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Filologia

di Gianfranco Contini - Enciclopedia del Novecento (1977)

di Gianfranco Contini
Filologia

sommario: 1. La filologia nella storia della cultura. 2. Critica testuale. □


Bibliografia.

1. La filologia nella storia della cultura

Chi nella prima infanzia ha letto Pinocchio, amandolo e imprimendoselo


nella memoria, stupirà, se gli accada di rileggerlo, di non essersi accorto,
allora, che era scritto, o poco meno, in vernacolo toscano. Chi un po' più
tardi si inizierà a Dante, tolte le aree pentacolari riservate all'oscurità, da
lambire e oltrepassare in convenzionale reverenza, comprende senza
ostacolo, ed è destinato a rendersi conto in tempo più maturo come gli
fosse sfuggito, più ancora che il deposito d'una memoria sapientissima, il
fatto elementare (che naturalmente non capiterebbe ai suoi coetanei lettori
della Chanson de Roland o del Nibelungenlied) che la Commedia è scritta in
italiano antico. Coi Promessi sposi può anche avvenire che non si percepisca
nessuna differenzialità; e la differenzialità non è affatto detto che riesca
gradevole, come una lente d'ingrandimento svela più verità, ma dà degli
oggetti un'immagine inconsueta e intercala loro innanzi un corpo estraneo.
La filologia è dunque, anche a un modesto grado di cultura, almeno nelle
civiltà che hanno fruito d'una buona attrezzatura grammaticale, un evento
quotidiano, se pur scalare; la filologia in senso tecnico è diversamente
distribuita nei momenti culturali e gode di un prestigio variabile.
Benché si sia sempre fatto filologia, nel periodo romantico (e soprattutto
nella nazione romantica per eccellenza, la Germania) essa toccò una tale
intensità e raffinatezza, sia approfondendo gli scavi preceduti da millenni di
studi, e cioè nell'ambito classico, sia allargando verso ogni direzione
possibile il campo di applicazione (inclusa la costituzione delle filologie
nazionali), che parve nata allora, ciò che per certi metodi era la verità. La
sua valutazione seguitò a essere alta, e magari fiduciaria, in epoca
positivistica, meno come interpretazione che come dilatazione di
accertamenti, erudizione fine a se stessa, soddisfacimento della libido
sciendi, ma interviene una limitazione molto degna di nota, di cui non è
miglior documento che in una proposizione di A. Schleicher, il
paleontologo della glottologia. Da un suo libro (Die Deutsche Sprache, 1859)
il Timpanaro ha speculato le seguenti definizioni: ‟Die Philologie ist eine
historische Disziplin [...]. Die Sprachwissenschaft dagegen ist keine historische, sondern
eine naturhistorische Disziplin" (S. Timpanaro, La genesi del metodo del
Lachmann, Firenze 1963, p. 76, n. 1). La filologia (e va bene che qui il
tedesco Philologie avrà la sua generica accezione universitaria di complesso
di studi sulla letteratura) non può quindi aspirare all'assetto legislativo,
rispecchiatore di necessità, che pertiene (o si riteneva pertenere) alle scienze
della natura, fra le quali lo Schleicher e i neogrammatici suoi prosecutori
annoveravano la linguistica.
Dai movimenti correttori o eversivi del positivismo non poteva ovviamente
uscire che una considerazione meramente funzionale e ancillare della
filologia. Ciò è forse vero dell'intuizionismo, vista la connessione
epistemologica che si credette di scorgere fra le innovazioni del Bédier e la
dottrina bergsoniana, mentre notoriamente il Bédier in persona confessava
di essersi postumamente ritrovato in talune pagine del Bergson, da lui letto
assai tardi. Ma certo è vero dell'idealismo crociano, come si può vedere nel
Croce stesso editore perlomeno non superstizioso (così del De Sanctis) e
promotore d'una illustre collezione di classici dalla quale procurò di tener
lontana più che gli fosse possibile ogni accusata filologicità di
presentazione. Ma è istruttivo come, in un famoso scritto (Per un catalogo, in
un Quaderno della ‟Voce", 1910), più insigne per sensibilità che
per logos, un neoumanista, per così dire, quale il Serra giudicasse del
programma crociano appunto degli ‛Scrittori d'Italia': vi trovava incluso ‟il
rinnovamento degli studi positivi" (aspetto per cui l'antipositivista Croce
poté giustamente sembrare il più grande dei positivisti) e arrivava a temere
‟edizioni critiche" con ‟la nuova lettura di un e in un manoscritto", dove
accettava della Bibliotheca Teubneriana, poiché il litigio verteva sul canone dei
classici, l'‟ideale - che del resto è una parte della stessa antichità - della
migliore lezione". Di lì a poco un umanesimo nazionalistico da dozzina
poteva coinvolgere nella germanofobia (dovette combatterlo anche un
grecista del calibro del Vitelli) il rigore della filologia classica elaborata nelle
scuole tedesche. Ma per ciò che riguarda il Croce bisogna confrontare
l'irruzione filologica avvenuta dopo la sua morte nella sua stessa collezione,
come del resto, gradualmente, nelle sillogi compagne, e non solamente in
Italia. Ciò era conforme a un abito mentale che si può qualificare di nuovo
positivismo e che in Italia, dove avevano contribuito a fare il ‛ponte' con
l'antico personalità come quelle del Pasquali e del Barbi, si configurò, qui al
pari che nella critica stricto sensu, in forma piuttosto post- che anticrociana.
La moda filologica tuttora vigente, particolarmente appunto in Italia,
obbedisce a un impulso forse già più di ieri che dell'oggi, come parrebbe
mostrare certo filologismo parodistico che attesta il trapasso della maturità.
In una mappa ideale una nuova limitazione alla filologia parrebbe infatti
sorgere dallo strutturalismo in quanto studio di sincronie pure, mentre,
come historische Disziplin, la filologia si collocherebbe, a primo sguardo, nella
diacronia. Particolarmente nel linguaggio della scuola parigina, una ricerca
‛puramente filologica' si oppone a una ricerca condotta a norma di
linguistica generale e dunque secondo parametri interni alla lingua (così per
la definizione, ovviamente oppositiva, di una funzione o di un lessema).
Tuttavia la punta della linguistica, per dire solo della linguistica,
strutturalistica travalica l'opposizione di linguistica sincronica e linguistica
diacronica in indagini come quelle che il Jakobson, con
brillantissima contradictio in adiecto, chiama di ‟fonologia diacronica", e di cui
si trovano suggestive realizzazioni in vari autori (Kurylowicz, Haudricourt,
Juilland, ecc.), ma che in fondo era stata anticipata in fase presaussuriana da
storie della lingua alternate come fin dal Jespersen.
La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta,
non si dirà nell'aporia, ma nella contraddizione costitutiva di ogni disciplina
storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un ‛passato' e
sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto; per altro
verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia
contemporanea, essa ripropone o propone la ‛presenza' dell'oggetto. La
filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo
problematismo esistenziale.

2. Critica testuale

La filologia culmina nella critica testuale, che perciò qui si procura di


compendiare in forma aforistica.
La denominazione universalmente ammessa è quella che traduce il
tedesco Textkritik:obsoleto è critique verbale, da cui s'intitola un manuale un
tempo molto frequentato dell'Havet; assai comodo sarebbe ‛ecdotica'
(ecdotique), invenzione di dom H. Quentin, da tenere in pronto quale
sinonimo di preziosa sinteticità e aspetto specialistico; con intenzione
deprezzativa (dal Pagliaro) è stato usato ‛stemmatica' (del Maas), per di più
riferibile a un solo aspetto particolare, per quanto importante. Di che
momento essa sia il prodotto, cioè del romanticismo anzitutto, come di
norma, germanico, solitamente condensato nel nome di K. Lachmann, è
constatazione che parrebbe da revocare in dubbio da quando,
particolarmente per opera del Pasquali e con singolare acribia di S.
Timpanaro, i principi ne sono stati meglio indagati e in parte retrodatati. Si
potrebbe allora essere tentati di sospettare che, come filologia si è fatta
sempre, così filologia testuale esista ‛da sempre'. E in realtà le grandi
epoche filologiche sono caratterizzate da intensa attività editoriale, si tratti
dell'età alessandrina, che elaborò la vulgata dei classici greci, o della
Rinascenza, anzi delle varie Rinascenze gemmate per metafora da quella
propriamente detta nel linguaggio dei medievalisti (carolingia, del sec. XII,
ecc.), alle quali si devono vari assetti vulgati dei classici latini, o del
momento istituzionale della Riforma e della Controriforma, attuato
nella philologia sacra (anche cattolica, per la Vulgata Sisto-Clementina) e
nei corpora dell'antiquaria ecclesiastica (incluso il Muratori). C'è anzi oggi chi
ravvisa nell'ecdotica il principale acquisto mentale dell'umanesimo, col
Valla e col Poliziano, anzi già col Petrarca, la cui opera di editore è stata
ricomposta dal Billanovich. Ma è giusto ricondurre la fondazione della
critica testuale all'ambiente dove fu formulato l'assunto d'una sua
consistenza scientifica, anche se si sa ormai che tale fondazione fu più
graduale e meno puntuale della sua rappresentazione corrente. Che essa sia
romantica importa che, attuata inizialmente in filologia classica, cioè dove si
disponeva di un canone millenario di testi recepti la cui lezione era da
verificare, era però atta a una filologia condenda sulla grande e insomma
medita distesa appunto romantica del Medioevo e anzitutto del volgare
(che press'a poco coincidevano, chiudendosi il Medioevo con l'invenzione
bella stampa, la quale poneva o sembrava porre altri problemi). Simbolo
della situazione, appunto, il Lachmann, estensore lui stesso del metodo alla
filologia germanica; mentre di lì a poco colpisce l'equidistanza del pur
meno rigoroso lachmanniano K. Bartschdalla filologia germanica e dalla
romanza (sua è, prima del lachmannismo dei O. Gròber e dei O. Paris, la
prima edizione ‛scientifica' di un trovatore, Peire Vidal). Sui principi di
quello che fu chiamato lachmannismo, antonomasticamente e magari più
che altro emblematicamente, è seguitata a svolgersi nel secolo e mezzo
successivo quell'opera di raffinamento, reazione e revisione per cui si può
anche parlare di antilachmannismo (principalmente J. Bédier e dom H.
Quentin), postlachmannismo (così O. Pasquali e in certo modo M. Barbi)
e, perché no?, neolachmannismo parte della romanistica italiana).
Questa rimeditazione è andata abbastanza avanti perché, abbandonando la
semplice esposizione storica o l'insegnamento precettistico della dottrina, si
tenti di formulare quelle esperienze in enunciati il più possibile
razionalizzati e organicamente seriati, in cui trovino il loro luogo anche gli
agganci a rami di filologia in prima istanza non testuale grazie a una
generalizzazione che corrisponde alla riduzione, al limite, della filologia alla
critica testuale.
Unicità e plurivocità del testo. - La prima cautela da adottare consiste nel
determinare se il testo che si tratta di riprodurre o ricostruire sia uno o più.
Geometria e fisica muovono da definizioni intuitive e da convenzioni
semplificanti (corpo senza dimensioni e senza massa, ecc.): qui conviene
assumere solo a ragion veduta la puntualità dei testi e degli antigrafi nei vari
stati. Non è lecito mescolare redazioni distinte: pericolo da cui vuoi
preservare la dottrina bedieriana del manoscritto unico da seguire, la quale,
con tutte le riserve che suscita, è pure un tentativo di salvaguardia contro le
edizioni composite. Quando la recensione della tradizione manoscritta
mette in luce solo opposizioni di varianti adiafore, sono da riconoscere più
redazioni (di autore o no), che devono formare oggetto di altrettante
edizioni (come fece precisamente Bédier aggiungendo nel 1928 un'edizione
del Lai de l'ombre secondo il codice E alla propria del 1913 secondo A e
all'antica del Jubinal secondo F). Che tali edizioni siano separate e integre o
risultino da apparati, a rigore distinti, è irrilevante, poiché fin d'ora si può
ripetere delle forme di edizione il famoso detto del Croce sulle forme di
critica, che ognuna è buona quando è buona.
Corollari editoriali. - Se la recensione di una tradizione svela opposizioni non
solo di varianti adiafore ma di veri e propri errori, s'intende di tipo
monogenetico, l'edizione dovrà essere depurata di tali errori (sanati se si
può, altrimenti contrassegnati dalla crux interpretum), mentre la scelta delle
lezioni indifferenti prudenzialmente dovrà portare sempre, organicamente,
verso la medesima fonte. In tale evenienza è meno urgente provvedere,
restando ovviamente completo l'apparato, a separate edizioni, poiché si
tratta di rifacimenti operati su un archetipo già corrotto. Che su questa
copia abbia potuto lavorare l'autore stesso, e che di conseguenza l'abbia
promossa a equivalente dell'originale, non si può naturalmente escludere,
ma la probabilità di autorevolezza è fortemente diminuita. Un caso
paradigmatico è costituito dal Libro de buen amor di J. Ruiz, di cui si sono
ravvisate, e forse si ravvisano ancora pacificamente, due redazioni con date
distinte, finché l'edizione di G. Chiarini non ha provato l'esistenza d'un
archetipo sul fondamento di errori comuni e ha reso quindi perlomeno
discutibile la presenza di redazioni d'autore.
Opere postume incompiute. - La maggior difficoltà editoriale oggettiva è
proposta da opere postume incompiute, che presentano frammenti e
redazioni sostitutive o alternative, magari accompagnate da abbozzi di
sommari non esaurienti o contraddittori. Gli antenati dei capolavori
postumi sono il De rerum natura e l'Eneide, a cui peraltro sembra esser
mancata solo l'ultima mano, come rivelano forse per Lucrezio le numerose
opportunità, avanzate dalla critica moderna, di spostamento di versi,
per Virgilio i da lui chiamati ‟puntelli" (tibicines); difficile è comunque
ritrovare la tecnica, probabilmente ispirata a pietas, di Cicerone o di Tucca e
Vario editori. Sogliono invece essere oggetti di vituperio, o al minimo di
serie riserve, i primi editori di capidopera moderni come
le Grazie foscoliane, il libro linguistico manzoniano, i frammenti di
Hölderlin o, più vicino a noi, certi inediti di Proust (Jean Santeuil, Contre
Sainte-Beuve), i romanzi di Kafka, la gran summa narrativa di Musil. Certo si
può fare, e spesso fortunatamente si è fatto, di meglio; ma è istruttivo, per
tornare sul primo caso soltanto, che il saggio del Barbi (1934) non sia stato
a tutt'oggi seguito da un'adeguata edizione delle Grazie. Sono problemi
singoli, ognuno con i suoi particolari di struttura e di cronologia relativa, e
passibili di altrettante, non si dice soluzioni, ma serie di soluzioni
proporzionate a diverse teleologie. Le edizioni condannate sono mosse
meno di quanto si affetti di credere da vili motivi, o d'insufficienza tecnica
o peggio di speculazione commerciale: benché nemmeno a questa si
dovrebbe negare ogni gratitudine, se fu il solo meccanismo atto a
procurarci almeno una qualche conoscenza, sia pure imperfetta, di opere di
tal livello. Per fare un esempio non bruciante, e del resto non incompiuto, è
possibile che le Confessioni del Nievo, trattate con le forbici e alterate
perfino nel titolo, solo a patto di queste manipolazioni siano state
conosciute prima. Ma la preoccupazione di leggibilità, qui attuata così
rozzamente, si può estrapolare in ben altra accezione: lo zelo, animato da
devozione (quale non si potrebbe certo negare a M. Brod per Kafka o ad
A. Frisé per Musil), di un'opera che sia un'opera, intorno alla quale poter
girare. Un'edizione assolutamente scientifica, quale è ovviamente
augurabile, non però sempre necessariamente in prima istanza, paga un
pedaggio di ‛illeggibilità'. Leggibilità e illeggibilità, quasi in una sorta di
principio d'indeterminazione, corrispondono a funzioni diverse della
fruizione letteraria. È comprensibile che chi si preoccupa della ‛vita' di una
scrittura, fino al punto di supplirvi, per incongrua generosità, con estratti
dalla sua propria, respinga nel gelo del museo o nella polvere dell'archivio
ciò che in qualche caso rischia di essere una caricatura della filologia.
Il testo nel tempo. - I freni pragmatici che possono intervenire innanzi a un
testo non perfettamente eseguito, debbono cedere al rigore innanzi a un
testo eseguito, di esistenza incontestabile, e già conosciuto in un modo che
semmai solo retrospettivamente si potrà qualificare di provvisorio. La
filologia, quando ne ha i mezzi, riapre questo testo chiuso e statico, lo fa
aperto e dinamico, lo ripropone nel tempo. La riapertura si opera in
direzioni opposte, dopo e prima del testo. La determinazione di quella che
si prende per norma, cioè la redazione ultima, non è priva di difficoltà. Per
rendersi conto di questa frequente aporia basterà rifarsi all'esperienza
autobiografica di qualsiasi produttore di letteratura. Un medesimo
manoscritto, o più verosimilmente dattiloscritto, venga usufruito in più
occasioni similari, anche abbastanza ravvicinate, e la lezione sottoposta a
lievi correzioni migliorative ogni volta in bozze senza che ne sia tenuto
registro: correzioni, in pratica, dimenticate. Se di tali pagine l'interessato
vorrà finalmente dare un testo definitivo, posto che pure si conceda per
finire quello scrupolo che meglio si eroga altrui, si può tenere per certo che,
poiché l'acuzie correttoria è discontinua, egli sceglierà, indipendentemente
dal livello, le variazioni più approfondenti, senza inibirsene di nuove oltre
questa mobile cresta. Un editore ‛terzo' non potrà certo seguire una tale
procedura, ma, quando il miglioramento non sia documentariamente
univoco, meglio lo rifugerà tutto in apparato, distinguendo le sedi (anche se
riuscisse a individuare l'esemplare letteralmente licenziato alla data più
bassa). Qualcosa di simile avviene quando qualche implacabile correttore di
se stesso lascia suggerimenti su più copie di una sua stampa, oppure, anche
se su una copia sola, ne lascia alcuni di stabili, altri di eventuali - come
quelli dai medievali contrassegnati mediante al(iter) -, altri di alternativi pur
non sussistendo dubbi sulla condanna dell'elemento da surrogare. Solo la
porzione certa potrà essere ospitata a testo, pur dovendosi annotare
(meglio se sinotticamente) ogni altra proposta più instabile, e specialmente
le certezze negative che meriterebbero, se proprio la modalità della
pubblicazione (che offra o simuli una resa compatta) non la renda esosa,
un'apposita connotazione tipografica (altro carattere o corpo). S'intende
che a fini editoriali risulta irrilevante un eventuale giudizio di involuzione
correttoria (quale certo riesce di formulare per lo stesso Baudelaire, per non
dire dei contemporanei che ci lasciano spaesati modificando ciò che era già
patrimonio della nostra memoria), non potendo interferire criteri
assiologici in un ambito oggettivamente formale.
Resa dell'elaborazione testuale. - La direzione opposta, e più vulgata, in cui si
offre lo studio del testo-nel-tempo, è quella della sua elaborazione. Il perno
attorno al quale il punto di vista sembra ribaltarsi è il testo come dato
immobile. Questo postulato, implicito nell'ovvia lettura, è contraddetto
meno dall'altrettanto ovvia pedagogia del testo come prodotto d'una ‛lunga
pazienza' che dalla rappresentazione, inerente alla riflessione di Mallarmé e
soprattutto di Valéry, del testo come prodotto d'un'infinitudine elaborativa
di cui quello fissato è soltanto una sezione, al limite uno spaccato casuale.
È ben probabile che lo stimolo pedagogico sia stato il più attivo nel
promuovere la confezione di edizioni con varianti. La tramutazione del
romanzo manzoniano in ideale metastorico di scrittura, anche dal più
stretto punto di vista formale-grammaticale, spiega la larghissima diffusione
nelle scuole d'un'edizione (quella di R. Folli, più tardi con una ‛chiave' di O.
Boraschi) in cui I promessi sposi del 1840-1842 vengono raccostati alla
falsariga del 1825-1827 mediante artifici tipografici il cui nucleo permane
nell'impaginazione filologica del Caretti; fin dal 1842, del resto, un
concittadino del Manzoni si affrettava a impostare la questione (O. B. De
Capitani d'Arzago, Voci e maniere di dire più spesso mutate ...). Ma che la
grandezza d'un poeta sia anche, orazianamente, nell'accanimento del suo
lavoro, è uno spontaneo orientamento che porta il filologo, neutramente
rispetto ai vantaggi didattici, a rappresentare fisicamente la genesi testuale
d'un capolavoro. Quale musa, altro che tecnica, posto solo il giusto eccesso
di ammirazione per l'oggetto poetico, poteva ispirare le sottigliezze
tipografiche del Moroncini nel rendere l'elaborazione dei Canti e di altre
opere leopardiane, la squisita ingegnosità del Debenedetti nel rendere
quella dei frammenti autografi del Furioso? È significativo che la prima di
simili operazioni filologiche abbia avuto per oggetto uno dei paradigmi
della poesia: gli abbozzi autografi delle rime petrarchesche per cura di
Federico Ubaldini (1642), due secoli e mezzo prima che vi si dedicasse un
campione della filologia positivistica, Karl Appel. La coscienza del lavoro
poetico inerente al momento del simbolismo, coscienza insieme di
oggettualità e di attività, ha aumentato di responsabilità la posizione del
critico anche innanzi a parecchi dei testi citati: la ‛critica delle varianti'
conferma per via sperimentale, aumentandone la certezza e arricchendole
di particolari altrimenti non o meno percettibili, le interpretazioni ottenute
o da ottenersi per via intuitiva, interpretazioni che non sono
necessariamente di segno positivo; nei processi che essa descrive occorre
distinguere i passaggi dal ‛non essere' all'essere poetico, i compensi a
distanza nell'area testuale e le vere e proprie sostituzioni (quali nei due, se
non tre, Manzoni) di personalità espressive ugualmente valide. Una
generalizzazione non può procedere oltre questa sommaria fenomenologia,
ma torna opportuno rilevare un prolungamento che la critica delle varianti
ha potuto avere sul comportamento dell'autore. Di uno dei migliori
contemporanei, G. Ungaretti, un critico attento alle varianti, O. De
Robertis, pubblicò (1945) una raccolta delle Poesie disperse ‟con l'apparato
critico delle varianti di tutte le poesie" e un suo proprio studio.. Da questa
pubblicazione il poeta dovette trarre incoraggiamento a lasciar stampare
due suoi libri successivi, La terra promessa(sottointitolata, è vero, Frammenti)
e Un grido e paesaggi, ugualmente con apparati e studi a cura di amici, e pochi
mesi prima della sua morte, vera edizione postuma in vita, il volume
di Tutte le poesie (Vita d'un uomo) con lo stesso allestimento critico. Questa
restituzione fisica del testo alla sua condizione di caleidoscopica variabilità
(ben altra cosa da semplici variazioni sullo stesso tema) rappresenta un
caso-limite, probabilmente da non riprodursi, che è giusto sia legato
all'ultimo, per quanto pare, dei poeti simbolisti. Un incoraggiamento alla
considerazione poetica di questo materiale, non di rado assai più che
semplicemente intermedio e preparatorio, viene dalle arti figurative, che
negli ultimi decenni hanno aggiunto alle da sempre stimate serie di disegni
o schizzi per un'opera l'esposizione delle sinopie accanto agli affreschi
strappati, fonte (come al Camposanto di Pisa) di nuove sicure emozioni.
Varianti d'autore (excursus bibliografico). - Nessuna cultura dispone di una
raccolta manualistica di correzioni d'autore fatta a uso scolastico come la
francese, col ristampatissimo trattatello di A. Albalat (1856-1935). Le travail
du style enseigné par les corrections manuscrites des grands écrivains (la cui 1a edizione
è del 1903). Gli esempi, spesso stupendi, vorrebbero mostrare come si
impara a scrivere (o anche a non scrivere, ciò che vale per Fénelon e
Stendhal), ma per eterogenesi dei fini l'utilità sopravvive. Il commento di
quell'ambiente al materiale radunato (particolarmente abbondante, spesso
appassionante, è quello relativo ai grandi ottocentisti, segnatamente
Chateaubriand e anche Hugo) è di regola aneddotico, generico e comunque
didattico, anche sotto pregiate penne: P. Hazard, trattando
degli Abencérages, parla (in ‟Journal des savants", nuova serie, 1935, XXIII,
p. 214) dei ‟secrets de l'art d'écrire"; H. Guillemin, a proposito d'un poemetto
di Lamartine, scrive (in ‟Trivium", I, f. 4) che peu importe le travail du style. Il
ne s'agit plus de cela". Solo l'esperienza idealistica poteva avviare a un ‛uso
critico di quei reperti, come accadde infatti nell'università tedesca: per
Hugo ad esempio è pregevole la sistematicità di H. Heiss (sulle Odes et
ballades, in ‟Zeitschrift für französische Sprache und Literatur", 1912-1913,
XL, pp. 1-48). A una teorizzazione giunge addirittura A. Franz (Aus Victor
Hugos Werkstatt. Auswertung der Manuskripte der Sammlung ‛Les
Contemplations', in ‟Giessener Beiträge zur romanischen Philologie", 1929,
Zusatzheffe V, e 1934, IX; singoli componimenti sono studiati anche in
‟Germanisch-Romanische Monatsschrift", 1925, XIII, pp. 471-486, e in
‟Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen", 1929,
CLV, pp. 211-228, e 1929, CLVI, pp. 53-65). Il Franz oppone una tipologia
dinamica delle varianti alla considerazione ristrettamente stilistica e
apologetica dei colleghi francesi (si oppone infatti a ogni valutazione: ‟Ho
evitato al possibile giudizi di valore. Dagli eruditi la poesia non dev'essere
lodata o biasimata, bensì riconosciuta"). L'analisi genetica non procede da
un preesistente contenuto alla forma, ma al contrario: l'evoluzione della
poesia è condizionata dal ‟tipo di formulazione poetico-linguistica". Lo
studio dell'elaborazione testuale può fondarsi o sulla comparazione con
elementi esterni o su un'analisi interna, e perciò considerare il testo o come
funzione (biografica) o come potenza. Lo studio filologico e documentario
delle varianti tratterebbe le redazioni primitive come potenza e l'ultima
come funzione. Questa morfologia positivistica non oltrepassa dunque la
soglia dell'interpretazione, varcata per esempio dal Heiss. Ci vuole qualcosa
più della sistemazione del Franz perché nello studio delle varianti si trovi
superato, come asserisce K. Wais nella sua bella raccoltina di Doppelfassungen
französischer Lyrik von Marot bis Valéry (Halle 1936), il conflitto di filologia
idealistica e di filologia positivistica. Anche il Wais oppone, sia pur
discretamente, a un metodo francese di perfezione stilistica puntuale un
altro metodo, per il quale cita a modelli, oltre il Franz, J. Petersen
(sul Mondlied di Goethe) e I. Zimmermann (sulla Droste-Hülshoff), e
inoltre, per quanto attiene alle doppie redazioni, E.
Ermatinger(sul Meister goethiano e sugli Hymnen an die Nacht di Novalis). È
significativo che una recente silloge di scritti su Texte und Varianten sia stata
elaborata in ambito germanico (v. Martens e Zeller, 1971).
L'edizione nel tempo. - Posta l'esistenza di un autografo o altro documento
autorizzato, anche la sua riproduzione è critica Ogni edizione è
interpretativa: non esiste una edizione-tipo, poiché l'edizione è pure nel
tempo, aprendosi nel pragma e facendo sottostare le sue decisioni a una
teleologia variabile. All'ambizione di un testo-nel-tempo corrisponde altresì
l'elasticità d'un'edizione-nel-tempo. La raffinatezza dei mezzi meccanici si
può ormai caricare di ogni responsabilità nell'ottenimento di un equivalente
del documento, liberando il valore totalmente mentale della riproduzione
critica.
Rettifica degli autografi. - Se perfino la dottrina del manoscritto unico (Bédier)
suggerisce la correzione degli errori detti ‛evidenti', nemmeno gli autografi
si sottraggono a questa necessità. Ciò che è ambiguo è solo la definizione di
‛evidenza', che, come sempre che la si invochi, non può rispondere a un
reale consensus omnium ed è smentita dalla sua plurivoca applicazione, e che
pertanto si traduce nella conformità a un ragionamento di economia. Per
esempio: se l'edizione del Teseida si conduce secondo l'autografo, non è
detto che se ne debba accettare anche l'unico endecasillabo di tredici sillabe
come frutto d'imperizia o come soluzione provvisoria, raccomandate
entrambe a un indice statistico troppo vicino a zero. L'economia impone la
rettifica di ciò che andrà predicato svista, così come sarebbe pusillanime
l'eventuale editore di Paul Valéry il quale pretendesse mantenere un verso
crescente (‟Comme l'ongle de l'orteil") che effettivamente esiste in una sua
stampa, se essa fosse unica: questo implicherebbe una fisionomia
dell'autore troppo alterata, l'ipotesi conservativa risulterebbe troppo
onerosa rispetto alla (presunta) congettura ‟Comme ongle"ecc. (che
naturalmente si trova invece sempre, prima e dopo), anche se tale
congettura indubbiamente sforzi la sintassi (il che giustifica l'errore del
tipografo). Altrettanto gravida d'implicazioni sarebbe l'ipotesi conservativa
nel caso del Boccaccio, le cui copie di opere altrui o anche proprie,
compreso il rivendicatogli manoscitto Hamilton del Decameron, sono infatti
tutt'altro che ineccepibili. In tali casi è utile, poiché la serialità aumenta la
certezza della correzione, procurare di descrivere una morfologia delle
sviste. È facile constatare che quelle puramente grafiche si classificano
sotto categorie (anticipo, ripetizione, omissione ecc.) che ordinatamente
corrispondono a quelle, prima patologiche, poi fisiologiche (assimilazione o
dissimilazione regressiva e progressiva, sincope ecc.), proprie
dell'evoluzione linguistica, particolarmente fonetica. Se ne estrapola una
cibernetica sola.
Edizione diplomatica. - Per l'indicata perfezione raggiunta dalla meccanica,
l'edizione diplomatica, utilissima un giorno, ha una sfera d'applicazione in
diritto, se non in fatto, sempre più limitata. Essa rappresenta un puro
aumento di leggibilità, e in realtà viene spesso giustapposta, passibile com'è
oltre al resto di misurazioni topografiche, al facsimile fototipico, spesso
trasparente solo dopo una lunga assuefazione (un caso-limite può esser
quello della Seconda Centuria polizianea). Una fattispecie degna di rilievo si
ha nella traslitterazione (per esempio di testi arabo-ispanici o giudeo-
romanzi). La sua minuzia o disinvoltura è in stretta proporzione con la
confidenza acquisita in quel distretto scientifico, e dunque s'inscrive sotto
l'epigrafe di edizione-nel-tempo. Solo tale confidenza può indurre a
trascurare le ridondanze o le equivalenze, accettando il procedimento a
senso unico per cui la sostanza del punto di arrivo è integra, ma non si
potrebbe ricostruire univocamente la grafia del punto di partenza, in una
sorta di ‛uguaglianza a destra'. Di tale confidenza ha dato un luminoso
esempio il Cassuto nella trascrizione dell'Elegia giudeo-italiana, e ciò che
può frenarne l'imitazione è solo la perdurante asimmetria nella competenza
bilingue.
Edizione interpretativa. - Di un autografo (o suo equivalente) l'edizione
interpretativa riproduce ciò che interessa e omette, intenzionalmente o
spontaneamente, ciò che non interessa. In sostanza essa è la traduzione o
adattamento di un sistema, storicamente individuato, in altro sistema; nulla
di categoriale la distingue dalla traslitterazione, se non il fatto che per
l'autore e per l'editore vige una stessa convenzione di base, non però
assolutamente identica, ciò che rischia di sottrarre la coscienza delle
differenze a un'assidua vigilanza. Elementi funzionali possono assumere
una consistenza oggettiva, ma il limite fra funzionalità e oggettività, più
spesso fissabile automaticamente, può risultare solo al termine d'uno
scrutinio critico. Le opposizioni hanno luogo tra sostanza linguistica e
rappresentazione (come tra fonetica e grafia) e tra rappresentazione e
coscienza della rappresentazione. La distinzione di u e v come, dove
occorra, di i e j si fa per accordo universale (a cui si vorrebbe partecipasse
più costantemente la filologia spagnola, in cui edizioni famose arrivano a
distinguere tra le varie forme di s o di r), ma distinzione e indistinzione
possono essere inglobate nell'oggetto stesso dell'espressione, come accade
al Manzoni per l'indistinzione di u e v e per gli altri antichi usi grafici nel
presunto Anonimo della sua Introduzione, o al Gozzano per la forma
‛italica' della s nelle vecchie carte (‟Isola Sconosciuta", che nell'esecuzione
vocale sarà stata prevista, conforme alla ‛semicultura' vulgata, come f o
come la pronuncia blesa di s). D'altra parte un famoso acrostico di Dante
(Purg. XII, 25 ss.), supponendo VOM ma uom, implicherebbe a tutto rigore
che l'indistinzione (in forma diversa per la maiuscola e la minuscola)
venisse estesa all'intera Commedia: il fatto che ciò non accada importa il
giusto prevalere della funzione sul segno strumentale, ma il fatto che il
problema si ponga indica che l'ambivalenza della lettera (o, a rigore, già
dell'ideogramma) tra segno e oggetto - ambivalenza a cui, nella civiltà
alfabetica, si devono esperimenti che vanno dagli Erotopaegnia di Levio
alle Calligrammes di Apollinaire, al lettrisme, a Cummings ecc. - vige talvolta,
ma virtualmente sempre, anche in critica testuale, e sollecita decisioni di
natura problematica. Indipendentemente dai casi in cui la grafia viene
usufruita, come negli ultimi ricordati, ad allotrio scopo figurativo, sia pure
con un eventuale sottofondo vagamente semantico, essa può essere
oggettivata per ragioni strettamente estetiche, sia innovanti sia
tradizionalistiche: lo zelo grafico non è separabile da un certo tipo di stile e,
per citare non scrittori del canone più largo, ma preziosi eccentrici, sarebbe
impensabile stampare o ristampare Dossi, Imbriani o C. E. Gadda senza
rispettare scrupolosamente le loro singolarità, l'uso di j, tré, aqua in Dossi, la
punteggiatura separativa di Imbriani ecc. Ciò vale al massimo per i
riformatori (tale era precisamente il predecessore grammaticale del Dossi,
O. Gherardini), ad esempio il Trissino con le sue nuove lettere. Tuttavia nel
caso del Trissino andrebbero rispettate le sole ‛novità qualificanti o anche i
dati coevi normalmente correggibili (indistinzione di u e v, uso delle
maiuscole, punteggiatura ecc.)? Il problema sorge perché si tratta di autore
abbastanza antico, staccato dalla continuità con le attuali convenzioni e
appartenente a un altro tipo di cultura grafica. È questo iato, superato
normalmente da un'automatica trascrizione fatta d'ufficio, che pone
decisioni drammatiche quando qualche elemento del sistema perento, già
allora contestato, stesse a cuore all'autore del testo da pubblicarsi: il
Debenedetti l'ha messo nel competente rilievo per il caso dell'h-ariostesca,
d'un autore cioè per cui, diceva, togliere l'h all'huomo e all'honore tanto valeva
quanto togliere all'uno umanità, all'altro onorabilità. Si crea cioè una
discontinuità o rispetto alla coerenza passata o rispetto alla fisionomia
presente oggi nella repubblica delle lettere. La commutazione del sistema,
inevitabile per un autore mediamente antico, porta con sé alcune
contraddizioni, che sono variabili in rapporto alla finalità che l'edizione si
prefigge. Se si vuol dare un'edizione del Petrarca latino secondo gli
autografi (o, mancando questi, secondo l'uso comune a lui e al suo tempo),
nessun dubbio che vada scritto -e, nichil ecc., ma se si persegue uno scopo
divulgativo, sarà lecito scrivere -ae, nihil ecc., secondo tavole di
traslitterazione nel complesso meccaniche. Se però si vuol presentare a un
pubblico anche non specializzato il Petrarca volgare secondo la sua grafia,
come il primo nostro grande di cui si conosca la mano, sorgono situazioni
della cui criticità anche quel pubblico dev'essere cosciente. In una
riproduzione del Canzoniere secondo il manoscritto (Vaticano 3195) o
autografo o, per le parti non autografe, vigilato dall'autore (avendo
avvertenza di segnare i pochissimi trascorsi di patina padana inflitti dal
copista ravennate, per evitare ogni ibridismo, qui almeno insopportabile, di
sostanza fonica toscana e di settentrionale) sarà lecito
mantenere h dovunque sia scritto, in particolare a inizio di parola, ma,
separandosi le parole (e qui segnatamente le proclitiche elise) alla moderna,
e seguendo il Petrarca come tutti la norma grafica scoperta dal Mussafia
(esemplificabile con honore ma lonore = l'onore), si otterrà la soluzione
contraddittoria d'ora in hora. Le frizioni consecutive al cambiamento di
sistema sono soprattutto visibili nella punteggiatura, la cui inserzione in un
testo antico è inserzione di dati di ‛esecuzione' affini a quelli introdotti
dall'ecdotica musicale, ma che si trova a colluttare, per esempio proprio nel
caso del Petrarca, con un sistema originale che adopera segni anche uguali
(punto, punto interrogativo) o affini (comma = virgola) e che mescola del
pari, ma ripartendole diversamente, funzioni semantiche, qualche volta
convenzionali, e funzioni melodiche (oltre ad alcune diacritiche), talché
riesce possibile solo in un numero di casi limitato mettere od omettere un
segno, e lo stesso, nella stessa sede. Le principali difficoltà insorgono infatti
per quegli adattamenti all'‛uso moderno' che oltrepassano i semplici
mutamenti tabulari di grafemi e per i quali, di più, la moda e il gusto
consentono di volta in volta una porzione fissa e una elastica. Così avviene
per la ripartizione di iniziali minuscole e maiuscole, sempreché questa non
sia fissata in modo ferreo, come nel tedesco moderno col suo costume di
ascendenza barocca (benché non esente da contestazioni, valga St. George,
le cui minuscole ai nomi comuni sono tanto sacre quanto l'h- all'Ariosto).
Così, ancora, per la punteggiatura, verso cui assoluto dev'essere il rigore
conservativo quando è assunta nell'espressione (come in Foscolo, Leopardi
e soprattutto Manzoni) ed è razionalizzabile in saldi enunciati (seppure
spesso ancora da studiare come modelli anche storici, la lineetta ‛foscoliana'
di Mazzini, certe virgole ‛manzoniane'); mentre è ammissibile la libertà degli
editori per autori che ‛non vedano' la punteggiatura, e s'intenda sempre
dove non la vedono, come Porta o perfino De Sanctis. La conservazione è
dunque scalare, e la coscienza dell'editore come del lettore risponde a
un'analisi frazionaria. Per tornare a fatti propriamente grafici sempre
esemplificabili nel Petrarca autografo: ç è una pura forma
di z (indifferentemente semplice o doppia, come sottratta alla correlazione
di lunghezza) e può esserne sostituita senza danno (ciò non sarebbe
possibile in antico spagnolo, dove le due lettere erano - spesso nei codici e
oggi di norma dagli editori - addette a una distinzione fra sorda e sonora
non segnata dalla scrittura italiana); t (o c) più i innanzi a vocale risponde a
un uso etimologico (gratia) serbabile qui senza inconvenienti (equivoco
potrà sorgere più tardi quando la scrittura -antia/-entia sarà atta a
rappresentare o la forma di astratto latineggiante, anzi umanisticheggiante, -
anzia/-enzia o addirittura -anza/-enza); la conservazione di -ij per -ii(con la
forma lunga di i non ignota in altre finali, ma normale a differenziare le
aste) risponde invece non a una pietas umanistica (come verso et, nocte,
extremo..., il primo dei quali d'interpretazione del resto ancipite davanti a
vocale fra e e ed), bensì a una pietasmedievalistica, quale sussiste per i numeri
romani nella tipografia inglese (qui si pone solo il problema secondario di
stabilire se in -ii fosse ancora semivocale più vocale o già vocale ‛lunga' da
rendersi oggi meglio con -i che con -ii, o diacritico-etimologicamente con -
î un tempo anche con -j); finalmente nesun, nul'altre, il tipo di
composto adolcire (meno raro di addolcire) - composto con a- che si oppone
a quello con ad-, addorno (oltre che adorno), analogo a inn-anzi, inn-alzare
- presentano, con una probabilità che rasenta la certezza, un autentico
abbreviamento protonico della lunga la cui alterazione dalla grafia
rischierebbe di estendersi alla sostanza fonica. Se possedessimo un
autografo di Dante, e un autografo volgare, possiamo congetturare che si
conformerebbe al canzoniere Vaticano (lat. 3793), al Vaticano-) Chigiano
(LVIII. 305), al codice del cosiddetto Fiore (a Montpellier), oltre che in
particolari di minor interesse comuni a Petrarca, nella scrizione
ridondante cie per ce (cierto, cienere), che tanto più saremmo costretti a
correggere in quanto i rischierebbe di essere preso, cosa capitata e che
seguita a capitare, anche a praticanti della professione editoriale, per segno
di vocale.
Intermediazione tipografica ed editoriale. - Dopo l'invenzione della stampa anche
gli autografi (o equivalenti) sono stati soliti passare attraverso
l'intermediazione tipografica, ciò che importa (prescindendo
dall'introduzione involontaria di errori, quasi sempre troppo flagranti per
essere pericolosi) una forte probabilità di livellamento formale, nelle
migliori tipografie assistite prima da letterati poi da appositi tecnici,
tendenzialmente sistematico. Tali interventi, certo rischiosi quando praticati
da gente che la sapeva più corta degli autori, sono da condannare assai
meno che non si sia consueti fare. Questi letterati o proti sono stati per
secoli i depositari della correttezza grafica e puntatoria, in particolare in
paesi di grafia difficile come la Francia. I grandi del Settecento e del primo
Ottocento, come sanno i loro editori moderni, principalmente quelli dei
loro carteggi (e la cosa vale ancora per Proust), non davano l'ultima cura a
questo aspetto del loro prodotto, destinato a esser rifinito da altre mani. E
tutti sanno che anche in epoca più recente fini letterati non disdegnarono
di limare dall'esterno le scritture di autori provvisti di forte personalità
poetica ma non di robusta cultura alfabetica: scomparsi quei discreti
curatori, duole che nessuna sorveglianza sia più esercitata sui medesimi
autori, lasciati in balia di sgrammaticature non necessarie, e anzi seriamente
riduttive. È un episodio del filologismo caricaturale, esercitato fuori del
competente ambito, scotto di una recente ‛filologia di massa', che giunge a
ingombrare pagine e pagine di libri non destinati a uso principalmente
fabrile con varianti poco significative di autori terziari. Quei depositari della
tradizione trovano un limite alla legittimità del loro operare quando
infliggono retrospettivamente le loro norme ai prodotti d'una precedente
tradizione incompresa. La filologia che in largo senso si può chiamare
laurenziana, per esempio, con tutti i meriti che le vengono dall'aver voluto
costituire una vulgata degli italiani (così nella Raccolta Aragonese) come già
dei classici, eccedette senza dubbio in livellamenti melodici, timbrici e in
genere formali.
Archetipo. - La ricostruzione testuale, come la riproduzione, ha per ovvio
presupposto l'unicità del testo, ne sia l'attestazione unica o plurima. Si è
discusso oziosamente se ciò che si ricostruisce sia l'originale o altra cosa.
Ma sarebbe operazione inane quella che non mirasse all'originale, s'intende
l'originale al limite (dell'attestazione documentaria e della critica interna). La
constatazione che gli enti dell'ecdotica sono ambigui tra punti e segmenti
vale anche per l'oggetto della ricostruzione, che si deve sempre assumere
come equivalente dell'originale tranne prova in contrario: la prova consiste
in ‛errori' (cioè in elementi di cui vicina a zero è la probabilità che
appartengano al punto di partenza), errori di sostanza, siano essi sanabili o
no (nel qual caso vengono contrassegnati da cruces interpretum), o anche
errori di forma. È opportuno riservare il nome di archetipo all'oggetto
ricostruito, cioè l'antenato comune all'intera tradizione, in quanto distinto
dall'originale perché già corrotto: la sua consistenza va sempre dimostrata.
Il Timpanaro ha mostrato che il nome archetypus col semplice valore di
capostipite si trova già in Erasmo, dalla 2a edizione degli Adagia (1538);
mentre di codex archetypus in accezione lachmanniana discorrono già alcuni
contemporanei del Lachmann, in particolare il classicista danese J. N.
Madvig; il Lachmann, nel commento a Lucrezio (1850), rivendica la
definizione come sua: ‟id exemplar ceterorum archetypon (ita appellare soleo)". Ed
eccone il contenuto: ‟Il Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto
che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso a un unico
esemplare già sfigurato di errori e lacune, quello ch'egli chiamava
archetipo" (v. Pasquali, 19522, p. 15). Qui ‛autore', poiché la critica testuale
nasce in filologia classica, vale autore greco o latino. E in astratto si può
anche pensare che l'eccezione sistematica si fondi sopra precise ragioni
culturali: per esempio, ‟che già prima del 900 tutti i classici greci oggi
superstiti (si eccettuano naturalmente i testi ritrovati in papiri) furono
tradotti dalla maiuscola in minuscola, e a un tempo corredati degli accenti e
degli spiriti ormai obbligatori. Un lavoro di tal genere, lungo e fastidioso,
non si fa due volte senza necessità" (ibid.); gli archetipi dei latini sarebbero
stati elaborati in un periodo che dalla cosiddetta ‛Rinascita carolingia' porta,
a ritroso, fino al Tardo Impero. In fatto, G. Pasquali ha dedicato un intero
monumentale volume (Storia della tradizione e critica del testo,Firenze 1934),
nato da una recensione al manualetto lachmanniano del Maas, a casi, tutto
sommato squisiti, di tradizione che oltrepassi l'archetipo lachmanniano. Ma
anche in linea di principio il sospetto prudenziale dell'interposizione di un
archetipo lachmanniano non potrebbe esonerare dalla dimostrazione che
l'oggetto ricostruito non sia un equivalente dell'originale, un (per usare il
termine positivistico-pragmatistico) als ob.
Trasmissione verticale e orizzontale. - Nel caso più semplice, da servire come
parametro per misurare i casi abnormi, la trasmissione è ‟verticale"
(termine del Pasquali), cioè va senza deviazioni di copia in copia e ogni
testimone risale a un solo genitore, ed è univoca, cioè riguarda un testo
fissato senza alternative. Il Pasquali chiama ‟orizzontale" o ‟trasversale"
una tradizione in cui intervenga più di un antigrafo, per contaminazione o
collazione, totale o parziale. Il caso di gran lunga più frequente è quello
della collazione parziale, che è sempre stato, e presumibilmente sarà
sempre, praticato dagli editori speditivi, fedeli a un antigrafo salvo i punti
insoddisfacenti, per cui si ricorre ad altro esemplare: questo
comportamento antilachmanniano può essere proiettato a ritroso sugli
antichi scribi, salva la meno facile disponibilità in quei tempi di altri
esemplari, che spiega il prevalere, nei copisti (purtroppo spesso semicolti)
che vogliano capire il loro testo, dell'emendamento congetturale sulla
collazione. Ci può essere contravvenzione anche all'univocità, nel senso che
l'esemplare può contenere, in interlineo o in margine, varianti redazionali
(nei casi-limite, d'autore), offerte alla scelta dei copiatori.
Ricostruzione. - Dall'attestazione unica si risale verso l'equivalente
dell'originale attraverso eventuali incoerenze e discontinuità di certezza
avvertite nel suo interno. La critica interna, applicandosi a quella
‛proiezione sul piano' che è il manoscritto unico, ne ricava uno spazio e
ricostruisce, detto con altra metafora, una ‛diacronia'. (È acquisito il
parallelismo della critica testuale alla linguistica comparata ed è razionale
proseguire il parallelismo fino alla linguistica strutturale, visto che la
ricostruzione dell'originale è il rintracciamento di uno stato sincronico e
che l'abbandono del manoscritto unico significa ricavare dati diacronici, a
ritroso, dalle disuguaglianze, che sempre ci sono in lingua, di uno stato
sincronico, per ricavare uno stato sincronico più arretrato. La ricostruzione
dell'originale è formalmente assimilabile alla ricostruzione dell'indoeuropeo
meno in Bopp che in de Saussure). Il ricostruito è più vero del documento.
Questo principio non è scosso dalle scorrettezze di procedura che in fatto
possono essere state commesse. Il divieto di Bédier agli interventi ha valore
di semplice monito (storicamente preziosissimo) alla cautela verso gli
arbitri che un'incomposta immaginazione si apre entro il legittimo campo
d'azione della fantasia scientifica. I manoscritti esistenti e tangibili non
sono, come diceva il maestro francese, ‟il nostro bene" se non sono
criticati, cioè interiorizzati: anche la conservazione è una tuzioristica ipotesi
di lavoro.
Critica interna. - La critica interna, quale si esercita sul manoscritto unico, ma
naturalmente quale si esercita anche sugli archetipi e subarchetipi
ricostruiti, si compone di fattispecie e perciò non può essere sottoposta a
generalizzazioni esaurienti. Senza sollevare dubbi in casi singoli
sulla divinatio (con cui peraltro si designa anche la folgorante rapidità e
abbreviazione psicologica di un ragionamento), un maggior grado di
certezza si riesce a misurare quando le proposte risultino seriali. Esse si
riferiscono a elementi della struttura, e dunque iterabili, particolarmente
metrici e ritmici per i testi in verso o in prosa numerosa. Formule che
riflettano una realtà legislativa complessa consentono di evitare eccessi
semplificatori di correzioni, talora denunciati dal loro stesso numero. Tali
formule riescono a portare a uno stato soddisfacente solo una parte di certi
testi, altri scalano secondo un grado di probabilità assai variabile: è allora
materia di discrezione se intervenire tipograficamente in modo diretto, e
fino a che limite, o serbare i risultati della critica a un apparato o altra
sezione didascalica. Gettare la spugna e avvolgere tutto il testo di
una cruxiniziale si può a ragion veduta e con espressa giustificazione (salvo
ovviamente i casi di ricerca riuscita sterile, poiché i tentativi riusciti sono
solo, come avviene di ogni oggetto sperimentale, una parte di quelli
esperiti, e in filologia una parola pronunciabile è a prezzo di molti silenzi
sul proprio lavoro).
Excursus metrico. - Molte brillanti correzioni della filologia classica nel
secolo scorso sono dovute a riconoscimenti metrici non elementari, nel
campo specialmente della poesia drammatica, segnatamente nei comici dai
‛numeri innumeri'. Formule composte o alternative valgono anche per
le chansons de geste francesi, dove il décasyllabe epico tollera già l'apparizione di
qualche alessandrino, e il décasyllabe stesso presenta varie forme di cesura.
La loro imitazione riesce tuttavia senza regola fuori di Francia, nel
repertorio franco-italiano e anche in quello angio-normanno (dove però
balenano complicate situazioni ‛continentali' in chansons a manoscritto
unico, quali i cosiddetti Pèlerinage e Guillaume, oltre al Roland di Oxford, per
non parlare del Gormond che è in octosyllabes). È dubbio che questa licenza
vada estesa alla Spagna del Çid, dove il Menéndez Pidal ha creduto di
portare al dover essere dall'essere l'alternanza del codice unico da dieci a
venti sillabe con prevalere della sistemazione media, mentre è stata indicata,
recentemente dal Chiarini, la strada di alcune sicure normalizzazioni (e
all'accanita conservazione testuale si oppone nell'ultimo Pidal il
frangimento in due mani del prima creduto autore unico). Nella Spagna
medievale è stato ben dimostrato l'anisosillabismo di ciò che esorbita dallo
stretto mester de clerecía(l'Henriquez Urena gli ha dedicato un libro
meritorio), esempio luminoso il verso di arte mayor: compito di una filologia
non rinunciataria, e che voglia foggiarsi uno strumento atto a sondare la
sanità o corruzione ritmica dei testi, è misurare le escursioni, come ha fatto
il Chiarini per la cuaderna vía di Juan Ruiz, opposta alla isosillabica
della clerecía. Formule anisosillabiche sono state di recente studiate
metodicamente nell'antica poesia italiana. Si va dall'escursione massima, e
ben personale, di Iacopone, per il quale soccorre la pluralità dei
manoscritti, all'alternanza di gran lunga più frequente, la quale si verifica
nell'ottonarionovenario (adattamento dell'octosyllabe francese): non avervi
posto mente costrinse il Salvioni a potare in Bescapè una quantità
inverosimile di versi. Finora non si è ottenuto un adeguato coordinamento,
in ordine a questo problema, di critica testuale e filologia musicale, incline
quest'ultima piuttosto a coonestare la variabilità fin dal latino medievale
(ma si oppone l'inconcutibile isosillabismo d'un fenomeno solidalmente
letterario-melodico qual è la poesia trobadorica). Altri limiti da misurare
sono quelli della rima e dell'assonanza, sia nei rapporti reciproci (possibilità
di rime imperfette dal punto di vista consonantico) sia in quanto esse
hanno di comune (registri vocalici sotto accento e dopo). Per la prosa va
segnalata la possibilità di costituire in criterio correttorio le clausole della
prosa d'arte greco-latina ed eventualmente le forme di cursus in quella latina
medievale, coi suoi prolungamenti volgari. Pioniere di simile analisi,
peraltro non ancora, ché sarebbe stato effettivamente prematuro, a scopo
correttorio, è stato per il territorio italiano il Parodi, seguito dallo Schiaffini.
Il fatto che nelle francescane Laudes creaturarumun solo stico sia sprovvisto di
ogni possibile formula di cursus ha indotto a congetturare un supplemento,
‟per lo quale ennallúmini / [noi] la nócte‟ (o ‟[nóie] la nócte").
Parametri plurimi nell'attestazione unica. - Dall'attestazione plurima si risale per
successive induzioni a una figura di identità testuale totale o a tratti solo
probabile. Ad essa torna ad applicarsi la critica interna, la quale è dunque la
sola costante della ricostruzione e fa sì che non ci sia una differenza
qualitativa fra attestazione unica e attestazione plurima dopo sottoposta
a recensio. C'è solo nell'attestazione unica una maggior probabilità di
innovazioni (errori) non avvertibili, che una collazione con altri testimoni
farebbe percepire facilmente. In qualche modo si può dire che la critica
interna supplisca con la pluralità dei suoi parametri alla naturale pluralità e
‛voluminosità' dell'attestazione plurima. Inizialmente infatti essa non di
rado è solo negativa, cioè consente la pura localizzazione del guasto e non
il rimedio; e la localizzazione per di più può essere solo globale e
approssimativa (per es. l'ipermetria o l'ipometria dove non si riesca a
individuare esattamente la sillaba sospetta o il luogo di caduta della sillaba)
o addirittura alternativa (per es. una stilisticamente inammissibile identità di
parola-rima, come più volte nel Fiore, senza che sia palese se si tratti di
ripetizione o di anticipo). Tutto lo sforzo del critico deve consistere allora
nella ricerca di dati (per es. luoghi paralleli all'interno, luoghi paralleli in
altre opere dell'autore, collazione con l'originale se si tratta, come nel caso
del Fiore, di parafrasi pur non vincolante) per riempire la zona colpita di
contenuto positivo e, in particolare, scegliere oggettivamente nei casi
opzionali.
Riduzione nell'attestazione plurima. - L'attestazione plurima costituisce da sola
uno spazio che consente di seriare in cronologia relativa ascendente, e di
eliminare successivamente, le innovazioni subentrate nel testo. La riduzione
fu attuata dapprima con mezzi bonari legittimati dal gran numero, benché
riprovati dalla logica. Uno è la limitazione ai manoscritti più antichi, al
quale il Pasquali (ma già il Semler) giustamente oppone il canone che
enuncia in modo lapidario ‟recentiores, non deteriores": la sparizione dei loro
antigrafi può doversi al caso, ma qualche volta proprio al fatto che ne
esisteva una copia più leggibile o in migliore stato fisico di conservazione.
Tuttavia, poiché la corruzione è per definizione progressiva nel tempo, è
comprensibile che anche in epoca lachmanniana, e perciò presso editori
convinti della necessità teorica d'una recensio esauriente, la presenza d'una
tradizione così abbondante da render possibile, in una vita di editore,
l'edizione solo a prezzo d'una decimazione abbia suggerito di mettere fra
parentesi i manoscritti più recenti. Così ha fatto sistematicamente E.
Langlois per la sua eccellente edizione del Roman de la Rose, l'opera del
Medioevo volgare più diffusa dopo la Commedia (non si scordi che ai suoi
tempi i viaggi erano ben più onerosi, e l'area va dalla California
a Leningrado, da Stoccolma alla Città del Capo, nè erano stati ancora
inventati i microfilms); del resto sondaggi effettuati nell'ampia sfera da lui
trascurata, di codici più tardi del Trecento e di stampe incunabule o
cinquecentesche, hanno rivelato una situazione molto interessante per
quanto spetta alla storia della tradizione, e anche materiale, assente
dall'apparato del Langlois, rinviabile al Duecento, ma nulla suscettibile di
salire a testo. Quanto alla Commedia, l'edizione del Petrocchi si limita per
ora alla prima generazione di manoscritti (con scelta registrazione di
attestazioni più tarde), ma prevede espressamente un nuovo apparato per i
codici recenziori. Col crescere della frequenza, specialmente con apertura a
infiltrazioni ‛orizzontali', gli inconvenienti diminuiscono; ma il gran numero
può essere stimolo ad artifizi non razionali, come quelli ispirati a dom
Quentin dalla pletora statistica della Vulgata. Recisamente da riprovare è
comunque l'altro strumento ingenuo di riduzione, consistente nell'affidarsi
alla maggioranza dei testimoni, s'intenda la maggioranza semplice: basti
riflettere che, se questo criterio fosse valido, la maggioranza potrebb'essere
falsata copiando dei manoscritti presenti, una o più volte, separatamente o
attraverso i derivati. Questa grottesca ipotesi già indica quale sia il solo
criterio preliminare di decimazione lachmannianamente valido, e dunque
obbligatorio: chiamandosi descripti i codici ‛figli', l'eliminatio codicum
descriptorum. Una copia (o copia di copia) si confessa per tale quando
contiene particolarità dichiarabili solo per errata interpretazione di un dato
materiale del modello per es. lacuna corrispondente a un foglio caduto e
non avvertito, oppure saltato), o anche quando contiene tutti gli errori
dell'altro più alcuni specifici. In questo caso potrebbe a rigore trattarsi di
derivazione da un manoscritto identico (manoscritto ‛fratello'), e pertanto
di ciò che si potrebbe definire equivalente di descriptus; ma l'equivalente ha
tutte le proprietà di quello assente a cui equivale e non è oggetto di calcolo
separato. Un bell'esempio di eliminazione di descripti o loro equivalenti è
negli Studi sul Canzoniere di Dante del Barbi, che ha consentito di
semplificare drasticamente la tradizione dei nostri lirici antichi,
sgombrando il regesto caotico per sovrabbondanza di cui è vitando
paradigma il Cavalcanti dell'Arnone.
Metodo lachmanniano. - Il procedimento scientifico di riduzione
dell'attestazione plurima, che porta alla probabilità di una maggioranza
‛qualificata' (su un numero di testimonianze non visibilmente riducibili), si
suol chiamare lachmanniano dal nome di K. Lachmann, autore di molte
edizioni critiche di classici latini, da Properzio (1816) a Lucrezio (1850) - e
il riferimento teoretico è fatto specialmente ai Prolegomena a quest'ultimo
autore -, ma altresì di un Nuovo Testamento greco (e poi anche latino) e di
parecchi testi in mittelhochdeutsch cominciando dai Nibelungi. Che il
Lachmann avesse avuto precursori metodologici nella philologia sacra tedesca
e alemannica del Settecento (Wettstein, Bengel, Semler, Griesbach), aveva
mostrato il Pasquali (v., 1934, cap. I). Ora sulle sue orme il Timpanaro (v.,
1963), in un'indagine sistematica e accuratissima che corrisponde anche a
un'esigenza formulata dal Bédier, ha fatto vedere come al Lachmann,
espositore sovente vago e confusamente oracolare, si siano associati tanti
filologi coevi e conterranei nell'elaborazione del metodo da lui intitolato
che si può discorrere di metodo lachmanniano quasi solo simbolicamente.
Valga dunque l'avvertimento.
Nozione di errore. - L'essenziale della riduzione lachmanniana consiste nel
considerare come testimonianza unica quella di due o più codici coincidenti
in errori comuni, purché verosimilmente non poligenetici. Il calcolo della
maggioranza, della quale accettare la lezione, si effettua dunque non su
individui presenti (esclusi i descripti), ma su famiglie (insiemi che possono
contare anche un individuo solo). La genealogia delle testimonianze si suol
rappresentare in un grafico o albero detto stemma codicum, in cui gli individui
sono contrassegnati con sigle a iniziale maiuscola e le famiglie e
sottofamiglie con lettere minuscole o greche, i rapporti genealogici con
segmenti di verticale (il primo stemma codicum, e con questo nome, fu
tracciato, secondo le ricerche del Timpanaro, da C. T. Zumpt per
le Verrine di Cicerone, 1831, seguì F. Ritschl per l'umanista
bizantino Tommaso Magistro, 1832, e - col nome di stemma - per Plauto,
1849, quindi il Madvig per due orazioni ciceroniane, 1833; concetti
genealogici sono anticipati dai settecentisti Bengler, Semler ed Ernesti, il
primo dei quali discorreva di tabula genealogica). Se si analizzano i singoli
costituenti del processo, ‛errore' designa un'innovazione privilegiata di
percettibilità dal suo stesso guasto; il concetto di errore va estrapolato in
quello di innovazione comunque riconoscibile (non a solo lume di critica
interna), tant'è vero che già il Lachmann stesso si valse per il Nuovo
Testamento di criteri anche geografici, concludendo per la maggiore antichità
- perché a tanto si riduce la bontà - delle lezioni attestate, per usare i
termini invalsi nella linguistica geografica dei primi decenni di questo
secolo, in ‛laterali' rispetto a quelle attestate in ‛aree centrali' (una carta di
atlante linguistico rappresenta la proiezione orizzontale d'una
stratificazione verticale, e analogamente si potrebbero moltiplicare gli
esempi di cronologia relativa ricavabile dalla distribuzione geografica, così
la redazione assonanzata del Roland conservata solo alla periferia,
in Inghilterra col manoscritto di Oxford e in Italia con uno dei manoscritti
franco-italiani di Venezia). La considerazione assiologica, cioè
l'opposizione di ‛cattivo' e ‛buono', ha una parte abbastanza modesta, visto
che non tutte le lezioni ‛cattive' sono in assoluto cattive e che le lezioni
‛buone' sono solo le non cattive. Per un circolo, che non ha nulla di
vizioso, ma su cui è bene richiamare l'incuriosita attenzione dell'operatore,
le lezioni ‛cattive' implicano che si predichino ‛buone' e ‛cattive' alcune
lezioni per sé indifferenti. Si scartano le lezioni dei testimoni rimasti isolati
(procedura lachmanniana, anche se non inaudita prima del Lachmann, che
solo col Maas è stata battezzata eliminatio lectionum singularium) e più in
generale dei raggruppamenti minoritari. Una certa struttura dell'albero non
un diretto giudizio di valore, le condanna, anche se a fondamento del
riconoscimento della figura strutturale sta un giudizio che può offrirsi come
di valore, ma che sempre è di stima cronologica.
Diffrazione. - Il requisito che si chiede all'errore è di essere (probabilmente)
monogenetico. Valore non sicuramente probatorio detengono gli errori per
loro natura suscettibili di essere poligenetici, cioè praticabili da più scribi
indipendenti. E sono proprio i casi in cui più palese appare l'eziologia
dell'errore, e di conseguenza garantita l'erroneità: sia che si tratti di figure
puntuali di ‛distrazione' attuate a livello individuale, come le assimilazioni
specificabili in cadute per omeoteleuto od omeoarchia; sia che si tratti di
figure strutturabili, a livello collettivo, in vere forme culturali quali l'usus
scribendi e la lectio facilior(concetti, benché non termini, passabilmente antichi,
il primo adoperato fin da Aristarco, l'altro di cui il Timpanaro trova una
formulazione precisa da fine Seicento, nel biblista Jean Leclerc). Ognuno
che trascriva da una forma desueta di scrittura è esposto a determinati
equivoci, sempre gli stessi: tanto che spesso si riescono a ‛datare'
trascrizioni e antigrafi. E una forma mal comprensibile rischia di essere o
scambiata con una banale fisicamente vicina o surrogata con un sinonimo
più corrente. Si avverta tuttavia che il criterio della lectio difficilior miete
vittime fra gli apprendisti stregoni, inclini a riconoscere per tale più d'una
insensata deformità. Ma la lectio difficilior può essere soggetta a sostituzioni
non sempre univoche, bensì multiple. Si giunge allora a quella che qualcuno
ha chiamato, traendo il termine dall'ottica, ‛diffrazione', e di cui si può
tracciare sommariamente la tipologia. La lezione originaria è surrogata
(irregolarmente rispetto allo ‛stemma') da varie lezioni per sé indifferenti,
pur persistendo in parte della tradizione (diffrazione in presenza): così se
nella Vita antico-francese di sant'Alessio, v. 40, acatet del codice L
‟procura", detto del padre in riferimento alla sposa cercata per Alessio, è
sostituito dai banali ma divergenti aplaide (A), porchace (P), a quise (SM);
proprio della diffrazione è che la presenza (della lezione originaria) sia di
collocazione instabile. Tuttavia la lezione originaria, assente (qui comincia
la diffrazione in assenza), può essere stata surrogata variamente con lezioni
almeno in parte palesemente erronee: è merito del grande Adolf
Tobler aver congetturato che in Alexis 155, dove i codici danno
o seignor ipermetro (LP) o determinante, per caduta d'una preposizione
monosillabica, errore contestuale (P2, allora ignoto) o sire in caso obliquo
(solecismo) (A) o ami del verso precedente (S), bisognerà congetturare il
raro per maschile ‟coniuge". Di qui è facile inferire che, anche dov'è una
divergenza generale tra varianti per sé indifferenti, come in Alexis 39, che
comincia con or(LM) o ja (A) o et (P) o sil (da ristabilire in si, S), si debba
congetturare una lectio difficiliorprecedente, se ne possa poi, o no, proporre
una soddisfacente (e forse qui si può, ruovet per volt ‟vuole"). È evidente
però che col salto del Tobler si è bucato il tetto della mera recensio,rispetto
alla quale la lectio difficilior (presente) rappresenta un ostacolo sulla via che ha
per fine la scelta automatica, e si è saldata la lectio
difficilior (assente) all'emendatio: la lectio difficilior, anche se eventualmente
inafferrabile, seguita però ad avere il carattere di necessità, imposto da una
certa struttura della tradizione, che ineriva alla scelta lachmanniana. Quella
restituzione translachmanniana che è l'ultimo tipo di diffrazione in assenza
(il tipo imposto dall'associazione di pluralità e banalità delle varianti) cerca
di riempirsi di sostanza testuale, procurandosi un'oggettività nel
reperimento di un elemento costante. Tale è il caso che si offre quando si
constata che divergenze adafore, in V 440, 445 e 465, si verificano in
presenza di merveille, che andrà dunque restituito nel primitivo mereveille. Qui
lo spazio della tradizione plurima raggiunge lo spazio della critica interna,
quale si può esercitare anzitutto sulla tradizione unica. Aumentandone la
certezza con l'iterazione, il canone ricostruttivo della diffrazione si
annuncia come particolarmente fecondo.
Morfologia dello stemma. - Il numero degli enti congetturali (contrassegnati
infatti da minuscole), archetipi, subarchetipi, interpositi, è il minimo
richiesto dalle necessità del ragionamento, non è un numero storicamente
effettuale; quei simboli indicano piuttosto classi o insiemi di individui
(contenenti almeno un individuo) che individui, piuttosto segmenti
(verticali) che punti, o meglio è irrilevante che siano punti o segmenti.
L'aumento arbitrario degli interpositi può essere antieconomico, ma è
innocuo. Tutt'altro regime ha il più alto livello orizzontale, quello delle
famiglie irriducibili, dal cui numero si può ricavare l'eventuale maggioranza
che determina automaticamente la scelta. Esiste un'irrecusabile tendenza
alla loro riduzione, tanto più che un numero non ristretto parrebbe
suggerire presenza di redazioni ‛parallele'; ma, quanto è incomparabilmente
più facile riunire i piani bassi, come si dice, dell'albero che i piani alti, è
salutare lasciare agire il gioco sincero delle probabilità, se non si vuole
vanificare lo sforzo lachmanniano di una ricerca di meccanicità, sottratta al
gusto soggettivo (iudicium).
Recensione aperta. - Le considerazioni qui esposte presuppongono sempre la
‛verticalità' della tradizione. Una tradizione ‛trasversale', cioè che ha
ereditato varianti alternative, o peggio che ha collazionato, puntualmente o
sistematicamente, uno o più concorrenti del suo antigrafo, è una tradizione
contaminata, assai più difficile da ricondurre alla ragione. I critici più
ortodossamente lachmanniani, e in ispecie il Maas, non vedono rimedi
contro la contaminazione; meglio negherebbero l'esistenza di rimedi
generalizzati, poiché ogni realtà offre ostacoli particolari alla
razionalizzazione, che possono imporre comportamenti diversi, fino alla
rinuncia. L'Avalle per esempio ha teorizzato alcuni metodi di cura,
proponendo una robusta ed economica semplificazione secondo
esperienze suggeritegli da canzonieri occitanici e italiani. Ma è da
confessare che la condotta di uno scriba il quale si avvicinasse al costume
dei moderni editori del tipo composito, senza peraltro fornire apparati e
indicazioni sulle fonti, riuscirebbe assai più difficoltosa da ricostruire.
Tralasciando ciò che non può essere generalizzato (il che non significa
affatto che si rinuncia o si esorta a rinunciare a fare), va espressamente
sottolineato che un vivace fattore di ‛recensione aperta', per designarla col
felice termine del Pasquali che l'opponeva alla ‛recensione chiusa' del
modello lachmanniano semplificato, è la memoria. Nella trasmissione per
copia, specialmente di opere (massimamente volgari) molto diffuse,
conosciute almeno in parte a mente, interferisce, come elemento estraneo
alla scrittura, la memoria, sia come intrusione di passi paralleli sia come
ricordo di varianti: è il caso della Commedia, trasmessa non di rado con
ripetizione o anticipo di luoghi più o meno vicini o con innovazioni testuali
la cui diffusione si fa, come ha mostrato il Petrocchi, non verticalmente ma
a macchia d'olio, e difficilmente potrebbe, se non per eccezione, attribuirsi
a confronto con un esemplare più moderno o a scelta effettuata su un
portatore di varianti. Se dalla tradizione scritta si distingue la tradizione
mista di mnemonica, sarebbe errato opporle, come erano tentati di fare
sommariamente studiosi romantico-positivisti, la tradizione orale. È il caso
del Rajna, che, scoperto un nuovo antico testimone dell'Alexis, si sforza di
tracciare uno stemma codicum, ma ne ottiene, per il tratto esaminato, tanti
quanti sono i versi, concludendo che dunque nessuno è valido e che non si
tratta di tradizione scritta ma orale. A parte gli errori di fatto, dovuti alla
costituzione di alberi sul fondamento di lezioni comuni non erronee, e a
parte anche l'inverosimiglianza stilistica, sembrerebbe che con tradizione
orale s'indicasse uno stato caotico e aleatorio, una ‛casualità' sulla quale si
potrebbe essere tentati di intervenire matematicamente applicando il
calcolo delle probabilità (e come in realtà hanno procurato di proporre le
ricerche distribuzionali e tassonomiche degli americani Hill e Dearing). Ma
tradizione scritta e tradizione orale non possono obbedire a logiche formali
diverse: la fenomenologia delle innovazioni in linea di principio è identica,
salvo la maggior escursione nella tradizione orale (e presumibilmente la
maggior interferenza della memoria). Le modalità editoriali diverse della
ricostruzione, dove si tratta piuttosto di seriare i concorrenti (si vedano i
testi popolari ricostruiti dal Barbi e dal Sàntoli), non dipendono solo dalla
minor certezza paleontologica, ma dal fatto, così luminosamente illustrato
dal Menéndez Pidal, che in fondo nessuna redazione è più ‛vera' e
‛autentica' delle altre.
Instabilita' dello stemma. - La maggioranza, per così dire, ‛qualificata' del
Lachmann, se consente un automatismo di scoperta della verità, ha però
anche la proprietà, pregio o vizio, di una virtuale instabilità. Essa è infatti,
come fu rilevato acutamente dal Bédier (che peraltro ricorse, per il suo Lai
de l'ombre, a un casus fictus), alla mercé della scoperta d'un nuovo testimone,
suscettibile di alterare le costellazioni e quindi, in casi privilegiati, anche il
numero delle famiglie. Naturalmente non tutti i nuovi acquisti, quali si
hanno ogni giorno, esercitano un effetto dirompente, anzi: la maggior
parte, com'è naturale, rivelano che quelle che erano fin qui le lectiones
singulares di un altro testimone (chiamiamolo A) sono in tutto o in parte,
conforme alla costante potenziale ambiguità fra individuo e gruppo (fra
punto e segmento), caratteristiche non di A-individuo ma di A- gruppo;
così il citato nuovo codice di Alexis studiato dal Rajna (V), per quanto assai
interessante, si raggruppa con A. Ma è sempre aperta la possibilità che per
il nuovo intervento muti il numero delle famiglie, o anche la loro struttura
(per es., poste più famiglie a, b, c, può darsi che il nuovo testimone
opponga alle loro lezioni comuni lezioni non congetturabili più autorevoli,
costituendosi da solo in famiglia contro la famiglia unica a-b-c e
determinando così stavolta una contrazione del numero). Se n è il numero
dei codici (non descripti), il passaggio a n + 1 determina o può determinare
altrettanti salti di qualità secondo che n = 1 (nel qual caso è anche il
numero delle famiglie) o n = 2 (nel qual caso n è anche il numero delle
famiglie, ma non lo sappiamo per n + 1) o n > 2 (nel qual caso non
sappiamo delle famiglie). L'assenza eventuale di lezione stabile è un vizio
per Bédier, della cui denuncia è questo un punto portante, non abbastanza
rilevato; ma il continuo miglioramento dinamico non si vede come non sia
una qualità positiva. Questa marcia di avvicinamento alla verità, una verità
per così dire frazionaria in opposizione alla verità presuntamente organica
dei singoli testimoni, una verità come diminuzione di errore, sembra un
procedimento degno della scienza.
Questioni di ‛origini'. - Si è potuto rimproverare al metodo lachmanniano di
cominciare ‛dai piedi' anziché ‛dalla testa'. Questo è semmai un titolo di
gloria, se ciò significa muovere dalla storia verso la preistoria.
Un'epistemologia parallela regge critica testuale e ricerca delle ‛origini' in
storia letteraria, anche se storicamente accade che la vischiosità della
tradizione possa generare qualche sfasamento secondo i campi dove è
all'opera una stessa mente. Una fenomenologia romantica guida la
filogenesi, si tratti di epos, dramma, lirica o novella. Il mirabile G.
Paris razionalista che fonda con l'edizione di Alexis (1872) la critica testuale
romanza, strenua applicazione pionieristica di logica formale, non collima
con l'eloquente esemplificatore ancora faurieliano dell'a priori romantico
nell'Histoire poétique de Charlemagne (1865), anche se un'erudizione poi
divenuta norma si studia di colmare indiziariamente i vuoti della presunta
continuità fra il Carlomagno storico e il Carlomagno delle chansons de
geste. Più rigida coerenza stringe il vecchio Rajna - che nell'ultimo lemma
(1930) della sua fluviale bibliografia risospinge in quell'equivalente di
preistoria, com'egli crede, senza certa legge che è la tradizione orale la
trasmissione di Alexis - all'erudito che nelle Origini dell'epopea francese (1884)
si era adoperato a costruire una perduta fase addirittura precarolina
scavando nella storiografia merovingica. Sono romantiche nostalgie di
‛assenza'; a cui si oppone lo zelo bédieriano di ‛presenza'. La formazione
del Bédier era ovviamente parisiana e da tale ortodossia non si allontana
l'articolo sulle feste di maggio, che verte sulle ‛origini' della lirica francese,
ma all'oralità si oppone, nella bellissima edizione di sire Thomas, la
ricostruzione del contenuto, nonché delle parti perdute di Thomas,
dell'archetipo tristaniano (di Chrétien de Troyes?), alla cui fondatezza portò
la controprova la quasi perfetta congruenza col tentativo esperito
contemporaneamente da Wolfgang Golther. Ma già nella sua tesi su un
argomento assegnatogli proprio dal Paris, Les fabliaux (1893), primo
prodotto ante litteram dello strutturalismo letterario, il Bédier aveva infranto
il mito orientalistico, che nella distanza geografica idoleggiava un
equivalente della preistoria, anzi aveva vittoriosamente mostrato la
poligenesi dei temi in astratto e indicato che il culmine della coerenza può
essere un acquisto più tardo (come giacché si sta tracciando un parallelo fra
ecdotica e filologia storico-letteraria - un manoscritto troppo ineccepibile
può essere sospetto di correzione e levigamento). I fabliauxsono ‛presenze',
opere del Millecento e Duecento rispecchianti gusti borghesi di quei secoli,
e allo stesso modo al Bédier, che aveva intrapreso con intenzioni parisiane
lo studio delle chansons de geste, queste apparvero, ben presto, nelle Légendes
épiques (1908 ss.), ‛presenze' dei secoli di loro diffusione, conformi pure a
interessi del tempo. Ciò si armonizza perfettamente con la sua teorizzata
prassi ecdotica generale, specificata proprio nel più antico di quei testi,
il Roland (edizione del 1927), per cui un manoscritto (il ‛miglior'
manoscritto) costituisce un'intangibile ‛presenza'. Entrambi i postulati non
sono rinnovabili come tali, ma presentano l'inestimabile vantaggio di essere
correggibili partendo ‛dai piedi', cioè dal limite documentario (preso dal
Bédier come limite stabile): base reale che la ragione si riserva di fare
oltrepassare. Critica interna e parametri esterni aiutano a invecchiare' la
redazione di Oxford, rimovendone innovazioni. La tesi storico-letteraria,
indubbiamente valida per alcuni individui e per un certo periodo, che in
quanto generalizzata trascende il limite della ‛presenza' (cioè la
collaborazione fra monaci e giullari sulle strade dei grandi pellegrinaggi
dalla prima crociata o, secondo una correzione, dalle pre-crociate di
Spagna), dà adito a varchi cronologici di cui i più sicuri, adunati da un
rilevantissimo impegno collettivo, sono puntuali: oltre al da molto tempo
noto frammento dell'Aia, la glossa Emilianense ‛pubblicata da Dàmaso
Alonso), la coppia onomastica Rolando-Olivieri ecc. Alla continuità
presunta ma impalpabile del momento positivistico fu in particolare
surrogata una continuità tutta letteraria nell'eredità culturale virgiliana
dell'epoca carolingia e capetingia (dal Wilmotte al Chiri e al Curtius); ma
qui il vero scatto fu il reperto di A. Burger, cioè la scoperta di frammenti
metrici latini (di genere affine a quelli dell'Aia) fra i materiali d'impiego
dello pseudo-Turpino, proprio nel Libro di San Giacomo, uno dei testi
ecclesiastici più adoperati dal Bédier. Perfino il Menéndez Pidal
nell'elaborazione del suo grande edificio antibédieriano (La Chanson de
Roland' y el neotradicionalismo, 1959) è indotto a retrocedere passo passo nello
stabilire la nuova continuità (fino, nella sua ricostruzione, a un paio di
secoli da Roncisvalle). Il Bédier, questo irriducibile avversario delle
soluzioni ‛senza continuità', permane dunque un pò' come la coscienza del
momento prima postche anti-bédieriano.
Attestazione binaria. - Una posizione particolarmente delicata offre
l'attestazione binaria, solo apparentemente intermedia fra l'unica e la
plurima. Di fronte alla sicurezza forzosa della prima e alle probabilità di
automatismo inerenti alla seconda, è in continua crisi di libertà, una crisi
buridanea ‟intra due cibi distanti e moventi d'un modo". Essa appare un
guadagno solo dinamicamente: dato un manoscritto unico, il sopravvenire
d'una seconda testimonianza svela ‛errori' da sé non percepibili e
comunque sana con la sua realtà mende mal rimediabili, a ogni modo mal
rimediate. Una dilettazione dei tecnici consiste, in simili casi, nel constatare
quantità e qualità delle divinazioni e degli insuccessi: si ha un criterio per
misurare, addirittura in percentuale, la competenza d'un editore. Ma
staticamente l'attestazione binaria non offre possibilità oggettive di scelta
fra lezioni adiafore e sembrerebbe restaurare, benedizione o condanna che
sia, un campo d'azione per il già esorcizzato iudicium. A evitare ogni arbitrio,
e in particolare la cavillosità che suole regnare sovrana nello stabilire
le difficiliores bisognerebbe dare una doppia edizione (almeno virtuale)
depurata degli errori singoli, purché di erroneità inconcussa. Dell'‛evidenza'
dell'errore la miglior fonte è dopo tutto la comparazione.
Alberi bipartiti. - Eppure il iudicium riesce a imporsi in un ingente numero di
casi anche ad attestazione plurima grazie alla loro riduzione ad attestazione
binaria, forzosa o sollecitata che sia. Il Bédier, nel preparare la sua
2a edizione del Lai de l'ombre (1913), poi più determinatamente nello scritto
del 1928 (La tradition manuscrite du ‛Lai de l'ombre'), fu colpito per primo dalla
singolarità del fatto che la stragrande maggioranza delle edizioni di testi
antichi francesi, ma anche di buon numero di latini e di altre lingue volgari,
si fonda su alberi a due rami, cominciando (ma il Bédier non ne rivela
l'identità) dal primogenito, quello che G; Paris elaborò per Alexis. Dietro
l'osservazione, riconosciuta sostanzialmente esatta anche per la filologia
classica (nonostante gli alberi pluripartiti segnalati dal Pasquali), non stava
una disposizione quasi metafisicamente metodologica, ma un'esperienza
diretta: la 1a edizione bèdieriana (1890) si fondava anch'essa su un albero
bifido, ma una recensione di G. Paris ne proponeva uno a tre rami, che
salvaguardava, a suo dire, l'automatismo; entrato in aporia al momento
della 2a edizione, il Bédier rinunciava a entrambi gli stemmata, il proprio e
quello del maestro e recensore; nè avrebbe poi aderito, per eccellenti
ragioni di merito, alle conseguenze testuali discendenti da un altro albero
tripartito (inclusivo di una contaminazione) proposto da dom H. Quentin
(v., 1926) sul fondamento d'un suo nuovo sconcertante metodo (questo
metodo, che preannuncia gli esperimenti probabilistici prima dell'età dei
calcolatori, prescindeva dalla distinzione di variante ed errore, definiva in
terne di manoscritti la posizione dell'intermediario con argomenti statistici,
ricavava lo stemma saldando le catene parziali). Ma qui non importa
arbitrare il litigio specifico (benché importerebbe moltissimo per un
nominalista qual era il Bédier): l'istruttoria non è stata riaperta da nessuno,
e la ragione, che, per chi legga le argomentazioni del Bédier, sembra stare
dalla parte del Paris, non gli è stata ancora attribuita in appello; è stato
bensì riesaminato l'albero primogenito, quello di Alexis, con la conclusione
che esso era non tripartito ma bipartito solo per errori d'informazione, non
imputabili al Paris, e varrebbe la pena di rifare i calcoli per tutta quella che
un diligente riscontro (Castellani) assicura permanere in complesso la
collezione, l'erbario ecdotico, del Bédier. Importa invece, se la
constatazione del Bédier individua realmente un comportamento degli
editori (e non la davvero maggior probabilità che lo schema binario rifletta
il modo della copiatura, o altra delle escogitazioni oppostele dalla
bibliografia in argomento), trovare una terapia adatta alla patologia. Se
questa, come il Bédier finirà per credere su insinuazione del Roques
(capofila dei seguaci francesi, e non francesi soltanto, del manoscritto
unico), dipende da un prolungamento indebito, fino all'estremo limite,
dell'assillante ricerca delle fautes communes (che trasforma l'opposizione di
innovazione e lezione non innovante in opposizione assiologica di lectio
deterior e potior), occorrerà, non si dice ricercare artificiosamente la
tripartizione o pluripartizione degli alberi, ma applicare una particolare
cautela alla riunione dei piani alti - operazione dopotutto non irreversibile.
Che se poi si trattasse di una malattia dell'inconscio rivendicante sovranità
ultima di scelta (‛egotismo' anziché ‛moralismo' dell'editore), bisognerà
ugualmente portarla, al modo freudiano, alla luce della coscienza. La
formulazione del rimedio non ha, come pedagogica, alcun fulgore di
eleganza, ma si tratta di rovesciare il percorso patologico. Il rimedio del
manoscritto unico, proposto dal Bédier (ma proposto, giova precisare, per i
soli testi letterari del Medioevo volgare dall'enorme libertà di condotta),
non è del resto preservato da inconvenienti flagranti, a parte la stessa
ammissione di errori la cui probabilità è certezza. La correzione delle sole
sviste ‛evidenti' introduce un canone soggettivo dai confini variabili (come
a posteriori mostrano le edizioni d'un testo, quale il Roland di Oxford, su cui
è imperversato il metodo bédieriano ridotto da deposito di angoscia a pigra
moda). Ma soprattutto la scelta del codice è tutta una difficoltà, data
l'impraticabile attuazione generale di tante edizioni quanti i manoscritti. Il
Bédier è primo a sapere che ‛il migliore' non è necessariamente il più
antico, giusta il monito che sarà del Pasquali, nè il più corretto, che
potrebbe dovere la sua levigatezza a uno scriba attento al senso a costo di
interventi. Una definizione oggettiva, elaborata in ambito neo-
lachmanniano, del miglior manoscritto come di quello tanto resistente alla
banalizzazione da offrire la maggior percentuale di lectiones singulares da
conservare, presuppone l'elaborazione d'un'edizione lachmanniana. E
infatti il migliore, o anche solo un buon manoscritto, è solo quello che un
editore lachmanniano, quale per un pezzo fu il Bédier, è in grado d'indicare.
Sostanza e forma testuale. - Il metodo lachmanniano è di validità insomma
integrale per le scritture in latino, greco, ebraico ecc., cioè in una lingua
invariabile e intangibile come la ‛gramatica' dantesca. Vale solo per la
sostanza dei testi volgari, non per la forma, cioè per la fonetica e per la
morfologia, soggette a un'illimitata, e nemmeno di necessità organica,
variabilità geografica e cronologica. La distinzione è stata teorizzata da G.
Paris, sempre nell'edizione di Alexis (1872), che è un adattamento del
lachmannismo alla sostanza romanza, ma il primo codice della
ricostruzione formale. È una distinzione culturale di ambiente,
comprensibile solo in un'epoca stilisticamente bilingue (un medio evo)
dove una fase linguistica è addetta alla sacertà, un'altra al perenne
adattamento di strumenti utili e illimitatamente appropriabili, non protetti,
come si suol dire, dalla proprietà letteraria (e non solo per l'anonimato,
ancora più frequente che per l'altra fase). Naturalmente la variabilità della
forma in largo senso medievale si prolunga, per quanto
in misurainevitabilmente meno violenta, nella variabilità della sostanza,
fondamento esplicitamente sottostante alla rinuncia di Bédier a un testo
critico: la differenza essenziale sta nel fatto che la forma è sottoposta a una
continua poligenesi dell'innovazione (e la sua inorganica proteiformità è
tale che, al limite, ripetendo, per oggettiva iterazione testuale o per errore,
la medesima formula magari a poche sillabe di distanza, lo scriba
medievale, questo ininterrotto collaboratore e concorrente del più spesso
ignoto autore, suole introdurre variazioni formali). La matrice bilingue della
situazione è riscontrabile in parecchie modalità. Il latino medievale
differisce formalmente dal classico nell'aspetto grafico, che può avere solo
indirette implicazioni fonetiche (ancor più raramente morfologiche, come
nel surrogato locativo-accusativale del tipo Parisius ‛a Parigi' stato in e moto
a luogo): basti controllarne qualcuna delle più magistrali descrizioni, tra le
quali ha probabilmente il primo luogo quella premessa dal Rajna alla
sua editio maior (1896) del De vulgari eloquentia.Ciò presuppone la
restaurazione grammaticale operata dalle varie rinascenze, prima la
carolingia: così i più antichi manoscritti di Gregorio di Tours differiscono,
anche se non con stretta organicità, dai postcarolini in ‛errori' morfologici
che nel complesso sembrano riflettere un sincero stato flessivo, qual è
(statisticamente) descritto da M. Bonnet (Le latin de Grégoire de Tours) e dai
suoi continuatori, segnatamente la Vielliard e la scuola americana di H. F.
Muller (Pei, Sas). All'opposto estremo cronologico la ‛classicizzazione' dei
volgari torna a rendere, se non proprio intoccabile, stabile la forma non
meno della sostanza, sicché a fine Quattrocento, per esempio nei paraggi
della Raccolta Aragonese, innovazioni formali o addirittura grafiche
ridiventano significative. Anche nei testi medievali la frontiera tra forma e
sostanza può non esser sempre chiaramente tracciabile: che il futuro e il
condizionale separati dell'antico lombardo (ò cantar, heve cantar) siano
sostituiti dai sinonimi sintetici (cantarò, cantareve), è un fatto di mera
morfologia o di sostanza contenutistica? In realtà quella di forma e di
sostanza è più una polarizzazione che un'opposizione.
Ricostruzione formale. - La ricostruzione formale (in quanto distinta dalla
sostanziale) assume nel suo primo codificatore, il Paris, un aspetto di
oltranza che cresce con le convenzioni adottate nell'editio minor di Alexis. Il
punto di partenza è rappresentato dagli elementi obbiettivi che, trattandosi
d'un testo in versi (assonanzati), sono ricavati dalle distinzioni vocaliche in
rima (oggi si direbbe che se ne può descrivere questa parte del sistema
fonologico originario), e in minor misura da quanto è garantito dal novero
sillabico. Poiché la critica interna fornisce un'ossatura, di solito non la
totalità della forma, si procede a un'integrazione la quale, oltre a estendere i
risultati precedenti fuori dell'ambito strettamente topico, è condotta
secondo la verosimiglianza documentaria di luogo e di tempo. La
ricostruzione linguistica del Paris ha, e sempre più assume, una fisionomia
organica e funzionale che non solo trascende il dato d'archivio, ma è
estranea al comportamento degli scribi medievali: così l'esito di 6 in sillaba
libera è convenzionalmente rappresentato con ou (onour), un punto
sottoscritto evoca il carattere fricativo di -T conservato dopo atona e della
dentale intervocalica, ecc. L'Alexis del Paris inaugura, anche se con raro
vigore intellettuale, la moda traduttoria della filologia positivistica, della
quale si può citare, per la mole del corpus cui è applicata coerentemente la
versione in antico champenois, l'edizione di Chrétien de Troyes allestita dal
Förster. La funzionalità della forma, inclusa la grafia, si oppone alla sua
storicità: sono queste le due contraddittorie componenti d'ogni ortografia
alfabetica (inglese e francese sono paradigmi di tradizionalità, tedesco e
spagnolo di economia), ma qui con storicità si vuole indicare la variabilità e
incostanza della forma medievale. A tale razionalismo paleontologico, che
va ben oltre la doverosa rimozione della patina, obiezioni di fatto sorsero
nella stessa area positivistica. Si citi l'‛ibridismo' regionale dei nostri antichi
testi (specialmente trecenteschi) additato dal Rajna. Ma fu la filologia
dell'idealismo ad assestare i colpi più decisivi contro il costume
indiscriminato della traduzione (specialmente di testi oitanici) a norma della
localizzazione degli autori: ciò ad opera di H. Morf e della sua scuola
(principalmente della decisiva tesi di G. Wacker, 1916,
sulle koinài dell'antico francese), dei cui risultati non per nulla si affrettò a
impadronirsi, divulgandoli ai propri fini, il Vossler. L'attenzione veniva
richiamata sulle lingue chiamate con parola dantesca ‛illustri' (da cui per
esempio in Italia ‛siciliano illustre') o, con richiamo all'antichità, koinài o
finalmente (Gossen) scriptae. Come i dialetti letterari greci, di là dalla loro
origine topografica, erano vincolati a singoli generi, giungendo a
caratterizzarsi per interregionalismi e ipercorrezioni (è il caso del dialetto
epico o omerico); e come in siciliano (da ricostruire) scrivevano poeti nativi
delle più varie regioni d'Italia (l'aveva dimostrato il Cesareo, contro la tesi
del Monaci e ancora del De Bartholomaeis, che la lingua degli antichi
canzonieri mostrasse un ‛contemperamento' originario), e in galiziano-
portoghese poeti delle più varie regioni iberiche: così la moda linguistica
francese si articolava in varie fasi cronologicamente stratificate, di cui
principalmente una conservativa ‛normanna' e una innovativa ‛piccarda',
valide anche oltre i confini primitivi e atte a produrre pure risultati
d'innesto. Erano così demistificati gli sforzi di tanti laureandi tedeschi
tendenti a far nascere in Grenzgebiete (distretti di frontiera), magari contro
loro non equivoche asserzioni, legioni di scrittori di un'epoca che inseriva
tratti del loro (per es. del francien o parlare dell'Isola di Francia) in una
cornice di altro dialetto letterario (per es. il piccardo); ed era giustificato il
fenomeno degli Zwitterreime (rime incrociate), cioè di rime che facevano
baciare parole obbedienti a norme fonetiche contraddittorie (così -che una
volta da -CIA come nel Nord e una volta da -CA come più a sud). I sistemi
linguistici puri si rivelavano come relativamente rari e a ogni modo come
ipotesi di lavoro da maneggiare con la più grande prudenza.
Varia misura di restituzione formale. - Partendo dagli elementi obbiettivi, non
sempre si è autorizzati a una restituzione totale. Se la rima per la sua
flagranza viene a essere la regina delle prove, questa stessa evidenza la
connota come sopravvivente a un'eventuale traduzione e la segnala come
separatamente imitabile: essa si costituisce in parte di lingua speciale.
D'altronde, anche dove non ostano prove specifiche alla liceità della
restituzione, questa può presentarsi come non univoca, e il suo stato di
lingua inquinato nell'astratta ineccepibilità delle corrispondenze da
eccezioni alla norma. Entrambe queste condizioni si verificano a proposito
della rima siciliana, e si verificavano anche prima che brani lirici siciliani
(più antichi o almeno arcaici di qualunque delle numerosissime scritture
siciliane) venissero alla luce (De Bartholomaeis, e poco importa che egli li
prendesse per falsificazioni), e che ne fosse dimostrata la genuinità
(Debenedetti). Lo studioso finlandese Tallgren (-Tuulio) ha mostrato le
difficoltà di ritraduzione insite nelle liriche siciliane e ha formulato con
chiarezza una tipologia di cinque edizioni possibili, dalla più integralmente
ricostruita alla più conservativa rispetto alla tradizione, adottando per
proprio conto una soluzione intermedia, siciliana al limite della
documentazione. Anche le ricostruzioni prodotte successivamente da
studiosi siciliani sono state esperimenti da collocare in appendice o in
contropagina, come quelle degli unica continentali serbati in codici
anglonormanni, cioè di un territorio che, in simbiosi con un senso sillabico
diverso dal francese, non trovava freno alle innovazioni nella coscienza
dello schema. Sennonché all'estremo opposto della in fatto non più
attingibile restituzione perfetta (troppi punti del testo apparterrebbero a
una zona neutra, da tingere in grigio secondo un'immagine inventata ad
altro fine dal Croce) si situa un legittimo istituto elaborato gradualmente
nella traduzione continua dei canzonieri toscani, qual è stata studiata dal
Sanesi: la rima siciliana. Essendo la rima di é con é e di ó con ó tanto
ineccepibile nei primi secoli toscani quanto quella (del resto dovuta a un
altro meccanismo di ritraduzione dal siciliano) di é con ée di ó con ó (per
non citare altri tipi più particolari di rime ammesse), che altrove, come nel
provenzale classico, riuscirebbe un'intollerabile negligenza, correggerla,
livellandola nella direzione del nui che s'infiltra fin nel Cinque maggio come
nell'opposta del brutto lome che suole, o soleva, disonorare il canto di
Farinata, è un ormai insopportabile anacronismo, non forse inventato, ma
definitivamente lanciato, dalla nuova sensibilità armonica della filologia
laurenziana, quanto dire del Poliziano, ma che un po' sorprende di ritrovare
ammesso ancora negli studi diligentissimi del Parodi e nella prassi del
Barbi. Ripristinare la rima siciliana non è supervacaneo archeologismo di
specialisti addetti a componimenti di umbratile nozione, visto che ciò tocca
a Dante, di cui, è vero, non sono sopravvissuti gli autografi, ma anche al
Petrarca, che nell'edizione autorizzata del Canzoniere (benché in questo
punto non autografa) lascia rimare voi con altrui (e per il copista, il
Malpaghini, ravennate, sarebbe stato dialettalmente ricevibile vui). Il Barbi,
così deciso in certe rimozioni (‟anche il pubblico deve abituarsi all'idea
che faccendo sonava nel trecento così bene
come faccenda, e bieci come magnifici, e amichi come ciechi"), e per tale opera
meritoria sembrato lesivo della pietas (ricorda il Pasquali: ‟Uno studioso che
ha fama di giudice sicuro [...] concepiva stranamente le alterazioni
insinuatesi man mano nel testo, non so bene se di Dante o del Petrarca,
quali ‛il contributo dei secoli alla bellezza dell'opera d'arte'"; v. Pasquali,
19522, p. XIV), aveva dunque una sua pietas verso la tradizione. Era
probabilmente un eccesso di dissimilazione da chi credeva ‟che l'essenziale
dell'edizioni critiche consista nelle h, negli u per v, nelle scrizioni
latineggianti". O anche profeticamente si premuniva contro gli eccessi di
conservatorismo, esemplificabili nell'accettare, per gli unica toscani
trasmessi dal canzoniere ‛lombardo' di Niccolò de' Rossi, oltre a tutti gli
endecasillabi di undici sbilenche sillabe come legali, gli e protonici non
passati a i perché potrebbero anche essere senesi (nel caso di non fiorentini
come Cecco Angiolieri); o nello spargere artificiosamente di polvere
vernacola la poesia del Guinizzelli e degli altri antichi bolognesi, la cui
cultura era filtrata attraverso Firenze e la Toscana. Né mancano le giuste
palinodie: chi aveva pubblicato i versi milanesi di Bonvesin da la Riva
espungendo puramente e semplicemente le vocali (soprattutto finali)
caduche, ne ha poi ristampato un buon numero limitandosi a segnare le
puntualmente labili di punto espuntorio sottoscritto. Per un verso, infatti,
benché la cosa sia soltanto grafica, quelle vocali partecipano di una generale
cultura italiana; per altro verso si verificano situazioni di rappresentazione
consonantica legate alla presenza del segno vocalico
(così fag per fagio ricorda incompletamente la convenzione del
digramma gi per ã e ne introduce una nuova equivalente a un
diacritico ç o â). Veramente l'edizione è-nel-tempo.
Apparati e descrizioni formali. - I due limiti opposti, della restituzione malcerta
da non introdurre, lasciando a titolo di vicaria simbolica una
rappresentazione tradizionale, e della correzione sicuramente erronea da
non introdurre, definiscono la ricostruzione formale nella sua ordinaria
amministrazione, il cui conservatorismo può sembrare in definitiva
parallelo a quello sostanziale del Bédier. Il parallelismo va anche più
innanzi: a parità di condizioni, si adotta costantemente la forma di un
testimone, scelto (ma per solito apoditticamente) per ragioni o di antichità
o di congruenza regionale o di sorvegliata organicità. L'apparato formale si
tiene normalmente distinto da quello sostanziale (inclusivo delle forme-
limite), e salvo casi in cui non sia d'inutile ingombro (o non sia di notevole
interesse culturale, com'è per i primi copisti della Commedia) anche
soppresso del tutto, segnati solo i casi di allontanamento dal codice
adottato. Non ci si sottrae all'impressione che la forma passi in seconda
linea innanzi alla sostanza, atteggiamento peraltro rispondente a una saggia
economia della ricerca. Un'accurata descrizione della forma e della stessa
grafia s'impone per i grandi delle cui opere possediamo autografi (Petrarca,
Boccaccio), e anche per i non grandi del Medioevo per cui si dia questa
ventura (da Francesco da Barberino al Sacchetti). Di casi sovrani merita
altrettanto impegno la ricostruzione: così non appaiono certo supervacanee
le cure adibite dal Casella al problema se la Commedia abbia usato forme
dittongate (popolari e moderne) o monottongate (letterarie e arcaizzanti); la
descrizione che l'edizione Barbi fa della lingua adottata per la Vita
nuova, anche se non si può annoverare fra i capolavori del grande filologo, è
diventata paradigmatica per i ‛testi di lingua' come già quelle dell'Ascoli e
del Mussafia per l'antica dialettologia romanza. Anche sono oggetto di zelo
formale i testi molto antichi, più o meno restituibili che siano sotto la
crosta della subita ibridazione (come i poemetti oitanici di Clermont-
Ferrand giunti patinati da mani meridionali), e in genere quelli di aspetto
regionale peregrino. Ci si impegna più in un testo ‛mediano' che in uno
toscano, più in uno toscano periferico che in uno fiorentino. Ma
un'esigenza di totalità di pubblicazione e di spoglio è stata fatta valere
anche per i centri che si presumono più noti, in particolare, e proprio
irradiandosi da Firenze, dal Castellani: esigenza di totalità parallela a quella
che, per la lingua degli autori, studiosi di lingua inglese per primi hanno
fatto penetrare dall'ambito biblico e latino in quello dei classici italiani con
l'allestimento di concordanze, studiosi francesi nel loro campo con la
preparazione di glossario completi. L'esigenza di totalità si riverbera anche
sulla qualità dell'oggetto esaminato, e sprona alla riproduzione, quando il
tipo di tradizione lo suggerisca (Fiore, Angiolieri, ecc.), dei fenomeni
osservati, che possono avere rilevanza fonica: raddoppiamento
fonosintattico (naturalmente automatico per la gran parte dei toscani),
assimilazione ugualmente in sandhi con eventuale successiva
semplificazione in protonia, ecc. È peraltro sempre materia di discrezione
la riproduzione delle ipercorrezioni (in Bonvesin, dei gruppi con L in
esempi come abla e clera; nel laudario Urbinate, dei raddoppiamenti
fonosintattici abnormi, ecc.); le quali informano dello sgretolamento d'uno
stato più antico o della sua importazione. Non problematica appare la
riproduzione degli ibridismi estemporanei, anche se multipli, come avviene
per i testi, non per nulla a manoscritto di norma unico, della letteratura
franco-italiana. (Se invece essi si strutturano grammaticalmente, come U. E.
Paoli ha mostrato per la prosodia macaronica, insorgono possibilità
correttorie).
Diacronia testuale. - La cultura occidentale comincia dal vasto tetto di
Omero, che le varie soluzioni della questione omerica perforano, con
diverse geometrie ma irrimediabilmente, in direzione di stati anteriori da
congetturare in una sorta di proiezione all'inverso. La loro descrizione è nel
complesso metatestuale e mal risolubile nella graficità di un'edizione, dove
al massimo obeli, asterischi, varietà di parentesi e di corpi cristallizzano
visibilmente qualche risultato della critica interna. Ogni filologia ha la sua o
le sue ‛questioni omeriche', non di rado in esplicita analogia con
l'antonomastica: la germanica i Nibelungi (che proprio il Lachmann prese a
studiare, come studiava Omero), la francese il Roland, la spagnola il Çide
così via. Solo chi, come il Bédier, inchioda, poco meno, il proprio oggetto
al tempo della sua prima apparizione poematica, ne accetta anche, come
appena posteriore, la più antica fissazione testuale, spingendosi da una
negativa cautela a un'ingegnosa, addirittura antieconomica, giustificazione
di tutto il presente e mettendo in opera gli strumenti che la retorica delle
scuole ha elaborato per celebrare l'unitarietà dei testi. Invece il Menéndez
Pidal, di mentalità fedele (benché accuratamente evitando l'apriorismo) alla
matrice wolfiana, a un assoluto conservatorismo testuale (pur coonestato
dal paio di secoli che intercorrefra confezione e copia) accompagna la
scissione da chürízon introdotta nei suoi tardi anni. Comunque, se
l'equivalente-dell'originale è un'ipotesi di lavoro per lo più di certezza
discontinua mal rappresentabile quantitativamente nel piano (e anche
dell'originale si esegue un'interpretazione), lo stato dinamico del testo
critico è omogeneo a quello di ogni indagine genetica anche costretta a
un'espressione metatestuale. Questa dinamicità è tanto più da affermare in
quanto è da riconoscere la necessità, in contraddizione o piuttosto
composizione con essa, di piattaforme dove sostare lungo la linea
evolutiva: sincronie intermedie che si oppongono alla sincronia originaria
come limite di un processo diacronico. A quel modo che un'indagine
etimologica non deve obliterare le fasi della storia d'una parola, così la mira
d'una ricerca ecdotica non è sempre di necessità la ricostruzione del testo
primitivo, ma quella di momenti della ‛fortuna' testuale. Il fondamento
all'esortazione verso apparati (di sostanza) completi quanto fisicamente
possibile (salvo al più le sviste servili in luogo di sincere innovazioni) ha lo
scopo di salvaguardare non soltanto, euristicamente, quelle lectiones
singulares che domani potranno, adottate come parametro per saggiare
nuovi individui, rivelarsi lezioni di gruppo, ma il materiale che faccia
conoscere la fisionomia del testo in ogni frazione della sua storia culturale.
Se è facile ritrovare le fonti a stampa attraverso le quali, poniamo, Sainte-
Beuve o De Sanctis hanno conosciuto i testi medievali o anche moderni
(non è affatto indifferente sapere che il De Sanctis, volto com'era al
contenuto, tenne presente tutta la vita la prima edizione - probabilmente
mediata da qualche locale ristampa piratesca - e non mai la seconda
dei Promessi sposi), le cose si fanno meno semplici per altre epoche. E per
cominciare proprio dal sacro testo: per intendere una citazione o un
riferimento biblico fatto da un autore medievale, può ben darsi che nella
stragrande maggioranza dei casi sia lecito bonariamente condursi come se
quello avesse avuto a mano, o piuttosto a mente, al pari di noi, la Vulgata
Sisto-Clementina. Ma in occorrenze puntuali, e superlativamente quando
siano da giudicare antichi volgarizzamenti, l'anacronismo è rigorosamente
impraticabile: giova allora sperare che il luogo sia riscontrabile nell'edizione
Vaticana promossa da Pio XI (inaugurata dalla Genesi di dom Quentin), e
che a quel punto l'apparato sia sufficientemente ricco; altrimenti sarà
remunerativa (poiché la natura del Libro per eccellenza frenava la
molteplicità delle varianti) un'ispezione ai manoscritti che ne abbondano in
ogni grande biblioteca. Peggio vanno le cose quando si tratta di classici
profani. Supponiamo che occorra determinare in che lezione Dante abbia
conosciuto il poema di Lucano. Qui gli strumenti di lavoro disponibili
mancano del tutto, come in genere se si debba accertare la recensione nota
ai tanti, e sempre meglio studiati, traduttori antichi dei classici: le edizioni
disponibili, prodotto di scuole altamente raffinate, mirano esclusivamente
al recupero della lezione originale e perciò sogliono trascurare le edizioni
approntate a partire dal sec. XII, che sono quelle che farebbero all'uopo;
solo un esame, nell'ipotesi che si lavori a Firenze, di quella trentina di copie
della Pharsalia che vi sono conservate, serve a chiarire la situazione. Si apre
perciò alla filologia latina, la primogenita delle filologie moderne, che ha
ultimato nelle sue grandi linee l'elaborazione critica dei suoi testi di epoca
classica, il compito, a prima impressione meno avvincente, di allestire il
regesto della tradizione posteriore alla tarda antichità e all'Alto Medioevo.
Un compito affine sta innanzi a chi voglia conoscere il testo del Roman de la
Rose noto a quell'autore della sua parafrasi in fiorentino, detta Il Fiore, in cui
a qualcuno è sempre parso di ravvisare Dante Alighieri: a questa domanda
risponde molte volte a sufficienza l'edizione del Langlois (che peraltro,
dietro alla communis opinio che lo credeva di un avanzato trecentista, ne
sminuiva l'importanza anche cronologica), più esaurientemente la
tradizione da lui scartata come seriore. È stata descritta l'importanza delle
vere e proprie edizioni, anche se non lachmanniane (perché emendatorie e
puntualmente collative), date di Livio dal Petrarca (Billanovich), più
determinatamente di un largo corpus dantesco (Commedia e Vita nuova con
una scelta di canzoni) dal Boccaccio, di una copiosa scelta dei nostri lirici
antichi dal Magnifico o suoi collaboratori (Poliziano) nella cosiddetta
Raccolta Aragonese. Un'occorrenza estrema s'incontra quando un gruppo
di suoi discendenti, dal quale dipende la Giuntina di rime antiche (1527),
altera meccanicamente, con assimilazione progressiva,
in forosetta il foresetta cavalcantiano e lega al vocabolario italiano un lemma
supposito, da cui a suo tempo Giovanni Faldella ricaverà lo pseudo-
positivo forosa. Siamo abbastanza avanti perché non sia inopportuno
registrare, col Favati, anche le più tenui variazioni formali, fino gli errori
servili.
Poesia ‛popolare' e ‛tradizionale'. - In questo settore, dove sembra fermarsi la
macchina innovatrice della storia, e dove sul punto di partenza viene a
preponderare la tappa, quando non il suo responsabile, è come se si
elaborassero degli apparati autonomi. E al limite, per arduità di
ordinamento cronologico o per dignità di redazione, si può parlare di
equivalenza delle varianti, gli errori si estrapolano in semplici innovazioni e
queste in innovazioni redazionali, per cui diventa inoffensiva fin
l'applicazione del iudicium, con la categoria antilachmanniana di variante (o
almeno di organica redazione) ‛più bella'. I testi più soggetti a simile sorta
di rifacimento sono, beninteso, i canti e altri componimenti ‛popolari',
dove, in attesa della fase di razionalizzazione, è sempre aperta la fase della
raccolta. Aperta in fatto, ma anche aperta in diritto, quando addirittura,
rovesciandosi il movimento romantico dall'ignoto al noto, si conosce il
punto di partenza, cosicché si credette di poter identificare quell'ignoto in
altro noto. Le cose stavano all'inverso. Non i romances spagnoli, ‛cantilene'
per privilegio collettivo sopravvissute, avevano generato, in obbedienza alla
fenomenologia romantica, l'epica spagnola, e particolarmente il Cantar de
myo Çid, ma al contrario, come ben videro il Milà y Fontanals e il Menéndez
y Pelayo, anzi già A. Bello, i romances rappresentano un'evoluzione
successiva dell'epos. Il Menéndez Pidal, magnanimo collettore
di romances, definisce questa forma di poesia come proprietà collettiva,
offerta all'usufrutto e alla partecipazione dell'intera comunità, dove ogni
intervento, firmato o adespoto che sia, su un testo ereditario, o per analogia
su un tema nuovo, ha valore autonomo, col termine tecnico di poesía
tradicional, in opposizione a popular, che sarebbe quella diventata o
‛decaduta' a popolare. In proposito di questa distinzione va introdotto il
suggerimento del Barbi, di grande attrattiva euristica, pur se riferito a un
ramo di filologia ‛tuttora condendo: ricavare dallo studio della poesia che il
Pidal chiama ‟tradicional" (in quanto svolta su temi extraletterari) norme
valide per la trasmissione di quella che il Pidal chiama ‟popular". ‟Io [...] ho
sempre preferito avere lezioni diverse d'un medesimo canto che non canti
nuovi. [...] Quello che avviene ancora, in condizioni molto diverse di
trasmissione, per la poesia popolare, può giovare per risolvere problemi
spinosi circa la poesia dei primi secoli. Illuminerà, per esempio, la questione
della trasmissione delle laudi di tipo più popolare, e di riflesso anche di
quelle di Iacopone; e chiarirà il problema delle antiche stampe di
canzonette e strambotti, particolarmente quello di Leonardo Giustinian su
cui son così diversi i pareri" (v. Barbi, 1938, p. XXXIX). Da allora (1938)
laudi e giustiniane si sono continuate largamente a studiare al modo in
largo senso ‛lachmanniano', cosa legittimata dall'identità di logica che regge
ogni teoria dell'innovazione. Può restare il rimpianto che a testi di
tradizione così frantumata non sia stata ancora recata l'esperienza, non si
dice di un tradicionalista (che per la verità si avverte un po' troppo nel Pidal
editore di testi letterari, peraltro di tradizione ispanicamente molto
semplice), ma di un filologo persuaso della singolarità dei problemi sui
singoli testi, qual era il Barbi, è pur movente da esperienze letterarie e poi
traversante esperienze folcloristiche. Impregnato di fantasia scientifica, egli
ha tracciato il profilo d'un'area analogicamente disponibile a uno spirito
d'invenzione.
Algebra e discorso in ecdotica. - Un ideale di presentazione testuale è altamente
formalizzato, con una figurazione differenziata della discontinuità del reale
rispetto alla razionalità e una frammentazione di apparati sia a scopo
probatorio sia a fini d'informazione storica. Quest'ideale è man mano
diluito secondo gli utenti a cui si destina l'edizione, tuttavia un'accentuata
diffusione del costume filologico (che non è senza contropartite, ma di cui
in questo punto si pongono in rilievo i vantaggi) fa sì che ormai non osti
mevitabilmente alla fruizione dei testi la segnalazione dei dati presentabili
(quando presentabili) con mezzi tipografici elementari, quali i luoghi
incomprensibili della tradizione, le lacune, i supplementi, le altre lezioni
congetturali, le interpolazioni già munite di un lungo prestigio, magari le
varie misure di un testo anisosillabico; in un mondo che non ha più in
vigore il canone di Policleto o altro legislatore estetico, ha dimesso le sue
ultime resistenze - poiché esse venivano da lui ancor più che
dall'immaginario lettore - perfino lo stampatore, giusto cultore di
un'armonia che presupponeva l'inviolabile immobilità del testo. Ciò però
che limita la ‛purezza' algebrica della rappresentazione è la necessità di
discorso: meno ancora per l'impossibilità di descrivere altrimenti soluzioni
probabilistiche, quando si avverta che un intervallo, peggio se di
dimensioni variabili, separa dall'equivalente-dell'originale, che per la
convenienza di giustapporre elementi dell'esegesi. La convenienza di
inglobare dati esegetici alla stessa costituzione del testo è stata praticata dal
Barbi (sotto forma di apposito apparato, non di appendice illustrativa, che
non sarebbe davvero una novità, nell'edizione della Vita nuova, del resto
ispirata alla rainiana del De vulgari), poi anche separatamente affermata. Egli
reclamava la libertà (il discorso, fatto per le Rime dantesche, ha valore
universale) ‟di tentare una critica totalitaria che servisse con ogni mezzo,
compreso il commento, a dar piena ragione del testo, dell'ordinamento e
della stessa autenticità" (v. Barbi, 1938, p. X). ‟[...] Per me l'ideale resta
sempre un'edizione ove il testo sia giustificato da una precisa
interpretazione e illustrazione. Senza giusta interpretazione non si può dar
neppure un'interpunzione corretta [...]: anche per opere di cui s'ha la
fortuna d'avere l'autografo, o l'edizione approvata dall'autore, la precisa
intelligenza del testo è necessaria a voler fare un'edizione che serva ai
bisogni dei lettori moderni, e insieme agli studiosi" (ibid.,p. XXVII). È
probabile che il Barbi intendesse opporsi a una pratica della recensio (o di
materiali per la recensio) senza interpretatio quale non era impossibile trovare
presso qualche cultore del metodo storico: benché l'affermazione di
una recensio anche a patto di rinuncia all'interpretatio avesse una legittimità
storica ben precisa quando l'avanzava un filologo del calibro del
Lachmann, poiché si trattava d'impedire che una volontà umanistica di
capire prevaricasse sulla medesima costituzione del testo. Parlando di
‟critica totalitaria", il Barbi intendeva saldare non viziosamente il circolo tra
una recensio come base dell'interpretatio e un'interpretatio come fondamento
della recensio, movimenti certamente distinti se non contrastanti (o prevale
l'interesse per l'esegesi o prev4e l'interesse per la fissazione testuale), che
un'alta periodicità negli interessi avvicina fino a un desiderio o illusione di
fusione. Nonostante tutto, nell'ardito e fin qui unico propugnatore di una
‟critica totalitaria" il momento esegetico finì col prevalere sul momento
recensorio, posto che precisamente dell'opera che gli ispirò questo ideale,
le Rime di Dante, con poche eccezioni che probabilmente lo configurano
(come il saggio sulla tenzone con Forese Donati), il Barbi finì per dare,
postuma e con l'aiuto di ben governati collaboratori, la sola edizione
commentata, svolta attorno all'immobile testo, non corredato da
giustificazione, prodotto nella stampa del Centenario (testo migliore di ogni
precedente, ma perfettibile e dichiaratamente provvisorio); e i saggi adunati
nella Nuova filologia (titolo che vuol essere anche la definizione di un
programma) vertono soprattutto su varianti d'autore, cioè accentuano il
momento dell'elaborazione con un'intenzione, parallelamente al libro del
Pasquali, translachmanniana; e finalmente uno scritto quasi testamentario
prendeva in esame non più una tradizione manoscritta statica o una
dinamica e tanto meno una popolare, oggetti fino allora delle sue mutabili e
inquiete curiosità, ma una correttoria fino all'ultimo sulle bozze, quella
manzoniana dei Promessi sposi, elaborando un'ulteriore inedita
fenomenologia procedente per studio dei fogli di stampa. Né c'è bisogno di
scendere tanto nel tempo: la pagina della Vita nuova si appaga di un primo
apparato testuale ridottissimo, contenuto nei piani alti dell'albero e perciò
in sostanza riserva di alternative discutibili, mentre altre sedi prefatorie
sono deputate a ospitare con la debita microscopia i procedimenti
lachmanniani e quelli della ricostruzione formale: quasi l'immenso tempo
loro dedicato fosse adibito a un uso, non certo allotrio, ma puramente
negativo e servile. La soppressione degli apparati nell'edizione dei soli testi
danteschi, poi nella collezione delle opere commentate, risponde
sicuramente a necessità pratiche, ma che devono essere state accolte senza
sacrificio, se non con soddisfazione, da un temperamento interamente
dedito all'istante della lettura; e ciò concomita con l'aspetto decisamente
non specialistico, fuori di sostanziose innovazioni, della sua presentazione
formale. Nonostante le innumerevoli tavole di varianti e descrizioni
codicologiche (specialmente negli Studi, destinati a una straordinaria
fortuna recente), il Barbi ha decisamente scelto la parte non del tecnico, ma
dell'umanista.
Arte allusiva. - Una presentazione portatrice di esegesi tende naturalmente a
dissociarsi da una presentazione formalizzata. Ciò che agevola il compito
dell'avvicinamento è il fatto che quest'ultima; la cui ‛purezza' consisterebbe
nel rappresentare meramente o l'approssimazione dell'autore o quella dello
storico al testo, nella sua reale configurazione persegue più finalità (che a
rigore possono esser trattate in edizioni separate) e raccoglie una somma di
informazioni non omogenee: tale, rispetto all'oggettivazione del testo, la
sua storia o ‛fortuna', tale e sarà magari lo stesso materiale da altri punti di
vista - la raccolta dei dati provvisti di una virtualità che potrà anche non
realizzarsi mai (se il caso non esibirà incrementi dell'inventario) o
semplicemente offerti a un controllo. Il ‛genere' è già abbastanza
composito da tollerare la presenza di altre informazioni, le quali
ripropongano puntuali aspetti della cultura dell'autore (o del pubblico da lui
immaginato), cultura esplicita o implicita o magari inconscia, tali da
metterci nella distanza originaria. Un'estensione canonica, marginale o
parentetica (come per i luoghi paralleli nelle edizioni ecclesiastiche della
Scrittura, maestre involontarie di tanti artifici ecdotici) o invece riservata a
un apparato apposito, si fa per le vere e proprie citazioni. Un problema
rilevante suscita in cambio quella detta dal Pasquali (nel titolo del saggio
poi messo ad apertura di Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951, p. 11)
‟arte allusiva", non reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni
e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le
imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni
non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi
chiaramente del testo a cui si riferiscono". Nocciolo della comunicazione
del Pasquali sono, sulle tracce degli antichi commentatori e dei più raffinati
moderni (E. Norden), passi virgiliani che acquistano tutto il loro sapore
quando traspaia la filigrana di Vario o di Ennio o di Varrone Atacino; una
bell'aggiunta recente (G. B. Conte, Memoria dei poeti e arte allusiva, ora
in Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974) fa scorgere Catullo dietro
Virgilio entro un contesto emulativo omerico. In casi estremi, cioè in
centoni dichiarati, quali ebbero cari la tarda antichità e l'Alto Medioevo,
soprattutto attorno a Omero e a Virgilio, un apparato è tenuto a
identificare gli ingredienti; ma anche di arte allusiva vi è un settore che
giunge addirittura a essere segnalabile a testo, se il verso bucolico ‟Perdita
nec serae meminit decedere nocti" è virgolettabile come, per indicazione di
Macrobio, desunto da Vario, o, si può aggiungere, nella canzone
petrarchesca Lasso me deve subire questo trattamento ogni verso finale di
stanza come incipit di altrettante canzoni (Arnaut Daniel o chi per esso,
Cavalcanti, Dante ecc.). Il procedimento è legittimo perché si tratta di un
elemento dell'‛esecuzione' testuale, pronunciato appunto fra virgolette:
perciò anche la chiave ne è essenziale, e appartiene idealmente a una fascia
privilegiata di commento, distinguendosi dai subalterni sussidi di erudizione
antiquaria; quella fascia o apparato speciale in cui andranno dichiarate per
intero le variazioni , non segnalabili come le ‛desunzioni' (così Virgilio ‟aut
bucula caelumSuscipiens patulis captavit naribus auras" da Varrone Atacino ‟Et
bos suscipiens caelum - mirabile visu - Naribus aërium patulis decerpsit odorem"). Solo
la proporzione di familiarità è atta a decidere della costituzione
dell'apparato: se in D'Annunzio, per seguire sempre l'esemplificazione del
Pasquali, si legge ‛O voce di colui che primamente /conosce il tremolar
della marina", la reminiscenza dantesca appartiene a una memoria collettiva
talmente ovvia che qualunque segnalazione è superflua, anzi romperebbe il
clima di spicciola complicità culturale che il poeta ha voluto instaurare col
suo lettore; se ne occuperebbe comunque una didascalia post factum, non una
glossa all'attuosità del testo, qui tacita. La discrezione, giusta la finalità
proposta e anche a misura della peregrinità del reperto, arbitrerà la
presenza delle tessere, classiche o volgari ma canoniche, alluse (desunte o
variate), di repertorio o perfino subconsce ad attestazione d'un trauma di
memoria. (Questo è tanto più significativo quanto meno semanticità
inerisce alla formalità timbrica o ritmica della reminiscenza, per esempio se
dei tanti echi danteschi - di aspetto involontario - in Petrarca si considera lo
schema iniziale ‟Al cader d'una pianta che si svelse" come derivato
dall'ugualmente incipitario ‟Al tornar de la mente, che si chiuse"; se poi si
risale agli echi di ugual natura entro uno stesso poeta, si esperisce
tangibilmente la memorabilità sulla quale egli fonda Dante in modo
supremo - il suo assunto di essere un classico). Qualunque campo
ermeneutico, non solo quello dell'arte allusiva, si presta a una
rappresentazione immediata solo parziale. La punteggiatura, dunque una
fase ormai graficamente obbligatoria dell'‛esecuzione', è dirimente per
l'interpretazione, nell'episodio di Cavalcante: ‟Come?/ dicesti ‛elli ebbe'"
(Casella) contro la precedentemente vulgata ‟Come? dicesti? ‛elli ebbe'?";
all'apparato (apparato, e non separato commento, essendo afferente al
testo) è riservata, se la si vuol dare, e si vorrà finché sarà controversa, la
giustificazione; si aggiunga che questa, poiché è fondata su contesti paralleli
(a interpretazione univoca), è suscettibile di citazione abbreviata da quando
si dispone di tante concordanze, e che il crescere di spogli elettronici a
stampa fino all'auspicata confluenza nel Tesoro della Crusca consentirà una
qualche abbreviazione in tutti i casi dove s'impongano riscontri da più testi
e dove non importi solo un lemma isolato, bensì, come di norma, un
lemma in relazione contestuale. Ma nello stesso episodio, in ‟Colui [...] mi
mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno", la punteggiatura è
parlante solo per la mancanza di virgola dopo mena, che importa
riferimento e di forse e di cui come oggetto a mena (la virgola
precedentemente vulgata importava riferimento di cui a colui e quindi
di forse a ebbe), ma solo un discorso può illuminare l'identificazione del
personaggio e anche precisar meglio il ductus grammaticale. Quanto agli
‛enigmi' (e Dante valga anche qui per antonomasia), essi possono essere
intenzionali e qualche volta predicati come tali, e questi sonò
editorialmente irrilevanti, talché il grigio crociano di cui è invogliato ad
avvolgerli il lettore è testualmente innocuo; ma quelle che sono oscurità
solo all'interprete per oltranza retorica o morale, cioè di brevitas o
di expolitio oppure di tabù, se rischiarate poco o nulla, aprono incertezze o
lacune nella comprensione della lettera parallele a quelle verificabili nella
costituzione del testo. S'immagina che la voce recitante, arcanamente
inflessa intorno agli enigmi oggettivi, avrà avuto la fermezza in qualche
modo neutra di chi sa se il piè fermo sia il sinistro o il destro, se il digiuno
di Ugolino l'abbia portato alla tecnofagia o alla morte, ecc., sicché le nostre
risoluzioni o anche irresoluzioni a questo riguardo della partitura
dovrebbero occupare un ‛luogo simile a quello dei dati spettanti al testo,
cioè un apparato piuttosto che un commento. Come una nuova scoperta
testuale rivela vizi (per solito banalizzazioni) altrimenti non avvertiti, così
nuove scoperte esegetiche rivelano retrospettivamente conoscenze
insufficienti nel quotidiano cui non è più possibile adattarsi: forse
l'astensione involontaria più imponente s'è mostrata nella lettura dei
Vangeli da quando uno specialista di diritto orientale (J.D.N. Derrett, Law
in the New Testament, London 1970) ha messo in luce il significato giuridico,
allora universalmente inteso, delle parabole di Gesù. Questa ricerca e
sceveramento d'una sede esegetica più vicina al testo in atto non è oziosa se
vuol significare e come allegorizzare la tendenza a una comprensione
letterale tanto rigorosa quanto, per parte sua, la costituzione della lezione:
una ‟cantica semantica", come la disse il Pagliaro, o ‟grammaticale" o
come altrimenti la si chiami, che può anche riverberarsi su tale costituzione.
Attribuzionismo. - Ultimo vantaggio della ‟critica totalitaria", diceva il Barbi,
quello d'intervenire nelle questioni di autenticità. La generalizzazione è
massima quando nell'attribuzionismo letterario si discerne il fondo comune
all'attribuzionismo per eccellenza, quello figurativo, così come il Pasquali
aveva messo le mani avanti per precisare che l'allusività valeva non meno
per le arti figurative e la musica che per la poesia. Le differenze
fondamentali fra gli aspetti che hanno rivestito i due tipi di ricerca
attributiva risalgono naturalmente al fatto che l'anonimato è, anche per il
Medioevo, condizione meno ordinaria in letteratura che nelle arti figurative,
e che il veicolo letterario si presta ancor meglio a ‛vischiosità' tecniche e a
poetiche spersonalizzanti (nonostante l'imponenza di fenomeni ‛astorici'
come la pittura bizantina e la scultura negra, o la tendenza
all'identificazione anche di somme individualità come Giorgione e Tiziano
giovane o gli impressionisti per certi momenti da cogliere ad annum).
Tuttavia la questione non va posta in astratto, poiché la critica è come
storicamente esiste, e la critica d'arte non solo si realizza in parte rilevante
quale attribuzionismo, e non unicamente sotto le mani dei grandi
‛conoscitori', ma anche al difuori dello stretto attribuzionismo si assetta in
forma attribuzionistica e congetturale, seriando le opere in un fitto
reticolato di consecuzioni culturali: un libro di storia dell'arte assomiglia (ed
è un inconsapevole merito della disciplina, che non stacca giudizio di valore
da giudizio esistenziale) più a un libro di storia letteraria che a un libro di
critica letteraria (in forma romantica e postromantica); la fisionomia
prevalente della sua ricerca è filologica. Tale filologia ha solide basi ‛reali',
archivistiche o artigianali che siano; ma il critico d'arte, che più spesso
conferisce a ‛filologia' un significato limitativo quando non despettivo, dà
pregio sopra quest'argomentazione esterna ai considerandi stilistici che
costituiscono l'argomentazione interna. Una sua formulazione più
elementare, consistente in una morfologia delle figurazioni (panneggi,
mani, nuvole ecc.) che ricorda la sistematica linneana, fu proposta da G.
Morelli, e come ‛morellismo' si designa un attribuzionismo stilematico che
non tocca il livello di stilistico. L'attribuzionismo stilistico, che nelle sue
manifestazioni supreme acquista dalla folgorante rapidità dei passaggi un
aspetto quasi mistico, non s'intende bene, anche in analogia,
vichianamente, se non per averlo praticato: e apparirà allora quello che,
nell'atto stesso di collocare il nuovo incremento, illumina criticamente tutta
la serie delle innovazioni individuali o collettive che determina.
L'attribuzionismo letterario è in prima istanza ‛esterno' (ma anche il
figurativo più raffinato ingloba, fosse pur tacitamente, le prime fasi) e arriva
a cercare gli indizi iniziali addirittura attraverso le probabilità statistiche dei
suoi stemmi. Le divergenze attributive che insorgono tra i canzonieri
medievali, in numero straripante gli occitanici e gli oitanici, tanto più parco
i tedeschi, gli italiani e gli iberici, si cercano anzitutto di dirimere a norma di
maggioranza come ogni altra divergenza di lezione; in alcuni casi, come in
particolare mostrano il Barbi e il Debenedetti, la comparazione degli
ordinamenti, in cui intervennero salti o altre alterazioni, permette una
risposta positiva, o anche negativa, ai quesiti. Ciò non involge che
quest'ambito non sia suscettibile di finissime applicazioni di critica interna,
come la dimostrazione del Monteverdi in ordine all'apocrifia della chansoneta
nueva data a Guglielmo d'Aquitania; ma sembra non essere mai accaduto
che i risultati ottenuti su questa base si siano poi ripercossi sulla
classificazione dei manoscritti. Corrente è anche l'attribuzione su base
stilematica, ma occorre una grande oculatezza nel determinare se un certo
stilema o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma
interna. L'illusione di poter adoperare impunemente i calcolatori elettronici
per una determinazione automatica di paternità su base lessicale o sintattica
(presenza o assenza di vocaboli e locuzioni, loro proporzione numerica,
rapporti fra le parti del discorso, misura media dei segmenti sintattici e, chi
volesse, valori timbrici in percentuale), per esempio al fine di determinare
quali lettere e quali dialoghi pseudo-platonici siano davvero spuri, non
sopravvive che circondata di cautele e riserve presso gli operatori più
accorti, coscienti del fatto che quegli indici, o una loro parte, individuano
strutture di ‛genere', comuni a più personalità, mentre viceversa in uno
stesso individuo convivono più strutture (ciò non toglie che quegli spogli
possano costituire un sussidio rilevantissimo dacché la memoria, elettronica
o fisiologica che sia, è lo strumento essenziale dell'attribuzionista).
Implicitamente per questo, non per pigrizia, editori moderni si
accontentano di costituire appendici di ‛dubbi' (per Cino, Cecco Angiolieri
ecc.). Proprio dell'attribuzionista moderno è comunque di esplicitare gli
istituti sui quali ragiona (così come lo Spitzer ha dettagliato la ‟klassische
Dämpfung" di Racine, e ancor meglio gli ingredienti rabelaisiani dei Contes
drôlatiques per dare un buon voto al Balzac pasticheur): il Foscolo poteva
limitarsi a fiutare aria di falso antico in sonetti di Guittone (come Charles
Dickens subodorò una mano femminile in George Eliot), ma dall'epoca
positiva in qua il sospetto falso antico di documenti non antichi è oggetto
di meno vago scrutinio, dalla controversia su Dante da Maiano allo
smascheramento recente dell'impostore ferrarese Baruffaldi. Ma che posto
ha l'attribuzionismo stilistico in sede letteraria, per esempio nella brillante
dimostrazione proprio del Barbi in ordine alla legittimità d'uno di quei
presunti falsi antichi, la tenzone fra Dante e Forese? Nullo, perché, se
l'autorità dell'uomo ha (salvo forse che per particolari minori) messo a
tacere l'opinione avversa, ciò avviene giustamente, sul fondamento del
comunque previamente necessario ragionamento documentario e anche
stilematico; ma il sobrio Barbi non corona il suo edificio dimostrativo col
fastigio critico del riconoscimento che qui, o anche qui, nasce la
sperimentazione ‛comica' di Dante; mentre si può aggiungere che,
precisamente per questa dilatazione sperimentale verso intentati settori
linguistici, il calcolatore non solo non avrebbe corroborato la tesi, ma
l'avrebbe, maneggiato meccanicamente, semmai confutata. La stessa
posizione occupa, più in grande, il cosiddetto Fiore, per la cui ascrizione a
Dante furono recate prove ‛esterne' talmente robuste da far dire al Parodi,
ormai non più convinto dell'attribuzione, che sarebbero largamente bastate
se si fosse trattato di tutt'altri che di Dante; sono state poi ad- dotte, prima
sparsamente, quindi sistematicamente, prove ‛interne' stilematiche; e
finalmente l'emergere di riscontri via via meno strettamente semantici fino
ai fonici e ritmici puri, attestanti la ‛memorabilità' del testo (e di nessun
altro testo a quel modo) entro la Commedia, porge un dato ‛stilistico' che
sembra omologo a quelli adoperati dai più alti attribuzionisti figurativi,
come il Longhi. Quanto alla ‛certezza', pare conforme alla condizione
storica della filologia letteraria che essa sia ancora, e forse per sempre,
scaricata sulle fasi precedenti. L'attribuzionismo figurativo si fonda sulla
‛qualità', e ciò torna a verificarsi nell'attribuzionismo letterario. Sia il caso
del laudario Urbinate, nel quale, fra i componimenti tutti adespoti, ne sono
ospitati di iacoponici, in lezione che travalica i piani bassi dell'albero,
peraltro con dilatazioni e interpolazioni pregevolissime, benché inferiori al
livello di Iacopone. La presenza di un'alta qualità in alcuni unica e
quasi unica dell'Urbinate fa legittimamente nascere il sospetto euristico che
ci si trovi innanzi a Iacopone inedito, da sceverare meglio che si possa dalla
secondaria mano (o mani?) manipolatrice. Se il problema è quello stesso
che si pone sulle pareti dell'altra grande macchina francescana, il santuario
di Assisi, questa sovrana esperienza storico-artistica, ancor più che da
metafora (splendida metafora), servirà da leva mentale.
Critica stilistica. - Fin qui l'esegesi mira al testo come a suo punto d'arrivo. Se
essa, per così dire, si ribalta sul testo, questo diviene il punto di partenza di
un'esegesi, se non postuma e aliena, certo meno vicina alla letteralità del
testo, perciò esorbitante dall'ambito della filologia. Esistono tuttavia due
tipi di ricerca che presuppongono in progressiva vicinanza la lettera, la
assumono come dato immutabile e in nessun modo varrebbero a
modificarla. Se non di pertinenza della filologia, essi appartengono al
territorio immediatamente limitrofo. Il primo tipo di queste ricerche di
frontiera si denomina col suo fondatore, L. Spitzer, ‟cantica stilistica"
(Stilkritik), l'altro, egualmente col suo fondatore, R. Jakobson, ‟grammatica
della poesia" (grammar of poetry). Entrambi operano su prelievi della lettera
adottati come campioni fuori d'ogni criterio a priori, e non agiscono con
categorie a prioriné empiricamente riadottabili (come quelle della
descrizione linguistica) a priori.
La critica stilistica, quale si configura, per semplificarne l'esame, nel solo
suo fondatore, e più esattamente nella sede della sua fondazione, il volume
di Stilkritik dedicato alla lingua degli autori, Stilsprachen (1928), forma il
proprio campionario su elementi linguistici dell'autore studiato (‟Individuum
NON est ineffabile" è il motto di uno dei saggi, ma varrebbe per tutti)
differenziali rispetto alla media circostante, li interpreta, e confronta
l'interpretazione con quella che si ricava dalla globalità dell'autore con
strumenti psicologici: questo rapporto circolare (immagine la cui dichiarata
etimologia è nello Zirkel o circolo vitale dello Schleiermacher) collega il
microcosmo col macrocosmo, più che per riprova o conferma, tanto meno
per correzione, per illuminazione reciproca e integrazione. La stesa testuale
si screzia dunque in fatto di porzioni più e meno significative, punti
‛pertinenti' o ‛rilevanti' (come poi dirà la fonologia) in un insieme i cui
passaggi possono anche essere neutri, in corrispondenza al livello
d'attenzione che al testo porta non solo il lettore (che almeno inizialmente
deve accontentarsi, in fatto e in diritto, d'una comprensione discontinua e
approssimativa) ma lo stesso autore. Il metodo in questa formulazione si
applica alle individualità esaltate del postromantico mondo
contemporaneo, o più largamente alle innovazioni stilistiche, dunque anche
collettive (come nel saggio spitzeriano, considerevolmente anteriore
alla Stilkritik, sugli acquisti sintattici del simbolismo); la sua evoluzione
(almeno nelle più sicure estensioni dell'operatore, come nel saggio sul
classicismo di Racine) sarà verso una differenzialità inerente al testo stesso,
in rapporto a una poetica dell'assoluto. Le modalità della Stilkritiksono
dunque funzione della poetica.
Grammatica della poesia. - La grammatica della poesia non conosce parti
neutre del testo, ma si comporta come se tutto vi fosse significativo (in
francese pertinent, in tedesco relevant), cosa che tanto più si nota in quanto la
dottrina è stata elaborata esattamente nell'ambito strutturalistico che ha
genialmente introdotto la categoria di pertinenza. I componimenti oggetto
delle analisi del Jakobson sono delle unità poematiche concluse, e quindi
tende a farsi ozioso il quesito sui moventi della scelta (per quanto la serie di
saggi verta su autori delle più varie lingue, così da suscitare involontarie
ipotesi di rappresentatività degli autori per le lingue, e specialmente dei testi
per gli autori, negli incerti limiti però in cui sussiste il principio di
individualità poetica). Le unità poematiche contengono proprietà del
significante (non importa a che livello di coscienza) che vengono esplicitate
e concorrono a un'interpretazione complessiva sul piano del significato: si
può congetturare che la percettibilità di tale interpretazione (quasi
‛ispirazione' del critico) costituisca il criterio psicologico della scelta. Si
possono riconoscere modalità ricorrenti di applicazione di un questionario
più generale, in rapporto precisamente alla chiusura del testo, senza che ciò
si trasformi in costituzione di categorie a priori: si studia fondamentalmente
la distribuzione delle partes orationis (e loro funzioni), e in via subordinata
dei registri fonematici, nei segmenti ritmici e sintattici, limitati da rime e
pause, comparando i risultati diversi che si ottengono in distinte aree
testuali come possono essere l'anteriore e la posteriore, le alterne (dispari e
pari), le periferiche e le centrali. La realtà dei fatti così reperiti sarebbe tutta
ugualmente reale: qui sorge la principale riserva sul metodo, che sembra
restare aperto a una riforma la quale estenda a questa sede l'agnizione
di traits pertinents. L'applicazione del metodo a specifici testi letterari sembra
acquisita col saggio del Jakobson, in collaborazione col Lévi-Strauss (in
‟L'homme" del 1962), su Les chats di Baudelaire, pagine ormai celebri che
possono costituire un opportuno riferimento anche per rilievi contenenti
implicazioni generali, e che appunto hanno il solo torto di non ammettere
gradualità nella certezza dei risultati, quasi fossero o da accettare o da
respingere in blocco. Che gli chats siano da identificarsi nella muliebrità,
risulta con sufficiente sicurezza per tralasciare il qui taciuto, certo come
troppo plebeo, argomento che chat suscita dall'inconscio di ogni parlante
del francese un'allusione gergale di femminilità) da un argomento
filologico, il fatto, rilevato dagli esegeti, che il binomio puissants et doux, di
origine sainte-beuviana, qui riferito ai gatti, in una poesia di A. Brizeux era
detto delle donne: più che arte allusiva nel senso intenzionale del Pasquali,
subliminale riflesso condizionato. Ma che l'eros sia androgino, la prova del
Jakobson, che cioè, di contro alle rime cosiddette femminili (ossia
parossitone, in fatto terminanti per consonante) riferite a nomi
indifferentemente femminili o maschili, le maschili (ossia ossitone, in fatto
terminanti per vocale) si riferiscano tutte a nomi femminili, è valida solo in
quanto si assuma un armonica sessuale inerente al genere grammaticale.
L'osservazione del Jakobson è peraltro un fatto che le proporzioni
suggeriscono di considerare non aleatorio (questa categoria statistica è
estranea alla grammatica della poesia). Il fatto può invece essere
razionalizzato se inquadrato in uno studio delle rime, le quali sono tutte
meno una ricche, fatto che, forse per essere banale, d'un'abbondanza
medievale, in Baudelaire, non è mai menzionato dal Jakobson. Le rime
sono insomma ‛in -tères, -aison, -té, -nèbres, -itudes (e non in -ères, -on ecc.);
segue una rima ricca ma anche equivoca, monosillabica (fin), che è
precisamente l'ultima delle citate rime maschili, e che compensa
immediatamente a ritroso (SAns fin: SAble fin) la relativa povertà della rima
(compagna solo a -té, come ha a altro effetto, ma in contesto meno
persuasivo, il Jakobson); viene infine la sola rima non ricca, benché
adeguatamente compensata a ritroso (étincELLES Magiques: prunELLES
Mystiques), che è proprio la più esposta in quanto finale. Come non
razionalizzare questa ‛eccezione', che dalle proporzioni è segnalata come
ancor meno aleatoria; e come non razionalizzarla topicamente; quale
segnale del culminante allontanamento nello spazio e nel tempo che si
chiude e inverte (aiutando l'etimo di mystikós, certo presente al buon
umanista Baudelaire) in lontananza interiore? Ciò consuona alle
dimostrazioni magistrali del Jakobson sulla gradazione dalla ‟maison" dei
gatti alla ‟non-maison" delle sfingi e alla vaga molteplicità che fa dei gatti ‟la
maison de la non-maison"; dal reale all'irreale e al surreale; dalla
‟précision" all'‟imprécision". Solo che l'ambiguità ritrovata nel testo merita
di essere discussa analiticamente per determinare quanto essa sia
conciliabile con le necessità semantiche della lettera: posto il francescano
‟‛Laudato si', mi' Signore", il ‛per' successivo potrà ben avere o valore
causale o valore d'agente o valore strumentale, ma uno solo per volta, non
essere ambiguo fra più, come pure ha pensato qualcuno; sono funzioni
alternative, non coesistenti. Il verso ‟Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles
magiques" (di cui il Jakobson scrive: ‟On est tenté de croire qu'il s'agit de la force
procréatrice, mais l'oeuvre de Baudelaire accuellie volontiers les solutions ambiguës.
S'agit-il d'une puissance propre aux reins, ou d'étincelles électriques dans le poil de
l'animal?", v. Jakobson, 1973, p. 413) non contiene nulla che non sia
compatibile con le norme della lettera: reins 'lombi' ha una latitudine
metonimica abbastanza elastica da indicare la corporeità in genere (con cui
le scintille) e la specificazione sessuale (con cui la fecondità); si può
parafrasare ‟i loro corpi - quei loro corpi così fecondi - sono pieni ecc.,
questo allargamento già simbolistico concomita con la descritta dilatazione
finale. Semplice esitazione, non già supposta ambiguità, si ha per
l'apposizione ‟orgueil de la maison": ‟Faut-il entendre que les chats, fiers de leur
domicile, sont l'incarnation de cet orgueil, ou bien est-ce la maison, orgueilleuse de ses
habitants félins, qui [...] tient à les domestiquer?" (ibid., p. 411); la soluzione
‛vanto della casa' parrebbe difficilmente contestabile. Mal sostenibile è
invece l'ipotesi di ambiguità (‟La signification de ce passage [...] reste à dessein
ambiguë") per il passo ‟L'Érèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres, S'ils
pouvaient au servage incliner leur fierté"(ibid., p. 410): pris ‛scambiati' e pris
‛adottati' si escludono infatti reciprocamente. Qui un altro capitolo
filologico, la critica delle varianti, interviene, sulla base della lezione delle
prime stampe (‟pour DES coursiers"), ad arbitrare la controversia nel senso
di ‛scambiati' (a meno che l'autore, che si sa non sempre felice
nell'emendarsi, abbia corretto, ma per accidente servendosi di una forma
equivoca, un certo ‛scambiati' in un intenzionale ‛adottati', congettura
peraltro poco economica). Anche questo episodio istituisce un'ulteriore
collaborazione della filologia con un capitolo tanto suggestivo dello
strutturalismo, un cui prolungamento può leggersi in N. Ruwet.

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