy (“Matt”)
Mavett:
Gracie Mansion
Città di New York
Caro Morris:
per favore, vieni qui.
Con amicizia,
Ruth
La città era ingovernabile. La città era fuori controllo. Non c’era alcuna
differenza, adesso, fra Puttermesser e i sindaci che l’avevano preceduta.
Puttermesser portava a termine il suo glorioso mandato destreggiandosi
fra confusione e ipocrisia.
Una cosa c’era che la rendeva diversa: un non meglio definito tumulo
di terra introdotto dal commissario ai Parchi e Giardini durante l’ultimo,
dolente semestre della sua amministrazione.
Davanti alla City Hall, dall’altro lato della strada, c’è un parchetto
attraversato da sentieri e zone erbose e recintato da cancellate di ferro
battuto. Qua e là, con generosità intermittente, sono state posizionate
delle panchine. C’è persino una fontana che zampilla verso il cielo. Forse
perché il parchetto si trova all’ombra della City Hall e, per così dire, sotto
la sua sorveglianza, le panchine non sono state seriamente colpite
dall’azione dei vandali e i prati non sono stati eccessivamente calpestati.
La cosa migliore, e la più allettante, sono le aiuole, vividi rettangoli di
gerani rossi disposti, occorre riconoscerlo, come appezzamenti di un
camposanto in miniatura. Gli impiegati che sbirciano dalle alte finestre
del Municipal Building grigio elefante vedono una radura cremisi che
interrompe, con sconsiderato bagliore, l’amara distesa di cemento. A una
certa distanza dalle aiuole si ergono i lastroni stile Stonehenge delle Torri
Gemelle. A est la cetra tirolese del ponte di Brooklyn.
Il parco non è visibile dall’ufficio del sindaco e a Puttermesser va bene
così. Non sarebbe stata buona cosa doversi occupare della città e nel
frattempo avere davanti agli occhi il tumulo chiaro di Santippe. Nelle
aiuole, vicino alle radici, c’è della terra fresca, messa lì da poco e
lievemente calpestata. È stato lo stesso sindaco a telefonare al
commissario ai Parchi e Giardini nel bel mezzo della notte (il
commissario, per fortuna, era appena rientrato da Parigi) e a ordinargli di
far scavare in quel punto e di sistemare nella cavità che si sarebbe venuta
a creare, come in una busta, un tumulo di terra speciale dalla forma
grossolana che cominciava a sgretolarsi. Il commissario ai Parchi e
Giardini, chiamato con urgenza, aveva trovato strano, quando era
arrivato a Gracie Mansion con gli addetti – assonnati – allo scavo, che il
sindaco camminasse avanti e indietro nel giardino dietro la residenza alla
luce di una mezzaluna striata. E aveva trovato ancora più strano che
accanto al sindaco vi fosse un uomo con la lingua penzolante che
blaterava e si presentava come il commissario appena nominato del
dipartimento Riscossioni e Pagamenti: Morris Rappoport.
“Ha portato le vanghe? E un furgone?” aveva sussurrato il sindaco al
commissario ai Parchi e Giardini.
“Sì, ho portato tutto.”
“Be’, le vanghe non servono. Almeno non ancora. Non si scava un
pavimento. Le useranno dopo, nel parco. C’è del fango secco sul
pavimento di una delle camere da letto. Dev’essere spostato. Con grande
delicatezza. Può spiegarlo ai suoi uomini?”
“Del fango secco?”
“Le posso assicurare che non è un blocco unico. Cade a pezzi. Ma ha
una certa forma. Trattatelo con delicatezza.”
Il commissario si era ritrovato davanti un tumulo di terra molto
grosso e privo di forma, o fondamentalmente privo di forma, avvolto in
modo poco sensato (o almeno così a lui parve) in una specie di sudario di
velluto. Il commissario ai Parchi e Giardini aveva appena partecipato a un
programma ufficiale di scambio in Francia ed era atterrato all’aeroporto
Kennedy da poco più di due ore. Il programma di scambio prevedeva che
lui studiasse gli incantevoli parchi parigini e che la sua controparte
francese prendesse in esame quelli molto più tristi di New York. Il
commissario ai Parchi e Giardini era stato ovviamente nominato da
Puttermesser ed era un botanico e un urbanista, un esperto della
difficoltà di certe piante da ombra, uno specialista della filigrana dei
gazebo, un amante della notte urbana. Ciò nonostante, il capriccio del
sindaco lo lasciava perplesso. Non riusciva a vedere, nel tumulo di terra
che si trovava sul pavimento della camera da letto, la sua fortuna e la via
di fuga che aveva preso. In effetti, sebbene nessuno dei due lo avrebbe
mai saputo, il commissario ai Parchi e Giardini e la sua controparte
parigina si erano entrambi trovati sotto una buona stella: il parigino
perché l’appendicectomia della moglie lo aveva inaspettatamente e
oltremodo trattenuto a Parigi, per cui lui (che era un uomo ansioso) a
New York non c’era mai arrivato, e il commissario ai Parchi e Giardini
perché non si trovava nel suo letto quando il golem era andato a casa sua
a cercarlo, nella parte bassa della Quinta Avenue. Era a Parigi a studiare
il Bois de Boulogne: la sua salute mentale era di conseguenza buona e il
fatto che quella del commissario al dipartimento Riscossioni e Pagamenti
non lo fosse lo sconvolgeva.
Rappoport blaterava. Seguiva Puttermesser come un cagnolino. Aveva
fatto esattamente quello che Ruth gli aveva detto di fare, a quanto pareva,
ma poi le istruzioni di Puttermesser erano diventate contraddittorie.
All’inizio aveva dovuto camminare in cerchio. Poi non aveva più dovuto
farlo. E aveva dovuto grattare qualcosa con il coltellino. Prima ancora si
era ritrovato sdraiato sul letto, un satrapo con un titolo. Il titolo era
palpabile come un manto, e altrettanto sontuoso. Sulla sua testa ricadeva
il velluto bianco del baldacchino, con le sue pieghe voluttuose e le sue
fenditure innevate: com’era denso e caldo il suo titolo, quanto potere
c’era nella sua carica! Solo, chiuso nell’autorità del suo rango, Rappoport
aspettava la visita del golem. Senza più cuciture, senza più un brandello
di sari, con gli occhi lucidi e in fiamme per la fame che la grandiosità di
Rappoport le scatenava, Santippe aveva fatto irruzione nella camera da
letto: era odorosa di spiaggia e aveva un sibilo feroce fra le labbra.
Rappoport aveva strappato il velluto bianco dal letto e lo aveva gettato
sul golem incandescente.
Rappoport blaterava. Raccontava il resto: come avevano lottato, come
lui aveva resistito alle dimensioni di Santippe, alla sua forza, all’orrore
della sua immodestia, al mare orribile del suo sudore e allo scirocco del
suo respiro estivo, come lui – o era stata lei? – aveva elencato le cento
superbe funzioni della sua nuova giurisdizione, il protocollo e la potenza
del denaro della città, i luoghi in cui veniva generato, quelli in cui era
diretto, quelli in cui finiva: si sarebbe potuto dire che gli stesse
insegnando il mestiere. Poi il sindaco, parlando attraverso la porta, gli
aveva spiegato la profondità della quiete dopo l’esplosione della potenza
sessuale, più forte di ogni sonno, di ogni droga e di ogni anestesia, e gli
aveva ordinato di spostare Santippe, in tutto il peso morto della sua
massa, dal baldacchino al pavimento e di avvolgerla nella tenda.
Rappoport blaterava: raccontava di come avesse sollevato Santippe
ancora in estasi, ancora preda del torpore che segue al rapimento, e
l’avesse appoggiata a terra, di come l’avesse avvolta nel velluto bianco, di
come Puttermesser, pallida, con gli occhiali da lettura che brillavano
davanti a un consunto libro verde, gli avesse ordinato con voce
penetrante di riempirsi la mente di impurità – di cose materiali, sporche,
guaste, spregevoli – e di come infine gli avesse ordinato di seguirla
mentre lei tesseva cerchi attorno a Santippe distesa sul pavimento come
se girasse attorno alla sua stessa ombra.
Puttermesser aveva girato più volte attorno al golem. Nel momento in
cui gli aveva dato la vita, a coronare le sue ambiziose riflessioni erano
arrivati, loro malgrado, la giustizia, la bellezza, la purezza, l’Eden e
persino il radioso PROGRAMMA. Adesso occorreva coscientemente
invertire. Adesso doveva pensare a fannulloni dallo sguardo violento che
si appostano negli ascensori con i coltelli a scatto pronti all’uso, a
bombolette che esprimono l’odio per la civiltà a forza di sfregi rossi, a
monumenti con le teste tagliate, alla sporcizia della città, alle rapine, ai
furti, agli incendi dolosi, alle aggressioni, persino agli omicidi.
L’omicidio! Se per dare la vita aveva dovuto sognare il Paradiso, adesso
doveva sentire la lancia ardente dell’inferno. Se per dare la vita aveva
girato sette volte in senso orario attorno a un cumulo di argilla, adesso
doveva girare sette volte in senso antiorario attorno a Santippe
prigioniera. Se per dare la vita aveva pronunciato il Nome, adesso non
doveva in alcun modo ripeterlo né immaginarlo, né doveva prestargli
palpiti d’aria, di fiamma o di respiro. Doveva cancellarlo totalmente.
Ma che dire di Rappoport, dell’esca e del laccio del golem, dell’uomo
che era andato fino in fondo nella cattura di Santippe? Anche lui aveva
dovuto seguire Puttermesser e girare in senso antiorario, come avevano
dovuto fare i discepoli del grande rabbino Jehuda Löw quando era giunto
il momento di smantellare il golem di Praga. Anche il golem di Praga, il
salvatore della città era impazzito! Era stato creato per soccorrere i
cittadini e aveva finito per seminare il terrore. E quando aveva
smantellato il golem, il grande rabbino Jehuda Löw aveva dovuto
disinnescare i riti che aveva soppesato nel corso della sua fabbricazione.
In nome dello smantellamento del golem, aveva declamato all’inverso le
varie permutazioni e combinazioni dell’alfabeto recitate con sacra e
profonda concentrazione mentre lo creava. Invece di meditare sulla
costruzione, aveva meditato sulla distruzione. Aveva disgregato ciò che
aveva in precedenza inanellato: aveva distrutto i legami magnetici fra gli
atomi che formavano la catena dell’essere.
Girando attorno a Santippe intorpidita nel sudario di velluto bianco,
Puttermesser non aveva potuto fare a meno di dare un’occhiata alla
faccia del golem. Il viso era rimasto quello di una bambina. Ah Leah,
Leah! Le palpebre di Santippe avevano avuto un tremito. Le labbra si
erano increspate. Il golem guardava Puttermesser con i suoi terribili
occhi: come pulsavano!
“Madre mia.”
Una voce!
“O madre mia,” aveva ripetuto Santippe continuando a guardarla,
“perché mi giri attorno in questo modo?”
Santippe parlava! La sua voce si levava! La voce di una bambina, acuta
come il grido puro di un uccello.
Ma Puttermesser non si era fermata. “Continua a muoverti,” aveva
detto a Rappoport.
“O madre mia,” aveva nuovamente ripetuto Santippe con la sua voce
da uccellino, “perché mi giri attorno in questo modo?”
All’inizio del quinto giro, con Rappoport che ansimava alle sue spalle,
Puttermesser aveva detto: “Tu hai creato e tu hai distrutto.”
“No!” aveva urlato il golem ora in grado di parlare. “Sei stata tu a
crearmi e sarai tu a distruggermi! Vita! Amore! Misericordia! Amore!
Vita!”
Il quinto giro era stato completato. Il golem continuava a piagnucolare
con la sua voce da uccellino. “Vita! Vita! Ne voglio ancora!”
“Ancora,” aveva commentato amaramente Puttermesser cominciando
il sesto giro. “Ancora, ancora e sempre di più, non ti bastava mai. È
questo ‘ancora’ che ci ha portati qui. Questo ‘ancora’!”
“Tu volevi il Paradiso!”
“L’eccesso di Paradiso è avidità. L’eccesso di Eden porta alla
disintegrazione dell’Eden. L’Eden affonda sotto i colpi dell’eccesso di sé.”
“O madre mia! Io ti ho fatta sindaco!”
Completando il sesto giro, Puttermesser aveva detto: “Tu hai affossato
la città.”
“O madre mia! Non spegnere i miei ardori!”
Cominciando il settimo giro, Puttermesser aveva detto: “Questo è
l’ultimo. Adesso tornatene a casa.”
“O madre mia! Non restituirmi agli elementi!”
Il settimo cerchio era stato completato. Ma il golem aveva cinguettato
di nuovo. Giaceva allungato ai piedi di Puttermesser come la sua ombra.
“C’è qualcosa che non va,” aveva mormorato Puttermesser. “Non so
perché ma non funziona, Morris. Forse perché non sei un sacerdote né un
levita.”
Rappoport aveva trattenuto un respiro tremolante. “Se riesce ad
alzarsi, se decide di trascinarsi...”
“Morris,” gli aveva chiesto Puttermesser, “ce l’hai un coltellino?”
Rappoport ne aveva tirato fuori uno.
“O madre mia, madre della mia vita!” aveva piagnucolato il golem.
“Pensa che in nome tuo ho mandato in rovina Turtelman, Marmel,
Mavett!”
L’enorme, scaltra Santippe, astuta e gargantuesca, uscita dal semino
gettato dal sogno di Leah!
Rappoport, su ordine di Puttermesser, aveva scostato soffiando la
frangetta del golem e con il coltellino aveva cancellato dalla sua fronte
quella che pareva una vecchia cicatrice: la prima di tre cicatrici, quella
più a destra, quella che aveva la curiosa forma di una specie di K.
Il golem aveva all’istante serrato le labbra e gli occhi.
L’alef se ne era andata.
“È morta,” aveva detto Rappoport.
“È stata restituita,” l’aveva corretto Puttermesser. “Portala in soffitta.”
“In soffitta? Qui? A Gracie Mansion? Ruth, pensaci!”
“Il grande rabbino Jehuda Löw ha smantellato il golem di Praga nella
soffitta dell’Altneuschul. Una struttura pubblica e venerabile, Morris, non
meno pregevole di Gracie Mansion.”
Rappoport era scoppiato a ridere. Poi aveva tirato fuori la lingua e
l’aveva mossa avanti e indietro, a destra e a sinistra, spostandola da un
angolo all’altro della bocca.
“Chinati, Morris.”
Morris si era chinato.
“Prendi la sua mano sinistra. Dal polso, è così che si fa.”
Serrata fra l’indice e il pollice di Rappoport, la mano sinistra del golem
si era spaccata in quattro zolle.
“No, così non funziona. Non ho organizzato bene la cosa, Morris, lo
riconosco. Se la trasciniamo in soffitta... be’ lo vedi anche tu cosa succede.
Non importa. Chiamerò il commissario ai Parchi e Giardini. Magari il
parco della City Hall...”
A quel punto Rappoport aveva cominciato a blaterare.
12. All’ombra delle aiuole
I camion della spazzatura sono tornati a girare per le strade. I loro feroci
tritatutto macinano il vomito della città. Gas di scarico, una cinquantina
di macchine immobili a un incrocio, depravazione nei bagni delle donne
del Municipal Building, computer fuori uso, Albany in guerra con la City
Hall, una flessione nei voti di lettura delle quinte elementari: la città
soffoca. Non è governabile. Non è controllabile. Dalla Florida arrivano
voci che l’ex sindaco Malachy (“Matt”) Mavett stia progettando di
riconquistare la City Hall. E per quanto riguarda l’assegnazione delle
cariche, c’è l’egregio caso del nuovo commissario del dipartimento
Riscossioni e Pagamenti, di cui si dice fosse un tempo l’amante del
sindaco. Dà le dimissioni per motivi di salute ancor prima di essere
entrato in carica. La moglie lo riporta a casa, a Toronto. Puttermesser si
sottopone a un intervento per contrastare la paradontosi. Quando
l’intervento ha termine, si ritrova con le gengive esposte. È infinitamente
consapevole dello scheletro, lo sente nella cavità segreta della testa,
appena al di sotto delle orbite oculari, dal lato palatale.
Il “Soho News” è l’unico giornale ad accorgersi dell’ordine dato dal
sindaco nel bel mezzo di una notte d’estate di mettere un ulteriore strato
di terra sotto i gerani rossi del parco davanti alla City Hall. Gli addetti
allo scavo del dipartimento Parchi e Giardini hanno piantato un pannello
di legno fra le aiuole con su scritto: VIETATO TOCCARE O RACCOGLIERE. Con
impudico disprezzo per il decoro civico, i passanti si fanno spesso beffa di
quel modesto monito. Ma chiunque tocchi o raccolga quei fiori color del
sangue si ammala nel giro di poco di influenza virale, mal di gola, forte
raffreddore accompagnato da nausea o, a volte, di attacchi
particolarmente violenti di borsite.
E ogni volta Puttermesser esclama dal profondo: O New York perduta!
O Santippe perduta!
Puttermesser in coppia
1. L’età del divorzio
Permettimi, Ruth, di spronarti a esercitarti di più con la musica. Come ti ho detto più volte, sei
intelligente ma ti devi applicare di più. Ricordatelo: Devi Ripetere Molto Furiosamente
Sempre!
Il suo acume o la sua capacità di giudizio sono palesemente calati? Se sì, in che modo questo si
manifesta?
Le posizioni (politiche, morali, relative alla società) da lei prese in precedenza danno segni di
cedimento? È in grado, a suo parere, di concepire nuove idee? Di mostrare flessibilità? Di
avere una mente aperta?
I suoi guadagni sono diminuiti? Aumentati? Viene trattata con minore rispetto? Con
maggiore rispetto? Se il rispetto è maggiore, in che modo ha contribuito il suo aspetto
maturo?
P.S. Mi spiace dirtelo ma l’odore del tuo insetticida ha invaso il corridoio! Questo significa che
i piccoli visitatori risalgono la colonna montante per arrivare da te! Grazie mille, vicina!
. . .
Non che io desideri spingermi a ignorare ciò che vi è di non convenzionale nella mia
posizione. Ho considerato i costi del passo che ho fatto e sono pronta a sopportare, senza
alcuna irritazione o amarezza, l’allontanamento di tutti i miei amici. Non mi sono sbagliata in
merito alla persona cui mi sono legata. Vale il sacrificio che ho sostenuto e la mia unica
preoccupazione è che venga giudicata correttamente.
. . .
La mattina lavoriamo alacremente, fino a che la testa non diventa calda, poi usciamo a fare
una passeggiata, alle tre pranziamo e la sera, se non usciamo di nuovo, leggiamo
diligentemente ad alta voce. Penso che non sia possibile, per due esseri umani, essere più felici
insieme.
Non era possibile, per due esseri umani, essere più felici insieme!
Un movimento improvviso aveva animato la parete di fronte: un
capannello di visitatori si era riunito sotto La morte di Socrate. I visitatori
guardarono in alto e poi altrove, continuando a fissare quello che
guardavano. Alla fine alzarono di nuovo gli occhi. Avevano lo sguardo
fisso sull’indice sollevato. Il dito li spingeva inspiegabilmente a guardare
qualcos’altro. Il capannello era diventato un branco circolare. Circondava
qualcosa che si trovava ai piedi di Socrate. Le patatine, il sale, le
avventure amorose dei celebri defunti. Puttermesser provò
improvvisamente una feroce sete: George Eliot e George Lewes
viaggiavano nel continente, dichiarandosi illegalmente marito e moglie.
A casa, in Inghilterra, venivano disprezzati e condannati, ma nell’Europa
illuminata della metà dell’Ottocento venivano accolti nei migliori salotti
senza alcuna critica, venivano presentati a poeti, pittori, consacrati
intellettuali. Franz Liszt suonava per loro a colazione, sorridendo rapito e
rovesciando la testa.
Quella confusione attorno a Socrate. Puttermesser si alzò per vedere
meglio: aveva comunque bisogno di una fontanella. Qualcuno aveva
montato un cavalletto. Puttermesser si fece largo fra la gente che fissava
e si mise a fissare. La tela posta sul cavalletto era quasi terminata: c’erano
i discepoli addolorati, la scalinata della prigione oltre l’arcata buia, la
gente che se ne andava, la catena sul pavimento in pietra ai piedi del
divano del filosofo. Il giovane sofferente che si copriva gli occhi mentre
gli porgeva la cicuta. L’intera scena accuratamente identica a quella del
quadro appeso alla parete, l’unica differenza era che sulla tela Socrate
non aveva ancora un volto: il tipo in piedi davanti al cavalletto stava
punteggiando la barba ramata nel tratto in cui i boccoli ricadevano lungo
la clavicola. Puttermesser fissò il quadro e poi di nuovo la copia. Erano
identici. Non si poteva dire quale fosse l’originale. Si spinse ai margini
della folla e guardò l’ombra del labbro inferiore prendere gradualmente
forma attraverso una sorta di oblò. Aveva una vista migliore del
cavalletto che non del copista. Un pezzo di spalla, una manica arrotolata,
una mano affusolata che maneggiava il pennello: era tutto quello che
riusciva a vedere di lui. La mano operava in modo terribilmente
meticoloso: era paziente, lenta e spaventosamente precisa. Procedeva
come una sinistra macchina duplicatrice. Una macchina che generava
misterioso spaesamento. Il pennello agiva e si ritraeva, agiva e si ritraeva.
Le antiche pennellate ricomparivano, pure come la prima volta.
Puttermesser lesse la didascalia sulla targa in ottone – 1787, JACQUES LOUIS
DAVID – e vide il naso di Socrate prendere nuovamente forma a due secoli
di distanza, un colpo di pennello dopo l’altro. Si leccò le labbra: non
aveva mai avuto così sete.
La fontanella si trovava in un altro piano. Puttermesser si assentò per
dieci minuti e quando tornò trovò la delusione ad accoglierla: lo
spettacolo era finito. La sala era quasi deserta. Il tipo con il cavalletto
stava buttando alcuni oggetti in una sacca: aveva già caricato la tela su
una specie di carrello. Si fermò per pulire il pennello con uno straccio. Poi
si srotolò le maniche e le abbottonò. Aveva scarpe mirabilmente lucide.
Lo spirito mondano di Puttermesser, da lei trascurato, si risvegliò. Non
era sempre stata una bighellona. Fino a non molto tempo prima si era
mossa fra gente che controllava un gran numero di voti, fra deputati,
opportunisti, predatori, uomini pieni di boria. Fra commissari e capi. Non
era stata sempre così mansueta. Contemplare il proprio destino troppo
assiduamente, per un tempo eccessivamente protratto, era debilitante: la
capacità di indagine cominciava ad affievolirsi. Puttermesser pensò a cosa
poteva chiedere al copista: qualcosa che riguardasse il mistero della
riproduzione, qual era il senso della cosa. Era chiaro che non si trattava di
un’esercitazione scolastica: e questo non solo perché difficilmente il
copista – per quanto abbastanza giovane – poteva essere uno studente.
Doveva comunque avere trent’anni passati, a meno che quei baffi,
modesti e composti, non volessero trarre in inganno. E in ogni caso la
volontà di ripetere – Puttermesser era certa di aver colto una volontà
assoluta – era troppo grande, troppo indecentemente ambiziosa per un
mero esercizio. Sembrava una sorta di passione. L’impulso a riprodurre
ciò che già esisteva a cosa alludeva, a cosa portava?
Si limitò invece a chiedergli: “È riuscito a finire il volto?”
Il ragazzo sollevò l’indice in direzione della Morte di Socrate. Sulla
parete, il filosofo lo imitava. “È finito, guardi con i suoi occhi.”
“Nella sua versione, intendo.”
“Quelle che faccio non sono versioni. Sono tutt’altra cosa.”
Un’affascinante gomitata: aha, metafisica! “L’ho vista lavorare. Il
risultato è esattamente lo stesso. Esattamente la stessa cosa.
Soprendentemente identica,” disse Puttermesser.
“Apparentemente identica.”
“Ma lei copia l’originale!”
“Non lo copio. Non è questo quello che faccio.”
Adesso era diventato troppo metafisico. Puttermesser era confusa. Era
confusa dal troppo piacere. Il ragazzo ripiegò le sue cose: prima lo
straccio, poi il cavalletto. Sopra i baffi le narici si erano spalancate in una
doppia vittoria. George Eliot che osservava Liszt: quando la musica
trionfava, le narici le si dilatavano. “Se non vuole chiamarle copie,” stava
per dire – era una discussione quella che si annunciava –, ma lasciò
perdere immediatamente. Le parole le morirono in bocca. Le guance
scarne. Quei peli chiari sotto un naso così curato. Senza il cappello era
difficile esserne certa. Eppure lo era. Quello era il gentiluomo vittoriano
del 6-C. Il dandy che l’aveva snobbata perché i giovani non sono capaci di
notare una donna di cinquanta e passa anni. Adesso però l’aveva notata.
Puttermesser si rese conto di averlo obbligato a farlo. Lo aveva costretto a
guardarla.
“Ma lei non è un amico di Harvey Morgenbluth? Ci siamo conosciuti
nell’atrio del suo appartamento,” disse. “Alla festa.”
“Non vado alle feste di Harvey. Da lui vado a lavorare.”
“Be’, io abito sotto di lui. Tre piani sotto.” Quella era frode. Non aveva
mai posato gli occhi su Harvey Morgenbluth: avrebbe dovuto
ammetterlo. “Era un quadro quello che aveva con lei? Quel pacco
grosso?”
Era chiaro che il ragazzo non si ricordava di lei.
“Harvey fotografa le mie opere.”
“Nel senso che copia le sue copie.”
“Non sono copie. Gliel’ho già spiegato.”
“Ma il risultato è esattamente lo stesso,” insistette Puttermesser.
“Non posso farci niente. È l’atto che mi interessa. Io non copio.
Rimetto in vigore. E lo faccio a modo mio. Inizio con uno scarabocchio e
poi agisco. Come faccio a sapere se il volto di Socrate sarà finito per
primo o per ultimo? Crede che mi interessi? Crede che mi importi sapere
cosa prova un pittore morto? O cosa pensasse duecento anni fa un tizio
con un pennello in mano? Io procedo a modo mio.”
La terribile sete di Puttermesser di colpo riaffiorò. Puttermesser pensò
che fosse per la virata del suo cuore. Gli organi la prosciugavano
lasciandola all’asciutto. Aveva abbandonato l’intera cerchia dei suoi
conoscenti in nome della sorpresa intellettuale. Mamma, gridò
attraversando le paludi disseccate di interi decenni perduti, mamma,
guarda, il cervello è la sede delle emozioni, te l’avevo detto!
Con la voce della madre, disse: “È merce usata, no? Non dovrebbe
partire da un’idea nuova? Dalla sua idea?”
“È questa la mia idea. È sempre la mia idea. Nessuno mi dice cosa
fare.”
“Ma lei non inventa nulla: una combinazione nuova, qualcosa che
prima non esisteva,” lo incalzò Puttermesser.
“Tutto quello che faccio è originale. Prima che io le dipinga, le mie
opere non esistono.”
“Non può dire che copiare qualcun altro sia originale!”
“Io non copio.” Si mise la sacca a tracolla prendendola dalla cinghia.
“Io riproduco. Non riesce a capirlo? I bambini continuano a nascere, no?
E ogni bambino è nuovo e non è mai esistito prima.”
“Nessun bambino ha le sembianze di un altro,” protestò Puttermesser.
“A meno che non siano gemelli.” La tela finì sul carrello. “Che vivono
vite separate fin dal primo respiro.”
“Un quadro non è vivo,” arrivò quasi a gridare Puttermesser.
“Be’, io sì. È questo il punto. Tutto quello che faccio accade per la
prima volta. Tutto quello che faccio non è mai stato fatto prima.” D’un
tratto le lanciò un’occhiata speculativa. Puttermesser ebbe un sussulto
quando vi colse una sfumatura di giubilo. Parlava così ogni giorno della
sua vita? Lo guardò dritto nelle pupille, zeri rotondi e neri, isole lucenti
lambite da un debole inchiostro. Il dandy puntò il cavalletto ripiegato
verso di lei: era un vero e proprio congegno con dadi ad alette da tutte le
parti. “Che ne direbbe,” chiese, “di darmi una mano con questo?”
Camminarono separati dal congegno. Puttermesser aveva le Lettere
schiacciate sotto il braccio. L’immensità si aprì di nuovo sull’immensità,
le sale si aprirono sulle sale. Attraversarono imponenti civiltà,
manovrando attorno alle colonne come una coppia di operai, trapanando
corridoi di gente che guardava trasognata o rimaneva a bocca aperta.
Scesero la maestosa scalinata con passo precario e barcollante. Era chiaro
che il copista avrebbe potuto portare tutta l’attrezzatura da solo: era
abituato a farlo. Lei era un accessorio pencolante – un impedimento –,
ma a Puttermesser sembrava che quella goffa carovana avesse anche un
altro scopo. Nella bacchetta che li univa correva una sorta di calore
mentale. Il copista aveva deciso di agganciare per un po’ la sua persona a
quella di Puttermesser. Ruth si rese conto di essersi imbattuta in un tipo
originale. Un imitatore con una filosofia! Una filosofia che negava
l’imitazione! E il copista non si sbagliava, non era un pazzo. Era, come
aveva detto lui, qualcuno con un’idea nuova. Uno che rivendicava la
legittimità. Era colpevole, ma aveva una spiegazione. O forse non era
affatto colpevole. Il congegno che sobbalzava e ballonzolava fra loro, con
le sue aste e le sue viti, era motivo di eccitazione: costringeva
Puttermesser a rimanere a distanza e al tempo stesso la conduceva. Era
una sorta di guinzaglio. Ruth seguiva il copista come un cane che
invecchiava, camminando di traverso.
Pozzanghere sul marciapiede. Puttermesser si era completamente
persa la pioggia. La strada era insabbiata dalla luce del pomeriggio. Lasciò
andare il cavalletto e si detestò per averlo fatto. L’aveva trovato, però!
George Lewes, George Lewes era a New York! E aveva una tesi a modo
suo, un argomento di vita. Aveva coraggio. “Passerò,” disse il copista.
“Farò un salto da lei, la prossima volta che devo andare da Harvey.
Tenga, prenda uno di questi. C’è scritto tutto.”
Appoggiò a terra il cavalletto, la sacca e il carrello. Poi tirò fuori una
piccola custodia rossa da cui estrasse un biglietto da visita bianco.
C’erano un numero di telefono e due righe, anch’esse in rosso:
RUPERT RABEENO
RIMESSA IN VIGORE DEI MAESTRI
Puttermesser, che non rideva da un mese, scoppiò a ridere: era pronta per
la felicità. “La gente capisce di cosa sta parlando quando si vede
consegnare questo biglietto?”
“Si spiega da sé.”
Puttermesser continuava a ridere. Era tornata audace come un vecchio
politico. “Perché dovrebbe fare un salto da me?”
“Per spiegarle il biglietto.” Il copista si chinò per prendere il cavalletto,
la sacca e il carrello. “Non vuole che lo faccia? Preferirebbe che non
passassi?”
“Venga subito,” gli rispose Puttermesser. “Muoio di sete. Metterò su
un tè.”
2. I lettori notturni
Le letture notturne alla luce verde mare della lampada: i nomi dei defunti
da molto, moltissimo tempo. Brabant, Bray, Chapman, Rufa, Cara, Sara,
Barbara Bodichon, Edith Simcox, Johnny Cross. Spettri. Fra loro, solo
Herbert Spencer sopravviveva riconoscibile per conto suo. George Eliot
aveva osato implorarlo di sposarla. Era infatuata. Non aveva ancora
conosciuto George Lewes. “Prometto di non peccare più allo stesso
modo,” aveva dichiarato quando Spencer l’aveva rifiutata. Non poteva
immaginare che lui avrebbe finito i suoi giorni da scapolo. Il filosofo
dell’evoluzione non sarebbe riuscito a evolvere. “Se ti legherai a
qualcun’altra, morirò, ma fino ad allora, se mi rimarrai accanto, troverò il
coraggio di lavorare e di rendere la vita degna di essere vissuta. Non ti
sto chiedendo di sacrificare nulla: sarò brava e allegra e non ti darò mai
fastidio.”
Rupert stava leggendo dalle Lettere. Puttermesser abbassò
repentinamente le palpebre. Conosceva quelle penose frasi a memoria.
L’abiezione, lo struggimento. L’arido Herbert Spencer, un uomo chiuso in
se stesso. Nessun sentimento poteva invaderlo. Ma un giorno aveva
portato George Lewes con sé alla “Westminster Review”, dove George
Eliot – che era ancora Miss Evans – lavorava come redattrice. Lewes era
allegro, impudente, faceto. Aveva il viso butterato, e un naso minuto e
delicato con due grosse narici. Era un sagace imitatore, e raccontava
storie brillanti senza un briciolo di grettezza. Di primo acchito George
Eliot lo aveva trovato brutto. Era abbastanza brutta anche lei. La gente
diceva che lui assomigliava a una scimmia. E lei a un cavallo. Lewes
aveva dei biglietti gratis per il teatro e l’aveva invitata ad andare con lui.
Recensiva pièce, libri, si occupava di arte, di musica. Era mondano e
versatile. Scriveva di letteratura francese e tedesca, era autore di opere
teatrali, di un saggio sull’infermità mentale, si occupava di storia, scienze,
filosofia, di anemoni, di Comte e di Charlotte Brontë. Lei traduceva
Strauss, Feuerbach, Spinoza. Si occupava di Matthew Arnold, Tennyson,
Browning, Thoreau, Ruskin. Leggeva Omero, Platone, Aristofane,
Teocrito. Leggeva Drayton e una storia del sanscrito.
“Che coppia, che coppia,” disse Puttermesser.
Aveva scoperto qualcosa di sconcertante: Rupert le aveva confessato
che fino ad allora George Eliot era stata poco più di una diceria per lui. Al
secondo anno delle superiori, nella cittadina vicino ad Atlanta in cui
viveva, avevano letto Silas Marner. Era tutto quello che conosceva di lei.
Il resto era una novità. Prima di allora non aveva mai aperto una sua
biografia. Non aveva mai sentito parlare di George Lewes, di Johnny
Cross o di tutti gli altri.
“Perché non me l’hai detto, quando abbiamo cominciato? Quando
abbiamo cominciato a leggere?”
“Pensavo l’avessi capito.” Appoggiò la mano sulla sua. Com’era
affidabile. Com’era ansioso di appagarla. “Però mi sto riprendendo. Sono
bell’e che preso. Cosa sai tu che io non so?”
Non avrebbe potuto contraddirlo. Era come se Rupert si fosse tuffato
nella sua mente e avesse ingoiato tutti i pesci spinosi, grandi e piccoli,
che gli fossero balenati davanti. Puttermesser era estasiata: era vero, fra
loro non c’era nessuna differenza. Immerso nella luce verde mare della
lampada, Rupert era stato irretito: adesso sapeva quello che sapeva lei.
Era Lewes quello che Puttermesser voleva fargli conoscere.
Continuarono a leggere fino a che non si prosciugarono. Lessero fino
a che i loro occhi non cominciarono a tremolare e non si gonfiarono. La
stranezza della situazione non sfuggiva loro: mentre nell’intimità
notturna George Eliot e George Lewes avevano letto Scott, Trollope,
Balzac, Turgenev, Daudet, Sainte-Beuve, Madame d’Agoult (Lewes aveva
annotato i vari nomi nel suo diario), Rupert e Puttermesser leggevano
solo i due George. Puttermesser cominciò a discutere sul possibile
significato della cosa. Non era una questione di “ispirazione”: non voleva
certo paragonarsi a una celebre defunta di epoca vittoriana. Era
consapevole della sua dimensione lillipuziana: un esausto avvocato di
città, dallo stentato sviluppo in quanto a esperienza reale, una donna
negli ultimi tempi reclusa, consumata dalla solitudine, con la malinconia
incisa nelle striature del volto. Il punto non era l’ispirazione, ma qualcosa
di più austero. Il punto era lo stesso dei due George: lo studio. Rupert e
Puttermesser stavano studiando una coppia di eroici, allegri compagni.
Allegri compagni! Era lo spirito cameratesco che stavano studiando, la
vicinanza.
“George e George,” disse Rupert. “Praticamente una coppia di
gemelli.”
“Erano amanti,” lo corresse Puttermesser.
La mattina Rupert afferrava la sacca, il carrello e il cavalletto
tintinnante e si dirigeva alla Frick. Puttermesser provava meraviglia di
fronte alla trama imbevuta di olio denso e luccicante della tela. La sera,
dopo cena, lei e Rupert proseguivano con i due George. Una storia di
denaro e di famiglia. I soldi erano andati ad Agnes, la moglie indulgente e
adultera di Lewes, e ai figli da lei avuti da un altro uomo. Agnes nella
vecchiaia, grassissima, con dita piccole e pingui che le giocherellavano in
grembo, sostenuta fino alla morte dai proventi di George Eliot: Rupert e
Puttermesser guardavano con aria trasognata la fotografia contenuta in
uno dei volumi che ingombravano le sedie della cucina come tanti
mattoni. Ma per i figli di Lewes, George Eliot era “Mutter”. Uno era
morto giovane: George Eliot lo aveva accudito e pianto come fosse stato
suo. Un altro era rimasto legato a lei per tutta la vita. Lewes, nel
frattempo, cercava pazientemente di convincerla a cimentarsi nella
scrittura, anche se dentro di sé dubitava che riuscisse a padroneggiare la
drammaticità. George Eliot era ascesa alla grandezza da un giorno
all’altro. Ed era rimasta comunque un paria. Isaac, il fratello, che abitava
ancora nelle Midlands della loro infanzia, non voleva avere nulla a che
fare con lei. George Eliot gli aveva scritto, ma lui si era rifiutato di
rispondere. Sua sorella viveva con un uomo che aveva una moglie. Sua
sorella non veniva ricevuta nei salotti rispettabili. Alla fine era stato il
mondo ad andare da lei. La regina Vittoria aveva escogitato il modo di
esserle presentata.
Rupert lesse: “‘L’indicibile gioia che troviamo l’uno nell’altra è svilita
solo dalla sensazione che un giorno ci dovremo separare.’” George Eliot e
George Lewes avevano vissuto quell’indicibile gioia per venticinque anni:
lei aveva avuto lui, lui aveva avuto lei, insieme avevano avuto la fama, il
tributo, l’Europa, una carrozza tutta per loro, gli agi, l’ammirazione delle
menti migliori e una schiera di giovani – fra cui Johnny Cross – che
ruotavano attorno a loro e li adoravano. Johnny Cross aveva aiutato
Lewes a trovare una casa in campagna: era molto bravo in tutte le cose
pratiche. George Eliot lo chiamava “nipote”. “Mio caro nipote” era il
modo in cui cominciavano le sue lettere. E si concludevano con “La tua
affezionata zia”. Johnny Cross era un bel ragazzo alto di ventinove anni,
ed era stata la madre a presentarlo a George Eliot a Roma, durante una
vacanza. Dopo aver frequentato la Rugby School, Johnny era andato a
New York a lavorare in una filiale della banca di famiglia e poi era
ritornato a Londra per fare la stessa cosa. George Eliot aveva conosciuto
il nipote Johnny Cross il giorno del cinquantaduesimo compleanno di
George Lewes.
4. La terribile discrepanza
Sto per sposare Mr Cross... È stato un amico devoto per anni, a cui Lewes voleva molto bene e
di cui si fidava, e ora che sono sola, Mr Cross vede nel dedicarmi la vita l’unica possibilità di
ottenere la sola felicità che desidera da tempo... Non è possibile dare spiegazioni per questo
genere di crisi, che paiono improvvise ma hanno avuto una gestazione lenta e oscura...
Partiremo domani e rimarremo all’estero per due o tre mesi.
Puttermesser aveva sempre odiato quella parte. Era troppo brutta. Non ci
voleva pensare. La parte gloriosa finiva con il funerale di George Lewes.
Il resto non era nulla. Il resto non contava. Johnny Cross, cui era stato
diagnosticato uno “stato depressivo acuto” una sola notte in tutta la sua
vita, era tornato alla normalità, non aveva più avuto un solo momento di
alienazione che si potesse definire tale ed era morto nel 1924 all’età di
ottantaquattro anni. Ma George Eliot si era indebolita ed era crollata. Era
morta sei mesi dopo che Johnny si era gettato dalla finestra.
Rupert continuava a essere allegro. George Eliot non gli mancava: non
l’aveva mai ammirata. Anche Puttermesser, sotto la sua influenza, aveva
cominciato a ritornare un po’ sui suoi passi. Forse George Eliot era
davvero pedante. Non avrebbe dovuto impedire a Johnny di fare un bagno
quando erano al Lido. Era stata irragionevole. Sapeva che Johnny non era
portato per le lingue: non padroneggiava l’ebraico e faceva confusione fra
verbi hiphil e verbi hophal. E allora perché lo aveva terrorizzato con
Dante? Ma Rupert continuava a insistere con la sua idea: Johnny
impersonava Lewes. Dopo Venezia, nel poco tempo che restava al loro
matrimonio, George Eliot e Johnny Cross erano tornati nella stessa
identica casa che Lewes aveva comprato con l’aiuto di Johnny. “Le stesse
identiche quattro mura!” esclamò Rupert. “È una prova! Cos’altro vuoi di
più?”
Puttermesser dava segni di impazienza. Cominciava a non poterne più
dell’idea di Rupert.
“George Lewes non si è buttato nel Canal Grande, o sbaglio?”
Allontanò l’ultimo volume del diario di George Eliot. “Johnny non era
semplicemente in grado di affrontare il sesso,” concluse.
Si guardò in giro per la stanza. Disordine a valanga. Cataste di
biografie, mappe, memorie e diari. Una crosta che sommergeva la
scrivania, il cassettone e il pavimento. Grattacieli in miniatura sui
davanzali. Basta. Quei libri se ne dovevano andare. Fuori, fuori!
Dovevano tornare tutti alla Society Library! L’unico angolo ordinato era
quello vicino al suo letto, dove Rupert aveva sistemato parecchie pile di
cartoline, dritte come tessere del domino.
Puttermesser si sentiva sopraffatta. Era come se avessero vissuto una
sommossa. Qualcosa di turbolento era successo. Era sfinita, come dopo
un’intossicazione o uno stato di trance. Ed era stato Rupert l’artefice di
quella precarietà da brivido, di quel tumulto. Aveva sbattuto fuori George
Lewes, un uomo dall’anima luminosa, e aveva spinto dentro Johnny
Cross. Rupert che impersonava Johnny Cross che impersonava George
Lewes! La cosa era troppo viva. Strideva, provocava. Quando Rupert si
era messo a raccontare – a raccontare la luna di miele –, Puttermesser si
era agitata, si era infiammata, si era scottata. Rupert era un mago. Le
aveva fatto rivivere la luna di miele sotto le unghie, alla radice della
colonna vertebrale. Puttermesser soffriva. Era Lewes che voleva, solo
Lewes. Non avevano forse – lei e Rupert – messo la testa sotto la stessa
lampada? Non avevano forse incendiato ogni singolo passaggio che si era
messo fra loro? Ma Rupert le aveva tolto Lewes e le aveva dato Cross. Era
fatta! La luna di miele era finita! Terribile, terribile. Puttermesser la
odiava. L’aveva sempre odiata. E lui gliel’aveva infilata sotto le unghie,
l’aveva spinta come un palo fino a che non aveva raggiunto la colonna.
Rupert disse: “Ho finito con la Frick. Pomodori e verdure?”
Puttermesser disse che la zuppa non le andava.
“Ho finito ieri. Un bel paesaggio olandese. Quando si asciuga vedo
Harvey e glielo chiedo. Cos’ha che non va la zuppa?”
“Gli chiedi cosa?”
“Be’, ci vogliono due testimoni. La prossima volta che vado da Harvey
comincio a bloccare lui. L’altro sceglilo tu.”
Puttermesser si concentrò. “Due testimoni?”
“Tanti ne servono, se ti vuoi sposare.”
Allora faceva sul serio. Puttermesser lo vedeva che faceva sul serio.
Era stato serio prima. Era serio adesso. Lewes! Lewes alla fin fine! Era
stato Lewes a ispirarlo. Era stato Lewes a sedurlo. Johnny Cross si era
messo di mezzo, ma la vittoria spettava a Lewes. L’amicizia ideale!
“Non so a chi chiedere,” disse Puttermesser.
“Conosci un sacco di gente.”
“Non più. Non nell’ultimo anno.”
“E tutti quei politicanti del Municipal Building?”
“Non lavoro più lì e non ci lavorerò più. Sono stata stupida a pensare
di poterci tornare.” Puttermesser si mise a pensare al tessuto sociale della
sua vita. Le zie e gli zii erano morti. I cugini, una volta una banda allegra
e numerosa, erano dispersi e invecchiavano. La metà di loro era stata
fagocitata dalla California: San Diego, Berkeley, Santa Monica, Lake
Tahoe. Ormai la maggior parte erano in pensione. A questi si aggiungeva
la galleria sempre più lontana delle sue vecchie compagnie: eccoli, pagina
dopo pagina nella rubrica di Woolworth, quei fantasmi di aule scolastiche
o di uffici semidimenticati, i detriti della sua ascesa ai cinquanta e passa
anni. Colleghi di pettegolezzo antiquati. Compagni di cinema del tempo
andato. Erano tutti lontani: c’era chi si accapigliava per il divorzio, chi
viveva per il proprio lavoro, chi si abbronzava ai Caraibi, chi si lasciava
assorbire dai figli e dai figli dei figli. I figli: la grande marea genetica – il
diluvio – che separava chi aveva una discendenza da chi non l’aveva. Tre
o quattro degli amici di Puttermesser erano già morti nella lotteria della
malattia precoce. Nel registro dei viventi non c’era un’anima che
Puttermesser avrebbe voluto come testimone di nozze. Erano tutti
obsoleti. Lei stava facendo piazza pulita. Una nuova vita. Limpida, pura.
“No, Rupert, tu sei l’unico. Ci sei solo tu. Non ho nessun altro.”
“Io in vece del mondo,” disse Rupert.
Puttermesser lo guardò, cercando di scorgere la maschera
dell’impertinenza. Ma la maschera non c’era.
“Oh no,” protestò e lasciò che la linda testa di Rupert finisse fra le sue
braccia. “Tu non sei in vece di niente.”
Un tardo pomeriggio di lunedì presero la metropolitana diretta verso il
centro fino alla fermata del ponte di Brooklyn e salirono al secondo piano
del Municipal Building. I corridoi – a Puttermesser familiari – erano
ampi, malconci, polverosi. Era come se alle pareti ripugnasse la luce. Con
somma sorpresa di Puttermesser, l’ufficio Matrimoni non era più lì.
Aveva attraversato la strada e si era trasferito in Chambers Street, in una
ex banca che aveva il colore della pelle deturpata di un vecchio gatto.
Quando uscirono, Puttermesser contemplò il suo territorio di un tempo.
In quello che fino a pochi mesi prima era stato il suo ufficio, particelle di
polvere si appendevano languidamente a perline di contrabbando di un
sole illegale. Da qualche parte qualcuno aveva tirato lo sciacquone. Era
un sollievo vedere che nessuno la riconosceva. Ormai faceva parte della
generazione dei politicamente scomparsi. Il senso di estraniamento le
serrava la gola. Gli occhi le bruciavano nell’oscurità. Si stupiva di aver un
tempo riversato le sue capacità giuridiche in quell’organismo moribondo,
con il suo sistema di segretarie, impiegati, assistenti, con le sue arterie di
ferro in cui brulicavano sottoposti.
Tornando a casa con la linea numero 6 nella calca dell’ora di punta,
avviluppata dal tuono lancinante della galleria, Puttermesser si ritrovò
schiacciata contro Rupert. Il vagone dondolava come una culla sottoposta
a un violento urto. Sprofondata nella spalla calda di Rupert, Ruth si
sentiva senza passato.
“Una tomba,” gli disse. “Quel posto è una tomba.”
“Cosa?” le urlò lui, cercando di sovrastare il tuono.
“Stavo pensando,” gridò Puttermesser a sua volta, “che i miei risparmi
stanno per finire. Dovrò ricominciare da qualche parte molto presto. E
anche tu, Rupert.”
“Io non ho risparmi.”
Nell’infilare una curva, il vagone stridette. “Non puoi andare avanti
per sempre a fare cartoline,” gli urlò Puttermesser. “Il tuo talento è
troppo grande.”
“Grande abbastanza per una cartolina. Dovresti vedere che bel lavoro
ha fatto Harvey con il quadro della Frick,” le gridò lui di rimando. “Ha
detto che va bene, te l’ho detto? Ci fa da testimone. E conosce due
rabbini: uno è quello che lo ha sposato la prima volta, l’altro quello che lo
ha sposato la seconda. Il primo è nel West Side, il secondo nell’East Side,
nella Seconda Avenue,” continuò a urlare Rupert.
“Dovresti mollare le cartoline e dovresti mollare Harvey.”
Il treno arrivò in una stazione e si fermò bruscamente. Puttermesser
venne catapultata in avanti. Un fiume di corpi si precipitò verso la porta.
Fra lei e Rupert spuntò una foresta di umani.
“Va bene,” disse Rupert muovendo le labbra dall’altro capo della
carrozza, “mollerò Harvey.”
Il matrimonio era stato fissato per mercoledì – il rabbino della
Seconda Avenue era libero quella sera – e nel frattempo Rupert e
Puttermesser avevano trovato il secondo testimone.
Puttermesser aveva detto a Rupert: “Ti ricordi la tipa che batteva i
piedi? No, era prima che tu arrivassi qui.”
“La tipa che batteva i piedi?”
“Be’, non la sento più. Non la sento più da settimane. Deve aver
smesso. Secondo me non ci dice di no. È lei quella giusta. Abita
nell’appartamento di fianco.”
L’insegnante di matematica aveva detto loro di aver arrotolato il
tappetino una volta per tutte. La cosa era faticosa e non serviva allo
scopo. E poi era troppo in solitudine. Adesso si era iscritta a uno di quei
nuovi centri fitness per single in Madison Avenue. Si chiamava Raya
Lieberman. Non le dispiaceva affatto dare una mano per un matrimonio,
bastava che fosse dopo la scuola. Era vero che il mercoledì aveva il club
di matematica, ma lo avrebbe saltato più che volentieri, per una volta.
“Ho abbastanza attività extracurriculum in curriculum,” aveva detto a
Puttermesser rassicurandola. “Anzi, anche troppe, viste quelle degli altri.”
Lo studio del rabbino era nella Novantesima Est, nel suo
appartamento. Al telefono, il rabbino si era informato se una cerimonia
modesta alle 21,00 nel suo studio, a casa sua, poteva andare, visto che era
un matrimonio con poche persone e visto anche – quando parlava aveva
la cadenza dell’omelia – che per la sera non era in ogni caso possibile
garantire il Tempio della comunità con un preavviso così breve. Rupert si
era dichiarato d’accordo. Aveva ricominciato a nevicare, così i quattro –
la sposa, lo sposo e i due testimoni – avevano preso un taxi. Puttermesser
era seduta dietro fra l’insegnante di matematica e Harvey Morgenbluth.
Rupert, la schiena diritta, il cappello imponente in testa e l’impermeabile
a mantella addosso, era seduto davanti con il tassista. Puttermesser si era
messa i suoi tacchi migliori, neri e di pelle. Rupert e i due testimoni
avevano le soprascarpe.
“Ha mai fatto una cosa del genere prima d’ora?” chiese Harvey
Morgenbluth a Raya Lieberman appoggiandosi alle ginocchia di
Puttermesser.
“Ho fatto da sposa, ma non da testimone. Lei?”
“Mai. Quante volte?”
“Quante volte cosa?”
“Quante volte si è sposata?” la incalzò Harvey Morgenbluth
continuando ad appoggiarsi alle ginocchia di Puttermesser.
“Una.”
“Io due. È dal mio secondo rabbino che stiamo andando.”
Puttermesser trovava Harvey Morgenbluth una presenza familiare, e
la cosa la stupiva. Era abituata alla sua camminata da cammello, alle
orecchie semitrasparenti e rosse, alla fronte bovina e flemmatica,
abbondantemente segnata da linee parallele che parevano un
pentagramma. Quando andava a gettare qualcosa nell’inceneritore o a
prendere l’ascensore, non era raro che si imbattesse nell’insegnante di
matematica, ma adesso le appariva chiaro che l’uomo all’apparenza
agitato che si apriva un varco fra i divani vecchi e logori dell’ingresso
trascinando scatoloni era Harvey Morgenbluth. A volte Morgenbluth
metteva gli scatoloni su un carrello. Sicuramente alcuni contenevano le
cartoline di Rupert. Un senso di amarezza la invase. Dieci centimetri per
quindici: era quella la misura delle cartoline. Il paesaggio della Frick, un
vasto van Ruysdael – un ponte, le radici nodose di un albero, le nuvole
scure, una strana luce (di un’alba, di un crepuscolo o di un pomeriggio
prima della pioggia), un cacciatore, un pescatore, una lunga strada, una
prospettiva profonda, due cavalieri, uno in sella e l’altro a terra, una
mantella rossa buttata sulle spalle (Rupert adorava le mantelle, le cappe,
le toghe), un cavallo nero di traverso sulla via, che bloccava, anneriva e
punteggiava, inghiottendo il cielo e la terra –, tutta quella maestria
ridotta a un rettangolo di dieci centimetri per quindici. Rupert che
lavorava per diminuire, com’era possibile? Al Met, quando si erano
conosciuti, Puttermesser non aveva forse scorto in lui una volontà
gigantesca, la volontà di farsi mandatario del riverbero meticoloso di
immensi precursori? Rupert, con tutta la sua ampiezza, era destinato a
essere ridotto per sempre dalle tecnologie di Harvey Morgenbluth? In
metropolitana le aveva promesso che lo avrebbe mollato. Non le aveva
mai spiegato perché la rimessa in vigore dovesse tradursi in una
riduzione. Se di fatto questo era quello che era, come faceva a chiamarla
rimessa in vigore?
Puttermesser si disse che era normale essere nervosi il giorno del
proprio matrimonio. Chissà quali infelici divinazioni Rupert le stava
lanciando dal sedile davanti, da sotto la mantella.
Harvey Morgenbluth, ancora pesantemente appoggiato alle ginocchia
di Puttermesser, stava cercando di scoprire se l’insegnante di matematica
era disponibile per una cena e un film la domenica successiva.
“Potremmo andare al Baronet nella Terza Avenue o al Beekman nella
Seconda. Oppure guardi, ho Via col vento in cassetta, che ne dice?”
Puttermesser gli chiese bruscamente: “Non organizzavi feste, la
domenica?”
“Sempre di meno, sono settimane che non ne faccio una. I bambini
facevano impazzire tutti. E poi gente come Rupert non ci veniva: Rupert è
un tipo abbastanza aperto, ma quel genere di feste non gli interessa.”
Raya Lieberman disse: “Nessuno si apre di questi tempi. È difficile
entrare in contatto. Siamo tutti atomi solitari.”
Harvey Morgenbluth emise un fischio. “Dio mio, atomi solitari, ha
detto bene.” Si girò verso Puttermesser. Le orecchie rosse parevano
antenne. “A proposito, come va con gli scarafaggi? Se vuoi farli davvero
fuori, prova con il fluoruro di sodio nei tubi.”
Il rabbino si chiamava Stewart Sonnenfeld. Presentò ai nuovi arrivati
la moglie, Jill, e il figlio adolescente, Seth, che in quel momento stava
facendo un tema sul Prologo di Chaucer. Harvey Morgenbluth, Raya
Lieberman, Jill Sonnenfeld e Seth Sonnenfeld reggevano i quattro pali del
baldacchino nuziale. Puttermesser aveva tirato fuori l’anello di
matrimonio della madre da un vecchio portafoglio di feltro che teneva nel
frigorifero, in un contenitore di plastica vuoto della margarina in fondo
alla vaschetta per le verdure, per ingannare eventuali ladri. Il rabbino
aveva detto a Rupert di portare il suo calice per la cerimonia, così quella
mattina Puttermesser si era precipitata da Woolworth per comprarne
uno. Jill Sonnenfeld lo aveva avvolto in un tovagliolo di carta e poi lo
aveva messo in un sacchetto, e Rupert lo aveva pestato con le galosce
ancora ai piedi. Il bicchiere era esploso in una convulsione gratificante.
Poi, nell’appartamento di Puttermesser, Harvey Morgenbluth e Raya
Lieberman avevano bevuto una coppa di champagne a testa (un regalo di
Harvey) in calici di polistirolo, avevano mangiato una fetta della torta di
matrimonio – Puttermesser se l’era cavata prendendo un dolce al
cioccolato di Entenmann’s nel supermercato della Terza Avenue – e se ne
erano andati via insieme.
“Nel buio della notte,” disse Puttermesser. “Se ne sono andati via
insieme nel buio della notte. Magari funziona.”
Rupert stava rovistando nell’angolo dell’armadio in cui teneva
l’attrezzatura. Stava tirando fuori la sacca. “Più che nel buio della notte,”
precisò Rupert, “mi sa che se ne sono andati di sopra, al 6-C.”
“Per noi ha funzionato,” disse Puttermesser.
Il cuore di Puttermesser – il suo cuore carnale – era avvoltolato su se
stesso, come una spirale di pane caldo appena sfornato. Nella cavità che
lo cullava, quel buon pane si stava gonfiando. Puttermesser aspettava che
la testa di Rupert scivolasse fra le sue braccia, contro il pane. Aspettava di
sentire la sua voce, la voce dal timbro scuro che leggeva, con quel picco
stridulo che apriva varchi di felicità come un becco. La carne viva,
semplice, commovente. A volte, a dispetto della sua storia roboante (le
aveva consegnato ogni meandro della sua vita, non si era tenuto niente
per sé), Rupert pareva appena dischiuso: come se lei lo avesse espulso da
un uovo segreto e spettrale collocato nel lobo frontale o sotto la lingua,
dove la saliva agra partoriva il desiderio. Rupert era la sua ombra e la sua
impronta digitale. Le aveva impressionato la retina nel sonno. Era il
gracidio soffocato nella sua gola, il flegma di caos eruttato dai suoi
polmoni. Aveva dimorato troppo a lungo nei suoi nervi, e i suoi nervi
adesso erano tutti tesi alla trascendenza. Il desiderio, il desiderio! Lei e
Rupert erano – entrambi – troppo titubanti.
Rupert aveva tirato fuori il cavalletto e lo aveva appoggiato a terra
insieme alla sacca. Attraversò il salotto e andò alla finestra. Violente
raffiche di vento colpivano i vetri. Lui guardava la strada innevata con
aria sognante. Chissà se stava cercando di scoprire se Harvey
Morgenbluth e Raya Lieberman fossero spariti davvero nel buio della
notte. Il pane che Puttermesser aveva nel petto si gonfiava. Cresceva
sempre di più. Gelosia. La testa di Rupert le sembrò un altro pane,
ricoperto di miele, sullo sfondo della finestra striata dalla neve. Era
venuto al mondo vent’anni dopo di lei. Davanti a lui si stendeva un
lungo, lunghissimo prato verde. Sotto i baffi gli apici della bocca erano
elastici come quelli di un bambino.
Rupert era cosparso di malinconia. Si slacciò una delle soprascarpe.
Sembrò indeciso rispetto all’altra, ma alla fine si tolse anche quella. Si
erano lasciati la corsa alle spalle, il sogno era stato sognato. Erano
arrivati all’arrivo. Tutte le notti di nozze hanno il sapore della delusione.
Puttermesser si tolse le scarpe nere di pelle col tacco. Avevano
camminato poco nella neve – dal taxi al portone del palazzo –, ma aveva i
piedi ancora umidi. Un brivido le salì nelle gambe e nel corpo. Andò nella
camera da letto per prendere le pantofole con il pelo. Lo specchio del
cassettone catturò la figura fuggevole di una donna. Come camminava
veloce!
Quando ritornò nel salotto, vide che Rupert si era rimesso le galosce.
Aveva indossato l’impermeabile a mantella e il cappello elegante. E aveva
il cavalletto ripiegato sotto il braccio e la sacca in mano.
C’era qualcosa nel suo viso che Puttermesser riconobbe. Nella
malinconia si era insinuata una vena di indifferenza. Era come se lei fosse
diventata invisibile. Era come se Rupert non la riconoscesse: ma lei lo
aveva riconosciuto. Quell’affronto, quella sorta di affronto. Quel viso che
la feriva. Quella giovinezza che la feriva.
“Rupert,” disse. “Rupert, cosa fai?”
“Non posso restare.”
“Devi.”
“Non posso, Ruth. Non posso restare.”
“Rupert, togliti l’impermeabile. Ti prego, Rupert. Ti prego.”
“No,” disse lui. Non era indifferenza. Era un incendio. Rupert era
dentro a una fornace. Parlava da una fornace.
Puttermesser lo chiamò: “Rupert! Vieni qui, cosa fai?”
“Non posso restare.”
Rupert posò la sacca a terra, nel minuscolo ingresso, e puntò il
cavalletto dritto davanti a sé, brandendolo come un raggio di fuoco.
Come una lancia. Lo sollevò e lo seguì a rotta di collo nel salotto. Mirava
alla finestra. Puttermesser temette che volesse lanciarlo dritto contro il
vetro. Ma Rupert si fermò. Appoggiò il cavalletto al pavimento e con
entrambe le mani alzò il vetro della finestra. Una folata di vento rovesciò
la pila di calici di polistirolo che si trovava sul davanzale. La neve entrò
nella stanza, bagnata come una cascata.
“Rupert, Rupert,” lo implorò Puttermesser. “Togliti l’impermeabile.
Chiudi la finestra. Per l’amor di dio, chiudi la finestra!”
Rupert a quel punto la guardò. Puttermesser si sentì cadere nei
minuscoli buchi neri di quegli occhi limpidi e potenti. Continuava a
cadere, ma invece di vertigini, delirio o disordine incontrava solo il
candore della propria intelligenza. Capì che Rupert era assolutamente
sano, un calcolatore che esultava come un matematico nell’atto di
confermare un’equazione.
Rupert prese le sue cose e infilò la porta.
Puttermesser andò alla finestra, si sporse dal davanzale cercando di
scorgere per strada la sagoma che si riduceva e socchiuse gli occhi per la
neve. Era inutile chiamarlo, come era stato inutile per George Eliot
chiamare Johnny Cross che nuotava nel Canal Grande, ma Puttermesser
lo fece lo stesso, più e più volte. La neve le entrava in bocca. Si sporse e
rimase lì fino a che i capelli non si coprirono di fiocchi e non le
diventarono bianchi.
Un copista, un copista!
Puttermesser e la cugina moscovita
1. Un po’ di storia
Alla fine Pëtr pianse. Lidia era partita da un giorno. Era riuscita a pagarsi
il biglietto – New York-Mosca senza scalo – interamente da sola.
“Il negozio coreano nella Prima Avenue,” disse Pëtr. “Mi aveva chiesto
di accompagnarla. Per provare la giacca. È stato solo l’altro ieri.”
“Mi aveva detto che tu e il suo ragazzo eravate alti più o meno uguali,”
osservò Puttermesser.
“Voglio dire, lo sapevo che era un regalo, ma non sapevo per chi. Mi
aveva detto che era per suo fratello che viveva a Mosca. Mi aveva detto
che gliel’avrebbe spedita.”
“Lidia non ha nessun fratello.”
“Ha sempre avuto in mente di partire.”
“Non prima di aver avuto un guadagno netto,” disse Puttermesser.
“Quelle bamboline sono andate come l’oro. Deve averci guadagnato
più o meno novecento dollari con quelle, per non parlare di quello che si
è fatta con il resto della roba.”
“Arte popolare russa. I cucchiai, gli scialli.”
“E le medaglie di Lenin? Quelle erano solo per vedere come sarebbe
andata.”
“Un modo per testare il mercato.”
“Se ne sarà uscita dal mio negozio con duemila dollari in tasca. Anche
quello strano libro è riuscita a vendere, quello mezzo in inglese e mezzo
in russo: si rende conto? In un negozio di sport. Ha tirato su dieci dollari,
con quello.”
“Non avrà venduto anche il dizionario!” esclamò Puttermesser.
“È stata un’idea sua, vero? Lidia diceva che lei voleva che imparasse la
grammatica invece di mettersi a vendere.” Pëtr beveva e piangeva. “A me
piaceva quel buffo modo russkij di parlare.”
Erano seduti nel soggiorno di Puttermesser. Anche quello era, a modo
suo, un tè: solo che nelle tazze c’era alcool. Pëtr aveva portato una
bottiglia di vodka per festeggiare con Lidia. Era passato un mese dal
giorno in cui lei aveva fatto la sua comparsa nel negozio di articoli
sportivi Albemarle.
Ma adesso Lidia si trovava molto al di sopra della terra rotonda,
diretta verso la morte dell’Unione Sovietica.
La moquette era disseminata di sacchetti di plastica accartocciati. Il
divano letto era esattamente come Lidia l’aveva lasciato, una mescolanza
anarchica di cuscini e lenzuola attorcigliate. Collant strappati giacevano
abbandonati come garze su una sfilza di lattine di Coca-Cola. I vari
profumi di Lidia – lozioni, smalti, lacche – si diffondevano nell’aria come
la scia lasciata da un’apparizione.
“Non mi ha nemmeno detto che stava per partire,” si lamentò Pëtr.
Puttermesser guardò quegli occhi puliti e lucidi del North Dakota. Jack
Armstrong, il ragazzo americano: gabbato.
“Il Grande Esperimento,” disse e versò quello che era rimasto della
vodka nella tazza innocente del povero Pëtr.
12. Lettere
12 dicembre
Gentile Ms Puttermesser,
spero mi perdonerà questa intrusione per certi versi imbarazzante. Barbara Blauschild, sua
vicina del piano di sopra e mia vecchia amica, mi ha gentilmente dato il suo nominativo. Mi
sembra di capire che lei abbia partecipato all’evento per la raccolta fondi di due settimane fa
in compagnia di quell’interessante ragazza che ha creato un certo scompiglio: Barbara mi ha
detto che è una sua parente. Barbara mi ha anche detto di aver sollevato la ragazza, a causa
mia, dall’incarico che le aveva affidato. (Glielo aveva affidato perché mossa da compassione.)
Apprezzo molto la profondità che Barbara dimostra nella nostra amicizia, ma è sempre stata
troppo precipitosa. (Continuiamo a essere amici nonostante suo marito non mi parli da anni.
La verità è che io e Barbara abbiamo avuto una storia 100 anni fa, quando eravamo ancora in
California, e Bill non ha mai superato la cosa.)
Le confesso (di nuovo) che chiederle quello che sto per chiederle mi imbarazza un po’. È che
quando la ragazza dall’accento russo si è alzata nel pieno della riunione con tutto quel fuoco
in viso – non che sapesse, esattamente, di cosa stesse parlando – mi sono all’improvviso reso
conto che mi sarebbe piaciuto conoscerla. Il problema è che Barbara, ora che l’ha lasciata
libera, si rifiuta di avvicinarla. Così ho pensato che magari lei sarebbe stata disponibile ad
aiutarmi. (Ho una passione per i capelli rossi.)
Cordialmente,
dott. Schuyler Hartstein
direttore ed editore
di “Shekhina”
15 dicembre
Gentile Mr Hartstein,
grazie per la sua lettera. Mia cugina è ritornata in Unione Sovietica. Ha però lasciato in cima
alla vaschetta del gabinetto una serie di cosmetici. Nessuno di questi cosmetici ha qualcosa di
particolare o è degno di nota. Ma di recente ho trovato, nascosta sotto il suo letto, una
bottiglietta mezza usata di tinta per i capelli.
Cordiali saluti,
avv. Ruth Puttermesser
Liebe Ruth!
come puoi vedere, a causa della pressione delle circostanze, sono emigrata in das Land, wo die
Zitronen blüh’n (Goethe). Sono qui da soli due giorni. Lidia adesso vive a Sachalin. D’estate
non è una sofferenza stare lì. È incinta di sei mesi e lei e Volodja (che è il suo ragazzo
dall’anno scorso) si sposeranno molto presto. Lui si sta dando da fare per mettere in piedi
un’attività con altri ambiziosi giovani. Tu probabilmente non sai, perché fino ad ora la cosa è
stata mantenuta il più possibile segreta, che alcuni contadini di Sachalin hanno dissotterrato
un certo numero di zanne di mammut del Paleolitico. L’idea di Volodja è comprare le zanne
dai contadini e rivenderle in Occidente. Lui e i suoi colleghi ci sono dentro fin dall’inizio,
quindi l’investimento non sarà grosso. Mi hanno detto che le zanne sono molto belle e che
sembrano legno fossile. Lidia ha qualche dubbio sulla loro autenticità, ma conosci la mia Lidia:
è una tale scettica! Ciò nonostante, sta mettendo tutti i soldi che ha guadagnato in America
nell’attività. Anche se le zanne non dovessero essere autentiche, è convinta che possano
facilmente essere spacciate per tali ai potenziali collezionisti, perché il valore non è dato da
quello che una cosa è ma da quello che sembra.
Sono contenta che Lidia sia al sicuro a Sachalin, più al sicuro di quanto lo sarebbe stata in
America. Mi ha detto che l’hanno obbligata a partecipare a una pericolosa riunione politica a
New York, dove tutti i partecipanti avevano coltelli e pistole. Ci sono stati degli spari. Mi
dispiace che tu non le abbia risparmiato questo spavento. Mi ha detto anche che ancora prima
l’hanno fatta andare in un posto lontano, di sera, dove una funzionaria di un’organizzazione
sgradevole e forse segreta ha cercato di costringerla a firmare delle carte: una specie di
contratto da schiavi, a quanto pare. Sono costernata nell’udire che nel tuo paese succedono
simili cose, soprattutto che volino coltelli e pistole in una riunione aperta a tutti nella sala di
un palazzo, con gente, come mi ha spiegato Lidia, ben vestita. Con alcune donne, anche se
non tutte, eleganti come Raisa Gorbačëva!
La sera che sono partita, a Mosca, nella strada in cui abitiamo, c’è stata una rivolta. Questo
succede perché l’URSS sta crollando. Qualcuno dice che la campana ha già suonato a morto
[nell’originale: das Tautengeläut ist schon geklungen]. I ribelli hanno urlato spiacevoli slogan,
portavano sgradevoli divise e hanno rotto molti vetri delle finestre, ma non avevano con sé
(almeno non palesemente) pistole o coltelli. Ringrazio Dio che Lidia, che non mi ha voluta
accompagnare qui, sia per il momento al sicuro nella tranquilla Sachalin. Chissà dove la
porterà, alla fine, il destino. Mi ha confessato che sfortunatamente il bambino non è di
Volodja ed era contenta di sapere che avrei lasciato l’URSS: aveva paura che rivelassi a Volodja
la verità. Mi ha assicurato, carissima Ruth, che tu sai chi è il padre e che è un bravo ragazzo.
Io, peraltro, ho sempre avuto paura che Lidia si mettesse nei guai con uno degli atleti della
squadra. Ma la squadra è stata sciolta, perché non ci sono più squadre ufficiali sovietiche.
Ti scriverò ancora quando avrò cominciato a capire questo posto. Nel frattempo scrivimi pure
auf deutsch all’indirizzo di cui sopra (è un albergo utilizzato come centro di accoglienza per i
nuovi immigrati) e dimmi tutto quello che sai del padre del bambino. Lidia dice che ha un
nome tipicamente russo e che per guadagnarsi da vivere vende icone (ma ovviamente sono
solo delle riproduzioni). Dove può aver scovato, in America, una persona simile?
Mia sorella minore era molto motivata a scuola, ma poi ha sposato un indiano, un farmacista
parsi, ed è andata a vivere a Calcutta. Ha quattro figli e sette sari di vari tessuti.
Non una di quelle parole era vera. Puttermesser non aveva sorelle, né
minori né maggiori. Nelle sue vene non c’era nulla che appartenesse al
New England. Nella sua storia non c’era nessuno di quasi yankee. Non
aveva mai conosciuto il nonno, morto ormai da più di settant’anni. Quel
nonno, cagionevole di salute, non aveva mai lasciato il misero paesino in
cui era nato, nella vecchia Russia fredda e corrotta. Era stato suo padre a
scappare dalle devastazioni degli zar e a passare dal salone di Castle
Garden: una macchiolina in una marea di immigrati.
Il genietto del computer stava rivedendo il lignaggio di Puttermesser,
stava sognando i suoi sogni, compreso il recentissimo sogno del Paradiso:
Ecco come sarà [aveva scritto il genietto per bocca di Puttermesser]. Mi siederò sotto un
albero di media grandezza nell’Eden, nella luce piena e solida di un luglio infinito, nel cuore
dell’estate, verde, verde, verde ovunque, verde di sopra e verde di sotto, lucente e fulgida di
sudore, ogni voglia annichilita, ogni fecondità destituita. Di giorno celestiale in altro, con la
perfezione del desiderio che succede a quella della contemplazione, nell’esaltazione di
un’eternità mai interrotta. Nell’Eden ogni insaziabilità è soddisfatta: studierò i legami fra i
geni, i quark, il linguaggio dei segni dei primati, le varie teorie dell’origine delle razze, le
religioni delle civiltà antiche, il significato di Stonehenge. Studierò diritto romano, le varietà
più arcane dell’alta matematica, la composizione nucleare delle stelle, scoprirò cos’è successo
ai monofisiti, studierò la storia della Cina, della Russia, dell’Islanda.